A Pino, mio papà, col quale ho visto i film, a

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A Pino, mio papà, col quale ho visto i film, a
A Pino, mio papà, col quale ho visto
i film, a Daniela, mia mamma,
con la quale ho visto i musei.
Rossella Farinotti
Il quadro che
visse due volte
Come l’arte influenza il cinema
Copyright © Bold di Morellini 2014
via Farini, 38 - Milano
www.morellinieditore.it
Indice
ISBN: 978-88-6298-325-9
Data di pubblicazione: ottobre 2013
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Si ringraziano gli autori dei quadri per le autorizzazioni di riproduzione concesse. Per i detentori dei diritti che non è stato possibile rintracciare l’Editore
resta a disposizione.
Introduzioni
1. Marco Meneguzzo… …………………………………………………… pag. 7
2. Giancarlo Zappoli… …………………………………………………… » 9
Il cinema e l'arte… …………………………………………………………………… » 11
1. Luchino Visconti… ………………………………………………………… » 15
2. Stanley Kubrick… …………………………………………………………… » 18
3. Antica Roma… ………………………………………………………………… » 23
4. Edward Hopper… …………………………………………………………… » 27
5. Frederic Remington… …………………………………………………… » 33
6. Dreyer e l'espressionismo tedesco… ……………………… » 37
7. I Miserabili. Il melodramma cantato
dai tocchi pittorici… ……………………………………………………… » 42
8. Luis Buñuel.
L’angelo sterminatore fra arte e cinema ………………… » 46
9. Batman il Cavaliere Oscuro.
Il Ritorno e l'estetica del sublime…………………………… » 50
10. Frankenweenie di Tim Burton.
Altre ispirazioni ……………………………………………………………… » 55
11. Bond, i suoi usi e costumi che cambiano… ………… » 58
12. Bond/Skyfall.
Ancora qualcosa da dire: l'arte tra musica
e grafica nelle sigle… ……………………………………………………… » 65
5
Indice
13. Kim Ki Duk, maestro di cultura “occidentale” … pag. 69
14. Un altro grande autore: David Lynch
e la pittura regionalista………………………………………………… » 72
15. Da Ang Lee a Paola Pivi.
Vita di Pi……………………………………………………………………………… » 77
16. Un luogo: il Ghetto di Varsavia tra il cinema …
e l’arte contemporanea ………………………………………………… » 81
17. Il cinema e il tattoo. Educazione Siberiana
e del tatuaggio… ……………………………………………………………… » 86
18. Il Quijote di Mimmo Paladino.
Il film di uno dei più grandi artisti italiani………… » 89
19. Un passo indietro.
Mario Schifano e il cinema underground… ……… » 95
20. Due passi indietro.
Ancora cinema underground con Andy Warhol »100
21. La follia tra arte e cinema…………………………………………… » 103
22. Goya e Van Gogh… ……………………………………………………… » 106
23. Michelangelo… ………………………………………………………………… » 110
24. Schnabel racconta Basquiat… …………………………………… » 114
25. Frida… …………………………………………………………………………………… » 119
26. Bruegel.
Il cinema traduce l'arte nobile… ……………………………… » 124
27. Picasso e il cinema… ……………………………………………………… » 129
28. Ancora un passo indietro.
I due Renoir, padre e figlio:
dal cinema alla pittura… ……………………………………………… » 134
29. Un artista raccontato dal cinema:
Ai Weiwei e i diritti umani.
La Cina si apre… ……………………………………………………………… » 137
Filmografia… ……………………………………………………………………………… » 141
6
Introduzione 1
I rapporti tra arte e cinema sono talmente complessi, ramificati e numerosi che la prima tentazione sarebbe quella
di non occuparsene affatto, vista la mole di argomenti che
comprenderebbe da un lato la storia dell’arte, dall’altro la
storia del cinema, e in mezzo la storia della società; la seconda tentazione sarebbe quella di armarsi di pazienza – e
di presunzione – e cercare illuministicamente di costruire
un’enciclopedia, o almeno un catalogo, di tutto questo scibile … ma la terza opzione, quella che Rossella Farinotti
ha scelto, è quella di procedere per flash, per brevi intuizioni, per collegamenti che hanno il sapore, e le modalità,
dell’ipertesto, di un vagare orizzontale attraverso i fatti e le
idee.
Di più, sono i “suoi” film, i “suoi” artisti, quelli che ama,
in un modo anch’esso randomizzato. Peccato mortale, in altre epoche. Nella nostra, e con questa leggerezza strutturale
che regge l’impalcatura del suo libretto, no: anzi, si aggiunge
all’intuizione il diario, quasi a smentire ancor di più la possibilità o la volontà di essere onnicomprensivi, di esaurire la
questione. Al contrario, queste pagine di Rossella è come
se ti dicessero che la questione del rapporto tra le discipline
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Il quadro che visse due volte
espressive si pone sempre, anche se non lo vuoi o non lo sai,
ogni qualvolta si vede un film, o si guarda un’opera d’arte. In
tutte e in tutti c’è un quoziente di contaminazione che si va
facendo sempre più importante, così che quando vediamo o
ricordiamo film dichiaratamente sull’arte o sugli artisti (alcuni dei quali oggetto dei pensieri di Rossella), ci viene da
sorridere con un pizzico di nostalgia.
Marco Meneguzzo
Introduzione 2
P.s.: il titolo è uno dei migliori degli ultimi anni.
Non è facile per nessuno essere ‘figlio d’arte’. Per Rossella Farinotti il compito deve essere stato ancor più difficile.
Con un padre scrittore, critico cinematografico addirittura
attore (e mi fermo qui ma l’elenco potrebbe proseguire) affrancarsi e dimostrare quanto si vale in proprio è una bella
impresa. Ma Rossella ci è riuscita in pieno e questo libro
(se mai ci fosse stato bisogno di una controprova) ne è la
testimonianza. C’è un paragrafo, dedicato a Goya e Saura,
che la fotografa nel titolo: “Passione”. La sua scrittura rivela
immediatamente la passione che Rossella nutre per l’arte.
Quando si dice ‘artÈ non ci si limita, nel suo caso, alla Settima Arte. Rossella non si è chiusa in una sala cinematografica acquisendo il pallore d’ordinanza della cinefila che si fa
raccontare la vita dal grande schermo. Ha invece costruito
se stessa guardandosi intorno a 360 gradi e sapendo cogliere
il valore del bello in tutte le forme d’arte, classiche o contemporanee che siano. Perché a volte la sola passione può
bruciare ed estinguersi rapidamente come la luce data da
un fiammifero. È indispensabile associarla alla competenza
e chi leggerà questo libro avrà modo di comprendere come
questa dote innervi tutte le pagine. I riferimenti e i riman8
9
Il quadro che visse due volte
di tra l’espressione cinematografica e quella grafico/pittorica sono precisi e puntuali ma mai, questo è il loro grande
pregio, didascalici. Non siamo di fronte a un manuale da
consultare quasi fosse un indice delle opere ampliato. Siamo
dinanzi a una narrazione che ci immerge nella Storia e nelle
storie. Rossella esce dallo schermo e ci prende per mano
(come l’attore del film in La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen) per farci entrare ‘dentro’ ai quadri e ai film. Ci
sentiamo allora come il Van Gogh interpretato da Scorsese in Sogni di Akira Kurosawa in cui i quadri del Maestro
prendono una nuova vita. Vivono, appunto, due volte. Questo effetto speciale avviene grazie a una scrittura brillante
che sa come stimolare la curiosità del lettore. Stephen King
in “On Writing: Autobiografia di un mestiere”, libro in cui
descrive le sue tecniche di scrittura, afferma che all’inizio di
una narrazione può essere la coda che fa muovere il cane ma
poi deve essere il cane che muove la coda. Traduzione: in
un testo un’idea da sola, per quanto accattivante, non basta.
Occorre la sostanza. In questo libro ci sono idee e sostanza
in ogni pagina.
Giancarlo Zappoli
10
Il cinema e l'arte
Quando nel 1906/7 Picasso compone le sue “Demoiselles
de Avignon”, di fatto spezza qualcosa e porta la pittura sulla
strada di un’evoluzione e di ricerca che decreta un cambiamento nel modo di pensare l’arte. A oltre un secolo da quello snodo, e dall’insieme delle rivoluzioni delle Avanguardie
artistiche (basti pensare ai Futuristi, a un Kandinsky, a un
Duchamp, o agli Impressionisti prima ancora) gli artisti
hanno dovuto adeguarsi, ricercare e investire, con risultati
diversi, con opere più o meno importanti, congrue, oppure semplicemente incomprensibili. Seguirono polemiche a
non finire, e continuano. Con un comune denominatore:
alla comprensione del grande pubblico occorreva la mediazione di un critico. Certo, ci sono artisti che fanno il figurativo, paesaggisti, ritrattisti, e ci saranno sempre, ma con
altre chiavi. Ma l’arte contemporanea, quella dello sviluppo,
dei musei, delle gallerie e dei mercanti, è molto lontana dal
figurativo, dal reale. Lo dico in chiave ancora più semplice:
dalla fotografia. Non è improprio dire che il “testimone figurativo”, all’inizio del Novecento è passato dalla pittura al
cinema. Titolari della rappresentazione del reale sono dunque i film. Da quel momento la forbice è andata allargan11
Il quadro che visse due volte
Il cinema e l’arte
dosi, la distanza si è dilatata. Mentre un Carné negli anni
Trenta “dipingeva” il suo realismo cosiddetto poetico (un
Gabin nella nebbia del porto di Brest), un altro francese,
Georges Braque, superata la fase cubista di Picasso, sperimentava collage, nature morte, il mare e il volo degli uccelli
letti come simboli nuovi e complessi. Il tutto lontanissimo
dal figurativo. E così mentre De Sica otteneva un fotogramma perfetto fra documento e finzione in Ladri di Biciclette,
Lucio Fontana spaccava gli ambienti con tagli di luce bianca
e nera, innaturali, impossibili. Anche qui, davvero lontano
il figurativo. Questi esempi essenziali per determinare la distanza fra le due discipline: ricerca e simbolismo dell’arte
definivano, confermavano il cinema come titolare del figurativo.
mola “ispirazione”. In 2001 odissea nello spazio, Kubrick
ha certamente studiato Mondrian. Ancora Kubrick devasta
Gainsborough, Zoffany e Stubbs, in Barry Lyndon. Ejzenstejn aveva ben presenti Golovin e Schwarz in Ivan il terribile. Dreyer spiegò come certe sequenze di Dies Irae fossero
ispirate a Rembrandt.
Ci sono dei fotogrammi in Sentieri selvaggi di Ford, che
sembrano pitture di Remington. Hopper è un eroe dell’ispirazione, fra i molti film Psycho, La stangata e Manhattan.
Antonioni studiò Rosenquist per Zabriskie Point. Il Nosferatu di Herzog è una derivazione di Friedrich. Senza contare i vari titoli dell’espressionismo. Poi c’è il solito Urlo di
Munch, usato dovunque, anche nell’animazione. Ho citato
doppi maestri, ma siamo ancora alla punta dell’iceberg.
Classica
Naturalmente l’arte figurativa, quella grande, quella classica, quella della “sindrome di Stendhal”, non poteva essere
ignorata dal cinema. Così come il cinema non ha potuto
ignorare i grandi romanzi. La pittura è dunque una miniera
dalla profondità infinita. Per molti aspetti. Per cominciare le vite. I pittori erano spesso artisti estremi, con tutte,
proprio tutte le coccarde della pazzia artistica. Una manna
per gli sceneggiatori. Qualche nome e attitudine esemplari:
Caravaggio il maledetto, la vita disperata di Van Gogh, il
tormento di Michelangelo, il furore mistico di Goya, la predestinazione mortale di Modigliani, il machismo e la vitalità travolgente di Picasso, l’energia oltre gli ostacoli di Frida
Kahlo. Tutti film realizzati. Con molti altri.
Rossella Farinotti
Opere
Le vite sono un segmento. Poi ci sono le opere. Per cominciare valgono quelle degli artisti appena scritti. Chiamia12
13
1.
Luchino Visconti
E adesso il fuoco su un maestro tralasciato sopra, Luchino
Visconti. Nel 1954 il regista milanese firmò Senso, un vero
colossal. Venne venduto come il Via col vento italiano. Era
una storia risorgimentale: la contessa Serpieri (Alida Valli),
moglie di un aristocratico filoaustriaco, parteggia segretamente per i patrioti italiani. Si innamora di un giovane ufficiale, Franz Mahler (Farley Granger). Letteralmente perde
la testa per lui. Alla fine tradisce tutti, compreso l’amante
che verrà fucilato. Grande spettacolo, grandi colori e strepitoso melo. Visconti chiamò due scrittori del mondo, Paul
Bowles e Tennesse Williams, che per aderire a quello che
ritenevano uno spirito romantico da romanzo d’appendice,
esagerarono e tradirono (anche loro) la propria attitudine
compromettendo il lavoro della nostra sceneggiatrice Suso
Cecchi D’Amico. Melodramma eccessivo che bene si traduceva nel bacio fra i due amanti. Un bacio famoso. Visconti era un grande esperto di arte. Molte scene del film si
ispirano, per le istantanee militari e per le battaglie, a dipinti
di Fattori e Signorini. Ma a comandare è Francesco Hayez,
il grande ritrattista dell’Ottocento – famoso, fra i molti, un
ritratto di Alessandro Manzoni. Certo il pittore nato a Ve15
Il quadro che visse due volte
nezia e vissuto a Milano, non è noto solo per i ritratti. Nel
1859 compose un dipinto che sarebbe diventato un modello
perfetto, un unicum, il famoso bacio. E il bacio fra AlidaSerpieri e Farley-Mahler ripercorre, con classe viscontea,
quell’opera. E certo, funziona.
Baroni
Giuseppe Sciuti, siciliano, figlio di Salvatore, farmacista,
e di Caterina dei baroni Costa di Acireale, divenne pittore quando i beni di famiglia furono distrutti dall’eruzione
dell’Etna del 1852.
Nel tempo si accreditò come un vero maestro. I suoi quadri fanno sistematicamente parte della sezione Ottocento di
tutti i musei importanti. Amava le grandi rappresentazioni,
le vicende storiche e le battaglie decisive. E tutto ciò che era
connesso alla storia, per esempio le prigioni. E così nel 1870
dipinse “I prigionieri di Castelnuovo dopo la capitolazione
del 1799”. È molto probabile che un altro artista delle Due
Sicilie, Mario Martone, abbia tenuto presente quel dipinto
per un certo ambiente che gli serviva per il suo “risorgimentale” Noi credevamo.
Due storie di indipendenza nazionale dunque, un’analogia fra un eroe del cinema italiano dell’epoca dell’oro e uno
degli autori più dotati di questa epoca. Con un dato comune interessante, sono entrambi registi teatrali. Dunque
con una naturale, dovuta attenzione al “figurativo”, magari
rispetto alle scenografie: quelle di teatro sono certo vicine
alla pittura.
Ho già avuto modo di scrivere della grande qualità di
Noi credevamo, davvero anomala per la media italiana. Tre
giovani del Sud si ribellano alla repressione borbonica del
1828 e si affiliano alla Giovane Italia di Mazzini. La sequenza della prigione è davvero congeniale a Martone. Pre16
1. Luchino Visconti
coce profeta dell’avanguardia negli anni Ottanta è certo uno
specialista del Kammerspiel, degli interni, magari ombrosi,
come una prigione, appunto. E Giuseppe Sciuti, in quel
lontano 1870, sembrava saperlo.
L’opera di Hayez a confronto con una scena del film di Visconti.
17
2. Stanley Kubrick
2.
Stanley Kubrick
Nei capitoli più avanti i soggetti saranno gli artisti e le loro
opere. Una chiave per raccontare il rapporto fra il cinema e
la pittura. Chiave semplice e diretta, anche facile e felice,
se disponi delle opere di Van Gogh, Goya e Michelangelo.
Il racconto per immagini (un modo per dire “il film” naturalmente) procede in velocità, intensità ed estetica superiore. Poi c’è un altro rapporto, la citazione e l’ispirazione,
come in Visconti, ad esempio.
Il regista compone il proprio quadro riferendosi a un
maestro della pittura, o dell’arte. Allora il cinema mette
in campo le proprie facoltà, la luminosità, il movimento,
i modelli all’interno del contesto pittorico, la musica che
affianca o sostiene la sequenza-estetica. Allora di un’altra
formula trattasi, rispetto alla primaria di mera “registrazione” dell’opera.
Occorre naturalmente che l’autore di cinema sappia affrontare quell’arte e quell’estetica e non ne venga condizionato o superato, o seppellito, ma sappia usare il “mezzo”
in modo funzionale al progetto cinematografico, che dia
la sensazione di saper governare un motore e una potenza
sempre prevalenti rispetto alla disciplina di cui è padrone.
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L’arte – quella vera – arriva prima, è sempre arrivata prima, si è consolidata, ha creato dei precedenti inamovibili, il
cinema può solo rappresentarla girandole intorno, accettando il padrone e accettando di servire quel padrone.
Thomas Gainsborough, Mr and Mrs William Hallett (The Morning
Walk), 1785, olio su tela, 236×179 cm, London, National Gallery.
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Il quadro che visse due volte
Colto
Stanley Kubrick, maestro massimo, talento colto, capillare,
maniacale, non poteva che avere un grande rapporto con
l’arte. Era appassionato, conoscitore e collezionista. È stato
anche fotografo, ai suoi inizi. E naturalmente sapeva interpretare e adattare.
Plasmava l’arte secondo le necessità estetiche e anche
drammaturgiche del racconto e della rappresentazione. E si
avvicinava a quella disciplina-guida con rispetto, con onestà
e con modestia. Nei suoi anni attivi, dai Settanta alla fine
dei Novanta, Kubrick non ha mai perso di vista l’arte contemporanea. Dalla Minimal art americana, dalla quale ha
assunto un elemento chiave, il monolite, il rettangolo come
forma modulare che si ripete in spazi aperti e chiusi.
Il monolite apre 2001 Odissea nello spazio. Siamo nel
primordio, le scimmie interagiscono fra loro, si trovano di
fronte il monolite, un elemento estraneo, univoco, incomprensibile, invincibile, umano. Non lo capiscono e comincia
la pazzia e la violenza.
I nomi che si riferiscono a quel codice sono Robert Morris con le sue installazioni, Carl Andre con alcune delle sue
pavimentazioni, e i blocchi puntati al cielo di Donald Judd.
In quel film ci sono anche segnali di Optical art, un ramo
che si sviluppa dalla Pop art di Warhol, che ha profonde radici nel Bauhaus: autori come il russo Vasarely, l’americano
Kenneth Noland, e l’italiano Bruno Munari. E altri. Artisti
coi quali il regista aveva familiarità.
Pop
Così come conosceva bene la Pop art. Arancia Meccanica
è un richiamo molto articolato, nell’arte e nel design, alle
correnti del momento.
20
2. Stanley Kubrick
Una scena da Barry Lyndon di Stanley Kubrick (1975).
Ad esempio la scultura fallica con la quale il protagonista,
Alex, sevizia la donna, deriva esplicitamente da un’opera di
Brancusi; le donne del Milk Bar hanno una forte impronta pop, dalle sculture bianche di George Segal alle donnetavolo di Allen Jones.
Il regista è molto attento ai riferimenti culturali: la casa
dove avviene la sevizia è di una coppia di ricchi che collezionano arte: alle pareti infatti si vedono ad esempio opere di
Tom Wesselman: l’opera è intitolata “Great american nude
n° 8”, 1961, e anche “n° 98”, 1967, altro autore della pop art
americana, e ancora la scultura “brancusiana”, che Kubrick
commissionò a una scultrice americana, Liz Jones.
Settecento
L’attitudine del regista non si limita all’arte contemporanea.
In Barry Lindon, come sempre Kubrick agisce a modo suo,
fa sul serio, studia l’arte del settecento in profondità. La pittura inglese di quella stagione è molto importante, capace
21
Il quadro che visse due volte
di rappresentare il reale con momenti di “espressione” che
vanno ben oltre.
I nomi rappresentativi sono quelli di Gainsborough
(1727-1788), Zoffany (1733-1810) e Stubbs (1724-1806),
e soprattutto quello di William Hogarth (1697-1764), che
non si limitava ad essere un “fotografo”, ma cercava di cogliere nelle posture e nelle espressioni, appunto, il significato delle vicende alle quali assisteva.
Amava il teatro e certi suoi quadri richiamano quasi il
movimento e i volti esprimono drammaticità, oppure ilarità. Un artista anche da satira. Molto amato, già allora, da
tutte le fasce. E... da Kubrick.
Una delle opere più importanti di Hogarth è “Matrimonio alla moda”, del 1743. Il regista non si preoccupa certamente di nascondere l’ispirazione. Il servizio che con questo
autore il cinema rende all’arte, sorella maggiore, è importante e benemerito. Le due discipline convivono magnificamente. Certo non è semplice, ci vuole Kubrick.
3.
Antica Roma
C’era un tempo in cui la Roma antica era molto importante,
parlo di cinema naturalmente.
La prima edizione di Ben Hur di Fred Niblo, è del ’26.
Il cinema ancora non parlava. Nel ‘59 ecco la versione di
Wyler, con Charlton Heston, primatista di Oscar, insieme
al Titanic, undici, decisamente meritati.
I costumi dell’antica Roma davano ai registi e ai costumisti possibilità infinite.
Scena dal film Demetrio e i gladiatori (Demetrius and the Gladiators) di Delmer Daves (1955).
22
23
Il quadro che visse due volte
3. Antica Roma
Per Ben Hur la produzione poteva valersi del romanzo
di Lew Wallace, autore diligente e ricercatore preciso, con
descrizioni accurate e certo preziose per i film.
Tuttavia la scrittura non sono le immagini, e, soprattutto
le immagini di allora, si parla di venti secoli fa, sono davvero
lontane e ... sfumate.
Il look romano, trasmessoci dai dipinti dell’epoca, non è
sfarzoso e colorato come quello del cinema, è più che sicuro. E poi, sappiamo, il cinema possiede tutte le franchigie,
anche quella di vestire un romano dei tempi dell’impero con
abiti e manifatture impossibili per i mezzi di allora.
Robert Taylor, che fa Marco Vinicio, console di Nerone,
in Quo vadis?, nella parata del trionfo indossa un’armatura
pettorale d’oro, con bassorilievi e fregi che ... neppure Dolce
e Gabbana oggi realizzerebbero. Ribadisco, è il cinema.
Pittura
Poi c’è la pittura, quella grande. Ed ecco che, ancora una
volta, a soccorrere il cinema arriva l’arte figurativa. I titoli
che hanno fatto la storia di Roma e quella del genere sono i
già citati Ben Hur e Quo Vadis, e poi La tunica, il suo sequel
I gladiatori, e poi Spartacus.
Erano gli anni cinquanta e i primi sessanta. Una citazione la merita anche La caduta dell’impero romano, del 1964.
Nell’era moderna è quasi superfluo citare un titolo fin troppo popolare, Il gladiatore di Ridley Scott. Armature, cavalli
bardati e bighe, popolo nelle piazze, monumenti, l’arena,
eserciti schierati. Se il budget era all’altezza, l’antico apparato ne guadagnava esponenzialmente e lo spettacolo era alto.
Non è un caso che quando la Fox volle rivoluzionare il cinema, inventando nel 1953 il Cinemascope, per valorizzare
col grandissimo spettacolo il vasto spazio orizzontale, scelse
proprio l’opzione “Roma antica”, e produsse La tunica.
24
Jean-Léon Gérôme, Pollice verso, 1872, olio su tela, 97,5×146,7 cm,
Phoenix (AZ), Musée d’art.
Il film, diretto da Henry Koster ebbe la nomination
all’Oscar. E comunque davvero il cinema cambiò, riacciuffando e riportando nelle sale – almeno in parte – un pubblico che era stato sottratto dalla televisione.
Estetica
Ogni genere, ogni estetica del cinema ha il suo riferimento
figurativo e naturalmente ce l’ha ogni personalità e ogni attitudine. Minnelli, ha assunto il multicolore dolente di Van
Gogh, Kubrick le forme dell’arte contemporanea di Mondrian e Brancusi. Peplum-Roma antica ha un ispiratore,
potente: Jean-Léon Gérôme. L’artista (1824-1904) fa parte
della più bella tradizione francese dei grandi figurativi, pri25
Il quadro che visse due volte
ma dell’avvento degli impressionisti. Era la scuola appena
successiva a un Delacroix (1798-1863), quello dell’incoronazione di Napoleone, della quale faceva parte Delaroche
(1797-1856), maestro di Gérôme. Tutti titolari di una impeccabile base accademica, con in più la capacità di leggere
e poi raffigurare, e ottimizzare, diciamo così, al di là della
rappresentazione “fotografica”, i soggetti. Il pittore aveva
una grande passione per i popoli e per la storia, soprattutto
per la classicità. La sua corrente ha una sotto-definizione,
chiamiamola così: neogreca. Ma era interessato a tutte le
culture. Fra i suoi quadri più importanti, soggetti che pregano nel deserto, o nella moschea, siano dunque nell’Islam,
e poi un Napoleone davanti alla sfinge. E poi l’India, e la
Grecia. Infine, appunto, Roma. Per i costumi dei senatori il
cinema deve molto a Gérôme. Una delle opere fondamentali è l’assassinio di Cesare nel foro romano. I cospiratori,
tutti nella tradizionale divisa bianca, alzano, trionfanti, i
pugnali.
Questa istantanea è stata rivisitata, con molta attenzione,
da Mankiewicz per il suo shakespeariano Giulio Cesare, con
Brando nella parte di Antonio. Ma anche Scott, nel non
ha perso di vista quel quadro, rappresentando l’imperatore
Commodo che visita il senato. E poi Il gladiatore nell’arena:
è impressionante, in chiave di ispirazione. Il gladiatore, del
1955, di Delmer Daves, rititolato Demetrio e i gladiatori per
separarlo dal film di Scott, deve moltissimo a Gérôme. Non
è davvero facile distinguere il dipinto dal fotogramma.
Ancora una volta, un grande risultato, letterale, di arte
applicata.
26
4.
Edward Hopper
Un bar col suo lungo bancone. Tutto in penombra. Una
donna occupa il lato in fondo, non ha espressione, comunque non è felice. Guarda Burt Lancaster seduto su uno degli
sgabelli davanti al banco. Anche il barman tiene d’occhio
l’uomo dal bicchiere ancora vuoto. Sta per riempirglielo ma
esita, è pensoso, e preoccupato. Sa qualcosa che Lancaster
ignora. Sa che la sua ragazza il giorno prima ha sposato un
altro. È un’inquadratura del film Doppio gioco, di Robert
Siodmak, del 1948. Ed “è” un quadro di Edward Hopper.
Robert Mitchum guida una Ford, rallenta in vista di
un distributore. Ferma, scende dalla macchina dà le chiavi
all’addetto e si accende una sigaretta. È preoccupato, sa che
qualcuno lo sta cercando, e non è un amico. Il film è Le catene
della colpa (1947), di Jacques Tourneur, tratto da un romanzo
di Geoffrey Homes. Anche questo è un quadro di Hopper.
Alan Ladd attraversa una strada larga. Dietro di lui brilla l’insegna di un locale, la Blue Dalia. Ha una valigia in
mano, l’impermeabile e il cappello. È un reduce dal Pacifico, ha appena scoperto che la moglie lo tradisce. Il film
è La dalia azzurra (1946), di George Marshall, scritto da
Raymond Chandler. Un altro quadro di Hopper.
27
Il quadro che visse due volte
Scena dal film I gangsters (The Killers) di Robert Siodmak (1946).
Humphrey Bogart è davanti a un cottage, è notte. Sta
aspettando qualcuno, sa che la visita non sarà amichevole, anzi, pericolosa. Il film è Il mistero del falco (1941), di
John Huston, dal romanzo di Dashiell Hammett. Anche
lì: Hopper.
Due uomini entrano in un bar, del tutto simile al primo
che ho descritto. Sono lenti ma sicuri, sono killer. Nel locale scende una tensione tattile, poi la paura. Sono seduti
e stanno bevendo. Stanno aspettando Burt Lancaster, per
ucciderlo. Il film è I gangster (1946), di Robert Siodmak,
tratto da uno dei più noti racconti di Hemingway.
Realismo
Edward Hopper (1882-1967) è uno dei massimi artisti
americani. È il leader di quel realismo che sapeva leggere la
scena di quel Paese. Realismo non è riduttivo, non signifi28
4. Edward Hopper
Edward Hopper, Nighthawks, 1942, olio su tela, 84,1×152,4 cm; Chicago, The Art Institute of Chicago.
ca “statico”, o fotografico, nelle opere di Hopper è ricreata
un’atmosfera come ti viene trasmessa da qualcuno che sa
raccontare meglio di uno scrittore.
Paesaggio, oggetti, gente, narrati attraverso i significati
della vita e della cultura dell’America dell’arco, soprattutto,
fra gli anni Venti e Quaranta. Se in cinema si dice “tocco alla Wilder” oppure “tocco alla Fellini”, in pittura pochi
tocchi riconoscibile come quello di Hopper.
I suoi quadri sono inquadrature, istantanee colte in un
insieme dinamico. Qualcosa è successo e succederà. È l’inizio, o la fine di un racconto. Come se i soggetti li vedessi
arrivare in quei bar, fermarsi a quella stazione, o a quella pompa di benzina e poi alzarsi dal sedile o ripartire in
macchina verso qualcosa che comunque non sarà felice. È
probabilmente l’artista al quale il cinema ha più “rubato”. E
il bottino ha molto reso e prodotto.
29
Il quadro che visse due volte
Maestri
Tutti i nomi che ho fatto, cineasti e scrittori, tutti maestri
dalla qualità più alta, Hopper li conosceva bene. I gangsters,
il racconto di Hemingway, era il suo preferito. Le istantanee che ho descritto, sono omologhe, arte e cinema. Il
momento, l’estetica, la vita, erano quelli. Siamo negli anni
Quaranta, le due discipline erano contemporanee, si univano in una reciprocità temporale e naturale. Ma è più tardi
che Hopper si è radicato, quando c’era stato il tempo per
conoscerlo e studiarlo, e quando il cinema cominciava a soffrire di nostalgia per l’epoca di Hopper, magnifica, esclusiva. Una delle più felici, forse la più felice, nella storia del
cinema. E così il cinema ha cominciato a ricostruire Hopper. Le stazioni di servizio non erano quelle vere degli anni
Quaranta, venivano rifatte in studio. Se vogliamo c’era una
suggestione in più, perché i film nella ricostruzione sanno
essere suggestivi. Senza naturalmente abbandonare l’ispirazione del modello primario.
E così Hitchcock, nel suo Psycho (1960) quando dovette
collocare lo psicopatico Norman Bates, fatto da Anthony
Perkins, e la raccapricciante madre impagliata, chiese alla
United Artists che gli ricostruissero la “house” di Hopper.
Naturalmente venne accontentato, e l’inquietante edificio
divenne “attore” co-protagonista del film. E lo si può ancora
vedere, ancora in buone condizioni, lassù, sempre inquietante, in cima alla collinetta. Un’autentica “mostra di Hopper” è La stangata, di Roy Hill, del 1973, con ambientazione negli anni Trenta. È tutta un’ispirazione hopperiana, dai
muri coperti di manifesti, ai costumi, alle finestre d’angolo.
E poi quel quadro, “Nighthawks” (“Sparvieri della notte”),
una delle opere dell’arte americana, diventata arte del mondo, che fanno parte della memoria, anche di quella popolare. È quel bar d’angolo, al buio, con dentro il barman e tre
30
4. Edward Hopper
Scena dal film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni (1964).
avventizi. Davvero in molti hanno attinto a quell’atmosfera, a quei colori e a quell’angoscia. Robert Redford, nella
“Stangata” è proprio lì che siede. Anche il cinema d’animazione ha detto la sua, con una ricostruzione piena di ironia
in un episodio dei Simpson, in cui nel bar “di” Hopper c’è
seduto proprio Omer.
Nel 1954 Michelangelo Antonioni decise di applicare
segnali di estetica alla Hopper nel suo Grido. La stazione di
servizio, gestita dall’avvenente Dorian Gray, dove si ferma il
camion che dà un passaggio a Steve Cochran è una “pittura”
in bianco e nero dell’artista di New York. Le tre pompe non
erano ai bordi di una strada maestra del Kansas, ma di una
provinciale che affianca il Po nel suo tratto emiliano. Certo
il film ci guadagnava. Antonioni si rivolse ancora a Hopper
in Deserto Rosso e lo evocò anche in Zabriskie Point.
Ma è un tedesco, Wim Wenders, che ha quasi sublimato
l’arte di Hopper. Niente di meglio di uno straniero come
lui, colto generale – musica, arte e letteratura, storia – per
leggere l’America in un certo modo. E lo ha fatto natural31
Il quadro che visse due volte
mente facendo leva su Hopper, come in Paris Texas. Soprattutto in Non bussare alla mia porta, del 2005, dove ha
“ridipinto” proprio gli “Sparvieri della notte”. La devozione
di Wenders è tale che davvero non si riesce a distinguere la
differenza fra dipinto e fotogramma.
Una citazione merita un altro autore da culto, Jim Jarmusch. Uno scatto del suo Broken Flowers rappresenta Sharon Stone, con una vestaglia rosa, sulla porta di una casa
di legno, mentre inquadrata in una finestra, all’interno, si
intravede Alexis Dziena in costume da bagno. Trasferito il
fotogramma in una cornice appesa alla parte di una mostra,
firmato il quadro Edward Hopper, nessuno dubiterebbe
dell’autenticità. E poi le case di legno sull’oceano Atlantico,
con quei tetti alti e spioventi. La citazione, e la memoria
immediate sono quelle di Angela Lansbury, la signora in
giallo, che abita, appunto, una di quelle case nella sua Cabot
Cove. La sintesi finale è semplicissima. Location, atmosfere, scenografia, riconoscibilità, sortilegio: disponi di uno dei
più bravi al mondo, perfetto per l’integrazione. Ma perché
il cinema non dovrebbe approfittarne? Una primavera, a
Milano, a Palazzo Reale, è stata organizzata una mostra di
Edward Hopper. Grandissima affluenza. L’artista americano ha avuto più visitatori del Futurismo, di Dalì e dell’Impressionismo. Forse c’entrava il cinema.
32
5.
Frederic Remington
Davvero interessante la vita di Frederic Remington. Nacque a Canton, stato di New York, nel 1861, anno d’inizio
della guerra civile americana. Divenne cavallerizzo provetto, si laureò a Yale, fu uomo d’affari a Kansas City, studiò
arte a New York, collaborò a importanti riviste.
Nel 1898 divenne corrispondente di guerra e si trovò, accanto al leggendario magnate dell’editoria William Hearst,
a raccontare la decisiva battaglia di San Juan Hills, guerra ispano americana. La raccontò disegnandola. Eccolo, il
punto, Frederic Remington era un pittore. Molto importante, perché dipinse il West.
Soggetto
Esplorando nuovi lavori, esplorò il Paese. Il West era un
soggetto perfetto. Lo erano i nativi, così diversi nei costumi
e nel corpo, lo era il paesaggio. Gli Apache vivevano nelle
zone calde, nel deserto della Monument Valley fin giù nel
Nuovo Messico. Geronimo parlava spagnolo. In Florida
c’erano i Seminole, popolo delle paludi, e poi i Sioux del
Nord, Yellowstone e Wyoming. Fin su al Saskachewan, la
regione delle Giubbe rosse.
33
Il quadro che visse due volte
5. Frederic Remington
Possibilità pittoriche magnifiche, infinite. Il nome di
Remington prevale. Ma un genere, una scuola naturale
quella, naturalmente comprese altri artisti. Alcuni nomi
non possono non essere fatti, come George Catlin, Charles Bird King e Octavius Carr Dardley. Soprattutto come
Olaf Wieghorst, valorizzato da un altro eponimo del West,
Howard Hawks, che compose la grafica dei titoli del suo El
Dorado su una serie di dipinti di Wieghorst che sembrano
fotogrammi del film che seguirà, con John Wayne e Robert
Mitchum. Diciamo che Remington può essere considerato
il caposcuola.
Nel 1939, quando Ford girò Ombre rosse, si disse che aveva legittimato un genere trascurato dalla critica, un sottogenere buono solo per lo spettacolo.
Non era proprio così. De Mille aveva già nobilitato
l’Ovest, con film come La conquista del West, che raggruppa, magari un po’ arbitrariamente, tutta la mitologie e quasi tutti degli eroi della frontiera: Custer, Hickock, Buffalo
Bill, con un passaggio su Lincoln e un frammento della famosa disfatta di Custer al Little Bighorne dove si intravede
Toro seduto. De Mille non era Ford, ricostruiva tutto in
interni. Persino cascate e foreste. I suoi indiani non erano
ispirati dalla “verità” dei dipinti di Remington, ma disegnati
da scenografi e costumisti. Erano impropri, esagerati, magari ridicoli. Certo erano spettacolari, secondo i concetti del
regista. Concetti che fecero testo per decenni, comunque.
Ma Ford stava più attento alla realtà.
Del resto quei dipinti erano così ricchi, così pieni di informazioni da rendere superfluo il lavoro dei migliori professionisti del cinema. C’era già tutto in quel figurativo, i
cavalli senza sella, le lance e gli archi, i costumi di pelle,
e poi quelle penne multicolori, visibili e larghe da essere
piegate dal vento. E poi il singolo e il gruppo. E la caccia al
bisonte. E sullo sfondo il paesaggio detto sopra.
Sperimentale
Quando Remington morì, nel 1909, il cinema era proprio
all’inizio, roba sperimentale, o quasi. E così il pittore non se
ne accorse. Ma il cinema si accorse di lui. Remington ebbe
un adepto straordinario, ne sarebbe stato felice e lusingato: John Ford. Il grande regista di origine irlandese assunse
l’estetica dei quadri del pittore. L’estetica era ciò che lo interessava. Dai quadri non capivi se gli indiani erano buoni
o cattivi.
Assoluto
Nel 1956 Ford diresse Sentieri selvaggi, ritenuto il “western
assoluto”, e uno dei maggiori capolavori generali del cinema. Il film era pieno di indicazioni, contenuti e simboli.
John Wayne è Ethan, un reduce per niente buono, deluso,
quasi isterico che si mette alla ricerca della nipotina rapita
dagli indiani che odia con tutto il cuore. Insieme a un giovane sanguemisto, Martin, percorre le vie dell’ovest, stagione
dopo stagione.
Un raffronto tra Frederic Remington, The Battle of War Bonet Creek,
1900, olio su tela, 69,8x102,8 cm, Tulsa (OK), Thomas Gilcrease Institute of History and Art e una scena del film Sentieri selvaggi (The
Searchers) di John Ford (1956).
34
35
Il quadro che visse due volte
Questa personalità da antieroe, insolita per Wayne, permetteva a Ford di compensare l’indicazione che gli serviva
in quel film, che gli indiani erano cattivi. Si era ancora negli
anni Cinquanta, nei film i nativi erano gli antagonisti. Non
sempre, quasi sempre. Adempivano a quel servizio. La ricerca di Wayne diventa dolorosa, quasi metafisica. Passano
le regioni, le tribù e gli anni. Il sole impietoso del deserto
e le montagne innevate. Per Ethan l’odio è ormai diventato ragione di vita. L’intensità della pittura di Remington si
presta benissimo al sentimento. Nel frattempo la bambina è
diventata una ragazza, di fatto una selvaggia. Viene segnalata in un campo indiano. Entra in azione la cavalleria. Il
campo viene distrutto. Ford si rifà al dipinto di Remington
“The Battle of Warbonnet Creek”. Battaglia storica delle
guerre indiane, dove la tradizione narra, e probabilmente è
vero, che William Cody, detto Buffalo Bill, uccidesse Mano
gialla, uno dei vincitori di Custer al Little Bighorne, vendicando così quella sconfitta tragica e storica. Ethan-Wayne
trova la ragazza, è vissuta con un capo indiano, dunque è
contaminata. La solleva, ma non la uccide. L’abbraccia e le
dice “Vieni, andiamo a casa”. Alla fine Wayne non poteva
essere cattivo e Ford non poteva essere razzista. Ci mancherebbe.
36
6.
Dreyer e l'espressionismo
tedesco
Uno dei film più pittorici della storia del cinema è Dies Irae.
Lo stesso concetto, può essere esteso, in generale, al regista
che lo ha firmato, Carl Theodor Dreyer.
È legittimo dire che quel titolo possiede una doppia chiave pittorica, quella “autonoma” diciamo così, come campione dell’espressionismo, e quella “ispirata”, come opera che
si rifà a dei modelli figurativi. La produzione di quel film è
un vero master sul cinema come pittura e sul rapporto fra la
pittura e il cinema.
Raccontando Dreyer non si può non rifarsi all’espressionismo, quel movimento, artisticamente decisivo, sviluppatosi in Germania fra il 1905 e il 1930, dunque negli anni di
maggiore energia creativa e di più forte curiosità ed entusiasmo del regista.
L’espressionismo, applicato all’inizio soprattutto alle arti
figurative, “invase” via via la letteratura, il teatro, e poi il
cinema: significa eccesso di espressione, nei gesti e nell’estetica, soprattutto attraverso l’uso delle luci e, ancora di più,
delle ombre. Come sempre il cinema rappresentò un’evoluzione anomala e disordinata, come sempre si appellò alla
propria franchigia del non rigore, perché se applichi l’ec37
Il quadro che visse due volte
Un fotogramma da Dies Irae di Carl Theodor Dryer (1943).
cesso di espressione solo alla scrittura, o solo alla pittura, o
solo al teatro, allora ti muovi in confini che favoriscono una
disciplina, ma se quella disciplina la porti nel cinema, devi
vedertela con una gestione complicata e articolata, troppo:
la musica, l’immagine, la scrittura, tutte insieme. Insomma
devi far convivere, tenere a bada tutto in un eccesso, e non
è facile.
L’espressionismo poteva rappresentare una pratica utile
nei film muti, dove l’eccesso andava a compensare e a soccorrere la mancanza della parola. Ma col “parlato” le misure
andavano pesate con grande attenzione, lo spartiacque fra
un’opera d’arte di energia maggiore e un’anarchia estetica
grottesca era molto sottile. Un’opportunità tanto efficace, in
cinema, fu spesso gestita da autori inadeguati.
38
6. Dreyer e l’espressionismo tedesco
Anche Hollywood la importò, con risultati contrastanti.
Spesso si assisteva a sequenze “normali”, di azione e dialogo
di basso profilo, con coni di ombre che rilanciavano sopra
mura immense un capitan Blood, dottore, che si aggira in
un ambiente più simile a una sala d’armi regale che a uno
studio medico.
Anche in Quarto potere lo stesso Welles esaspera una riunione di redazione fra chiari e scuri drammatici, alla Ivan il
terribile. Ma si sa, a Welles era riconosciuta una forte franchigia. Il suo non era errore, era anarchia geniale. Dreyer
invece seppe tenere e bada l’“espressione”, anzi la assunse
con grande naturalezza, facendone parte integrante della
sua poetica e della sua estetica, registrandone l’intensità a
seconda delle opere e diluendola dopo la sua prima fase.
Il Dreyer espressionista è soprattutto quello dei “muti”
iniziali, e di Vampyr, dove la seduzione espressionista è davvero irresistibile, applicata com’è a un contenuto da visione,
inquietudine e delirio, con un’apertura all’horror, e dove il
tutto deve vivere sulle atmosfere, dunque proprio sulle luci
e sulle ombre. Non semplice.
Per Dies Irae il regista diede un compito non semplice
al suo direttore della fotografia Carl Andersson. Gli disse:
“Voglio che il film abbia esattamente le immagini del suo
tempo, nell’architettura, nelle facce e nei costumi. E voglio
che le luci, e le ombre, non solo accompagnino i personaggi
nel chiaro o nello scuro, ma esaltino i loro sentimenti, l’infelicità, il dolore, l’amore, l’infedeltà, la menzogna, la mistica, la paura e il terrore”.
Andersson era uno svedese di Stoccolma con un
background singolare, raro. Dopo aver lavorato come operatore nel suo paese, trasferitosi in Danimarca, negli anni
Trenta si era specializzato in shorts pubblicitari. Nulla dunque di più diverso dall’estetica di un Dreyer, ma l’operatore
39
Il quadro che visse due volte
Emblematico fotogramma tratto da Vampyr del 1932.
aveva anche una profonda cultura pittorica, insomma era
titolare di un mix che poteva produrre un risultato particolare. Alle indicazioni di Dreyer rispose con un nome:
“Rembrandt”.
Dreyer ci aveva già pensato, ma aveva dei dubbi. Disse:
“... è un olandese, un fiammingo”. Andersson ribatté: “Mi
scusi maestro, ma io conosco i suoi film, capolavori certo,
ma, mi permetta, un po’ cupi. Se prendiamo un pittore della
zona baltica il pubblico si deprime troppo. Rembrandt non
è un meridionale, come olandese ci mette una luce solo un
po’ più forte della nostra, e poi molti dei suoi dipinti sono
proprio vicini agli anni del nostro racconto, terzo e quarto
decennio del Milleseicento”.
40
6. Dreyer e l’espressionismo tedesco
Dreyer si convinse. Cominciarono a lavorare. Studiando
l’opera del pittore prendevano appunti. Dopo molta dialettica selezionarono tre quadri: “La lezione di anatomia del
dottor Tulp”, “Ritratto di Cornelius Anslo e di sua moglie
Altje Schouten” e “I sindaci dei drappieri”. I quadri si trovavano rispettivamente in musei dell’Aja, di Berlino e di
Amsterdam.
“Dovremmo vederli dal vivo” disse l’operatore. “Credi
che non mi piacerebbe” rispose il maestro “ma il budget è
ristretto, ci ho messo dieci anni a raccoglierlo, dovremo accontentarci delle riproduzioni. E poi c’è la guerra”.
Scenografia e costumi, occorre una scelta appropriata,
professionisti che abbiano quel tipo di cultura. Il direttore
intende privilegiare confronto e dibattito, dunque assume
artisti in coppia: Fribert e Aes per la scenografia, e Sandt
Jensen e Thomsen per i costumi.
Tutti sanno che quel segmento è decisivo. Sono consci di
partecipare a qualcosa che farà storia. E l’impegno è assoluto. C’è da rappresentare il tribunale che giudicherà la strega. Lavorano sui volti: i modelli di Rembrandt hanno tutti,
rigorosamente, la barba, indossano abiti neri, per fortuna
portano gorgiere e colletti bianchi a contrastare. E molti
hanno il cappello. Dreyer rinuncia a qualche barba e ai cappelli. Si studiano le luci, intensità e posizione, e si compone
la giuria. Si preparano le inquadrature, con l’ascetico Absalon nel mezzo. Molti fotogrammi saranno semplicemente
dei Rembrandt in bianco e nero.
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7. I Miserabili. Il melodramma cantato dai tocchi patriotici
7.
I Miserabili. Il melodramma
cantato dai tocchi pittorici
Una Parigi disperata e distrutta, le strade brulicanti di gente
affamata e arrabbiata, il buio e le tenebre, corpi emaciati,
doloranti, colori cupi, la Senna come luogo della paura...
Questi sono elementi importanti e ricorrenti dei Miserabili,
l’ultimo film tratto dal musical sul romanzo di Victor Hugo.
Un’opera senza dubbio complessa per i mezzi, gli ottimi
attori, da Russel Crowe a Hugh Jackman, da Anne Hatha-
I Miserabili, Anne Hataway, regia di Tom Hooper.
42
way a Helena Bonham Carter, e la parte cantata, difficile da
accettare all’inizio, perché siamo ormai poco abituati a un
intero film cantato, e dunque nelle prime sequenze sorridiamo a vedere sex symbol come Crowe e Jackman che invece
di parlarsi …cantano, ma nei Miserabili è tutto spettacolarizzato.
E poi c’è la pittura. Pittura fortemente espressionista nei
tratti dei volti rovinati dalla fame, dalle sequenze dove la
Hataway è protagonista: magra, un po’ invecchiata, di un
pallore da dipinto ottocentesco, dai capelli grezzamente tagliati, come in un’opera di Egon Schiele, o di Oskar Kokoschka, o ancora, perché no, un’espressione tratta dall’“Urlo”
di Edward Munch, quei pittori dell’Espressionismo tedesco
dei primi del Novecento, dove la figura umana era rappresentata nei suoi disperati difetti.
Le donne magre e nude, dai corpi grigi, con segni scuri, per sottolineare la fame e la malattia, proprio come nel
personaggio di Fantine, che nei Miserabili muore di tubercolosi, con un unico pensiero: salvare la figlia Cosette. Jean
Varjean rispetterà la richiesta della madre in fin di vita, e,
ancora una volta scappando, trova la piccola Cosette e la
prende sotto la sua protezione, come una figlia, e come tale
la crescerà.
Ecco che si sviluppano delle sequenze interessanti:
Varjean (Hugh Jackman) trova Cosette bambina in un bosco, ecco ancora l’oscurità, velata da una luce magica, quasi argentata, che risalta le fattezze delle piccola bambina,
vestita di stracci bianchi, scalza nella neve, ma dai biondi
capelli e glaciali occhi azzurri, come in una favola dipinta da
un Mark Ryden, l’esponente capo della Low brow art americana, che ha iniziato disegnando proprio giovane fanciulle
dall’apparenza da fiaba, vestitini colorati, ma in situazioni e
sfondi sempre inquietanti e surreali.
43
Il quadro che visse due volte
7. I Miserabili. Il melodramma cantato dai tocchi patriotici
ter), i genitori adottivi di Cosette, una folkloristica coppia
di sbandati e ladri parigini tenutari di un locale/bordello in
città: un ambiente bohemien da manifesti di Toulouse Lautrec, con vestiti colorati, guance rosse per coprire il pallore
della malattie, prostitute rozze, ricoperte da strati di abiti e
con calze a rete.
Da un ambientazione pallida, grigia, a un interno colorato e caotico, entrambi raccontati con lo stesso scopo:
un’umanità allo sbando, in cerca di un ordine e di una salvezza. Espressionismo nordico, dai toni cupi ed emaciati,
poi corrente Low brow, dai toni falsamente fiabeschi, poi
l’impressionismo di Lautrec, e anche un po’ Edgar Degas, e
ancora un altro cambio di tono: quello delle scene rivoluzionarie. I giovani parigini vestiti in divise, giubbe e bandiere
rosso sangue, contro quelle degli ufficiali, blu scuro, come in
un dipinto di Francisco Goya, o di Giovanni Fattori: fucili,
barricate, città devastate, la Senna dalle acque tormentate.
Un racconto estetico che supera quello narrativo da melodramma cantato un po’ pesante e concentrato su una storia
d’amore, quando Hugo aveva narrato di passioni, rivoluzioni, e l’eterna fuga verso il riscatto.
Edward Munch, Puberty (1894/5), olio su tela, National Gallery, Oslo.
Come inquietanti e surreali, nelle loro fattezze colorate
da casino, sono Monsieur e Madame Thénardier (interpretati dai bravi Sasha Baron Cohen e Helena Bohnam Car44
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8. Luis Buñuel. L’angelo sterminatore fra arte e cinema
8.
Luis Buñuel.
L’angelo sterminatore fra arte e
cinema
“Ma perché non riescono ad andarsene? Non capisco”. Così
risponde Luis Buñuel (Adrien de Van), perplesso, allo sceneggiatore americano Gil (Owen Wilson) che gli suggerisce una storia per un nuovo film.
Un chien andalou, Occhio tagliato dalla lama di rasoio. Buñuel e Dalì,
1939.
46
Woody Allen nel suo Midnight in Paris ironizza su e
con il grande autore del cinema surrealista proprio rispetto
a uno dei suoi capolavori: l’Angelo sterminatore, del 1962,
che ha raggiunto il traguardo dei cinquant’anni. Un’opera
cinematografica raffinata e complessa, quasi un’opera d’arte.
La storia è semplice, ma in quegli anni fece scalpore.
Un gruppo dell’alta borghesia viene invitato dopo l’Opera a cenare a casa di amici, marito e moglie, che offrono
una meravigliosa tavola con ottimi cibi e bevande, e musica.
Alla fine della serata, quando è tempo di andare a casa, le
persone non escono, non riescono a superare una linea immaginaria al di là della salotto in cui si trovano. Passano i
giorni e via via gli umani perdono prima l’educazione, poi
la personalità, poi la dignità. Alcuni muoiono, altri litigano,
si accusano a vicenda, sopraffatti da quella sorta di limbo,
e di spietato confronto con gli altri. Un incubo freudiano,
mescolato a un’ironica critica sociale e umana, raffinata e
tagliente, proprio come il suo autore Buñuel, che manda
l’Angelo sterminatore, una sensazione, una figura astratta,
qualcosa che non esiste, come nel Giorno del Giudizio, a
punire l’arrogante e viziata umanità.
L’opera di Buñuel, tratta da una pièce teatrale di José
Bergamin dal titolo “Los Naufragos”, oggi non è sorpassata,
anzi. Possiede una forte contemporaneità dovuta sia all’idea
vincente (una sorta di drammatico Grande Fratello all’interno di un salotto borghese), sia alla narrazione, sciolta,
surreale, angosciante, con pathos, e sia all’estetica. Buñuel
è sempre stato uno sperimentatore, ha spesso voluto al suo
fianco artisti e intellettuali che hanno dato un contributo
alla cultura nel periodo delle Avanguardie artistiche dei primi del Novecento. Un nome tra tutti è quello di Salvador
Dalì, il pittore, scultore, scenografo, illustratore che ha col-
47
Il quadro che visse due volte
Man Ray
laborato con Buñuel per realizzare dei capolavori, al di là
dell’Angelo sterminatore.
È decisivo ed è evocativo un titolo: il cortometraggio Un
chien andalou (Un cane andaluso, 1929), scritto, prodotto
e interpretato da Luis Buñuel, che l’ha firmato come solo
regista, e Salvador Dalì. Un chien andalou è forse il primo
modello di sperimentazione surrealista nel cinema: dalla
scelta di farne un film muto, quando da un anno esisteva il
sonoro, all’utilizzo di immagini non cinematografiche, assolutamente in stile Dalì, e con una narrazione realizzata
senza apparente senso, ma con l’associazione di idee jungiana. Ecco che sfilano immagini che gli appassionati di arte
e di cinema hanno ormai sedimentate nella memoria: l’occhio della donna tagliato dalla lama del rasoio (che riprende
molto, per stile ed estetica, le fotografie e i volti di Man
Ray, altro grande del periodo, per non parlare dell’apporto di Marcel Duchamp, dal quale Buñuel e il movimento
48
8. Luis Buñuel. L’angelo sterminatore fra arte e cinema
Surrealista, che ha preso forma sulle idee di André Breton,
però si staccano); la mano dal buco nero dalla quale fuoriescono le formiche “isteriche” (ricorrenti nei dipinti e nelle
sculture di Salvador Dalì); gli atteggiamenti inquietanti e
senza senso dei protagonisti (Buñuel gioca molto sul nonsense, partendo proprio dal titolo, Il cane andaluso, che certo
non soccorre lo spettatore nella trama); il forte erotismo sul
nudo femminile; la luna; le strade vuote …
Dalì ha collaborato negli anni con il cinema e successivamente con il mondo della pubblicità, e ha realizzato cortometraggi e progettato un film per la Disney nel 1945, dal
titolo Destino, realizzato solo nel 2003. Ancora nel 1945
“tradì” Buñuel collaborando con un altro grande maestro,
Alfred Hitchock. Qui parliamo di cinema puro, e Dalì si inserisce perfettamente in un sogno fatto da Gregory Peck, il
protagonista di Io ti salverò, insieme a Ingrid Bergman. Gli
elementi ? Una ruota deformata, grandi occhi dipinti che
si moltiplicano, ombre allungate, uomini senza volto, e poi
l’inserimento degli attori e della storia proprio all’interno di
un dipinto dell’artista spagnolo. Un perfetto binomio, esplicito, tra arte e cinema. Verificheremo se questo immaginario cinematografico, inventato da personaggi “alla Buñuel”,
resisterà ancora, per altri 50 anni. È probabile.
49
9. Batman il cavaliere oscuro. Il Ritorno e l’estetica del sublime
9.
Batman il cavaliere oscuro.
Il Ritorno e l'estetica del
sublime
Dal Surrealismo di Buñuel e Dalì, al quello Pop contemporaneo. La fantasy, e il suo cinema, spostano continuamente
i loro confini. Nel secolo scorso un gruppo di grandi scrittori ha dettato certe regole, poi il cinema le ha percorse mettendoci del suo, ma la base creata dalla carta era presente e
garante. E nella fantasy occorre molta attenzione, perché
si aprono spazi infiniti di contenuti, di invenzioni, che poi
bisogna controllare perché ci si può smarrire, li devi armonizzare, magari depotenziare. Si procede davvero sul filo di
un rasoio, è molto facile cadere dalla parte dell’eccesso e del
grottesco. Ecco alcuni dei garanti, autori e romanzi: Herbert George Wells (Guerra dei mondi); Ray Bradbury (Fahrenheit 451); James Graham Ballard (Crash); Phlip K. Dick
(Blade Runner); Arthur C. Clarke (2001); Ronald Reuel
Tolkien (Il signore degli anelli); George Orwell (1984) E naturalmente la contemporanea J.K. Bowling (Harry Potter).
Evoluzioni, invenzioni, eccessi, velleità. Tutti concetti che
il cinema supera tranquillamente, perché per lui vale soprattutto lo spettacolo. In questo contesto, Il Cavaliere Oscuro –
Il Ritorno, assume una sua funzione, molto importante, perché ci sono grande spettacolo e successo. Christopher Nolan
50
Il primo Batman e Robin.
e David S. Goyer, sceneggiatori, Bob Kane e Bill Finger,
creatori del fumetto Batman, non sono nessuno degli autori
citati sopra, non hanno quella profondità e quella cultura,
e probabilmente non vogliono neppure averla. A loro non
interessa la verosimiglianza, non interessano i confini e se il
film deborda, se le indicazioni sono abnormi e sproporzionate, magari culturalmente grottesche, l’importante è che lo
spettacolo ci sia e che i biglietti vengano venduti.
Analisi
E dopo questa premessa è interessante un’analisi dell’opera,
in chiavi diverse, compresa quella dell’ispirazione artistica
che non è stata ancora esplorata. L’orizzonte è vasto, e un
nome da cui si può partire è Edmund Burke. È stato il primo a parlare di Sublime (1757) come sentimento in bilico
51
Il quadro che visse due volte
tra bene e male, o meglio, il male che fa provare il bene.
Non il bello ma l’“orrendo che affascina”, appunto.
L’ultimo Batman, Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno, inquadrato dunque nella sua funzione di spettacolarizzazione
totale, non è per nulla un film “orrendo”, anzi. Christopher
Nolan racconta, con stile sopra le righe e caotico, ma che
fanno parte del gioco, la decadenza dell’uomo pipistrello
sia in chiave umana, dunque dubbi e debolezze di Bruce
Wayne, sia dell’eroe, con un perno centrale, Gotham City,
intorno al quale tutto gira.
La città in cui, dopo un’apparente calma e serenità (per
pochi) cerca di imporsi un male assoluto, che tutto vuole
distruggere per ottenere una parvenza di disciplina figlia di
un terrorismo estremo, il cui leader, Bane, l’uomo con la
maschera sulla bocca, guida il popolo, facendolo credere oppresso. Un tema sicuramente attuale come sfondo di vicende politiche, economico-sociali, allacciate al più “cool” tra
gli eroi. Bruce Wayne, ritiratosi dal mondo dopo la morte
della sua amata nell’episodio precedente, ha contatti solo
con Alfred, il fedele e paterno cameriere, che, pur di non
assistere alla decisione del padrone di rimettersi tuta e maschera e riprendere la vita pericolosa dell’eroe, lo abbandona
sparendo, forse. Il Wayne umano, truffato nel business dai
nemici, perde quasi tutto il suo patrimonio. Ma recupera la
fiducia in se stesso e nella sua città, che vuole salvare.
Ecco allora le immagini su cui Nolan ha tanto giocato:
una Gotham City paurosa, a metà tra il fantasy perfetto e
ridondante e una realtà che abbiamo già visto altrove: ponti
che si polverizzano lentamente, grattacieli in fiamme, isolati
che sprofondano, grigio assoluto.
Nolan procede troppo seriosamente, in un ambito, quello di Batman, che dovrebbe contenere una parte di ironia,
proprio perché il soggetto è un supereroe.
52
9. Batman il cavaliere oscuro. Il Ritorno e l’estetica del sublime
Abissale è la differenza tra il primo Batman televisivo
(1966), quello in cui Adam West interpretava l’eroe in maschera. Una maschera che oggi fa sorridere per l’ingenuità,
lo stile pop (era bellissima, grigia e nera, in tessuto), naif
erano i mezzi con cui combatteva e i contesti semplici in
cui lavorava. E poi nel 1989 avviene la rivoluzione con Tim
Burton, che trasforma Batman e il suo mondo in un personaggio dark e più complesso, e gli affianca cattivi alla sua
altezza, come Jack Nicholson che interpreta Joker al fianco
di Batman – Michael Keaton. Dal tessuto alla gomma al
lattice. Da mezzi semplici e rudimentali all’evoluzione della
Batmobile e poi la Batmoto come mezzi super tecnologici,
quasi magici, all’avanguardia. Da eroe del fumetto a icona
estetica.
Importante
Questo passaggio è anche riscontrabile in arte. Ed è importante. Alcuni artisti contemporanei hanno giocato sul ruolo
di Batman, dalle fotografie patinate, ma di efficace criticasociale, di Gérard Rancinan, in cui l’artista mette in tavola
un’intera famiglia perfetta americana, ma tutta mascherata
dall’eroe americano (in contrapposizione con quella grassa
e sfatta vestita da Topolino), per indicare che c’è qualcosa
da nascondere. O ancora l’arte Low Brow (o Pop Surrealismo), quella sviluppata dal suo maestro americano Mark
Ryden, che si può affiancare al Sublime contemporaneo in
generale, per temi, perfezione estetica, ma grande inquietudine nel risultato, a cui aggiungerei un altro stile, proprio
dei film su Batman, il Gotico. Dunque nomi contemporanei come Victor Castillo, Ray Ceasar, Camille Rose Garcia, o gli italiani sulla scia dell’illustrazione, come Bafefit,
Loredana Catania, Shanti Ranchetti o Nicoz Balboa, che,
sui suoi soggetti disegna sempre … una mascherina di Bat53
Il quadro che visse due volte
10.
Anton Furst, Looking west from across the Gotham river.
man. Tutto torna, anche l’illustrazione dunque, in artisti
che riprendono perfettamente lo stile dark, in alcuni casi
cupo, in altri falsamente sereno, che nel cinema riporta appunto al Gotico, spesso timbro di Tim Burton. Divagazioni
sull’estetica in arte, che possono concludersi con un’opera
che sulla carta e per storia poco c’entra con la saga di Batman, ma che per impatto visivo fa pensare al tortuoso movimento (sia della città che di Batman stesso col suo mantello) e al grigio dell’ultimo Cavaliere Oscuro: Aconabiconbi
di Bruno Munari, un’opera degli anni ’60 italiani di Arte
programmata e cinetica, che poco ha di sublime e gotico,
ma che esteticamente si addice.
54
Frankenweenie di Tim Burton.
Altre ispirazioni
Sparky è l’inseparabile cane e miglior amico di Victor Frankenstein, un adolescente particolare, dall’apparenza inquietante, ma solo per l’aspetto serio e una grande vocazione
per la scienza, e per la creatività in generale, che sfodera sin
dalla prima scena in cui mostra ai genitori un film da lui
realizzato.
Burton inserisce immediatamente lo spettatore nel suo
mondo, ma non fittizio e magico, come d’abitudine nelle
sue opere, ma in qualcosa di più personale, quasi autobiografico. Ecco che Victor è una piccola trasposizione di Burton da giovane: la voglia di realizzare pellicole; l’amore per
quello che c’è oltre; il gusto per il gotico, un certo rigore nel
dark e nell’oscurità; lo sperimentare giochi e cose nuove,
fino ad arrivare all’estremo, completando il prodotto con gli
effetti magici, un po’ paurosi, spesso surreali e “di un altro
mondo”, proprio alla Burton: riportare in vita Sparky, travolto accidentalmente da una macchina.
Burton mescola le sue collaudate ed efficaci idee con il
mondo di Frankestein, per far rivivere il cagnolino come in
una bella favola, una favola però non frivola e colorata, ma in
bianco e nero, con dei rattoppi qua e là, e sempre molto mi55
Il quadro che visse due volte
Tim Burton, Il mistero di Sleepy Hollow.
steriosa. Sparky viene riportato in vita, ma non è perfetto: ha
delle cuciture malfatte, dei bulloni, la coda vacillante, si stanca facilmente … come nel mondo “reale” (certo, dove i cani
si possano rianimare grazie a un esperimento visto in classe).
Dunque favola misteriosa e particolare a partire dalla città stessa in cui Frankenweenie è ambientato: la poco ridente
New Holland, dove i bambini hanno più somiglianza con
personaggi d’oltretomba, dove ogni nome ha un riferimento
non casuale, a partire proprio dalla famiglia del protagonista, i signori Frankenstein, l’unica coppia del paese dalle
parvenze quasi normali, fino alla figlia del sindaco cattivo,
unico nemico di Sparky, la strana Elsa van Helsing (la cui
voce in inglese appartiene a Wynona Ryder, già nel mondo
di Burton da Edward mani di forbice, 1990). Una lunga premessa per raccontare un piccolo film firmato da un grande
autore che ancora una volta è riuscito a dimostrare capacità,
talento e ironia.
56
10. Frankenweenie di Tim Burton. Altre ispirazioni
Un film che ha radici nel 1984, quando il giovane Burton
realizza un corto per la Disney, e che, dopo 28 anni arriva
al cinema, con la stessa trama, e poche modifiche. Quelle
modifiche e dettagli cresciuti negli anni e tangibili e riconoscibili in ogni suo film. Burton è un autore, è risaputo, che
si riconosce dalla prima inquadratura, anzi, dal primo titolo.
E ha fatto scuola, anche se è un genere “aristocratico” e non
amato da tutti. Ha fatto scuola nei generi, nell’animazione,
nella grafica, dunque nell’arte generale. È di quegli autori
come Ford, Fellini, Renoir, Visconti, Minnelli, Wyler, e il
“contemporaneo” Tarantino. Li riconosci dal primo passo.
E ha influenzato tanto. Burton è stato infatti citato scrivendo del Cavaliere oscuro – il ritorno, ad esempio, o anche
nell’ultimo Bond, dove già nella sigla erano evidenti le influenze: dal Mistero di Sleepy Hollow, fino a Nightmare before
Christmas. Spesso basta una bara in un film d’animazione:
ed è Tim Burton. È cosi. Ho citato illustratori e pittori,
quelli della Low Brow art, da Mark Ryden a Victor Castillo, artisti contemporanei che hanno spesso ripreso Burton
nella loro poetica. E poi quel mondo degli effetti speciali, degli illustratori di genere, di quelle sottoculture che in
pochi conoscono, ma che brulicano di citazioni e sostanza, come la maggior parte di film, da quelli falsamente per
bambini come la Fabbrica di cioccolato, fino alla ripresa di
romanzi come Sleepy Hollow, appunto, dove il gotico imperversa. Insomma gli spunti sono molti, e la forma è sempre sintetizzata in quei pupazzetti che, ripeto, hanno fatto
scuola. E in Frankenweenie si aggiunge anche il cagnolino,
tra gli attori di Burton.
57
11. Bond, i suoi usi e costumi che cambiano
11.
Bond, i suoi usi e costumi che
cambiano
In 007 Missione Goldfinger Bond-Connery, dopo aver sedotto Shirley Eaton, si sporge dal letto, recupera da un secchiello una bottiglia, la tocca, scuote il capo, poi si alza e
la porta nel frigorifero. Dicendo: “ci sono cose che assolutamente non si fanno, per esempio bere il Dom Pérignon
del ‘53 a una temperatura superiore ai 4 gradi centigradi”.
In quella frase, e in quella cultura c’è Bond e c’è Connery.
Classe e cultura che là rimangono, a quel binomio. Erano
gli anni sessanta.
Adesso, una delle ultime novità è che 007 beve la birra
e non più … il Martini. Tutti dicono, e scrivono così. In
realtà, come mostrato sopra, l’agente 007, e il suo modello
primo e magnifico, non si fermavano a quel cocktail. C’erano altre bevande…
Certo, il Martini era una costante, più semplice e più
proponibile, lo puoi bere in ogni momento, o quasi, allo
champagne serve un contesto raro, prezioso.
Nel 2012 la marca olandese di birra Heineken si appropria del più importante personaggio, del cinema e del marketing, dell’era moderna. Per arrivarci è stata percorsa una
traiettoria naturale. Non poteva essere che così. Si tratta di
58
Ana Cabello, Dr No will be back.
stagioni, di culture, di estetiche. Si tratta di evoluzione. Si
può cominciare da quella dell’agente. Il primo dunque era
Connery, sappiamo, seguì Lazemby, un australiano aitante
ma trasparente, brillò – senza brillare – … un solo titolo.
Seguì Moore, biondo statico e troppo impettito, un ottimo
ripiego. Poi fu la volta di Dalton, che sarebbe piaciuto molto a Fleming, lo scrittore inventore dell’agente, ma mancava
della cifra magnetica necessaria. Subentrò Brosnan dal quale
partì la fase action anzi super-action che avrebbe condotto
a Craig, il “grande tamarro”. “007 Craig porta lo smoking,
ma è come se glielo avessero prestato” (Pino Farinotti). E
poi è troppo simile, agli agenti con superpoteri delle saghe
“The Bourne” o “Mission Impossible”. E ad altri modelli
omologhi.
59
Il quadro che visse due volte
Dicevo “traiettoria”. C’è anche quella delle invenzioni,
interessante. Il primo romanzo di Fleming, “Casino Royale” è del 1952. Il primo film della saga, Licenza di uccidere
è del ’62. Il Martini Dry sembra nascere nel 1912 a Londra, preparato da un barista italiano, Martini appunto, per
John Rockefeller, nientemeno. L’azienda Heineken risale al
1863, il capostipite si chiamava Gerard Adriaan Heinekeen. Per pura filologia citiamo anche il Dom Pérignon, nato
nel 1921.
Daniel Craig è dunque il testimonial della birra. L’investimento è cospicuo, 60 milioni di Euro. Ma la Heineken
non si è limitata a un marketing globale e immane, ha studiato forme più articolate, locali e sofisticate.
In Italia il marchio ha deciso di collaborare anche con
altre realtà, grandi e piccole, non solo cinematografiche.
Nell’ambito artistico è funzionale la mostra “007, New
Bond Street”, presso la galleria milanese Federica Ghizzoni.
In occasione dell’uscita del nuovo film, Skyfall, e dell’ultima
new entry di Bond che beve birra, la galleria ha ospitato una
mostra di artisti internazionali sul tema. Insomma, diverse
ispirazioni che gli artisti rielaborano. Dagli oggetti trasformati e unici come quello rimaneggiato da Shanti Ranchetti,
che crea le complesse donnine dai grandi occhi, e questa
volta illustra un porta occhiali “alla Bond”, con una minuziosa donna dai rossi capelli, una banda sull’occhio e una
pistola dorata in mano. Un’accattivante e sexy bondgirl che
sta per tirare il grilletto, e diviene elemento ornamentale.
Sull’oggetto e sul gadget lavora Tiziano Soro, il giovane
artista che ironizza su un elemento che solitamente ironico non è: la pistola. Soro crea la Banana Shot, il colpo di
banana, che stacca dall’eleganza e uniformità dei dettagli
di bond, trovando una chiave diversa e divertente. Oggetti anche per Francesco de Molfetta che propone un vaso
60
11. Bond, i suoi usi e costumi che cambiano
nero dall’estetica fortemente kitsch, con ai bordi due manici
d’oro a …. pistola. Anche Lorenzo Mariani, in arte l’Orma,
gioca sullo stravolgimento di senso, utilizzando i classici
bicchieri da Martini, però bucati, in un’installazione in cerchio dove il soggetto che ha lasciato traccia è un proiettile,
rimasto incastrato nell’ultimo, o forse nel primo bicchiere,
da cui è partito.
Di nuovo mini bondgirl con Enzo Forese, che ricostruisce in miniature situazioni e storie, in questo caso con una
donnina vestita in pelle nera seduta su una macchina “alla
bond”. E poi elementi, installazioni e sculture: dalle elaborate e piene mappe di Londra ridisegnate da Luis Molteni,
a “007 goldfingers” di Angelo Jelmini, una stampa di tre
barattoli in vetro, due vuoti e uno che racchiude lunghe dita
dorate, delle goldfingers, appunto. E il lavoro di Damiano
Spelta, un ready made fatto da bombole ed erogatore, trasformate in sofisticate bottiglie Heineken.
Ancora birra per Piero Addis, che gioca sulla sovrapposizione di volti ed elementi: una bond girl e il Daniel CraigBond di sfondo a un bicchiere spumeggiante di gialla birra.
Di piccoli elementi e dettagli in plastica è composta l’opera
di Annarita Serra, 007 Heineken, un logo verde, bianco e
nero come incorniciato in tappi grandi e piccoli in un lavoro
tra il pittorico per stile e scultoreo per forma. Di scultura si
tratta per Francesco Bandini nell’opera Wroom: la mitica
Aston Martin DB 5 dell’agente 007 che dietro di se lascia
tre eleganti scie bianche rialzate dalla base.
Quasi scultoreo il lavoro di Cristiano Cascelli “Live and
let die (vivi e lascia morire)” per la base in legno e gli elementi ritagliati che prendono vita all’esterno in un teatrino di carte, bond girls, macchine, e James Bond al centro.
Richiami pop con citazioni per il lavoro d’impatto di Sara
Baxter, le “007 spy cans” (le lattine spia) una ripresa degli
61
Il quadro che visse due volte
Mister Degrì (Luca de Gradi).
11. Bond, i suoi usi e costumi che cambiano
Albert Pinya, mr Jaws.
iconici barattoli di Warhol in una piramide di 24 lattine o
rigorosamente bianche e rosse o colorate. Il nome del prodotto? James Bond. Il contenuto ? I titoli dei film. Più velate le citazioni pop nel lavoro grafico di collages nella fanzina bondiana realizzata ad hoc da Thomas Berra, ritagli,
elaborazioni, frasi e colori tratti dai film dell’agente inglese,
con aggiunte d’autore, in un piccolo libro d’artista dal progetto Subculture fanzine. Lorenzo Garattini, in arte Mr.
O, lavora su un’elaborata e densa tavola, dove, riconoscibili,
spuntano volti ed episodi di James Bond, buoni e cattivi, in
una mescolanza di elementi disneyani, una bandiera inglese
di base, tutto racchiuso da grossi tentacoli.
Mescolanza di stili anche per Mister Degrì che lavora
su una fotografia di un elegante James Bond, in smoking e
cravattino, ribaltandone la serietà con la rielaborazione del
volto, che diventa una maschera pop, divertente e inquietante, che si rivolge a noi con la pistola, ma chiede un bacio.
62
E poi il disegno e la pittura nelle opere degli spagnoli Albert
Pinya e Ana Cabello. Il primo riprende il cattivo tra i più
cattivi di Bond, mr Jaws, l’uomo dai denti di ferro disegnato
con il tratto dalla semplice apparenza dell’artista di Maiorca, pochi colori, pochi elementi per un chiaro messaggio
che ironizza sul male, facendoci sorridere. Tratto raffinato
ed elaborato anche per la Cabello che raffigura un dottor
No in bianco e nero, con lo sguardo furbo e e le dita tagliate,
con un biglietto in mano, perché lui No will be back (non
tornerà). Lavoro pittorico e raffinato quello di Massimo
Caccia, che propone un suo elemento, il pesce, in docile attacco sottomarino a un mezzo usato dall’agente 007. Pittura
materica per Sam Punzina, immediata e riconoscibile per
gli elementi tra il fantastico e il naturale, e lo stile dripping
tattile ed elaborato: in Caduta dal cielo dei maligni proiettili
scendono in mare, accompagnati da un paracadute.
Forte e colorato il lavoro di Dario Arcidiacono, che riprende un altro cattivo, il noto Blofeld, identificabile da
pochi, chiari ed espressivi elementi come il gatto bianco e
l’anello al dito, con una variante, le mani sono verdi, come
in una fantascientifica visione. Halfred ironizza sul titolo, in
una sottile e brillante auto-citazione “My name is red, half
red” (il mio nome è rosso, metà rosso, riprendendo Halfred). Un omino elegantemente vestito con posa da Bond,
uncino al posto della mano, e volto basso con sangue rosso
che cola da una metà, malinconico e rassegnato. Anche Pao
utilizza il suo mezzo, la pittura, su un elemento che gli è
caro: il “panettone” di strada fatto a pinguino. Un pinguino
elegante, nella sua forma rigorosa.
Il primo agente 007 di strada, questa volta nelle vesti di
arguto animale. Pittura totale e kitsch per il dipinto di Giuseppe Veneziano, che rappresenta la regina Elisabeth, legata in chiave grottescamente simpatica al mito-Bond e alle
63
Il quadro che visse due volte
Shanti Ranchetti,
My blind soul.
recenti Olimpiadi londinesi, con un dito nel naso. Un’opera
dal tratto efficace e pop, di satira e beffarda ironia, tipica
del maestro siciliano. La mostra termina con una chiusura senza la quale il tema Bond non può esistere, il cinema
naturalmente: sequenze selezionate tra i “Bond”, precursori
di stile e racconti, che hanno fatto la storia, che possono
sopravvivere intatte nonostante … il tempo…
64
12.
Bond/Skyfall.
Ancora qualcosa da dire: l'arte
tra musica e grafica nelle sigle
James Bond e le sue sigle. Dal 1962 a oggi hanno fatto la
storia.
Skyfall, l’ultimo “Bond” ,è stato analizzato, sviscerato,
raccontato. Dopo aver visto lo 007 di Sam Mendes ho pensato a un altro codice importante e… trascurato: l’estetica
curata e accurata della parte grafica della sigla di Bond, da
sempre un “must” per colonne sonore e, appunto, per invenzione e poetica delle immagini.
Un precedente immutabile, nella memoria di tutti, è il
frame della canna della Walter PPK sullo schermo, con al
centro la figura dell’agente 007 che spara verso lo spettatore col sangue (allora rosso in contrapposizione al bianco e
nero, più elegante e misterioso) che scende. Questo è Bond,
e questo è l’inizio del suo percorso. Le colonne sonore sono
sempre state accuratamente studiate da grandi compositori
e cantate da grandi voci, che aderivano alla generazioni.
Dal 1962, con Licenza d’uccidere (Doctor No), al 1987 con
007 Zona pericolo (ultimo film con Roger Moore nei panni di Bond), il compositore “storico” è stato l’inglese John
Barry, mentre da allora a oggi il testimone è passato, per le
canzoni contemporanee, a David Arnold. Da non dimenti65
Il quadro che visse due volte
care la comparsa di Burt Bacharach nel primo Casino Royale
(1967).
Compositori, canzoni, e grafiche mirate perfettamente.
Immagini ormai storicizzate come la “mitica” sigla di Goldfinger, o di una Una Cascata di diamanti. Da allora l’apertura
dei vari Bond ha sempre proceduto su un fil rouge: musica
importante, mescolanza di stili, grafica ricercata con elementi sempre ricorrenti, dalle donne alle pistole, dai coltelli
alle sagome dei personaggi. Soprattutto il graphic designer
storico, Maurice Binder, quello dei primi vent’anni, ha lasciato per sempre il suo timbro: figure antropomorfe, oggetti che diventano sagome di donnine sexy e in movimento, colori molto pop (il periodo, 1962, è proprio quello della
Pop art americana), dove il marchio Warhol è ben visibile,
soprattutto nei ritagli delle figure, nei frame su sfondo nero
da sigla, come in Goldfinger e soprattutto in Thunderball,
dove le figurine, stilizzate come sinuose silhouette sullo
schermo, si muovono su sfondi monocromi rossi, arancioni,
viola e blu.
O ancora, di nuovo totalmente improntata sulla Pop art
americana, la sigla di 007 Al servizio segreto di sua maestà,
le figure partono da una forma di bikini – altro elemento
ricorrente e provocante già dal primo 007 Licenza d’uccidere,
con l’intrigante Ursula Andress – per poi diventare via via
qualcosa di diverso: un bicchiere di Martini, una clessidra
…passaggi grafici attraversati dai personaggi della saga di
Bond, per terminare con la corona della regina con i colori della “sua” bandiera inglese. Dunque Pop art, ma non
solo in Andy Warhol, per colori e stile, ma anche in autori
come Tom Wesselman e Mel Ramos, per le figure femminili sexy, le grandi bocche con rossetto rosso e le unghie
smaltate scintillanti.
66
12. Bond/Skifall. Ancora qualcosa da dire
Oltre all’immagine estetica, la voce. Fatta eccezione per
007 Licenza d’uccidere, dove prevale la grafica a pallini anni
‘60/’70 e non vi è voce, ma solo il noto tema di James Bond,
ecco che negli anni prestano le loro voci artisti come: Lionel Bart (from Russia with love/dalla Russia con amore, 1963)
Shirley Bassey (007 Missione Goldfinger, 1964, Una cascata di diamanti/Diamonds are forever, 1971, 007 Operazione spazio/Moonraker, 1979), Tom Jones (007 Thunderball/
Operazione tuono, 1965), Nancy Sinatra (007 Si vive solo due
volte/You only live twice, 1967), il “beatle” Paul McCartney che prestò la voce alle parole firmate da lui e la moglie Linda (007 Vivi e lascia morire/Live and let die, 1973),
Rita Coolidge (007 Operazione piovra/Octopussy, 1983), i
Duran Duran, (007 Bersaglio mobile/a View to kill, 1985),
Tina Turner (007 Goldeneye, 1996), Sheryl Crow (Tomorrow never dies/ Il domani non muore mai, 1997), i Garbage
(007 the World is not enough/il Mondo non basta, 1999), Madonna (Die another day/la Morte può attendere, 2002), Alicia
Keys e Jack White, il cantante dei White Stripes (Quantum
of Solace, 2008), Chris Cornell (Casino Royale, 2006), fino
alla personalissima voce di Adele per Skyfall. L’apertura di
quest’ultimo è tra le più elaborate e speciali della saga: voce
della giovane cantante inglese Adele, appunto, con un timbro forte e cupo, e animazione grafica di Daniel Kleinman.
Kleinman, ritornato ai Bond dopo una pausa di sei anni con
Casino Royale, è lo stesso graphic designer che ha debuttato
con Goldeneye e, successivamente, firmato tutte le sigle con
Pierce Brosnan/Bond. Si è poi riproposto in Casino Royale,
realizzando una delle sigle più elaborate e d’impatto: quella
a sfondo di carte, con cuori, quadri, assi e picche, mescolati a pistole e figure umane stilizzate che durante l’azione
spariscono sgretolandosi nella lotta. Lo stile di Kleinman,
che utilizza le più avanzate tecnologie digitali e complessi
67
Il quadro che visse due volte
effetti speciali, è molto grafico/pittorico, e in Skyfall raggiunge l’apoteosi: paesaggio totalmente dark, nubi scure,
lapidi, pistole e coltelli che cadono in terra, a metà strada
tra una novella gotica, un film di Tim Burton e la corrente
artistica americana Lowbrow, con sfondi scuri, misteriosi,
quasi orrorifici.
Uno stile che partiva dalla Pop art, toccando gli anni ’70
come l’Optical art, con scene “alla Vasarely”, o addirittura
elementi passati in stile Dalì (le figure femminili, le gocce, gli elementi deformati) fino ad arrivare allo stile fantasy
come le donne cyborg di Il Domani non muore mai.
L’apice stilistico appartiene – legittimamente, valendosi
di tanti esercizi precedenti – a Skyfall, con ricerche i pittoriche anche all’interno del film, con richiami espliciti come
il dipinto di Turner davanti al quale Craig/Bond si incontra
con l’agente Q, o l’assassinio a Shangai davanti a un Modigliani, dopo una lotta tra vetri e luci che riconduce a Orson Welles della la Signora di Shangai (1948). Altri richiami contemporanei: la silhouette di Michél Ocelot, l’artista
sudafricano William Kentridge, e il Theatre Optique dei
primi film d’animazione. Insomma la storia continua, con i
suoi riferimenti.
68
13.
Kim Ki Duk, maestro di
cultura “occidentale”
“Mi sono ispirato ai greci e a Michelangelo”. Kim Ki Duk
è stato l’eroe incontrastato di Venezia nel 2012. Ha travolto
tutti, si è assestato sopra le polemiche, le liti, le rivendicazioni, i minuetti della premiazione, come quando si è dovuto correre ai ripari perché erano stati scambiati i premi fra
Anderson, Leone d’argento, e Seidl, Premio Speciale della
giuria. Una premessa: liti e rivendicazioni sono legittime,
inevitabili, perché non ci sono più film che mettano tutti
d’accordo, ma film “accettabili”, che dividono. Non dividevano Leoni d’oro come L’uomo del sud, Amleto, La grande
guerra, La battaglia di Algeri, Lo stato delle cose, Prenom Carmen, La leggenda del santo bevitore… Ma questi film non li
fanno più.
Pietà del regista coreano non è un capolavoro come quelli detti sopra, ma nel contesto di basso profilo generale delle
proposte, non è improprio che abbia ricevuto il maggiore
riconoscimento. Tutte le critiche sono state fatte, tutte le
storie raccontate, e le performance scandagliate. Kim si è
presentato in ciabatte, non ha parlato in inglese – come
il presidente della giuria Mann, dimenticandosi che era a
Venezia, non a Los Angeles – ha ringraziato tutti e canta69
Il quadro che visse due volte
to una canzone. Non si era mai visto. In teatro tutti erano
attenti. Ma una fase importante, del “pacchetto” Ki Duk,
– presenza, film, look, premio – è l’estetica. Credo valga la
pena di rilevarla, partendo anche dalle sue dichiarazioni. Il
regista ha messo in relazione il capitalismo, il grande morbo
che tutto devasta, con le grandi vicende primordiali raccontate dalla Tragedia greca e con l’estetica assoluta rinvenuta
da Michelangelo nella Cappella Sistina. Non occorre essere
dei grandi esperti d’arte per rintracciare, nella locandina di
Pieta, un’ispirazione alle Pietà di Michelangelo. Riferendosi al titolo il regista ha dichiarato: “sono stato due volte
in Vaticano, e ho visto questo capolavoro di Michelangelo.
Non voglio dire nulla a proposito della bellezza e del valore dell’opera, ma mi riferisco all’abbraccio della Vergine
Maria, che abbraccia il proprio figlio morto sulla croce. È
l’immagine di questo abbraccio, che mi sono portato dentro
per tanti anni, è stata l’immagine di un abbraccio dell’intera
umanità e la comprensione e condivisione di questo dolore”.
Mentre l’estetica generale del film non presenta grandi
cromatiche: è dura, rigida, grigia. Grigia nel colore primario
e nell’idea che il regista infonde: un mondo duro, violento,
dove a primeggiare è il denaro, che si insinua nella vita di
ogni giorno, guastando tutto, anche i rapporti umani e anche il rapporto intoccabile per eccellenza, quello tra madre
e figlio. Il protagonista, crudele e violentissimo, che si vede
arrivare una donna che dice di essere sua madre, non riesce
a riadattare un sentimento normale alla sua condizione univoca e disperata.
Alla donna non chiede neppure “ma dov’eri?”, semplicemente la odia perché l’odio è il suo status e cerca di scovare,
nel profondo, qualcosa che possa avvicinarsi all’amore. Ma
trova ancora violenza, espiazione, un passato inerte perché
non è esistito. E dunque Kim Ki Duk ha citato i Tragici
70
13. Kim Ki Duk, maestro di cultura “occidentale”
greci, che avevano già inventato tutto, e che erano a loro
perfetto agio proprio fra espiazione e violenza. Elettra (Sofocle) induce suo fratello a uccidere la madre Clitennestra,
certo per un’ottima ragione, la cattiva aveva ucciso il marito
Agamennone, complice il suo secondo marito Egisto, a sua
volta finito male. E siccome l’incesto stava particolarmente
a cuore a Sofocle ecco che Edipo, dopo aver “giaciuto”, inconsapevole, con la madre Giocasta, si acceca per non vedere più il sole, testimone del suo delitto. Dunque la “Pietà” di
Kim viene da lontano e da quali radici nobili.
Un coreano ha dunque portato un promemoria richiamandolo dal Rinascimento e dall’antica Grecia, culle della cultura occidentale. È un segnale anomalo e curioso, un
po’ provocatorio, ma potente, che identificherà la … debole
mostra veneziana del 2012.
La locandina del film di
Kim Ki Duk Pietà.
71
14. Un altro grande autore: David Lynch e la pittura regionalista
14.
Un altro grande autore: David
Lynch e la pittura regionalista
David Lynch è un altro autore fondamentale nel cinema
contemporaneo. Regista non facile, per intuizioni, narrazione e immagini, ma autore dalle grandi invenzioni e pathos.
E anche Lynch non scappa dall’arte figurativa e a raccontarlo è una giovane artista, Ester Grossi, nota come pittrice,
con il suo stile pop sofisticato in pittura, già riconoscibile
per le sue figure, i colori e i paesaggi, ma con un’altra passione e talento di base: quello per il cinema. Ester si concentra sul paesaggio di Lynch, dettaglio che non può non far
pensare al lavoro con il quale la giovane artista dell’Aquila
è arrivata finalista al Premio Cairo: un’installazione frutto
di un accurato studio sul paesaggio, appunto. Ecco Lynch
… (Tratto da “The Straight story. Lynch e la pittura regionalista”, 2005). “A proposito di David Lynch si è parlato e
scritto tanto. Il suo cinema è stato più volte definito “visionario”, “perturbante”, per non dire “inquietante”.
Insomma, le solite definizioni che si danno quando ci
si trova di fronte ad oggetti artistici che, chissà per quale motivo o strana “componente chimica”, non si lasciano
comprendere del tutto, procurandoci un pizzico d’insoddisfazione comunque stimolante.
72
David Lynch, un’opera di Ester Grossi della serie “funeral”.
In verità, etichette del genere, se riferite all’opera cinematografica di David Lynch, non sono così inopportune. Se il
suo sguardo, per l’appunto “visionario”, “perturbante” ed “inquietante”, desta non poco interesse, sorprende come alcuni
esegeti e non solo, non lo abbiano riscontrato in uno dei suoi
film, certo, strutturalmente tra i più classici, ma in fondo lynchiano. Probabilmente la bravura di un autore sta anche nella
capacità di saper “riciclare” i propri materiali artistici, conferendo loro un aspetto solo apparentemente insolito.
Quante volte si è parlato (frettolosamente) di Una storia vera come di un’anomalia all’interno della filmografia
lynchiana; quante volte, il regista è stato accusato, di aver
“venduto” l’anima o vena artistica, a quel demone chiamato
Disney (tra i produttori del film). Lo abbia fatto o no, è riuscito a camuffarsi benissimo. È vero, apparentemente questo
lungometraggio ha ben poco in comune con i restanti. Non
73
Il quadro che visse due volte
solo, per la prima volta Lynch si trova a dirigere un film del
quale non ha scritto la sceneggiatura. La storia del vecchietto
che percorre trecentosettantuno miglia con un tagliaerba, per
rincontrare dopo anni suo fratello, è vera, è storia di cronaca (locale) americana. Certamente, ciò che avrà destato più
sospetti saranno stati i tempi e i luoghi del film. Dopo le
storie di perdizione nei quartieri porno-chic di Los Angeles di Strade perdute, potevamo aspettarci di essere catapultati all’interno dei paesaggi dell’America rurale? Sarebbe stato
impossibile pensarlo. In verità, l’America di Una storia vera
non è così inusuale nella storia del cinema. Forse ci appare un
tantino anacronistica, perché non corrisponde propriamente
alla nostra idea del Nuovo Mondo. Inoltre il percorrerla alla
“velocità” del tagliaerba (otto chilometri orari), contribuisce a
farcela sembrare ancor più inconsueta.
Lynch, di certo, non può essere considerato un cinéphile, piuttosto un grande appassionato di pittura, alla quale si
dedica costantemente e attraverso la quale “dipinge” il suo
cinema. In più di un’occasione, ha dichiarato di essersi interessato alla pratica cinematografica, perché desideroso di
“regalare movimento” ai mostriciattoli dei suoi quadri. Il ricorso alla settima arte, non lo ha distolto dalla sua passione
primaria, che continua ad essere un punto di riferimento
per i suoi film. Parlare di citazione, a proposito del regista
del Montana, risulta un po’ complicato. Se nei suoi lungometraggi, il rimando al mondo hollywoodiano è piuttosto
didascalico, altrettanto non si può dire per i richiami alla
storia dell’arte pittorica.
La vicinanza allo sguardo di determinati pittori, che
siano Hopper o Bacon, non è dettata da un desiderio manieristico di citazione delle loro opere; piuttosto, avviene in
modo istintivo e “rilassato”. Con ciò, non s’intende rinvigorire l’idea (così diffusa) di un Lynch “artista romantico ed
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14. Un altro grande autore: David Lynch e la pittura regionalista
ispirato” che crea soltanto sotto l’effetto del proprio inconscio, ma di un regista che si serve di un serbatoio artistico
riempito, anche indirettamente, durante il suo apprendistato pittorico.
Osservando Una storia vera, balza agli occhi come l’ambientazione e la stessa composizione di alcune immagini,
richiamino alla memoria, le opere dei pittori regionalisti
dell’America degli anni trenta. Certo, non poteva essere altrimenti; dedicarsi ad una vicenda che ha avuto luogo
nell’American landscape rurale, ha voluto dire ripresentare, necessariamente, uno scenario tipico delle tele di autori
come Grant Wood, Thomas Hart Benton e John Steuart
Curry. In realtà, fare i conti con un paesaggio del genere ha
significato farli con la nostalgia. L’ambiente rurale, nel suo
essere insieme “naturale” e “culturale”, rappresenta il paesaggio ideale della cultura americana. La storia della pittura
paesaggistica, la letteratura e la politica del Nuovo Mondo
lo hanno dimostrato; il cinema continua a ricordarcelo. Per
comprovare tale tesi, ho deciso di dividere il presente lavoro, in quattro capitoli. Nel primo, ho tentato di riassumere
in poche pagine, la storia della pittura americana di paesaggio, mettendo in risalto come sia riuscita a sublimare,
indifferentemente, l’ambiente naturale e quello industriale, non tradendo mai la sua fede nel realismo. Anzi, proprio tale attaccamento al vero ha determinato la fuoriuscita
dell’astrazione insita nel reale.
Nel secondo capitolo, ho posto l’attenzione sul “funzionamento” della citazione pittorica nelle pellicole di Lynch e
sull’uso dell’iconografia dell’American Way of life da parte
del regista. Il terzo, riguarda la ricorrenza nella cultura americana dell’ideale pastorale, identificato in politica e nell’arte, con il paesaggio rurale, in quanto ambiente intermedio
tra la città e la natura selvaggia. L’ambiente agricolo, infatti,
75
Il quadro che visse due volte
ha rappresentato sia agli occhi del presidente Thomas Jefferson che a quelli dei pittori regionalisti, da una parte il
luogo adatto per una convivenza pacifica tra la macchina
(funzionale al lavoro) e la natura e dall’altra il campo di battaglia tra l’energia meccanica e i ritmi naturali.
La coesistenza idilliaca fu ed è tuttora sognata; lo scontro, invece, appartiene alla storia passata e presente. Il quarto è incentrato su Una storia vera. In quest’ultimo capitolo ho cercato di mettere in risalto gli aspetti iconografici e
non, che legano la pellicola alla pittura regionalista. Si tratta
di elementi, riconducibili all’ideale pastorale, che rendono
Una storia vera, un film profondamente nostalgico ed americano”.
“Un pino e una tazza di caffè: la combinazione di questi oggetti mi appare assolutamente drammatica”. David
Lynch.
15.
Da Ang Lee a Paola Pivi.
Vita di Pi
Un ragazzo e una tigre costretti a convivere in una scialuppa
di salvataggio in mezzo all’Oceano, lottando per la sopravvivenza.
Una volta usciti dalla sala dopo aver visto e, poi assorbito, il lavoro del visionario Ang Lee, le emozioni sono molte,
Paola Pivi, Senza titolo (asino), 2003, photo Hugo Glendinning,
Courtesy Massimo De Carlo.
76
77
Il quadro che visse due volte
La locandina del film Vita di Pi.
e sono intense. E i fantasiosi fotogrammi di questa grande
fiaba non possono non farsi spazio nell’immaginario personale e certo lasciano tracce. Dopo il naufragio, elaborato e
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15. Da Ang Lee a Paola Pivi. Vita di Pi
talmente d’impatto da far quasi dimenticare Titanic, ecco
che si delinea pian piano una nuova situazione, diversa dalla
partenza: non è sopravvissuto più nessuno, o quasi. Ecco
che sopra ad una scialuppa di salvataggio sono rimasti, anche dopo la lotta per la sopravvivenza e dopo la paura, solo
due protagonisti: Pi Patel, un ragazzo indiano dall’insolito
nome (Piscine Molitor Patel), e Richard Parker, una tigre,
ultimo è più pericoloso animale rimasto dello zoo del padre di Pi, che aveva deciso di partire con famiglia e animali
dall’India verso il Canada, come in un’arca di Noè, ma che
muore durante il tragitto in un naufragio, che lascia superstiti appunto il figlio e la tigre.
Dunque Pi è fin da bambino catapultato nel suo mondo di pura fantasia, di magia, dove reale e immaginario si
mescolano, e dove gli animali sono un pretesto per un pensiero diverso. Magia, reale e immaginario rappresentano il
fil rouge del film, e per il ragazzo elementi chiave per la
sopravvivenza, anche da adulto.
Durante il naufragio si salvano Pi e altri animali: una
zebra dalla gamba rotta, una iena e uno scimpanzè …. Ma
la legge della natura lascia in vita il più forte, Richard Parker, che, nascosto nella scialuppa, uccide gli altri e rimane
da solo a lottare per la vita contro e con Pi, che sopravvive
grazie al bellissimo animale, perché è proprio lui a tenerlo
occupato, nel bene e nel male.
Una zebra, e poi una tigre su una barca. Per chi è attento alle arti visive quest’immagine nitida, seppur frutto
di un mondo magico e fantasioso creato da Ang Lee, che
lascia allo spettatore una lettura personale e la possibilità
di crederci, non può non riportare alla mente le immagini fotografiche di Paola Pivi (Milano, 1971) in cui l’artista documenta performance private dove protagonisti sono
proprio gli animali. Un asino su una barca, solo, in mezzo
79
Il quadro che visse due volte
al mare; zebre immortalate sopra montagne innevate; un
leopardo che cammina sinuoso sopra delle tazze da cappuccino colme. Animali reali in situazioni irreali, o surreali. Documenti presi dalla realtà che l’artista ha ricreato per
i suoi lavori, che però fanno già parte di un immaginario
collettivo. Come la mostra, che creò qualche polemica, ma
dall’effetto aggressivo, portatore di ansia, perché no, anche
poetico, “My religion is kindness. Thank you, see you in
the future”, 2006 (La mia religione è la gentilezza. Grazie,
ci vediamo nel futuro) dove la Pivi ha messo in mostra per
un mese diversi animali, a convivere all’interno dei vecchi
magazzini della stazione di Porta Genova a Milano, con le
loro gabbie, il cibo e l’acqua. L’opera di chiamava “Interesting”, e cavalli, mucche, pecore, colombe, cani, pappagalli,
carpe giapponesi e un lama convivevano insieme, legati da
un comune denominatore, il bianco. La purezza di un’immagine seppur spiazzante, animali da fattoria, e non solo,
in un luogo dismesso a Milano, in contrapposizione con
quell’immagine energica, pulita e, di nuovo, fantasiosa, di
una tigre e un ragazzo su una barca in mezzo al nulla. Un
nulla fatto di immagini estreme di luci, acqua, animali pericolosi o animali che portano la salvezza. Ecco come una
semplice immagine può rimandare ad altri mondi.
16.
Un luogo: il Ghetto
di Varsavia tra il cinema
e l’arte contemporanea
Il ghetto di Varsavia è una delle voci più tragiche della
Seconda guerra mondiale. Nella capitale polacca, per lo più
nella città vecchia, viveva la più grande comunità ebraica
dopo quella di New York. I nazisti vollero che la città diventasse una sorta di modello del loro progetto di sterminio
degli ebrei. Dopo aver attaccato la Polonia nel ‘39, dando di
Il Pianista.
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81
Il quadro che visse due volte
fatto inizio alla guerra, nell’estate del ‘40, dopo aver censito
la popolazione israelita – circa mezzo milione di persone – i
nazisti delimitarono una zona della Varsavia vecchia, circa
due chilometri per quattro, dove costrinsero gli ebrei a vivere. Il progetto, denominato endlösung, soluzione finale, era
“semplicemente” quello di sterminarli.
Nel ghetto si moriva a migliaia, di fame, malattie, violenze, tutto. Gruppi sempre più grandi di persone venivano sistematicamente trasferiti nei lager. La popolazione,
all’inizio del ‘43, era ridotta a 70.000 unità. Il 18 gennaio di
quell’anno un gruppo di operai, in possesso di poche armi,
sparò sui tedeschi. Era l’inizio della ribellione. Inferociti, i
nazisti usarono tutti i mezzi per la “soluzione”: gas, bombe
incendiarie, benzina.
A maggio un rapporto diceva che “il ghetto non esiste
più” e a suggello simbolico della “vittoria” i nazisti fecero
saltare la sinagoga di Varsavia, che era posta fuori dal ghetto. La resistenza, disperata, eroica degli ebrei, in quella circostanza avrebbe generato letteratura e cinematografia.
Fra i titoli che fanno testo non può mancare “Il pianista”, il libro di Wladyslaw Szpilman, che Roman Polanski
ha tradotto in film nel 2002. Altri testi fondamentali sono
“Olocausto”, firmato da Gerald Green nel 1979, Il muro di
Varsavia di John Hersey, del 1961. In quello stesso anno
veniva pubblicato “Mila 18”, di Leon Uris, autore del più
celebre “Exodus” (1960), altra tragedia di quel popolo, diventato film per la regia di Otto Preminger. La televisione
ha dedicato al Ghetto la serie Holocaust (1978), per la regia
di Marvin Chomsky.
Tornando al film di Polanski è legittimo affermare che
può valere come connessione alla mostra dedicata, dal
“ghetto”, al più internazionale artista italiano contemporaneo, Maurizio Cattelan (Padova, 1961).
82
16. Un luogo: il ghetto di Varsavia tra il cinema e l’arte contemporanea
Maurizio Cattelan, Amen.
83
Il quadro che visse due volte
Il protagonista del film, Wladyslaw (Adrien Brody) è
un giovane pianista di talento. Mentre esegue un brano di
Chopin arriva la notizia dell’invasione dei nazisti in Polonia. Da qui il dramma: i suoi cari, benestanti ebrei di Varsavia, vengono deportati nei campi. Lui si salva, ma con
un arduo percorso per la sopravvivenza davanti, che quasi
riesce a sottrargli anche la musica e la sua poesia.
Una drammatica poesia che invece ci ripropone, a Varsavia dopo anni, Maurizio Cattelan. Otto delle sue opere
erano in mostra nella città polacca in due ambiti diversi: nel
castello di Ujazdowsky e … nel ghetto, appunto. Un percorso complesso da rappresentare, perché denso di storia,
simboli, richiami forti e pungenti, in un luogo altrettanto
forte e delicato come Varsavia, dove l’artista, nel 2000, aveva già creato un piccolo scandalo portando “La nona ora”,
l’opera che raffigura papa Wojtyla schiacciato da una roccia/
meteorite, dalle impressionanti fattezze reali, causando addirittura le dimissioni della direttrice del museo e dibattiti
sulla censura.
La mostra ha un titolo chiaro e perentorio: “Amen”. In
questo contesto l’artista italiano propone opere fondamentali del suo percorso, che riprendono temi diversi: da “We”,
il doppio Maurizio in versione elegante e rimpicciolita sopra
un letto di legno, a “Untitled”, la donna appesa nella cassa,
esposta anche nel 2011 a Palazzo Reale a Milano, o ancora
il bambino impiccato al pennone dell’entrata del castello. E
poi i temi storici, che Cattelan ha sempre ripreso, perchè è
un capillare studioso, di passato, di eventi e personaggi che
hanno lasciato dei segnali.
Per “Amen” basti un esempio: il piccolo Hitler, Him,
inginocchiato di spalle davanti a un cancello abbandonato,
nella zona Ulica Prózna, nel cuore del ghetto. Non possiamo avvicinarci, ma solo vederlo attraverso un grezzo spion84
16. Un luogo: il ghetto di Varsavia tra il cinema e l’arte contemporanea
cino di un grosso portone abbandonato. È lì, in fondo a un
corridoio di mura logore. Da dietro sembra un bambino vestito da adulto, in ginocchio, addirittura in preghiera. Non
puoi scorgerne il volto, che invece è ripreso, nella figura intera frontale, nei manifesti per tutta la città. Dunque c’è
Hitler… a Varsavia. E, se nel cinema esiste ancora la licenza
del “poter dire delle cose anomale che in altri ambiti striderebbero”, Cattelan continua a farlo anche in arte.
Ripeto: Hitler nel ghetto. E solo lo spettatore può vederlo.
85
17. Il cinema e il tattoo. Educazione siberiana e del tatuaggio
17.
Il cinema e il tattoo.
Educazione Siberiana e del
tatuaggio
Il tatuaggio è un’arte antica. Scrivo arte perché per molti
lo è, soprattutto attraverso l’evoluzione negli anni (le prime tracce risalgono addirittura a più di 3000 anni avanti
Cristo), ma il tatuaggio è anche un forte timbro di identità,
umana o culturale, utilizzata da quando esiste l’uomo, che
da sempre ha avuto la necessità, o il desiderio, di dipingersi
la pelle, di imprimersi dei segni riconoscibili, per segnalare l’appartenenza a una determinata cultura, etnia, stirpe,
corrente di pensiero. È stato, ed è tuttora anche una forte
moda.
Il tatuaggio è un timbro riconoscibile che già indica qualcosa all’esterno, alla persona che hai di fronte. E il cinema
non poteva non toccare l’argomento. E lo fa da sempre. In
Educazione Siberiana, l’ultima pellicola di Gabriele Salvatores, il tatuaggio ha un ruolo fondamentale, che viene spiegato dall’autore del romanzo, Nikolai Lilin, che a Milano è
titolare del Kolima Contemporary Culture, un laboratorio
di disegno e tatuaggio tradizionale siberiano. Lilin afferma che “uno degli elementi più importanti dell’iconografia
della mia tradizione è il rapporto tra i simboli all’interno
dell’immagine. Ogni simbolo ha la sua posizione esatta e
86
assume un determinato significato accorpandosi con gli altri
simboli. La chiave di lettura dei simboli”.
In Educazione Siberiana il tatuaggio infatti ha un valore
tradizionale molto forte, rappresenta un segno indelebile e
distintivo di una razza, e dunque, di conseguenza, di determinati valori. Valori insegnati dal capo di famiglia, nonno
Kuzja (John Malcovich). Indicativa è una sequenza in cui il
nipote Kolyma (Arnas Federavicius), protagonista del film,
“legge” il corpo di un uomo appena ammazzato, attraverso
i suoi disegni e tatuaggi, ognuno con un significato preciso,
ognuno realizzato per una ragione … come una mappatura
di una vita, elaborata su un corpo nudo.
Esteticamente il tattoo richiama. E il cinema, che è fatto
di immagini, ne è molto attratto. Basti pensare a un film
come L’Atalante (1934), di Jean Vigo. Il regista, per illustrare il personaggio di papà Jules, interpretato da Michel
Simon, vecchio e un po’ matto marinaio, gli fa mostrare il
tatuaggio con una donnina nuda sul braccio: il tipico tattoo
da marinaio, molto old style, molto reale.
I tattoo infatti hanno diversi stili illustrativi, avendo,
come detto, una storia antica alle spalle. A Milano per
esempio, ci sono luoghi storici come Fercioni, come The
Saint Mariner di Pietro Sedda, o più giovani come Isola Ink
di Tartarotti (per citare pochissimi nomi all’interno di un
ampio e articolato panorama che mondo si manifesta attraverso grandi disegnatori, festival, rassegne, stili di vita…) e
ognuno rappresenta un certo tipo di cultura e di target, attraverso appunti stili diversi, dall’old school, più essenziale,
ai disegni più elaborati.
Il tattoo è anche messaggio, un esempio, stridente, si può
vedere nella saga Millennium dello scrittore Stieg Larsson,
dove, in Uomini che odiano le donne, la protagonista incide
87
Il quadro che visse due volte
sulla pelle all’uomo che l’ha violentata la frase “Sono un porco sadico e stupratore”.
Tattoo come messaggio, anche non cosi esplicito: basti
un personaggio caratterizzato come “il cattivo”, o il border
line, ecco che il corpo è spesso identificato con i disegni: da
un De Niro in Cape Fear (1991), a Edward Norton in American History X (1998), con una svastica tatuata sul petto, o
ancora Brad Pitt in The Snatch (2000), o Angelina Jolie in
Wanted (2008), (noti i suoi tattoo anche nella vita reale, di
cui uno sviluppato lungo il braccio con il nome del suo ex
marito Billy Bob Thornton), o ancora la versione violenta
di Russell Crowe in Skinheads Romper Stomper (1992), un
affascinante Harvey Keitel in Lezioni di piano (1993) o un
“classico” tatuato Vin Diesel in Xxx (2002), o ancora, per
citare un film italiano, Sean Penn ex rock star trasandata
raccontata da Sorrentino in This must be the place (2011)…
Ma si possono fare altri salti temporali, più classici, basti
pensare solo al titolo in cui Anna Magnani vinse il primo
Oscar, la Rosa tatuata (1955), o ancora Il marchio di sangue (1951), dove Alan Ladd, per fingersi un’altra persona,
si tatua un simbolo preciso. Il tatuaggio come spunto anche
per la grande letteratura come nel romanzo “I ragazzi di
Charleston” di Pat Conroy (l’autore de “Il principe delle
maree”) dove il tattoo regna sovrano tra i protagonisti o anche nell’arte, come ad esempio i corpi delle donne iraniane
di Shrin Neshat, tatuate con l’hennè per rappresentare una
sfida e un riparo per la loro condizione femminile. Tracce
di una storia, azioni di sfogo, patti d’amore, simboli riconoscibili e di appartenenza, disegni tribali, segni indelebili
che sempre hanno un significato, davvero come una mappa
sul corpo.
18.
Il Quijote di Mimmo Paladino.
Il film di uno dei più grandi
artisti italiani
di Pino Farinotti
Non sono un fautore del sincretismo artistico. Ritengo che
uno scrittore debba scrivere e un pittore dipingere. E che
un regista debba fare i film. Quest’ultima frase la estendo:
molti film, soprattutto italiani sono penalizzati da registi
che vogliono scrivere e non ne sono capaci. Detto, in termi-
Il Quijote, Mimmo Paladino.
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89
Il quadro che visse due volte
ni semplici, il concetto; naturalmente ci sono le eccezioni.
Mimmo Paladino, artista, ha diretto un film, Quijote, lo a
diretto a suo modo. “A modo” di Paladino significa molto.
L’artista si definisce “pittore”, ma la definizione è davvero riduttiva. Paladino è uno dei fondatori della cosiddetta Transavanguardia, insieme a Chia, Cucchi, Clemente e
De Maria. Il movimento seguiva le correnti, minimale, poi
concettuale, che avevano del tutto cancellato il figurativo.
Un modello esemplare può essere Giulio Paolini, con la sua
“tela bianca”, cioè il niente, la fine e il principio.
Nel 1977 Paladino decise che fosse il momento di recuperare qualcosa, magari la cosa più naturale, il disegno. In
quell’anno compose un’opera che fa parte della storia della
pittura. Il titolo: “Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro”, che viene storicamente considerato il simbolo del recupero, da parte degli artisti, della pittura dopo la stagione
concettuale detta sopra. L’evoluzione sorpassa il disegno e
porta Paladino a domare tutte le materie e tutte le tecniche.
Pittura, scultura, incisione, scenografia. Discipline che impugna e ricompone in una sola formula. Che certo gli ha portato
fortuna, perché le sue opere fanno parte dei più grandi musei
del mondo, delle collezioni private più prestigiose e sono installazioni permanenti nelle piazze di molte città.
Summa
È legittimo dire che il film Quijote (Chisciotte) sia la summa dell’arte di Paladino. L’“opera per l’umanità” di Cervantes non ha avuto fortuna al cinema. Ci hanno provato i
tedeschi nel 1933, con un maestro, Pabst; poi i russi nel ’57
con Kozincev; gli americani nel ’72, con Hiller, con un certo sforzo produttivo e col divo Peter O’ Toole. Nessuna di
queste opere è memorabile, tutt’altro. E poi naturalmente la
leggenda Orson Welles.
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18. Il Quijote di Mimmo Paladino. Il film
Il “genio” lavorò sull’opera di Cervantes per quattordici
anni, e non ne venne a capo. Esiste una versione rimontata
dallo spagnolo Jess Franco. Cervantes è uno degli autori che
si scrollano di dosso la pellicola. L’avventura dell’“ingenioso
hidalgo” che sogna di raddrizzare i torti parlando e parlando, e muovendosi e cavallo come un eroe antico (più antico
di lui), non ha la chimica per il cinema. A volte succede che
la letteratura, quella più alta, quella che si identifica solo con
se stessa e la propria nobiltà, non voglia essere “filmata”,
appunto.
Di tutto questo ho parlato con Mimmo Paladino, ai
piedi della sua strepitosa istallazione, la collina di sale che
occupa quasi tutto lo spazio, ed è vasto, davanti a Palazzo
Reale di Milano. Ed è parte della mostra che la città gli
dedica. Alcune fra le più vaste stanze del “Reale” contengono le sue opere fondamentali e l’Ottagono in Galleria è
occupato dall’aereo trattato alla Paladino, l’opera si chiama
Cacciatore di stelle.
Sannio
Il film parte dalle filastrocche dei Pupi, il teatro non è la
Mancia ma il Sannio, cioè Paduli, Benevento, dove l’artista
è nato. E non c’era bisogno di ricostruzioni in cartapesta, la
scenografia è quella naturale delle opere, disseminate fra le
rocce e fra i prati.
Paladino assume l’idea generale della poetica di Cervantes, non ha bisogno di aderire a niente. Non intende adattare il cinema alla carta.
Kijiote è un simbolo trasversale nel tempo: agli albori
del Seicento Cervantes soffriva il passaggio da una cultura
umana e felice come il Rinascimento verso un futuro nebuloso senza una sostanza promessa. Voleva opporsi alla crisi
ineluttabile e allora sognava in grande: avrebbe sistemato
91
Il quadro che visse due volte
tutto lui, e sarebbe approdato sull’isola felice col suo scudiero Sancho. Paladino cerca di dare le sue indicazioni. E certo
non è felice, perché gli sbocchi, nella nostra epoca sono…
nebulosi. Così si consegna a ciò che più lo tutela, il suo
mestiere composito. E spera che chi assiste, a sua volta si
faccia tutelare. Si affida ad artisti e testi affidabili, e secondo
la meccanica di concetto-che-richiama – concetto, ecco inseriti due endecasillabi che arrivano da un altro contenitore,
“L’Orlando furioso”: Le donne i cavalier l’arme gli amori/
Le cortesie l’audaci imprese io canto.
Fra queste licenze d’arte Paladino ricorre a certi suoi
amici, “artisti attori”, come l’omologo compagno di corrente Enzo Cucchi, che fa mago Merlino, o il poeta scrittore
Edoardo Sanguineti, che fa se stesso. Quijote è Beppe Servillo, e Sancho è Lucio Dalla. Digressione: Servillo certo
ricorda il Reigueira, ma Dalla è praticamente il clone di Tamiroff. Sono quelli di Welles.
Improprio
Un sincretismo, ribadisco, dove è improprio cercare di capire, inutile scrutare logiche drammaturgiche, o codici che
vengono subito disattesi. Tutto si moltiplica con Paladino, perché ogni materiale, ogni registro, ogni visione, ne
richiama altri e sono tali e tanti che si rilanciano esponenzialmente e diventano infiniti e magari connessi, ma senza
logica accreditata, e sono veloci come le mani e il pensiero
dell’artista, complessi, sfuggenti e allarmanti come la Veglia
di Finnegan. Sono i codici di Paladino: stravolgono, ma lui
può permetterselo.
Spade che si incrociano combattendo, e nessuno le impugna, espulse in alto oltre mura di architettura sconosciuta. Chisciotte che attende sulla sponda del fiume mentre
l’acqua porta un triste corpo di legno.
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18. Il Quijote di Mimmo Paladino. Il film
Il Quijote, Mimmo Paladino.
E il linguaggio di Sancho lo scudiero, che non arriva dalla gola, non dallo stomaco, non dalla memoria o dai tempi,
né dalla cultura. Non sono neologismi, ma un getto antropologico, scovato da un inventore che conosce quegli stili e
quell’armonia violenta, Lucio Dalla. Mentre l’hidalgo della
Mancia, intermittente, passa lento in controluce, con la luna
là in fondo, col suo scudo e la sua lancia, inutili come lui.
Citazioni
E poi, naturalmente il Cinema. Stralcio due citazioni eroiche. Miracolo a Milano, dove Totò l’angelo matto e povero
se ne va in cielo cavalcando una scopa.
Me lo dice lo stesso Paladino: “La mia collina di sale
sarebbe anche una citazione di quel film di De Sica. L’idea
era di costruirla proprio al centro del sagrato, da dove parte
Totò. Sarebbe stata più larga di otto metri e più alta di tre.
Non si è potuto”.
93
Il quadro che visse due volte
Remo Girone assomiglia, in modo inquietante, alla
morte pallida, nel mantello nero, di Bergman. Paladino approfondisce la citazione. “Come sapevi che gioco a scacchi?”
“Ti ho visto nei quadri, l’ho letto nei libri” E il regista estende il dialogo di Bergman (licenza coraggiosa e non semplice) secondo le proprie intenzioni.
Così il cavaliere antico Paladino “gira” un’opera onnicomprensiva. Ma lui ha tanto pensato e operato. Si è guadagnato la nostra visione. Attenta.
19.
Un passo indietro.
Mario Schifano e il cinema
underground
Nel novembre 2013 è uscita la prima biografia ufficiale su
Mario Schifano (1934-1998) firmata da Luca Ronchi, autore anche del celebre documentario sull’artista pop romano dal titolo Mario Schifano tutto, presentato alla 58esima
Mostra del cinema di Venezia.
Per gli amanti dell’arte, e di un certo tipo di cultura sofisticata e underground, Schifano è un nome fondamentale.
Grande personalità, impegnativa per vissuto e comportamenti, “da racconto” per molti episodi, tra gli alti e bassi,
le esagerazioni, le amicizie e gli amori con personaggi di rilievo e internazionali. Dalla scrittrice Nancy Ruspoli, principessa, sua compagna per anni, che aveva sfidato i codici
tradizionali della famiglia unendosi con l’artista maledetto,
ma terribilmente affascinante, ad Adfera Franchetti, anche
lei di ottima famiglia, con la quale finì in prigione per uso
di hashish; poi Anna Carini, la più amata negli anni ’60;
e ancora Marianne Faithfull “rubata” a Keith Richards dei
Rolling Stones; poi le affascinanti Benedetta Barzini e la
diciottenne Isabella Rossellini, fino a Monica De Bei, diventata poi sua moglie. Dunque una vita da star, non solo
dal punto di vista artistico. Schifano è stato uno dei grandi
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Il quadro che visse due volte
Mario Schifano con la macchina fotografica.
maestri dell’arte italiana, uno dei non molti riconosciuti oltre confine.
Warhol disse che, se avesse potuto scegliere con chi
scambiare la sua vita, sarebbe ri-nato Mario Schifano.
L’americano e l’italiano, artisticamente e umanamente,
qualcosa si sono scambiati. Negli anni ’60 infatti a Mario
non bastava più solo il mezzo pittorico, immediato, veloce
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19. Un passo indietro. Mario Schifano e il cinema underground
e complesso, c’erano altri orizzonti e altre ricerche. Nelle
quali si impegnò profondendo la solita passione “esagerata”.
Puntò a un’evoluzione di comunicazione visiva, perseguendo un’estetica multidisciplinare, utilizzando macchine da
presa, macchine fotografiche, e il medium televisivo. Come
sostiene il critico Marco Meneguzzo: “Schifano lavorava
sulle immagini. Intorno a lui c’erano sempre immagini”.
È noto infatti che nella casa del maestro ci fossero sempre
televisori accesi, silenziosi, ma con un costante scorrere di
immagini, di qualunque tipo.
La ricerca si evolve dunque, per Schifano, in cinema
d’artista, di cui diventa infatti uno degli autori più noti, ritagliandosi un ruolo importante nel cinema underground
degli anni ’60 e ’70. Un titolo tra tutti: Umano non umano
(1969), che lo consacra in quell’ambito. Come Warhol a
New York, Schifano a Roma, e in Italia, realizza film indipendenti dall’immediata riconoscibilità per lo stile grezzo,
l’inquadratura sempre volutamente storta, quasi fastidiosa,
la non-narrazione, il montaggio spezzato, la varietà dei temi
trattati, prettamente sociali e politici, l’uso di pellicole scadute (infatti molti lavori non sono più reperibili) …
Soltanto in un’occasione importante Mario Schifano decide di accompagnare una sceneggiatura a un’idea di film:
nel 1962 un grande produttore come Carlo Ponti, lo finanzia per andare negli Stati Uniti a girare un lungometraggio.
La sceneggiatura era stata abbozzata dall’artista e da Tonino Guerra. Dunque Schifano, Guerra e Ponti. Le premesse
erano buone. Mario parte alla volta degli Usa con la compagna di allora, Nancy Ruspoli. Visitano fabbriche e luoghi
dismessi, da New York all’Arizona, assorbono paesaggi e
persone nuove, e tornano a casa, senza aver mai realizzato
il film. Tipica azione alla Schifano, refrattario a qualsiasi
collaborazione che venisse da altri, anche se di qualità.
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Il quadro che visse due volte
Negli anni successivi realizza dei corti d’artista come
Round trip (1964) e Kozinčev, la storia di un fotografo di
moda, entrambi con materiale girato negli Usa, paese che
l’artista ha assunto nell’insieme delle sue culture.
In Italia firma Carol + Bill, con attori come William Berger sua moglie Carol, Renato Salvatori e Annie Girardot. O
ancora cortometraggi monografici come Ferreri, Jean-Luc
ciné; omaggi a Marco Ferreri e Jean Luc Godard; Vietnam
(1967) con Marco Ferreri ed Ettore Rosboch. E poi la Trilogia che lo consacra come gran riferimento del cinema underground – infatti prende spunto da Warhol mettendo in
scena anche Gerard Maranga, che lavorava col maestro della pop americana. I titoli sono: Satellite (1968), il già citato
Umano non umano (1969) e Trapianto, consunzione e morte
di Franco Brocani (1969).
Dunque un omaggio a Mario Schifano, che ha lasciato
un percorso di nodi molti dei quali devono ancora essere
sciolti. Specialmente quelli “legati” al cinema. È il segnale
dei grandi artisti.
Il cinema d’artista (nota bene, d’artista e non d’autore)
è stato molto sviluppato in ambito italiano, già dai primi
del Novecento, ad esempio nel Futurismo. Per poi essere
di moda soprattutto dagli anni ‘60/’70, e non solo Mario
Schifano ne ha fatto parte. A Catanzaro, nel Complesso
Monumentale del San Giovanni, è stata sviluppata una mostra su questo tema.
In rassegna una selezione di film di 52 artisti che negli ultimi cento anni, dal 1912 al 2012, hanno utilizzato il
mezzo cinematografico come espressione, sperimentazione
e documentazione. Da Fortunato Depero a Rosa Barba, da
Mario Schifano, appunto, a Ginna e Corra, da Franco Vaccari a Carmelo Bene. Dal 1912 a oggi artisti italiani di varie discipline, dalla pittura al design, dalla perfomance alla
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19. Un passo indietro. Mario Schifano e il cinema underground
fotografia, dall’illustrazione all’installazione, hanno lavorato
sulle immagini in movimento, sviluppate in pellicole d’artista. Dai futuristi Anton Giulio Bragaglia e Pippo Oriani,
co-autore di Velocità, agli anni ’40 con Luigi Veronesi, unico protagonista del film d’arte, fino al periodo di massima
sperimentazione, gli anni ‘50 e ‘60, con autori quali Silvio
Loffredo, Munari e Baruchello, anche con l’utilizzo dei
“found footage”, pellicole già esistenti trovate nei mercatini. Gli anni ’70, caratterizzati dal cinema underground di
Schifano, Luca Patella, e i romani Giosetta Fioroni, Franco
Angeli, Nato Frascà e Pino Pascali.
E ancora Ugo Nespolo, Ugo la Pietra e Fabio Mauri,
fino a una sezione dedicata all’animazione, con Luzzati e
Gianini, Rosa Foschi, Cioni Carpi.
Un percorso che arriva al digitale, rendendo più complesso il confine tra arte, video arte e film d’artista, con autori come Debora Vrizzi, laureata al Centro Sperimentale
di cinematografia, Ra di Martino o il gruppo Zapruder, che
realizza film in 3D. Secondo le parole di Marco Meneguzzo, co-curatore della mostra, “la vera stagione del cinema
d’artista italiano non parte dal successo del cinema d’autore
italiano, che miete allori già nei tardi anni Quaranta e nei
Cinquanta, (…) ma da una situazione generale molto più
complessa e ramificata, e riferibile ai rapporti tra arte e società – e non tra arte e cinema”.
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20. Due passi indietro. Ancora cinema underground con Andy Warhol
20.
Due passi indietro.
Ancora cinema underground
con Andy Warhol
Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, Liz Taylor, James
Dean, Elvis Presley. Sono alcuni dei semidei che devono
molto a Andy Warhol. I personaggi citati, quando l’artista
si interessò a loro, erano già stelle, erano eroi, ma il fatto
di far parte della sua arte fu un valore aggiuntivo, e quanto
importante, alla loro leggenda.
Warhol (1930/1987) dagli anni ’60 agli ’80 ha rivoluzionato ogni ambito che riusciva a toccare: dall’illustrazione
(Andy nasce come illustratore di moda e allestitore di vetrine di negozi), alla pittura, scultura, pubblicità, fotografia,
cinema, musica, moda, design, giornalismo… La Factory di
Warhol, il luogo dove si incontravano artisti e personaggi
particolari, ma anche persone che l’arte la stavano davvero
creando, in quegli anni di sperimentazione e vivacità a New
York, è stata una fucina di idee, eventi, esperimenti, pazzie.
Ma qualcosa di buono ne usciva sempre, magari di grande.
Sessant’anni fa: 1962, anno di nascita della Pop Art
americana, portata successivamente sulle sponde europee. I
nomi prevalenti, oltre a quello di Warhol, sono quelli di Richard Hamilton, da Robert Rauschenberg e Jim Dine, Roy
Lichtenstein, Tom Wesselman, Claes Oldenburg, Geo­rge
100
Segal e James Rosenquist. Nel novembre 1962 Warhol
espone per la prima volta in una sua mostra personale alcune opere che hanno fatto la storia: del ’62 sono le bottiglie
della Coca Cola, la zuppa Campbell, sia in scultura (Warhol
aveva riproposto l’oggetto “reale” dal supermercato alla galleria, come forte simbolo sulla mercificazione dell’arte) sia
in pittura e fotografia con l’immagini famigliari come quella di Joan Crawford, star hollywoodiana per eccellenza, in
questo caso simbolo femminile americano. È anche l’anno
in cui l’artista di Pittsburgh (Warhol era di origini ebraico/
polacche, ma nato nella “capitale dell’acciaio”) realizza le
opere con i grandi volti detti sopra. Nelle rappresentazioni
di Marylin e di Elvis sembra che intuisse, per loro, un tragico destino. Tutto con la nuova tecnica da lui utilizzata del
silk screening.
La personale di Andy viene presentata non a New York
ma a Los Angeles, alla galleria di Eleanor Ward, la Stable Gallery (33 East 74th Street). Los Angeles allora era la
mecca del cinema, più che dell’arte figurativa. Si forma così
uno scambio sinergico con New York. Si tratta di un certo
tipo di cinema underground di cui Warhol sarà protagonista assoluto. Ancora 1962: Jonas Mekas, regista e scrittore
underground dell’epoca, fondò il New American Cinema
Group aggregando 20 cineasti indipendenti. Ne fece parte
anche Warhol, come autore indipendente… appunto. L’indicazione del gruppo era l’insofferenza verso un certo tipo
di stile cinematografico, fatto di lustrini e molti soldi, un
sistema old style e commerciale.
Warhol inizia a girare film nel 1963, proprio dopo aver
frequentato Mekas. Acquista una cinepresa Bolex da 16
mm. Comincia a filmare tutto ciò che lo interessa, soprattutto persone che frequentano la Factory. Lo stile è, per
allora, sperimentale: inquadratura fissa senza un focus par101
Il quadro che visse due volte
ticolare, ma lasciato tutto “al naturale”. I temi erano il luogo
comune, il banale, il minimale, e poi i tempi dilatati. Del
periodo ’63/’64 sono gli storici Sleep, Kiss, Eat, Empire, che
vedono rispettivamente un uomo dormire, diverse coppie
baciarsi, una donna mangiare e poi l’Empire State Building
ripreso a camera fissa per diverse ore. Del resto Warhol sosteneva: “Trovo il montaggio troppo stancante […] lascio
che la camera funzioni fino a che la pellicola finisce, così
posso guardare le persone per come sono veramente”.
Sono successivi, e si nota per crescita di stile e narrazione,
gli storici Vinyl (durata 70 minuti, 1965), ripreso vagamente
da Arancia Meccanica, racconto di Anthony Burgess, quando ancora Kubrick non aveva realizzato il suo capolavoro,
con i volti che poi Warhol utilizzò spesso di Gerard Malanga e l’affascinante Edie Sedwick; poi Chelsea Girls (210 minuti, 1966), film realizzato con Paul Morissey. Lo schermo
è diviso in due, dunque le azioni sono divise in due, e sono
brevi racconti – alla Warhol dunque poco narrativi, ma di
cui lo spettatore osserva discorsi e immagini all’interno di
camere di un famoso albergo a Chelsea –, e ancora The nude
restaurant (100 minuti, 1967).
Quelli citati sono solo i titoli fondamentali ed esemplari.
La sua ricerca cinematografica è vastissima. E ha lasciato un
segno profondo, di attenzione e ispirazione, nella seconda
parte del Novecento.
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21.
La follia tra arte e cinema
“Non esiste grande genio senza una dose di follia”.
Aristotele
Come a volte accade si forma qualcosa di trasversale perché
richiamato dal tempo. Una corrente, un caso, una coincidenza. Non ha importanza cosa, vale il fatto che due istituzioni importanti hanno focalizzato un codice decisivo
dell’arte, il visionario e la pazzia. Il MAR (Museo D’arte
della Città di Ravenna) ha realizzato un’importante mostra
sul tema della follia.
Un tema importante e complesso, che da sempre accompagna la storia della cultura, in particolare la storia dell’arte,
perché l’artista è considerato, perché tale è, uno spirito diverso, più complesso, o forse, in alcuni casi, più semplice,
nel suo modo di agire e pensare, rispetto agli altri, quelli
“normali”.
L’artista, il poeta, il pittore, lo scultore, e nel cinema
senz’altro molti grandi autori (da Georges Méliès a Orson
Welles a David Lynch, fino a Quentin Tarantino) sono
sempre stati considerati personaggi borderline, con vite e
atteggiamenti diversi rispetto alla norma, se la norma rientra all’interno di certe regole comportamentali e sociali ben
delimitate. L’artista è spesso un outsider, ma essendo tale
nella sua creazione gli viene perdonato quasi tutto.
103
Il quadro che visse due volte
Gli esempi nella storia dell’arte sono tanti e vari, come
racconta la mostra di Ravenna, inserendo anche artisti meno
conosciuti, coloro che hanno passato la vita nei manicomi
o nelle case di cura, quando appunto alcuni eccessi di carattere, di creazione, di infantilismo, erano considerati mali
da curare. Roba da Medioevo, dove l’eccesso di bile valeva
come misura della pazzia.
Da Hieronymus Bosch a Pieter Bruegel il Vecchio (che
ritraevano i folli e i malati), da Dürer a Botticelli, da Asger
Jorn a Basquiat: l’arte ha sempre condiviso i suoi “prodotti”
con la storia dei loro creatori. La tesi è: Pollock non avrebbe realizzato opere ancora oggi insuperate se fosse stato un
uomo “tranquillo” ? E Basquiat, se non fosse morto a 28
anni di eccessi e droghe forse si sarebbe perso fra i tanti che
oggi non fanno parte della storia dell’arte? Ecco che nei libri
di scuola si leggeva dell’orecchio tagliato da “quel matto” di
Van Gogh, o dei fantasmi che Goya disegnava sui muri di
casa dopo averli sognati in deliranti incubi.
E ancora, se può valere la frase di Albert Einstein “follia è fare sempre la stessa cosa e aspettare risultati diversi”
possiamo inserire nella lista dei “matti” altri geni dell’arte
come Giorgio Morandi, uomo tranquillo rinchiuso nel suo
studio, che per tutta la vita ha utilizzato gli stessi soggetti,
creando opere simili, ma sempre diverse?
Dunque, se davvero l’incanto primitivo, quasi infantile e
spesso impulsivo, dell’artista è un valore aggiunto, un dono
prezioso, privilegio di pochi, è giusto aderire all’idea di
Schopenauer quando asserisce che “il genio è più prossimo
alla pazzia dell’intelligenza media”, magari non entrando
nell’eccesso di un Bukowsky (altro vero “matto” della nostra
cultura) quando scrive che “la sanità è un’imperfezione”.
Ma ritornando al punto “Pazzia uguale Creatività uguale Arte”, proprio come nella mostra citata Borderline ecco
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21. La follia tra arte e cinema
altri artisti e generi, tra normalità e follia: da Bosch a Dalì,
dall’Art Brut a Basquiat. Senza dubbio, va ribadito, l’artista è colui che nasce diverso e soprattutto con un bisogno
incontrollato di farsi sentire, che sfocia, proprio come uno
sfogo, in vocazioni come la pittura.
Il tema è stato raccolto, in chiave di cinema, in un workshop dal vasto seguito all’Accademia di Belle Arti di Brera,
dal titolo “Il quadro che visse due volte”. Il cinema applicato
alla pittura, privilegiando l’arte più nobile e antica. Dove
grandi autori hanno accettato di porre il proprio talento al
servizio del talento visionario, e “pazzo” originale. Come ha
fatto il regista-pittore Lech Majewski nel suo I colori della
passione, facendo rappresentare la pazzia di Bruegel il vecchio attraverso le facce e i corpi sfigurati nel leggendario “La
salita al calvario”.
Il film su Bruegel è l’ennesimo segnale che quando il
cinema si applica alle arti visive punta sempre sull’artista
borderline, ovvero “matto”. Grandi film sono stati realizzati
sulle biografie di pittori, come Brama di vivere dove Vincente Minnelli, racconta Van Gogh. Il tormento e l’estasi
di Carol Reed su Michelangelo, e poi Frida Kahlo, e ancora
Basquiat visto da un altro artista anche lui non esule dalla
canonica pazzia, Schnabel. E ancora Modigliani raccontato
nei Colori dell’anima, con Andy Garcia che dà corpo e volto
al grande pittore livornese tormentato. O ancora Pollock,
interpretato e realizzato da un ottimo Ed Harris (che “diventa” Pollock). Senza pazzia, tutti costoro, avrebbero realizzato opere da… sindrome di Stendhal?
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22. Goya e Van Gogh
22.
Goya e Van Gogh
Un confronto tra una scena di Goya di Carlos Saura (1999) e Francisco
Goya, El tres de mayo de 1808 en Madrid (o Los fusilamientos de
la montaña del Príncipe Pío), 1814, olio su tela, 268x347 cm, Madrid,
Museo del Prado.
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Francisco Goya y Lucientes (1746-1828) è un artista perfetto per il cinema. Per cominciare la sua genesi, la cultura
spagnola, con tutta la violenza, i colori, la storia e la consapevolezza: nessun artista, come quello spagnolo, ama le
proprie terra e radice.
Non vorrebbe essere nato altrove. Goya ha frequentato i
personaggi potenti e gli artisti, ha fatto ritratti a principi e
a contadini. Ha visto passare momenti importanti e tragici
di storia spagnola e l’ha vissuta con la passione della sua
vicenda personale. La sua pittura precedeva il tempo. I volti
disfatti, i corpi stravolti, le azioni collettive, i gruppi inermi
come in un girone dell’inferno, erano ben oltre il figurativo.
Quando nel 1808 Napoleone invase la Spagna, gli spagnoli non furono un popolo facile da sottomettere. Movimenti di rivolta, violentissimi, si formavano dovunque. E
ancora più violenta fu la repressione. Goya c’era dentro, e
uno spirito come il suo non poteva non assorbire quella violenza e quella sofferenza a modo suo. Così, nel 1813 compose uno dei più drammatici quadri dell’arte spagnola e del
mondo: “La fucilazione sulla montagna del Principe Pio”
(Prado di Madrid).
Passione
Carlos Saura, regista, spagnolo: non è improprio dire che
per cultura, passione e violenza – entrano in gioco i soliti
aggettivi – presenta molti punti di contatto con Francisco
Goya. Una passione a un’affinità che ha tradotto nel film
Goya, del 1999, appunto. Il regista segue il pittore attraverso buona parte della sua vita e i quadri ne dettano le vicende.
I protettori potenti, le donne, molte, il tormento che trasmetteva nei suoi lavori. Va anche detto che Saura, che ha
passato parte della sua vita sotto il regime franchista, sapeva
cosa significa dover mediare e doversi difendere. Ricostrui107
Il quadro che visse due volte
sce sul set le grandi opere del pittore e le anima. L’opera del
Principe Pio è una sequenza di alcuni minuti e rappresenta
la fucilazione come punto d’arrivo. Non meno importante
del regista è il direttore della fotografia, Vittorio Storaro
nientemeno. Senza nessun vincolo di cinema e di realtà,
l’italiano esplode senza limiti. Raramente pittura e cinema
si sono combinati con tanta efficacia.
Vincent
Nel luglio del 1890 Vincent Van Gogh dipinse il “Campo di
grano con volo di corvi”. È forse la sua opera più conosciuta.
Fa parte della mitologia dell’arte. Morì poco, forse subito dopo, a 37 anni. La tradizione vuole, e probabilmente è
vero, che quello sia il suo ultimo quadro. Certo è un’opera
dalle molte, tragiche indicazioni. Se fosse davvero l’ultima il
cerchio della vita dell’artista più tormentato si chiuderebbe
alla perfezione. “I corvi” è davvero una composizione finale,
come il compimento di un destino. Oltre non c’è più niente.
Il cielo è scuro e pieno di violenza, il sentiero è diviso in tre
e chissà quale sarà il percorso giusto, i corvi sono segnale
di tragedia, magari di morte. Nel 1956 Vincente Minnelli
diresse Brama di vivere. È la storia di Van Gogh. Così come
Goya e Saura sono quasi omologhi, Minnelli e Van Gogh
hanno lo stesso nome ma non possono essere più diversi.
Vincent amava punirsi, prostrarsi, ogni azione non produceva, ogni speranza era frustrata. Voleva fare il pastore protestante, come suo padre, ma non ne aveva la vocazione, le donne
lo respingevano, il mondo lo teneva da parte. Solo suo fratello
Theo gli rimase sempre vicino. Si mescolava ai minatori e ai
contadini, non aveva mai un soldo, girava di notte disperato.
Ogni cosa, piccola cosa quotidiana, diventava ostacolo o ragione di infelicità. Credeva che il mondo intero tramasse
contro di lui. Vincent sapeva solo... dipingere.
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22. Goya e Van Gogh
Vincente era uno dei principi di Hollywood. I suoi film
traboccavano di eleganza, spettacolo, un kitsch di grande
classe. Niente di reale. Basti pensare a film come Un americano a Parigi, Gigi, Il bruto e la bella, I quattro cavalieri
dell’apocalisse. Protagonista era sempre lo stile o la ricchezza. Pittore e regista un denominatore comune lo avevano, il
colore. Fulgido, intenso, esponenziale. Solo che in Minnelli
erano i vasi di fiori sulle tavole o gli arredi del Plaza o del
Ritz. In Van Gogh era il sole sulla multicolore pianura di
Arles, i corsi d’acqua olandesi con quei ponti, i cieli tormentati e in movimento degli autunni del nord.
Verità
Ma quando Vincente raccontò la storia di Vincent, ne fece
contemporaneamente un capolavoro di cinema e di verità. Riuscì a combinare le due chimiche, grande spettacolo e
grande realtà, il mezzo era la combinazione delle due culture
del colore. Van Gogh lo fa Kirk Douglas. Uno degli uomini
più belli del cinema trasformato in un brutto pieno di arte.
Come aveva fatto Saura con Goya, anche Minnelli riproduce
gran parte di dipinti di Van Gogh. Dai Mangiatori di patate,
alla Piana di Arles, e poi I Girasoli, le stanze povere, le piazze
e gli edifici, i ritratti e gli autoritratti, I Cipressi, L’Uliveto, La
notte stellata. A altri. Riesce anche, il regista, a dare anche una
lezione di tecnica pittorica rilevando un dibattito sul colore
fra Van Gogh e Gauguin (Anthony Queen). Minnelli non ha
dubbi sui Corvi. Per lui è l’ultima opera. Vincent è lì ai bordi
del campo e viene aggredito dagli uccelli. La sua spatola porta
colpi veloci, spaventati, rabbiosi. Il sentimento sale, diventa
angoscia. Davvero non c’era spazio, e tempo, per un’opera
successiva.
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23. Michelangelo
23.
Michelangelo
Una scena da Il tormento e l’estasi (The Agony and the Ecstasy) di
Carol Reed (1965).
Ho già scritto che il rapporto del cinema con l’arte figurativa ha molti aspetti. Van Gogh e Goya sono soggetti
perfetti per un film, parlo della loro vita, drammatica, persino tragica, e ricca di vicende che rendono quasi inutile
uno sceneggiatore. Inoltre l’olandese e lo spagnolo sono una
miniera estetica strepitosa. Minnelli e Saura, lo dico ancora
come piccolo paradosso, illustrando le opere di quei due, si
trovavano le più belle scenografie del mondo, già pronte. E
non ci sarebbe mai stato scenografo all’altezza. Dunque film
biografici intensi, fortunati, perfetti, appunto.
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Interessante
Michelangelo Buonarroti fa parte di questo aspetto. Uomo
davvero interessante, rapporti dolenti e profondi col suo
tempo – si parla di papi e famiglie regnanti – soprattutto
uomo non facile, ma questo naturalmente è scontato: di artista trattasi. E poi l’arte: scultore e pittore... discreto. Inoltre architetto e poeta, e ancora, filosofo.
Visse 89 anni, fece davvero molto, ma di getto, se devi
recuperare nella memoria immediata un’opera, l’opera è
probabilmente la Sistina. E anche questo sarebbe un paradosso, perché Michelangelo si considerava uno scultore,
dipingere era per lui un ripiego, quasi un dolore. Anche se
gli riusciva abbastanza bene, appunto.
Fu proprio la Sistina a dargli quella dimensione, la consapevolezza della pittura, anche se avrebbe continuato a dire
che quelle opere erano semplicemente sculture dipinte. Le
prospettive, le anatomie erano quelle della scultura. Comunque, ribadisco, la fusione, la chimica, erano... buone.
Umanità
La Cappella Sistina è una della maggiori opere d’arte
dell’umanità. Fu voluta da papa Sisto IV, un della Rovere
che la fece costruire fra il 1473 e l’81. Ma il testimone passò
a suo nipote Giulio II. Fu lui che se la vide con Michelangelo. Quel papa non fu solo... un papa, ma uno statista e un
generale. Tanto energico da essere violento. A proprio agio
in battaglia piuttosto che in chiesa. E la Chiesa la difese da
tutti, organizzò una Lega santa e riuscì a scacciare i francesi dall’Italia. Fu lui ad affidare l’affresco della Cappella a
Michelangelo. Gli offrì, nel 1508, un contratto di quattro
anni e un compenso di duemila ducati, detratta la pigione
della casa che lo ospitava. Giulio II diede all’artista anche le
proprie indicazioni, protagonisti sarebbero stati gli apostoli.
111
Il quadro che visse due volte
23. Michelangelo
detratta la pigione. Ma glielo fa pesare: “Mi costi più che
assediare una città”. Il film registra ciò che davvero accadde:
la struttura costruita dal Bramante, architetto ufficiale del
pontefice e antagonista di Michelangelo. Il fiorentino la fa
abbattere e monta un pontile suo, per anni dipingerà sdraiato sulla schiena.
Michelangelo Buonarroti, La creazione di Adamo, 1511 ca., affresco,
280x570 cm, Città del Vaticano, Cappella Sistina, Musei Vaticani.
Il Buonarroti accettò malvolentieri, non era carattere da fare
qualcosa che non aveva voglia di fare, così scomparve. Solo
la protezione dei Medici lo mise al riparo dall’ira del papa.
Questa vicenda fa parte di un film quasi perfetto, soprattutto nella chiave biografia-opere, detta sopra. Nel 1965 il
regista inglese Carol Reed, quello de Il terzo uomo e di Oliver, decise di dedicare un’opera a Michelangelo e le diede
un titolo appropriato, Il tormento e l’estasi.
Charlton Heston è l’artista e Rex Harrison, il papa. È
tutto un esercizio di virtuosismi. Rispettata la verità storica
e quella artistica.
Due personalità così dure e travolgenti, si scontrano
dall’inizio. Michelangelo si è ritirato nella cave di Carrara, suo infernale paradiso. Vaga per i monti e una mattina,
all’alba, le nuvole compongono la figura di un vecchio adagiato, che tende una mano. Sarà il dio della creazione.
Raggiunge il papa che sta assediando Bologna, in mezzo
alla battaglia gli mostra i disegni che saranno quelli definitivi, niente a che vedere con la primaria indicazione. Giulio
ne è entusiasta e gli porta il compenso a seimila ducati...
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Nudità
I cardinali contrastano il suo lavoro, non tradizionale, e poi
tutte quelle nudità. Michelangelo, coi suoi soliti modi irruenti, magari arroganti, risponde: “Quando dio fece l’uomo a propria immagine non gli mise le mutande”. E il papa
sta con lui. Quando ormai l’opera ha preso forma e se ne
intravede la grandezza Giulio dice: “volevo un affresco, lui
mi ha dato un miracolo”. Michelangelo risale il pontile per
gli ultimi ritocchi. Il papa, fragile, anziano, è lassù, che studia
l’affresco. Dice a Michelangelo: “Tu lo vedi così dio? Non
irato, non vendicativo, ma forte e paterno”. L’artista risponde: “Egli conosce anche l’ira, ma l’atto della creazione è un
atto d’amore”. “Quella che hai dipinto non è un’immagine
di dio, ma una prova di fede”. “Non ho mai pensato che alla
fede occorressero prove”. “Non se sei un santo, oppure un
artista. Io sono solo un papa...dio spesso non ha accolto le
mie preghiere, forse avrei dovuto essere un artista, forse mi
avrebbe ascoltato, come pare abbia ascoltato te. È giusto, lo
servi meglio tu di me”. E conclude: “Quando sarò davanti a
lui deporrò sulla bilancia la tua Sistina, probabilmente servirà
ad abbreviarmi il purgatorio”. Trattasi di Michelangelo Buonarroti, quello dell’incanto, della grazia, dei miracoli fatti qui,
sdraiato con un pennello che ti sgocciola in faccia. Il cinema
di fronte alla Sistina, il regista di fronte all’artista. Confronto
davvero improprio, e impari. Ma qui, il cinema, nel suo piccolo, ha divulgato, e il suo contributo lo ha portato.
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24. Schnabel racconta Basquiat
24.
Schnabel racconta Basquiat
Due importanti artisti, insieme. Julian Schnabel, artista e
regista, racconta Jean Michel Basquiat, artista.
Il film è Basquiat, del 1996. Vocazione e predestinazione, è un destino quello che segna la nascita di Schnabel,
David Bowie (Andy Warhol) e Jeffrey Wright (Jean-Michel Basquiat)
in una scena di Basquiat di Julian Schnabel (1996).
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Brooklyn 1951, da una famiglia ebrea. Inizia con la pittura
per gioco, facendo domanda per un corso al Whitney Museum. Viene accettato, e da quel momento assume lo status
di pittore. Certo, lo era già.
Naturalmente la qualità c’è, soprattutto in prospettiva,
ma il ragazzo si fa notare da gente importante, come Mary
Boone, gallerista di New York, che nel 1979 organizza la
sua prima mostra personale, decisamente utile, perché l’anno successivo Schnabel si vede aprire le porte della Biennale
di Venezia. Dunque viene assunto e consacrato nome importante degli anni Ottanta, con un segno distintivo che si
fa notare: i quadri fatti con i piatti in ceramica rotti. Un’idea
originale che lo rende riconoscibile all’interno di un quadro
delineato.
Nel 1996 Schnabel scrive e realizza un film su un grande personaggio della storia dell’arte e della storia americana
del suo periodo: il giovane e ribelle Basquiat, ragazzo nero
del Bronx, scoperto da critici e galleristi fondamentali in
quella stagione, e poi sostenuto da qualcuno che davvero
contava, faceva testo come si dice, Andy Warhol, che, dopo
averne riscontrato il talento, lo adottò nella sua Factory a
New York, cercando, nei limiti del possibile, di dare al ribelle indicazioni utili per il percorso artistico e per i rapporti
umani.
Per essere una star il talento puro non è sufficiente. C’è
forse anche una parte di leggenda nel primo incontro fra
Basquiat e Warhol. Basquiat nel film per caso incontra
Andy Warhol, noto ormai da vent’anni a livello internazionale, come artista ma anche come promotore di tutte le arti,
di nicchia e non, dal cinema, alla fotografia, alla televisione.
L’impatto è questo: Andy Warhol che, seduto a un tavolino in un ristorante, apprezza gli acquarelli del giovane
artista di strada, e lo prende con sé. Dopo un anno si rivede
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Il quadro che visse due volte
il giovane nello studio del maestro, ormai amico. Girava fra
le pareti guardando, senza manifestare. Andy parlava con
questo e con quello, poi si accorse di qualcosa di strano,
l’ospite stava lavorando con un pennello su una parete. Si
avvicinò e vide che la parete era qualcosa di più, era un’opera, Basquiat la stava ritoccando, inseriva piccoli elementi
in certi spazi e altri li ricopriva di colore, sì, li cancellava.
In una certa chiave qualcuno direbbe “qualche centinaio di
migliaia di dollari sfumati, ma Warhol non perdeva mai la
calma, non alzava mai la voce e non aumentava la velocità
del suo gesto. Guardò l’opera e disse: “è meglio di prima”.
Anche Basquiat era nato a Brooklyn, nel 1960, da una
famiglia borghese, poco compatibile con l’immagine, che
da famoso, gli era stata attribuita, “nero del ghetto”. Elemento importante per la base su cui si muoveva e per la sua
formazione. Partiva dai muri, dipingendo graffiti e scritte,
distinguendosi dal panorama del periodo, dove, insieme a
lui si facevano strada altre figure promettenti, che avrebbero riscosso grande successo, come Kenny Sharf e Keith
Haring.
Raro
Basquiat era un personaggio attraente per Schnabel, sia per
il talento, indubbio e irripetibile, sia per vicenda umana:
un giovane raro per istinto, con profonde problematiche di
personalità, droghe e vita in generale, che raggiunge rapidamente una grande fama, spegnendosi poi a soli 28 anni.
Una sorta di legame curioso, e forse un po’ “geloso”, con un
ragazzo nato con il riconoscibile dono della pittura. Materiale perfetto, forse un po’ romanzato, per un bel primo
film. E così è stato.
L’arte nell’arte. La storia dell’arte in un film. Il regista
inizia il racconto citando Van Gogh: mentre il critico d’arte
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24. Schnabel racconta Basquiat
della rivista “Artforum”, Rene Ricard, il primo a credere in
lui, legge ad alta voce i suoi appunti sull’artista olandese che
doveva rivoluzionare la pittura, ma che in vita aveva venduto un solo quadro, ecco che sbuca da una scatola di cartone
alle sue spalle un giovane dai capelli rasta, che dormiva lì,
nel parco. Da qui inizia la storia.
Schnabel pedina Jean Michel Basquiat, ma lo fa con l’occhio di chi queste cose le ha viste, e senza dubbio capite:
entra nei luoghi dove Basquiat ha vissuto e lavorato, e li
fa vivere allo spettatore. Immagini reali per le strade, per i
locali, e immagini irreali, di sogni, trip, fantasie, a volte malate; racconti e video di amici; accompagnamenti musicali,
sia di brani classici, che del periodo, da Lou Reed e David
Bowie, a Miles Davis, o ancora la nascente musica hip hop,
come sfondo di una vita maledetta. Lo insegue mentre scrive per le strade del suo quartiere, quando ancora si firmava
Samo, e mentre disegna. Un istinto forte da non poter resistere neppure su di un tavolino del bar, dove Basquiat crea
una piccola opera d’arte, un ritratto con lo sciroppo d’acero.
Schnabel mette in gioco la sua arte cinematografica fatta
di escamotages che rendono il racconto vivido e complesso,
con un cast importante, con personaggi come David Bowie,
che fa Warhol, Dennis Hopper, Willem Defoe, Benicio
del Toro e l’allora esordiente Jeffrey Wright che interpreta l’artista. Colori forti su grandi tele, volti abbozzati, semi
graffiti, parole su parole, scritte cancellate, tratti biografici,
animali, esseri neri, corone, pulci, parassiti, sanguisughe,
forme, volti e figure primordiali, giochini da risolvere...
Il Basquiat/Wright viene documentato dal regista, che,
verso la fine, lo fa intervistare da un giornalista, interpretato da Christopher Walken, che in poco gli riassume la
sua breve e intensa vita da famoso artista: “Lei ha fatto 23
personali, ha partecipato a 43 collettive da Zurigo a Tokyo,
117
Il quadro che visse due volte
hanno scritto su di lei più di 500 articoli, e poi ha cambiato galleria moltissime volte. Ha fatto il dj nei locali più
alla moda, è stato uno dei più giovani artisti in assoluto che
abbia partecipato alla biennale del Whitney, ha prodotto
un disco rap, si dice anche che lei sia anche un donnaiolo,
mmm ? È uscito con Madonna un paio di mesi, no? E tutto
questo alla veneranda età di 24 anni. Verrebbe da chiedersi
se è rimasto ancora qualcosa che Jean Michel Basquiat non
abbia ancora fatto. Insomma la domanda è: che cos’è che la
fa alzare al mattino ?”.
Basquiat/Wright ride e indicando la videocamera dice
“La odio quella, la spenga”. Il giornalista imbarazzato gli
chiede scusa e riprende guardando i suoi dipinti: “Ci può
decifrare tutte queste scritte ?”. “Decifrare ? Sono parole”.
“Sì, ma di chi sono queste parole, le prenderà pure da qualche parte”. Basquiat stupito “Non so, lei chiederebbe a un
musicista, chiederebbe a Miles, quella nota che hai fatto da
dove l’hai presa ?”. L’intervista si conclude con la domanda
“Perché le persone le disegna così rozze ?”. “La gente tendenzialmente è piuttosto rozza, non ne conosco di persone
pure”.
In pochi minuti un quadro riassuntivo dell’umano Basquiat, della sua vita, con una chiusura univoca e netta, un
suo pensiero sulla realtà che lo circonda. Una scusa semplice, l’intervista, per riprendere le fila del personaggio che
Schnabel ha deciso di testimoniare, da autore che riconosce
e lascia un tributo a un grande, giovane talento.
118
25.
Frida
Frida Kahlo: mai rapporto fra cinema e arte è stato più diretto. E come spesso accade il film su di lei ha rilanciato
esponenzialmente la popolarità della pittrice messicana. E
se è così, va detto che il cinema ha fatto giustizia. Frida era
donna di molti e vasti talenti, paradossalmente valorizzati
dalla sua vita travagliata e dolorosa. Un’altra delle cifre fondamentali dell’artista era la ricerca, un’altra l’esperimento.
Tutto questo emerge dal film che nel 2002 Julie Taymor
ha realizzato con passione autentica. La regista non è stata
una sorta di primo motore, uno scopritore, già da qualche
tempo il movimento dell’arte aveva recuperato il lavoro e
l’immagine della Kahlo organizzando mostre importanti.
Frida era una donna irrequieta capace di dare concretezza alle sue idee.
Pensava e agiva. A 17 anni ebbe lo spaventoso incidente,
così ben rappresentato dal film, che le condizionò la vita.
Oltre a numerose fratture dovette subire una ferita devastante: un corrimano dell’autobus investito da un tram le
oltrepassò un fianco per uscire dalla vagina.
Costretta all’immobilità e a un dolore perenne, reagì rilanciando ambizione e arte. Immobile, supina a letto, riuscì
119
Il quadro che visse due volte
25. Frida
comunque a dipingere. Si era fatta installare uno specchio
sul soffitto e dunque fu costretta a diventare il primo soggetto delle sue opere.
Assoluto
Frida Kahlo è tra gli artisti che in assoluto hanno firmato
più autoritratti. Era una cosiddetta passionaria, e gli anni
trenta in Messico le erano, in quel senso, favorevoli. Il grande amore della sua vita fu Diego Rivera, pittore importante, attivista politico. Ma fu un amore complicato, aperto a
tutto. Frida era una donna d’impatto, di sentimenti estremi.
Ebbe molti amanti, uomini e donne. Conobbe ed ebbe una
relazione con Trotzky transfuga dalla Russia, minacciato da
Lenin.
Conobbe André Breton, fu amica della grande fotografa Tina Modotti. Tutta gente davvero poco convenzionale. Intelligenze che stavano lasciando segni decisivi in
quell’epoca.
Non era semplice, allora, essere una donna artista, occorreva un’energia e una vocazione superiori. Anche la pittura
della Kahlo non poteva essere convenzionale, il talento era
palese, ma lo stile tra il naif e il surrealista, non era amato
da tutti.
Frida Kahlo (Coyoacán, 6 luglio 1907 – Coyoacán, 13 luglio 1954).
120
Femminile
La “mano” del film è squisitamente femminile, naturalmente. La Taymor possiede una personalità, e anche un’energia,
adeguate per rapportarsi con la Kahlo.
Il film ha uno stile surreale, un continuo gioco magari
un po’ kitsch tra vero e falso, tra dipinto e realtà, con il
sottofondo, appunto, di una storia e personaggi dai tratti
molto forti. La regista sceglie un’attrice emergente, Salma
Hayek, che diventa Frida Khalo: è fisicamente simile, più
121
Il quadro che visse due volte
25. Frida
lizza un espediente per rendere più vivida la figura della piccola donna. Spesso parte dai dipinti di Frida, per la maggior
parte autoritratti, per arrivare alla scena in pellicola: dei tableaux vivants.
Figure dipinte su tela che si animo e prendono forma e
vita sviluppandosi nel film. Dunque un film certo benemerito, al servizio di una donna e di un’artista che fa parte della
vita e della storia della pittura.
Salma Hayek in una scena di Frida di Julie Taymor (2002)
bella (si tratta di cinema, di finzione), ma cerca di aderire il
più possibile, con le dovute licenza da cinema, a una donna
che non si vergognava dei suoi baffi, con quelle sopracciglia
particolari, che non è mai stata bella, ma che è sempre piaciuta a tutti, uomini e donne. Come accade in questi casi
non è stato semplice, per Salma, liberarsi di Frida.
Il contesto è quello appropriato, il Messico nei primi
anni del Novecento, la casa Azul (casa azzurra) a Coyachan,
dove Frida cresce e ritorna a vivere con l’amato e impegnativo Diego Rivera.
I personaggi che la circondavano: l’artista rivoluzionario
Siqueros è interpretato da Antonio Banderas; Ashley Judd
dà corpo e volto a Tina Modotti, la prima moglie di Diego; il fuggitivo Trotsky è Geoffrey Rush; Edward Norton
è il “gringo” Rockefeller, che cerca di “comprare” l’arte di
Rivera.
Dunque la persona: l’arte, in particolare la pittura. Ma
anche le opere all’interno del film. Julie Taymor infatti uti122
123
26. Bruegel. Il cinema traduce l’arte nobile
26.
Bruegel.
Il cinema traduce l'arte nobile
Lech Majewski è un nome che legittimamente si pone nella
storia del cinema. Non è un innovatore, un legislatore, ma
col suo I colori della passione ha composto un’opera che traduce l’arte in cinema. Accetta la sacrale prevalenza dell’arte nobile, si pone al suo servizio, e firma un unicum, anzi,
come detto sopra lo perfeziona, perché c’erano stati altri autori che si erano applicati a quella formula, grandi autori.
Qualche richiamo storico è opportuno. Tarkovskij aveva
già lavorato su Bruegel (I cacciatori nella neve), così come
Kurosawa (Sogni) e Rohmer (La nobildonna e il duca). Minnelli aveva animato Lautrec (Un americano a Parigi) e Van
Gogh (Brama di vivere). Un lavoro intenso, quasi dolente,
lo si deve a Saura che ha ricostruito sul set i grandi lavori di
Goya. E qui si possono rilevare analogie curiose e potenti,
che si intrecciano fra presente e passato, fra opere e autori.
Goya era a Madrid quando nel 1808 Napoleone invase la
Spagna.
La rivolta, violentissima, esplodeva ovunque e altrettanto violenta era la repressione. Goya dunque c’era dentro e
non poteva non assumere quella vicenda a modo suo. Così,
nel 1813 compose uno dei più drammatici quadri dell’arte
124
Rutger Hauer in Bruegel, i colori della passione.
spagnola e del mondo: “La fucilazione sulla montagna del
Principe Pio”.
La sequenza di Saura rappresenta la fucilazione come
punto d’arrivo. Raramente pittura e cinema si sono combinati con tanta efficacia. Saura conosceva bene il sentimento di un paese governato da una dittatura, per anni aveva
convissuto col regime franchista. Bruegel aveva vissuto a
Bruxelles. Carlo V, imperatore, re di Spagna, cattolicissimo, si era opposto al luteranesimo prima con fermezza, poi
con violenza, successivamente aveva abdicato a favore di
suo figlio Filippo II che perfezionò la repressione violenta
del padre. Bruxelles era allora una città profondamente attaccata dalla controriforma, dove i neoprotestanti venivano
perseguiti, torturati e condannati a morte. In quella città, in
quegli anni, viveva Pieter Bruegel. Il contesto era dunque
pericoloso e violento, ma, paradossalmente, congeniale a
una fase dell’opera del grande artista.
125
Il quadro che visse due volte
1981
Come Saura, Goya e Bruegel, anche Majewski ha toccato
un regime. Nato a Katowice in Polonia, formatosi all’Accademia di Belle Arti di Varsavia, nel 1981, ventottenne, si
trasferì in America.
Quell’81 non è casuale, è proprio in quell’anno che in
Polonia venne proclamato lo stato di guerra civile, per far
fronte a quell’evoluzione storica, inevitabile, che era Solidarnosc. Franco, Napoleone, Filippo II, Jaruzelski: oppressori che negavano le libertà. Una situazione intollerabile per
artisti, per definizione, spiriti liberi. Ma, come detto sopra,
situazione “paradossalmente congeniale”. Chissà se questo
filo di robusta sezione ha legato gli intenti e i contenuti,
“atemporalmente”, di questi artisti. Fatte le debite distinzioni di categorie e di discipline, Majewski non fa parte di
quella nobiltà, ma la sua dotazione è importante e completa.
È musicista e poeta, ed è pittore naturalmente. Il regista
polacco ha dunque lavorato su “La salita al calvario”, un olio
su tela, cm. 124 x 170, datata 1564. Si trova al Kunsthistorisches Museum di Vienna. È l’opera di maggiori dimensioni
di Bruegel.
Fiammingo
La composizione rappresenta più di 150 personaggi inseriti
in un paesaggio squisitamente fiammingo. I costumi sono
naturalmente cinquecenteschi, ma non tutti. Nel centro
dell’opera prevale Gesù che cade sotto il peso della croce,
lo accompagnano Giovanni, Maria e le pie donne. Il loro
abbigliamento è ideale, atemporale, il gruppo si isola dal
resto di quel mondo intorno.
Comanda, in alto, un mulino, sullo sfondo si staglia, nebulosa, Gerusalemme. Importante, altamente simbolica è la
ruota della tortura sulla quale è issato il malcapitato eretico
126
26. Bruegel. Il cinema traduce l’arte nobile
I colori della Passione, ripresa da La salita al Calvario, Bruegel.
divorato dai corvi. E sotto la ruota vigila un personaggio,
forse lo stesso artista. E poi contadini, soldati, saltimbanchi e tutte le altre creature del pittore. Ciascuna con una
sua identità studiata. I costumi sono naturalmente secondo
filologia e cultura.
Il regista accompagna Bruegel nell’arte e nel privato.
L’artista prepara i disegni preliminari, spiega la composizione al signorotto locale, all’altezza di capire estetica, filosofia, struttura. Moglie e bambini di Bruegel, così come i
contadini e i soldati spagnoli, sono un esercizio di autentica
accademia di costumi. I colori del dipinto sono trasferiti alla
perfezione nel fotogramma. Insomma una simbiosi assoluta
fra le due discipline. Rutger Hauer è Bruegel.
L’attore è... di quelle parti, è olandese, avrebbe l’età (68)
per essere il padre di Bruegel, trentacinquenne all’epoca del
dipinto, ma è coinvolto ed efficace da giustificare quella licenza. Quando il pittore termina la composizione, lo scher127
Il quadro che visse due volte
mo diventa tela, l’obiettivo parte dal particolare per allargarsi su tutto l’insieme. Quella “Salita al calvario”, scelta da
Majewski è dunque uno degli incanti del mondo. Se, come
detto, il regista non è proprio un inventore, lo fu invece Pieter Bruegel il vecchio, che a metà Cinquecento, dopo aver
toccato il nostro Rinascimento, evolveva i modelli verso una
libertà stilistica che superava il puro figurativo e rivelava un
embrione di surrealismo.
Majewski aveva a disposizione il materiale migliore, una
magnifica piattaforma di sortilegio e di privilegio. Non ha
inventato, ma la sua gestione è stata all’altezza di quel materiale. Arte figurativa & cinema: l’unicum gli appartiene.
27.
Picasso e il cinema
A Milano, nel 2013, si è svolta una mostra su Pablo Picasso
a Palazzo Reale. Spesso, quando si sente un grande nome
in una retrospettiva ultimamente si tende ad essere un po’
scettici sulla qualità della mostra. Non è il caso di questa,
Clouzot, Mistero Picasso.
128
129
Il quadro che visse due volte
Antony Hopkins, Surviving Picasso.
dove sono presenti 200 lavori dal Museo Picasso di Parigi,
dunque opere importanti. Con un richiamo, in sala delle
Cariatidi, su grande schermo, alla Guernica, il capolavoro
che nel 1953 fu portato a Milano proprio dallo stesso Picasso, oggi considerato troppo rischioso da trasportare.
Sempre nello stesso periodo, in una sola giornata dalla
mattina alla sera, a Milano c’è stata una rassegna cinematografica e di documentari dedicata al maestro spagnolo: un
omaggio allo spazio Oberdan dal titolo – direi evocativo –
Tra cinema e Arte: Pablo Picasso.
Dunque il cinema ancora una volta è presente, e ancora
una volta attinge riportando alla luce una storia passata di un
grande maestro dell’arte contemporanea (forse il più grande) che, oltre ad essere stato l’inventore di un nuovo modo
130
27. Picasso e il cinema
di “vedere” le cose attraverso la scomposizione e la scoperta
di altre dimensioni in pittura, mezzo che di dimensione ne
aveva sempre rappresentata una sola, ha raggruppato intorno a se grandi personaggi e storie dei primi del Novecento.
In Midnight in Paris, film uscito quest’anno e firmato da Woody Allen, c’è un personaggio cardine della vita
di Picasso (e di tanti altri artisti e intellettuali dell’epoca),
Gertrude Stein, che, nello studio di casa tua contornata da
dipinti, chiede un parere niente meno che a Hemingway e
Fitzgerald su un dipinto di Pablo Picasso, “la Baigneuse”
(una figura di un nudo in posizione contorta) dicendo “he
has universality, but not objectivity” (lui ha universalità, ma
non l’oggettività). Una recensione live, acuta e competente,
da una che davvero se ne intendeva e viveva in mezzo agli
artisti e alle opere. Una frase reale, sopra un artista che è
diventato universale in tutto ciò che faceva. Il ritratto era di
una sua amante, Adriana, che nel film, interpretata da Marillon Cotillard, racconta la sua storia di amante di Picasso.
Allen racconta immaginandosi la vita tra questi grandi
artisti. Ma Picasso è stato protagonista dello schermo cinematografico più volte, sia per pura e poetica documentazione del suo lavoro, da Luciano Emmer con Incontrare
Picasso (1954), in cui le immagini e i dettagli delle opere
si raccontano praticamente da soli, e dove spiamo l’artista
al lavoro, o Visite à Picasso (1959), di Paul Haesaerts, e ancora il documento capolavoro di Henry George Clouzot,
Mistero Picasso (1956), in cui il regista riprende il maestro
attraverso un vetro (un po’ come fece poi Hans Namuth con
Pollock) e dunque vediamo Picasso dipingere come se fosse
davanti ai nostri occhi, quasi a contatto. E poi il Picasso
umano, quello dalle diverse amanti e i molti amici, l’artista
geniale e matto, che enuncia poesie, fuma sigarette con la
maglietta a righe orizzontali bianca e nera, dipinge, mostra
131
Il quadro che visse due volte
il suo lavoro, si arrabbia, si diverte … come nel ritratto che
James Ivory gli dedica in Surviving Picasso (1996), in cui
un bravissimo (meno bello dell’artista vero però) Anthony
Hopkins interpreta il grande spagnolo concentrandosi sulla
figura di pittore e di amante della giovane Françoise (Natasha Mc Elhone). Quasi quarant’anni di differenza, lei 23
lui 60, per una storia con un artista, allora, nel 1943, già
famoso, tra amori, passioni, alti e bassi, assurde frequentazioni, e pesanti tradimenti. Il film di Ivory è tratto dal
romanzo della protagonista, Françoise Gilot, dal titolo Vita
con Picasso – “ora per ora, dieci anni nell’intimità con un genio”–. Quando si tratta di Pablo Picasso di materiale da raccontare, seppure romanzato, ne esiste molto. Un’altra opera
cinematografica in cui arte e cinema si incontrano è i Colori
dell’anima (2004) di Mick Davis dove la vita di Pablo si
incrocia parallelamente con quella di un altro maestro della
nostra arte, Amedeo Modigliani. Andy Garcia interpreta
il pittore italiano, mentre Omid Djalili interpreta Picasso.
Anche qui la pittura si scontra con temi umani quasi ossessivi, come ossessive, per amori, passioni, eccessi, erano le
vite di questi due personaggi.
Anche il grande Orson Welles non resiste alla tentazione di inserire Picasso in una sua surreale storia, F for Fake
– Verità e menzogna (1973), in cui Welles, con mantello e
cappello nero, tra giochi di parole e immagini, spiega quanto sia facile distorcere la realtà attraverso appunto un racconto o un’immagine male interpretata. Nella seconda parte
film, per spiegare la sua tesi, utilizza proprio il personaggio
di Picasso, non reale però, ma “rubandone” l’intimità attraverso una serie di fotografie che il regista anima, inventando
un racconto del maestro nella sua amata isola Ibiza, dove
passava la maggior parte del tempo in estate. Qualche anno
dopo, nel 1978, c’è un primo film “reale” sul pittore : Le av132
27. Picasso e il cinema
venture di Picasso, definito “un onesto tentativo di ricostruire la figura di Pablo Picasso, senza romanzarla. Il famoso
pittore è raccontato attraverso i suoi rapporti con le donne,
le sue convinzioni politiche e soprattutto durante la meravigliosa estasi del suo lavoro” (recensione su Mymovies.it).
Dunque ripeto, quando il soggetto è così interessante
sotto diversi aspetti, in questo caso alcuni che hanno rivoluzionato la storia dell’arte, la nostra estetica e il modo di
guardare le cose, il cinema compare, estrapola ciò che gli è
più congeniale, e nasce spesso qualcosa di buono.
133
28. Ancora un passo indietro. I due Renoir dal cinema alla pittura
28.
Ancora un passo indietro.
I due Renoir, padre e figlio:
dal cinema alla pittura
Allo Spazio Oberdan di Milano, in uno dei tanti incontri,
è stato presentato Renoir, diretto da Gilles Bourdos. Il film
faceva parte della sezione “Un certain regard” nell’ambito
dell’ultimo festival di Cannes. È un film di grande qualità,
ed è incomprensibile come non abbia trovato una distribuzione italiana. O meglio è comprensibile essendo nota la…
disattenzione, chiamiamola così, dei nostri cineasti.
Si raccontano gli ultimi anni di Auguste (Michel Bouquet), gran maestro dell’Impressionismo, ancora attivo nella
sua proprietà in Costa Azzurra, a partire dal 1915. Il vecchio pittore è devastato dalla sclerosi, che gli ha deformato le mani, ma non rinuncia al lavoro. Lo sostengono una
schiera di aiutanti, tutte donne, lo trasportano sulla sedia
a rotelle, gli fasciano le mani, gli infilano il pennello fra le
dita, gli preparano la tavolozza: Renoir (1841-1919) non ha
la forza per trattare i colori, ma possiede ancora la grazia per
disporli sulla tela. Le opere di quel periodo sono capolavori
magari ancora più intensi di quelli precedenti. Il disegno
è fragile e sfumato, quasi invisibile, ma i colori dichiarano
una magia maggiore. “Gli infiniti nudi,” “Le bagnanti”, “La
colazione sull’erba”, “Le ragazze al piano”: prendono for134
La locandina del film
Renoir, di Gilles Bour­
dos.
ma lenta, ma la magia si compone. Ed è il regista Bourdos
a comporla seguendo la mano deformata del vecchio. Sfocando là dove sfoca il colore. Perché Renoir, in quella sua
ultima stagione, aveva talmente rarefatto il disegno fino a
quasi sfiorare l’astrazione. E questa evoluzione la si deve al
film, che dunque non solo rappresenta la vicenda umana, la
vita finale dell’artista, ma anche il passaggio davvero immane fra il figurativo e la successiva ricerca che confluirà nella
mutazione della pittura.
Ed è lì che arriva Jean, il figlio (1894-1979). Sopraggiunge al cancello lentissimo, perché procede sulle stampelle. È
stato ferito in guerra. La casa, l’atelier, tutto gira intorno al
grande vecchio. Domestici e modelle, e ora il figlio, tutto è
in silenzio, per non disturbare l’ispirazione, e … il carattere
135
Il quadro che visse due volte
non facile del malato. Ma qualcuno arriva, a catalizzare, a farsi vedere e rispettare. È Andrée Heukling (Christa Théret),
una modella che sembra uscita da un dipinto di Tiziano. Una
carne, una testa, un corpo fatti per essere dipinti. Da Renoir.
La ragazza si aggira nuda nei prati, fra i cespugli e i ruscelli.
Auguste la dipinge, Jean la guarda. Entrambi, in modi diversi, ma neppure tanto diversi, sono innamorati di lei.
Nel frattempo Jean sta nutrendo la sua vocazione: sarà
per il cinema ciò che suo padre è stato per la pittura. Proietta i primi filmati con un rudimentale proiettore. È come se
sapesse che fra poco il “figurativo” sorpassato dalla pittura,
diventerà prerogativa del cinema. Il cinema come rappresentazione del reale, con qualcosa in più, naturalmente, il
movimento.
Jean intende, una volta guarito, tornare al fronte, Andrée, disperata, lascia la proprietà, scompare. Manca a tutti.
Jean la cerca, la trova in un bordello, se la riporta a casa.
Tutto il gruppo si ricompone. Il film finisce lì. Ma è doveroso proseguire il racconto, che è uno sviluppo inevitabile come un destino segnato. Perché al passaggio artistico
quadro-film segue quello umano. Andrée nel 1920 ha sposato Jean. Il regista ne ha fatto la protagonista, col nome di
Catherine Hessling, di alcuni dei suoi primi film (La file de
l’eau, La petite marchand d’allumettes, Nana).
Nel tempo i due si separarono. Per morire nello stesso anno, il 1979. Come detto sopra Jean Renoir è uno dei
massimi artisti di cinema di sempre. Fa parte della spina
dorsale di quella disciplina. Almeno due suoi titoli sono perennemente presenti nella parte più alta (diciamo nei primi
dieci) della classifiche riconosciute, La grande illusione e La
regola del gioco.
29.
Un artista raccontato dal
cinema: Ai Weiwei e i diritti
umani.
La Cina si apre
“Viva la libertà. E difendiamo la nostra cultura e il nostro
Paese”. È questo lo spirito sovversivo, quasi rivoluzionario
di un autore-artista come il cinese Ai Weiwei.
L’installazione Semi di girasole di Ai Weiwei alla Tate Modern Gallery.
136
137
Il quadro che visse due volte
Il ruolo dell’artista e dell’intellettuale nell’arte figurativa,
nel cinema, nei media che rispecchiano ambiti culturali definiti, è sempre stato quello del portavoce di un malessere
comune. Una continua, magari pericolosa opposizione alla
cultura del suo Paese, in difesa dei diritti inalienabili dell’essere umano, la libertà di espressione e di tutto: sono le indicazioni di quello che è forse il “nome” più internazionale
della comunicazione e dell’arte della Cina.
Il cinema ha rilanciato un segnale decisivo del percorso
di Wei Wei, attraverso un documentario che racconta, in
chiave completa, il suo impegno artistico e umano, sociale e
politico, e accorpa tutte le discipline che l’artista ha toccato.
Il titolo del filmato è Never Sorry (mai dispiaciuto), per la
regia di Alison Klayman. Il riconoscimento è arrivato, ed è
importante: Premio Speciale al Sundance Festival nel 2012.
Il critico Emanuele Sacchi definisce Ai Weiwei “Simbolo del dissenso nei confronti del governo cinese, tanto da
ricordare – persino nel look – l’epitome del dissenso antisovietico Solzenicyn” … dunque quale soggetto poteva risultare più accattivante?
Nato a Pechino nel 1957, Ai Weiwei muove il primo
passo proprio nel cinema, passione primaria dell’artista cinese, che si diploma all’Accademia del cinema di Pechino.
Da qui parte la fase pittorica di Ai e, dopo aver creato il
gruppo Stars (stelle) nel 1988 si trasferisce nella città dominante di quel mondo, che ha accolto molti artisti della
sua generazione (come l’italiano Maurizio Cattelan): New
York.
Ma Pechino (e la Cina) rimarranno sempre il suo tema
principale, tra amore e odio nei confronti delle autorità che
a tutto si oppongono. Le opere più importanti di Ai Wei
Wei hanno infatti un’evidente impronta di tradizione popolare e di folklore: dall’installazione Semi di girasole, dove
138
29. Un artista raccontato dal cinema: Ai Weiwei e i diritti umani
Liberate Ai Weiwei, la frase d’apertura di Art Basel 2011.
l’artista fece realizzare da tutti gli abitanti di un piccolo pae­
se cento milioni di semi di girasole in porcellana (l’opera
è stata portata alla Tate di Londra) realizzati a mano: la
porcellana è il materiale simbolo dei manufatti orientali e il
seme di girasole lo è della rinascita.
Nella chiave della sua dissidenza e provocazione non si
può non citare la creazione , nel 2006, di un blog per difendere la libertà di pensiero e di diffusione di idee, per sorpassare il cinema, che deve vedersela con una censura pesante.
L’uso del blog, di twitter, e dunque di frasi di forte impatto – è nota quella in cui Ai esprime un forte disappunto:
139
“Fuck. Motherland” (Fanculo. Madreterra) – o ancora, ripresa poi nel film della Klayman “I’m an artist who is always
looking for what is possible” (sono un artista sempre alla
ricerca di ciò che è possibile) – attirano l’attenzione delle
autorità fino a censurarlo sulla rete nel 2009 e poi arrestarlo
dal 2 aprile al 22 giugno del 2011. 81 giorni ai domiciliari.
Never sorry, è arrivato in Italia quest’anno, ed è stato proiettato a Roma e a Milano. Racconta la figura di Ai attraverso metafore: gatti che aprono porte, dialettica violenta
con la madre che è semplicemente ... la Cina.
“Free Ai Weiwei” (liberate Ai Weiwei) era la frase
d’apertura di Art Basel 2011. La scritta era ripetuta sui cataloghi, sulle borsine gadget in regalo, nei comunicati stampa,
all’interno dei padiglioni. Free Ai Weiwei è stato il simbolo di rivolta di una nicchia, quella dell’arte contemporanea,
colta, sofisticata e preparata, nei confronti di un uomo che
da sempre si batte per i diritti, di tutti, a modo suo.
Oggi Ai Weiwei vive in regime di libertà a raggio ridotto
e sotto tutela, e la sua storia si sta diffondendo grazie proprio al cinema. “Never sorry” ha partecipato, sempre con
successo, ai più importanti Premi: al Nantucket Film Festival di Berlino, al Golden Satellite Awards, al du-Pont
Columbia Award. Questo è un dato indicativo e importante
per l’arte, per il suo mercato, ma anche per un’apertura da
parte di una cultura che si è dimostrata storicamente rigida.
Filmografia
Agente 007 Licenza di uccidere (dr. No)
Regia di Terence Young. Con Ursula Andress, Sean Connery. Avventura; col.; 105 min; Gran Bretagna, 1963.
Americano a Parigi, Un (An american in Paris)
Regia di Vincente Minnelli. Con Leslie Caron, Nina Foch,
Georges Guétary, Gene Kelly, Oscar Levant. Musical; Col.;
105’; USA, 1951.
Angelo Sterminatore, L’ (El Angel Exterminador)
Regia di Luis Buñuel. Con Jacqueline Andere, José Baviera,
Augusto Benedico, Silvia Pinal, Enrique Rambal. Drammatico; B/N; 95’; Messico, 1962.
Arancia Meccanica (A Clockwork Orange)
Regia di Stanley Kubrick. Con Michael Bates, Adrienne
Corri, Patrick Magee, Malcolm McDowell. Drammatico;
Col.; 137’; Gran Bretagna, 1971.
Barry Lyndon
Regia di Stanley Kubrick. Con Marisa Berenson, Steven
Berkoff, Gay Hamilton, Marie Kean, Hardy Krüger, Patrick Magee, Ryan O’neal. Drammatico; Col.; 184’; Gran
Bretagna, 1975.
141
Il quadro che visse due volte
Basquiat
Regia di Julian Schnabel. Con David Bowie, Claire Forlani,
Dennis Hopper, Gary Oldman, Jeffrey Wright. Biografico;
Col.; 106’; USA, 1996.
Batman
Regia di Leslie H. Martinson. Con Lee Meriwether, Cesar
Romero, Burt Ward, Adam West. Fantastico; Col.; 105’;
USA, 1966.
Batman
Regia di Tim Burton. Con Kim Basinger, Michael Keaton,
Jack Nicholson. Fantastico; Col.; 126’; USA, 1989.
Batman. Cavaliere oscuro, Il (The Dark Knight)
Regia di Christopher Nolan. Con Christian Bale, Heath
Legder, Aaron Eckhart, Michael Caine, Maggie Gyllenhaal, Gary Oldman. Azione; Col.; 125’; USA, 2008.
Ben-Hur
Regia di William Wyler. Con Stephen Boyd, Hugh Griffith, Jack Hawkins, Charlton Heston. Avventura; Col.; 212’
USA, 1959.
Blade Runner
Regia di Ridley Scott. Con Joanna Cassidy, Harrison Ford,
Daryl Hannah, Rutger Hauer, Edward James Olmos, Sean
Young. Fantascienza; Col.; 118’; USA, 1982.
Brama di vivere (Lust for life)
Regia di Vincente Minnelli. Con Pamela Brown, Henry
Daniell, James Donald, Kirk Douglas, Anthony Quinn,
Everett Sloane. Drammatico; Col.; 122’; USA, 1956.
Broken Flowers
Regia di Jim Jarmusch. Con Frances Conroy, Julie Delpy,
142
Filmografia
Jessica Lange, Bill Murray, Sharon Stone, Tilda Swinton,
Jeffrey Wright. Commedia; Col.; 105’; USA, 2005.
Bruto e la bella, Il (The Bad And The Beautiful) Regia di Vincente Minnelli. Con Kirk Douglas, Gloria
Grahame, Walter Pidgeon, Dick Powell, Gilbert Roland,
Barry Sullivan, Lana Turner. Commedia; B/N; 118’; USA,
1952.
Chien andalou, Un
Regia di Luis Buñuel. Con Pierre Batcheff, Simone Mareuil.
Cortometraggio; B/N; 23’; Francia, 1929.
Colori dell’anima – Modigliani, I (Modigliani)
Regia di Mick Davis. Con Susie Amy, Peter Capaldi, Beatrice Chiriac, Omid Djalili, Ciprian Dumitrascu, Andy
Garcia, Hippolyte Girardot, Lance Henriksen, Eva Herzigova, Udo Kier, Miriam Margolyes, Elsa Zylberstein. Biografico; Col.; 128’; USA, 2004.
Colori della Passione, I (The Mill and the Cross)
Regia di Lech Majeswki. Con Rutger Hauer, Oskar Huliczka, Joanna Litwin, Charlotte Rampling, Michael York.
Drammatico; Col.; 97’; Svezia, Polonia, 2011.
Conquista del West, La (How the West Was Won)
Regia di John Ford, Henry Hathaway, George Marshall.
Con Carroll Baker, Henry Fonda, Gregory Peck, George
Peppard, Debbie Reynolds, James Stewart, John Wayne,
Richard Widmark. Western; Col.; 155’; USA, 1962.
Crash
Regia di David Cronenberg. Con Rosanna Arquette, Holly Hunter, Elias Koteas, James Spader, Deborah Unger.
Drammatico; Col.; 98’; USA, 1996
143
Il quadro che visse due volte
Dalia Azzurra, La (The Blue Dahlia)
Regia di George Marshall. Con William Bendix, Alan
Ladd, Veronica Lake. Poliziesco; B/N; 96’; USA, 1946.
Deserto Rosso
Regia di Michelangelo Antonioni. Con Carlo De Prè, Aldo
Grotti, Richard Harris, Rita Renoir, Xenia Valderi, Monica
Vitti. Drammatico; Col.; 120’; Italia, 1964.
Dies Irae (Vredens Dag)
Regia di Carl Theodor Dreyer. Con Lisbeth Movin, Sigrid
Neiiendam, Thorkild Roose, Anna Svierkier.
Drammatico; B/N; 105’; Danimarca, 1943.
Domenica D’agosto, Una
Regia di Luciano Emmer. Con Massimo Serato, Franco Interlenghi, Ave Ninchi, Emilio Cigoli, Anna Baldini, Vera
Carmi.
Commedia; B/N; 79’; Italia, 1950
Doppio Gioco (Criss Cross)
Regia di Robert Siodmak. Con Yvonne De Carlo, Burt
Lancaster. Drammatico; B/N; 87’; USA, 1948.
2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey)
Regia di Stanley Kubrick. Con Keir Dullea, Gary Lockwood,
Daniel Richter, William Sylvester. Fantascienza; Col.; 139’;
USA, 1968.
È stato il figlio
Regia di Daniele Cipri’. Con Toni Servillo, Giselda Volodi, Aurora Quattrocchi, Benedetto Ranelli, Alfredo Castro.
Drammatico; Col.; 90’; ITALIA, 2012.
Fahrenheit 451
Regia di François Truffaut. Con Julie Christie, Cyril Cu144
Filmografia
sack, Anton Diffring, Oskar Werner. Fantascienza; Col.;
112’; Francia, Gran Bretagna, 1966.
F per falso (F for fake)
Regia di Orson Welles. Documentario; B/N; 85’; Francia,
1973.
Frankenweenie
Regia di Tim Burton. Con Winona Ryder, Martin Landau,
Martin Short, Catherine O’hara, Atticus Shaffer. Animazione; B/N; 87’; USA, 2012.
Frida
Regia di Julie Taymor. Con Antonio Banderas, Valeria Golino, Salma Hayek, Ashley Judd, Alfred Molina, Edward
Norton, Geoffrey Rush. Biografico; Col.; 120’; USA, 2002.
Gangsters, I (The Killers)
Regia di Robert Siodmak. Con Ava Gardner, Burt Lancaster, Edmond O’brien. Poliziesco; B/N; 105’; USA, 1946.
Gigi
Regia di Vincente Minnelli. Con Leslie Caron, Maurice
Chevalier, Hermione Gingold, Louis Jourdan. Musicale;
Col.; 105’; USA, 1958. n Oscar& 9 Pr, 9 Nom.
Giulio Cesare (Julius Caesar)
Regia di Joseph Leo Mankiewicz. Con Marlon Brando,
Louis Calhern, Greer Garson, John Gielgud, Deborah
Kerr, James Mason.
Storico; B/N; 120’; USA, 1953.
Gladiatore, Il (Gladiator)
Regia Di Ridley Scott. Con Russell Crowe, Richard Harris,
Djimon Hounsou, Connie Nielsen, Joaquin Phoenix, Oliver Reed. Storico; Col.; 155’; USA, 2000.
145
Il quadro che visse due volte
Gladiatori, I (Demetrius and the Gladiators)
Regia di Delmer Daves. Con Susan Hayward, Victor Mature, Debra Paget, Michael Rennie, Jay Robinson. Il film è
la continuazione del più famoso La Tunica. Storico; Col.;
101’; USA, 1954.
Goya (Goya en Burdeos)
Regia di Carlos Saura. Con José Coronado, Francisco Rabal, Eulalia Ramón, Maribel Verdú. Biografico; Col.; 104’;
Italia, Spagna, 1999.
Grido, Il
Regia di Michelangelo Antonioni. Con Betsy Blair, Steve Cochran, Dorian Gray, Gabriella Pallotta, Alida Valli.
Drammatico; B/N; 116; Italia, 1957.
Guerra dei Mondi, La (The War of the Worlds)
Regia di Byron Haskin. Con Gene Barry, Ann Robinson,
Les Tremayne. Fantascienza; Col.; 85’; USA, 1952.
Guerra dei Mondi, La (War of the Worlds)
Regia di Steven Spielberg. Con David Alan Basche, Justin Chatwin, Tom Cruise, James Dumont, Dakota Fanning, Daniel Franzese, Miranda Otto, Tim Robbins, Yul
Vazquez.
Fantascienza; Col.; 116’; USA, 2005.
Harry Potter e la pietra filosofale
(Harry Potter and the philosopher’s stone)
Regia di Chris Columbus. Con John Cleese, Rupert Grint,
Richard Harris, Ian Hart, Daniel Radcliffe, Alan Rickman,
Maggie Smith, Emma Watson. Fantastico; Col.; 151’;
USA, 2001.
Io ti salverò (Spellbound)
Regia di Alfred Hitchcock. Con Gregory Peck, Rhonda
146
Filmografia
Fleming, Ingrid Bergman, Michael Chekhov, Leo G. Carroll. Drammatico; Col.; USA, 1945.
Ivan il terribile (Ivan groznij)
Regia di Sergej M. Eisenstein. Con Serafina Birman, Ludmilla Celichovskaja, Nicolaj Cerkasov. Drammatico; B/N;
188; URSS, 1944.
Ladri di biciclette
Regia di Vittorio De Sica. Con Elena Altieri, Vittorio Antonucci, Lianella Carell, Lamberto Maggiorani, Enzo Staiola. Drammatico; B/N; 92; Italia, 1948.
Miserables, Les
Regia di Tom Hooper. Con Amanda Seyfried, Hugh Jackman, Helena Bonham Carter, Russell Crowe, Anne Hataway. Musical; Col.; 152’; Gran Bretagna, 2013.
Noi Credevamo
Regia di Mario Martone. Con Valerio Binasco, Andrea
Bosca, Francesca Inaudi, Luigi Lo Cascio, Edoardo Natoli.
Drammatico; Col.; 170’; Italia, Francia; 2010.
Non Bussare alla mia porta (Don’t come knocking)
Regia di Wim Wenders. Con Fairuza Balk, Jessica Lange,
Gabriel Mann, Sarah Polley, Tim Roth, Eva Marie Saint,
Sam Shepard.
Drammatico; Col.; 122; Germania, 2005.
Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine symphonie des grauens)
Regia di Friedrich Wilhelm Murnau. Con Max Schreck,
Greta Schroeder, Gustav Von Wangenheim. Horror; B/N;
75’; Germania, 1922.
Oliver
Regia di Carol Reed. Con Hugh Griffith, Ron Moody, Oli147
Il quadro che visse due volte
Filmografia
ver Reed, Harry Secombe, Shani Wallis, Jack Wild. Avventura; Col.; 153’; Gran Bretagna, 1968.
Everett Sloane, Paul Stewart, Ruth Warrick, Orson Welles.
Drammatico; B/N; 120’; USA, 1941.
Ombre rosse (Stagecoach)
Regia di John Ford. Con George Bancroft, John Carradine,
Berton Churchill, Andy Devine, Thomas Mitchell, Louise Platt, Claire Trevor, John Wayne. Western; B/N; 99’;
USA, 1939.
Quattro cavalieri dell’apocalisse, I
(The four horsemen of the apocalypse)
Regia di Vincente Minnelli. Con Charles Boyer, Lee J.
Cobb, Glenn Ford, Paul Henreid, Paul Lukas, Ingrid Thulin. Drammatico; Col.; 153; USA, 1961
Paris, Texas
Regia di Wim Wenders. Con Nastassja Kinski, Harry Dean
Stanton, Dean Stockwell. Drammatico; Col.; 150; USA,
1984.
Quo vadis?
Regia di Mervyn Le Roy. Con Leo Genn, Deborah Kerr,
Patricia Laffan, Robert Taylor, Peter Ustinov. Storico; Col.;
171’; USA, 1951.
Pianista, Il (The Pianist)
Regia di Roma Polanski. Con Adrien Brody, Thomas
Kretschmann, Frank Finlay, Emilia Fox, Maureen Lipman.
Drammatico; Col.; 148’; Polonia, 2002.
Senso
Regia di Luchino Visconti. Con Massimo Girotti, Farley
Granger, Rina Morelli, Alida Valli. Drammatico; Col.;
115’; Italia, 1954.
Pietà (Pieta)
Regia di Kim Ki-Duk. Con Lee Jung-Jin, Jo Min-Su.
Drammatico; Col.; 104’; Corea del Sud, 2012.
Sentieri selvaggi (The searchers)
Regia di John Ford. Con Ward Bond, Jeffrey Hunter, Vera
Miles, John Wayne, Natalie Wood. Western; Col.; 119’;
USA, 1956.
Porto Delle Nebbie, Il (Quai Des Brumes)
Regia di Marcel Carné. Con Pierre Brasseur, Jean Delmont,
Jean Gabin, Robert Le Vigan, Michèle Morgan, Michel Simon. Drammatico; B/N; 91; Francia, 1938.
Psycho
Regia di Alfred Hitchcock. Con John Gavin, Janet Leigh,
Vera Miles, Anthony Perkins, Martin Balsam, John Mcintire, Simon Oakland. Giallo; B/N; 109; USA, 1960.
Quarto potere (Citizen kane)
Regia di Orson Welles. Con Ray Collins, Dorothy Comingore, Joseph Cotten, George Coulouris, Agnes Moorehead,
148
Signora di Shanghai, La (The Lady from Shanghai)
Regia di Orson Welles. Con Rita Hayworth, Everett Sloane, Orson Welles. Drammatico; B/N; 87’; USA, 1948.
Signore degli anelli: La compagnia dell’anello, Il
(Lord of the rings: The fellowship of ring)
Regia di Peter Jackson. Con Sean Bean, Cate Blanchett, Ian
Holm, Christopher Lee, Ian Mckellen, Liv Tyler, Eljiah
Wood. Fantastico; Col.; 178’; USA, 2000.
Skyfall
Regia di Sam Mendes. Con Javier Bardem, Daniel Craig,
149
Il quadro che visse due volte
Filmografia
Judi Dench, Ralph Fienned, Naomi Harris. Azione; Col.;
143’; Usa, Gran Bretagna, 2012.
Mandel, Sybille Schmitz, Julian West. Drammatico; B/N;
75’; Francia, 1931.
Spartacus
Regia di Stanley Kubrick. Con Tony Curtis, Kirk Douglas,
John Gavin, Charles Laughton, Laurence Olivier, Jean
Simmons, Peter Ustinov. Storico; Col.; 169’; USA, 1961.
Via col vento (Gone with the wind)
Regia di Victor Fleming. Con Olivia De Havilland, Clark
Gable, Leslie Howard, Vivien Leigh, Hattie Mcdaniel,
Thomas Mitchell. Drammatico; Col.; 222’; USA, 1939.
Stangata, La (The sting)
Regia di George Roy Hill. Con Charles Durning, Harold
Gould, Paul Newman, Robert Redford, Robert Shaw.
Commedia; Col.; 129’; USA, 1973.
Vita di Pi (Life of Pi)
Regia di Ang Lee. Con Suraj Sharma, Irrfan Khan, Tabu,
Rafe Spall, Gerard Depardieu. Avventura; Col.; 127’;
CINA, USA, 2012.
Surviving Picasso
Regia di James Ivory. Con Peter Eyre, Anthony Hopkins,
Natascha Mcelhone, Julianne Moore. Biografico; Col.;
125’; USA, 1966.
Zabriskie point Regia di Michelangelo Antonioni. Con Paul Fix, Mark Frechette, Bill Garaway, Daria Halprin, Rod Taylor. Drammatico; Col.; 112’; USA, 1970.
Terzo uomo, Il (The Third man)
Regia di Carol Reed. Con Joseph Cotten, Trevor Howard,
Bernard Lee, Alida Valli, Orson Welles. Spionaggio; B/N;
104’; Gran Bretagna, 1949.
Tormento e l’estasi, il (The agony and the ecstasy)
Regia di Carol Reed. Con Diane Cilento, Rex Harrison,
Charlton Heston, Tomas Milian. Biografico; Col.; 140’;
Gran Bretagna, 1965.
Tunica, La
Regia di Henry Koster. Con Richard Burton, Victor Mature, Michael Rennie, Jean Simmons. Storico; Col.; 135’;
USA, 1953.
Vampiro – La strana avventura di David Gray, Il
(Vampyr – l’étrange aventure de David Gray)
Regia di Carl Theodor Dreyer. Con Henriette Gérard, Rena
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