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APPUNTI DI COOPERAZIONE Maria Vella PREMESSA 4 I. LA COOPERAZIONE NEL MONDO 1. Introduzione sulla cooperazione internazionale 1.1. Stati Uniti 7 8 1.2. Canada 14 1.3 America Latina: Brasile e Argentina 16 1.4 Area Asiatica: India e Giappone 19 2. Le cooperative in Europa 23 3. L'attualità delle cooperative in Europa 26 3.1. Regno Unito 28 3.2 Germania 34 3.3 Austria 37 3.4 Francia 39 3.5 Italia 41 3.6 Danimarca 48 3.7 Finlandia 49 3.8. Spagna 50 3.8.1. L’esperienza Mondragon nei paesi Baschi 52 3.8.2. L’organizzazione di Mondragon 53 Alcune considerazioni conclusive sulla cooperazione in Europa 58 II. LA LEGISLAZIONE DEL SETTORE COOPERATIVO Introduzione 1. Le funzioni dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI) 62 2. La definizione internazionale di cooperativa 63 2.1. I principi cooperativi dettati dall'ACI 65 3. La legislazione cooperativa in Europa. 3.1. Il più recente orientamento legislativo europeo sulle cooperative 4. Le cooperative nella Costituzione italiana e nel Codice Civile. 1 61 67 68 70 4.1. Le cooperative sociali nelle legislazione italiana 73 4.1.1. La più recente regolamentazione delle cooperative sociali. 76 4.1.2. Le odierne tipologie di cooperazione sociale 79 4.2. Verso la riforma del diritto societario 81 4.2.1. Le cooperative a mutualità non prevalente 84 5. Le Associazioni Centrali di Categoria 5.1. Alcune specificazioni sulle Associazioni Centrali di Categoria Alcune considerazioni conclusive sulla cooperazione italiana. 85 89 92 III. DIMENSIONI E PECULIARITA’ DELLA COOPERAZIONE IN ITALIA Introduzione 92 1. Le fonti statistiche cooperative: i censimenti ISTAT 92 2. L'Albo delle Cooperative 95 3. Analisi quantitativa del settore cooperativo 97 3.1. La dimensione della cooperazione sociale in Italia. 104 3.1.1. La cooperazione sociale in Toscana 106 4. Analisi qualitativa: i caratteri distintivi della cooperazione in Italia. 107 4.1. I principi cooperativi della mutualità’, solidarietà’ e democraticità’ 111 4.2. Un approfondimento sul principio di solidarietà: J.J. ROUSSEAU. 113 APPENDICE: analisi dell' Albo delle Cooperative 116 IV. LE TEORIE ECONOMICHE SULLE IMPRESE COOPERATIVE Introduzione 1. Gli economisti classici: A. Smith e J.S. Mill, L. Walras e a. Marshall. 2. L’approccio di C. Marx alle cooperative 123 124 128 3. Il marginalismo 128 3.1. Il modello teorico di Ward. 4. La letteratura economica cooperativa in Italia. 131 5. Le moderne teorie economiche: felicità, benessere e cooperazione 133 Alcune considerazioni conclusive. 2 130 138 V. L’ ANTICAPITALISMO DELLE IMPRESE COOPERATIVE Introduzione 1. L’anticapitalismo nei rapporti di lavoro cooperativo. 2. 142 1.1. Un approfondimento sul rapporto di lavoro cooperativo. 144 L’anticapitalismo cooperativo nei rapporti con l’ambiente esterno. 145 2.1. Ulteriori note sull’anticapitalismo delle cooperative. 3. 140 146 L’ efficienza cooperativa. 148 3.1. L’efficacia cooperativa 150 VI. IL FINANZIAMENTO DEL SETTORE COOPERATIVO Introduzione 1. Evoluzione della funzione finanziaria 1.1. Le difficoltà di finanziamento delle imprese cooperative 155 155 157 2. Il credito cooperativo ai nostri giorni 159 2.1. Un approfondimento legislativo 161 2.2. La governance delle banche di credito cooperativo 163 3. L'operatività delle banche di credito cooperativo in Italia 3.1. La dimensione del credito cooperativo in Italia Considerazioni conclusive. 164 165 167 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE GENERALI 169 BIBLIOGRAFIA 171 3 PREMESSA. La cooperazione coinvolge 850 milioni di persone in tutto il mondo ed è l’unica esperienza di lavoro emancipata e libera1. E' anche una realtà poliedrica e multiforme, difficilmente catalogabile e questa molteplicità funzionale è alla base del fatto che l’impresa cooperativa sorge soprattutto per rispondere al soddisfacimento dei bisogni socio-economici dei soci-lavoratori, piuttosto che per esigenze esclusivamente speculative. L’eterogeneità delle forme in cui la cooperazione si presenta, inoltre, aumenta al crescere della diversificazione dei contesti operativi in cui i vari modelli d’impresa si sono insediati e sviluppati. Per questo è stato ed è così difficile ricostruire uno schema univoco di riferimento, come dimostra il dibattito annoso che ha accompagnato il tentativo di pervenire ad una definizione univoca (a livello mondiale), finalmente approdato nel XXXI° Congresso dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (a Manchester nel 1995), nella nota formula accettata in tutto il mondo e pervenuta fino ai nostri giorni. Definizione che, comunque, appare in qualche modo riduttiva, quasi un compromesso che lascia fuori molte esperienze e sottovaluta alcuni fenomeni. Per presentare questa analisi comparativa, abbiamo perciò ritenuto necessario seguire una lettura per aree o meglio, per macro-aree (come faremo nelle pagine seguenti), avendo chiaro che per la lettura del fenomeno cooperativo questa segmentazione non è discrezionale, ma tiene conto dei processi di crescita e di sviluppo economico di ciascuno dei diversi mercati di riferimento. La cooperazione quale forma di soddisfazione dei bisogni (e di produzione di beni: quando il bisogno è quello del lavoro), nasce più di 150 anni fa, in risposta (in opposizione?) ad una condizione economica e sociale dell’economia percepita come inaccettabile (o, quanto meno, iniqua). E', infatti, cresciuta e si è sviluppata nel corso di questo secolo e mezzo in modo esponenziale non solo in Europa (dove ha avuto origine) ma anche in tutto il mondo, risentendo fortemente dei contesti nei quali si produceva, dei “promotori” che la propugnavano e dei bisogni a cui cercava di dare risposta. Un esempio di questa mutabilità o, se si vuole, adattabilità è data dall’esperienza italiana: gli anni del pionierismo hanno visto, infatti, il ruolo attivo delle cooperative nelle prime forme di lavoro organizzato, dalle case del popolo ai primi movimenti emancipativi delle classi operaie a cui, in qualche caso, hanno partecipato perfino le élite liberali. Poi, durante gli anni dello sviluppo direi meno classista (dato che sarebbe difficile da definire interclassista) della ricostruzione post bellica, la cooperazione ha rappresentato l’unica chance di “massa” per la proprietà diffusa di case: per gli operai ma anche per i magistrati; per i ferrovieri, ma anche per i giornalisti ed i militari. In seguito, 1 4 Per approfondimenti cfr. Borzaga C.-Tortia E., in Mazzoli E.- Zamagni S.(2006). negli anni ’70 la cooperazione ha svolto un ruolo del tutto originale, poco studiato e soprattutto poco apprezzato, quando è intervenuta a “dare una mano” nel processo di ristrutturazione produttiva e, in alcune aree, di deindustrializzazione che ha investito ampie zone del Paese, proponendosi come una alternativa alle ampie quote di forza lavoro liberate a seguito della crisi che aveva colpito la grande industria nazionale, quindi risorse potenzialmente sotto-occupate o disoccupate e difficilmente ricollocabili in altre unità produttive. Nel periodo nascevano, infatti, quelle che si possono definire le “cooperative ereditarie”, che avevano proseguito le precedenti attività produttive, attraverso l’assunzione di responsabilità da parte dei lavoratori, che si sostituivano agli imprenditori in fuga o in fallimento. Esperienza poco studiata e poco valorizzata se non altro sul fronte del contenuto etico prima che civile. Infine, come non fare cenno all’ennesima fattispecie di forma e di ruolo, rappresentata dalla cooperazione sociale (che proprio in Italia affonda le sue origini) che ha consentito allo Stato di seguire, senza troppi danni sociali, la tendenza al graduale disimpegno dal Welfare. Nel corso degli ultimi anni2, all’avanzata del movimento cooperativo per risolvere le inefficienze del mercato che si riflettevano all’interno della società civile, si sono accompagnate profonde trasformazioni del modello, conseguenti alla crescita numerica delle imprese e dei fatturati che iniziavano ad occupare i vertici delle classifiche, espandendosi in settori fino a qualche tempo fa impensabili. I cambiamenti hanno poi interessato soprattutto due parametri: la dimensione media delle imprese e l’innovazione tecnologica, che nel settore presenta una diffusione particolarmente accentuata. Relativamente al primo indicatore possiamo certamente affermare che si tratta di un valore largamente superiore alla media delle imprese for profit (con 17,5 addetti a fronte dei 7,8 in media), con un contributo all'occupazione significativamente elevato (in Italia supera il 6% dell'occupazione privata, al netto dell'agricoltura). La maggiore dimensione ha poi consentito di registrare performance a volte incredibili, che hanno generato dinamiche talvolta contraddittorie che, in alcuni casi, hanno finito per minare la stessa identità cooperativa. Passando al secondo aspetto, l’impresa cooperativa, ha poi dimostrato di essere efficiente non solo nei mercati dei prodotti/bisogni maturi (o di base) ma anche nel segmento delle nuove tecnologie (basti pensare che nell’ultimo decennio le cooperative hanno registrato un incremento pari al 6% delle produzioni innovative). La crescita, infine, del settore è stata accompagnata dal rifiorire dell’interesse per questa forma di 2 5 La stessa cosa non può dirsi delle imprese di capitali “tradizionali” che, spesso, si sono sottratte alla concorrenza rifugiandosi in mercati protetti ed abbandonando i settori innovativi e in espansione. impresa non solo da parte degli istituti di ricerca, ma anche a livello istituzionale (Governi, sindacati ed associazioni di produttori) anche se il sostegno principale al processo espansivo è stato fornito dalle associazioni tra cooperative, sia centrali (come nella tradizione italiana e francese) che locali (come in alcune esperienze statunitensi). L’aiuto pubblico al segmento cooperativo, invece, non sembra sia stato specificatamente diretto al loro accreditamento presso il pubblico ed alla loro promozione sul mercato essendo stato erogato, per lo più, durante le fasi di recessione, allo scopo di creare posti di lavoro, prezzi al consumo e redditi a costi minori. Se ne può dedurre che, da un punto di vista operativo, negli ultimi anni il ruolo sociale della cooperativa è andato crescendo e le innovazioni legislative più recenti hanno seguito questo processo di crescita in Italia così come in altri paesi dell’UE, dove si è anche assistito all’introduzione di nuove e varie tipologie di cooperative. 6 I. INTRODUZIONE SULLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE. In qualsiasi parte del mondo la cooperazione ha vissuto gli stessi problemi delle imprese di capitale: processi di concentrazione, globalizzazione, mutamento tecnologico ed organizzativo, necessità di rispondere ai bisogni emergenti degli utenti e, contemporaneamente, ha dovuto affrontare le particolari sfide legate alla loro specifica natura di organizzazioni volontarie ed aperte, con controllo democratico ed equa partecipazione economica dei soci. Il maggiore sforzo è stato quello di dover essere competitive pur mantenendo la loro natura specifica: quindi sono state obbligate non solo al raggiungimento di risultati economici e di un'alta redditività (come le imprese di capitali) ma anche al miglioramento del benessere personale, sociale ed anche finanziario dei soci (siano essi società o persone fisiche) e della comunità in cui hanno operato. Di conseguenza, la cooperazione ha interpretato e risentito di questa dimensione territoriale che, a volte è stata associata al localismo ed altre, nella maggior parte dei casi, è stata cultura, proposta economico-politica e, talvolta, persino testimonianza (o contributo) dello sviluppo di contesti socio-economici democratici. Il dibattito politico ed economico sulla natura e sul ruolo dell’impresa cooperativa nel mondo ha, comunque, prodotto diverse interpretazioni sulle specificità di questa particolare forma di impresa. E’ stata definita, di volta in volta: − strumento utile solo in situazione di crisi, − impresa superiore a quella capitalistica, perché in grado di coniugare equità ed efficienza; − impresa in grado di democratizzare le economie moderne; − impresa adatta ad attività minori (marginali) o per imprese in transizione o, comunque, bisognosa di sostegno pubblico. Da un punto di vista quantitativo, se si fa riferimento ai fatturati ed al livello internazionale 3, il settore cooperativo ancora oggi non occupa una posizione di grande rilievo ma è lungi dall’essere economicamente marginale, anzi rappresenta una importante componente della moderna economia di mercato. Nell’ambito dei paesi avanzati e dove il movimento cooperativo è storicamente radicato (ossia negli Stati Uniti e in Europa) la quota globale dell’attività economica attribuita alle cooperative è, comunque, maggiore rispetto a quella delle economie meno sviluppate4, con una prevalenza di imprese agricole, di cooperative di utenza e, nel terziario, di strutture di credito. 3 4 7 Per approfondimenti cfr. Salani M.P. , (2008). Per approfondimenti cfr. Hansmann H. (2005). 1.1. Stati Uniti. L’inizio del movimento cooperativo negli Stati Uniti d’America viene generalmente associato alla fondazione (nel 1750) di una compagnia di assicurazione anti-incendio a Philadelphia per iniziativa di Benjamin Franklin5 e colleghi la Philadelphia Contributionship for the Insuerance of House from the Loss of Fire (tuttora esistente). Sempre a Philadelfia fu fondata (nel 1758) la prima società cooperativa agricola mentre i tentativi successivi furono sporadici. Fra questi, degne di note le seguenti esperienze: la prima cooperativa di produzione agricola (nel 1810, una cooperativa casearia stabilitasi nel New Jersey); la New Harmony, fondata da Robert Owen nel 1825 (nello Stato dell’Indiana) e la Brook Farm una comunità cooperativa rurale nei pressi di Boston (a West Roxburi, creata nel 1841 e poi chiusa nel 1847). Il movimento cooperativo statunitense, alla fine del suo primo secolo di vita, era ancora di modeste proporzioni e prenderà vigore solo dopo la fondazione della Rochdale Society (1844) in Gran Bretagna evento che, d’altra parte, segnerà la nascita del movimento cooperativo di tutto il mondo. L' humus delle cooperative all’interno del territorio statunitense si ritrova comunque nel settore primario che svilupperà, in varie parti del Paese, un ampio numero di cooperative agricole di successo6, dedite all'acquisto, alla produzione ed alla vendita di prodotti agricoli tanto da indurre i cooperatori alla costituzione di forme di aggregazione superiore. Ciò diede l'avvio alla costituzione delle Federazioni cooperative di produttori agricoli (di agrumi e di altri frutti, di grano, di latticini e di tabacco) che iniziarono ad operare dapprima a livello regionale e poi nazionale. Queste iniziative furono ripetute anche in altri settori emergenti, tra cui la prima sartoria a Boston (1849), le associazioni casearie a New York (1856), i cantieri navali a Baltimora (1865) e l’Associazione Cooperative Industriali a Philadelfia (nel 1874). Una prima legislazione cooperativa7 fu emanata in Michigan (nel 1865), poi a New York (1867) e in Pennsylvania (1887). Nel terziario altre attività degne di nota riguardarono soprattutto le cooperative telefoniche, nate intorno al 1893 ed arrivate fino ai nostri giorni. 5 6 7 8 Franklin B.(1706-1790) scienziato e politico statunitense, tra i protagonisti della rivoluzione americana. All'estero é conosciuto soprattutto per i suoi esperimenti sull'elettricità mentre negli Stati Uniti è noto come uno dei padri della patria. Queste cooperative agricole si diffusero in tutto il territorio e, in particolare, nel Nord-Est (in Massachussets, Connecticut, New York e New Jersey), nella regione Atlantica (in Maryland, Pennsylvania e West Virginia), nell'area del Centro-Ovest (in Ohio, Illinois, Iowa, Wisconsin e Minnesota), nel Sud (in Texas, Arkansas, Louisiana e Kentucky); e nella lontana costa Occidentale (in California). La legislazione nazionale riguardante le cooperative era compresa nella Legge Anti-Trust Sherman (1890), nella Legge Anti-Trust Clayton (1914) e nella Legge per il Prestito alle aziende agricole (1916). Le pubblicazioni di settore di questo periodo includono la History of Cooperation in the United States (1888) pubblicata dalla Johns Hopkins University e la How to Cooperate (1891) di Herbert Myrick . Alle iniziative di promozione dell’agricoltura ed alla relativa aggregazione a livello centrale in Federazioni statali, nazionali e regionali ed in gruppi suddivisi per aree geografiche8 si associò un’esperienza simile fra le cooperative di consumo9, che permise l'avvio di nuove attività per iniziativa di gruppi locali o anche di organizzazioni sindacali, come i Sovrani dell’Industria, i Cavalieri del Lavoro ed i Minatori Uniti che considerarono i soci cooperatori come compagni di lavoro, uniti per creare un mondo migliore e le aziende un mezzo per assistere i sindacati nelle loro lotte. La prima rappresentanza nazionale delle Cooperative di consumo si realizzò con l’Unione Cooperative d’America (la prima associazione americana dell’ ACI del 1895), trasformata poi in Lega Cooperativa (1909) ed infine (nel 1916) denominata Cooperative League of America (CLUSA, Lega Cooperativa degli Stati Uniti), una grande organizzazione di cooperative di consumo che completerà la sua evoluzione in una prospettiva associativa più inclusiva, diventando (nel 1985) la National Cooperative Business Association (NCBA, l’ Associazione Nazionale per gli Affari Cooperativi): la prima organizzazione nazionale in rappresentanza di tutti i settori della cooperazione. Le cooperative bancarie assunsero una certa importanza agli inizi del XX° secolo, con la prima Banca Cooperativa per Afro-Americani (nel 1909) a Philadelfia e nel New England. Nel corso della prima guerra mondiale le cooperative erano ormai un importante segmento del mercato statunitense e, successivamente, tra la fine della prima guerra mondiale e lo scoppio della seconda proseguirà una fase di continua crescita che porterà la cooperazione USA a diventare la più estesa al mondo. In particolare, le grandi cooperative regionali di acquisto, produzione e vendita si incrementarono numericamente, le società di credito (ancora poche nel 1919), iniziarono a crescere (con un totale di circa 3.000.000 di soci nel 1945) e furono supportate ed assistite dal Credit Union National Association (CUNA, l’Associazione Nazionale Società di Credito istituita nel 1934). 8 9 9 Nel 1925 fu fondato l’Istituto Americano per la Cooperazione, che difendeva gli interessi delle cooperative agricole e si occupava della pubblicazione annuale di una rivista di settore, l' American Cooperation. Il Consiglio Nazionale per le Cooperative Agricole, succeduta alla Camera Nazionale delle Cooperative Agricole (fondata nel 1929) rimane tuttora la grande voce del settore agricolo. Per iniziativa dei gruppi locali le cooperative di consumo emersero a Boston (1845), nello Utah tra i mormoni (1868), nel New England con la Associazione Cooperativa (1880), a Filadelfia, con una Cooperativa di Dettaglianti (1888), nella regione medio occidentale con i Patron of Industry (mecenati dell’Industria nel 1889), a New Orleans e Saint Louis con i Nelson Cooperative Stores (1892), a San Francisco con la Rochdale Society all'ingrosso (1900), nel Kansas con l’Associazione Cooperativa dello Stato del Kansas (1901) ed anche sulla costa del Pacifico (1913). Dopo il secondo conflitto mondiale, il movimento cooperativo americano si estese in altri campi di attività economica, occupando settori rilevanti anche ai nostri giorni. A proposito, basti considerare le cooperative petrolifere, che emersero negli anni ’20 per soddisfare le necessità dei numerosi possessori di automobili e per la crescente meccanizzazione dell’agricoltura (fino a giungere, nel 1945, a 1.500 società con oltre 900.000 soci-lavoratori). Allo stesso periodo risalgono anche le cooperative nate per offrire servizi collaterali al settore agricolo, come quelle elettriche rurali che iniziarono ad operare per la prima volta durante la prima metà degli anni ’30 e che, dopo appena un decennio (nel 1945) la loro estesa diffusione, avviarono la creazione di una propria organizzazione nazionale, la National Rural Electric Cooperative Association (la NRECA, istituita nel 1942). La National Company of Insurance (NIC, la Compagnia Nazionale delle Assicurazioni) fu invece fondata nel 1926 e riunì 2.000 cooperative di assicurazione (con 10.550.000 soci nel 1945), mentre le rinomate cooperative sanitarie, operarono per la prima volta nel 1929, come ospedali cooperativi rappresentati da una Federazione Sanitaria (fondata nel 1939) e supportati da una Agenzia per la Medicina Cooperativa. Nel 1945 esistevano 75 gruppi cooperativi sanitari (prototipi dell’attuale HMOs, istituita nel 1973) e veniva fondata una cooperativa per il servizio telefonico, tramandata fino ai nostri giorni. Tab. 1 ANDAMENTO COOPERATIVE STATUNITENSI Cooperative Agricole 1945 Imprese Soci 1984 Cooperative di consumo Variazione 1945-84 1945 6.000 -41% 9.100 5.030 -45% 7.732.000 5.000.000 -35% 3.500.000 1.500.000 -67% 1945 Soci Variazione 1945-84 10.179 Cooperative di Credito Imprese 1984 1984 Variazione 1945-84 Cooperative Totali 1945 1984 Variazione 1945-84 8.842 19.200 -42% 28121 30230 + 8% 2.838.000 48.500.000 +5% 14070000 55000000 + 290% Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc. Lanham, Md. & c., London, 1999 10 A livello istituzionale, l'interesse del Governo per le cooperative si trasformò nella diffusione di in un corpo legislativo sempre crescente10, mentre anche altri gruppi territoriali locali contribuirono alla crescita della cooperazione e, tra questi, la Conferenza Cattolica Nazionale e il Consiglio Nazionale delle Chiese, che raccomandarono ai membri delle loro parrocchie di fondare organizzazioni cooperative. Durante la crisi degli anni ’30 anche il governo statunitense incluse le cooperative tra le attività per la ripresa economica11 . Le cooperative agricole raggiungeranno la loro massima rappresentanza nel 1950 (con 10.179 associazioni e 7.732.000 soci) a cui seguirà una lenta contrazione 12 a causa di una serie di eventi concomitanti come, ad esempio, la migrazione della popolazione dalle campagne alla città, l’ incremento dei costi in agricoltura (in particolare per i piccoli operatori) e, a latere, per il processo di concentrazione delle piccole cooperative in imprese più ampie accompagnato dalla evoluzione delle organizzazioni centrali regionali in associazioni interregionali. Questa crescita del settore cooperativo agricolo statunitense proseguì anche con il contributo di interventi produttivi ed organizzativi e con l'appoggio del Governo, sia sul mercato interno che in ambito internazionale. Le cooperative agricole USA13 ancora oggi continuano a ricoprire un ruolo importante all’interno del mercato: basti pensare che quasi la metà dell'offerta di prodotti agricoli compresi quelli di prima trasformazione, proviene da cooperative agricole (3.500 imprese) e che quasi un terzo dei servizi usati nel settore agricolo provengono da cooperative di servizi tra contadini. Caratteristica del movimento cooperativo agricolo statunitense è costituita dalla presenza di imprese altamente specializzate e meccanizzate (come la Blue Diamone o la Sun Maid, per la produzione di mandorle e di uva). Inoltre, le cooperative elettriche rurali (che procurano elettricità a 26 milioni di soci a prezzo di costo), rappresentano più della metà delle linee di distribuzione di energia elettrica statunitense. 10 11 12 13 11 A livello nazionale, la Legge Capper-Volstead (del 1922) fu seguita dalla Legge per il Credito Agricolo (del ’23), dalla Legge per le vendite Cooperative (del ’26), dal Farm Credit Act (del ’33) , dalla Legge per le Unioni Federali di Credito (del 1934) e dalla Legge per l’Elettrificazione Rurale (del ’36). In questa direzione fu organizzato a New York il progetto cooperativo per la pubblicazione del Works Progress Administration (WPA), che occupò varie centinaia di persone per ricercare e pubblicare materiale su tutti gli aspetti dello sviluppo cooperativo. Tra i progetti non portati a termine rientra la proposta per la stesura di una Enciclopedia delle Cooperative. Nel 1984 si era così scesi a 6.000 cooperative con 5.000.000 di soci Fra le più importanti troviamo la cooperativa lattiero-casearia Dairy Farmers of America (Dfa), la Agway e la Farmland Industries . Tab. 2 COOPERATIVE USA (1996) Agricole Imprese Soci Soci Infanzia Edilizia Prod/Lavoro Elettricita’ 4. 244 350 650 6.450 54 1.290 (15%) (1,3%) (2,3%) (23%) (0,2%) (17%) 4.000.000 324.000 50.000 N.D. 1081000 26.200.000 (2,6%) (0,2%) (0,03%) (07%) (17,4%) Sanità Imprese Consumo Credito Assicurazione Altre 11 12.560 1.800 190 (0,03%) (45%) (33%) (0,7% 1.600.000 67.500.000 50.000.000 (0,7% N.D. (1,1%) (44,8%) (33,2%) Totale 27.599 150.692.000 (56,7%) Le cooperative di consumo, a loro volta, hanno ripreso la loro attività nell’immediato secondo dopoguerra ma, subito dopo e in poco tempo, anche le associazioni più grandi registrarono delle crisi a causa di un un ambiente molto competitivo e per la comparsa delle moderne e sofisticate catene di distribuzione. Uno stimolo alla ripresa della cooperazione di consumo14 sarà dato dalla fondazione (nel 1978) della Banca per le Cooperative di Consumo (un importante canale di finanziamento del settore) per iniziativa del Congresso degli Stati Uniti. Passando, infine, al settore terziario il credito cooperativo ha da sempre rappresentato un segmento di grande interesse e con tassi di crescita significativi15. Nella seconda metà del secolo scorso il settore fu protagonista di un ampio processo di concentrazione (culminato nel 1994), motivato dalla necessità di aumentare la dimensione e la capitalizzazione delle banche, attraverso i diffusi processi di fusione e di accorpamento, accompagnati da un innalzamento del numero di soci (giunti a 67.500.000 nel 1996). Il movimento delle società di credito americano ha, oggi, una valenza internazionale raggiunta prima con l’inclusione delle società di credito Canadesi e poi di altre istituzioni finanziarie di altri paesi Occidentali. Non è dunque un caso che nel 1970 a Madison (in Wisconsin), la patria del movimento cooperativo statunitense, sia stato organizzato il Consiglio 14 15 12 Le società cooperative che nel ’45 erano 9.100 e contavano 3.500.000 soci, nel 1984 erano scese a 5.030 società con 1.500.000 soci. Nel 1945 le cooperative di credito erano 8.842 e contavano 2.838.000 soci, nel 1984 erano più che raddoppiate (salivano a 19.200) con un considerevole numero di 48.500.000 soci. Mondiale delle Società di Credito (WOCCU). Il comparto del credito e, in particolare, quello dei servizi bancari è promotore di due importanti esperienze, diffuse in tutto il mondo: la Master Card e la VISA16, entrambe cooperative che hanno come socie le migliaia di banche indipendenti, di fatto i rivenditori delle carte elettroniche e del credito in circolazione nel mondo. Nei tempi più recenti stanno mantenendo la loro importante tradizione anche le cooperative universitarie, che hanno tratto origine dalle prime cooperative di studenti, organizzate all’interno delle Università ed oggi orientate a fornire prodotti e servizi di consulenza tra i più disparati agli studenti (dal tutoraggio didattico all' acquisto di libri, dal vitto all'alloggio basso costo, ecc.). Una delle più conosciute cooperative universitarie è quella di Harvard, che vanta più di 100 anni di età. Peculiarità della cooperazione statunitense è quella di essere sostanzialmente una cooperazione di secondo grado, ossia una cooperazione tra imprenditori. La principale differenza fra la cooperazione statunitense e quella europea è dunque riconducibile al fatto che negli Stati Uniti sono molto scarse le esperienze cooperative in cui i soci sono individui anziché aziende. Questa particolarità è molto diffusa nelle diverse articolazioni della cooperazione americana e ne rappresenta un tratto tipico, dato che queste imprese sono costituite dagli stessi soci che poi diventano clienti di sé stessi, ossia delle cooperative di cui sono proprietari17 .Queste tipologie (da noi denominate consorzi) sono presenti in tutti i settori di attività economica, dalla panetteria all’autotrasporto fino alle Borse e la loro specificità potrebbe trovare una risposta nel fatto che sono sorte e si sono sviluppate laddove esisteva un tentativo di resistenza (o come risposta) a posizioni di mercato monopolistiche 18. E', infatti, possibile supporre che in presenza di condizioni di mercato monopolistiche la risposta sia stata proprio la creazione di aziende cooperative gestite dagli stessi clienti, tanto è vero che sono sorte soprattutto nei mercati delle vendite all'ingrosso, dove le economie di scala sono enormi e, quindi, i margini per l'imprenditore molto appetibili e, quindi, suscettibili a tentativi di scalate monopolistiche a scapito del consumatore. Altra peculiarità è rappresentata dalle cooperative di lavoratori che si differenziano dalle cooperative tipiche e sono molto diffuse nella forma di associazioni professionali (studi legali, ecc.), dove i soci-lavoratori sono portatori degli interessi della categoria. 16 17 18 13 Master Card e VISA provvedono ai servizi centrali di compensazione e, in quanto società informatiche, non vendono le carte di credito ma la licenza per usare il marchio. Per esempio, piccoli negozi di generi alimentari a conduzione familiare spesso condividono fra loro, nella forma di una società cooperativa, la proprietà della rivendita all’ingrosso da cui si riforniscono. Per approfondimenti cfr. Hansmann H. (1996, tradotto in italiano 2005); Hasmann H., intervento al convegno Legacoop , La proprietà dell’impresa cooperativa, Roma, 28 Marzo 2006. Da un punto di vista legislativo, la cooperazione statunitense è regolata da una normativa che avvicina molto le cooperative alle grandi imprese di capitali: basti far riferimento al principio del numero chiuso dei soci (closet membership), alla richiesta di un loro elevato investimento procapite e all’obbligo di effettuare conferimenti in quantità fissa, con la possibilità di vendere i diritti dei soci nella cooperativa ai prezzi di mercato 19. Anche sotto questo profilo, il modello statunitense, è molto lontano da quello diffuso in Europa e in Italia e perciò meriterebbe di essere meglio conosciuto, se non altro per valutare la possibilità di avere una qualche rilevanza nei moderni processi evolutivi della cooperazione europea20. Dal 1998 ed ai nostri giorni il ruolo delle cooperative nell’economia degli Stati Uniti è il più grande del mondo industrializzato, sia in termini assoluti che in termini percentuali con un alto numero medio di cooperatori (cfr. Tab. 2) e superato solo dalla Cina e dall’India21. A livello territoriale le cooperative sono articolate all’interno di organizzazioni centrali che, a volte, formano veri e propri conglomerati di cooperative, con un importante potere economico e contrattuale nel mercato interno ed una rilevante proiezione verso l’esterno ed anche nei confronti dei Paesi del Terzo Mondo22. 1.2. Canada. Una situazione di rilievo per la cooperazione si registrava anche nell’area canadese 23 dove il settore cooperativo nasceva con una società di assicurazioni anti-incendio (la Mutual Fire, nel 1852), seguita (nel 1876) dalla prima cooperativa di assicurazione sulla vita (Coopvie), Les artisans fondata nel Quebec . Nella prima metà dell’Ottocento il Canada (dopo Giappone e Stati Uniti) era il terzo paese extra-europeo che partecipava al movimento cooperativo, anche se questo segmento inizierà ad articolarsi nei diversi settori solo dopo la seconda metà del XIX° secolo, con alcune cooperative tra produttori (1876) e tra consumatori (a Winnipeg nel 1885). Nel 1887 nella provincia di Manitoba veniva poi emanata la prima legislazione cooperativa, che verrà promulgata come prima legge nazionale solo nel 1949. La prima società di credito cooperativo, la Caisse Populaire de Lévis, sarà invece fondata nel 1900, per iniziativa di Alphonse Desjardins,. Per 19 20 Per approfondimenti cfr. Merrett C.D. -Walzer N. (2001). Nell’Aprile 1990 l’Associazione Cooperativa Alumni, formata da "veterani" del movimento cooperativo americano con il supporto di 17 organizzazioni nazionali ha pubblicato il Cooperative- Credit Union Dictionary and Reference (e cura di Jack McLanahan e Connie McLanahan) che fornisce informazioni dettagliate sul movimento cooperativo Nordamericano, ossia sulla storia, lo sviluppo e la posizione di mercato delle cooperative in Canada e negli Stati Uniti alla fine del secolo scorso 21 22 23 14 L’attività internazionale ha una tradizione storica. La CUNA, infatti, era stata già coinvolta nello sviluppo delle società di credito in varie parti del mondo così come la CLUSA per le cooperative di consumo. Per approfondimenti cfr. Shaffer Jack (1999).. completare questa sommario elenco di eventi che rappresentano la scansione dello sviluppo della cooperazione canadese occorre aggiungere che nel 1909, per rappresentare adeguatamente il fenomeno cooperativo, ormai esteso a livello nazionale, veniva istituita un’associazione centrale di categoria, operante a livello nazionale, denominata l’ Unione delle Cooperative del Canada. Nel corso del nuovo secolo si aggiunsero assai rapidamente altre esperienze in molte province: tra queste, le cooperative agricole che registrarono una maggiore vitalità rispetto a quelle di altri settori e che, a fronte della consistenza raggiunta, fondarono una istituzione consortile per la gestione del grano (a tutela e in rappresentanza degli interessi agricoli nell’area occidentale del Paese). Nel 1924 nelle province marittime sorse anche la prima cooperativa della pesca e poi la prima cooperativa edilizia (1930). Questa lenta diffusione delle imprese cooperative si accompagnava alla costituzione delle rispettive Federazioni Nazionali di settore e, contemporaneamente, nel terziario alla fondazione della Società di Credito Cooperativo Canadese (per le cooperative bancarie dislocate nelle province di lingua inglese). Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale favoriva la stabilizzazione delle cooperative nazionali (sia nell’area inglese che in quella francese) e la istituzione di una Federazione centrale nel campo delle fornitura di servizi sanitari. Nel 1953 l’Unione delle Cooperative del Canada riconosceva l’importanza dell’assistenza alle cooperative dei Paesi in via di sviluppo e richiedeva al Governo una partecipazione al movimento cooperativo internazionale per facilitare tale compito. Nel 1960 le cooperative prescolastiche si riunivano con quelle degli Stati Uniti per dar vita alla Cooperativa Internazionale Prescolastica dei genitori. Questo sviluppo lento ma costante della cooperazione canadese raggiunse, alla fine del secolo scorso, una consistenza evidentemente non paragonabile a quella registrata negli Stati Uniti ma comunque importante e significativa per lo sviluppo economico del Paese, con una prevalenza nel settore del credito, dell'edilizia abitativa e dell'agricoltura (cfr. Tab.3). I cooperatori canadesi nel 1996 rappresentavano il 50% della popolazione. 15 Tab. 3 COOPERATIVE CANADESI (1996) Agricole Imprese Soci Imprese Soci Forestali Credito Pesca Consumo Produz./Lav 904 88 2.448 61 582 62 (11,5%) (1,1%) (31%) (0,8%) (7,4%) (0,8%) 623.339 8.684 10.014.000 9.813 2.976.513 4.171 (4,3% (0,05%) (69%) Edilizia (0,06%) Trasporto (20%) Sanità Sociali Altre 28 446 2.011 64 779 (0,35%) (5,7%) (25.5%) (0,8%) (9,8%) (0,03%) Totale 7.870 316.304 32.812 116.276 7.972 266.281 14.518.682 (2,2%) (0,2%) (0,8%) (0,05%) (1,9%) (50% pop.) Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc. Lanham Md. & c., London, 1999. In corrispondenza alla struttura federale del territorio24, anche il movimento cooperativo è rappresentato da due strutture organizzative centrali, rispettivamente francese (Desjardins Group, dal fondatore delle banche di credito cooperativo) ed una inglese (Canadian Cooperative Association25 , erede della prima associazione centrale di categoria). 1.3. America Latina: Brasile ed Argentina. Nell’area dell’America Latina le cooperative hanno sempre svolto una funzione sociale di grande rilievo, tanto che in alcuni tra questi paesi le politiche governative hanno favorito e stimolato la diffusione della cooperazione, interpretata come strumento di promozione economica e di inclusione sociale. È il caso del Brasile. L’inizio del movimento cooperativo brasiliano risale al 1847, con la fondazione di una società rurale (nella fattoria di Teresa Cristina) nello stato di Paraňa, per iniziativa di un dottore francese, Jean Maurice Fibre; nel 1888 questa struttura cooperativa si era evoluta al punto da essere promossa e sostenuta da una campagna pubblicitaria diffusa a livello nazionale. Gli interventi legislativi del 24 25 16 Il Canada è uno Stato federale (il più esteso del mondo dopo la Russia) che comprende 10 province e tre territori. Per ulteriori approfondimenti cfr. Jack Shaffer (1999, op. cit.). 1903 e del 1907 stimolarono ulteriormente la crescita delle cooperative in tutto il Paese e nel 1925 le stesse imprese diedero l’avvio a varie Federazioni regionali, per poter usufruire dei vantaggi della collaborazione cooperativa e diffonderli all’interno della categoria: una strategia lungamente perseguita, tanto che negli anni ’90 si contavano 92 Federazioni di questo tipo, che rappresentavano gli interessi dei diversi settori del movimento cooperativo che assommava (nel 1998) 5.339 società e 3.741.667 soci (il 2,3% della popolazione). Tutti i governi del Brasile hanno costantemente incentivato lo sviluppo del modello cooperativo e, in particolare, negli ultimi anni si sono sviluppate sinergie di partnership e di assistenza allo sviluppo con molti paesi europei . Si è sempre trattato, infatti, di un movimento importante per l'economia del Paese e di grande vitalità26 nel quale il peso maggiore è rappresentato dal settore agricolo e dalla cooperazione di lavoro (cfr. Tab. 4). Tab. 4 COOPERATIVE BRASILIANE (1998) Imprese Soci Imprese Soci Agricole Pesca Edilizia Consumo Elettr/Tel 1.496 (28%) 25 170 (0,5) (3,2%) 238 (4,4%) (3,8%) 918.883 (25%) 16.209 36.468 (9,4%) Produz/Lav 205 (0,9%) 1.221.985 (33%) (7,2%) Sanità Credito Altre Totale 1.103 (21%) 862 (16%) 842 (16%) 458 (8,6%) 5.339 297.121 595.105 (16%) 655.896 (17%) Nd 3.741.667 (2,3% pop. ) (7,9%) 270.000 Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc. Lanham, Md., & London 1999 . Il movimento cooperativo in Argentina27 è la più recente fra le esperienze maturate del Sud America, poiché la prima cooperativa, la Sociedad de Producciòn y Consumo fu fondata solo nel 1875 seguita, a distanza di un decennio, dalla prima cooperativa telefonica a Buenos Aires (nel 1887) e rimasta in attività fino al 1925. Anche per l’Argentina la prima legislazione cooperativa risale ai primi anni del ‘900 (nel 1905) e altrettanto tarda è la costituzione della prima struttura associativa di rilievo, l’ Unione Centrale Nazionale (fondata nel 1922). 26 27 17 Nel 1999 proprio un brasiliano, Roberto Rodrigues ha ricoperto il ruolo di Presidente dell’ACI . Per approfondimenti cfr. Jack Shaffer (1999, op. cit.). Il movimento cooperativo argentino si è quindi sviluppato gradualmente, articolandosi in una vasta rete di settori economici e continuando a crescere, nonostante la continua instabilità politica della nazione. Negli anni più recenti il numero di cooperative è aumentato mentre il numero di soci ha avuto un andamento altalenante: si è prima abbassato (toccando un picco minimo del 10% della popolazione) per poi risalire negli anni Novanta a più di 1/4 (cfr. Tab. 5). Tab. 5 COOPERATIVE ARGENTINE (1991) Edilizia Consumo Produz./Lav Assicuraz. Imprese 1.428 (17,5%) 467 (8,1%) 2.111 (26%) 49 (0,6%) Soci 243.973 (2,7%) 1.000.000 (11%) 33.329 (0,4%) 727.097 (7,9%) Servizi pubbl. Agricole Credito 1.628 (20%) 983 (12%) 8.142 3.100.964 (34,1%) 2.000.000 (21,9%) 9.103.268 (27,8% POP.) Imprese Soci 1.476 (18%) 1.997.905 (22%) TOTALE Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc.Lanham, Md., & London 1999. Il movimento cooperativo argentino, nonostante le vicissitudini politiche è stabile, indipendente e diversificato come in qualsiasi altra parte del mondo ed è rappresentato da una fitta rete di Federazioni, di istituzioni finanziarie, di strutture educative, di formazione professionale e da una casa editrice cooperativa, la Intercoop Editora Cooperativa Limitada, di reputazione internazionale. In questi ultimi anni caratterizzati da una profonda crisi economica nazionale, la cooperazione argentina ha cercato di svolgere un ruolo di recupero della forza lavoro disoccupata, tentando così di dare continuità alle grandi imprese fallite a seguito della crisi o abbandonate da parte dei proprietari per la sopravvenuta scarsa redditività (analogamente al ruolo svolto dalla cooperazione in Italia negli anni ’80). 18 1.4. Area Asiatica: India e Giappone. In India28 il moderno movimento cooperativo si avviava alla fine del XIX° secolo con un sistema di imprese basato sul modello Occidentale e regolamentato con la Legge sulle Società Cooperative (del 1904) , che focalizzava l’attenzione sulle cooperative di credito, tipologia maggiormente diffusa all’interno del mercato indiano (nel 1907 si contavano già 843 cooperative di credito). Nel 1912 questa prima legislazione veniva estesa in tutte le regioni del Paese ed a tutte le categorie cooperative che, da quella data, iniziarono a diffondersi rapidamente, raggiungendo un tasso di crescita del 50% in appena un decennio (dalle 8.177 del 1912 29 alle 12.324 del 1922). L’espansione dell’ attività cooperativa proseguirà nei 25 anni successivi, durante il quale verrà istituita anche l’Unione Nazionale Cooperative Indiane 30 (nel 1929). Il nuovo governo dell’India indipendente, a sua volta inizierà (nel periodo dal 1956 al ’61) a considerare le cooperative come istituzioni pubbliche integrate al mercato privato e, a tal fine, avvierà delle politiche che tenderanno a rendere il Paese una sorta di Commonwealth Cooperativo Socialista31. La compresenza dell’interesse pubblico e di quello privato all’interno di questo segmento di mercato condurrà però ad un conflitto di interessi tra poteri pubblici e cooperativi32 e, da un lato, alla formazione di un gruppo di leader cooperativi sempre più emancipati che avrebbero voluto un movimento autonomo e dall’altro, all’accrescimento dell’ingerenza statale, orientata ad affidare alle cooperative il controllo dello sviluppo economico nazionale. A prescindere da queste tendenze divergenti, le cooperative continuarono a svilupparsi tentando di confermare le originarie tendenze all’indipendenza, ma restando strettamente legate ai finanziamenti pubblici e ad una legislazione basata sul coinvolgimento diretto del Governo sulla gestione cooperativa. Oggi il movimento cooperativo indiano è il più ampio al mondo33, sia per numero di società che per numero di associati (cfr. Tab. 6). In tutto il territorio nazionale la quota dei prodotti offerti dalle cooperative è consistente ed è determinante per tutta l’economia del paese: nel 2000 ad esempio, la cooperazione copriva oltre il 50% della produzione nazionale di zucchero, il 70% nella produzione 28 29 30 Per approfondimenti cfr. Jack Shaffer (1999, op. cit.). Il trend di rapida crescita delle cooperative nei principali settori dell’economia continuò, accompagnato nel 1919 da una legge che trasferiva alle amministrazioni regionali la responsabilità primaria e la supervisione sulle cooperative (adesso statali). Dalla prima metà del XX° secolo le imprese cooperative locali iniziarono a diventare una componente importante nella vita e nell'economia dei villaggi dell’India rurale e cominciarono ad espandersi anche nelle zone urbane. 31 Il Commonwealth Cooperativo (o stato cooperativo) designava un sistema alternativo al modello d'impresa capitalistica che si diffuse nel Regno Unito e che si basava su radici socialiste dell'ideologia cooperativa e su aspirazioni al cambiamento pacifico del sistema (dall'interno, dal basso e senza conflitti). 32 L’implementazione di questi obiettivi portò il governo ad essere coinvolto negli affari quotidiani delle cooperative; invece, si sarebbe dovuto incrementare il carattere indipendente di queste imprese per poterle considerate strutture economiche e sociali private e non governative. Nel 1989 l’ACI fissava l’incontro della Commissione Centrale in India (per la prima volta in un paese in via di sviluppo), confermando l’importanza e l’influenza delle cooperative indiane nella Comunità internazionale. 33 19 di fertilizzanti e quote importanti nella produzione casearia. La più importante esperienza cooperativa è certamente quella che si è sviluppata nello Stato del Kerala dove, accanto alle cooperative agricole, opera una cooperativa di lavoro tra le più grandi del mondo (la Kerala Dinesh Beedi Cooperative) che produce tabacco lavorato (le sigarette “beedi”) in oltre 320 fabbriche con 32.000 soci-lavoratori. Recentemente, le cooperative indiane sono entrate anche nel settore del micro-credito (sulla scorta del modello della Grameen Bank34), per offrire finanziamenti al comparto cooperativo. Il movimento cooperativo indiano è così complesso da avere una struttura di rappresentanza che conta ben 19 Federazioni nazionali. Tab. 6 COOPERATIVE INDIANE (1995) Agricole Pesca Edilizia Consumo Imprese 102.935 (23%) 10.763 (2,4%) 71.040 (6%) 23.903 (5,4) Soci 20.244.000 (11%) 1.122.000 (0,6%) 5.933.000 (3,2%) 11.234.000 (6,2%) Servizi Credito Altre Totale Imprese 4.470 (1%) 41.500 (9,3%) 139.191 (31%) 446.784 Soci 3.180.000 (1,7%) 43.716.000 (24%) 93.500.000 (51%) 182.921.000 (19,7% Pop.) Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc. Lanham, Md., & London 1999. Queste esperienze indiane (specie quelle di credito cooperativo e di produzione e lavoro del Kerala) formano oggetto di analisi e di studio, per tentare di esportare il modello cooperativo all'estero per la crescita economica di altri paesi asiatici in via di sviluppo. Giappone Il 1843 è l’anno cui si fa generalmente risalire l’avvio del movimento cooperativo del paese35 per la iniziativa di un collettivo di lavoratori agricoli e artigiani (con la Hotokusha), ossia la prima esperienza cooperativa nipponica. Da allora cominciarono a diffondersi altre imprese 34 35 20 Per approfondimenti cfr. Muhammad Yunus (2005). Per approfondimenti cfr. Jack Shaffer (1999, op. cit.). cooperative ed alla fine del 1800 (nel 1870) operavano già diverse società di consumo, una importante cooperativa di distribuzione (ad Hiroshima), una associazione agricola di ex samurai, alcune società di distribuzione di prodotti agricoli ed alcune prime banche di credito cooperativo. Le odierne società per la produzione della seta, quelle industriali e quelle della pesca iniziarono a diffondersi solo in seguito. Nel 1900 (dopo alcuni tentativi falliti) fu approvata la legislazione cooperativa nazionale che diede l’avvio ad un ulteriore sviluppo del settore e alla costituzione di una Federazione cooperativa. Dopo appena un decennio (nel 1912) si contavano 9.683 cooperative, operanti principalmente nel comparto agricolo ed industriale, della distribuzione e del credito, con 34 Federazioni ed un milione di soci. Nel decennio successivo l’incremento aveva raggiunto il 50% in termini di imprese (con 14.047 cooperative nel 1922) e livelli ragguardevoli relativamente al numero di soci (più del doppio con 2.734.695 unità) e di Federazioni (sestuplicate a 191). Nel 1923 le cooperative giapponesi entravano a far parte dell’ACI36. Con la seconda guerra mondiale e la sconfitta del Giappone, le forze di occupazione americane iniziarono a fornire aiuto per la ricostituzione del comparto cooperativo giapponese, con una legislazione rinnovata ed una nuova rete di Federazioni nazionali e di strutture ad esse correlate. Da allora, la crescita del settore cooperativo ha seguito le sorti di tutte le economie occidentali, con un iniziale sviluppo costante a cui hanno fatto seguito i processi di fusione e di concentrazione fra le imprese più piccole. Nel corso degli anni '90 quasi la metà della popolazione giapponese è compresa fra i cooperatori (cfr. Tab 7). Le cooperative giapponesi rientrano nell’ACI nel 195237 e nel 1992 Tokyo è sede del trentesimo Congresso ACI. 36 37 21 Negli anni ’30 le strutture cooperative giapponesi si erano sviluppate al punto da essere viste come una minaccia per le altre categorie di impresa. Di conseguenza, la Camera di Commercio organizzò una campagna anti-cooperativa e il Parlamento promulgò una legislazione repressiva. Alla fine degli anni ’30 queste misure avevano ridotto l’iniziativa cooperativa, compromessa anche dal suo sostegno al conflitto contro la Cina, atteggiamento che provocherà la disapprovazione da parte del movimento cooperativo internazionale e la conseguente espulsione del Giappone dall’ ACI. Nel 1972 l’agenzia della ILO registrava 21.600.000 soci cooperativi (il 19,9% della popolazione giapponese). Tab. 7 COOPERATIVE GIAPPONESI (1993) Agricole Pesca Imprese 3.204 (33,1%) 3.894 (40,2%) Soci 8.843.705 (15%) Imprese Edilizia Consumo Produz./Lav 48 (0,5%) 663 (6,8%) 113 (1,2%) 836.403 (1,4%) 1.076.832 (18,7%) 16.252.375 (28%) 5.974 (0,01%) Assicuraz. Servizi Credito Altre Totale 55 (0,6%) 117 (1,2%) 200 (2,0%) 1.394 (14,4%) 9688 12.000.000 1.618.823 5.752.000 1.817.569 57.527.085 (21%) (2,8%) (10%) (3,15) (45,9%) Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc. Lanham, Md., & London 1999. Soci In Giappone, così come in America, le cooperative gestiscono molte scuole, permettendo ai soci (genitori degli studenti, insegnanti o entrambi) di influenzarne direttamente la gestione. Un’altra importante peculiarità del mercato giapponese è legata alle cooperative in franchising, con le quali le piccole aziende cooperative forniscono prodotti finiti alle aziende più grandi (specie nel settore automobilistico), riuscendo ad ottenere un certo potere contrattuale ed evitando così interruzioni nella produzione e nella fornitura dei mercati esteri. In altri paesi in via di sviluppo, il movimento cooperativo è ancora in uno stadio aurorale, anche se non mancano esperienze di successo benché, complessivamente, solo nel 25% dei casi le cooperative operanti (per lo più di credito, di assicurazione e di produzione agricola) rispondono ai requisiti necessari per potere essere riconosciute dall’Alleanza Cooperativa Internazionale. 22 2. Le cooperative in Europa. È indubbio che molte specificità e disparità dell'odierno movimento cooperativo europeo risalgono alle diverse origini del fenomeno in ciascun territorio, alle diverse fasi di mercato nel periodo del loro insediamento ed ai differenti tratti storici che ne hanno poi caratterizzato l' evoluzione. A questi elementi occorre aggiungere alcune componenti endogene, tra cui le diverse traiettorie del processo di industrializzazione, i differenti sistemi politici, le disparate forme e le varie intensità con cui l'ingerenza pubblica ha influito sui mercati privati, anche se nel panorama europeo non sono mancate spinte produttive imitative, comuni pulsioni politiche e forme di internazionalizzazione delle ideologie che hanno “cavalcato” la cooperazione, permeando le logiche razionalizzanti dei processi competitivi e la dimensione, di fatto europea, dei mercati fino dalla fine dell’Ottocento. Così che, nel rappresentare l’articolazione attuale del (dei) movimento (movimenti) cooperativo europeo, non ci si può sottrarre dal delineare nel proseguo alcuni cenni storici sulle prime diverse avvisaglie di cooperazione nei principali mercati dell’Europa occidentale. In Europa, sin dagli inizi del XIX° secolo, è possibile segnalare alcune prime sperimentazioni cooperative, anche se alquanto rudimentali, che in seguito rappresenteranno le fondamenta della moderna cooperazione. Fra queste possiamo citare quelle considerate fra le principali. Nel 1809, ad esempio, nel Lussemburgo venivano costituite varie società fra giardinieri ed agricoltori (dando vita a primitive cooperative agricole dell’epoca) e nel 1816 a Berna e Friburgo nascevano le prime cooperative svizzere nel settore caseario. In Spagna, invece il primo approccio alla cooperazione (di allevatori), si può far risalire alla Asociaciòn General de Ganaderos de Espana fondata a Madrid (nel 1838). Ma il fenomeno diventerà consistente nella prima metà dell’Ottocento e in diversi paesi europei (soprattutto nel Regno Unito, Germania e Francia) dove iniziavano a delinearsi esperienze cooperative che presentavano modelli organizzativi assimilabili alle imprese moderne e ciò soprattutto nei settori del consumo, della produzione e del lavoro, dell' agricoltura e del credito, ossia per tutte quelle attività che stanno replicando la loro presenza nei loro originari territori di insediamento mostrando, sin dall’inizio e nel tempo, la capacità di specializzarsi e di svilupparsi nei tradizionali settori produttivi. La rivoluzione industriale, partita dall’Inghilterra e dalla Scozia meridionale (alla fine del XVIII° secolo) è però la data alla quale si fa ufficialmente riferimento. Come vedremo, si è trattato di un vero e proprio cambiamento delle modalità di produzione, segnando il passaggio dall’artigianato all’industria38 ed influenzando profondamente l’evoluzione della sociologia e delle scienze economiche. In particolare, l'inizio si fa risalire al 1844 quando a Rochdale nel Regno Unito 38 23 Analogamente si può anche dire che segnerà il passaggio dalla società feudale alla società capitalistica. Per approfondimenti cfr. Mokir J. (1997). (Londra) fu avviata dai Probi Pionieri una raccolta di fondi per l'apertura degli spacci alimentari (Equitable Pioneers): l’evento che ha segnato il vero e proprio inizio del movimento cooperativo moderno, la prima iniziativa economica fondata sui principi cooperativi con ripercussioni in tutto il mondo ed anche il primo modello di cooperazione di consumo che si contrapponeva ai modelli aziendali classici, troppo onerosi per i consumatori. Il nerbo della cooperazione inglese sarà, infatti, il modello che oggi cataloghiamo “cooperazione di consumo”. A differenza di quanto talvolta affermato, sin dal primo periodo della seconda metà dell’Ottocento in Gran Bretagna e altrove in Europa erano già trascorsi, quasi cento anni di sperimentazione del modello cooperativo. La Rochdale Society, più precisamente, fu dunque il risultato per il soddisfacimento dei bisogni di mercato piuttosto che una esperienza originale, che nasceva dalla necessità di risolvere i problemi della classe operaia, ossia con l’obiettivo di difendere il valore reale dei salari e di migliorare le condizioni economiche e sociali dei lavoratori. La scuola di pensiero inglese vedeva, quindi, nella cooperazione e nelle cooperative un complemento all’impresa di tipo capitalistico e quindi un ulteriore segmento produttivo ed un potenziale strumento di compensazione del più competitivo mercato dei capitali. In Francia, intanto, gettavano le fondamenta le cooperative di lavoro; nel 1831 veniva, infatti, creata la prima cooperativa di lavoratori a Parigi, per lottare contro la disoccupazione e Louis Blanc pubblicava l’Organisation du travail (l’Organizzazione del lavoro), definendo le basi del movimento cooperativo dei lavoratori. Alcuni decenni più tardi (nel 1851) alcuni agricoltori danesi costituivano la prima cooperativa di proprietari terrieri, per reagire alla crisi del mercato agricolo accanto ad altre aziende della stessa tipologia per gestire per gestire caseifici, cantine e mulini e sostenere il crollo dei prezzi e della domanda di prodotti agricoli: si trattava del primo esempio di cooperazione agricola di conferimento. Queste esperienze si moltiplicarono, diversificandosi, in tutta Europa. In Germania39 (nel 1865) intanto si gettavano le fondamenta della cooperazione di credito (di ispirazione cattolica, come vedremo meglio in seguito), esperienza avviata da F. Raiffeisen che sarà replicata in tutto il resto dell’Europa così come in Italia da L. Wollemborg 40 promotore delle casse rurali ed artigiane (le banche di credito cooperativo di oggi). Bisognerà, infine, giungere al 1872 per avere le prime cooperative di costruzione e questo passaggio da fornitori di materie prime (quale è di fatto la cooperazione di lavoro) in gestori di processo e di 39 40 24 Münkner H.H. (2000). L.Wollemborg fondò (nel 1883) la prima cassa rurale italiana a Padova, la Cassa Cooperativa di Prestiti di Loreggia. prodotti finiti (costruttori) avveniva per la prima volta in Svezia. Nell’area dell’Europa orientale le origini della cooperazione, come nel resto d’Europa, sono riconducibili agli inizi dell’Ottocento, quando in Polonia venne fondata la Hrubieszow, una società agricola e la prima cooperativa della nazione. Successivamente (1845) venne avviata un’esperienza cooperativa nel comparto del credito, con la Spolek Gazdovski in Slovacchia seguita, alcuni anni dopo (1850), da una struttura simile in Ungheria (con una associazione di credito e la prima cooperativa ungherese), in Romania e in Bulgaria (con l’attuale Banca Cooperativa Bulgara). Nella Repubblica Ceca (e precisamente in Boemia) il movimento cooperativo si identificava, invece, con un primo gruppo di risparmio e di fornitura alimentare (1852), mentre la prima cooperativa di consumo dell’ Est europeo si insediava (nel 1860) nella regione della Lettonia (allora parte della Russia). Ma, con la pianificazione centrale dell’Unione Sovietica, la cooperazione era uno strumento politico-economico dello Stato, quindi rappresentò per la popolazione un simbolo di dittatura e di predominio piuttosto che di democrazia e di libertà, cioè con un ruolo esattamente opposto a quello che è stato nel resto d' Europa. E il ricordo di questa esperienza è stato così negativo che anche oggi nei paesi dell’ ex blocco dell’Europa orientale la cooperazione stenta a decollare41. In Italia, infine, la nascita e lo sviluppo della cooperazione, come si vedrà più avanti, sarà contemporaneamente di lavoro e di utenza anche se le sue specificità ed i suoi primati innovativi saranno riscontrabili sia in quelle imprese che abbiamo precedentemente definito “passaggi generazionali” che in quella tipologia del tutto originale che è la “cooperazione sociale”, che ha assecondato in Italia il processo di privatizzazione del welfare42. A prescindere dai diversi modelli adottati, in tutto il territorio europeo è stato riscontrato un denominatore comune della cooperazione, individuabile nella fattiva applicazione dei principi di solidarietà e di mutualità e, questo fatto, ha consentito a queste imprese di insediarsi in mercati dove l’iniziativa privata mancava o non era ancora stata in grado di perseguire lo sviluppo sociale insieme a quello economico. Nel complesso il movimento europeo ha registrato percorsi di crescita difformi in termini di consistenza, 41 42 25 Ancora oggi nei paesi a regime pianificato la cooperazione rimane regolamentata da leggi interne ed è sottoposta alla realizzazione di programmi coercitivi stabiliti dal Governo centrale, che limitano la libera iniziativa privata. Per un approfondimento sull’origine dei diversi modelli della cooperazione europea cfr. S. Zamagni-V. Zamagni (2008). di specializzazione settoriale e di best practicies; inoltre, ciascun paese europeo ha reagito diversamente alla globalizzazione. Ci sono stati paesi come, ad esempio, la Francia e l’Inghilterra con movimenti cooperativi iniziali di grande rilievo nel settore del consumo che, però, nel giro di pochi anni, sono lentamente crollati o si sono fortemente ridimensionati ed altri in cui la cooperazione è nata e si è diffusa partendo dal terziario (come le Raiffeisen Bank in Germania). In Italia la risposta cooperativa al diffuso processo di industrializzazione del dopoguerra (più comunemente conosciuto come la fese del “miracolo economico43”) sarà orientata alla riconversione organizzativa e gestionale delle imprese in aziende di dimensioni più grandi, un passaggio non facile ma inevitabile, che l' origine modesta dei protagonisti ha affrontato non senza fallimenti e/o grandi e piccole crisi. 3. L’attualità delle cooperative in Europa. Sin dalla prima metà del XIX° secolo, come anzidetto, è possibile riscontrare in quasi tutti i paesi Europei l’humus del moderno movimento cooperativo in larga parte come risultato o come una risposta organizzativa dei nuovi imprenditori a seguito del passaggio dall’economia agricola (basata sul baratto e sulla produzione su piccola scala) a quella industriale (quindi orientata alla crescita sistematica della grande e media industria di capitali). Per alcuni aspetti, la cooperazione europea ha anche rappresentato un istituto per la tutela dei lavoratori nelle industrie penalizzati per il passaggio ad un modello di organizzazione della produzione basato sull'impiego sistematico ed intensivo dei macchinari. La cooperazione europea nasce quindi sulla base di spinte politiche ed ideologiche se non rivoluzionarie certamente riformiste, poiché legate a lotte, utopie ed a condizioni sociali di base diverse ed ha fatto riferimento a molti paradigmi politici, sicuramente a quello socialista (e più tardi, in parte a quello marxista) così come a quello sociale-cattolico ed anche al filone democratico, rappresentato dal pensiero mazziniano. Si tratta, quindi, di un panorama poliedrico e tuttora molto differenziato, non solo in termini numerici ma, anche in base ai diversi modelli storici, politici e culturali che ciascun paese ha vissuto. A livello comunitario e nella maggior parte degli Stati membri, le cooperative detengono quote di mercato importanti, specie nel settore primario e terziario. Nel 1996 il 35% delle cooperative europee operava, infatti, nel settore agricolo44, il 20% nel settore secondario45 e ben il 45% nel 43 Per approfondimenti cfr. Cardini A. (2006). 44 Alla stessa data (1996) la quota di mercato delle cooperative nel settore agricolo era dell' 83%in Olanda, del 79% in Finlandia e del 55% in Italia. Nella silvicoltura, le cooperative detenevano una quota di mercato del 60% in Svezia e del 31% in Finlandia. Nella vendita al dettaglio, le cooperative di consumatori detenevano una quota di mercato del 35,5% in Finlandia e del 20% in Svezia. Nel comparto della cura della salute e nell'approvvigionamento farmaceutico, le cooperative avevano una quota di mercato del 21% in Spagna e del 18% in Belgio. 45 26 terziario46, occupando in media circa 2,3 milioni di lavoratori (il 2,3% in media del lavoro stipendiato a tempo pieno), con una percentuale rispetto al totale degli occupati, che oscillava da un massimo del 4,6% in Spagna e il 4,5% in Finlandia ad un minimo dello 0,57% in Grecia. In questo panorama strutturalmente molto differenziato, emerge come carattere generale che la grande dimensione prevale nei paesi del Nord Europa, mentre l’area del Sud rimane caratterizzata da imprese mediamente più piccole, operanti soprattutto nel terzo settore. Agli inizi del Duemila si contavano circa 132.000 cooperative che impiegavano 2,3 milioni di cittadini europei (una percentuale di lavoratori salita al 3% sul totale) e con 83,5 milioni di soci 47 a cui si aggiungeranno i 23 milioni di soci delle imprese dei paesi dell’Est europeo candidate ad entrare in Europa48. Con l’ampliamento del mercato europeo ed a seguito degli ampi processi di concentrazione, che stanno interessando tutte le aree produttive, si è verificata l’estensione della presenza cooperativa in settori prima inesplorati, per la necessità di doversi adeguare o per compensare la nuova domanda di mercato e le nuove regole del commercio internazionale 49. Si è così assistito alla diffusione ed al successo di molte cooperative nel terziario e, in particolare, nel settore informatico o dei servizi tecnologicamente evoluti per le imprese, come ad esempio il caso della compagnia telefonica nel Regno Unito, che compra “traffico telefonico” per poi rivenderlo ai soci a tariffe vantaggiose, realizzando un significativo abbattimento per i soci del prezzo del servizio. Altre esperienze significative si sono avute anche nel settore della cultura: è il caso della Francia dove operano ben oltre 50 teatri cooperativi (che assicurano la piena libertà artistica), tra cui il rinomato “Théàtre du Soleil”. Stanno emergendo nuove forme cooperative anche nei settori del sociale e del welfare, che offrono servizi e partecipazione alla vita sociale a coloro che ne sono esclusi e che ne necessitano. Nei paesi del Nord Europa, invece, si continuano a rilevare performance interessanti per iniziativa di imprese cooperative che continuano ad operare nel settore primario , riuscendo con la loro offerta, a contribuire in misura massiccia all’offerta nazionale. Basti pensare che nel 1996, in Olanda la quota di mercato della cooperazione agricola raggiungeva l’83%, in Finlandia il 79% e in 46 47 48 49 27 Nel settore terziario, le cooperative avevano raggiunto oltre il 50% del mercato del risparmio in Francia, il 35% in Finlandia, il 31% in Austria e il 21% in Germania. Per approfondimenti cfr. UE, Libro bianco sulle imprese cooperative europee (2001). Nell’Europa centrale ed orientale le cooperative stanno contribuendo alla formazione professionale degli imprenditori ma scontano ancora l'eredità politica delle precedenti economie pianificate. I dati riportati nel proseguo per ciascun singolo paese in Europa e relative al 1996 sono tratti da l’ “International Co-operative Alliance (ICA), Statistics and Information in European Co-operatives, ICA, 1998. Italia il 55%. Analogamente per la silvicoltura, con una incidenza delle cooperative del 60% in Svezia e del 31% in Finlandia. Queste importanti quote di mercato confermano che nel NordEuropa l'offerta delle cooperative è dominante nel settore primario e, fra queste, al primo posto, nella graduatoria delle prime 25 imprese del mondo (per capitale), compare la finlandese “Metsäliito”, che opera nell’industria della forestazione e del legno (con un giro d’affari di quasi 6 miliardi di euro, 60.000 soci e oltre 20.000 addetti). Per importanza è doveroso citare anche le cooperative casearie e per la produzione della carne localizzate, prevalentemente, in Danimarca, in Svezia, nei Paesi Bassi, in Germania e in Irlanda che detengono quote di mercato che, in alcuni casi, sfiorano addirittura il 90% (Ms foods in Danimarca) o il 75% (Swedish Meat in Svezia). Nei paesi con una connotazione cooperativa storica, a più recente e significativa presenza del movimento cooperativo si riscontra, invece, sempre nell'ambito del settore terziario, specialmente nel credito e nella grande distribuzione50. Tra i gruppi creditizi cooperativi europei più noti possiamo, infatti, citare la Radobank (Paesi Bassi), il Crédit Agricole (Francia) e le Banche Raiffeisen (in Germania e nei paesi di lingua tedesca). In particolare, il Crédit Agricole è stato per decenni (fino alla fine del secolo scorso e prima dell’ampio processo di concentrazione che ne ha modificato la struttura proprietaria e la dimensione), il secondo istituto di credito (per dimensione) del mondo occidentale; anche Radobank, seconda banca dei Paesi Bassi, ha svolto negli anni un ruolo prioritario all'interno del mercato europeo. Le banche popolari tedesche e le Raiffeisen, a loro volta, compaiono ancora oggi nelle classifiche mondiali e sono ricomprese tra le principali istituzioni finanziarie europee. 3.1. Regno Unito. La cooperazione inglese risale alla prima metà del XVIII° secolo e la sua origine è associata alle organizzazioni di tessitori riuniti in cooperative e ad alcuni mulini collettivi, dislocati in Inghilterra e in Scozia (intorno al 1760). Il decennio successivo segnò l’avvio delle società di abitazione (per tentare di risolvere il problema delle pessime condizioni abitative degli operai) ed alla stessa decade risale la nascita della prima cooperativa di sarti, che rafforzò il movimento degli operai tessili. L’ origine delle cooperative, intese nell'accezione moderna, coincise però con la Rivoluzione industriale, partita alla fine di quello stesso secolo proprio dal Regno Unito e dalla Scozia meridionale (nel 1770 circa), imponendo ai lavoratori, prima artigiani autonomi che 50 28 Per la grande distribuzione degna di nota è la catena finlandese Scandinavian Coop Norden e la rete di negozi Migros in Svizzera. producevano beni manufatti nelle loro case, di trasferirsi nelle città industriali alla ricerca di lavoro nelle fabbriche gestite dai capitalisti-proprietari. Le ripercussioni sociali della rivoluzione industriale modificarono, perciò, l’equilibrio del mercato e, di conseguenza, le posizioni di potere: il capitale prima investito dai mercanti in materiali tessili per essere trasformati in tessuti e confezioni dagli artigiani indipendenti verrà ora dirottato, in quantità molto maggiori, nelle fabbriche (per l’acquisto di macchinari). Questo diverso impiego del capitale segnerà il passaggio dal mercato dominato dalla figura del mercante e dai beni prodotti dagli artigiani in autonomia, al sistema gestito dall’industriale e basato sull'impiego del lavoro umano per sfruttare al massimo i macchinari. I profondi effetti sociali della rivoluzione industriale51 furono, infatti, tramandato come la nuova posizione di uomini, donne e bambini assoggettati ad un lavoro che richiedeva orari massacranti e bassi salari. E, come riportato in tutta la letteratura e la storiografia economica52, la rivoluzione industriale portò alla rovina numerosi artigiani, costrinse al lavoro donne e bambini e determinò spaventose crisi di sovrapproduzione53 (per un eccesso di offerta di lavoro). Da ciò la necessità di concepire modelli di organizzazione della produzione alternativi all'impresa capitalistica e, in qualche modo, in grado di riscattare, economicamente e socialmente, i lavoratori e ad un diffuso clima di insoddisfazione e di ingiustizia sociale che darà l’avvio anche ad interventi politici ed istituzionali. Una prima risposta in tal senso si ebbe con David Dale, un capitalista e filantropo scozzese che, richiamando l’attenzione di tutta l’Europa, avviò un primo tentativo di riforma legislativa, proponendo una città-fabbrica modello dove trasferire i giovani ospiti degli orfanotrofi di Glasgow ed Edimburgo54 per lavorare: questo progetto associava l'idea dell' educazione a quella del lavoro. Sulla stessa scia, il socialista “utopista55” Robert Owen56 (genero di Dale), volendo ulteriormente ridurre lo sfruttamento dei minori istituì (nel 1799) il New Lanark on the Clyde, ossia un altro esempio di città-fabbrica modello, però rinnovata, con ulteriori finalità 51 Per “rivoluzione industriale” si intende la prima fase dello sviluppo dell'industria moderna e il periodo storico in cui si è affermato l’uso di macchinari per la produzione in serie dei beni. Ha avuto origine nella seconda metà del XVIII secolo in Inghilterra e nel settore tessile, da dove si è poi propagata in tutti i rami di attività economica. 52 Fra i primi studi storici storico-sociologici sul tema degli effetti del capitalismo e il generale dell' impoverimento dei lavoratori cfr. Engels F. (1972). 53 Alcuni ritennero che la rivoluzione industriale avrebbe potuto addirittura ricreare gli orrori della schiavitù e, in effetti, in alcuni luoghi e in alcuni momenti i lavoratori furono sottoposti a condizioni di sfruttamento disumano. Per approfondimenti cfr. Zamagni V.-Battilani P.- Casali A. (2004). In questa fabbrica i bambini avevano il privilegio di poter lavorare nelle officine tessili “soltanto” 13 ore al giorno, anziché le almeno 15 previste fino allora. 54 55 I socialisti cosiddetti utopisti (Owen, Fourier), sin dalla fine del XVIII° ed inizi del XIX°secolo cominciarono ad ipotizzare modalità di organizzazione della produzione diversi da quelli dell'impresa di capitali fino ad allora dominante (quindi un'utopia). 56 Robert Owen (1771-1858) fu uno dei primi pensatori inglesi a propugnare ideali socialisti e di tipo cooperativo con modalità di produzione in cui non c'era contrapposizione tra capitale e lavoro, quindi alternativi all' impresa capitalistica. 29 sociali ed educative dato che prevedeva l'introduzione di nuove forme di educazione al lavoro ed alla cooperazione, dando l’avvio ad un nuovo modello di produzione industriale. In questa fabbrica si applicò un' ulteriore riduzione dell’orario di lavoro dei minori (ad 11 ore) e si introdussero alcune lezioni e qualche svago nel tempo libero: si trattava di riforme radicali per quell’ epoca. Poi, sotto l’influenza di pensatori francesi a lui contemporanei (come l'utopista Charles Fourier57, che vedremo in seguito) e nello svolgimento del suo ruolo di politico (per il coordinamento dei lavori di un Comitato di indagine sullo stato di applicazione della Poor Laws58), venne incaricato dalla Camera dei Comuni per redigere un rapporto, il “Villages of Cooperation”, nel quale avrebbe dovuto esporre le sue idee di trasformazione sociale, ossia il suo modello produttivo e di organizzazione sociale ispirato a finalità educative59 che, in pratica, aveva applicato nella sua fabbrica-modello. Si trattava in realtà di una nuova forma di organizzazione della produzione, da contrapporre alle imprese di capitale e basata sull’utopia di una società futura senza classi, attenta al soddisfacimento dei bisogni umani e fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e dei risultati del lavoro operaio60. La fabbrica doveva essere gestita in forma cooperativa, i beni si sarebbero dovuti scambiare in base al lavoro in essi contenuto (come suggerito dall’ortodossia ricardiana) e la gestione avrebbe dovuto provvedere non solo alla produzione ma anche alla formazione professionale e spirituale dei lavoratori: un'ipotetico nuovo ordine sociale basato sui valori cooperativi di eguaglianza, democrazia e solidarietà (così come le prime sperimentazioni negli stabilimenti tessili di New Lanark). L’esperienza di Owen favorì ed influenzò anche i successivi interventi in tema di 57 58 59 60 30 Le radici del pensiero di Fourier , che si può definire progressista se non rivoluzionario, sono da ricercarsi nell'Illuminismo e in Jean-Jacques Rousseau, in particolare nel considerare la parità tra uomo e donna e nel nuovo metodo pedagogico, che avrebbe dovuto favorire lo sviluppo libero e creativo dei bambini, attraverso la scoperta dei loro istinti naturali. Le Leggi sui poveri (le Poor Laws) erano state introdotte nel XVI° secolo, durante il regno di Elisabetta I° per l'assistenza agli strati più poveri della popolazione. Prevedevano una forma di sostegno per individui che, a causa dell'età o della malattia, non erano in grado di svolgere attività lavorativa e mancavano di mezzi propri di sostentamento. Alla fine del XVIII° secolo, si trattava di un sistema che provvedeva ad integrare lo stipendio dei lavoratori che percepivano un salario al di sotto del limite minimo di sussistenza (detto di Speenhamland). Con il diffondersi dei modelli di produzione capitalistica e dell'idea di self-help (autosufficienza) si iniziò a vedere nel sostentamento pubblico un elemento corruttore della fibra morale dell'individuo e nella carità uno sprone alla pigrizia: di conseguenza, le stesse poor laws divennero sempre più restrittive e selettive. Di conseguenza, la legge del 1834 non diede più alcun sostentamento a coloro che erano fisicamente in grado di lavorare. Il problema dell'assistenza si ripropose con il diffondersi delle teorie interventiste dello Stato, che portarono alla sostituzione delle poor laws con un sistema di servizi assistenziali, ossia il welfare state. Le teorie di Owen erano basate sul presupposto che l’ambiente influenzasse in maniera determinante il comportamento umano e che, fornendo nutrizione gratuita ed alloggi decenti ed estendendo a tutti i lavoratori la partecipazione agli utili derivanti dal proprio lavoro, si potesse giungere a sopprimere gli istinti egoistici ed antagonistici del capitale e ad abolire ai lavoratori la funzione penalizzante della proprietà privata. In altri termini, per Owen la fabbrica rappresentava il nucleo intorno al quale poter ricostruire, gradualmente e pacificamente, una società più giusta, senza le prevaricazioni fra classi provocate dal capitalismo. cooperazione, rappresentando la base di partenza per molti illustri pensatori che lo seguirono e per altre esperienze cooperative (nel decennio 1826-1835 in Gran Bretagna furono infatti costituite più di 250 cooperative61). Nel 1820, intanto, sempre nel Regno Unito le esperienze cooperative di consumo si moltiplicarono: il Dottor William King, organizzò una importante cooperativa di consumo (a Brighton) ma, soprattutto, fondò la prima rivista cooperativa62, The Cooperator. Nel 1830 nacque proprio a Londra, la prima fabbrica cooperativa del Regno Unito63. Il movimento cooperativo fondato da Owen (imitato dai riformatori sociali e dagli ambienti politici conservatori) ed il suo progetto di riforma iniziò però a scontrarsi con le regole di mercatom, soprattutto per il suo sostegno alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, per l’uguaglianza delle retribuzioni dei lavoratori e per il suo rifiuto sia della moneta (quale mezzo di scambio universalmente accettato) che della libera concorrenza del mercato64 (quale regolatore della produzione e della distribuzione della ricchezza). In particolare, i comportamenti spietati della nuova imprenditoria delle industrie di Manchester e la loro corsa all’arricchimento lo convinsero che la libera concorrenza fosse la causa del diffondersi dell’avidità umana, dei comportamenti egoistici e del deterioramento dei rapporti umani. Intanto nel 1844, 28 tessitori di Rochdale (cittadina a nord di Manchester) o più comunemente noti come i “Probi Pionieri” avviarono la The Rochdale Equitable Pioneers Society, una sottoscrizione di fondi per l' apertura di uno spaccio fra alcuni tessitori che, anziché scioperare per la crisi del settore, decisero di vendere direttamente sul mercato i loro prodotti finiti e, contemporaneamente, generi alimentari di prima necessità (farina, burro e zucchero) ai propri soci. Nel 1850 i soci del magazzino erano già 600 e la cooperativa iniziò ad estendersi in altri settori (calzoleria, sartoria, macelleria, ecc.), creando posti di lavoro per molti artigiani; nel 1855 venne aperto il primo 61 62 L’Industrial and Provident Societies Act, la prima legislazione cooperativa al mondo, fu emanata (nel 1852) proprio nel Regno Unito e l’anno successivo fu fondata la Central Cooperative Agency, ossia la prima cooperativa all’ingrosso al mondo e la progenitrice della grande distribuzione all’ingrosso britannica. Nel 1869 il movimento cooperativo inglese organizzò il il primo Congresso Cooperativo Europeo. Nel 1830, secondo i dati della ILO Cooperative Chronology, esistevano 300 società cooperative e 12 riviste cooperative registrate ufficialmente. L’anno seguente a Manchester si tenne il primo Congresso Cooperativo del Regno Unito. 63 Per approfondimenti cfr. Hornsby M. (1988). 64 Le attività produttive auspicate da Owen proposero anche l’applicazione di ulteriori vincoli, ossia la garanzia di un utile “equo” per chi investiva il capitale nell’impresa e la necessità di reinvestire parte dei ricavi nella stessa impresa, per poter rafforzare la struttura patrimoniale dell’azienda e per migliorare il benessere degli operai. 31 magazzino all’ingrosso ed altre succursali in tutto il territorio del Regno Unito65. L’attività fu estesa anche nel campo delle scuole e della formazione, dell’edilizia e del credito. I Rochdale Principles66, che vigevano per la gestione di questi magazzini, rappresentarono le fondamenta per la stesura degli odierni principi67 dettati dall’Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI) ed applicati a livello internazionale. A differenza del rapido fallimento dei villaggi cooperativi di Owen, l'esperienza dei Probi Pionieri rappresentò il primo esperimento di successo di una cooperativa di consumo ed anche un iniziale spunto teorico, per iniziativa di alcuni economisti inglesi che, partendo da questa nuova struttura commerciale, iniziarono a promuovere il principio della “sovranità del consumatore”, nel rispetto delle nuove regole vigenti nel mercato, ossia la concorrenza, la proprietà dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori e la remunerazione proporzionale al contributo dei lavoratori all'attività e in base all’entità degli acquisti effettuati. I magazzini dei Probi Pionieri vennero gestiti nel rispetto di queste regole, prevedendo la raccolta del risparmio fra i soci (con la corresponsione di un interesse minimo) e la devoluzione di una parte degli utili (il 5%) a fini sociali68. Già da allora veniva anche prevista l'attività di istruzione e di formazione professionale a favore dei soci, a supporto del necessario processo di emancipazione economica e politica delle classi lavoratrici. I principi dei Probi Pionieri, proprio per queste intuizioni tramandate fino ai nostri giorni, rappresentarono perciò il primo importante riferimento per il controllo democratico dell’impresa (una testa un voto69), per il riconoscimento della parità dei sessi, per l’offerta di prodotti genuini e non adulterati e per la neutralità politica e religiosa. Nello stesso periodo, sull’impronta di questa esperienza, le cooperativa si diffondevano anche in altri settori di attività economica: nel Galles, con la prima azienda per i minatori (fondata nel 1859) seguita da imprese simili nel campo della produzione (1850) e del consumo all'ingrosso (1862-63). 65 66 67 68 69 32 Nel 1885 a Londra nacque l’Unione Cooperative Femminili (in Inghilterra e nel Galles) che segnò l’inizio della storia della cooperazione femminile, un movimento che da allora iniziò a diffondersi in altri paesi europei ed extra-europei. I principi che vigevano per la gestione di questo magazzino erano i seguenti: 1. vendita in contanti a prezzi fissi; 2. ristorno degli utili ai soci (in proporzione ai ricavi); 3. libertà di acquisto (i soci non erano obbligati ad acquistare nel magazzino); 4. riconoscimento di un interesse minimo sui prestiti dai soci: 5. devoluzione di una parte degli utili per la formazione professionale dei soci; 6. governo democratico (una testa un voto, anche per le donne); 7. neutralità e tolleranza religiosa. Tra questi il ristorno, l'attuale strumento apprezzato e dibattuto fra i cooperatori, che già allora riconosceva la necessità di fidelizzare e gratificare i soci con un ulteriore compenso monetario, in proporzione agli acquisti effettuati o ai ricavi realizzati con il loro contributo all'attività lavorativa. Questo obiettivo si è oggi esteso al perseguimento di ulteriori finalità anche sul fronte internazionale come, ad esempio, la tutela dell’ambiente, il sostegno economico-sociale e lo sviluppo dei paesi del Terzo mondo (ad esempio con il commercio equo e solidale). Il principio “una testa un voto” segnerà la differenza fondamentale fra le società di capitali (in cui il voto è proporzionale al numero di azioni possedute) e quelle cooperative, sottolineando il valore strumentale del capitale rispetto alla persona. Seguirà il comparto delle assicurazione70 (1867), dell’agricoltura71 (1867), del credito (1868, 1872, 1876), dell’edilizia abitativa (1884) e dell’ immobiliare (1900). Sorsero anche Federazioni di cooperative ed altre associazioni centrali di supporto72 alle imprese operanti. Il Congresso di Londra (del 1869) a sua volta, avviò un ampio processo di internazionalizzazione73 dell’esperienza cooperativa inglese e, pochi anni dopo (nel 1886), per iniziativa di Edward de Boyve (un cooperatore francese) fu possibile proporre a Londra l' istituzione di una Federazione Cooperativa Internazionale, un passo importante per arrivare alla nascita dell’odierna ACI (nel 1895). Il periodo successivo, ossia il cinquantennio da Rochdale alla prima guerra mondiale, continuò a rappresentare per la cooperazione un' importante fase di sviluppo e di crescita74,. . Gli anni successivi, tra le due Guerre segnarono, invece, il periodo di istituzionalizzazione dei passi già fatti in precedenza75. Le attività della cooperazione di consumo si estesero, si registrò la fusione fra il comparto dell'ingrosso inglese e quello scozzese e fu data maggiore attenzione alla fornitura di servizi cooperativi, sempre più adattabili alle nuove esigenze espresse dal mercato. La fondazione della Horace Plunkett (successivamente “Fondazione Plunkett” per gli Studi Cooperativi), istituita a Londra nel 1919, diventò il principale centro per la diffusione delle informazione sulle attività delle cooperative agricole ed iniziò, nel 1926, la pubblicazione dello Year Book of Agricultural Cooperatives. La prima Scuola Estiva Internazionale Cooperativa fu, invece, fondata nel 1921; nel 1926 si diede avvio al Sindacato Nazionale dei Cooperatori ed alla Woodcraft Folk, per le attività educative, formative e ludiche rivolte ai figli dei cooperatori. Nel 1941 si formò anche la Federazione Nazionale Giovani Cooperatori76. 70 71 72 73 74 75 76 33 La Società Cooperativa di Assicurazione del Regno Unito assieme alla Banca Cooperativa saranno leader, a livello internazionale, per i programmi di assistenza ai paesi in via di sviluppo. Le cooperative agricole estesero il loro campo di attività grazie alla costituzione dell’Associazione Cooperative Agricole Gallesi e del Comitato Cooperativo (operanti entrambe nell’ambito della National Farmers Union). Tra le altre, l’Unione Cooperativa di Manchester (1869), una Federazione di produzione (1882), una Federazione agricola (1901) e altre Federazioni della pesca (1914). Allo stesso periodo risale la creazione di un Comitato consultivo per l’Educazione cooperativa (l'avvio del Cooperative College di Loughborough). Nel 1920 fu fondata la Overseas Farmer’ Cooperative Association con la funzione di facilitare le relazioni politiche e commerciali con l’Australia, la Nuova Zelanda ed il Sud-Africa. Nel periodo il Governo sostenne l’azione cooperativa istituendo il Registro delle cooperative (nel 1846) e promulgando la prima legislazione cooperativa al mondo (l’Industrial and Provident Societies Act, del 1852), corretta nel 1862 per regolamentare la formazione dei consorzi cooperativi. Nel 1919 fu fondato il Cooperative College di Loughborough ed il primo Partito Cooperativo, la cui funzione era quella di difendere con maggiore determinazione gli interessi politici ed economici delle cooperative presso il Governo. Per approfondimenti cfr. Tamagnini G., (1960); Ferri A., (1978). Nell’immediato secondo dopo-guerra, le cooperative si dedicarono alla ricostruzione ed al ripristino delle loro reti, attraverso l’avvio dei negozi77, la riattivazione delle imprese di produzione, la ricostruzione degli edifici78 e, soprattutto, per la riorganizzazione del settore agricolo, a causa della continua migrazione della popolazione dalle campagne alle città e per la minore produzione agricola. In quegli stessi anni fu possibile assistere, anche, ad una certa ripresa delle relazioni internazionali mentre le varie organizzazioni nazionali vennero affiliate le federazioni Cooperative Internazionali, un crescente movimento diffuso in tutta Europa, per creare una rete operativa di cooperative nell’ambito di tutto il territorio comunitario79. 3.2. Germania. Il percorso storico del movimento cooperativo tedesco ci riconduce, come anzidetto, ai primi istituti di credito cooperativi80. Il perno della cooperazione tedesca fu, infatti, il credito. Agli albori della rivoluzione industriale, il paese si caratterizzava per un’economia ancora incentrata su un comparto agricolo poco innovativo e dominato dalla piccola e media proprietà terriera contadina. Il 1845 segnò l’ avvio del movimento cooperativo, ossia quando Victor Aimé Huber 81 associò la cooperazione ad una “soluzione economica ottimale” per la ripresa del mercato e il per il riscatto degli operai a basso reddito. Quasi contemporaneamente fu organizzata (nel 1846) da W. Raiffeisen82 una prima associazione con un forno per la distribuzione del pane e per combattere la carestia, dando l’avvio alle cooperative rurali Raiffeisen, mentre nelle aree urbane fu dato un maggiore impulso al settore dell'artigianato, con una prima cooperativa tra falegnami seguita da una tra calzolai (1847). Intanto l'attività cooperativa in ambito bancario, sempre per 77 78 79 80 81 82 34 Le cooperative di consumo furono nel tempo sottoposte ad ampi processi di concentrazione: i piccoli negozi locali vennero, infatti, riuniti e trasformati nei più moderni supermercati; e questi, a loro volta, in ipermercati regionali, che, nelle modalità del loro operato, erano assimilabili ai grandi magazzini. Le cooperative edilizie cominciarono a diffondersi soprattutto a Londra e nel Nord-Est dell’Inghilterra, diventando il secondo settore economico, in termini di numero di soci. Nel 1955, in occasione dell’incontro per il centenario dell’ICA, il movimento cooperativo mondiale scelse come presidente un inglese (Grahan Melmoth). Per approfondimenti cfr. Dowe D. (1988). Victor Aimé Huber (nato a Stoccarda nel 1800) è stato un riformatore sociale; ha infatti proposto un modello per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori con basso salario. E’ stato uno dei predecessori di intellettuali del movimento cooperativo in Germania e membro attivo del Comitato esecutivo del noprofit (dal 1949 al 1952). Ha inoltre partecipato alla creazione di imprese impegnate nella costruzione di abitazioni per gli operai . F.W. Raiffeisen (1818-1888) è stato un politico che, per far fronte alla crisi economica ed alimentare degli anni 1846-48, intervenne prima con l' Associazione per il pane (1846) e poi con la Società di soccorso agli agricoltori indigenti (1849), per alleviare le carenze di liquidità e le difficoltà di finanziamento di contadini e di artigiani. Nella valle del Reno fondò l'Associazione caritatevole di Heddersdorf (1852) che diventerà l' Associazione Cassa Rurale di Heddersdorf. iniziativa di Raiffeisen, si estese anche al di fuori dei confini locali, con la costituzione della Mutual Aid Association (nel 1849 a Flammersfeld), ossia la prima cassa rurale a responsabilità illimitata, per la concessione del credito al comparto agricolo83. Allo stesso modo nelle aree urbane Herman Schulze-Delitzsch84, nel suo ruolo di economista e poi di parlamentare, contribuì in maniera massiccia alla diffusione della cooperazione del credito nelle aree urbane con la fondazione (nell'anno successivo) della prima banca popolare (Vorschuszverein), avviando così il credito cooperativo urbano, per finanziare nuovi investimenti nel comparto del piccolo commercio e dell’artigianato e per sottrarre questi piccoli imprenditori allo sfruttamento degli usurai. Nel 1859 dall’aggregazione delle società bancarie più piccole, veniva promossa la prima Genossenschaftstag. La diffusione e il successo della cooperazione nei diversi settori di attività economica non solo in Germania ma in tutta Europa e il complesso delle attese sociali che questo modello di produzione stava iniziando ad alimentare, ponendosi come alternativa al mercato capitalista e come un interlocutore diretto delle classi operaie, spingerà Karl Marx, proprio in quegli anni (nel 1864), ad affrontare il tema del ruolo sociale del movimento cooperativo. La posizione di Marx nei confronti del movimento cooperativo però (come vedremo meglio in seguito) non sarà mai univoco ed oscillerà tra un apprezzamento iniziale ed una successiva posizione di indifferenza, come d'altra parte si riscontra nello schema, sostanzialmente dicotomico, del suo approccio al tema sociale. Il trentennio successivo della storia del movimento cooperativo tedesco fu segnato dalla proliferazione sia delle casse rurali di credito agricolo (patrocinate da F.W. Raiffeisen85 nella valle del Reno) che delle aziende di credito per artigiani e piccoli imprenditori, nelle aree urbane (sul modello Schulze-Delitzsch). Le prime, all'origine un network di istituti di credito rurale, basate su forti unità locali e federate a livello regionale, verranno poi unificate, a livello nazionale, in una Unione tra singole casse sociali di credito cooperativo (la prima nel 1865 a Weimar 86). Il successo e le politiche innovative che questo sistema alimentò, nel corso degli anni successivi condusse ad un 83 84 85 86 35 Questa prima cassa rurale, operando su un piccolo mercato (al massimo due villaggi) erogava il credito esclusivamente ai soci (illimitatamente responsabili), ad un basso tasso di interesse e riuscendo così a far circolare le poche risorse disponibili tra gli agricoltori, al fine di facilitare gli investimenti e la modernizzazione del settore. Franz Hermann Schulze-Delitzsch (1808-1883) economista e membro del parlamento (nel 1848) in rappresentanza del partito del centro sinistra, in qualità di Presidente della Commissione d’inchiesta si occupò delle misere condizioni economiche di agricoltori ed artigiani, e propose i nuovi modelli di cooperazione al fine di incentivare, in entrambi i settori, la produzione e il commercio. Il paese dove fu maggiore l'influenza di Raiffeissen fu l'Austria, dove tuttora gli è dedicata una organizzazione bancaria cooperativa molto efficiente collegata, con iniziative analoghe alla provincia di Bolzano. La prima banca cooperativa centrale di Prussia (la Deutsche Genossenschaftskasse, DG Bank) fu, invece, fondata nel 1895. ampio processo di integrazione e di centralizzazione delle singole imprese, che si estese anche in altri settori produttivi (ad esempio con la Federazione delle cooperative agricole) e ad una regolamentazione normativa (iniziata nel comparto del lavoro), che culminerà con l' emanazione della prima legislazione cooperativa tedesca (nel 1867). Questo intervento normativo stimolato dall' iniziativa di Shulze-Delitzsch87 (in qualità di membro del Parlamento austriaco) segnerà il riconoscimento legale delle cooperative, definendole “società a comunione di beni per fini commerciali”, cioè strutture produttive non alternative ma interne ed integrate al mercato capitalista tedesco e complementari agli altri modelli di produzione. Gli anni successivi alla prima guerra mondiale, segnarono lo stabilizzarsi della cooperazione di consumo con la fondazione di una Organizzazione Nazionale per la grande distribuzione (nel 1897) poi riunita in un' associazione centrale, denominata Organizzazione Nazionale per la Grande Distribuzione a cui, all’inizio del Novecento, si affiancò la Federazione Nazionale delle Cooperative Tedesche dei consumatori, operante su tutto il territorio per rappresentare un numero crescente di soci e di imprese di produzione88. Durante la prima guerra mondiale89 venne poi formato il Libero Comitato delle Associazioni Cooperative Tedesche (Freier Ausschuss der Deutschen Genossenschaftsverbande), che esiste tuttora con la denominazione di Confederazione Nazionale Autonoma90. Il mercato è poi stato interessato ad un ampio processo di centralizzazione e di concentrazione delle singole imprese in Unioni cooperative91 (per settore) Il primo dopoguerra fu poi un periodo molto complesso, in cui le dinamiche di crescita del movimento si intersecarono con le vicissitudini politiche (dando vita a cooperative neutrali, cooperative socialiste e cooperative cristiane92), alimentando così un'ampia serie di conflitti e di rivalità, specie tra le associazioni di rappresentanza dei settori. Con la salita al governo del partito nazista, ostile all’autonomia, alla democrazia e all’orientamento democratico della cooperazione, la struttura organizzativa di questo segmento produttivo fu immediatamente abolita e la supervisione centralizzata del settore fu affidata al Governo centrale (il Nazi Deutsche Arbeitsfront). 87 88 89 90 91 92 36 Schulze-Delitzsch, in qualità di membro della Camera riuscì, infatti, a trasferire il diritto prussiamo a Nord della Confederazione tedesca e poi in tutto l’impero germanico (nel 1867). Intorno al 1910 si contavano 6 Unioni cooperative che raccoglievano i 5/6 delle imprese mentre negli anni 20-30 si verificò un’ulteriore integrazione e l’accorpamento di quelle esistenti in 3 Unioni, una per ciascun settore (commerciale, agrario e di consumo). All’inizio della prima guerra mondiale erano presenti in Germania 34.568 cooperative con 6.250.000 di soci . Alla fine del 1943 il numero di cooperative raggiunse un picco di 53.348 imprese con 9.000.000 di soci. Nel 1985 nella Repubblica Federale Tedesca erano presenti 10.185 cooperative con 14.018.037 soci (il 22,8% della popolazione). Per approfondimenti cfr. Dowe D. (1988). Nel 1864 Schulze-Delitzsch aveva anche fondato la Allgemeiner Verban (AV), la prima Unione Cooperativa tedesca. Per approfondimenti cfr. Dowe D., op.cit. Si trattava della fase del cosiddetto “allineamento” delle Unioni cooperative (1933), ossia la perdita della loro autonomia e la conseguente sottomissione al controllo dello Stato93. Nel giro di pochi mesi, infatti, Hitler aveva allestito l'apparato istituzionale del "nuovo ordine" nazista, che significava il predominio del regime sulle imprese cooperative, cioè l’abolizione del loro ordinamento democratico e la liquidazione di ogni forma di partecipazione dei soci- lavoratori alla gestione dell'impresa. Nel secondo dopoguerra si poté assistere alla ripresa del movimento cooperativo e delle sue prassi organizzative, con il ripristino di una certa autonomia dal Governo centrale. Come in tutti gli altri Paesi si trattò di un processo rapido in tutti i settori che, nel 1948, permise la ricostituzione della Federazione delle Cooperative di Consumo e delle società Raiffeisen, alle quali ben presto si aggiunsero la Federazione delle cooperative di abitazione (nel 1949) e l’Unione delle Associazioni Centrali (nella Repubblica Federale Tedesca). Con questi interventi il comparto cooperativo tedesco ben presto si ristabilizzò, sebbene con prassi, dimensioni e peculiarità nettamente diverse rispetto al passato ma con l’intento di continuare a rappresentare, in tutto il territorio, un elemento chiave per lo sviluppo economico nazionale94,, sebbene con marcate e comprensibili divergenze tra le due aree (Germania democratica e socialista). In ambito internazionale la cooperazione tedesca è presente, sin dal secondo dopoguerra, con la Raiffeisen International Union (RIU95, fondata nel 1968) che ancora oggi raggruppa le associazioni di volontariato di tutto il mondo, mettendo in pratica l’organizzazione del lavoro basata sull' autoresponsabilità e sull' auto-governo, in base ai principi e le idee di Friedrich Wilhelm Raiffeisen e favorendo lo scambio di esperienze tra le diverse organizzazioni aderenti. La sensibilità a farsi carico dello sviluppo dei paesi meno industrializzati è sempre stata una costante di tutta la politica tedesca96. Le università tedesche, a loro volta, hanno creato una rete di istituti di ricerca che studiano e promuovono in tutto il mondo la forma e le potenzialità della cooperazione come motore propulsore per lo sviluppo economico nel mondo e dei PVS. 93 94 95 96 37 Con questo nuovo ordine la Germania uscì dalla profonda crisi in cui versava l'economia nazionale: le sorti dell’alta finanza e della grande industria nazionale furono risollevate e gradualmente fu assorbita anche la disoccupazione. La ripresa economica fu possibile soprattutto per in contributo dovuto alla organizzazione di una possente industria bellica. L’Economia sociale tedesca distingue al suo interno tre grandi tipologie di imprese: 1. la cooperazione (che identifica la figura del lavoratore con quella dell'imprenditore); 2. l'impresa mutualistica (che identifica la fruizione dei servizi con l’adesione all'organizzazione); 3. l’associazionismo (modelli di organizzazione dei cittadini e distinte dalle due precedenti). Ai nostri giorni conta 73 membri provenienti da 41 Paesi. I padri fondatori della moderna politica tedesca, Konrad Adenauer, Friedrich Ebert e Friederich Neumann inclusero sempre nei loro programmi l’assistenza alle cooperative dei paesi in via di sviluppo. 3.3. Austria. La prima cooperativa Austriaca è l' estensione della categoria delle banche di credito cooperativo tedesche, rappresentate da una società aperta a Klagenfurt (nel 1851) da Franz Hermann Schulze-Delitzsch. Da allora fu avviato un movimento precursore dell’intero movimento cooperativo austriaco, il Gruppo Generale di Aiuto Viennese, che si estese rapidamente nel territorio tanto da creare una Federazione Nazionale per la Cooperazione (nel 1872) . La istituzionalizzazione del movimento cooperativo austriaco fu fortemente sostenuto dall’impegno parlamentare del suo promotore, Schulze-Delitzsch H. impegnato sia nella regolamentazione del settore che per promuovere la cooperazione considerata uno strumento in grado di riscattare lo sfruttamento della classe operaia. Nel 1873 verrà poi emanata la prima legislazione per regolamentare l’attività del movimento cooperativo e parallelamente sorgerà l' Istituto Centrale di Categoria delle banche di credito cooperativo, denominato “Unione Austriaca Raiffeisen” (nel 1898) a cui farà seguito la Federazione delle Cooperative Agricole e la Federazione dei consumatori (nel 1901). Fino agli anni antecedenti la prima guerra mondiale si registrò la continua ed intensa diffusione delle imprese; poi a seguito dello scioglimento dell’Impero Austro-Ungarico, si registrò una graduale riduzione del segmento produttivo cooperativo così come la perdita del sostegno politico che ne aveva accompagnato l' espansione, con effetti dapprima all’interno dell’Impero e poi anche al di fuori dei confini97 nazionali. Nel periodo tra le due guerre furono invece create nuove strutture, tra cui un’Associazione centrale per le banche di credito cooperativo, altre cooperative per l’edilizia abitativa (che diedero vita ad una apposita Federazione Nazionale) ed una società cooperativa di assicurazione, con competenza su tutto il territorio nazionale, che rappresentò la volontà di estendere l’esperienza della mutualità cooperativa in altri nuovi settori. Nel 1930 Vienna fu scelta quale sede per l’incontro del tredicesimo Congresso dell’ACI attestando, così il pieno riconoscimento dello status internazionale del movimento cooperativo austriaco. In seguito, l’occupazione tedesca dell’Austria (del 1938) e la sua annessione al Reich condussero alla dissoluzione forzata di molte imprese cooperative e, in specie, di quelle di consumo fortemente legate ai sindacati e alle strutture politiche socialiste. Il movimento cooperativo austriaco poté ristrutturarsi nei settori tradizionali (dell’ agricoltura, del consumo, del credito e dell’abitazione) soltanto dopo la seconda guerra mondiale. 97 38 Al ridursi dell’interesse politico all’interno del movimento cooperativo austriaco farà seguito la nascita di piccoli nuclei di nuove comunità cooperative nei territori che poi diverranno Stati autonomi (ossia in l’Ungheria e nelle appena costituite Cecoslovacchia e Jugoslavia) Nel 1966 anche il XXIV° Congresso dell’ICA fu tenuto a Vienna98. Se confrontiamo la consistenza delle cooperative di quegli anni con i dati rilevati dall’ACI alla fine degli anni Novanta, si nota una sostanziale stabilità nella dimensione del mercato cooperativo austriaco, sia in termini di aziende operanti (passate nel trentennio da 1440 imprese a 1485) che in base ai soci cooperatori, che continuano a rappresentare, approssimativamente, quasi la metà della popolazione (e precisamente il 47,9%). 3.4. Francia. La nascita del movimento cooperativo francese, come in altri paesi europei, può farsi risalire al 1750 ed alle imprese tra produttori del settore caseario, localizzate nella regione FrancheComté: le prime esperienze cooperative francesi. A questa iniziativa seguiranno, agli inizi del XIX° secolo, i falansteri ideati da F.M.C.Fourier99, ossia alcune comunità di tipo cooperativo, basate sui principi del volontariato e dell’aiuto reciproco. Lo sviluppo sistematico della cooperazione francese proseguirà nel suo percorso di crescita, anche con il contributo di importanti teorizzatori del 98 99 39 Nel 1966 le cooperative austriache operavano nel settore agricolo (con 1.067 società e 444.139 soci), nel credito (763/2.388.450), nel consumo (76/648.575), nell’edilizia abitativa (183/332.842), nella cooperazione del lavoro (12/1.160) e in altri settori di attività economica (che complessivamente contavano 102 aziende con 24.201 soci). Fourier François Marie Charles (1768-1830) fu un socialista utopista ed un filosofo, apprezzato per la sua satira verso la miseria morale e materiale del mondo borghese. Le comunità da lui ideate, denominate falangi, si basavano su abitazioni comuni chiamate falansteri, perchè auspicava una società unita e cooperante come una falange, il lavoro vissuto come un valore e gli interessi individuali assimilati agli interessi collettivi dell’intera falange. Il movimento fourierista riscosse molto successo anche al di fuori dei confini francesi, in Algeria, in Spagna, in Russia e soprattutto in America. Proprio in America vennero fondate 41 comunità sul suo modello: la prima comunità cooperativa, la Brook Farm (1841) nelle vicinanze di Boston, da studenti, intellettuali ed artigiani che dividevano i profitti in base alle giornate di lavoro (intellettuale o manuale) svolto da ciascuno. Purtroppo la comunità di Brook Farm si sciolse nel 1849 a seguito di un incendio che distrusse il falansterio. Altra importante comunità fu la North American Phalanx (fondata nel 1843 nel New Jersey da Albert Brisbane) che ispirò Victor Considérant (successore di Fourier) a fondare a Dallas, nel Texas, una più importante colonia, la Réunion, fallita pochi anni dopo per mancanza di fondi. principio cooperativo, tra cui C. Gide100, L. Blanc101 e lo stesso Fourier102 che vedevano nella cooperativa un efficace strumento per abbattere le disparità e le brutture dell’economia di mercato provocate dalle imprese di capitali. L’abolizione della proprietà privata e la sostituzione dell'impresa di capitali con tipologia produttiva della cooperazione furono, infatti, i prodromi delle teorie francesi. La diffusione delle cooperative fu anche facilitata dalle peculiarità della struttura produttiva del mercato di allora, cioè da un'economia dominata da un settore industriale già sviluppato (soprattutto nel comparto manifatturiero delle ceramiche), con una avviata automazione dei processi, quindi con una struttura produttiva caratterizzata da una diffusa innovazione tecnologica dei processi produttivi103 che aveva causato ampie sacche di disoccupazione. Le prime cooperative di lavoro si avviarono, a loro volta, con gli ateliers nationaux, vere e proprie officine statali104 (nate dalle idee socialiste di Louis Blanc), in cui trovarono impiego i lavoratori urbani disoccupati ed impegnati a svolgere opere di pubblica utilità. La prima legislazione sistematica per la cooperazione fu elaborata nel 1865 e promulgata nel 1867. Allo stesso periodo risalgono i primi contatti con le cooperative del Regno Unito e di altri paesi Europei che offrirono l’occasione per la preparazione di un Congresso Internazionale di Cooperative, progetto che però non ebbe seguito. Alla fine del XIX° secolo fu, invece, avviata con un certo fermento l' attività delle cooperative di credito e la loro successiva organizzazione in 100 101 102 103 104 40 Gide Charles (1847-1932) fu un leader francese, economista e storico del pensiero economico ed un instancabile paladino del movimento cooperativo, sia agricolo che dei consumatori. Il suo libro, Coopération et économie sociale, che apparve per la prima volta in francese nel 1904 (e in inglese nel 1921) è un classico nel campo della tradizione cooperativa e del federalismo. Per approfondimenti cfr. Coopération et économie sociale 1886-1904 (1905), trad. Patrice Devillers, Edizioni L’Harmattan (2001) ; Les Societes Cooperatives de Consomption, (1904) tradotto in Consumer’s Co-operative Societies (1921). Blanc Louis Jean Joseph Charles (1811–1882) fu uno storico e politico francese, con una visione decisamente anti-liberale del mercato e della concorrenza a cui attribuì i mali della società moderna poiché “spinge da parte i più deboli”. Proclamò la parificazione dei salari e la unione degli interessi personali in un più generale bene comune, secondo la famosa formula "a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità” (tratto da L' organisation du travail, 1839, il testo base del suo pensiero politico). La sede per la realizzazione dei suoi programmi sarebbero stati i cosiddetti "laboratori sociali", una vera e propria nuova organizzazione sociale, metà cooperativa e metà sindacato, che avrebbe consentito ai lavoratori la proprietà comune dei mezzi di produzione, ossia il luogo dove i lavoratori avrebbero potuto unire i propri sforzi per il bene comune. Per approfondimenti cfr. Blanc L. J. J. C. , Appel aux hommes gens, 1849. Per approfondimenti cfr. Fourier F.M.C., 1829 ; 1833; 2005. Le prime cooperative cercarono di dare una risposta agli emergenti problemi derivanti dalla iniziale, ma inesorabile, sostituzione in fabbrica del lavoro manuale con i macchinari. Grazie agli incentivi concessi con alcuni decreti legge (del luglio 1848), vennero fondate molte cooperative, fra cui l’Atelier social di Cliché, creato da un gruppo di operai parigini per produrre indumenti per la guardia nazionale, sulla base del principio di salari uguali per tutti e di guadagni equamente distribuiti. Federazioni regionali (struttura che è all'origine dell’attuale Crèdit Agricole), che diede lo spunto per l’emanazione di una legge specifica sulle cooperative di credito agricolo. L’ultimo decennio dell’ ‘800 ed i primi quindici anni successivi furono caratterizzati da una crescita vigorosa del movimento cooperativo francese e da una partecipazione attiva del paese all’Alleanza Cooperativa Internazionale (appena fondata), che tenne il suo secondo e quarto Congresso proprio a Parigi (rispettivamente nel 1896 e nel 1900). Per il movimento cooperativo francese furono anni intensissimi, sia per l’impegno al consolidamento ed allo sviluppo del settore ma anche per l’entusiasmo all'espansione verso nuove esperienze: basti pensare, ad esempio, alle cooperative “scolastiche” che divennero ampia materia di discussione e di sperimentazione, così come anche alle prime società di “assicurazione mutualistica” che divennero (come sono tuttora), un caposaldo delle politiche del Welfare francese. L’espansione territoriale e settoriale impose al movimento cooperativo francese, come nel resto d’Europa, problemi di organizzazione o, come diremo oggi, di governance oltre che di rappresentanza dei soci nelle organizzazioni cooperative (di consumo, di credito, agricole ed immobiliari) che confluiranno nelle Federazioni regionali e nazionali, per poter contare su di una rappresentanza più forte e qualificata. Tra le principali associazioni centrali ricordiamo la Società Cooperativa per la Vendita all’Ingrosso, la Banca Cooperativa Centrale (a Parigi nel 1917) e la fondazione del Crèdit Agricole. Da un punto di vista teorico, invece, fu avviata la pubblicazione della Revue des études coopératives. L’aumento dei soci fu l’ ovvia conseguenza di questo processo di espansione del movimento cooperativo francese, con protagonisti autorevoli che assunsero ruoli importanti anche sulla scena internazionale105. Dal 1945 al 1948 le cooperative agricole si riorganizzarono in 15 nuove Federazioni territoriali; le cooperative di consumo riordinarono la loro attività in strutture più ampie e complesse, in grado di fornire una più vasta gamma di servizi alle associate e le cooperative di produzione e lavoro, a loro volta, continuarono a crescere. Il movimento cooperativo ebbe quindi l’importante ruolo di assecondare e di accompagnare la ricostruzione del paese, partecipando attivamente alla successiva fase di sviluppo economico con il contributo di un numero crescente di imprese e di attività che si riorganizzano (nel 1968) in una associazione centrale nazionale, denominata “Groupement national de la cooperation” . A seguito di questo trend evolutivo, la Francia rappresentò, per l’intero movimento internazionale, la nazione leader nell'ambito del settore cooperativo. 105 41 Tra tutti ricordiamo Albert Thomas, che divenne il primo direttore dell’ILO. Nel 1988 si è assistito ad una concentrazione del mercato, con la conseguente riduzione del numero di imprese106 e ad un ampliamento della compagine dei soci cooperatori cooperative 107 (fino al 30% della popolazione). 3.5. Italia. In Italia, nel 1806 a Osoppo fu istituito il primo collettivo di lavoratori del settore caseario, la prima cooperativa in Italia che subirà, nel corso degli anni, diverse fratture ed articolazioni. Ma, l' analisi dell'evoluzione storica del movimento nazionale non può prescindere dal riferimento alla cooperazione sociale e al ruolo assunto, inizialmente, dalla Chiesa poi gradualmente sostituita dalle Società di Mutuo Soccorso. Per comprendere questo passaggio è necessario ricordare che agli inizi del XVIII° secolo, l'assistenza sociale e sanitaria, la cura degli anziani e l'istruzione erano sostenuti dall'attività caritativa dei privati, sollecitati dalla Chiesa Cattolica 108. Peculiarità di queste organizzazioni era il loro stretto e diretto contatto con il territorio e la società e, conseguentemente, la loro immediata percezione delle mutate esigenze della collettività. Lo Stato, a sua volta, rimaneva assente da qualsiasi forma di assistenza sociale nei confronti dei cittadini, anche per una tacita delega alla Chiesa delle opere di misericordia e in materia di educazione e di assistenza sociale. Alla fine del XVIII secolo gli enti caritativi promossi dalla Chiesa iniziarono però ad essere visti dai Governi come un “potere estraneo”109, in quanto si frapponevano tra lo Stato e gli individui, e si iniziò a ripristinare un contatto diretto tra Governo centrale e cittadino, così come suggerito dallo Stato liberale (generato dalla Rivoluzione Francese). Ciò indusse gli stessi politici italiani ad occuparsi specificatamente della tutela dei diritti individuali dell’uomo, riducendo così gli spazi fino ad allora occupati dalle opere private cattoliche. Tutto ciò condusse alla nascita di una realtà assistenziale laica, slegata dal movimento religioso e rappresentata dalle Società di Mutuo Soccorso110 (SMS), associazioni strettamente legate al 106 107 108 109 110 42 Le cooperative francesi sono presenti nei seguenti settori: agricoltura, commercio, consumo, pesca, immobiliare, credito, scolastico, trasporti e produzione lavoro. Per i dati più recenti sulle cooperative europee cfr. Eurostat (2001). Nel 1998 si contavano 17.485.573 soci. Il “soccorso agli altri” era allora vissuto come un dovere morale o meglio, un obbligo per chi voleva espiare i propri peccati; in quest'ottica, le prestazioni venivano erogate a chiunque, sia valido che invalido, in quanto ciò che contava era l'elemosina in sé e non il soggetto che la riceveva. Forse per le nuove teorie filosofiche (come il giusnaturalismo che teorizzava l'esistenza di un diritto naturale all'assistenza, scollegando il discorso da ogni legame morale e religioso per affermare il diritto del povero ad essere mantenuto, sia pure in termini minimi, dalla comunità) e religiose (dato che con le chiese riformate fu necessario provvedere alla chiusura dei monasteri ed alla laicizzazione della beneficenza). Il mutuo soccorso nasceva in Italia durante la metà dell'Ottocento e venne autorizzato dallo Statuto Albertino (1848) che concesse la libertà di associazione. Ma, le prime esperienze, possono farsi risalire territorio e finalizzate al perseguimento degli obiettivi di promozione economica e sociale della classe operaia, attraverso il richiamo agli obiettivi di mutualità111, di solidarietà fra i lavoratori e di autogestione dei fondi sociali112; in altri termini, le prime e più evolute forme di organizzazione sociale113. In risposta a queste nuove finalità, gli Statuti delle associazioni dei lavoratori vennero riformulati per permettere l'inserimento di nuovi fini mutualistici: il sostegno creditizio agli associati, la fornitura di materie prime, la vendita ai soci dei prodotti di prima necessità al prezzo di costo e la costituzione di magazzini sociali. Da questi obiettivi, legati alla difesa degli interessi dei lavoratori, sarà possibile risalire all'embrione delle diverse tipologie di cooperative italiane. Una primordiale forma di “cooperativa di consumo” apparsa in Italia (Torino, 1854) sarà il Magazzino di previdenza (con la vendita di prodotti ai soli soci), avviato dalla locale Associazione generale degli operai che raccoglieva lavoratori di ogni settore impoveriti dalla carestia del 1853. Nel luglio del 1854 nacque a Genova la prima società operaia cattolica italiana114, la Compagnia di San Giovanni Battista, espressione di un mondo clericale più aperto e illuminato, convinto della necessità di mettersi al passo con i tempi riunendo i lavoratori cattolici in proprie SMS115. Dopo questi magazzini di previdenza, sorse l'Associazione artistico-vetraia in un piccolo centro in provincia di Savona (ad Altare nel 1856) fra 86 artigiani vetrai, disoccupati (o minacciati dalla disoccupazione) per la crisi della locale ed antica industria del vetro. La società di Altare è stata considerata il prototipo nazionale della prima cooperativa di produzione e lavoro italiana legata all’artigianato e caratterizzata dalla difesa di secolari tradizioni dei mestieri locali assieme alla salvaguardia dell’occupazione: categoria di impresa che inizierà a diffondersi nei centri urbani (tra il 1860 e il 1870) e, soprattutto, nelle grandi città dell’Italia centro-settentrionale, sempre per 111 112 113 114 115 43 alle vecchie corporazioni (sciolte in Europa da Napoleone). L' assistenza si estendeva al tentativo di far fronte ai primi timidi sviluppi industriali ed ai conseguenti problemi sociali, ossia la lenta espulsione dei lavoratori dalle campagne, i bassi salari degli operai e la mancanza di lavoro. La mutualità si fondava sul principio della comunione dei rischi possibili (malattia, invalidità, infortunio e disoccupazione) o futuri (vecchiaia, morte). Agli affiliati era richiesto il regolare versamento di una quota del salario (in rapporto alla prestazione garantita): una condizione non semplice da rispettare (data l'esiguità degli stipendi) che però educava alla parsimonia. Con questi contributi obbligatori veniva costituito un fondo autonomo, ripartito per malattie e per sussidi di invalidità e di vecchiaia. Gli oneri per gli eventuali bisogni dei singoli venivano ripartiti fra tutti gli associati ed il diritto alle prestazioni sorgeva automaticamente, previo accertamento delle condizioni. Il mutuo soccorso si presentava in Italia come una reazione sia alla crisi dei vecchi ordinamenti che ai nuovi e radicali rivolgimenti economici e sociali. È dal mutuo soccorso, infatti, che si svilupperanno la resistenza, la cooperazione e l’organizzazione politica, filoni importanti della nostra storia e le prime risposte al malessere dei ceti operai. Lo statuto di questa prima società cattolica sarà il testo base per le successive associazioni operaie cattoliche. Il primo articolo affermava: “fine della Compagnia è di soccorrere le famiglie della classe operaia, non solamente per sollevare le infermità corporali, ma per rendere anche morigerati i membri, solleciti nell'adempimento dei loro doveri verso Dio e verso il prossimo”. Al 31 dicembre 1862 risultavano 443 società di mutuo soccorso delle quali 66 anteriori al 1848, mentre 168 erano state fondate tra il 1848 e il 1860, e 209 dal 1860 al 1862. iniziativa delle società operaie avviate dai lavoratori più istruiti e coraggiosi che, a fronte del versamento di una quota settimanale, garantivano agli associati una assistenza reciproca e mutua, in caso di malattia, infortunio e morte. La radice della cooperazione in Italia sarà quindi riscontrabile nel rapporto di filiazione tra società di mutuo soccorso116 ed imprese cooperative, conseguente ad una precisa logica: a seguito della forte debolezza della classe operaia per la crisi del mercato le prime SMS assunsero anche la connotazione di una struttura per la difesa economico-sindacale dei lavoratori, dando ulteriori stimoli al nascente movimento delle cooperative, ossia una risposta democratica e di solidarietà all’iniziativa economica privata. Le prime forme di associazionismo estendevano così il loro campo di attività dal soccorso e dalla previdenza dell’individuo ad interventi di natura economica, segnando così il passaggio dalla beneficenza alla previdenza, dalla carità al mutualismo, dal ruolo passivo al ruolo attivo di una classe sociale che, cercando un miglioramento concreto delle proprie condizioni economico-sociali, davano vita ad un profondo impulso al dibattito politico e al quadro legislativo del tempo117, segnando così il passaggio dallo Stato sociale al Welfare State italiano118 . Molti sono quindi gli intrecci e le derivazioni rispetto all’originario seme del mutuo soccorso (soprattutto educativo e lavorativo) ed è forse in questa continua commistione ed integrazione tra forme associative diverse uno dei caratteri distintivi del nascente movimento operaio italiano e delle prime moderne forme di organizzazione dei lavoratori. Con l'avvento del nuovo secolo il ruolo di ponte che le Società di Mutuo Soccorso svolsero fra beneficenza, mutualismo volontario e Stato sociale andò sempre più accorciandosi, lasciando ai Sindacati, alle Camere del Lavoro ed ai Partiti politici (di cui erano state matrici) la prosecuzione della loro opera di promozione, mentre lo Stato iniziò ad assumere precise attribuzioni nel campo della tutela sociale dei lavoratori. Il ruolo delle Società di Mutuo Soccorso 119 rimase attivo sul fronte 116 117 118 119 44 Le società di mutuo soccorso erano infatti “fondazioni, per le quali gli operai si assicuravano mutualmente un premio convenuto, dei soccorsi gratuiti ed anche parte del loro salario in caso di infermità o d’infortunio”. Lo scopo fondamentale di queste società era soccorrere i soci in caso di malattia; gli scopi secondari, che naturalmente variavano a seconda delle società erano: “soccorrere gli invalidi ed i vecchi con pensioni vitalizie, pensionare e sussidiare gli orfani e le vedove, procurare lavoro ed occupazione ai soci, istruire con scuole serali e domenicali i soci e i figli dei soci, fare prestiti ed anticipazioni, ricevere depositi per formazione di capitali o costituzioni di rendite, somministrare viveri ed altri oggetti di prima necessità ai soci, al prezzo di costo, fornire la materia prima ai lavoratori, sussidiare i soci di passaggio”. Per approfondimenti cfr. Conti F.-Silei G. (2005); Ferrera M. (1993). Il 17 luglio del 1898 nasceva la “Cassa Nazionale di Previdenza per l'Invalidità e la vecchiaia” da cui le Società di Mutuo Soccorso potevano attingere per un'integrazione ai sussidi che riconoscevano ai soci. Questa assicurazione diventò obbligatoria nel 1914. Con l'assicurazione obbligatoria lo Stato, riconoscendo implicitamente la salute del lavoratore come un diritto e un patrimonio per la collettività, iniziava ad offrire ed a garantire prestazioni standardizzate e imparziali, fondate su diritti degli individui. Tali norme avrebbero rivoluzionato i tradizionali criteri dell'assistenza e della beneficenza. In Italia nel 1901 le oltre 8.000 SMS con più di un milione di soci si riunirono nella Federazione Italiana delle Società di Mutuo Soccorso ed il Congresso ne indicò le linee principali. Nei primi venti anni del 1900 il movimento associativo si sviluppò e si estese fino all' apertura di circoli ricreativi, culturali e delle associazioni volontarie e per l'assistenza al sostegno e al potenziamento delle iniziative di cooperazione, da cui ebbero origine realtà autonome ed estremamente rilevanti per l'economia e la società italiana. Negli anni della guerra la diffusione delle associazioni venne inevitabilmente rallentato, anche se le Società di Mutuo Soccorso si impegnarono in una campagna contro la guerra e, nel contempo, promossero in tutte le sedi aiuti ed assistenza per i cittadini, per i soldati e per le loro famiglie. Nel primo ventennio post-unitario, per iniziativa di intellettuali e di economisti con orientamento liberale120 o cattolico, il movimento sarà rappresentato da due tipologie cooperative: quella del credito121 e quella del consumo. La cooperazione del credito122 italiana (a differenza delle successive esperienze del consumo e del lavoro) si prefisse, fin dalle origini, obiettivi di utilità sociale, rispondendo alla necessità di liberare le fasce più umili della popolazione dalla miseria, aggravata dalla cronica mancanza di capitali o da una ricorrente rapace usura. La prima Cassa Rurale (sul modello tedesco creato da Raiffeisen nel 1849), nasceva nel 1883 in provincia di Padova (a Loreggia), ad opera di Leone Wollemborg123 e si presentava come una associazione di mutuo aiuto fra i “capi famiglia probi e capaci del villaggio”, ossia con comprovata onestà e moralità. Alla creazione aggregò 32 soci fondatori (soprattutto contadini e piccoli proprietari terrieri), operanti con 27 casse iniziali (nel 1886), salite a 40 agenzie dopo tre anni ed a 70 nel triennio successivo (1892). Con l’emanazione dell’enciclica Rerum Novarum da parte di Leone XIII (nel 1891), che invitava i cattolici a dare vita a forme di solidarietà per favorire lo sviluppo dei ceti rurali e del proletariato urbano, sorsero anche le prime Casse Rurali di ispirazione cattolica, per iniziativa di don Luigi Cerutti. Dopo 15 anni dalla costituzione della prima banca (nel 1897 ), si contavano 904 Casse Rurali, dislocate principalmente in Veneto, Emilia 120 121 122 123 45 sportivi. Uno dei padri del movimento solidaristico-mutualistico del nostro paese è stato Giuseppe Mazzini, le cui idee rappresentarono un veicolo di grande importanza per la diffusione degli ideali cooperativi e per la nascita di alcune società di mutuo soccorso, che videro nell'unità e nell'indipendenza le premesse necessarie per risolvere in modo concreto ed efficace il futuro assetto sociale. I successivi moti risorgimentali aprirono una frattura tra le società operaie mazziniane (che si ispiravano ai principi solidaristici e democratici) e quelle dei moderati (sostenute da vecchi e nuovi filantropi, esponenti dei ceti nobiliari e della grande borghesia terriera e finanziaria), interessati ad un controllo paternalistico delle classi lavoratrici). Nel 1870 le banche popolari erano già 50 e salivano a 124 in meno di un decennio (nel 1878), con un notevole incremento negli anni Ottanta che le portò dalle 205 (del 1882) alle 368 (del 1885), per giungere alle 604 (fine 1889). Per l'avvio delle Casse rurali in Italia è stato fondamentale il contributo di Raiffeisen le cui opere avevano fortemente influenzato Leone Wollemborg (di famiglia ebrea padovana, di origine tedesca) incline ad un incondizionato appoggio nel basso clero veneto. Trovò, infatti, in Raiffeisen un solido consenso nella comune lotta all'estrema povertà della popolazione rurale. Leone Wollemborg fu un economista e politico italiano che contribuì alla diffusione dell'idea cooperativa di fine Ottocento. Romagna, Piemonte e Lombardia. Di queste, 779 di matrice cattolica e 125 di ispirazione liberale anche se, fin da subito, le Casse avvertirono l’esigenza di fare sistema, per valorizzare la cooperazione e favorire il raggiungimento di obiettivi che non avrebbero potuto conseguire singolarmente. .Intanto anche Luigi Luzzatti124, uomo politico liberale e conservatore, nell’ambito delle iniziative di credito aveva promosso e fondato anche la prima Banca Popolare di Milano (1865) nella forma di società anonima a responsabilità limitata125, finalizzata a concedere credito alle classi intermedie (rurali ed urbane) rimaste ai margini dello sviluppo economico nazionale, che riconosceva ad ogni socio un solo voto in assemblea. Un particolare clima politico favorevole alla cooperazione e sempre per iniziativa di Luigi Luzzatti, il più convinto sostenitore del credito cooperativo, fu possibile procedere alla costituzione della Federazione delle Casse Rurali (1905) che, a sua volta, incentivava l'istituzione di numerose Federazioni locali e dell’ Istituto Nazionale di Credito per la Cooperazione (nel 1913). Le dinamiche più vistose di quegli anni riguardarono però le cooperative di consumo (la cui vendita dei beni era riservata ai soci a prezzo di costo), la cui diffusione sul territorio fu agevolata dall'esenzione dalla tassa comunale, sgravio che probabilmente stimolò la diffusione del modello cooperativo anche al di fuori degli ambienti da cui era nata, per estendersi anche fra gli impiegati delle principali città italiane. Fra le altre importanti iniziative, la Cooperativa ferroviaria, fondata da Luigi Buffoni (nel 1886) con l’appoggio dell’Associazione Generale degli Impiegati. Questa impresa, su imitazione del modello inglese, ebbe per scopo la vendita di beni aperta a tutti, a prezzi di mercato minimi e la possibilità di distribuire il ristorno (ossia una parte degli utili) ai consumatori (soci e non soci) in proporzione agli acquisti fatti. Questa sarebbe diventata nel tempo la prima esperienza italiana nel campo delle cooperative di consumo. Ma, il primo esperimento nell’accezione moderna di cooperativa di consumo fu, invece, quella del lombardo Francesco Vigano a Como, sul modello inglese dei Probi Pionieri (1895). Vigano si rivelò, infatti, un convinto sostenitore della necessità che le cooperative dovessero essere composte unicamente dai soci lavoratori ed essere dirette da loro stessi per “insegnare all’operaio a trattare i propri affari”: questa funzione educatrice della cooperazione costituì uno dei pilastri fondamentali della crescita civile, culturale e politica delle classi lavoratrici. Accanto a questo obiettivo, fu messa in risalto, in modo 124 125 46 Luzzatti L. (1841-1927) fu giurista ed economista oltre che presidente del Consiglio dei Ministri (19101911). Partecipò alla fondazione dell' Università Cà Foscari di Venezia (1868) , il primo ateneo in Italia per l'insegnamento dell'economia. In questo modello i soci erano responsabili in solido per l’importo delle quote sociali da loro sottoscritte, contrariamente al modello tedesco che prevedeva la responsabilità illimitata (con tutto il patrimonio) dei soci. esplicito, la funzione economico-sociale della cooperazione, che non doveva limitarsi solo al miglioramento delle miserabili condizioni di vita degli operai ma contribuire anche alla loro educazione sociale ed alla loro formazione professionale, per poter pervenire ad una società più giusta. Per raggiungere questo obiettivo ipotizzò che, a coronamento dello sviluppo del movimento cooperativo, sarebbe dovuto sorgere il “municipio cooperativo”, ossia una organizzazione sociale pubblica gestita totalmente in forma cooperativa. Le cooperative di produzione e lavoro, a loro volta, furono promosse da un giovane economista dell'epoca Ugo Rabbeno (1863-1897), che le presentò come “la forma per eccellenza” della cooperazione. Il suo ragionamento si basava sul fatto che la cooperativa, proprio per la sua organizzazione del lavoro e per la sua struttura, avrebbe potuto contribuire ad una trasformazione pacifica della società (“pacificazione sociale”) verso forme solidaristiche, attenuando le sempre più aspre conflittualità fra capitale e lavoro126. Nei primi quindici anni del XX° secolo127 la cooperazione continuò a crescere, al pari di tutta l’economia italiana, dimostrando di essere un fenomeno destinato a consolidarsi e sopravvivendo alla crisi economica che seguirà alla prima guerra mondiale: dalle quasi 2000 cooperative nel 1902 si passò, infatti, a 7500 nel 1914, con circa 2 milioni di soci. Questa espansione stimolò (tra il 1904 e il 1911) la promulgazione di leggi molto importanti, orientate a migliorare l'operatività di queste imprese, che stavano crescendo sui mercati in termini di dimensioni e di complessità, favorendo la formazione di consorzi fra cooperative per ottenere una struttura patrimoniale più solida e per poter concorrere alle gare di appalto per la realizzazione di opere pubbliche. Durante il ventennio fascista le cooperative furono, invece, le prime associazione ad essere colpite (in Emilia R., Lombardia e Toscana) dall’azione squadrista dei fascisti (1920), con distruzioni, incendi e devastazioni cui seguì l’espulsione dei soci “sovversivi”, accusati di svolgere attività “antinazionale”, uno dei metodi più diffusi dai fascisti per l’appropriazione delle cooperative, specie di quelle con una buona consistenza patrimoniale. L’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione aveva, infatti, inglobato circa 12.000 cooperative e 3 milioni di soci, favorendo la crescita del movimento, ma solo nel settore agro-alimentare, l'unico ritenuto prioritario per lo sviluppo economico del Paese (le cooperative passarono dalle 2.200 circa del 1921 ad oltre 3.700 nel 1939). Ma, il processo di appropriazione o di controllo serrato delle cooperative fu esercitato anche indirettamente, con il taglio dei finanziamenti e la richiesta del rientro immediato dai crediti 126 127 47 Per approfondimenti cfr. Rabbeno U. (1889). Per approfondimenti cfr. R. Zangheri- G. Galasso - V. Castronovo (1987). concessi128, con l’ovvia conseguenza del fallimento o della liquidazione della cooperativa (pubblicamente attribuita alla cattiva gestione dei “cooperatori”). Il comportamento vessatorio del regime nei confronti delle cooperative fu formalizzato nel 1923 dal Gran Consiglio fascista, che riconobbe alla cooperazione le potenzialità per contribuire alla ricostruzione dell’economia nazionale, a condizione di aderire al partito o al sindacato fascista. Ciò confermò che, in realtà, l'ideologia sociale del partito fascista non era contraria alla forma cooperativa anzi ne riconosceva il ruolo economico tanto che la sopravvivenza delle cooperative durante il ventennio non fu ostacolata anzi, in taluni casi, molte imprese poterono approfittare degli interventi e degli investimenti del Regime per rafforzarsi, anche se a prezzo della pressoché totale rinuncia all’autonomia e solo nell'ambito delle direttive e degli indirizzi del partito. L'avvento del fascismo tolse perciò le sedi politiche, sindacali ed associative alle organizzazioni dei lavoratori, rimpiazzandole con le grandi istituzioni del regime129; in particolare, la definitiva estinzione delle Società di Mutuo Soccorso coincise con l'emanazione di Leggi Speciali (del 1926) e con la costituzione dell'Opera Nazionale Dopolavoro, che assorbì nella struttura fascista tutte le forme di associazionismo. Terminato il regime fascista, le Società di Mutuo Soccorso130 non ripresero più lo slancio iniziale e molte di esse non tornarono più in attività. Ma, le necessità del sistema previdenziale ed assistenziale offrirono alla classe politica (come vedremo) ampi margini per un'azione di intervento, sia sul piano dei contenuti che su quello dell'organizzazione legislativa. Il rilancio delle cooperative avverrà nel periodo repubblicano, con l’emanazione della Carta Costituzionale che all’articolo 45 riconoscerà il ruolo della cooperazione con finalità mutualistiche. Nel periodo venne anche ricostituito il comparto del credito con la Federazione Italiana delle Casse Rurali e Artigiane131 (nel 1950) che aderì a Confcooperative (nel 1967) . Nel 1963 venne poi 128 129 130 131 48 Il regime fascista contrasterà fortemente il credito cooperativo, determinandone un generale ridimensionamento: dalle 3.540 casse del 1922 si scese alle 986 del 1940 ed alle 804 del 1947. Si tratta delle seguenti iniziative: l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia, con attività assistenziali per l’infanzia, lasciando però le funzioni educative alle istituzioni religiose private (1925); l' Istituto Nazionale Fascista Assicurazione Infortuni (poi INAIL), per gli infortuni e le malattie del lavoro (1933); l' Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale (poi INPS), per la vecchiaia, l’invalidità e la disoccupazione (1935); gli Enti Comunali di Assistenza (in sostituzione delle congregazioni di carità) con il compito di attuare politiche previdenziali nei confronti di categorie specifiche, ad esempio i ciechi, i sordomuti e così via (1937); l' Ente per la Mutualità Fascista (poi INAM) per la malattia e la maternità (1943). Fra quelle che ripresero la loro attività la Federazione Italiana della Mutualità (erede della soppressa Federazione Italiana delle Società di Mutuo Soccorso) che si alleò con la Confederazione Generale del Lavoro per rafforzare la tutela dei lavoratori. Poi fu fondata un'organizzazione di credito popolare a bassissimo tasso d' interesse, che favorì lo sviluppo di piccole aziende cooperative e garantì l'assistenza sanitaria ed il sostegno economico alle categorie più deboli (disoccupati, orfani e vedove). La legge n. 707 del 1955 riconfermò il carattere mutualistico di queste banche e stabilì che i servizi dovevano essere rivolti prevalentemente ai soci e le operazioni con i terzi non avrebbero dovuto superare il 25% dei depositi totali, attenuando la loro responsabilità patrimoniale. fondato l’Istituto di Credito delle Casse Rurali e Artigiane (Iccrea)132. 3.6. Danimarca. Nel 1851 fu fondata la prima cooperativa fra proprietari terrieri con una operatività molto ampia, tanto che il Paese133 è ancora oggi considerato la patria della cooperazione agricola e successivamente, nel 1860, fu fondata la prima società cooperativa fra consumatori. Alla fine del XIX° secolo, per impulso del teologo e vescovo luterano Nicolas Frederich Grϋndtvi Gts, vennero introdotti (1880) anche i primi caseifici cooperativi, poi i macelli ed i salumifici e ben presto il modello di produzione cooperativo finì per monopolizzare il settore produttivo. L’agricoltura danese si è dunque sviluppata con il prevalente contributo delle imprese cooperative che, nel corso del tempo, hanno subito tutte le trasformazioni imposte dal mercato, fino ad un consistente processo di concentrazione che ha provocato una drastica riduzione delle aziende casearie (passate dalle 1.400 iniziali del 1935 alle 42 del 1992); la nuova struttura è caratterizzata da aziende con una grande dimensione media ed una forte vocazione verso l’estero. Ai nostri giorni, il comparto cooperativo è anche rappresentato, con quote di mercato significative, nel settore del consumo (nel 1993 operante con 683 società e 1.200.000 soci ). La rilevanza delle cooperative si è mantenuta nel tempo e si è tramandata fino ai nostri giorni, con più di un terzo dei danesi socio di una cooperativa. A latere, le cooperative per l’edilizia abitativa con la loro elevata capillarità territoriale (con 712 imprese nel 1993) hanno contribuito alla costruzione di abitazioni a più di 400.000 famiglie (ben oltre il 18% delle unità abitative dell’intera nazione). Accanto a queste principali categorie, la presenza è consistente anche nel terziario dove operano reti di cooperative ben stabilizzate nel settore bancario e delle assicurazioni. Nel 1998134 un terzo della popolazione danese rientrava fra i soci cooperatori. Nel 1986 fu fondato il Centro Cooperativo Danese per i rapporti con l'estero, a cui compete anche la rappresentanza di tutto il segmento cooperativo danese nell'attività di assistenza economica e finanziaria ai PVS. 132 133 134 49 Per approfondimenti cfr. Giardino Michele (1997). Per approfondimenti cfr. M. Degl'Innocenti (1988); Shaffer J. (1999). Nel 1998 in Danimarca si registrava la presenza di 1.445 cooperative con 1.797.067 soci (pari al 34,2% della popolazione), con una quota di mercato dell’1,7% rispetto alle imprese totali, un tasso di occupazione del 3% dei lavoratori e un contributo del 9,3% al fatturato totale. Distintamente per settore le cooperative danesi erano così suddivise: agricolo (65 aziende e 113.000 soci); consumo (526/1.226.867); abitazione (695/400.000 unità nel 1993); credito (41/52.000) e produzione lavoro (115/5.200). Operavano anche 3 cooperative di assicurazione. Precipuità del movimento danese è la totale assenza di una legislazione specifica per il settore cooperativo, che viene regolamentato dalle leggi ordinarie che riguardano tutte le altre tipologie di impresa. Questa caratteristica, unica nel panorama legislativo comunitario, rappresenta per molti cooperatori danesi una questione di orgoglio. 3.7. Finlandia. La cooperazione finlandese ebbe inizio nel 1870 (quando era ancora annessa alla Russia), con la fondazione (a Viperi e Tampere) delle prime cooperative di consumo, a cui seguì la prima cooperativa agricola (nel 1880). Da un punto di vista storico questo paese è spesso citato per aver vissuto un periodo di forti tensioni tra le cooperative rurali e quelle urbane, situazione che provocò l’iniziale suddivisione del movimento cooperativo in fazioni “progressiste” e “neutrali”. Successivamente questa scissione diede vita a vere e proprie organizzazioni nazionali separate e la distinzione si è protratta fino ai nostri giorni, tanto che persiste tuttora. Sia il settore agricolo che quello di consumo crebbero nel tempo e si diversificarono, scontando solo lievemente le conseguenze della prima guerra mondiale e dell’Indipendenza finlandese135 dall’Unione Sovietica. Anzi, durante gli anni tra le due guerre, proseguì una fase di moderata crescita del settore cooperativo che, alla fine del secondo conflitto mondiale, darà origine alla fondazione dell’Istituto Cooperativo per l’Educazione e di un Dipartimento per gli Studi Cooperativi (presso l’Università di Helsinki). La produzione agricola e quella forestale rimasero comunque le più importanti e dominate da imprese organizzate in reti di cooperative, ancora oggi motori propulsori dell’economia nazionale. Negli anni '90 , a causa degli alti tassi di disoccupazione provocati da una persistente stagnazione dell’economia locale e da palesi difficoltà per una ripresa economica, furono create 700 cooperative di lavoro, che sostennero ampie fasce di lavoratori. Nel settore terziario è nota a livello internazionale la OKOBANK, che deve le sue origini alla prima banca centrale cooperativa (del 1902) creata per favorire la nascita di altre banche di credito cooperativo e per fornire flussi di finanziamento al movimento stesso. 135 50 Nel 1923 esistevano 10 organizzazioni nazionali che rappresentavano 3.626 società con più di 540.000 soci. La larga incidenza della cooperazione sul mercato finlandese136 è ai nostri giorni confermata (dati ACI137) dal presidio del gruppo cooperativo Pellervo nei principali settori di attività economica con quote di mercato rilevanti: il 74% del comparto alimentare, il 96% nella produzione casearia, il 50% per il pollame, il 34% nella produzione forestale e il 34% nel totale dei depositi bancari finlandesi. Quasi la metà dei finlandesi sono soci-cooperatori (45,8%) . 3.8. Spagna. La prima cooperativa spagnola (l’Associazione Generale Allevatori Spagnoli), fondata a Madrid nel 1838, ci suggerisce che il motore propulsivo dello sviluppo ideologico ed economico del movimento spagnolo fu il settore agricolo, al quale si deve aggiungere quello della produzione e del consumo. Rispetto agli altri paesi europei la cooperazione spagnola ha presentato, fin dalle origini, una forte connotazione politica di estrazione socialista. La prima legislazione per la regolamentazione del settore introdusse all’interno del Codice Commerciale (del 1885) una sezione speciale per le cooperative. La prima struttura cooperativa regionale fu invece costituita in Catalogna (nel 1898) e, come tutte le altre che seguirono ben presto, la presenza si estese, diversificandosi, nei settori dell’agricoltura, del consumo, del credito, dell’edilizia abitativa, della produzione e del lavoro: realtà produttive che ancora oggi ricoprono un ruolo importante all’interno dell’economia spagnola. Nel 1928 fu fondata una Federazione Cooperativa Nazionale, che ha rappresentato la Spagna fino alla Rivoluzione Civile. Dopo la vittoria di Franco, nel 1942, le Federazioni cooperative regionali e di settore esistenti (che all’epoca rappresentavano più di 2.200 società cooperative) furono liquidate con una dichiarazione di illegalità138.. Ma, nonostante ciò, le cooperative spagnole continuarono a crescere ed a diversificarsi anche sotto il regime franchista139. Con la sua morte (nel 1975), riemersero le nuove 136 Nel 1998 l' ACI registrava la presenza di 1.664 cooperative finlandesi con oltre 2.337.374 soci (addirittura pari al 45,8% della popolazione nazionale), suddivise per settore nel modo seguente: agricoltura (64 imprese e 134.800 soci); consumo (46/1.066.774); foreste (1/117.800); assicurazioni (115/350.000); banche (298/668.000). 137 Per approfondimenti cfr. ACI, Annual Report, 2006 138 Alla guerra civile spagnola (1936-1940) seguì la lunga dittatura franchista, che durò quasi 40 anni ed ebbe come caratteristica il ruolo interventista dello Stato in materia economica. Di conseguenza, la regolamentazione del lavoro era molto rigida, non esisteva un movimento sindacale libero e gli scioperi erano vietati. Inoltre, lo sviluppo della tecnologia applicata all’industria era scarsa, l’esportazione dei beni non era permessa e il mercato interno era poco sviluppato. 139 Dai dati forniti da un rapporto dell’ International Labour Organization (1972) nel ’71 operavano in Spagna 14.984 società con più di 2,6 milioni di soci (l’8,5% circa della popolazione). Per approfondimenti cfr. ILO, Thesaurus, 2005. 51 Federazioni di settore in rappresentanza delle cooperative agricole, di consumo, di credito, della pesca, edilizie, della produzione e del lavoro. Recentemente è stata fondata anche una Confederazione Spagnola delle Cooperative, che si pone al vertice dell’organizzazione cooperativa nazionale. Nel tempo anche nel mercato spagnolo è stato interessato da un ampio processo di concentrazione a cui è seguito un riassetto dimensionale140, comune a tutto il territorio europeo, necessario per fronteggiare la maggiore competitività dei mercati, sia da un punto di vista quantitativo (con una maggiore dimensione media delle aziende e più ampia patrimonializzazione) che qualitativo (con l’ampliamento della sfera mutualistica, come conferma l’aumento della base sociale). Passando al corpus legislativo che regolamenta le cooperative spagnole emerge una peculiarità che le differenzia dalla legislazione italiana e da quella degli altri paesi europei, ossia il riconoscimento, da parte dell’ordinamento locale, di un’ampia autonomia legislativa per ciascuna delle Comunità autonome141 che, da un punto di vista amministrativo, rappresentano tutto il territorio nazionale. Per cui alla legga nazionale (la recente Ley de cooperatives, 27/1999) si affiancano le disposizioni delle 13 Comunità autonome che hanno legiferato in materia142. La compresenza di questi due piani normativi, uno nazionale ed uno locale, se da una parte complica la regolamentazione del settore per le disparità che inevitabilmente possono sorgere dall’altra ha permesso (e permette) al movimento cooperativo spagnolo di poter testare continuamente le differenti ed innovative soluzioni legislative143. 140 141 142 143 52 Nel 1986 si contavano un totale di 25.868 società con 3.864.182 soci (il 10% della popolazione). A distanza di dieci anni (nel 1996) erano presenti 23.481 cooperative (dati ACI) con un totale di 4.336.502 soci (pari all’11% della popolazione nazionale), ossia si era verificata una mortalità delle cooperative (con duemila imprese in meno) a fronte di una crescita della compagine societaria per il maggior numero di soci cooperatori (il 2,3% del totale lavoratori). Nel 1998 le imprese cooperative rappresentavano appena l’1% delle imprese totali (dati Eurostat) ed erano presenti nei seguenti settori: agricolo (4.350 imprese e 950.000 soci); bancario (96/905.473); edilizia abitativa (3.378/1.255.961); consumo (nd/2.674); assicurazioni (1/nd); trasporti (396/4.710); produzione lavoro (13.101/163.952) ed altri settori (1.597/47.960). Le diciotto Comunità Autonome nelle quali è diviso amministrativamente lo Stato spagnolo sono, in ordine alfabetico: Andalucía, Aragón, Asturias, Baleares, Canarias, Cantabria, Castlla-La Mancha, Castilla y León, Cataluña, Ceuta-Melilla, Comunidad Valenciana, Extremadura, Galicia, La Rioja, Madrid, Murcia, Navarra, País Vasco. L’ordinamento prevede che la normativa nazionale venga applicata alle imprese che svolgono la loro attività in più Comunità Autonome o nelle 5 Comunità Autonome prive di legislazione in materia. Qualora l’attività dell’impresa si svolga interamente o principalmente nel territorio di una delle tredici Comunità Autonome dotate di una normativa cooperativa dovrà farsi riferimento a quest'ultima. Nella stesura della recente Ley de Cooperativas (27/1999), per esempio, è stato fatto ampio ricorso alle esperienze e alle indicazioni provenienti dalle legislazioni delle Comunità Autonome, prendendo spesso ad esempio le scelte più virtuose emerse a livello locale. 3.8.1. L’esperienza Mondragon nei paesi baschi. Elemento distintivo del settore cooperativo spagnolo144 è l’unicità e la complessità delle cooperative industriali Mondragon145 (Mondragon Corporation Cooperativa, MCC) presenti nella regione Basca, una rete assai estesa e dinamica di cooperative di produzione e di lavoro (di cui si parlerà più approfonditamente nel prosieguo) che, per le sue peculiarità operative, può essere assimilata ad una holding cooperativa che “controlla” oltre 300 imprese (di capitali e cooperative) operanti in vari settori (tra cui oltre ai classici, quello scolastico, farmaceutico e sanitario), contribuendo significativamente allo sviluppo economico della Spagna. La cooperativa basca Mondragon rappresenta, infatti, una esperienza di grande suggestione, molto diversa dalla tipologia e dalla gestione prevalente in Europa, così che il movimento europeo ed extraeuropeo guarda con grande attenzione a questo gruppo, anche se Mondragon rimane sostanzialmente unica e senza veri epigoni. Fondata nel 1956, cioè nel pieno della dittatura franchista146, da pochi giovani disoccupati di questa cittadina basca che, sotto la guida del sacerdote Don Josè M. Arizmendiarrieta, decisero di avviare una fabbrica di elettrodomestici. Questa iniziativa affondava le sue radici in una Scuola Professionale, voluta dallo stesso sacerdote, per la professionalizzazione dei giovani periti industriali del luogo disoccupati, per i quali la cooperazione rappresentava l’unica soluzione per un'opportunità di lavoro, in un’economia stagnante e chiusa agli scambi con l’estero. Accanto alla scuola professionale fu così avviata la prima cooperativa per la produzione di elettrodomestici (la Ulgor) che, ben presto, ebbe un certo successo sul mercato locale tanto che il gruppo dei giovani capeggiati da Don Josè, incoraggiati dai risultati, ampliarono la loro attività autofinanziando la produzione e le iniziative successive, dando così l'avvio alla creazione, 5 anni dopo (nel 1960), del primo ente creditizio del gruppo: la Cassa Popolare del Lavoratori147, per consentire il finanziamento dei nuovi investimenti in fabbrica con i risparmi dei soci lavoratori (i primi capitali investiti furono, infatti, proprio della Ulgor). 144 Come nella normativa italiana, il legislatore spagnolo riconosce il ruolo sociale alle società cooperative, definite entità al cui centro stanno le persone, con valori e condotte che le differenziano dalle imprese il cui fine è lo scopo di lucro. 145 Dal nome del comune di insediamento Mondragon (in castigliano) e Arrasate (in basco). 146 Quando il movimento cooperativo di Mondragon intraprese i primi passi si avvertiva l’esigenza di rinnovare il tessuto imprenditoriale e di studiare nuove formule che dessero impulso e stimolo ad un’economia chiusa e per nulla competitiva. Per approfondimenti cfr. Darpetti G. (2006). Dopo un triennio di attività interamente dedicato alla crescita del gruppo, la Cassa iniziò ad essere il volano di tutte le successive iniziative: ricerca e sviluppo, nuove tecnologie, innovazioni dei prodotti e dei processi e per i nuovi settore (ad es. l’ingegneria informatica). 147 53 Il gruppo Mondragon148 nel 2003 comprendeva complessivamente oltre 150 imprese, che a loro volta controllavano altrettante società presenti in ogni regione spagnola (cfr. Tab. 8), oltre che in altre 15 nazioni del mondo, dando lavoro a circa 66.000 occupati in 57 impianti produttivi all’estero. Opera ancora oggi nei principali settori dell’industria manifatturiera, della distribuzione commerciale e dei servizi finanziari continuando ad avere come collante di base la ricerca, l'innovazione tecnologica e la formazione professionale a tutti i livelli. Da un punto di vista strutturale può essere considerata una rete multinazionale di imprese di produzione (per i macchinari di alta precisione), commerciali e finanziarie (per la presenza di una banca) ed anche un centro di ricerca tecnologica e per la formazione professionale (per la presenza di una università privata nel campo del management e dell’ingegneria). Da un punto di vista gestionale Mondragon aggiunge agli obiettivi specifici di un’organizzazione presente sui mercati internazionali, una gestione basata sui principi democratici ed orientata alla creazione di posti di lavoro, alla promozione umana e professionale dei dipendenti e all’impegno per lo sviluppo sostenibile dell’ambiente in cui opera. Tab. 8 MONDRAGON IN SPAGNA REGIONI 148 54 INDUSTRIE IXMERCATI Per approfondimenti cfr. Darpetti G. (2006). SUXMERCATI SPORT. B. OCCUPATI ANDALUSIA 2 8 103 - 3.582 ARAGONA 4 2 126 22 1.925 ASTURIE - 1 16 - 406 BALEARI/CANARIE - - 3 - 145 CANTABRIA 1 1 22 1 416 CASTIGLIA-LEON - 4 92 43 1.624 LA MANCHA 1 4 40 - 952 CATALOGNA 4 4 95 2 4.098 ESTREMADURA - 1 12 - 422 GALIZIA 2 1 272 - 3.877 CARIOCA - 1 39 11 457 MADRID - 2 39 12 1.142 MURCIA - 4 14 - NAVARRA 9 2 87 51 3.231 VALENCIA 1 4 347 1 4.967 TOTALE 34 39 1.307 135 28.027 783 Fonte: Darpetti G., (a cura di), L'esperienza cooperativa di Mondragon, Ediz. Metauro, 2006. 3.8.2. L’organizzazione di Mondragon. Le imprese industriali hanno rappresentato le fondamenta del gruppo cooperativo Mondragon anche se, inizialmente, il divario tecnologico con le imprese dei paesi europei più avanzati risultò considerevole, dato che le conoscenze produttive spagnole erano alquanto scarse e poco all’avanguardia. Con la nascita della prima impresa (la Fagor) per la produzione di elettrodomestici il gap, rispetto ai paesi europei più industrializzati (Germania in primis), divenne ancora più evidente, ma fu colmato con la spedizione dei giovani della scuola professionale di Don Josè all’estero, per poter acquisire le più avanzate tecnologie, avviare ricerche di mercato e per conoscere le nuove tecniche di vendita, con particolare attenzione ai gusti del consumatore (le prime mosse verso l’orientamento al mercato, ossia al marketing). Dalla metà degli anni Settanta si iniziò però ad avvertire l’esigenza di allentare la dipendenza tecnica dai partner stranieri e di consolidare la struttura interna, puntando sulla ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Alla fine anni Sessanta, a seguito della maturità raggiunta, fu così possibile avviare le prime alleanze produttive e commerciali tra l’industria spagnola e quella europea dei paesi maggiormente 55 industrializzati. La cooperativa di elettrodomestici divenne quindi il laboratorio per la sperimentazione di nuove iniziative imprenditoriali e, seppure in tempi diversi, delle quattro grandi articolazioni che rappresenteranno gli odierni pilastri del Gruppo, cioè: 1. La Mondragon Unibertsitatea (1976) dalla iniziale Scuola Professionale149 e poi, Scuola Politecnica Superiore (dal 1966) a sostegno di tutta l'attività del gruppo. 2. La Banca dei Lavoratori150 (dal 1959), con il compito di raccogliere risparmio tra i soci con il quale finanziare gli investimenti del gruppo e sostenere le esigenze di credito degli altri soci-lavoratori; 3. La Lagun-Aro151, creata per garantire ai soci un servizio di previdenza, di assistenza e per assicurare il rispetto dei principi sulla sicurezza del lavoro, anche tenendo conto delle condizioni di salute dei soci lavoratori e provvedendo al loro pensionamento; 4. La Ikerlan152, centro di ricerca tecnologico per lo sviluppo innovativo dei prodotti e dei processi, con l’obiettivo prioritario di fornire prodotti e servizi innovativi alla produzione del gruppo. Le quattro articolazioni diedero coesione e sostegno all’unica attività industriale con il quale 149 150 151 152 56 Originariamente l’Università di Mondragon era costituita dalla Scuola Politecnica Superiore, dalla Facoltà di Scienze dell’Impresa e dalla Facoltà di Scienze dell’Educazione, alle quali si aggiungeranno due Centri di Ricerca per l'innovazione tecnologica. A seguito di una legge approvata nel 1997 dal Parlamento Basco l’attività didattica e di ricerca dell’università venne riconosciuta di particolare interesse per l’impresa basca, sia sotto l’aspetto tecnologico ed economico che umanistico. La filosofia della Cassa era di reinvestire il risparmio nella stessa zona dove era stato raccolto ed una strategia per stimolare il risparmio ed accelerare la crescita fu quella di rendere partecipi degli utili e dei diritti dell’ente i risparmiatori locali. Si trattava di un compenso cooperativo, o meglio di un vero e proprio ristorno, ossia di un supplemento di interessi sui risparmi, in funzione degli utili che la Cassa realizzava a fine esercizio. Inoltre su ogni mille risparmiatori, uno aveva diritto a far parte del Consiglio generale per esprimere il suo voto e far valere la volontà dei risparmiatori, soci di minoranza. Ai nostri giorni la Banca dei Lavoratori è un istituto di credito che opera, indistintamente, con ogni tipo di cliente. Ha più di 350 filiali ed ha esteso il suo raggio di azione in varie regioni della Spagna. La Lagun-Aro è un Ente che fornisce un servizio di previdenza sociale (pensioni e pensioni di reversibilità) e prestazioni assistenziali, cioè interviene (per il 95% dei casi nel 2000) a favore dei soci nei casi di assistenza sanitaria, di incapacità lavorativa temporanea, di interventi per l’occupazione (con il prepensionamento in casi speciali, la riconversione professionale e le indennità in situazioni di disoccupazione insuperabile) e per l'assistenza ai soggetti portatori di handicap, e/o in caso di maternità e per la liquidazione della quota sociale in caso di scioglimento del rapporto con la società. La Ikerlan, inizialmente, concentrava la sua attività di ricerca tecnologica verso il mercato degli elettrodomestici, delle macchine utensili e degli apparecchi elettronici. Dal 2001 al 2004 il piano strategico ha previsto la presenza di tre unità operative, ciascuna per i diversi settori: 1. sviluppo del prodotto (per ingegneria meccanica, disegno meccanico, elettronica, comunicazioni, automazione ed ingegneria di controllo, tecnologia del software); 2. processi di disegno (per tecnologie del disegno, modelli di produzione e tecnologia delle informazioni); 3. produzione energia (le aree di studio sono: tecnologia della combustione, sistemi alternativi di generazione e tecnologie elettriche). Mondragon si presentava (e si presenta) sul mercato e con politiche, organizzazione e gestione comuni, nonostante l’autonomia economico-patrimoniale di ciascuna struttura. La tipicità di Mondragon è insita, infatti, nella capacità della dirigenza di saper organizzare unitariamente la produzione e l’organizzazione, pur mantenendo distinte le molteplici partecipazioni societarie. A partire dal 1994 la Mcc, a seguito di un piano di sviluppo strategico internazionale, ha dato vita a una rete multinazionale di imprese153, che ha previsto l’acquisizione delle imprese locali, la creazione di filiali private nei mercati esteri e l’affiliazione con altre aziende europee, anche in Italia154, Francia, Germania, Portogallo, Regno Unito e negli Usa (cfr. Tab. 9). Tab. 9 MONDRAGON NEL MONDO Paese Imprese Paese Industrie Germania 2 Argentina 1 Brasile 6 Repubblica Ceca 4 Cina 6 Francia 4 India 2 Italia 2 Marocco 2 Messico 3 Polonia 1 Inghilterra 2 Romania 1 Tailandia 1 Totale industrie nel mondo Totale occupati sedi estere Fonte: Darpetti G., 2006. 37 7.782 Questa rete internazionale di imprese155 comprende 37 stabilimenti industriali all'estero e 15 holding cooperative multinazionali ed offre opportunità di lavoro a 66.558 occupati nel mondo per la 153 La strategia di internazionalizzazione seguita è stata quella tipica di molte imprese multinazionali di capitale; sono stati, infatti, effettuati investimenti esteri per integrazioni di tipo orizzontale e verticale soprattutto nei paesi emergenti, ossia in Cina, Brasile, India, Messico, Uruguay, Egitto, Marocco, Polonia, Romania e Repubblica Ceca. 154 In Italia Mondragon è presente a Bolzano (Monguelfo), Treviso (Mareno di Piave) e Teramo (Civitella del Tronto). 155 La maggioranza degli investimenti è avvenuta attraverso l’acquisizione di imprese locali, mentre gli investimenti in nuovi impianti (greenfield) hanno inciso sul totale per il 40% (Errasti et al. 2003). 57 fabbricazione di macchinari, beni di consumo durevoli, componenti industriali ed anche servizi di varia natura (con una quota del 65% del fatturato del gruppo). La complessità del gruppo (di natura cooperativa ma integrato per molti aspetti a società di capitali) ha creato, anche a livello teorico, una serie di dubbi sulla possibilità di contemperare in concreto gli interessi (anche culturali oltre che economiche e sociali) delle differenti componenti in una efficace ed efficiente gestione unitaria (considerando i risultati economici positivi). Sull’articolazione e sull’espansione territoriale di Mondragon, infatti, persiste ancora ai nostri giorni, un ampio dibattito tra operatori, esperti della cooperazione e teorici in specie su alcune questioni relative, in particolare, alla possibilità (o meno) di un circuito interno dei flussi finanziari tra le imprese del gruppo che possa soddisfare bisogni economici e sociali e, in caso di risposta affermativa, su come si possa fare sistema tra imprese cooperative ed imprese di capitali, pur mantenendo e garantendo una governance cooperativa. Intorno a queste domande sono state ipotizzate risposte e soluzioni fra le più disparate, anche se ancora nessuno è riuscito a dare risposte univoche su questa esperienza, certamente originale ed inimitabile come modello di impresa cooperativa multinazionale e democratica. Rimane l’originalità da riscontrarsi nel modello duale, ossia nel fatto che alcune imprese di capitale sono sottoposte al controllo delle cooperative e ciò ha alimentato il sospetto che non risulti del tutto infondata la tesi della “degenerazione” del modello cooperativo come forma di produzione che, nel lungo periodo e col mantenimento del mercato capitalista, potrà sopravvivere solo rinunciando al principio della gestione aziendale su base democratica156. . A prescindere dal presunto snaturamento dei principi cooperativi, è certo che l’esperienza del gruppo Mondragon rimane singolare e non replicabile, poiché non si può ricondurre a tipologie cooperative simili. E' stato anche supposto che forse, più correttamente, si potrebbe assimilare ad un “distretto produttivo cooperativo” poiché crea i legami tipici di una rete industriale, con modalità uniche al mondo e, forse, rappresenta il migliore esempio di espansione territoriale internazionale in rete di una cooperativa. Il riferimento al distretto deriva dalla applicazione pratica di una esplicita 156 58 Nella storia del movimento cooperativo è possibile distinguere due approcci fondamentali: l’approccio anglo-italiano e l’approccio tedesco-francese. La differenza fra le due scuole è enorme: mentre la scuola di pensiero francese, vede nella cooperazione la forma che deve rimpiazzare e sostituire quella capitalistica, la scuola di pensiero anglo-italiana vede nella cooperazione e nelle cooperative un complemento all’impresa di tipo capitalistico, e quindi una componente del mercato. In base alla prima tesi allora nel lungo periodo e in un’economia capitalistica, le imprese cooperative potranno sopravvivere solo rinunciando al principio della gestione su base democratica. Per approfondimenti cfr. Atti del Convegno del 29 ottobre 2007, Zamagni S., I valori e le regole. Legalità, responsabilità, cooperazione e mercati, Siena. integrazione funzionale157 (di cui non si hanno altri esempi e non solo in campo cooperativo), in cui l'industria si combina con l’assistenza sociale, sanitaria e previdenziale dei soci-lavoratori e delle loro famiglie (con la Cassa dei Lavoratori), si associa alla ricerca tecnologica e si unisce ai flussi finanziari per gli investimenti. Perciò non esiste altro esempio al mondo in cui l'applicazione delle discipline manageriali e la formazione professionale siano così strettamente correlate allo svolgimento dell’attività produttiva e, in qualche modo, auto-promosse, finanziate e gestite in autonomia. Alcune considerazioni conclusive sulla cooperazione in Europa. La panoramica svolta sulla cooperazione internazionale e, soprattutto sulle origini e l'evoluzione all'interno del territorio europeo ha consentito di evidenziare le principali peculiarità e le disparità della cooperazione comunitaria. Passiamo ora a fare un cenno sul recente dibattito comunitario su “quale Europa per la cooperazione e su quali cooperative per l’Europa158”. Sul primo versante e, quindi, a cosa si attende la cooperazione dai mercati e dalle istituzioni europee, la prima impressione è che, nel corso di questo ultimo decennio, ci sia stato un profondo cambiamento di rotta (o meglio, un giro di boa) da parte della Comunità nei confronti del settore cooperativo. Fino a qualche anno indietro, infatti, la cooperazione appariva alla Comunità europea come uno strumento positivo di intervento sulla collettività e le veniva riconosciuto anche il ruolo di motore propulsore per uno sviluppo economico sostenibile e per la lotta alla disoccupazione. Nei tempi più recenti, invece, la spinta del pensiero capitalista ha riconfermato, in letteratura e sul mercato, la sua organizzazione e la sua funzionalità159, riportando ai margini della letteratura e del mercato il ruolo delle cooperative, anche se il sistema avrebbe tutto da guadagnare da una sempre maggiore concorrenza tra una pluralità di diverse tipologie di impresa160. L' ulteriore diffondersi 157 Anche nell'esperienza tradizionale del distretto si possono riscontrare attività produttive ed attività di credito presenti contemporaneamente e, spesso, con sinergie esplicite ma non si ha mai una interazione così stretta, neppure nelle condizioni più virtuose, con la formazione professionale e con la ricerca nel campo dell'innovazione tecnologica. 158 Per approfondimenti cfr. Comunità Europea, seminario sul tema “Il ruolo delle cooperative nel dialogo sociale europeo”, Bruxelles, 21 novenbre 2006; Cooperatives Europe, progetto “Cooperatives Europe Social Partner Program (SPPP), ricerca sulla rappresentatività delle cooperative e sul loro ruolo, presente e futuro, nell’ambito del dialogo sociale europeo (sul sito: www.coopseurope.coop). Di conseguenza, la cooperazione è stata relegata ai margini del mercato o su versanti che risultano poco redditizi per l’impresa di capitali. Per approfondimenti cfr. Zamagni S.- Zamagni V. (2008); Jossa B. (1999), (2005). 159 160 59 della cooperazione potrebbe, infatti, aggiungere elementi di competitività all’interno del mercato europeo, migliorando così le condizioni di offerta per il consumatore, sempre più maturo, informato ed esigente. Passando alla seconda tematica, ossia a “quali cooperative per l'Europa” il problema si può invece affrontare studiando cosa può fare e come può intervenire la cooperazione per favorire lo sviluppo economico comunitario, nonostante sia un soggetto ed uno strumento economico locale che potrebbe incorrere nei rischi di una degenerazione del modello cooperativo (come intuibile dagli orientamenti del mercato statunitense e come è stato talvolta supposto a proposito dell'espansione internazionale di Mongragon). È lecito porsi, perciò, la domanda sulla congruità e sulla capacità delle cooperative di incidere in modo significativo sulla crescita sostenibile del mercato europeo globalizzato. Fra le innumerevoli ricerche di mercato commissionate dalla Comunità europea su per approfondire le attuali condizioni di offerta e di competitività delle cooperative europee161, sono emerse le seguenti considerazioni istituzionali: 1. L’impresa cooperativa è più adatta dell’impresa capitalista per mettere a frutto le nuove opportunità offerte dall’innovazione tecnologica, poiché l’attenuazione del vincolo del profitto la rende maggiormente adatta a distribuire all’interno del sistema innovazione, comunicazione e capitale umano, ossia le variabili su cui si basa l’efficienza dei moderni sistemi produttivi. A ciò bisogna aggiungere che il più lungo “tempo” delle cooperative consente di applicare azioni di maggior respiro temporale e meno occasionali, come nel caso dell’introduzione dei nuovi processi produttivi e nel trasferimento dell'innovazione tecnologica. 2. I più forti legami che i soci hanno con il territorio hanno spinto le imprese cooperative a partecipare attivamente allo sviluppo delle comunità di riferimento, ciascuna con modalità e interventi diversi, anche se denominatore comune delle politiche seguite all’interno del territorio è lo sviluppo sostenibile dell’area di insediamento, sotto il profilo sociale, economico ed ambientale (così come indicato nel Libro Verde dell’Unione Europea162). 161 162 60 Per approfondimenti cfr. Alto Consiglio per la Cooperazione 2000 (Task Force interministeriale per l’innovazione sociale e per l’economia sociale, Francia): I movimenti cooperativi nell’Unione Europea, Gennaio 2001; Raccomandazioni della Comunicazione della Commissione al Consiglio Business in the Economie Sociale Sector. Europe’s frontier-free market, SEC(89), 1989; Rapporto EMES, Ricerca finanziata nel quadro delle ricerche socio-economiche della Commissione Europea, http://www.emes.net/ uk/presentation.htm, 2001; Borzaga, C. & Santuari, A., (1998). Per approfondimenti cfr. tra gli altri: Commissione Europea, Libro Verde “Sull'imprenditorialità in Europa”, 2003; ID., Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, 2001. 3. La proiezione internazionale delle cooperative ha consentito la realizzazione di importanti interventi comunitari orientati sia allo sviluppo dei paesi meno avanzati che a ridurre, sia pure parzialmente, le conseguenze negative della globalizzazione sui mercati locali. Di solito queste iniziative, lanciate da istituzioni multilaterali, nazionali e regionali sono state, infatti, affidate e gestite a vario titolo, a società organizzate in forma cooperativa163. 4. Le cooperative sociali si sono diffuse sempre più nel territorio europeo sostituendosi alla progressiva riduzione della presenza pubblica in campo sanitario, assistenziale ed educativo. Questo inserimento ha anche permesso di affrontare la disoccupazione, la povertà e, soprattutto, l’emarginazione sociale e di distribuire prodotti e servizi relazionali, presenti con sempre maggiori difficoltà nei mercati privati. 163 61 E’ il caso di Legacoop in Italia che è inserita attivamente nel circuito del commercio equo e solidale; di Mondragon in Spagna che, con la creazione della fondazione “Mondukida”, può promuovere campagne in aiuto ai PVS. II LA LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE DEL SETTORE COOPERATIVO Introduzione. A livello internazionale la regolamentazione cooperativa si pone il problema di favorire lo svolgimento dell’attività economica delle imprese, attraverso l' armonizzazione delle legislazioni tra i singoli paesi ed anche con la costruzione di cornici valoriali e funzionali che possano permettere di disporre di una immagine sufficientemente unitaria della forma cooperativa. In altri termini, si tratta di pervenire ad un contesto di principi condiviso, che renda la cooperativa riconoscibile e riconosciuta per la sua natura in qualunque parte del mondo. Questo vuole anche dire gestire situazioni nelle quali i 7 principi che caratterizzano la forma cooperativa siano non solo applicati e condivisi, ma anche interpretati e recepiti con una certa elasticità. Questo compito è affidato all’Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI), che è l' associazione internazionale non governativa ed indipendente che unisce, rappresenta ed assiste le cooperative oggi presenti in oltre 100 paesi del mondo. L' origine di questo ente internazionale si può ricondurre a Robert Owen, il “padre” del movimento cooperativo164 che, nel 1835, fondò l’”Associazione di tutte le Classi e di tutte le Nazioni”, un primo tentativo di formare una organizzazione centrale con estensione internazionale per tutta la cooperazione165. L’ idea di Owen non fu realizzata subito ma dopo un sessantennio, con la fondazione a Londra dell' ACI, in occasione del primo Congresso Cooperativo Internazionale166 (nel 1895), che aveva come unico scopo l’ internazionalizzazione del movimento cooperativo167 e la proclamazione degli intenti e della natura dell’Alleanza, ossia la sua neutralità in materia sociale, culturale, politica e religiosa. . L’ACI non è una consueta associazione di rappresentanza come altre ed anche in questo (ma, si potrebbe dire “proprio in questo”) la cooperazione mostra la sua diversità rispetto alle altre categorie di impresa. Si tratta, infatti, di una realtà unica di cui non esiste corrispondenza in altre tipologie aziendali, poiché non si è mai vista, ad esempio, un’associazione di industriali che abbia 164 165 166 167 62 OWEN è stato anche considerato il fondatore del socialismo e, in particolare, uno strenuo sostenitore di quella che oggi definiamo governance, ossia quel processo centrato sul carattere democratico della gestione e sulla tutela dei soci di minoranza. Lo Statuto dell’Associazione proponeva la fondazione di una organizzazione cooperativa internazionale con ramificazioni in tutte le nazioni. A questo primo congresso internazionale parteciparono circa 200 delegati di gruppi cooperativi provenienti da 13 Paesi: la maggior parte dalla Gran Bretagna e poi anche da Argentina, Australia, Belgio, Danimarca, Francia, Olanda, Ungheria, India, Italia, Russia, Serbia, Regno Unito e Stati Uniti (rappresentati da tre delegati e cinque ospiti). Scopo principale dell’incontro fu la fondazione di una organizzazione ma, anche un dibattito sui problemi dei quattro principali settori della cooperazione (agricoltura, consumi, credito e produzione e lavoro) rilevanti a livello mondiale. definito, a livello internazionale, il ruolo dell’ impresa profit o che abbia indicato i requisiti funzionali che ne costituiscono l’identità morfologica. Sin dal 1946 è stata poi una delle prime organizzazioni non governative a ricevere lo status di organo consultivo presso le Nazioni Unite, nell’ambito del Consiglio Economico e Sociale. L’ACI non è perciò un’associazione di rappresentanza ma un soggetto socio-economico che promuove una tipologia di impresa che opera sulla base dei principi sociali e non solo economici ed a vantaggio, in modo esplicito, della comunità di appartenenza. 1. Le funzioni dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI). Obiettivo primario dell'A.C.I. è quello di promuovere (e rafforzare) le cooperative autonome nel mondo, attraverso una serie di attività istituzionali e di progetti diffusi a livello nazionale, regionale ed internazionale, per il perseguimento dei seguenti obiettivi: 1. tenere alto il livello di attenzione sulla realtà cooperativa, aiutando gli individui, i Governi, le Istituzioni locali ed internazionali a comprendere il modello cooperativo d'impresa. In questo senso l'A.C.I. è considerata la “voce” del movimento cooperativo; 2. contribuire alla creazione di un ambiente favorevole allo sviluppo di queste imprese, con un quadro normativo ed amministrativo che rispetti i principi ed i valori del modello cooperativo. In tal senso, fornisce assistenza politica e tecnica, affinché le cooperative possano competere sui mercati nazionali ed internazionali, al pari di altre imprese; 3. fornire ai propri associati pubblicazioni (settimanali, quindicinali, mensili ed annuali), organizzare incontri e workshop su tematiche rilevanti per il movimento cooperativo, agevolare la discussione e la condivisione delle informazioni fra i cooperatori di tutto il mondo, facilitando così gli scambi commerciali e culturali fra i vari settori. Tramite il proprio programma di sviluppo può anche favorire la creazione di posti di lavoro (con la promozione e il sostegno di programmi rivolti all'occupazione giovanile ed alla riduzione della povertà) e il supporto finanziario ai progetti di investimento provenienti da tutto il mondo. Attraverso tutta la sua struttura (globale, regionale e settoriale) e da oltre 40 anni l'ACI è impegnata, in particolare, nei progetti di cooperazione allo sviluppo per il rafforzamento delle cooperative in Africa, in Asia e in America Latina168. 168 63 Si noti ancora che la specifica funzionalità di questa struttura (in termini di obiettivi e di compiti) non Da un punto di vista organizzativo, sin dal congresso di Tokyo (del 1992), è articolata in 4 strutture regionali (Assemblee Regionali) presenti in ciascuna area geografica: 1. ACI-Europa, 2. ACI-Americhe, 3. ACI-Asia-Pacifico, 4. ACI Africa allo scopo di promuovere la collaborazione inter-cooperativa internazionale e poter organizzare un Forum per discutere le questioni di maggiore interesse per ciascun movimento cooperativo territoriale. E’ presente in 92 paesi169 e comprende 219 organizzazioni cooperative nazionali ed internazionali, 1 internazionale (ONU) e 7 membri associati che rappresentano più di 800 milioni di persone nel mondo. E’ strutturata in 9 Organizzazioni settoriali operanti in tutti i comparti di attività economica (agricoltura, pesca, sanità, industria, turismo, abitazione, consumo, settore bancario ed assicurativo) e 4 Comitati Tematici. E' dunque una organizzazione complessa e di difficile gestione, non solo per la vastità territoriale in cui opera ma, per le evidenti differenze (antropologiche) che spiegano le ragioni di una così laboriosa gestazione della definizione della forma e dei principi della cooperazione. 2. La definizione internazionale di cooperativa. Uno dei problemi più complessi affrontati dall’ACI è stato, infatti, quello di una definizione univoca della forma cooperativa che potesse conciliare tutte le diverse esperienza che si erano sviluppate nel mondo. Nel congresso di Manchester (del 1996) si pervenne alla seguente definizione: “un’associazione autonoma di persone che si riuniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni economici, sociali e culturali e le proprie aspirazioni attraverso la creazione di un’impresa a proprietà comune, controllata democraticamente”. Con questa tormentata definizione si riconosce e si identifica, a livello internazionale, l' impresa cooperativa come la forma giuridica ed economica che esiste per 169 64 trova analogie neppure in altre organizzazioni internazionali. Territorialmente è rappresentata dal 36% di associati in Europa (84 paesi), il 28% in America (66 paesi), il 25% in Asia (57 paesi) e il 10% in Africa (22 paesi). soddisfare i bisogni dei soci che ne hanno la proprietà. Ne consegue che, mentre una impresa “non cooperativa" è una associazione di capitali170 (perché controllata dagli investitori) la "cooperativa" è una associazione di persone (perché guidata democraticamente da persone): entrambe le tipologie possono contribuire al funzionamento efficiente e sostenibile dei mercati171”. La cooperazione è anche considerata il risultato del soddisfacimento di un’ampia serie di bisogni collettivi che non trovano adeguato riscontro nel funzionamento dell'economia classica (profit) e, per questa sua natura, le possibili applicazioni di questo modello sono molteplici ed estremamente estese e diversificate. Le precipuità del modello cooperativo sono insite nella capacità di non essere esclusivamente economico ma anche sociale, ossia di non risolversi esclusivamente nell'ambito della capacità euristica e operativa del principio della razionalità economica ma di basarsi sulla contemperanza di risultati sociali ed economici, con ovvie implicazioni sulla gestione e sulla governance. A titolo esemplificativo, basti considerare l'applicazione, a livello mondiale, di uno dei principi della forma cooperativa, ossia il governo “democratico” dell'impresa: la complessità e la diversa applicazione del concetto di democrazia nei diversi mercati lascia facilmente intuire l'estrema articolazione e, talvolta, la comprensibile divergenza delle risposte operative che questo principio può dare nei diversi contesti. Non va dimenticato poi che la cooperazione nasce in Occidente, in particolare in Inghilterra e che questo profila la cooperazione di un background culturale ed ideologico che probabilmente non si può riproporre in altri contesti: basti pensare all’interpretazione della cooperazione in senso dittatoriale per l'Unione Sovietica o all'errata identificazione della cooperazione con strutture statali (coercitive o collettiviste) dell' Est europeo oppure al significato che le può essere dato in un kibbutz israeliano172. 170 171 172 65 Questo non vuole dire che nella definizione di impresa di capitali non siano rinvenibili principi e pratiche valoriali come, ad esempio, l'accettazione e la condivisione del principio del profitto e della concorrenza, ma si tratta di principi che attengono più al mercato che non alle attività economicamente significative tanto che, solo da recente e sulla spinta di un bisogno di maggiore “responsabilità”, alcune imprese di capitali hanno cominciato ad elaborare codici etici che appaiono incomparabili con il complesso valoriale della cooperazione (basti vedere, ad esempio, in quanti di questi codici vengono indicate le condizioni che permettono il rispetto dei diritti delle minoranze). Per approfondimenti cfr. documento di lavoro dei Servizi della Commissione Europea, Le cooperative nell’ Europa imprenditoriale, 2004. L'associazionismo in forma di kibbutz risale all'inizio del XX secolo (1909) ed è stato uno dei modelli di sviluppo dell'economia israeliana, sia per la forte carica ideologica socialista che per la struttura innovativa, in un'area in cui l'agricoltura era a livello di sussistenza. Si trattava di una forma associativa volontaria di lavoratori, basata su regole rigidamente paritarie e sul concetto della proprietà comune, con direzione affidata ad un numero ristretto di persone e con un' assemblea generale per le decisioni di carattere ordinario. 2.1. I principi cooperativi dettati dall’ACI. La definizione di cooperativa proposta dall’ACI racchiude un modello ideologico per l’interpretazione e il soddisfacimento dei bisogni socioeconomici del mercato e si risolve nei sotto-elencati “Principi Cooperativi”, ossia in un insieme di regole, recepite a livello internazionale, che dovrebbe favorire una certa armonizzazione nell'organizzazione e nella gestione dell'impresa cooperativa. L’obiettivo strettamente correlato ad un accoglimento unanime della definizione dovrebbe, infatti, consentire una certa omogeneità operativa fra le diverse aziende cooperative dislocate nel mondo, facilitare le interazioni ed i rapporti di collaborazione tra le stesse nei diversi paesi del mondo e favorire la convergenza tra le normative nazionali che disciplinano la costituzione e il funzionamento dell’impresa cooperativa. I principi (tranne l'ultimo più recente) richiamano l’insegnamento dei padri fondatori, ossia dei Probi Pionieri che nel 1844 (come già detto) e per la prima volta nella storia, gettavano il seme della solidarietà nella struttura del mercato produttivo. I principi dell’identità cooperativa, approvati nel Congresso ACI svoltosi a Manchester (nel 1995), sono i seguenti: 1° Principio: adesione libera e volontaria (principio della “porta aperta”): le cooperative sono organizzazioni volontarie, aperte a tutti gli individui bisognosi di usare i prodotti/servizi offerti e disposti ad assumersi le responsabilità che la qualità di socio comporta, senza alcuna discriminazione sessuale, sociale, razziale, politica e religiosa. 2° Principio: gestione e controllo democratico dei soci (principio di “un voto per testa”): le cooperative sono organizzazioni democratiche, controllate dai propri soci che partecipano attivamente alla gestione per lo stabilire le politiche imprenditoriali e per assumerne le decisioni. Gli uomini e le donne, eletti come rappresentanti secondo procedure democratiche, sono responsabili del loro operato nei confronti dei soci. Nelle cooperative i soci hanno gli stessi diritti di voto (una testa, un voto), sono cioè organizzate in modo democratico. 3° Principio: partecipazione economica dei soci: i soci contribuiscono equamente al capitale delle cooperative di appartenenza e lo controllano democraticamente. Almeno una parte di questo capitale è, di norma, proprietà comune della cooperativa. I soci percepiscono un rendimento limitato sul capitale sottoscritto e i surplus di bilancio possono essere destinati, oltre che alla creazione di riserve indivisibili, a fondi destinati a garantire la prosecuzione dell'attività della cooperativa nel tempo (intergenerazionalità) o ad altri possibili ulteriori scopi (stabiliti in statuto), per esempio all' 66 offerta di ulteriori benefici ai soci (ristorno) in proporzione al contributo di ciascuno alla cooperativa stessa (in lavoro e denaro) o anche per il finanziamento di attività sociali, collaterali a quella principale, ed approvate dalla base sociale. 4° Principio: autonomia ed indipendenza dei soci: le cooperative sono organizzazioni autonome ed autosufficienti, controllate esclusivamente dai soci. Nei casi in cui l'impresa sottoscriva accordi di collaborazione con altre organizzazioni (produttive o governative) o ottenga capitali da istituti esterni (es. regionali o comunitari), è obbligata a garantire il mantenimento dell'autonomia gestionale e del controllo democratico della cooperativa da parte dei soci. 5° Principio: educazione, formazione ed informazione: le cooperative si impegnano ad educare ed a formare professionalmente i propri soci, i rappresentanti eletti ed i manager in modo che siano in grado di contribuire allo sviluppo delle società cooperative. Il movimento cooperativo deve, inoltre, promuovere campagne di informazione sulla cultura cooperativa, allo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica e, in particolare, i giovani e gli opinion leader sulla natura ed i benefici dell'applicazione dei principi di democrazia e di solidarietà. 6° Principio: cooperazione tra cooperative: le cooperative devono rafforzare il movimento cooperativo attraverso rapporti di collaborazione inter-aziendali, attraverso il coinvolgimento delle strutture locali nazionali, regionali e internazionali. 7° Principio: interesse verso la comunità: le cooperative con la loro attività partecipano e contribuiscono anche allo sviluppo sostenibile del territorio e della propria comunità di appartenenza, attraverso l'attivazione di politiche proposte ed approvate dai soci. Si tratta di un nuovo principio inerente la vocazione sociale della cooperazione (non presente tra quelli dettati dei Probi Pionieri). Dal 1992 si concretizza con la cessione del 3% dell'avanzo di gestione ai fondi mutualistici per la promozione cooperativa. In sostanza, l'insieme dei precedenti principi possono essere considerati alla stregua di un codice etico basato sui valori dell’auto-aiuto, della democrazia, dell’uguaglianza, dell’equità e della solidarietà ossia su qualità ideologiche che, a loro volta, si basano sui valori più generali dell’onestà, della responsabilità sociale e dell’attenzione verso gli altri. Fra questi, sono stati recepiti incondizionatamente a livello internazionale (che quindi ricorrono in tutto il mondo), quelli che fanno esplicito riferimento all’apparato etico della gestione democratica, alla mutualità ed alla inter67 generazionalità, cioè: a) il principio della libera adesione (o della porta aperta) per cui, compatibilmente con la sopravvivenza e lo sviluppo della cooperativa, è garantito il libero accesso a tutti; b) il principio dell'amministrazione democratica (una testa un voto), per cui ad ogni socio spetta un voto, indipendentemente dall'entità dei conferimenti di capitale effettuati; c) il principio della mutualità esterna, volto a favorire una effettiva collaborazione tra le aziende e quindi, uno sviluppo coerente dell'intero settore cooperativo. 3. La legislazione cooperativa in Europa. Le cooperative sono state espressamente riconosciute nell’Unione Europea (ai sensi del Trattato di Roma, articolo 48) come un tipo di “società” e, in tutti gli Stati membri, fanno riferimento ad un quadro normativo entro cui operare (anche ove non esista una legge specifica) che consente di tutelare gli interessi dei soci e dei terzi. Questo orientamento legislativo è stato espresso variamente nel tempo, ossia a volte in modo stringente ed altre in modo più elastico; comunque, l’approccio dell'UE alla cooperazione ha sempre fatto specifico riferimento al loro contributo alla crescita economica dei mercati e, in particolare, all' occupazione e al ruolo svolto per lo sviluppo sostenibile dell’economia europea173 mentre si è tradotto in un corpus di raccomandazioni specifiche solo nel caso dello “Statuto della cooperativa europea”. La Commissione Europea è tornata a parlare di cooperazione in occasione della dichiarazione di centralità della responsabilità sociale d'impresa174 nel processo economico, affermando l’esemplarità della forma cooperativa nell’acquisizione dell’orientamento "socialmente responsabile" che significa non solo soddisfare e sottostare agli obblighi ed ai vincoli giuridici ma anche avere una gestione rispettosa della popolazione e delle regole di tutela imposte sia dai vincoli ambientali che dalle regole sociali. 173 174 68 Tra queste le più significative sono la Risoluzione del Parlamento Europeo sulle cooperative nella Comunità europea (del 13 aprile 1983) e quella sul contributo delle cooperative allo sviluppo Regionale (del 9 luglio 1987). L’Unione Europea considera la RSI “un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile”, ovvero un approccio di gestione aziendale che rafforza la competitività, la coesione sociale e la protezione dell’ambiente. Per approfondimenti cfr. CEE (2001). Recentemente è in corso un ampio dibattito sulla necessità (o meno) di una specifica regolamentazione della Società Cooperativa Europea (SCE) che potrebbe fornire alle imprese del settore adeguati strumenti giuridici per facilitarne l'attività transfrontaliera e transnazionale (attualmente ostacolate da difficoltà giuridiche ed amministrative, non più accettabili in un mercato senza frontiere). In assenza di questa normativa si continua a fare riferimento allo Statuto della Società Europea che, però non è uno strumento adatto alle caratteristiche delle cooperative, poiché regolamenta rapporti propri dell'impresa di capitalI. Ma, a fronte di questa inadeguatezza operativa, alcuni rappresentanti dei paesi europei influenti a livello istituzionale hanno messo in dubbio la necessità pratica di uno specifico Statuto Cooperativo Europeo175, trascurando che la Società Cooperativa Europea176 potrebbe essere una soluzione ottimale per consentire alle cooperative di operare a livello europeo in condizioni di concorrenza. D'altra parte, negli ultimi cinque anni, l' esigenza di una normativa comunitaria è stata sempre più pressante, specie a seguito del significativo incremento delle operazioni transfrontaliere, realizzate con fusioni e concentrazioni tra alcuni maggiori soggetti economici, che potrebbero essere facilitate e stimolate grazie al riferimento ad uno strumento giuridico ad hoc, quindi ad un apparato organico ed unitario di regole, strutture e di trattamenti fiscali e legislativi. Ciò nonostante non è ancora stato possibile giungere ad un orientamento unanime per la predisposizione di una bozza dello Statuto della Cooperativa Europea, anche a causa delle disparità legislative evidenziate nell'ambito di ciascuna regolamentazione nazionale cooperativa177. 3.1. Il più recente orientamento legislativo europeo sulle cooperative. Scopo principale dell’intervento normativo degli organismi europei è finora consistito nel dettare le regole per l'apertura e lo svolgimento dell'attività economica delle cooperative senza significativi interventi ma solo al fine di una certa armonizzazione del settore nell'ambito di ciascuno dei diversi paesi europei. All’interno degli Stati membri il quadro normativo non è comunque unitario e può essere così suddiviso: 175 176 177 69 Chi si oppone allo statuto sulla SCE ha affermato che le poche cooperative che hanno attività in più di uno Stato membro possono agevolmente operare utilizzando le leggi nazionali in vigore. Ma questo riferimento risulta insufficiente ed oggi sono le stesse cooperative a richiedere fortemente questo strumento. L'obiettivo principale della SCE dovrebbe essere quello della soddisfazione dei bisogni dei soci e/o lo sviluppo delle attività economiche e sociali correlate e non la mera remunerazione di un investimento di capitali. Ciò ha comportato numerosi rinvii alle leggi degli Stati membri nei quali la SCE è registrata, anche se tali rinvii stanno provocando la riduzione della trasparenza e dell’efficienza delle cooperative che operano su tutto il territorio europeo. 1. Paesi in cui esiste un'unica normativa di carattere generale, che regola indistintamente tutte le tipologie d’impresa operanti. In questo caso la cooperazione è ricondotta all'interno della normativa generale che regola le altre tipologie di impresa: è il caso della Germania 178. In questo mercato si tende a non concedere specifici benefici fiscali o indennità a questa categoria di imprese e il carattere cooperativo delle società si evince dallo statuto e dalle rispettive regole interne; 2. Paesi in cui la normativa fornisce alcuni riferimenti su specifiche questioni di settore e per lo scopo sociale perseguito dalla cooperativa. In questi casi sono previsti benefici speciali179 o concessioni, fatte in relazione agli scopi sociali dell’impresa o ai settori produttivi di appartenenza • 3. Paesi in cui esiste una normativa ad hoc: è il caso dell' Italia. Nella maggior parte degli Stati membri, negli ultimi anni, sono state introdotte importanti innovazioni nei regolamenti e nelle normative che disciplinano la forma cooperativa, nel tentativo di ridurre i vincoli e le restrizioni imposte al settore. Queste riforme 180 hanno riguardato, soprattutto, la necessità di rendere possibile il finanziamento delle cooperative da parte di terzi o anche attraverso il ricorso ai mercati finanziari e le regole per la costituzione di imprese ex novo e/o la loro espansione territoriale, al fine di tenere conto delle nuove esigenze dell'economia moderna. In particolare, tali riforme hanno riguardato i seguenti aspetti, sia operativi che patrimoniali: 1. la riduzione del numero minimo di persone necessarie per costituire una cooperativa181. Una base sociale minima (come nel nostro paese di 9 soci) presupponeva un’impresa con una incidenza del costo del lavoro molto alta sin dalla costituzione. 178 179 180 181 70 Il codice del commercio Germanico (del 1861) era in Europa la legislazione più avanzata sulle cooperative. In dieci Stati membri le cooperative (o almeno alcuni tipi di cooperative) godono di alcuni vantaggi legislativi, soprattutto di carattere fiscale. In quattro Stati membri, invece, le cooperative agricole usufruiscono di particolari benefici (ad esempio, per favorire la formazione di capitale e controbilanciare le restrizioni derivanti dalla scelta della forma cooperativa). Questi principi sono stati recentemente oggetto di discussione da parte della Organizzazione Internazionale del Lavoro. Per approfondimenti cfr. http://www.oit.org. Questa modifica ha tenuto conto della necessità, sempre più diffusa, di strutture produttive più snelle. 2. la possibilità di attribuire ad alcuni soci più di un voto (voto plurimo). La regola "una testaun voto" è presente nella normativa di tutti gli Stati membri (almeno per le cooperative di primo grado); recenti sviluppi in alcuni Paesi (tra cui l’Italia), tendono però verso un'applicazione più flessibile di questo principio. Ad esempio, si può prevedere che i soci detengano voti multipli o, viceversa, che il numero dei voti sia direttamente proporzionale al conferimento. Per permettere questa flessibilità, senza che si realizzi una situazione in cui gli interessi dei soci possano ledere gli scopi democratici della cooperativa, sono stati posti dei limiti al numero massimo di voti che una persona o un gruppo può detenere. 3. la riduzione dei vincoli sulle attività con i non soci182. Per esempio, molti paesi autorizzano operazioni con soggetti terzi non soci della cooperativa purché queste operazioni rimangano accessorie e non mettano in pericolo gli interessi dei soci; in altri Paesi, fare affari con non soci è tollerato, anche se in contrasto con la definizione di cooperativa del diritto interno; infine, altri paesi non permettono ai soci esclusivamente investitori (“non utilizzatori”) di beneficiare dei profitti ottenuti con i soci. 4. la possibilità per i terzi di partecipare alle quote di capitale della cooperativa. La regola del capitale variabile, ossia del "principio della porta aperta", è presente nella legislazione di tutti gli Stati membri183 (ad eccezione della Germania). A questi soci non cooperatori (non sottoposti ad un limite quantitativo nella sottoscrizione di capitale) può essere attribuito più di un voto in assemblea e può essere distribuito un dividendo maggiore (ma comunque limitato) di quello attribuito ai soci cooperatori. 5. la possibilità per le cooperative di trasformarsi in società per azioni. Più della metà degli stati membri (compresa l'Italia dalla riforma del diritto societario) prevede, infatti, la possibilità di abbandonare lo “status” di cooperative per trasformarsi in società di lucro, senza però perdere le peculiarità delle società di persone. In questi casi è richiesto il consenso della maggioranza dei soci, che devono anche esprimere la loro volontà di 182 183 71 Quando nella legislazione è inserito il principio di esclusività le cooperative possono avere relazioni di affari unicamente con i loro soci. Ma, se non espresso e in ottemperanza alla tradizione cooperativa, è previsto che l’impresa può avere rapporti con i terzi (non solo in Italia): ad esempio, impiegare lavoratori non soci nella cooperativa di produzione e lavoro, vendere beni/servizi a consumatori non soci in quelle di consumo ed acquistare da fornitori non soci in quelle agricole o detenere depositi e/o concedere prestiti ai non soci per le cooperative di credito. Dal 1992 anche in Italia è previsto che in ogni tipo di cooperativa possono diventare soci anche soggetti (persone fisiche e/o giuridiche) che non perseguono l’obiettivo mutualistico. rinunciare al patrimonio accumulato fino a quella data. 4. Le cooperative nella Costituzione italiana e nel Codice Civile. La società cooperativa viene inserita per la prima volta nel Codice del commercio del 1882 184 (al titolo IX, sezione VII, artt. 219228) con le Disposizioni riguardanti le società cooperative, nell’ottica di una regolamentazione delle cooperative di credito, con specifico riferimento ad alcuni limiti imposti al socio ed all’esenzione dalle tasse di registro e di bollo. Per gli altri aspetti questa norma rimandava alla legislazione sulla società anonima e non specificava i caratteri distintivi della cooperativa né vi era accenno ai principi della “porta aperta”, al ristorno o ai fini mutualistici. Si era però salvaguardato il principio “un voto per testa” e posto un “limite” all’entità delle azioni possedute da ciascun socio (pari a 5.000 lire). Una successiva legge sugli appalti (luglio 1889) avrebbe poi previsto una normativa185 per la concessione di lavori pubblici186 (anche tramite trattativa privata e fino all’importo massimo di 100.000 lire) anche alle cooperative di produzione e lavoro, legalmente costituite fra operai, purché nell’appalto fosse evidenziato il “valore della mano d’opera”. Era, inoltre, richiesta la ripartizione degli utili fra coloro che avevano effettivamente concorso a produrli in proporzione al lavoro svolto applicando, per la prima volta, il metodo del “ristorno”.Per la partecipazione agli appalti veniva, infine, prevista l’iscrizione delle cooperative in un registro prefettizio, appositamente costituito sia per finalità statistiche che per facilitare eventuali controlli sul settore187. E' però nel 1947 che l’impresa cooperativa trova una prima fondamentale legittimazione con un richiamo esplicito nella Costituzione della Repubblica Italiana (entrata in vigore il 1° gennaio 184 185 186 187 72 L’inizio dei lavori per il nuovo Codice di commercio risale al 1869, quando la Camera dei Deputati stava valutando le conseguenze giuridiche che sarebbero seguite all’annessione delle province venete al Regno. L’estensione di questo Codice a queste due nuove province avrebbe provocato, infatti, notevoli problematiche, dato che queste erano regolate dal Codice del Commercio germanico (del 1861). Questo Codice sarà promulgato dal ministro guardasigilli Giuseppe Zanardelli e rappresenta la prima legislazione che tenterà di dare un quadro normativo sistematico all'istituto della cooperazione In quella occasione veniva anche abolito l’obbligo della cauzione preliminare sulle concessioni, sostituito da una trattenuta del 10% sulle rate dei pagamenti. L’ammissione delle imprese cooperative agli appalti pubblici rientrava nella legge n. 6216 (11 luglio 1889, Art. 4) e in un Regio Decreto (23 agosto 1890, n. 7040) che approvavano il regolamento per l'ammissione delle cooperative agli appalti. Un successivo Regio Decreto n. 146 (del 17 marzo 1907), estendeva il regolamento sugli appalti alle cooperative di produzione e lavoro (con Legge n. 422, 25 giugno 1909) e ammetteva la costituzione di consorzi tra cooperative per l'assunzione degli appalti approvati con Regio decreto n. 278 (del 12 febbraio 1911). La legge era espressione della volontà di mantenere le imprese cooperative operaie in posizione economica subordinata e di condizionarle politicamente, attraverso il controllo pubblico (ciò varrà anche per la legislazione successiva). Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2005. 1948) che, dedicandole l’Art. 45188, riconosce in modo solenne “il valore sociale della cooperazione a carattere di mutualità”, impegnando lo Stato a promuoverla ed a favorirne lo sviluppo. La costituzione italiana riconosceva quindi il valore sociale della cooperazione (art.45), un riferimento che ritroveremo anche nel Codice Civile (Art. 2511 e segg.). E' importante sottolineare che questo riconoscimento avveniva in un periodo in cui la cooperazione non era di dimensioni economiche tali da suscitare l’attenzione dei Costituenti si trattava, quindi, di un interesse basato sulla storia e sui motivi che avevano dato le origini alla cooperazione, quindi sui suoi principi ed i suoi valori che avevano finito per ritrovarsi, sebbene con e per interessi diversi, in quasi tutti i partiti nazionali189. Il fondamento normativa della legislazione italiana nei confronti della cooperazione è dunque nella Costituzione190 a cui è stata aggiunta una legislazione specifica non marginale, ossia una serie di leggi che ne regolamentano principi ed operatività oltre ad una legislazione fiscale che, nell'immaginario collettivo, è anche stata causa di uno dei più pesanti fraintendimenti della forma cooperativa. Stiamo facendo specifico riferimento alla "Legge Basevi191"(1947) considerata una legge basilare per la cooperazione che conteneva provvedimenti in materia di controllo del comparto cooperativo192 , non affrontando però, sul terreno civilistico, il problema della necessità di una definizione univoca di società cooperativa. I "requisiti mutualistici" riportati nell' Art. 26 erano, infatti, prescritti esclusivamente per "gli effetti tributari" ed il baricentro della sua applicazione rimaneva circoscritto ai temi della vigilanza e della reintroduzione di un Registro prefettizio193 integrato da uno schedario generale, nel quale sarebbero state obbligate 188 189 190 191 192 193 73 L’Art. 45 enuncia: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, il carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. In base allo stesso articolo “le imprese che soddisfano i principi cooperativi meritano benefici fiscali”. La cooperazione nel dopoguerra ha quindi rappresentato un luogo di consenso che accomunava i laici (del partito d’azione) con i socialisti, i comunisti con i liberali nella convinzione comune che questa struttura di mercato, con finalità sociali ed economiche, potesse svolgere una funzione, temperante e concorrente, alla forma capitalista. Si tratta di una produzione non copiosa in senso specifico ma significativa per il fatto che la cooperazione è stata spesso richiamata anche dalla giurisprudenza ordinaria (come capita, per esempio, nel caso dell'edilizia sociale). Nel 1947 vennero approvati i “Provvedimenti per la cooperazione” (D.L. n. 1577), detti più comunemente Legge Basevi (dal nome di Alberto Basevi), figura storica del movimento cooperativo che si adoperò per il riconoscimento giuridico e costituzionale della cooperazione. Questa legge ribadisce (nell’art. 26) il concetto di società cooperativa come impresa per lo svolgimento della "funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata", come contenuto nell'art. 45 della Costituzione. Da sottolineare la sostanziale coincidenza fra l'ispirazione della "Basevi" e quella dell'art. 45, elaborati nello stesso arco di tempo. “Gli enti mutualistici (escluse banche ed assicurazioni), di cui all'art.2512 del Codice Civile sono sottoposti alla vigilanza del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, salvo quanto disposto dalle leggi speciali” che regolano specificatamente la cooperazione. Nei tempi dei Governi centristi degli anni Cinquanta questo Registro assumerà una funzione di contenimento, soprattutto nei confronti della cooperazione più direttamente collegata al movimento operaio e, in particolare, al Partito Comunista. ad iscriversi tutte le cooperative. Ciò nonostante la legge Basevi ha rappresentato un importante passo in avanti ed un importante punto di riferimento per la legislazione successiva e, in particolare, per la disciplina delle agevolazioni tributarie per le imprese cooperative (Artt. 10-14 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 601, 29 settembre 1973). Nel 1977 (con legge n. 904) verrà decretata, a completamento della precedente, l’integrale esenzione fiscale degli utili messi a riserva indivisibile dalle cooperative194. L'importanza di questa norma è stata fondamentale per lo sviluppo della cooperazione perché ne ha agevolato la capitalizzazione e la patrimonializzazione proprio nel periodo in cui si determinava la necessità di un riposizionamento, anche dimensionale, dell’offerta delle imprese cooperative195. Passando al Codice Civile (CC) per molto tempo è stato necessario ricorrere alla generica definizione di impresa, valida per tutte le categorie (contenuta nell’Art. 2247196 del CC.), che dettava la principale finalità, riconosciuta dalla legislazione italiana, per l’esercizio di un’attività economica, ossia la divisione degli utili, obiettivo che però esulava dallo scopo cooperativo. Ma, tale obiettivo, in verità, non escludeva la possibilità di perseguire tutta una serie di altri bisogni economici e non, tra cui ad esempio anche quelli sociali (propri delle cooperative). Di conseguenza, anche per il regolamento civilistico delle imprese cooperative si faceva riferimento a questo articolo. Un collegamento alle cooperative era invece riscontrabile nell’Art. 2511 del CC che riportava una precisa definizione di impresa mutualistica. Infatti “le imprese che hanno scopo mutualistico possono costituirsi come società cooperative a responsabilità limitata”: anche in questo caso il perseguimento del profitto rimaneva prioritario (con il richiamo all'impresa) che veniva però temperata dal concetto di mutualità, proprio delle cooperative. Nella relazione al Codice Civile del 1942 (al Titolo VI) venivano poi indicati gli elementi essenziali allo scopo mutualistico, cioè la necessità di fornire ai soci dell' eventuale impresa cooperativa occasioni di lavoro o beni o servizi a condizioni di maggior vantaggio rispetto a quelle di mercato L' articolo sulle imprese mutualistiche ha costituito, nel tempo, la chiave di lettura di tutte le elaborazioni teoriche sulle cooperative ed è rimasto vigente fino alla riforma del diritto societario (del 31 dicembre 2003).. 194 195 196 74 In altri termini, su tutti gli utili che non vengono erogati ma depositati in una apposita riserva (che diviene pertanto indivisibile), non viene applicata alcuna tassazione. Nel 2003 fra le grandi e maggiori cooperative aderenti a Legacoop la quota degli utili messi a riserva indivisibile ammontava addirittura all’87% degli utili di esercizio, mentre solo il 4,1% veniva distribuito ai soci. Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica, allo scopo di dividerne gli utili. 4.1. Le cooperative sociali nelle legislazione italiana. La stessa Costituzione si era anche occupata della classificazione delle prestazioni sociali197, dividendo i cittadini in due macro-categorie: gli inabili al lavoro (coloro che, per il loro mantenimento, avevano bisogno di servizi di natura assistenziale) ed i lavoratori veri e propri (a cui erano rivolte le politiche previdenzali, in caso di situazioni temporanee di incapacità al lavoro). L’innovazione legislativa della Costituzione risiedeva nel riconoscere l’assistenza come un diritto del cittadino e non un bisogno eventuale e discrezionale (come nella legislazione precedente). Lo Stato mantenne così il suo ruolo di gestore e di erogatore di questi servizi198 e si impegnò ad attirare presso di sé gran parte delle organizzazioni sociali private e cattoliche (operanti nel passato in questo settore), attraverso una sempre più stretta dipendenza dai finanziamenti pubblici199. I successivi anni Sessanta furono poi cruciali per le ideologie e le politiche sociali ed assistenziali: sono i tempi del boom economico e dell’aumento della ricchezza e del benessere della popolazione italiana, composta soprattutto da giovani e, quindi, con una base sociale pronta all’inserimento lavorativo ed al sostegno di un’economia in piena crescita. In quegli anni, le strutture private dedite all'assunzione di ruoli e di finalità sociali erano le cooperative che, pur nell'incertezza legislativa, iniziavano ad avviare le prime esperienze nell'ambito delle attività socio-sanitarie e di assistenza alla persona. Tra queste, degna di nota la prima cooperativa sociale italiana (1963) la “San Giuseppe” di Roè Volciano (in provincia di Brescia). Il suo presidente onorario, Giuseppe Filippini, è rimasto famoso per essere riuscito ad eludere il vincolo della cosiddetta mutualità interna200, cioè per avere allargato ed esteso il fine mutualistico proprio della cooperativa anche ai non soci: finalità rivoluzionaria per quei tempi, per la natura stessa e il riconoscimento giuridico della cooperazione e preludio alla concezione moderna di cooperazione sociale201. Nei successivi anni 197 198 199 200 201 75 L’art. 38 della Costituzione sanciva che “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano prevenuti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria”. Le organizzazioni caritative no profit nel frattempo erano tutt'altro che numerose e si limitavano a svolgere funzioni di promozione e di tutela dei diritti a beneficio dei soci. Per approfondimenti cfr. F. Belli (2005). Secondo l’articolo 3 dello Statuto, scopo della “San Giuseppe” era: l'elevazione morale dei soci, dei loro figli nati o futuri e dei loro parenti fino al quarto grado. In aggiunta, l' Art. 4 riservava al giudizio del consiglio di amministrazione l’ammissione al beneficio dell’attività sociale della cooperativa anche “i non soci e non parenti dei soci, purché provenienti ed operanti in zone da cui provengono, in cui risiedono o dove operano i soci e i loro parenti, indicati nel succitato articolo 3”. In altri termini, la cooperazione sociale rappresenta la specificità nella specificità, nel senso che è una forma di impresa che interpreta in maniera ancora più ampia il principio della mutualità, estendendolo dal Settanta, lo Stato varò norme a favore dei portatori di handicap202, per i centri antidroga203 e per l’abolizione degli ospedali psichiatrici204, quindi intervenne specificatamente a sostegno delle categorie più deboli ed anche nei confronti delle donne, per l’emancipazione della figura femminile e l' inserimento nel mondo del lavoro205. In questa stessa decade fu chiara l’impossibilità dello Stato di farsi carico di tutti i bisogni di assistenza presenti nel mercato. Le concomitanti trasformazioni socio-demografiche della popolazione, dovute al progressivo invecchiamento della classe lavorativa e quindi all’aumento del contributo previdenziale a carico dello Stato, si aggiunsero alla carenza di fondi da destinare ai servizi assistenziali rivolti ai cittadini. Si pose perciò il problema dello stato di salute del Welfare State italiano, ormai quasi al collasso. Fu così necessario ricorrere ad un ridimensionamento dell'intervento economico pubblico, che comportò un taglio dei servizi sociali fino ad allora erogati e il blocco delle assunzioni nelle piante organiche delle pubbliche amministrazioni206. La fine degli anni Settanta decretò perciò la crisi dei modelli nazionale di Welfare fino ad allora vigenti e il ritrarsi dei suoi due principali protagonisti: lo Stato e le imprese profit, non più in grado di colmare lo spazio crescente derivante dai sempre maggiori e sempre più diversificati bisogni della società moderna. Sulla base dell’esperienza, dei principi valoriali e del senso di responsabilità, le cooperative assieme a numerose associazioni di volontariato furono le uniche organizzazioni in grado di colmare il vuoto lasciato dalla Stato centrale207 e di rispondere a queste nuove esigenze. La collaborazione tra cooperative e volontariato non deve però indurre nell'errore di trascurare le sostanziali differenze tra le due specie: la forma giuridica della cooperativa (come anzidetto) era espressamente riconosciuta dal Codice Civile e dalla legislazione di settore con l'impresa mutualistica, mentre il volontariato non era regolamentato e poteva esprimersi anche in forme transitorie e non del tutto continuative; in altri termini, la cooperativa era un' impresa a tutti gli effetti mentre l’associazione di volontariato non lo era. Queste disparità legislative e le ovvie conseguenze sul piano gestionale ed economico-finanziario condussero molti gruppi di volontariato 202 gruppo dei soci lavoratori a quello degli utenti dei servizi (cd. doppia natura del principio di mutualità, interna verso i soci e esterna verso gli utenti). Questa caratteristica trova anche un chiaro riconoscimento giuridico nel fatto che la cooperazione sociale è l’unica tipologia di impresa cooperativa considerata a mutualità prevalente per definizione. Con la legge n. 118/71 per le barriere architettoniche, la n. 517/77 per l’inserimento scolastico e l’abbattimento delle classi differenziali. 203 204 205 Con la legge n. 685/75. Con la legge n. 180/78 Con la legge n.1204/71 per il periodo di congedo causa maternità, la legge n.1044/71 e la n. 405/78 per l’istituzione degli asili nido e dei consultori familiari. 206 207 76 Gran parte delle competenze, delle risorse e delle strutture furono trasferite da alcuni enti centrali adesso soppressi (con legge n. 349/1977) alle Regioni nate pochi anni prima (con legge n.. 382/1975). Per approfondimenti cfr. C. Borzaga e F. Zadonai (2002). alla trasformazione in cooperative, anche per la necessità di costituire organizzazioni stabili e tutelate dalla legge. L’avvicinamento tra il volontariato di assistenza sociale ed il mondo della cooperazione era favorito dal perseguimento di obiettivi comuni, ossia dal fatto che l'individuo ed i suoi bisogni erano collocati al centro dell’attività, permettendo così ai due settori di orientarsi verso la promozione e la tutela del diritto del cittadino all’assistenza sociale. La cooperazione sociale, inoltre, dalla sostanziale convergenza tra la tradizione di solidarietà di matrice cattolica (prevalentemente orientata a migliorare le condizioni dei soggetti in stato di disagio), con quella di matrice laica (più sensibile all’elemento occupazionale, cui si deve tra l’altro l’ideazione dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati 208), è riuscita a rappresentare uno dei segmenti più complessi ed articolati del mondo cooperativo italiano. 4.1.1. La più recente regolamentazione delle cooperative sociali. Negli anni Ottanta le cooperative sociali, in base al loro scopo sociale prevalente209, sono state suddivise in: • Cooperative di servizi sociali, operanti nel comparto socio-assistenziale per dare un’opportunità di lavoro ai soci attraverso convenzioni stipulate con Enti pubblici locali e, più raramente, con i privati. Nacquero in risposta al ritrarsi dell'offerta e del blocco delle assunzioni nelle amministrazioni pubbliche e si collegavano alle consorelle cooperative di produzione e lavoro. Inizialmente non si trattava di aziende a tutti gli effetti, in quanto i dipendenti non acquisivano lo status di socio e non partecipavano attivamente alla vita assembleare; talvolta è anche stata una formula adottata per mascherare un'attività di intermediazione di manodopera, anche sottopagata. • Cooperative di solidarietà sociale per orientare le capacità imprenditoriali verso la solidarietà, la promozione e il reinserimento sociale di persone in difficoltà, indirizzando questi servizi non solo verso i soci ma anche i non soci. • Cooperative di produzione e di lavoro integrate per la parziale occupazione di persone svantaggiate210, nell’obiettivo di garantire loro l’acquisizione di competenze da poter 208 209 210 77 Per approfondimenti cfr. CGM, 1997, Per approfondimenti cfr. Borzaga e Failoni (2002). L'inserimento di persone svantaggiate all'interno del mondo del lavoro era previsto per legge anche nelle tradizionali imprese di capitali, anch'esse soggette alle norme del collocamento obbligatorio degli invalidi. Nell'applicazione di questa legge nelle imprese di capitali si riscontravano però numerose difficoltà, in quanto certe categorie svantaggiate non si adattavano bene al lavoro prestabilito. Per questo spendere anche in imprese di altro tipo (ad esempio di capitali). Obiettivo prioritario rimaneva, comunque, la possibilità di un lavoro stabile e definitivo per i soci211. Da un punto di vista legislativo si poneva però la necessità, già affrontata in precedenza212, dell’individuazione di una forma giuridica più consona alla gestione delle attività di solidarietà e di assistenza sociale, che venivano svolte con continuità e che iniziavano ad assumere una certa rilevanza economica,213 in modo da assegnare a queste organizzazione un ruolo circoscritto e preciso. La legislazione cooperativa, infatti, pur essendo in possesso dei requisiti per una gestione democratica e per lo svolgimento di attività economiche, risultava giuridicamente limitata dal vincolo mutualistico, che riservava il beneficio dell’attività svolta ai soli soci214. Nacque quindi la necessità legislativa215 di allargare il concetto mutualistico oltre il numero dei soci effettivi (con la cd. “mutualità allargata”) e di estendere l'apporto lavorativo alla figura del socio volontario216 con un'apposita legge (la L. 381/91) che diede un forte impulso alla costituzione ed alla diffusione delle aziende specializzate in cooperazione sociale, codificandone la natura e promuovendone il carattere innovativo. La L.381 si è inserita nel quadro legislativo nazionale in una fase di relativa maturità del fenomeno ed i suoi contenuti sono scaturiti dall’unione delle esperienze locali con diverse tradizioni culturali, concentrandosi soprattutto sulla definizione della natura217 e dello scopo della cooperazione sociale, per poi definirne i settori di attività. Questa 211 212 213 214 215 216 217 78 motivo nacque l'esigenza di avviare cooperative con il fine di provvedere alla formazione professionale delle categorie svantaggiate, per un loro successivo inserimento nel mercato del lavoro tradizionale. Per approfondimenti cfr. G. Marocchi (1997). Nel 1981 era già approdato in Parlamento un disegno di legge, presentato dall’Onorevole Salvi (appartenente al gruppo politico della Democrazia Cristina), andato in discussione in Senato nella legislatura successiva. Durante la decima legislatura si fecero largo anche iniziative provenienti dall’ala sinistra del Parlamento (disegno di legge a firma dell’Onorevole Vecchi, appartenente al PC). Si era anche ipotizzato il riferimento alle fondazioni ed alle associazioni, ma le prime avevano un carattere gestionale di tipo dirigistico (e quindi poco conciliabile con le esigenze di democrazia interna delle cooperative) mentre le seconde avevano, per loro stessa natura, una forma giuridica non propriamente adatta per l’esercizio di attività economiche. Per approfondimenti cfr. G. Marocchi, op. cit. In altri termini, fu necessario modificare l’articolo 2511 del Codice Civile che definiva le cooperative come “imprese che hanno scopo mutualistico” ed impediva ai non soci di poter beneficiare dei beni e dei servizi prodotti. Il disegno di legge prevedeva quindi l'integrazione dell'Art. 2511 C.C. con il 2511 bis che forniva una nuova denominazione della cooperativa, cioè quella di impresa “cooperativa di solidarietà sociale”. L’approvazione di questo testo normativo causò forti dibattiti, sia all'interno del Parlamento che nei consigli delle centrali cooperative, soprattutto per la presenza dei soci volontari, per la rigidità dei vincoli no profit e per lo stesso termine “solidarietà sociale”. La definizione è contenuta nell' Art. 1 comma 1: le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse (agricole, industriali, commerciali o di servizi) finalizzate all'inserimento lavorativo di persone normativa nazionale diede, a sua volta, origine alla proliferazione di leggi regionali, collegate a strumenti di sostegno, promozione e controllo della cooperazione218. A proposito dello scopo perseguito da queste imprese è chiaro sin dal primo articolo della legge 381 il bisogno di estendere l’aspetto mutualistico e solidaristico non solo ai soci della cooperativa, ma alla comunità stessa, quindi anche ai soggetti che restano esclusi dal legame sociale con l’impresa ma che, per la similarità dei bisogni, hanno il potenziale diritto ad usufruire dei servizi prestati dalla cooperativa 219. E proprio questa finalità allontana la cooperazione sociale dalle altre tipologie di imprese cooperative e ne accentua la socialità, sia perché svolgono attività di rilevanza sociale ed anche perché agiscono nell’interesse di tutti i potenziali destinatari della loro attività. La cooperazione sociale quindi si distingue nettamente dai tradizionali modelli di cooperazione, non tanto per le forme di organizzazione del lavoro ma, soprattutto, per la finalità specifica dell'attività che ha richiesto la definizione normativa del socio volontario220 e delle persone svantaggiate221 . La distinzione più importante tra cooperative sociali e cooperative ordinarie era quindi sottolineata da questo concetto di mutualità allargata che riguardava esclusivamente le cooperative sociali, le quali intendevano applicarla alle diverse componenti della comunità locale di insediamento. In altri termini, le cooperative sociali una volta realizzata la mutualità interna (adempiendo così al principio di uguaglianza sostanziale e non formale tra i soggetti) si prefiggevano di allargare il loro raggio di azione al territorio ed all'intera comunità di appartenenza. Alla legge 381 si affiancarono successive norme222 che avrebbero completato la disciplina della cooperazione sociale, ridefinendo la figura del 218 219 220 221 222 79 svantaggiate. Tra questi successivi interventi legislativi, le circolari Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale n.1662 (del 1992) e la n. 153 (dell’8 novembre 1996) che presenteremo nel prossimo paragrafo. Il recupero o l’avviamento al lavoro di soggetti che si trovano in condizione di precarietà fisica, psichica e sociale, rappresenta uno degli obiettivi primari della Pubblica Amministrazione. L’Art. 4 della L.381 (comma 1 e 2) definisce specificatamente i soggetti svantaggiati: “si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione. Si considerano inoltre persone svantaggiate i soggetti indicati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri..... con cui il legislatore ha ammesso la possibilità di ampliare il concetto di svantaggio a problematiche che vanno oltre le difficoltà socio-sanitarie. I soci volontari, per loro natura, sono lavoratori che prestano la loro attività gratuitamente e che si affiancavano al socio-lavoratore ordinario pur non partecipando alla distribuzione degli utili conseguiti dalla cooperativa. Come stabilito dall' Art. 2 della legge n. 381 del 1991, comma 1: “...oltre ai soci previsti dalla normativa vigente, gli statuti delle cooperative sociali possono prevedere la presenza di soci volontari che prestino la loro attività gratuitamente”. Il secondo aspetto distintivo riguarda la presenza di “persone svantaggiate” tra i soci ordinari e volontari delle cooperative di tipo B. Questi soggetti non hanno capacità per condurre un'attività economica autonoma e sono, di fatto, in una posizione simile a quella degli assistiti anche se c' é per loro la possibilità di diventare soci della cooperativa a tutti gli effetti, se le loro condizioni psico-fisiche glielo permettono (come stabilito dall'art. 4, legge n. 381/1991) Tra queste il DL. 460/1997, che riconosce le cooperative sociali come onlus di diritto e quindi socio-lavoratore223 ed esonerando queste imprese dalla tassazione degli utili (a differenza di tutte le altre tipologie di cooperative, in base alla L. 63/2002). Con la riforma del diritto societario (D.L. 17 del gennaio 2003224) che ha suddiviso le imprese cooperative in mutualistiche e non ed a seguito delle correlate politiche economiche, patrimoniali e finanziarie, le cooperative sociali sono rientrate, ope legis, tra le cooperative a mutualità prevalente. 4.1.2. Le odierne tipologie di cooperazione sociale. Il secondo comma dell’Art.1 della L.381 ha quindi introdotto la suddivisione tra “cooperative sociali di tipo A”, “cooperative sociali di tipo B” e “cooperative miste” che operano in ambiti differenti per i diversi scopi perseguiti e, di conseguenza, con modelli di gestione e di operatività distinti, anche se tra le due categorie le aree di “sovrapposizione” sono molto più numerose dei fattori differenziali, rendendo a volte difficoltosa la loro precisa classificazione. Le cooperative di tipo A sono imprese di servizi rivolti alla persona che si occupano direttamente dell’assistenza, della riabilitazione e dell' educazione di disabili, malati, anziani, minori senza dimora e di persone con disagio psichiatrico, con la possibilità di poter usufruire di professionalità specialistiche. Le attività svolte da questa categoria si legano strettamente alla pubblica amministrazione (il loro primo interlocutore), con cui operano in genere in convenzione. La loro offerta225 è quindi rivolta a diverse tipologie di utenza con le più disparate situazioni di svantaggio sociale (anziani, minori e portatori di handicap). Fra le cooperative sociali nazionali queste imprese rappresentano la tipologia più diffusa226 e per le loro caratteristiche sono più facilmente 223 224 225 226 80 beneficiarie di tutte le agevolazioni fiscali riconosciute alle organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Del medesimo anno la legge 266/1997 che istituiva la piccola cooperativa, al fine di consentire anche ad un numero di persone inferiore a 9 di costituire una società con un fine mutualistico. La legge 142 del 2001stabilisce, infatti, che in una cooperativa in cui il carattere mutualistico ha per oggetto la prestazione di attività lavorative, il socio può stabilire con l'impresa un rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, con carattere strumentale rispetto al conseguimento dello scopo mutualistico. Anche il D.Lgs. 276/2003, promulgato in attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro (di cui alla L.14 febbraio 2003, n. 30) trattava del contenuto e della forma del contratto di inserimento lavorativo, prerogativa delle cooperative sociali di tipo B. Per approfondimenti cfr. F. Perrini (2004). Si suddividono in imprese che forniscono servizi residenziali (ossia gli utenti risiedono nella stessa struttura, es. le comunità per minori, per portatori di handicap o per persone con disagio mentale, le residenze per anziani, ecc.), servizi domiciliari (il servizio viene svolto nel domicilio dell'utente), servizi territoriali (svolti in luoghi diversi da quelli abituali, ad esempio l'animazione in strada per i minori in difficoltà) e servizi diurni che fondono alcune delle caratteristiche menzionate (es. i centri diurni per minori o portatori di handicap). La forma di intervento prevalente è quella residenziale destinata a minori, tossicodipendenti e pazienti psichiatrici seguita dall’intervento domiciliare rivolto soprattutto agli anziani. “rintracciabili” nei registri delle imprese non specificamente dedicati al fenomeno cooperativo, mentre l’informazione sulle altre tipologie finisce dispersa tra i vari settori di attività. . Le cooperative di tipo B si occupano dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate227 altrimenti condannate ad una possibile emarginazione: si tratta di disabili fisici, psichici e sensoriali, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti e detenuti. Sono imprese che operano in vari campi di attività ed integrate al comparto di produzione e lavoro; la mission è trasversale rispetto ai settori produttivi, anche se sono concentrate nel settore dei servizi. Sono cooperative che perseguono un particolare scopo di rilevanza pubblica: il loro obiettivo, infatti, non è quello di migliorare la qualità del lavoro né di regolamentarlo ma il reinserimento al lavoro, ossia la creazione di opportunità di lavoro (occupazione temporanea o permanente) e la formazione professionale di persone svantaggiate (per il 30% rispetto al totale occupati228). Questa categoria di cooperative sviluppa molteplici relazioni con la comunità di appartenenza, presenta una certa flessibilità dei servizi ed una forte motivazione del personale, spesso specificatamente qualificato per il servizio alla persona. In contropartita la legge ha stabilito un’importante regime di agevolazione fiscale, ossia l’ammissibilità di diritto delle cooperative di tipo B alla fiscalizzazione degli oneri sociali per i lavoratori svantaggiati che include anche l'esonero dal pagamento dell’assicurazione (previdenziale ed assistenziale) obbligatoria229. La legge 381 non presentava la specificazione riguardante la possibilità di poter svolgere contemporaneamente le funzioni di tipo A e B. Successivamente, il Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale ha pubblicato una circolare (la n.1662/92) che ha stabilito la totale discrezionalità, da parte delle cooperative sociali, nella scelta tra i due campi di attività, a patto di non esercitarli contemporaneamente e purché nell’Atto costitutivo e nello Statuto fosse indicato chiaramente l’oggetto sociale scelto230. Il dibattito sulla necessità di specificare in statuto l’ambito di 227 228 229 230 81 La cooperazione sociale di reinserimento lavorativo promuove l'offerta di occupazione per agevolare l’entrata nel mercato del lavoro di persone svantaggiate. Il presupposto di questo contratto è un progetto individuale e personalizzato, che ha lo scopo di promuovere la crescita culturale e professionale dell’individuo mediante un percorso che adatti le sue competenze ad un determinato contesto lavorativo. Il contratto ha una durata minima di 9 mesi e massima di 18 mesi: c’è quindi una sostanziale differenza con il rapporto di lavoro ordinario, che riguarda anche la retribuzione. Le cooperative di tipo B continuano a dimostrare che è possibile operare con efficacia per favorire l’occupazione di persone che, a causa delle problematiche di cui sono portatrici, non trovano lavoro o, se lo trovano l'occupazione spesso non risponde alla specificità dei loro problemi (come nel caso del collocamento obbligatorio). L'Art. 4 comma 3 cita a proposito: le aliquote complessive della contribuzione per l'assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale dovute dalle cooperative sociali, relativamente alla retribuzione corrisposta alle persone svantaggiate di cui al presente articolo, sono ridotte a zero. Una successiva circolare del Ministero del Lavoro (n.153/96) ha ritenuto legittima la coesistenza di operatività è stato definitivamente risolto con una circolare (del Ministero del Lavoro dell’8 novembre 1996, n. 153) che ha ammesso il possibile contestuale svolgimento di entrambe le tipologie di attività (A e B). Questa direttiva ha consentito alla cooperative di evitare una artificiosa distinzione formale e di poter giustificare il conseguimento di obiettivi, in alcuni casi, unici per le due categorie: la promozione umana e l’integrazione sociale. Ciò ha consentito di introdurre le cooperative sociali miste (o a scopo plurimo) ed i consorzi di cooperative, cioè l'aggregazione delle due precedenti categorie cooperative. In particolare, le cooperative ad oggetto misto devono dimostrare che la tipologia di svantaggio e l’area di intervento siano tali da richiedere un collegamento funzionale fra le due attività; i consorzi sociali, a loro volta, sono costituiti tra società aventi la base sociale formata, in misura non inferiore al 70%, da cooperative sociali . 4.2. Verso la riforma del diritto societario. Sempre agli inizi degli anni Novanta (e precisamente alla fine del 1992) la legge n. 59 introduceva alcune importanti novità in materia di finanza cooperativa e, allo scopo di affrontare l’annoso problema della sotto-capitalizzazione, introduceva degli strumenti innovativi per il finanziamento delle cooperative: le azioni di partecipazione cooperativa e le azioni di sovvenzione231. Le prime, pensate per finanziare progetti di ristrutturazione aziendale, sono prive del diritto di voto ma godono di privilegi speciali relativi alla redditività ed al rimborso del capitale in caso di scioglimento della cooperativa; le azioni di sovvenzione, a differenza delle prime, possono liberamente circolare nel mercato, dando diritto ad una remunerazione non vincolata ai limiti previsti per i soci cooperatori. I soci sovventori, inoltre, possono partecipare all'elezione degli amministratori (anche se di minoranza) e in assemblea non possono detenere più di un terzo dei voti. Nonostante le attese, le due nuove categorie di azioni non riusciranno a risolvere il problema del finanziamento delle cooperative, tanto che si solleciterà il ricorso al capitale di debito con l'emissione di obbligazioni232 (bloccato fino al 1998) e la raccolta di 231 232 82 entrambe le tipologie, ma solo in presenza di determinate condizioni, ossia se le tipologie di svantaggio e le aree di intervento siano tali da richiedere attività coordinate per l'efficace raggiungimento delle finalità attribuite alle cooperative sociali e se l'organizzazione amministrativa può consentire la netta separazione delle gestioni (ai fini della corretta applicazione delle agevolazioni concesse). Veniva anche istituita una nuova categoria di soci sovventori, le cui risorse finanziarie potevano essere utilizzate per lo sviluppo tecnologico, la ristrutturazione e il potenziamento aziendale. Le cooperative, da questa riforma, inizieranno ad emettere obbligazioni per un ammontare pari alla somma del capitale sociale e dei fondi propri e solo le banche di credito cooperativo, a seguito dell’istituzione di un apposito consorzio di garanzia per i possessori delle obbligazioni emesse, potranno superare questo limite. La possibilità di emettere obbligazioni rappresentanti il capitale di rischio o di debito permetterà poi alle cooperative non solo di partecipare a società di capitali ma, anche, di favorire la costituzione di gruppi e la raccolta di capitali sul mercato, rafforzando ulteriormente la loro capitalizzazione. liquidità attraverso il prestito da soci (che nelle cooperative con più di 50 soci non può superare il triplo della somma del capitale sociale, delle riserve legali e delle riserve disponibili). Con la stessa legge (59/1992) venivano anche introdotti i fondi mutualistici SpA senza scopo di lucro, il cui oggetto sociale è la promozione cooperativa sotto il controllo del Ministero del Lavoro233 e venivano regolamentate le Centrali Cooperative (che vedremo in seguito). Bisognerà però aspettare la riforma del diritto societario (2004) e le disposizione generali “sulle società cooperative e delle mutue assicuratrici” (Titolo VI, Artt. 2511–2548 del CC) per giungere alla attuale regolamentazione vigente. Con questo ulteriore intervento il legislatore ha proposto una nuova formulazione del precedente Art. 2511, che adesso qualifica specificatamente la cooperativa come “società mutualistica” prescrivendo, in un successivo articolo (Art. 2515), che “l’indicazione di cooperativa non può essere usata da società che non hanno scopo mutualistico”. Con la riforma del diritto societario è stato così introdotto nel nostro ordinamento il modello di “società cooperativa a mutualità prevalente” e quello di imprese “a mutualità non prevalente” (o anche “altre cooperative”) di cui sono stati dettati i requisiti ed i criteri per l’individuazione (Artt. 2512-2514). L’univocità del modello cooperativo viene così superata da questa bipartizione, basata sull’obiettivo sociale o meglio in ragione del tipo di scambio mutualistico, ossia sull' incidenza della mutualità (espressa come servizio al socio) rispetto alle prestazioni erogate . In particolare, l’Art. 2512 C.C., definisce “cooperative a mutualità prevalente” quelle che “svolgono la loro attività prevalentemente a favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi”; o che “nello svolgimento della loro attività si avvalgono, prevalentemente, delle prestazioni lavorative dei soci234”; infine quelle che “nello svolgimento della loro attività si avvalgono, prevalentemente, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci235”. Il successivo Art. 2513 C.C. fissa, invece, i criteri per conseguire il requisito della prevalenza nello scambio mutualistico, stabilendo i parametri necessari per qualificarsi a mutualità prevalente, distintamente per ciascuna 233 234 235 83 La cooperazione essendo stata posta sotto il controllo del Ministero del Lavoro viene indirettamente ricondotta al mondo del lavoro, evidenziando la sua funzione di protagonista delle politiche sociali, in specie di quelle occupazionali. E, in realtà, la cooperazione non ha mai tradito queste attese: in tutta la seconda metà del secolo scorso, infatti, ha visto crescere proporzionalmente la sua base occupazionale, in misura superiore rispetto all'impresa capitalista. In molti casi, perfino quando si registravano crisi o situazioni di grande difficoltà occupazionale, il settore ha registrato risultati positivi in controtendenza all’andamento generale del mercato, al punto da guadagnarsi l'immagine di promotore dello sviluppo economico locale. Lo scambio mutualistico si pone “a monte” dell’attività economica, in quanto finalizzato all’acquisizione delle prestazioni lavorative dei soci. Lo scambio mutualistico, in questo caso, si pone “a monte” dell’attività produttiva, in quanto finalizzato ad assicurare alla società l’acquisizione dei fattori della produzione diversi dal capitale e lavoro, ossia le merci, i beni e i servizi. tipologia di cooperativa236. Dall’analisi del testo legislativo è interessante notare che la condizione di prevalenza non è valutata in relazione al rapporto sociale della cooperativa con i soci ma rispetto ad un elemento economico, ossia rispetto alla prevalenza dei “ricavi dalle vendite” per le cooperative di consumo, al “costo del lavoro” per le cooperative di produzione e lavoro ed alla prevalenza del valore dei conferimenti da parte dei soci. Tale condizione di prevalenza deve essere documentata nella nota integrativa al bilancio, con l’indicazione precisa dei criteri utilizzati nella gestione per il conseguimento dello scopo mutualistico. Ciò conduce (in bilancio) ad una netta separazione fra i risultati dell’attività mutualistica svolta con i soci e gli utili derivanti dall’attività conseguita con i terzi e, di conseguenza, ad una differente destinazione degli utili: quelli derivanti dall’attività speculativa svolta con non soci saranno liberamente appropriabili dai soci, mentre quelli conseguenti all’attività mutualistica andranno a costituire la riserva indivisibile. Lo status di cooperativa a mutualità prevalente viene acquisito con effetto immediato dalle imprese il cui statuto contiene automaticamente le clausole di “non lucratività237” (art. 2514 c.c.), cioè: 1. il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato; 2. il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi; 3. il divieto di distribuire le riserve tra i soci cooperatori; 4. in caso di scioglimento della società, l’obbligo di devolvere l’intero patrimonio sociale (dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati) ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Al di là di una scelta aziendale fatta ex ante, il mancato rispetto di una delle condizioni di non lucratività al termine del secondo esercizio consecutivo, fa perdere il requisito della prevalenza e, conseguentemente, decadere le agevolazioni fiscali a decorrere dal medesimo secondo esercizio 236 237 84 Le cooperative di utenza o consumo devono conseguire ricavi sulle vendite dei beni e delle prestazioni di servizi verso i soci in misura superiore al 50% del totale dei ricavi delle vendite e delle prestazioni; 2. le cooperative di lavoro devono sostenere un costo per il lavoro relativo all’opera dei soci superiore al 50% del totale del costo complessivo della manodopera; 3. nelle cooperative di conferimento dei beni, il costo dei beni o servizi conferiti dai soci deve essere superiore al 50% del costo totale delle merci, materie prime, sussidiarie, ovvero dei servizi”; per le cooperative agricole di conferimento il valore dei prodotti finiti deve superare rispettivamente il 50% del valore complessivo o della quantità dei prodotti finiti. L’ introduzione delle clausole di non lucratività consente di definire la scelta aziendale nel mantenere (o non mantenere) prevalente il rapporto di scambio con i soci rispetto a qualsiasi altro tipo di rapporto. (cfr. Art. 2545-octies c.c. e Circ M.A.P. del 13/1/06), con la conseguente perdita dello status giuridico di società cooperativa a mutualità prevalente e il passaggio alla fattispecie delle cooperative “diverse”. La perdita di tale qualifica si verifica anche a seguito della soppressione delle citate clausole mutualistiche dallo statuto ed a decorrere dall’esercizio in cui sono state apportate suddette modifiche statutarie. Ne consegue che non vi è alcun obbligo a carico della società cooperativa di indicare in statuto la mutualità prevalente dato che tale scelta, se esiste, vincola gli amministratori a gestire l’attività “caratteristica” della società secondo il criterio della prevalenza238. Tuttavia, per tutte le cooperative vige l’obbligo di far risaltare nella relazione degli amministratori e dei sindaci, i criteri seguiti per perseguire lo scopo mutualistico 239. L’elemento che caratterizza la cooperativa a mutualità prevalente è dunque l'impossibilità per i soci di appropriarsi degli utili alla cui formazione hanno partecipato (che invece andranno a costituire per il 70% le riserve indivisibili), la limitazione della remunerazione dei dividendi e l’indivisibilità del patrimonio240, cioè l’impossibilità per il socio di rientrarne in possesso in caso di recesso dalla società241 o di scioglimento della società. . E, volendo sostenere la critica mossa dai cooperatori alla riforma, la possibilità di trasformare l'impresa cooperativa in impresa di capitali, tassativamente esclusa in precedenza, forse maschera un tentativo istituzionale di far convergere il modello cooperativo verso il modello profit. 4.2.1. Le cooperative a mutualità non prevalente. In questa categoria (cd. anche delle “cooperative diverse”) è consentita ai soci la disponibilità di una maggior quota degli utili (67% anziché del 33%), ridotti dalla riserva indivisibile (30%) e dalla quota destinata ai fondi mutualistici (3%). Fatte queste deduzioni, l'utile rimanente costituisce l'ammontare delle riserve divisibili, di cui ciascun socio può liberamente appropriarsi oppure accantonare, per ripartirla successivamente (in caso di recesso242 o di scioglimento della società). Da un punto di vista legislativo, la tipologia della 238 239 240 241 242 85 Ai fini del calcolo della prevalenza sono ininfluenti i proventi che le cooperative ricevono da contributi pubblici ed anche gli eventuali altri ricavi derivanti da altri settori e non direttamente collegati allo scambio mutualistico. Il Decreto Legislativo n. 310 (28 dicembre 2004) ha ampliato le modalità di assunzione in una cooperativa, prima limitate al lavoro subordinato ed adesso estese anche ad altri contratti (lavoro a progetto, rapporto professionale, etc.), a condizione di un collegamento con il rapporto mutualistico e, quindi, purchè conformi all’oggetto sociale della cooperativa. Con questa limitazione, contestabile sotto molti profili, viene introdotta una discriminazione nell'applicazione dei vantaggi fiscali destinati alle due categorie di imprese cooperative. In caso di recesso il diritto del socio si limita, infatti, alla restituzione del capitale versato rivalutato dagli eventuali dividendi accumulati nel tempo (e/o dedotte le eventuali perdite) Al momento del recesso, la quota delle riserve divisibili di spettanza al socio potrà essere erogata in contanti o convertita in titoli della cooperativa, la cui commerciabilità potrà consentire il conseguimento mutualità non prevalente non perde la natura giuridica della cooperativa ma adotta un modello operativo ed organizzativo alternativo a quello della mutualità prevalente, cioè con un connotato di mutualità meno accentuato, che appartiene, comunque, al genus della cooperazione. Ne discende che anche queste imprese, in virtù della loro funzione sociale, possono usufruire delle agevolazioni riconosciute alla categoria (di natura fiscale, previdenziale, finanziaria, ecc.) sebbene ridotte rispetto a quelle riconosciute alla prima tipologia. Queste imprese devono, comunque, mantenere e possedere i requisiti strutturali e funzionali della mutualità ed osservare la disciplina che tende ad attenuare l'obiettivo della massimizzazione del profitto, che le distingue dalle imprese di capitali. Per quanto non espressamente previsto dalle specifiche norme sulla cooperazione (in base all’ Art. 2519 e di quelle contenute nel titolo VI del C.C.) e, nonostante il principio della mutualità sia alla base della distinzione tra società cooperative (a mutualità prevalente e non prevalente) e società lucrative, per le regole di carattere generale circa il loro funzionamento le cooperative sono sottoposte alla normativa vigente per le società per azioni o per quelle a responsabilità limitata243 . La scelta dell’uno o dell’altro modello è vincolata alla dimensione della cooperativa: qualora la cooperativa abbia un numero di soci cooperatori compreso tra 3 e 9 ed un attivo di bilancio non superiore ad un milione di euro rientra fra le Srl244; se la compagine societaria è formata da 9-20 soci e si registra un attivo superiore al limite previsto o, alternativamente, se con una base sociale più numerosa, non si supera un attivo di 1 milione di € euro, le imprese possono optare nella scelta tra una Srl o una SpA. Con le maggiori di dimensioni (con più di 20 soci ed un attivo di bilancio maggiore di 1 milione di euro) l’impresa cooperativa rientra nella regolamentazione generale delle società per azioni. 5. Le Associazioni Centrali di Categoria. Fin dalle prime esperienze cooperative è emersa l'esigenza di strutture associative centrali di rappresentanza, qualunque fosse il settore operativo e il modello ideologico di riferimento. Nei diversi periodi sono stati, invece, molto differenziati gli di quel capital gain fino escluso. 243 244 86 Per quando non espressamente specificato dalla legge si rimanda alla normativa generale sulle SpA. e sulle Srl.(Art. 2519), cioè: le società cooperative possono assumere la forma delle SpA e delle S.r.l.; la scelta del modello non influisce sulle caratteristiche funzionali e strutturali dettate dal legislatore, l’importante è lo scopo mutualistico e la variabilità del capitale. Per approfondimenti cfr. E. Tonelli (2003) Se entro un anno il numero dei soci scende sotto i 9, deve essere reintegrato oppure la società si scioglie; per le cooperative di credito il numero minimo dei soci sale a 200 e per le cooperative Srl il minimo previsto scende a 3 soci. obiettivi e le funzioni che si intendevano assegnare a questa istituzione, la cui definizione ha rappresentato un tema sul quale si sono scontrati e confrontati i diversi modi di intendere il protagonismo della cooperazione e lo “stato di salute” delle imprese esistenti nel momento. La prima Federazione Nazionale delle Cooperative e Mutue verrà costituita a Milano (nell’ottobre 1886) e sarà progenitrice dell’attuale Lega Nazionale delle Cooperative (nel 1893) . In quel periodo il movimento cooperativo era ancora scarsamente diffuso e, considerando l'iniziale carattere di neutralità della cooperazione, era un organismo che operava in rappresentanza di tutte le correnti politiche (radicali, liberali, repubblicani e socialisti) come “portavoce”, presso il Parlamento, dei bisogni di tutte le cooperative245. Questo accreditamento presso gli esponenti delle forze politiche ebbe un buon esito, tanto che per la prima volta la società cooperativa ebbe un riconoscimento istituzionale con l'inserimento nel nuovo Codice del Commercio (nel 1882). La cooperazione ricevette un ulteriore e decisivo impulso con la pubblicazione dell’Enciclica “Rerum Novarum246” di Papa Leone XIII° (nel 1891) da cui si svilupperà un altro filone del pensiero cooperativo, definito “Dottrina Sociale della Chiesa” (al quale si ispira ancora oggi l’azione di Confcooperative). Durante il successivo periodo giolittiano e con l’avvio del XX° secolo, l’attività dell’associazione continuerà ad essere unitaria e valida per tutte le associazioni dei lavoratori, fino a giungere alla “triplice alleanza” del lavoro (tra la Federazione Nazionale delle società cooperative, la Federazione delle Società di Mutuo Soccorso e la Federazione delle Camere del Lavoro) che potrà consentire ai rispettivi associati di partecipare agli organi consultivi dello Stato. Durante il Governo Giolitti sarà quindi possibile rilanciare l’associazionismo popolare e con esso una sua componente importante, le cooperative. All’inizio del Novecento (1908) l’esigenza delle rappresentanze del lavoro di partecipare agli organi consultivi del Governo, stimolò la creazione della Federazione Nazionale delle Cooperative Agricole Italiane (con sede a Bologna) e della Federazione Italiana delle Casse Rurali Cattoliche (1909) con compiti di coordinamento, sviluppo, formazione professionale (con corsi d’istruzione amministrativa) e controllo delle rispettive categorie (con servizi d’ispezione), dando ulteriori stimoli alla crescita del movimento247. Nel 1919 nasceva anche la “Confederazione Cooperativa Italiana” per iniziativa di 7.365 imprese che si ispiravano ai principi ed ai valori della dottrina 245 246 247 87 Nei primi anni di vita, l’attività di questa associazione si era concretizzata in un valido supporto all’iniziativa parlamentare con un importante contributo al miglioramento della legislazione sulla cooperazione, grazie all'intervento di alcuni deputati radicali e socialisti.. I contenuti della “Rerum Novarum” hanno rappresentato il “clima di fondo” in cui il cattolicesimo sociale organizzò le sue prime forme cooperative nelle campagne e nei settori del consumo e del credito. Nel 1910 il movimento cattolico era rappresentato da 942 casse rurali concentrate in Veneto, Emilia, Lombardia e Sicilia, 250 cooperative di consumo di piccola dimensione, 487 cooperative agricole, 57 cooperative di produzione e lavoro e 64 affittanze collettive concentrate in Sicilia, Lombardia e Veneto. sociale della Chiesa. Durante il ventennio fascista e, in particolare, nel 1923, fu avviata la fase di annessione dei patrimoni delle imprese cooperative ai bilanci del Partito nazionale fascista e, come conseguenza di questo processo, la Lega delle Cooperative e la Confederazione Cooperativa Italiana saranno sciolte (tra il 1925 ed il 1927) e sostituite dall’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione (fondato nel 1926). Nel dopoguerra la cooperazione rinasce e ciò avviene in parte spontaneamente, soprattutto a seguito delle particolari condizioni di ripresa economica e sociale del mercato ed in parte per un interesse specifico delle forze politiche e sociali aderenti ai Comitati di Liberazione Nazionale. Nel 1945 le associazioni centrali cooperative vennero così ricostituite con la Confederazione Cooperative Italiane (per le cooperative di ispirazione cattolica in occasione dell’anniversario della “Rerum Novarum”) e, pochi mesi più tardi, con la Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue (Legacoop, di ispirazione comunista, socialista e repubblicana), mantenendo quel certo distacco già evidente prima del fascismo e protrattosi fino ai nostri giorni. A differenza di altri paesi europei, la cooperazione italiana si è quindi sviluppata intorno a due diversi filoni ideologici, quello di matrice cattolica, interclassista e più spostato sul concetto di solidarietà per Confcooperative e l’altro di matrice operaio-sindacale con forte connotazione di classe e centrato soprattutto sul concetto di mutualità per Legacoop (propria dei braccianti della Val Padana). Il movimento cooperativo, da quella data, inizia quindi ad articolarsi e ad organizzarsi intorno a più associazioni cooperative, fino al punto che nel 1952, dietro la spinta delle dinamiche politiche italiane (profondamente condizionate dalla divisione in blocchi dell’Europa e dalla posizione dell' Italia come Stato di confine), un piccolo gruppo di cooperative di ispirazione repubblicana, socialdemocratica e liberale si distacca dalla Legacoop per dar vita ad una terza centrale del movimento cooperativo”248, l’Associazione Generale Cooperative Italiane (AGCI). Oggi, accanto a queste tre Centrali Cooperative249 operano altre 2 associazioni di rappresentanza minori, giuridicamente riconosciute per l’assistenza e la tutela al movimento cooperativo: l’ Unione Nazionale Cooperative Italiane (UNCI) e l’ultima l’Un.I.Coop (riconosciuta con D.M. Del 2004 n.775), una associazione di promozione, assistenza, tutela e revisione centrale di un piccolo gruppo 248 249 88 Così recita la mission di AGCI: in http://www.agci.it/ Le prime tre centrali storiche hanno sempre operato e, continuano ad operare nell’ambito delle tre dimensioni della politica italiana: quella cattolica, quella laica e quella di sinistra con una forte connotazione socialcomunista. di cooperative che fanno riferimento ad orientamenti politici legati della destra sociale250. Da un punto di vista operativo, la marcata dicotomia tra le due principali centrali (Confcoop e Legacoop) è stata, nel passato, un grande vantaggio per la cooperazione, poiché ha consentito al movimento di disporre di un consenso e di una legittimazione così articolate da coprire l’intero arco politico e determinando altresì, un qualche conflitto emulativo che ha stimolato la sperimentazione di nuove forme operative. Il permanere di questa divisione ancora oggi sembra stia però conducendo ad una conflittualità diventata quasi un disvalore a causa dell’acuirsi della competitività dei mercati e per le correlate difficoltà nel disporre e nel formare adeguati gruppi dirigenti. Da un punto di vista istituzionale le sopracitate centrali cooperative sono riconosciute dal Ministero delle Attività Produttive (prima della riforma del diritto societario facevano capo al Ministero del Lavoro e del Welfare) e dallo stesso delegate allo svolgimento delle funzioni di “vigilanza” sulle associate, ruolo assolto nel passato dalle autorità pubbliche. A questa competenza è stato aggiunta la gestione del contributo che ciascuna associata deve versare al Fondo mutualistico per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (con legge n. 59 del 31 gennaio 1992) istituiti per costituire dei patrimoni, alimentati dalla e destinati alla cooperazione, e finanziati con il 3% degli utili annuali conseguiti da tutte le cooperative nonché con i patrimoni residui (se poste in liquidazione). La redistribuzione delle risorse accumulate immagazzinate avviene poi tra cooperative, vecchie e nuove, considerate particolarmente meritevoli di sostegno. Si tratta insomma uno degli strumenti che il Movimento cooperativo possiede per concretizzare il principio della “cooperazione tra cooperative”, presente nel patrimonio genetico della cooperazione e riconfermato dall'Alleanza Cooperativa Internazionale (A.C.I.). 250 89 La mission della nuova associazione sottolinea che “la nostra azione vuole dimostrare che i valori della cooperazione sono un patrimonio di tutti e non soltanto di coloro che si identificano in uno schieramento politico di centro o di sinistra.” Per approfondimenti cfr. http://www.unicoop.it/mission.htm 5.1. Alcune specificazioni sulle Associazioni Centrali di Categoria251. Distintamente per ciascuna associazione centrale abbiamo evidenziato qualche particolare carattere distintivo. CONFCOOPERATIVE252, è come anzidetto, l' associazione di estrazione cattolica storicamente legata alla democrazia cristiana (sin dalla “Prima repubblica”), si ispira alla tradizione della dottrina della Chiesa ed agli indirizzi di alcuni dei personaggi più importanti che hanno interpretato, in chiave politica quel pensiero, a cominciare da Don L. Sturzo. Questo orientamento è richiamato nell’Art. 1 dello Statuto che, esplicitamente, dichiara che: “la Confederazione Cooperative Italiane … ispira la sua azione ai principi e alla tradizione sociale cristiana253 ed è aperta a quanti pongono a fondamento della vita associativa i valori di solidarietà economica e sociale, di libertà e di partecipazione”. Questo orientamento è assimilato dalle associate che vengono convenzionalmente considerate aderenti alla cosiddetta “cooperazione bianca”. Confcooperative è un’organizzazione che si articola in 8 Federazioni nazionali con un Segretariato delle Mutue e si divide orizzontalmente in 22 Unioni regionali, 80 Unioni provinciali e 7 Unioni interprovinciali; distintamente per ciascun settore di operatività delle associate (abitazione, agroalimentare, consumo e distribuzione, cultura turismo sport, lavoro e servizi, pesca, sociale e credito cooperativo). Comprende, inoltre, un’ampia rete di strutture254 di servizio che, con compiti diversi, hanno il ruolo di fornire assistenza e servizi alle cooperative associate e/o alla stessa Confederazione nelle sue varie articolazioni organizzative. Le Banche di credito Cooperativo 251 252 253 254 90 La separazione delle centrali è piuttosto rigida e collegata a diversi fattori, tra cui la cultura, i modelli organizzativi ed i sistemi relazionali. Questa scissione è di fatto evitata solo in pochi casi locali e in settori specifici, come ad esempio, nel settore agricolo di alcune regioni del Centro Nord. Per il resto si assiste ad una quasi sistematica duplicazione di ciascuna struttura. L’unica eccezione nazionale è la Compagnia Finanziaria Industriale (costituita nella seconda metà degli anni ’80 con L49/1985): si tratta di un intermediario finanziario istituzionale che aderisce alle tre principali associazioni cooperative per le imprese cooperative di produzione e lavoro e per le cooperative sociali, che partecipa al rischio di impresa, che sostiene gli investimenti e che garantisce al management il costante supporto nelle decisioni strategiche e nelle scelte, (Agci, Confcooperative e Legacoop). Per approfondimenti cfr. www.cfi.it. Confcooperative si conferma leader tra le associazioni di rappresentanza del movimento cooperativo in Italia, per numero di imprese cooperative (19.657), per addetti (480.253) e per fatturato (con 58.934 milioni di euro ). L'associazione ha una presenza capillare su tutto il territorio nazionale e conta 2,9 milioni di soci. Confcooperative ispira i suoi principi alla scuola sociale cristiana, con particolare riferimento alla valorizzazione della persona umana ed all' iniziativa del singolo con la realizzazione, su base volontaria, del libero principio associativo. In questo modo oltre ad assicurare l'inserimento dell'individuo nella vita economica e sociale contribuisce alla realizzazione di una compiuta società democratica. Le strutture di servizio della Confcooperative si suddividono in strutture operative nazionali, centri servizi, consorzi, strutture nazionali di settore ed agenzie formative. aggregate alla Confcooperative255 confluiscono nel 1993 nell’ Istituto di Credito delle Casse Rurali e Artigiane (ICCREA), che ha il compito di agevolare, coordinare ed incrementare l’azione delle singole Casse attraverso lo svolgimento delle funzioni di intermediazione bancaria e di assistenza finanziaria. Il fondo di promozione di Confcooperative (istituito con L. 59/92) è gestito dal Fondo Sviluppo Spa. LEGACOOP256 è, come anzidetto, l’associazione che nel tempo è sempre stata orientata dalle (e alle) correnti di sinistra, con forte predominio dei comunisti, tanto da farla conoscere, anche se sempre meno correttamente, come la cooperazione “rossa”. La revisione del sistema di valori e delle regole della Lega delle cooperative è iniziato nel 1991 con tre principali obiettivi da perseguire: la "ricollocazione politico-sociale della Lega" (la sanzione della sua autonomia politica), il "progetto imprenditoriale" (a seguito della consapevolezza che, per svolgere un ruolo incisivo sul mercato, sono necessarie imprese, strumenti e metodi operativi più efficaci) ed una "nuova organizzazione di rappresentanza" (per l’esigenza di rivedere i rapporti tra le cooperative e tra il movimento e la società, ossia per riformare il ruolo dell’associazione). E’ la principale struttura associativa cooperativa italiana in termini di numerosità dei soci (con 7,3 milioni), con attività che spaziano dalle cooperative di consumo a quelle di produzione, dall’edilizia al turismo, dai servizi professionali all'editoria ed alla cultura. E’ presente nel comparto del credito e delle assicurazioni con il gruppo UNIPOL (una sinergia tra assicurazione e banca). La varietà dei settori in cui è presente Legacoop e la distribuzione non del tutto armonica delle imprese sul territorio, hanno prodotto una articolazione territoriale abbastanza complessa: in ciascuna regione sono presenti delle rappresentanze ma, nelle realtà maggiori sono attive anche strutture a livello provinciale e locale. In alcuni casi sono previste anche strutture sovra-regionali257. Coopfond è la Spa che gestisce il fondo di promozione Legacoop (di cui alla legge 59/92). L’ ASSOCIAZIONE GENERALE COOPERATIVE ITALIANE (A.G.C.I.), come anzidetto, nasce ufficialmente nel 1952, quando un gruppo di cooperative di ispirazione repubblicana, socialdemocratica e liberale si distacca dalla Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue per dar vita ad una terza “Centrale”, sulla 255 256 257 91 Per approfondimenti cfr.: www.fondosviluppo.coop L’associazione comprende 14.000 cooperative ed oltre 400.000 addetti che realizzano importanti iniziative in campo internazionale, nell'ambito del commercio equo e solidale e, in generale, con iniziative rivolte ai paesi meno avanzati. La principale struttura di servizio è Coopfond (per approfondimenti cfr. www.coopfond.it) e tra le altre si trovano: il Consorzio Cooperativo Finanziario per lo Sviluppo che opera nel campo del credito e della finanza (cfr. www.ccfs.it), l' Inforcoop srl per la formazione professionale (che associa le agenzie di formazione regionali della Legacoop e quelle delle associazioni di settore con società di ricerca e consulenza, www.inforcoop.it) e nel Centro Studi sono raggruppate le attività di ricerca e di studio. base delle stesse pressioni e motivazioni che nello stesso periodo porteranno anche alla frattura del sindacato e di molte altre organizzazioni dell’Italia civile ed economica. L' A.G.C.I è una organizzazione senza fini di lucro, libera ed indipendente, che ha come fine istituzionale la rappresentanza, l'assistenza, la tutela e la vigilanza del movimento cooperativo258. Nell'ambito di queste finalità generali promuove e gestisce, per conto delle proprie associate, attività di informazione, di scambio, di servizio, di coordinamento politico-organizzativo, di diffusione della conoscenza cooperativa e di formazione tecnica e professionale dei cooperatori259. Oltre che in ambito nazionale l'Associazione ha proprie rappresentanze regionali su tutto il territorio e svolge la propria attività anche all'estero, nelle sedi in cui si discutono le direttive legislative, economiche e sociali che interessano la cooperazione. Ha sede nazionale a Roma ed una organizzazione imperniata su tre articolazioni260 : la struttura politico sindacale; le rappresentanze territoriali e le associazioni settoriali di categoria. L' UNIONE NAZIONALE DELLE COOPERATIVE ITALIANE (U.N.C.I.261) nasce nel 1971 con il distacco da Conf -Cooperative di un nucleo proveniente sia dal movimento Associazione Cristiana Lavoratori Italiani (ACLI) che dalla Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori (CISL), a causa della mancanza di un progetto autonomo sulla promozione ed attuazione di quegli ideali di libertà, di giustizia e di solidarietà che legittimano la presenza dei cattolici nel sociale262. Nasce, quindi, in un periodo di crisi ma anche di crescita dell'economia, soprattutto nel tessuto di base delle cooperative, ossia nel segmento produttivo delle piccole e medie imprese. Una caratteristica peculiare del movimento cooperativo U.N.C.I.263 è il concetto di radicamento, ancorché proiettato in un contesto 258 259 260 261 262 263 92 In attuazione dei suoi principi statutari e con spirito riformatore e progressista, l'A.G.C.I. contribuisce alla elaborazione di un progetto generale di sviluppo, basato sulla libera circolazione delle idee, delle persone e delle merci. Le strutture di supporto sono le seguenti: l' Assoforr (1983) un centro di servizi avanzati di consulenza e di formazione alle imprese; il Cifap (1987) il Consorzio Italiano Fidejussorio Acquacoltura e Pesca (costituito nel 1987, conta oggi 62 soci); il Fin.Coop.Ra s.r.l (1980) che opera in ambito nazionale per l' erogazione del credito alle cooperative associate, lo svolgimento di attività finanziaria e la consulenza anche nei confronti delle piccole e medie imprese (PMI). La società per la gestione del fondo mutualistico di promozione cooperativa è la General Fond SpA (dal 1993). Organi principali sono il Congresso Nazionale, il Consiglio Generale, il Comitato di Presidenza e la Presidenza, articolazioni che, con parziali modifiche, si riproducono anche nelle rappresentanze territoriali. L'U.N.C.I. conta 7.825 imprese aderenti (presenti sull’intero territorio nazionale ed attive in tutti i settori produttivi, dati 2004) con cui dichiara di rappresentare il 20% circa del movimento cooperativo organizzato italiano. A circa trent’ anni dal suo riconoscimento giuridico oggi rappresenta un universo composito e articolato di imprese di grande, media, piccola e micro dimensione, fortemente radicate al territorio di appartenenza. Anche l'U.N.C.I. si propone di attuare gli ideali e i principi della cooperazione, ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa enunciata nell'Enciclica Rerum Novarum. La società per la gestione del fondo mutualistico di promozione cooperativa dell’UNCI è denominata internazionale e globale dei mercati, che rappresenta il tentativo dell'associazione di valorizzare le risorse locali traendo sostentamento dal proprio territorio e restituendo a quello stesso le risorse “reddito”, “occupazione” e “solidarietà” generate con il lavoro cooperativo264. Alcune considerazioni conclusive sulla cooperazione italiana. L’excursus finora svolto sulla storia del movimento cooperativo italiano ci spinge ad avanzare qualche ipotesi su alcune peculiarità che lo distinguono da quello di altri paesi265. In primo luogo, non è mai stato neutro, ossia a-politico e a-religioso (come invece previsto dall’ACI fra i principi della cooperazione) dato che, come abbiamo visto, la radicata propensione al cooperativismo da parte di vaste aree della popolazione italiana ha moltiplicato le ispirazioni ideali del movimento verso i più disparati referenti partitici, tanto da coprire tutto lo spettro politico ed impedire persino al fascismo di ledere i principi costitutivi ed i caratteri distintivi della cooperazione266. Come conseguenza di questa molteplicità di ispirazioni e di ideali, la seconda caratteristica del movimento cooperativo italiano è il suo vasto radicamento sul territorio nazionale e il suo forte legame con le amministrazioni pubbliche locali267, forse proprio per la ricchezza delle proposte di solidarietà che il movimento poteva offrire268 o per la sua natura mutualistica. La terza ed ultima, ma non meno importante, caratteristica del movimento è la forte coesione sociale di ciascuna Centrale cooperativa269 che, raggruppando aziende con la medesima ispirazione ideale, ha spinto le cooperative associate a coordinarsi, più o meno strettamente, in networks ( gruppi e consorzi270) sia orizzontali (territoriali) che verticali (settoriali)271. 264 265 266 267 268 269 270 271 93 Promocoop Spa (per approfondimenti cfr. www.unci.org/content/promocoop). L' UNCI è presente nei settori più innovativi e dinamici, tra cui la cooperazione sociale e la pesca ma anche nei settori tipici della produzione e lavoro, del trasporto, dell' agricoltura, dell’edilizia e del consumo. Per approfondimenti cfr. Zamagni V. (2006). Per approfondimenti cfr. Fornasari M.e Zamagni V. (1997). Il primo partito a non avere un legame cooperativo è stato Forza Italia, sorto nel 1993. Per approfondimenti cfr. Battimani P. (2006). Se una cooperativa italiana non aderisce ad una associazione centrale (restando “non aderente”) dipende direttamente dalla Direzione per la cooperazione presso il Ministero delle Attività Produttive, a cui spetta il compito di vigilare sulle imprese e di gestore il 3% degli utili destinati ai Fondi di promozione cooperativa. I consorzi possono assumere molte forme, nel rispetto del vincolo che le cooperative che ne fanno parte abbiano autonomia amministrativa e finanziaria mentre vengono messi in comune i servizi destinati ai soci le strategie di acquisizione, le politiche di coordinamento e quelle di promozione strategica. Da questa coesione è derivata una sempre maggiore possibilità di effettuare fusioni e concentrazioni produttive (più in Legacoop che in Confcooperative, quest'ultima fino a poco tempo fa legata ad una visione della cooperazione come piccola impresa) che hanno consentito aumenti dimensionali delle imprese e il rafforzamento delle filiere, e quindi maggiore produttività e competitività all’interno del III. DIMENSIONI E PECULIARITA’ DELLA COOPERAZIONE IN ITALIA. Introduzione. Il segmento delle cooperative è una componente del tessuto economico e produttivo che ha visto crescere nel tempo il suo ruolo all’interno del Paese, rafforzandosi sia sotto il profilo della dimensione e della espansione settoriale che della rilevanza strategica. Si tratta, infatti, di una categoria d'impresa che ha mostrato la tendenza a crescere più rapidamente della media delle altre tipologie (in termini di numero di imprese, di fatturato e di addetti), mostrando di poter contribuire in maniera significativa alla crescita, non solo economica ma, anche e soprattutto, culturale e sociale della comunità di appartenenza. Da un punto di vista quantitativo, si tratta di un segmento produttivo che nel 2007 ha contribuito per il 5,3% al Valore Aggiunto (VA) annuo nazionale e che ha registrato, nei settori del commercio e dei servizi alle imprese ed alle persone, un fatturato medio più che doppio rispetto a quello delle corrispondenti imprese di capitali 272. Tuttavia le statistiche ufficiali mostrano ancora oggi diverse carenze informative, nonostante non manchino i riferimenti ad una pluralità di banche dati pubbliche ed amministrative e la carenza dipende, probabilmente, proprio dalla difficoltà di armonizzare le diverse fonti disponibili. Vediamo, quindi, nel prosieguo quali sono i principali archivi a cui si può fare riferimento per una corretta valutazione del settore cooperativo. 1. Le fonti statistiche cooperative: i censimenti ISTAT. La prima statistica ufficiale delle associazioni cooperative italiane risale alla promulgazione della già citata Legge n. 6216 (del luglio 1889) che, per la prima volta, prevedeva il primo censimento delle cooperative (nel 1902, durante il governo Zanardelli-Giolitti, per iniziativa della Lega e della Società Umanitaria di Milano) per consentire l'ammissione delle cooperative di produzione e lavoro (legalmente costituite fra operai), alla partecipazione agli appalti pubblici. In quel periodo l’attenzione della classe dirigente era rivolta, infatti, alle cooperative di lavoro (fra braccianti, muratori ed affini) molto diffuse nelle maggiori città, dove esercitavano forti pressioni sulle amministrazioni comunali e provinciali273. Questo primo censimento registrò 2.872 cooperative 274 (di cui 2.199 imprese pienamente mercato. Per approfondimenti cfr. B. Jossa, Vol II, 2005. 272 273 274 94 Invece, nel comparto della sanità e dell'assistenza il fatturato medio delle cooperative si mantiene allineato a quello delle imprese for profit. I soci di queste cooperative mostravano un intenso impegno politico rivolto ai gruppi di partito favorevoli alla cooperazione, con un conseguente ed inevitabile processo di politicizzazione degli aderenti. L’80,7% di queste cooperative risultava dislocato soprattutto in Lombardia e nel Veneto, il 14% nell’area centrale ed appena il 5,3% nel Sud-Isole. La prevalenza della cooperazione nell’area centro settentrionale cooperative275)), di cui il 56% appartenenti al settore del credito (tra cui il 37% di banche popolari con 604 aziende, appena il 2,5% con 40 casse rurali e il 60% rappresentato da 981 piccole casse di mutuo soccorso). Prevaleva, quindi la categoria del credito (per più della metà della consistenza) seguita da quella del consumo (con 684 aziende che coprivano una quota di mercato del 7,7%). Ma questo primo censimento fornirà una valutazione parziale dell’intero fenomeno cooperativo poiché, essendo direttamente rivolto alla tipologia di produzione e lavoro, trascurava le altre categorie. In particolare, come sarà meglio evidenziato in seguito, questa prima indagine presenterà le seguenti lacune: a) l'assenza delle cooperative agricole (e di conduzione dei fondi agricoli), non incluse nei censimenti “industriali” e comparse nei censimenti agricoli solo dal 1982; b) l'assenza delle cooperative di abitazione che, o per i pochissimi addetti (a volte solo 1 per cooperativa) o per la transitorietà dell'attività non vengono rilevate neppure oggi. A prescindere dalle due precedenti categorie, questa prima rilevazione Istat risultava inesatta e deficitaria anche relativamente al numero totale di imprese (che risultava inferiore da quello fornito dalle Centrali cooperative) e si può certamente affermare che, sino al Censimento sull'industria ed i servizi dell'Istat del 1971 (con dati nazionali disaggregati anche a livello comunale e cadenza decennale, l'ultimo del 2001) le statistiche Istat sulle cooperative rimarranno poco attendibili. L’affidabilità migliorerà negli anni più recenti anche se ancora oggi il censimento anagrafico delle cooperative non può dar conto, da solo, dell'effettivo peso economico del settore, motivo per cui si sono moltiplicate le fonti a cui fare riferimento per poter effettuare analisi attendibili ed anche comparative. Ai nostri giorni, fra le altre principali fonti statistiche, possiamo citare: – il BUSARL (il Bollettino Ufficiale depositato presso le CCIAA 276, che raccoglie i bilanci di tutte le società), con buona veridicità soprattutto dagli ultimi anni, ossia da quando l’Unioncamere ha iniziato a pubblicare anche alcune elaborazioni sui dati di bilancio277 (con dettaglio provinciale); 275 276 277 95 del nostro Paese durerà fino alla fine del primo conflitto mondiale. Di queste la maggior parte era rappresentata da cooperative di consumo (con 860 società) dislocate soprattutto in Lombardia (con 408 imprese) e in Emilia R. Permaneva una scarsa presenza nell’Italia meridionale, ad eccezione della Sicilia. L’inserimento dei bilanci delle cooperative nel BUSARL (iniziato nel 1990) è stato discontinuo, per la prospettiva della predisposizione di un Albo separato, poi avvenuta dal gennaio 2006. Per approfondimenti cfr. Istituto Tagliacarne, Primo rapporto sulle imprese cooperative, redatto per conto dell’Unioncamere nel 2004 che, contiene il numero delle cooperative e degli addetti oltre ad alcuni approfondimenti sugli indicatori di bilancio. – l'Albo delle Cooperative (approfondito nel paragrafo successivo) previsto dal Ministero delle Attività Produttive (annuale con dati nazionali e dettaglio provinciale); – le pubblicazioni delle Amministrazioni regionali278; – gli archivi delle Associazioni centrali di categoria (sebbene parziali, perché relativi alle sole cooperative aderenti), che cominceranno ad essere significativi solo dalla fine degli anni Settanta279. Per una esaustiva analisi quantitativa, temporale e territoriale, anche di carattere comparato del settore cooperativo la fonte ufficiale rimane comunque l’Istat che, nel suo ruolo istituzionale di fornitore di statistiche, è un referente universalmente riconosciuto ed è l'unico che può fornire i dati per effettuare analisi storiche . L’analisi quantitativa sull'evoluzione del settore cooperativo in Italia lascia emergere le seguenti caratteristiche: 1. La trasformazione del tessuto produttivo italiano, che si era avviato con il secondo dopoguerra e che i primi censimenti avevano già registrato per l’economia italiana si ritrova, senza particolari differenze, anche all’interno delle dinamiche cooperative. La cooperazione segue da subito l’evoluzione del mercato e dei bisogni che lo muovono e registra il passaggio dall’agricoltura al manifatturiero prima, per poi esplorare il terziario ed inserirsi, nel corso della seconda metà del secolo passato, soprattutto nel commercio. In questo settore si registra uno dei processi di razionalizzazione più complesso della storia economicoproduttiva di questo paese: un processo poco studiato, ma di grande interesse per gli sviluppi che ha affrontato e per i soggetti coinvolti. In pochi anni si passa, infatti, da centinaia di piccole cooperative di consumo e di spacci ad una ventina di cooperative di medio grandi dimensioni per poi giungere a meno di una dozzina di grandi imprese che rappresentano tutta la grande distribuzione moderna.. 2. Nel decennio 1991-2001 in tutti i settori in cui ha operato la cooperazione l’incidenza degli 278 279 96 Per esempio in Toscana è stato istituito l'Osservatorio regionale della Cooperazione che, dal 2002, assieme all'IRPET pubblica il rapporto sulle “Imprese cooperative nel sistema economico della Toscana”, il risultato di un sistema informativo strutturato, elaborato mettendo insieme dati rilevati dal Registro delle Imprese , dall'Archivio statistico (REA) delle Camere di Commercio e dagli archivi forniti dalle 4 centrali presenti nella Regione. Oltre al numero delle imprese, le centrali cooperative forniscono anche il numero dei soci, il giro d’affari e talora il patrimonio: dati disaggregati che, solo da recente, consentono la formulazione di analisi quantitative comparate. addetti è cresciuta significativamente, con tassi ben superiori alla media nazionale. 3. L’evoluzione delle cooperative ha rispecchiato e mantenuto il primato nelle regioni “storiche” della cooperazione, ossia in Emilia-Romagna, in Trentino-Alto Adige e in Toscana; fra le regioni meridionali le migliori evoluzioni si sono invece registrate in Puglia e in Sardegna. 2. L’Albo delle Cooperative. Nel processo di continuo miglioramento della conoscenza del fenomeno cooperativo, svolge un ruolo considerevole l’Albo delle cooperative280 (introdotto nel 2004 dalla riforma del diritto societario281 in sostituzione del precedente Registro prefettizio), al quale devono iscriversi tutte le società cooperative (ad esclusione delle società di mutuo soccorso e degli altri enti mutualistici non societari)282. La ratio che ha condotto, nei tempi più recenti, alla creazione di un nuovo e più credibile Albo è riconducibile alla necessità di disporre di un registro anagrafico locale attendibile (per l'esattezza provinciale), in grado di “censire” tutte le cooperative (a mutualità prevalente e non) ed i consorzi con sede nel territorio nazionale, tentando così di dare maggiore certezza informativa sulla consistenza, le dimensioni e l'andamento demografico del comparto cooperativo nazionale e locale283. Questa “attendibilità” (ancora in parte deficitaria) assume un ruolo importante non solo per svolgere le indagini di carattere quantitativo ma anche per poter assolvere agli obiettivi di natura pubblica (es. esenzioni fiscali) e per poter dare un preciso contesto di riferimento alla Vigilanza territoriale assegnata alle Centrali cooperative. Per dare concretezza alla veridicità dei dati è stato previsto un vincolo, ossia che la mancata iscrizione della 280 281 282 283 97 L’Albo delle cooperative (istituito presso il Ministero delle Attività Produttive attraverso le Camere di Commercio con D.M. 23 giugno 2004, n.162), non consente l’analisi dell’evoluzione delle imprese cooperative per la mancanza di dati storici; fornisce però dati di consistenza attendibili . In base all’art. 2502 CC al comma 2: “le società cooperative a mutualità prevalente si iscrivono in apposito Albo, presso il quale annualmente depositano i propri bilanci. L’istituzione dell’Albo completa il quadro della riforma delle società cooperative (che aveva avuto inizio nell’Aprile del 2001) e si era concluso con la riforma del diritto societario cooperativo (predisposta dalla Commissione Vietti e introdotta dal Decreto Legislativo 17 gennaio 2003). Con l’istituzione dell’Albo scompaiono, automaticamente, lo Schedario nazionale della cooperazione (articolato per provincia e depositato presso le Direzioni provinciali del Lavoro) ed i Registri prefettizi (introdotti precedentemente dalla legge Basevi) che avevano presentato ricorrenti carenze a causa delle numerose imprecisioni e duplicazioni. Al comma 3 dell’art. 2515 c.c. si stabilisce che “le società cooperative a mutualità prevalente devono indicare, negli atti e nella corrispondenza, il numero di iscrizione presso l’Albo delle cooperative a mutualità prevalente Per la piena operatività dell’Albo la nuova iscrizione delle società cooperative (in sostituzione dei Registri Prefettizi ) era stato fissata entro il 31 marzo 2005 (per le banche di credito cooperativo prorogato al 30 giugno 2005). Ma, il termine ha subito uno slittamento temporale. società nell'Albo determina l’esclusione della cooperativa da ogni forma di agevolazione fiscale e di altra natura, oltre all’avvio di una specifica attività di vigilanza e di verifica. L’Albo è composto da due sezioni: nella prima vengono iscritte le società cooperative a mutualità prevalente mentre nella seconda vengono comprese tutte le altre. Nell’ambito della prima sezione è stata poi prevista una sottosezione, riservata alla cooperative a mutualità prevalente di diritto, regolamentate da leggi speciali, cioè: le cooperative sociali (qualificate per legge a mutualità prevalente); le banche di credito cooperativo (a mutualità prevalente se rispettano le clausole di mutualità), le cooperative agricole ed i loro consorzi (se i prodotti offerti sul mercato provengono per più del 50% da aziende operanti al loro interno). Altro aspetto importante, riconducibile all’istituzione dell’Albo è il tentativo di mettere ordine alla classificazione settoriale delle cooperative, tassonomia che è sempre stata abbastanza arbitraria dato che ciascun ente finiva per classificare in autonomia a piacimento, per l'assenza di un riferimento preciso. Un Decreto Ministeriale (il D.M. 23 giugno 2004, n. 310), ha finalmente definito le 14 categorie di attività produttiva, all’interno delle quali devono essere collocate le imprese cooperative dell’Albo (per approfondimenti sulle singole categorie cfr. Appendice). Tipologie cooperative 1. COOPERATIVE DI PRODUZIONE E LAVORO 2. COOPERATIVE DI LAVORO AGRICOLO 3. COOPERATIVE SOCIALI 4. COOPERATIVE DI CONFERIMENTO PRODOTTI AGRICOLI E ALLEVAMENTO 5. COOPERATIVE EDILIZIE DI ABITAZIONE 6. COOPERATIVE DELLA PESCA 7. COOPERATIVE DI CONSUMO 8. COOPERATIVE DI DETTAGLIANTI 9. COOPERATIVE DI TRASPORTO 10. CONSORZI COOPERATIVI 11. CONSORZI AGRARI 12. BANCHE DI CREDITO COOPERATIVO 13. CONSORZI DI GARANZIA E FIDI 14. ALTRE COOPERATIVE 3. Analisi quantitativa del settore cooperativo. Passando ad una sommaria analisi dei dati censuari relativi all'ultimo trentennio (1971-2001) si osserva una progressiva e costante crescita delle cooperative, passate dalle 11.000 del periodo iniziale alla soglia delle 53.000 unità a fine periodo (nonostante i processi di concentrazione registrati in tutti i comparti, ma particolarmente intensi nella cooperazione di consumo). Nello stesso periodo è anche cresciuto il numero degli 98 addetti, passati dai 2.207 occupati iniziali agli oltre 935 mila del 2001. Dai dati dell' ultimo censimento (2001) è possibile risalire all' evoluzione dell' ultimo decennio (1991-2001) per notare che le cooperative sono cresciute con un andamento anti-ciclico rispetto al resto del mercato, registrando sia la maggiore creazione di nuove imprese (+60,1% ) che più alti tassi di crescita in termini di nuovi addetti (+72,8%) rispetto alla media generale. Da queste percentuali è quindi possibile dedurre che il peso economico del settore cooperativo ha recato un notevole contributo allo sviluppo economico e al mondo del lavoro nazionale, partecipando nel decennio284 alla creazione di nuova occupazione (per il 25%). È difficile dire se le oltre 75.000 cooperative attualmente operanti, pari a quasi l’1,5% delle imprese attive, al 4,4% del valore aggiunto nazionale e al 4,7% di occupazione, siano quello che i Padri costituenti in qualche modo si aspettavano o auspicavano, ma è certo che si tratta di una componente del mercato che ha iniziato ad occupare una quota di mercato significativa, con caratteristiche strutturali, in termini di dimensione media (addetti per cooperativa) e di longevità, degne un approfondimento. Relativamente al primo parametro, possiamo certamente affermare che le cooperative presentano una dimensione media più alta rispetto alle imprese profit, anche se con un trend che sembra ridursi nel tempo. Nel 2001 la dimensione media delle cooperative era pari a 16,5 addetti per impresa (contro i 19,3 del 1971), mentre nelle imprese di capitali lo stesso rapporto scendeva (nel 2001) ai 3,8 occupati per azienda (dai 4,6 addetti medi del 1991). Ad una analisi più approfondita, è possibile evidenziare che l’incidenza degli addetti nelle cooperative maggiori (da 500 ad oltre 1000285) è addirittura cresciuta di più (nel 2001) e con una percentuale quasi doppia rispetto al decennio passato (pari al 9,3%) e più che tripla rispetto al 1971 (del 2,7%). Si tratta di un andamento tendenziale che non è riconducibile a motivazioni di esclusiva natura esogene così come non si tratta di circostanze casuali, ma della commistione di dinamiche economiche con fattori culturali, tradizionali e locali. Da un punto di vista regolamentare, il legislatore nel riconoscere la funzione sociale della cooperazione (specie per la sua capacità di soddisfare la domanda di lavoro) ha da sempre imposto un vincolo minimo dimensionale per la creazione di una nuova cooperativa che, per decenni, è stato di 9 soci (unità che quasi raddoppiavano nel caso di imprese operanti nel mercato degli appalti pubblici). Solo negli anni più recenti (dal 2002) questo vincolo è stato attenuato con 284 285 99 In particolare, gli addetti alle cooperative sociali sono più che quadruplicati (dai 27.510 nel censimento del 1991 a 149.147 nel 2001). Analizzando le prime 30 imprese nazionali classificate in base al fatturato, la cooperazione è presente nell’industria alimentare e delle bevande, nelle costruzioni, nella grande distribuzione alimentare, nella ristorazione collettiva, nei servizi di pulizia integrati e nelle assicurazioni. L’unica, ben nota, grande impresa cooperativa della meccanica è la Sacmi, insediata in un’area che può essere considerata un vero e proprio distretto cooperativo (cioè a Imola), dove il 60% del PIL è prodotto da cooperative. l’introduzione della cd. “piccola cooperativa” (che prevedeva un minimo di 5 soci) e con la riforma del diritto societario (che li ha ulteriormente ridotti a 3). Oltre a questo elemento di natura legislativa occorre citare altri due fattori correlati alle maggiori dimensioni delle cooperative. Il primo è quello derivante dal principio della “porta aperta”: poiché la massimizzazione del profitto non è il fine prioritario della cooperativa, la realizzazione di obiettivi sociali ha reso appetibile la costituzione e l'inserimento lavorativo nelle cooperative traducendosi, pressoché automaticamente, nell'ampliamento delle opportunità di lavoro. Il secondo elemento, meno evidente ma non senza ripercussioni, è riconducibile al doppio ruolo dei soci-lavoratori della cooperativa: la loro posizione di dipendenti e contemporaneamente di proprietari delle imprese è, infatti, un deterrente ai licenziamenti che dà stabilità all'impresa e crea le condizioni operative per la sua crescita dimensionale. Queste circostanze si sono verificate non solo nelle cooperative minori ma anche su quelle più grandi che, sin dal decennio1970-’80, sono state le artefici e le protagoniste degli ampi processi di concentrazione, per fusione o per incorporazione, e delle aggregazioni per la costituzione di reti fra imprese (in generale consorzi) in aree territoriali geograficamente circoscritte286. A questi interventi ha quindi fatto seguito un’altra ondata di crescita (quella degli anni ’90), condotta con operazioni di joint venture e di partnership funzionali (anche con i privati), fino agli attuali “gruppi cooperativi paritetici287”, operanti ai diversi livelli di integrazione (verticale ed orizzontale), che stanno confermando la tendenza, peraltro già esistente, verso la creazione di molteplici network fra imprese cooperative e non. Nel tempo la cooperazione si è così proposta, nei territori in cui era insediata, come un vero e proprio soggetto aggregatore e coordinatore delle piccole e medie imprese (cooperative e non), attraverso l’esplicita formazione di gruppi maggiori e con il rilancio dei consorzi, anche su scala nazionale. Questa evoluzione del settore ha confermato l'ipotesi di un andamento in controtendenza rispetto al resto del mercato, rafforzata dalla circostanza che, nello stesso periodo, la dimensione media delle società di capitali tendeva a diminuire così come anche quella di alcune cooperative dei settori dell'agricoltura, della pesca e dell’edilizia. L'esame degli ultimi dati disponibili (2007) ci consentono di avanzare ulteriori considerazioni sul posizionamento del settore cooperativo nell'ambito del mercato nazionale. Alla fine del 2007 le 286 287 Le difficoltà susseguitesi, molte delle quali esogene (come gli effetti di Mani Pulite sul settore delle costruzioni), hanno rafforzato la convinzione che la più grande dimensione era necessaria, sia sul piano reddituale che sul piano organizzativo e in termini di potere di mercato e di lobby. Il gruppo cooperativo paritetico è previsto dall' Art. 2545 septies del Codice Civile ed è una tipologia di gruppo di imprese stabilito su una base contrattuale. Con questo contratto le cooperative aderenti regolano la direzione ed il coordinamento delle rispettive imprese. Per approfondimenti cfr. Persiani N., 2008. 100 imprese cooperative attive in Italia erano poco più di 74.000 (dati tratti dal Registro delle Imprese), registrando una crescita di 10.000 imprese nel decennio 1998-2007 (cfr. Tab. 10) mentre la loro incidenza sul totale delle imprese attive è rimasta pressoché invariata (pari all' 1,4%), nonostante le diverse dinamiche di crescita tra le due categorie di impresa. Osservando l'andamento delle variazioni annue del numero di imprese, si può notare che fino al 2002 queste aziende sono sempre cresciute in misura maggiore rispetto alle imprese di capitali (+2,5% e +1,1% rispettivamente), mentre nel triennio 2003-2005 le prime sono cresciute meno (registrando addirittura una lieve riduzione nel 2004 e nel 2005)288, perché nei settori dell'agricoltura, della pesca e dell'edilizia (come anzidetto) sono state coinvolte dai noti processi di fusione e di concentrazione289 . L’espansione del settore è ripresa solo da recente (dal 2006) soprattutto per il contributo delle cooperative sociali (di cui parleremo nel prossimo paragrafo) che hanno registrato una importante crescita della loro quota di mercato nell'ambito delle cooperative ordinarie, anche per la possibilità di intraprendere nuove iniziative imprenditoriali. Tab.10 ANDAMENTO DELLE IMPRESE COOPERATIVE (1998-2007) Cooperative Imprese Valori Assoluti Variaz% Annue Valori Assoluti Variaz. % Annue 1998 64.616 - 4.727.504 - 1999 65.592 1,5 4.774.276 1,0 2000 67.383 2,7 4.840.366 1,4 2001 70.029 3,9 4.897.933 1,2 2002 71.814 2,5 4.952.053 1,1 2003 72.138 0,5 4.995.738 0,9 2004 71.464 -0,9 5.061.859 1,3 2005 70.397 -1,5 5.118.498 1,1 2006 71.534 1,6 5.158.278 0,8 2007 74.186 3,7 5.174.921 0,3 Fonte: Registro delle Imprese, 2008. 288 289 Una sostanziale divergenza fra la nascita di nuove imprese cooperative si era già manifestata nel periodo 1990-1999, durante il quale erano nate il 34,6% delle imprese italiane rispetto ad un più contenuto numero di cooperative (il 23,3%). . Per approfondimenti cfr. Regione Toscana, 2008. 101 Riprendendo la seconda caratteristica delle cooperative, ossia la longevità, anche gli ultimi dati disponibili (del 2007) confermano il permanere di questo aspetto, messo in luce più volte nei diversi studi di settore, cioè la maggiore anzianità delle cooperative rispetto a quanto avviene nelle imprese di capitali. In concreto, a livello nazionale, possiamo notare che il 2% delle cooperative presenti nel Registro delle Imprese vanta più di 65 anni (essendo sorte prima del 1940) contro lo 0,1% di imprese ultrasessantenni della categoria profit. Il riferimento alle imprese più giovani conferma la stessa tendenza dato che prima del 1980 sono nate il 18,2% delle cooperative attive a fronte del 7,7% delle altre imprese. Passando alla distribuzione territoriale delle cooperative, si può notare che non si rileva un peso omogeneo sui diversi contesti economico-produttivi, anzi questa presenza talvolta rispecchia in modo esemplare le molteplici dinamiche socio-economiche che ha vissuto questo paese. A titolo esemplificativo, alcune imprese si sono, infatti, maggiormente insediate dove prima era presente un modello industriale che ha subito i processi di destrutturazione produttiva tipica del post fordismo290. Ma, l’incidenza delle cooperative sull’intera offerta imprenditoriale di capitali è molto alta anche in zone che non si possono dire con forti vocazioni al lavoro autonomo e imprenditoriale, quasi a riprova della sua natura sostanzialmente inclusiva e della sua capacità di creare occasioni di lavoro. Poco meno della metà delle cooperative, per l'esattezza il 47,5% ha, infatti, sede nelle regioni meridionali (a fronte di appena 1/3 di imprese for profit), mentre nel Nord Est, notoriamente baricentro dell'industria italiana, è insediato un minor numero della categoria no profit (appena il 13% del totale nazionale). E, per singola regione le cooperative attive sul totale imprese hanno un'incidenza numerica ben superiore rispetto al dato medio nazionale (cfr. Tab. 11) nel Mezzogiorno in Sicilia (2,5%), in Campania (2,1%) e in Puglia (1,9%) mentre rimangono su quote al di sotto della media in regioni ricche e dinamiche dell'industria tradizionale italiana, ossia 290 Il termine post-fordismo è entrato nel linguaggio corrente negli anni '90 per indicare un insieme di caratteristiche economiche, sociali e istituzionali avvertite come profondamente diverse rispetto agli anni precedenti. In sintesi, si tratta della sintesi di tre fenomeni seguiti al boom industriale degli anni '60: la tendenza a una diminuzione dell'offerta di lavoro, un nuovo assetto della produzione definito "flessibile" e uno spostamento dei poteri economici del governo dall'ambito nazionale a quello sovranazionale (o "globale"). Si tratta perciò del periodo successivo al “miracolo” economico ed all'aumento generalizzato del benessere a cui è seguita una lunga crisi, che ha portato austerità e povertà a vasti strati della popolazione italiana e mondiale. 102 in Emilia Romagna (1,2%), in Toscana (1,1%), in Piemonte e nel Veneto (0,8%). . TAB. 11 REGIONI ITALIANE. (2007, dati %) COOPERATIVE ED IMPRESE NELLE Regioni % Cooperative Imprese cooperative su imprese Abruzzo 2,1 2,5 1,2 Basilicata 1,5 1,1 2,1 Calabria 3,4 3,0 1,6 Campania 13,1 8,9 2,1 Emilia R. 6,8 8,3 1,2 Friuli V. G. 1,3 2,0 1,0 Lazio 7,6 7,4 1,5 Liguria 2,0 2,7 1,1 Lombardia 15,6 15,6 1,4 Marche 2,1 3,1 0,9 Molise 0,6 0,6 1,4 Piemonte 4,6 8,0 0,8 Puglia 8,8 6,6 1,9 Sardegna 3,7 2,9 1,8 Sicilia 13,4 7,6 2,5 Toscana 5,2 6,9 1,1 Trentino A. A. 1,7 2,0 1,3 Umbria 1,2 1,6 1,1 Valle d'Aosta 0,3 0,2 1,6 Veneto 4,8 8,9 0,8 TOTALE 100,0 100,0 1,4 Fonte: dati Unioncamere-Infocamere Toscana, 2008 Considerando il contributo delle cooperative nei singoli settori di attività economica (sempre alla fine del 2007), abbiamo rilevato una presenza significativa (cfr. Tab. 12) nel comparto delle costruzioni e dell'edilizia abitativa (con il 21%) seguite, per ordine di importanza, dai servizi alle imprese, dall’informatica (17,3%) e poi dall'agricoltura (12,4%), dall'istruzione e dalla sanità (10,9%). Altri comparti di rilievo, anche se per quote inferiori al 10%, sono i trasporti, il magazzinaggio, le comunicazioni (9,8%) e l' industria in senso stretto (8,3%). Anche la ripartizione delle cooperative per settore presenta dunque differenze piuttosto marcate rispetto alla categoria 103 delle imprese profit. Tra queste ultime prevale, infatti, il commercio al dettaglio e all'ingrosso (27,4%) che tra le cooperative pesa, invece, per appena il 6%, anche se in realtà si tratta dell' offerta alimentare della grande distribuzione (GDO) che si colloca ai vertici del settore, mostrandosi capace di tenere testa a colossi multinazionali. Tab. 12 Cooperative e imprese per settori di attività economica (2007, dati %) Settori Cooperative Agricoltura 12,4 Pesca 1,4 Industria in senso stretto 8,3 Costruzioni e coop.abitative 21,0 Commercio ingrosso e dettaglio 6,0 Alberghi e ristoranti 2,3 Trasporti, magazzinaggio, comunicazioni 9,8 Intermediazione monetaria e finanziaria 1,6 Servizi alle imprese e informatica 17,3 Servizi sociali 6,7 Istruzione e sanità 10,9 Altri settori 2,3 100,0 Imprese 17,6 0,2 12,3 15,4 27,4 5,1 3,7 2,0 10,5 4,4 0,8 0,6 100,0 Fonte: dati Unioncamere-Infocamere Toscana, 2008. Rilevando, infine, la distribuzione regionale dei principali settori di attività economica si nota che le cooperative del settore primario sono maggiormente concentrate in Calabria (29,5%), in Sicilia (23,4%) e in Sardegna (20,0%). La rilevanza delle cooperative calabresi nel settore primario, con una produzione agricola che copre un terzo del mercato, risulta l'unica esperienza tra tutti i contesti territoriali meridionali a forte propensione agricola dove, al contrario, la cooperazione non è tra i modelli di impresa più diffusi. Osservando, invece, il settore secondario, emerge la realtà della Campania dove, a fine 2007, più di una cooperativa su tre (pari al 38,2%) rientrava nel settore delle costruzioni; degna di nota anche la Puglia, sebbene si collochi su e su valori più contenuti, con un peso del 24% delle cooperative edili sull'offerta regionale totale. Passando, infine, al settore dei servizi, si può sottolineare che il contributo delle cooperative alla terziarizzazione del mercato è molto spiccato in Piemonte (con il 69% di cooperative locali), in Lombardia (67%), in Toscana (67%) e Veneto (65%). Nelle prime tre regioni si tratta del settore immobiliare, del noleggio, 104 dell'informatica e della ricerca. In Veneto, invece, si ha una forte componente di imprese cooperative nei trasporti (15% sul totale regionale). 3.1. La dimensione della cooperazione sociale in Italia. Gli ultimi dati disponibili sulle cooperative sociali attive in Italia sono quelli forniti dall'ISTAT (al 31dicembre 2005) che rilevano 7.363 imprese (oltre a 652 non ancora avviate o sospese), con una crescita di quasi il 20% rispetto alla rilevazione del 2003. Metà di queste cooperative opera nell’Italia settentrionale (3.445 cooperative, pari al 46,8 % del totale), un terzo nel Mezzogiorno (2.487 imprese pari al 33,8%) e il rimanente 19,4 % nel Centro (con 1.431 aziende). Cooperative sociali per ripartizione territoriale ( 2001, 2003 e 2005) 105 Fonte: Annuario Istat, 2007. Passando alla distribuzione regionale, il maggior numero di cooperative sociali ha sede in Lombardia (1.191 unità, pari al 16,2 per cento del totale nazionale), nel Lazio (719), in Sicilia (589), in Emilia-Romagna (584), nel Veneto (564) e in Puglia (545). Le regioni minori mostrano una presenza inferiore, come dimostrato dai dati relativi alla Valle d’Aosta (32), al Molise (67) ed all' Umbria (104). Rispetto al 2003, il numero di cooperative sociali è aumentato significativamente in Sardegna (64,1 per cento), in Calabria e in Liguria (intorno al 53 per cento); con percentuali più basse in Campania (23,7 per cento) e nel Lazio (21,7 per cento). Per valutare l'incidenza di questa categoria di imprese sul tessuto sociale calcolato in base alla componente demografica, abbiamo normalizzato il dato assoluto relativo al numero di imprese con la popolazione residente in ciascuna regione. E' risultato che in Italia sono attive 12,5 cooperative ogni 100.000 abitanti e tale rapporto tende ad essere più elevato nelle regioni del Nord-est (con 13,2 cooperative ogni 100.000 abitanti), mentre si attesta al di sotto della media nazionale nel Mezzogiorno (con 12 imprese). Sempre in base a questo indicatore emerge la Sardegna che primeggia rispetto a tutte le altre regioni (con 29 cooperative ogni 100.000 abitanti), seguita dalla Valle d’Aosta (25,8), la Basilicata (22,1), il Molise (20,9) e la Liguria (19,3). Chiude la graduatoria la Campania (con 4,1 cooperative ogni 100 mila abitanti). 106 Riguardo alla distinzione per tipologia, le cooperative italiane che si occupano dell’erogazione di servizi socio-sanitari ed educativi costituiscono la maggior quota delle imprese operanti, ossia quasi il 60% del totale (con 4.345 unità) e le cooperative di tipo B (per il reinserimento lavorativo)sono il 32% (2.419 unità); la quota residua è equamente ripartita tra le cooperative ad oggetto misto (con 315 imprese pari al 4% che svolgono sia attività di tipo A che B) ed i 289 consorzi (sempre il 4%). Il profilo tipologico muta rispetto all’area geografica: nelle regioni del Nord e del Centro sono più frequenti le cooperative di tipo B (che rappresentano rispettivamente il 34% e il 43% del totale cooperative contro il 33% a livello nazionale) ed i consorzi (con una quota superiore al 4 % contro il 2,5 % del Mezzogiorno). Al contrario, nel Mezzogiorno è più significativa la quota di cooperative di tipo A (68% contro il 59% a livello nazionale), mentre, le cooperative ad oggetto misto sono più diffuse al Centro (7% del totale cooperative contro il 4% della quota nazionale) e nel Nord-est (5%) Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, le cooperative più grandi prevalgono nell’Italia settentrionale (dove circa il 68% di società presenta ricavi superiori a 250.000 euro) e quelle più piccole nel Mezzogiorno (con il 63% di cooperative con entrate inferiori a 250.000 euro). Per le cooperative del Centro la distribuzione per classi di valori della produzione è sostanzialmente analoga a quella nazionale. 3.1.1. La cooperazione sociale in Toscana. La Toscana è tradizionalmente riconosciuta come uno dei territori in cui con maggiore intensità e da più lungo tempo si è affermato il cosiddetto sistema di welfare mix, ovvero un sistema di offerta di servizi alla persona ancora molto ampio e centrato sulla partecipazione attiva del terzo settore in tutte le fasi della politica sociale, dalla rilevazione dei bisogni alla programmazione degli interventi ed alla realizzazione degli stessi. Ciò è stato possibile grazie alla lunga tradizione di partecipazione sociale e di collaborazione tra istituzioni locali e società che contraddistingue la regione, unita allo spirito imprenditoriale diffuso, tipico dei contesti di piccola impresa. Il “modello toscano” della cooperazione sociale è caratterizzato da dimensioni medie piuttosto contenute, anche se non piccolissime e da un'elevata quota di imprese aderenti ad organizzazioni di secondo livello quali consorzi e centrali cooperative. Secondo l'ultima rilevazione Istat (aggiornata al 2005) in Toscana si trovano il 6% delle cooperative sociali attive sul territorio nazionale e il 7% delle risorse umane operanti nel settore; si tratta, complessivamente, di 402 soggetti, di cui 221 di tipo A (nel settore dei servizi alle persone), 160 di tipo B (per l’inserimento 107 lavorativo di persone svantaggiate) e 21 consorzi costituiti tra questo tipo di cooperative. Il 60% delle cooperative sociali toscane rientra nella tipologia A, mentre una realtà crescente e recente sono i consorzi. Inoltre, oltre un terzo delle cooperative di tipo A sono pluri-attive, ossia si occupano contemporaneamente di diversi bisogni, potendo così coprire competenze e commesse nel comparto del global service, con gestioni pluriservizio, oggi sempre più richieste. Nel febbraio 2008 (dati provenienti dall’Albo del Ministero delle Attività Produttive) le cooperative sociali toscane erano salite a 626 (febbraio 2008), con un peso del 15% sul totale delle cooperative. Questo dato ministeriale, poiché non distingue la cooperazione sociale per tipo, non ci fa sapere quante delle 626 siano attive nel campo dei servizi alla persona e quante in quello dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati. La cooperazione sociale regionale presenta la caratteristica di nascere, soprattutto, come risposta alla domanda di occupazione di una parte della popolazione residente (in particolare manodopera femminile per la cooperazione di tipo A e manodopera svantaggiata per la cooperazione di tipo B) e, confrontando le caratteristiche delle diverse componenti, emerge con chiarezza che la cooperazione di tipo A, oltre ad essere la più consistente (in termini di numero di imprese) è anche quella che assorbe il maggior numero di soci e di lavoratori e che produce il fatturato più alto, con dimensioni medie maggiori. La cooperazione di tipo A, infine, è anche quella che vanta la più lunga tradizione, mentre i consorzi sono la componente di sviluppo più recente291 (da 21 a 31 nel 2008). Passando alle cooperative di tipo B (cresciute da 124 a 185 imprese soprattutto per il contributo della componente delle imprese attive nei servizi connessi all’agricoltura e alla zootecnia), rappresentano il terzo settore di attività della cooperazione sociale, a pari merito con le attività di istruzione. 4. Analisi qualitativa: i caratteri distintivi della cooperazione in Italia. Come abbiamo potuto dimostrare con l'analisi quantitativa, in Italia l' universo cooperativo è presente in quasi tutti i settori di attività economica o di erogazione dei servizi. Si tratta, infatti, di una componente del sistema produttivo nazionale che, nel tempo, è cresciuta lentamente, facendo emergere un certo ruolo all’interno della moderna economia di mercato e rafforzandosi sia sotto il profilo della diffusione territoriale e settoriale che della rilevanza strategica. A conferma, basti considerare che ormai da 291 La cooperazione di tipo A rimane l’elemento portante della cooperazione sociale, mentre i consorzi e le altre forma di collaborazione tra imprese rappresentano un importante strumento di raccordo e di sinergia tra le due anime del modo cooperativo sociale. 108 decenni e, malgrado il succedersi di generalizzate crisi della domanda di mercato, è una tipologia di impresa che ha continuato a crescere (sia in termini di occupazione e di fatturato) che, talvolta, anche con risultati in controtendenza rispetto all'andamento medio delle altre categorie produttive operanti. La disamina dei dati precedenti ci ha permesso di confermare questo trend di crescita delle cooperative che, in alcuni casi, ha anche significato la scalata delle classifiche nazionali o anche l' espansione in settori tecnologicamente innovativi, fino a qualche tempo fa inespugnabili. Ai nostri giorni l’offerta cooperativa italiana può essere così riassunta: 1. le imprese ai vertici del settore della grande distribuzione (di produttori e di utenti) sono cooperative; 2. le imprese ai vertici del settore agro-alimentare e di molti comparti dei servizi alle imprese (management, trasporto, informatica e logistica) sono le cooperative di grandi e di maggiori dimensioni; 3. le maggiori imprese del settore edilizio sono cooperative; 4. le imprese che assicurano i servizi alla persona (in primis educativi, assistenziali e sanitari) di fronte al ritrarsi del welfare, rientrano nella categoria delle cooperative sociali. Dal raffronto con altri paesi europei, l' esperienza cooperativa italiana risulta inoltre unica, specifica e singolare, poiché non si rilevano similarità con altre esperienze, specialmente facendo riferimento alla sua diversificazione strutturale e gestionale ed alla sua diffusa presenza in tutti i settori di attività economica. Ma, considerando che all'inizio della trattazione abbiamo ampiamente parlato di un codice cooperativo universalmente accettato da tutte le imprese attraverso l'applicazione dei principi dettati dall'ACI, riteniamo opportuno domandarci se e fino a che punto l'esperienza nazionale si differenzia da quella del resto del mondo per le modalità con cui, sin dall'inizio, questi principi sono stati recepiti e trasformati in prassi cooperativa o se, invece, nel tempo sono intervenuti altri fattori (esogeni ed endogeni) che hanno potuto alimentare e provocare questa singolarità operativa. Ripercorrendo i principi dall’ACI ed osservando quanto praticato negli altri paesi del mondo occidentale292 sembra che, apparentemente, non ci si discosti molto da quanto codificato ma, ad una 292 Questi caratteri riguardano ogni tipo di cooperativa: le cooperative di produzione e lavoro, in cui sono i 109 osservazione più attenta, siamo invece riusciti a cogliere alcune specificità della cooperazione nazionale che potrebbero spiegare queste differenze. Abbiamo perciò ritenuto opportuno ripercorrere le modalità di applicazione dei singoli principi ACI nell' esperienza italiana Il principio “una testa, un voto” è e resta nella pratica italiana un cardine dell’identità cooperativa, anzi, capita sempre più spesso di sentirlo interpretare come il principale valore cooperativo, se non l’ unico. Certo testimonia il predominio dei bisogni (dei soci) sugli interessi (del capitale) è quindi l'espressione di un caposaldo della ideologia cooperativa ma, purtuttavia da solo non è sufficiente a convalidare l' applicabilità degli altri principi cooperativi. E', infatti, possibile replicarlo anche in altri contesti: basti pensare, per esempio, all' ipotesi di una società di capitali in cui le quote di capitale siano equiripartite fra i soci. Il secondo principio, quello della “porta aperta293” è accolto ed è abbastanza praticato in Italia. A conferma basti fare riferimento al dato relativo alla continua crescita della compagine occupazionale delle cooperative, con consistenze e trend ben superiori rispetto alle imprese profit. E' pure vero che, in alcuni casi, nelle cooperative più grandi e anche in alcune storicamente consolidate, sono stati colti dei tentativi di aggiramento di questo principio, con l'inclusione in Statuto di una clausola che prevedeva la necessità di maggioranze più che qualificate per l'ingresso di un nuovo socio, al punto che la riforma del Diritto Societario ha previsto questa circostanza e reso obbligatoria una giustificazione, ossia l'obbligo alla dichiarazione della motivazione avanzata dall'assemblea in caso di mancato accoglimento di una nuova domanda di adesione (un indirizzo suggerito prima della riforma ma non sempre praticato). Seguendo il modello interpretativo proposto da Salani294 , correlato al principio della porta aperta è quello della promozione della cultura cooperativa tema sul quale, nel nostro paese, c’è indubbiamente una sensibilità diversa rispetto all'estero. Nel nostro mercato l’attenzione alla 293 294 soci (tutti o in parte) gli addetti occupati nell’impresa (la forma che più si avvicina all’autogestione); le cooperative di utenza (consumo, abitazioni, ecc.) in cui i soci sono, appunto, consumatori e utenti; le cooperative di conferimento (agricoltura, pesca e dettaglio) in cui i soci sono, in genere, lavoratori autonomi o imprese. All’origine di ciascun tipo di cooperativa vi è, infatti, l’esigenza prioritaria di soddisfare i bisogni comuni dei soci: la possibilità di avere un lavoro con un salario simile a quello prevalente nel mercato (primo caso), la disponibilità di beni e condizioni migliori di quanto non consente il mercato (2), la valorizzazione della propria produzione di beni/servizi (3). Il principio della “porta aperta” deriva dal fatto che la cooperativa nasce come un organismo che soddisfa esigenze comuni dei soggetti economici portatori di un bisogno comune (lavoratore, utente, produttore); di conseguenza, ciascun interessato deve avere la possibilità di poter partecipare all’impresa comune ed alla gestione, senza nessuna esclusione. Tuttavia, nella realtà e in pratica, il principio della porta aperta è stato spesso disatteso. Per approfondimenti cfr. M.P. Salani, 2006. 110 promozione (anche se non è avvenuta nel modo delineato da questo autore) è sempre stata molto forte ed anche sostenuta da più parti, sia dalla Chiesa che dai partiti politici, almeno fino agli anni ’90. Questa attitudine è poi proseguita con una regolamentazione legislativa (L. 59/92) che ha provveduto alla istituzione del Fondo mutualistico di Promozione cooperativa, per gestire il 3% degli utili delle cooperative accantonati per questo scopo295. . Se ne può dedurre che in Italia questo principio è ampiamente regolamentato e rispettato, prevedendo anche la nascita ex novo di imprese concorrenti alle cooperative che le stanno finanziando (notoriamente un contro senso dal punto di vista dell’ottica capitalista). Passando adesso alle disparità, un principio certamente disatteso In Italia o comunque applicato in maniera quantomeno discutibile, almeno fino agli ultimi anni, è quello che fa riferimento al ristorno, al cui riconoscimento le imprese nazionali hanno sempre fatto poco ricorso mentre, al contrario, è un valore che converte, in forma economica, la misura della mutualità cooperativa (come giustamente dice Bonfante296). Fin dalle prime esperienze Ottocentesche, come riportato nelle pagine precedenti, il ristorno rappresentava una modalità aggiuntiva di distribuzione degli utili tra i soci che si accostava all’istituto della remunerazione del capitale sottoscritto. Operativamente il ristorno può essere riconosciuto dall’assemblea dei soci non in proporzione al capitale sottoscritto ma in relazione al contributo di ciascun socio all’attività d'impresa, ossia in base all’entità e all'intensità del rapporto mutualistico che intrattiene con la cooperativa di cui è membro. Si può avere ristorno nelle cooperative di lavoro sotto forma di integrazione salariale, nelle cooperative di conferimento in termini di valutazione del bene conferito e nelle cooperative di utenza nei riguardi dei prodotti/servizi consumati. Anche la legislazione italiana è intervenuta a proposito del ristorno, prevedendo un limite massimo (posto a salvaguardia della parità e dell’uguaglianza fra soci) e la sua occasionalità. Ciò nonostante, nel nostro Paese questo principio è stato per anni disatteso o interpretato in modo svilente (come nel caso di “pacchi” dono di alcune vecchie cooperative di consumo), con la giustificazione che le particolari situazioni di crisi del mercato imponevano di dare priorità alla società e, quindi, alla sua ricapitalizzazione a scapito di qualsiasi altro riconoscimento economico aggiuntivo al socio: scelta che ha quindi privilegiato la struttura imprenditoriale rispetto al ruolo del socio297. Ma, probabilmente, il perpetrarsi di questa consuetudine operativa e il mancato ricorso al ristorno, è un ulteriore e preciso indizio della netta e 295 In questa funzione si inserisce anche l’azione della Compagnia Finanziaria Industriale (CFI) che ha molto operato soprattutto sul versante delle imprese spin-off 296 Per approfondimenti cfr. M.P.Salani, 2008. 297 La solidità dimensionale e patrimoniale della cooperazione italiana è correlata a questa scelta che negli anni ’80 ha permesso di dare priorità al bisogno di ricapitalizzare l’impresa cooperativa: una rivoluzione rispetto ai periodi precedenti durante i quali il socio si collocava al centro delle decisioni 111 marcata differenza fra la prassi cooperativa italiana e quella estera. Tra l'altro, questo diffuso orientamento di rigetto nei confronti della distribuzione del ristorno è continuato anche a seguito dei segnali di una certa ripresa del mercato, alimentando così un ampio dibattito. Ai nostri giorni sembra che nel nostro Paese la prassi del ristorno stia timidamente cominciando ad essere praticata, probabilmente a causa dell’esenzione dalla tassazione dei ristorni (per essere esatti, dell’intassabilità temporanea298) reinvestiti in cooperativa come aumento di capitale o come fattore di patrimonializzazione. Strettamente correlate al ristorno sono evidentemente le riserve indivisibili, un istituto non molto diffuso nel mondo, come invece la teoria cooperativa richiederebbe. In Italia le riserve indivisibili hanno rappresentato nel tempo un elemento chiave per rafforzare il patrimonio della cooperativa, per stabilizzarlo (rispetto all’evoluzione della compagine sociale) e per confermare il carattere intergenerazionale del capitale della cooperativa (eredità delle generazioni future, proprio per l’impossibilità del socio di poter disporre della ricchezza accumulata dall' impresa con il suo contributo lavorativo299. I diritti del socio sul capitale sociale sono, quindi, limitati sia perché non si può disporre delle riserve indivisibili ed anche perché i diritti del socio (usufruttuario) rimangono validi fino a quando si mantengono i legami mutualistici con la cooperativa. . Da un punto di vista strutturale, infine, la regolamentazione italiana ha mantenuto nel tempo e sino alla riforma del diritto societario (2004) il divieto di trasformazione della cooperativa in altre forme di società, strumento normativo a salvaguardia dei principi costitutivi dell’impresa cooperativa ed a tutela del soddisfacimento dei bisogni dei soci. Con la riforma legislativa è stato confermato che la cooperativa non può essere costituita da una impresa profit ma è stata prevista la possibilità della sua trasformazione in impresa di capitali. Moltissime cooperative hanno, però, raggirato questa disposizione, introducendo nei loro statuti la non praticabilità della trasformazione. Dall'esposizione condotta possiamo quindi concludere che alla base dell'originalità della formula cooperativa italiana300 possiamo collocare i vincoli posti ai soci per la fruizione del capitale sociale, elementi che la rendono certamente unica rispetto agli altri Paesi, mentre i principi pienamente 298 299 300 La tassazione è traslata al momento dell’uscita del socio dalla cooperativa. Questo obbligo è sorto perchè le cooperative hanno sempre avuto difficoltà a raccogliere sul mercato i fondi necessari al loro sviluppo (come vedremo meglio in seguito) e implica la posizione del socio di usufruttuario anzichè di proprietario pro-quota come l’azionista di una impresa profit. Per l’elenco dei caratteri distintivi delle cooperative italiane cfr., Zamagni S., 2005. 112 recepiti sono quelli che fanno riferimento ai rapporti interpersonali tra i soci e tra questi e l'impresa, sinteticamente i seguenti: I PRINCIPI COOPERATIVI IN ITALIA : 1. PRINCIPIO MUTUALISTICO 2. PRINCIPIO PORTA APERTA 3. PRINCIPIO DEMOCRATICO 4.1. I principi cooperativi della democrazia, mutualità e solidarietà. Da quanto detto, possiamo dedurre che i tre principi ispiratori della cooperazione italiana e che poi nel mercato nazionale sono alla base della profonda differenza di queste imprese dalle altre categorie (in particolare, le società per azioni) sono quelli che garantiscono la gestione democratica dell'azienda. All’interno di una cooperativa vige, infatti, la parità e l'uguaglianza: ogni socio ha diritto ad un solo voto come tutti gli altri (principio “una testa, un voto”) mentre, come già detto, nelle imprese di capitali i soci contano in proporzione alla quota di capitale conferito. Il secondo caposaldo riguarda la mutualità301, ossia la finalità della gestione d’impresa: per le cooperative il soddisfacimento dei bisogni dei soci e per le società di capitali la realizzazione del massimo profitto. Concretamente, mentre in queste ultime i ricavi sono destinati ai soci, dato che vengono redistribuiti tra gli azionisti come contributo alle quote di capitale conferito, gli utili di una cooperativa, al contrario, rimangono in società poiché reinvestiti, quasi interamente, per lo sviluppo della stessa e per la sua ricapitalizzazione attraverso le riserve indivisibili e, in caso di scioglimento della società, destinati ai fondi mutualistici di promozione cooperativa, per la nascita e lo sviluppo di altre nuove aziende. Le cooperative sono quindi imprese che, alla loro costituzione, hanno come fine prioritario i bisogni 301 La mutualità, seppur da sempre praticata nella cooperazione , non è mai stata definita a livello legislativo se non nella Relazione al Codice Civile del 1942. In questa occasione la mutualità viene definita come la soddisfazione diretta dei bisogni dei soci, la cd. “gestione di servizio” che, con il passare degli anni, appare però sempre più inadeguata per una cooperazione in continua evoluzione e crescita. La mutualità inizia perciò a modellarsi secondo il comune sentire della coscienza collettiva ed a essere condizionata dal mutare dei tempi, delle situazioni e dei luoghi. Ecco allora negli anni 90 alla mutualità interna tra soci si associa la mutualità esterna, ossia quella fra cooperative, con l'istituzione dei Fondi mutualistici. . 113 dei soci rispetto al denaro e il lavoro rispetto al capitale302 (mutualità) ma che destinano il risultato dell'attività all'azienda stessa ed alle consorelle oltre che alle generazioni future (intergenerazionalità). Questi tre principi, combinati insieme, hanno delle ovvie conseguenze sulla gestione interna, che si risolvono nelle seguenti implicazioni: la democrazia si concretizza nella circostanza che i soci sono contemporaneamente lavoratori ed imprenditori di se stessi in maniera paritaria; la mutualità implica che i soci non solo intendono fare la stessa azione ma vogliono farla insieme costituendo l'impresa; la solidarietà è l’impegno reciproco e congiunto nello svolgimento delle mansioni (sia pure per ragioni diverse) nella consapevolezza del perseguimento di un obiettivo comune: difatti, è impossibile quantificare il contributo specifico di ciascun lavoratore al prodotto finale. La cooperazione può perciò essere assunta come la realizzazione pratica di un sistema di valori, di un complesso di norme, di regole di funzionamento e di ruoli orientati al soddisfacimento di un bisogno o di un complesso di bisogni, tra loro coerenti, dei soci. Le differenze con le altre categorie di imprese (e, in primis, con quelle profit) sono quindi da ricercare nel campo dei valori, ossia nel complesso delle regole e dei ruoli che governano il suo modo di operare sul mercato e nella logica che regola la soddisfazione dei bisogni dei soci. La cooperazione nasce, infatti, con un sistema di valori difforme, nell’interpretazione e nell’agire economico, sia dal capitalismo che da qualsiasi altra dimensione imprenditoriale. Nel pensiero politico e nelle scelte operative l’impresa cooperativa nasce, infatti, dalla volontà di essere diversa da tutte le altre forme di produzione. 4.2. Un approfondimento sul principio di solidarietà: J.J. ROUSSEAU. I nodi della cooperativa riguardano il problema della conciliabilità tra interessi gli individuali e quelli collettivi, a sua volta strettamente correlato alla stabilità dell’equilibrio cooperativo. Per fornire qualche chiarimento a questo proposito abbiamo ritenuto opportuno il ricorso al pensiero filosofico di J.J. Rousseau e al suo “Discorso sull’origine e sui fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini 303”: «……….se si 302 303 Per approfondimenti cfr. http://www.legacoop.bologna.it/approfondimenti/default.asp?id=11. Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes è un testo di Jean-Jacques Rousseau, pubblicato in Francia nel 1755. «Ecco come gli uomini poterono acquistare man mano qualche idea grossolana dei reciproci impegni e del vantaggio di adempierli, ma solamente nella misura in cui poteva essere richiesto da un interesse presente e concreto; infatti in loro non esisteva previdenza; e non solo non si preoccupavano di un avvenire lontano ma non pensavano neppure all’indomani».. 114 trattava di prendere un cervo, ognuno capiva che doveva per questo restare fedelmente al proprio posto; ma se una lepre passava vicino ad uno di loro, non c’è da dubitare ch’egli la inseguisse senza scrupoli e, che una volta raggiunta la preda, si preoccupasse pochissimo di far perdere la loro ai suoi compagni». Questo passo specifica esattamente le motivazioni che inducono al prevalere degli interessi individuali (la lepre) su quelli collettivi (il cervo), pregiudicandone il raggiungimento. Il punto dal quale dobbiamo partire è: “si preoccupasse pochissimo di far perdere la loro ai suoi compagni”. Perché si “preoccuperebbe pochissimo”? Il cacciatore ha ben due motivi per agire così dato che, prima di tutto potrebbe pensare che anche gli altri, se l’occasione si presentasse, seguirebbero la lepre e quindi il cervo sarebbe perduto per colpa degli altri, con il risultato che lui, restando al suo posto, non otterrebbe nulla, né la lepre né la sua parte di cervo. In secondo luogo, se il cervo venisse preso, probabilmente una parte toccherebbe anche a lui, ottenendo così un vantaggio maggiore, dato che avrebbe la lepre e la sua parte di cervo304 In teoria economica, l’assunzione di comportamenti razionali mossi dalla massimizzazione dell’utilità individuale va però incontro alla formidabile obiezione del “dilemma del prigioniero 305”. In altri termini, se il risultato di un’azione individuale (ed anche di un interesse individuale) nasce necessariamente dalla combinazione delle azioni di tutti gli altri ed è massimo se tutti cooperano, mentre è punitivo se un individuo coopera mentre gli altri pensano solo a sé stessi allora, nel timore di questa perdita, ciascuno penserà solo a sé con il risultato che tutti, irrimediabilmente, perderanno ogni possibilità di ottenere un risultato ottimale (l'ottimo-paretiano306): in letteratura economica questo paradosso è stato assimilato alla difficoltà di configurare l’equilibrio cooperativo. Riprendiamo Rousseau. “....nel villaggio vige una regola che non può essere violata, pena il bando: quando si prende un cervo esso è diviso tra tutte le famiglie, anche tra quelle che non hanno partecipato alla caccia. Le prede minori sono, invece, di chi le prende. La caccia al cervo richiede la partecipazione di almeno 10 cacciatori”. Il problema non è però il numero (perché nel villaggio i cacciatori sono molto di più) ma è formare la squadra307. Essi, infatti, non partono insieme (in questo caso si avrebbe il controllo reciproco diretto), ma ciascuno deve raggiungere un posto 304 305 306 307 Per approfondimenti cfr. Veca S., 1986. Il dilemma consiste nel fatto che due prigionieri hanno a disposizione una soluzione molto favorevole (solo un anno di prigione a testa) se nessuno dei due confessa. Ma, mossi dall'egoismo e nel timore di prendere 10 anni se l’altro confessa, ciascuno confesserà e quindi prenderanno non uno ma ben 8 anni di prigione a testa. L'ottimo paretiano (o efficienza paretiana) è un concetto introdotto dall'ingegnere ed economista italiano Vilfredo Pareto, largamente applicato oltre che in economia anche in teoria dei giochi, in ingegneria e nelle scienze sociali. Si realizza quando l'allocazione delle risorse è tale che non è possibile migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro. Se andassero tutti, il cervo è preso e la parte che tocca ad ognuno vale molto di più di qualunque preda piccola, fosse anche una lepre. 115 diverso e quindi sono isolati. Se però qualcuno non parte, preferendo andare a caccia della lepre per conto suo, gli altri avranno perso una giornata intera senza ottenere niente. Che cosa succederà allora? Succederà che la caccia al cervo non inizierà mai, dato che tutti potrebbero fare il medesimo ragionamento: meglio prendere una lepre che rischiare di perdere una giornata. Supponiamo adesso che tra i membri del villaggio non sia estraneo il senso della solidarietà: in fondo, ogni tanto un cervo è necessario per il benessere del villaggio, specie alle donne ed ai bambini poi con le pelli si fanno anche scarpe e vestiti, con le corna piccoli utili utensili e la carne è molto nutriente. La caccia dunque inizia, e tutti sono ai loro posti, anzi i cacciatori sono più di dieci, succede però che, nel bel mezzo della giornata, una lepre passa velocissima ed a poche decine di metri da un cacciatore. Egli è molto abile e pensa che assentandosi per inseguire la lepre intanto gli altri potranno comunque prendere il cervo, potendo così avere la lepre oltre ad una parte del cervo. Ma, quella lepre ha proprio deciso di rovinare tutto e passa anche nei pressi di altri cacciatori che, ragionando allo stesso modo, fanno finire ingloriosamente la caccia al cervo. Tornando al nostro ragionamento iniziale, questa caccia è stata sufficientemente esplicativa per farci comprendere che i gesti cooperativi sono difficili da attuare perché, apparentemente ed immediatamente, possono andare contro gli obiettivi e gli interessi individuali razionalmente superiori, anche se nel tempo potrebbero risultare sfavorevoli. Riprendendo la caccia, se si introduce, un’altra ipotesi308 e cioè che la situazione si può replicare nel tempo (è ripetitiva) e che le strategie siano reciprocamente condizionate, ossia che ciascun interessato inizi il gioco con un atto cooperativo, continuando a cooperare anche se un altro non coopera (anziché rispondere con un atto di egoismo), allora (come dimostrato empiricamente da R.Axelrod309) “da un comportamento che abbia orizzonti temporali molto lunghi può nascere un equilibrio strategico di tipo cooperativo, cioè si è raggiunta la solidarietà cooperativa”. Nella realtà, il dilemma cooperativo si pone e si ripropone continuamente perché non si esaurisce in un solo atto e, in effetti, la quotidianità di una impresa cooperativa richiede continuamente la necessità di rinnovare il patto costitutivo e di soddisfare esigenze multiple. La cooperazione, infatti, una volta fissatasi in un territorio e in una comunità, non può essere sopraffatta da un gruppo di individui che persegue obiettivi egoistici, cercando di prevalere sugli altri dato che la sua esistenza diventa un 308 309 Una via per la soluzione era stata intravista da Luce e Raiffa (1957) così come da molti altri autori in seguito: essa si ottiene immaginando che il gioco (la caccia) non si svolga una sola volta, ma sia ripetuto. In questo caso i giocatori hanno una informazione in più che è quella del comportamento tenuto dagli altri nel turno precedente. R. Axelrod è conosciuto per il suo lavoro interdisciplinare per quanto riguarda l'evoluzione della cooperazione. I suoi attuali interessi di ricerca includono la teoria della complessità e della sicurezza internazionale. Recentemente si è occupato della relazione tra cooperazione e lo sfruttamento per la complessità per le Nazioni Unite, la Banca mondiale e il Dipartimento della difesa USA. Per approfondimenti cfr. Axelrod R., 1981; 1984. 116 interesse specifico della comunità locale310 ed anche l’opportunità e la garanzia di un lavoro democratico ed indipendente. Inoltre, in tutte le comunità e solo con la cooperazione, è possibile ottenere beni e servizi a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato così come spetta alle cooperative la produzione di beni e servizi che altrimenti non sarebbe conveniente produrre ai prezzi di mercato. In altri termini, la realtà e la fattiva applicazione dei principi cooperativi può anche essere interpretata come la possibilità di mediare e di conciliare tutta una serie di interessi collettivi, individuali e sociali. 310 Questo modo di interpretare la cooperativa rientra specificatamente nell’ambito della cooperativa sociale, cioè nella categoria delle imprese orientate alla produzione di servizi di interesse collettivo. 117 APPENDICE: ANALISI DELL’ALBO DELLE COOPERATIVE311. L’albo si divide in due sezioni: I° Sezione II° Sezione Sezione cooperative a mutualità prevalente (L’iscrizione in questa sezione consente di usufruire delle agevolazioni fiscali: Sezione cooperative diverse: cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente Nella I^ sezione sono presenti delle sottosezioni per: 1) Cooperative sociali (qualificate a mutualità prevalente direttamente dalla legge) 2) Banche di credito cooperativo (che rispettano le normative speciali) 3) Cooperative agricole e loro consorzi (se la quantità o il valore di prodotti conferiti dai soci supera il 50% della quantità o del valore totale dei prodotti) Le 14 categorie di cooperative da inserire nell'Albo inquadrate (dal D.M. 23 giugno 2004, n. 310) in base all'attività economica svolta (come anzidetto) sono le seguenti: Tipologie cooperative 1. COOPERATIVE DI PRODUZIONE E LAVORO 2. COOPERATIVE DI LAVORO AGRICOLO 3. COOPERATIVE SOCIALI 4. COOPERATIVE DI CONFERIMENTO PRODOTTI AGRICOLI E ALLEVAMENTO 5. COOPERATIVE EDILIZIE DI ABITAZIONE 6. COOPERATIVE DELLA PESCA 7. COOPERATIVE DI CONSUMO 8. COOPERATIVE DI DETTAGLIANTI 9. COOPERATIVE DI TRASPORTO 10. CONSORZI COOPERATIVI 11. CONSORZI AGRARI 12. BANCHE DI CREDITO COOPERATIVO 13. CONSORZI DI GARANZIA E FIDI 14. ALTRE COOPERATIVE 1. Le cooperative di produzione e lavoro hanno lo scopo sociale di “ricercare e garantire l’occupazione dei propri soci alle migliori condizioni di mercato, sia qualitative che economiche”. A tal fine, e in adempimento al contratto sociale, i soci lavoratori sono tenuti a prestare la propria attività all’interno della cooperativa, per la produzione diretta di beni e per la fornitura di servizi e, 311 Unioncamere, Secondo rapporto sulle imprese cooperative. Roma, 2006. Per approfondimenti cfr. sito Unioncamere. 118 in senso più generale, per il conseguimento dello scopo statutario. La posizione del socio lavoratore è duplice: egli è infatti lavoratore (quindi sottoposto al Contratto collettivo nazionale di lavoro, fatte salve tutte le disposizioni espressamente richiamate dalle norme di legge relative ai soci di cooperative) ed anche socio, partecipando perciò alla gestione aziendale. Da un punto di vista economico, il lavoratore di una cooperativa ha diritto al salario, più o meno contrattualizzato a cui si può aggiungere l'eventuale partecipazione al profitto dell’impresa (nelle forme consentite del modello di mutualità adottato e nei limiti previsti dalla legge) e al ristorno, se previsto Nella tradizione italiana per cooperative di produzione e lavoro si intendevano anche quelle del settore delle costruzioni, del manifatturiero e dell'ingegneria progettuale; nella nuova classificazione sono invece comprese quelle storicamente definite cooperative di servizi, ad eccezione del settore dei trasporti che, data la rilevanza assunta in Italia, è diventato un settore a se stante. La cooperazione di servizio, a sua volta, che ha origini in segmenti erogativi marginali (come le pulizie, le manutenzioni e il facchinaggio) si è profondamente trasformata, divenendo leader nel settore delle gestioni complesse, come ad esempio il Facility management e in altre forme (gestionali od operative) sempre più sofisticate, per la fornitura di servizi sempre più evoluti (come le reti di gas, acqua ed energia). La trasformazione forse più esemplare è quella realizzata in un comparto povero come il facchinaggio, che si avvia ad essere un fattore di rilievo con una buona competitività all’interno della logistica . 2- 4. Sono cooperative di lavoro agricolo (ai sensi dell’Art. 2135 CC.) quelle che esercitano attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e ad altre attività connesse (volte alla trasformazione o alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nel normale esercizio dell’agricoltura). Nell’ambito delle cooperative agricole è anche possibile distinguere la produzione di beni, il servizio ai soci ed una attività mista, che unisce le due tipologie. Le cooperative di produzione agricola gestiscono direttamente la coltivazione del terreno con il lavoro dei propri soci e provvedono, successivamente, alla commercializzazione dei prodotti ottenuti. A tale categoria appartengono sia le cooperative che si occupano della conduzione di terreni, sia le cooperative che esercitano la gestione diretta delle stalle sociali. Nel primo caso, i soci provvedono alla coltivazione di uno o più fondi rustici acquisiti in uso, affitto oppure di proprietà (in questo caso, la cooperativa gestisce la coltivazione, ma non è proprietaria dei terreni conferiti dai soci). Una ulteriore forma di cooperativa agricola è rappresentata, inoltre, dalla impresa associata, in cui partecipano soci proprietari ma non lavoratori (si pensi, ad esempio, all’apporto di terreni agricoli da parte di Enti pubblici). Nel caso delle stalle sociali, i rapporti tra i soci e la 119 cooperativa restano immutati, tuttavia cambia la specializzazione dell’attività svolta, rivolta, questa volta, alla produzione di carne o latte. Le cooperative di servizio in agricoltura integrano l’attività agricola con l’offerta di servizi che, altrimenti, sarebbe impossibile o eccessivamente oneroso per i singoli soci realizzare. In particolare, si possono individuare due categorie: le cooperative che forniscono beni e servizi per la produzione o la gestione d’impresa (ad esempio, assistenza agrozootecnica, amministrativa, ecc.) e le cooperative di trasformazione e commercializzazione delle produzioni conferite dai soci (ad esempio, i frantoi sociali, le cantine sociali, etc.). Quest’ultima tipologia di cooperativa rappresenta la categoria, prima individuata, delle cooperative di conferimento di prodotti agricoli e di allevamento. 3. Introdotte con la legge n. 381/1991312 le cooperative sociali sono una speciale categoria di cooperative di lavoro, caratterizzata dal fatto di "perseguire l'interesse generale della comunità per la promozione umana e l'integrazione sociale dei cittadini”. Questa legge non ha creato il settore della cooperazione sociale ex-novo ma lo ha collocato correttamente all’interno di un preciso quadro legislativo, dall’unione delle esperienze legate a tradizioni culturali diverse. Il legislatore ha anche fornito la definizione della natura e dello scopo della cooperazione sociale e poi distinto i settori di attività in cui queste imprese operano313 (il comma secondo dell’art.1 introduce, infatti, le cooperative sociali di tipo A e le cooperative sociali di tipo B). Come abbiamo visto, gli scopi sociali di ciascuna delle due categorie sono profondamente diversi e, di conseguenza, differenti sono i rispettivi modelli di gestione, di rendicontazione e di analisi economica. Inoltre, per una sorta di contiguità che spesso non è solo tipologica ma anche operativa, sussistono tra i due tipi di intervento sempre più frequenti esempi di scambio di esperienze e di conoscenze. 5. Le cooperative edilizie di abitazione, dopo quelle di produzione e lavoro rappresentano la categoria più numerosa, in termini di imprese ed anche la più ampiamente diffusa su tutto il 312 313 La Legge n° 381 dell’8/11/1991 all’Art. 3 definisce gli specifici obblighi ed i divieti a cui queste cooperative sono sottoposte e che ne giustificano il particolare regime tributario (art. 7). La stessa legge disciplina la figura del socio volontario (art. 2) e del socio svantaggiato (art.4) e prevede convenzioni (art.5) stipulabili tra Enti pubblici e cooperative sociali. L. 381 art. 1 comma 1: “ Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.” Secondo Antonio Fici ci sarebbe una duplice interpretazione del significato del primo articolo della legge 381 (art. 1, comma 1): una di tipo forte, l’altra di tipo debole. Per approfondimenti cfr.Fici A., 2004. 120 territorio nazionale. È un settore della cooperazione “storico” dato che ha cercato di contribuire a dare una risposta ad uno dei bisogni primari della popolazione: la casa e, in questa sua attività, è stata riconosciuta come uno dei principali interlocutori delle Istituzioni Pubbliche e della politica. A differenza di quanto si potrebbe credere, quello delle cooperative di abitazione è un settore che, nel corso degli anni, si è molto trasformato mostrando di essere anche un soggetto fortemente innovativo.. In particolare, accanto alle tipologie a proprietà indivisa in cui il socio paga un canone d’uso a fronte del godimento a vita per sé (e, a volte, per gli eredi diretti) di un immobile che è, e resta, di proprietà della cooperativa e a proprietà divisa (cui il socio assegnatario dell’immobile ne diviene anche il proprietario), è stata aggiunto il settore degli alloggi in affitto, per categorie sociali speciali a tempo definito o indeterminato. Non è un caso se la cooperazione ha sentito il bisogno di definirsi cooperazione di abitanti, infatti alle attività immobiliari classiche le cooperative hanno aggiunto una quota crescente di servizi, sia alle persone che alle città. 6. Le cooperative della pesca si propongono di garantire l’occupazione dei soci attraverso l’esercizio della pesca (con imbarcazioni proprie della cooperativa o di proprietà dei singoli soci), sia in acque interne (pesca lacuale e fluviale) che marine, nonché attraverso lo svolgimento di attività inerenti o accessorie alla pesca. Oltre alle cooperative dedite esplicitamente alla piscicoltura assumono, infatti, un ruolo fondamentale quelle che si occupano del commercio dei prodotti della pesca. Al settore aderiscono anche cooperative che svolgono attività di ricerca bio-naturalistica e quelle di servizi specializzati, che effettuano consulenza in ambito legale, contabile, fiscale e commerciale alle cooperative della pesca. In tempi più recenti si è avviato un settore di attività ancora marginale ma in significativa crescita che è quello della pesca-turismo. 7. Le cooperative di consumo (oggi, di consumatori) costituiscono una categoria che coinvolge un grande numero di soci per la funzione sociale che esse svolgono, ossia la difesa dei consumatori di generi di largo consumo, con l’obiettivo di ottenere i prodotti di migliore qualità alle condizioni economiche più vantaggiose. A tal fine, le cooperative di consumo acquistano generi di consumo, merci, servizi, prodotti ed articoli di qualsiasi natura e tipo, in alcuni casi provvedendo alla loro trasformazione, e successivamente, alla loro distribuzione tra i consumatori, soci e non soci, attraverso la gestione di “punti vendita” che, nel tempo, si sono successivamente razionalizzati fino ad arrivare agli odierni ipermercati. L’attività primaria, concentrata sin dall’inizio nel “food”, si è allargata ai generi diversi e, nei tempi recenti, anche ai servizi di largo utilizzo, come le schede telefoniche. Da sempre la cooperazione di consumo italiana ha dedicato grande attenzione alla promozione di attività dirette alla tutela del consumatore, all’informazione, all’educazione igienico121 sanitaria ed alimentare ed alla salvaguardia dell’ambiente. Tra i più recenti interventi, le attività relative al sostegno e alla promozione dei prodotti provenienti dal commercio equo e solidale. In alcuni casi le cooperative di consumo hanno anche promosso altri servizi collaterali di largo consumo, come quelli turistici attraverso agenzie collegate, che si sono rivelati di grande interesse per i risultati e sotto il profilo delle dinamiche strutturali e organizzative. Nel nostro paese, a differenza delle traiettorie percorse in altri paesi industrializzati, la cooperazione di consumo è riuscita a diventare leader del mercato pur partendo da una frantumazione organizzativa e gestionale. Stiamo, infatti, parlando del settore primigenio della cooperazione e di quello che, storicamente e soprattutto in Occidente, è stato il più diffuso svolgendo altresì un ruolo sociale di portata straordinaria dato che milioni di cittadini del mondo hanno conosciuto la forma cooperativa proprio attraverso il consumo organizzato. 8. Le cooperative di dettaglianti rappresentano le modalità con cui si è evoluta la distribuzione commerciale di taglia più minuta ed è l’unica realtà che non è stata travolta dall’arrivo delle grandi superfici. Queste cooperative sono quindi l’evoluzione delle forme organizzative che aggregano le funzioni aziendali, come ad esempio gli acquisti centralizzati, la gestione di marchi di vendita, la definizione di strategie commerciali o l’ottimizzazione dei processi ristrutturativi ecc. Con la cooperazione tra dettaglianti si cerca quindi non solo di massimizzare le opportunità offerte dalle associate e dai risparmi provenienti dalle economie di scala, ma si asseconda un processo di crescita imprenditoriale degli operatori commerciali, che così possono decidere tutte le fasi a più alto contenuto economico e organizzativo. Questa tipologia è soprattutto dedita al commercio e, in particolare, alle attività del commercio al dettaglio di prodotti alimentari, bevande e tabacchi e di altri beni di consumo finale. 9. Le cooperative di trasporto rappresentano una fattispecie tipica delle cooperative di servizio, che si pongono lo scopo di procurare occasioni di lavoro ai propri soci, operatori di attività di trasporto. Ciò che le distingue dalle cooperative di prestazione di servizi a terzi (che rientrano nelle cooperative di lavoro), è la proprietà dei mezzi di trasporto (ad esempio, cooperative tra autotrasportatori, tassisti, moto-taxi, etc.), in cui ciascun socio è proprietario di un mezzo. Come indica la denominazione stessa, le attività di trasporto e di movimentazione delle merci sono quelle prevalenti nell’ambito di questa tipologia di cooperative. L'interesse per questo settore come per quello della cooperazione tra dettaglianti è il fatto che ad associarsi non sono i lavoratori ma professionisti, artigiani, imprenditori. Questo tipo di cooperazione rappresenta una delle probabili 122 evoluzioni della cooperazione di lavoro che tende verso l'immaterialità della prestazione. 10. Nei consorzi cooperativi, i principali settori di attività sono quelli della consulenza legale, fiscale, gestionale, commerciale, etc. e dei servizi alle imprese, ma un rilievo fondamentale è anche rivestito dall’attività edile I consorzi agrari lo scopo dei consorzi agrari consiste nel contribuire all’innovazione e al miglioramento della produzione agricola, nonché alla predisposizione ed alla gestione dei servizi utili in agricoltura. Le attività economiche prevalenti sono i servizi connessi all’agricoltura e alla zootecnia, la produzione di prodotti per l’alimentazione degli animali e il commercio all’ingrosso di materie prime e di animali vivi. 12. Banche di credito cooperativo (che tratteremo nel Cap. VI) 13. I consorzi di garanzia dei fidi o “confidi” hanno avuto origine con la legge quadro sull’artigianato (Legge 25 luglio 1956, n.860) e fanno ricorso al finanziamento esterno, aiutando le PMI ad ottenere credito anche in condizioni di difficoltà, attraverso la fornitura di garanzie adeguate. In particolare, nascono come espressione delle Associazioni di Categoria nei comparti dell’industria, del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura, basandosi su principi di mutualità e solidarietà. I primi consorzi fidi, o cooperative di garanzia, vengono costituiti già nel 1956 per facilitare l’accesso al credito alle piccole imprese e nel 1963 per iniziativa della Confartigianato, a Roma, si costituisce la prima Cooperativa di garanzia operativa a livello regionale del Lazio (la Cooperativa Laziale di Garanzia). Successivamente, anche grazie alle incentivazioni regionali, vengono costituiti diversi organismi di garanzia, principalmente nell'artigianato ma anche nei comparti della PMI e dell'industria. I Confidi sono stati recentemente sottoposti ad una nuova disciplina (con D.L. n. 269/2003) che ridefinisce (Art. 13) la loro struttura organizzativa, patrimoniale e gestionale, allo scopo di consentire quella solidità patrimoniale e quelle tutele istituzionali necessarie per soddisfare i requisiti previsti negli accordi di Basilea 2. Le nuove regole dettate dall’art. 13, oltre a dare una definizione puntuale dei Confidi e del loro ambito di operatività ed a introdurre previsioni per tutelarne la denominazione, sono finalizzate a: riorganizzare, in un sistema efficiente, i numerosi Confidi già esistenti; regolamentarli sotto il profilo societario e di funzionamento. Questi interventi miravano anche ad attribuire a tali organismi la solidità patrimoniale e le tutele istituzionali necessarie per la valutazione del rischio da parte degli istituti di credito e per il loro ingresso fra gli intermediari finanziari ed incentivarne la trasformazione in 123 forme giuridiche più strutturate. Nel rispetto dei principi di Basilea 2, il ruolo dei Confidi sta assumendo un’importanza crescente anche sul fronte dell’offerta di servizi di consulenza finanziaria collaterali, quindi nelle attività ausiliarie all’intermediazione finanziaria ed anche legali, di contabilità, di consulenza fiscale e societaria, di assistenza commerciale e gestionale, nonché nel campo delle ricerche di mercato e dei sondaggi di opinione. 14. Le altre tipologie di cooperative diverse da quelle descritte rientrano fra le cd. “altre”.. 124 IV. LE TEORIE ECONOMICHE SULLE IMPRESE COOPERATIVE Introduzione. L’approccio teorico alla forma cooperativa e la sua proposta scientifica da parte delle Università è molto recente (anche se sempre più pressante314), perché la letteratura economica è sempre stata dominata dal pensiero egemonico delle imprese di capitali315. D’altra parte, nei decenni passati la cooperazione stessa non ha sentito il bisogno di sensibilizzare il mondo accademico; nei tempi più recenti, invece, sta cercando una sua precisa collocazione dottrinale e nuovi strumenti scientifici che possano consentire la sistematizzazione e l' approfondimento delle sue problematiche morfologiche e gestionali. Questo confronto teorico è ancora più complesso considerando che l’adozione di un modello di gestione e di governance cooperativa implica la considerazione congiunta dei criteri di efficienza (per gli obiettivi economici) e di efficacia (per gli obiettivi sociali), mentre nell’impresa di capitali ci si può limitare al perseguimento esclusivo dell’efficienza, con il quale si riesce a risolvere il problema dell’equilibrio economico. In altri termini, il raggiungimento dell’equilibrio gestionale di una cooperativa richiede il contemporaneo perseguimento di obiettivi economici e di valori sociali, che ovviamente ampliano la complessità operativa ed organizzativa di queste strutture: si tratta di tematiche trattate in letteratura economica solo da recente. In questo capitolo faremo riferimento agli approcci teorici, elaborati nel passato dagli economisti (a volte anche occasionalmente), per tentare di interpretare il percorso di crescita dell'analisi economica e delle teoria d'impresa che possono essere ricondotte al settore cooperativo. Ripercorrendo la letteratura degli economisti classici (tra cui Smith, Mill, Walras) possiamo riferire che, in realtà, si trattava di studi che avevano come obiettivo principale l'analisi dei fenomeni macroeconomici del capitalismo (distribuzione del reddito, livello dei prezzi, ecc.) e, in nessun caso le imprese, neppure quelle di capitali, erano oggetto di una trattazione specifica. Le teorie economiche del periodo, infatti, studiavano esclusivamente il mercato come regolatore e motore delle altre organizzazioni economiche e bisognerà aspettare il XX° secolo (in particolare il 1937) perché Coase316, per primo mettesse in evidenza la teoria economica d'impresa. Allo stesso modo, Per approfondimenti cfr. M.P. Salani, 2007. Se si analizza con più attenzione la forma cooperativa si scopre che è un soggetto di grande potenzialità e di diffuse attese (se non entusiasmi), come nel caso dei pensatori liberali di grande rilievo, come ad esempio J.S. Mill. 316 Coase Ronald Harry (Londra 1910) è stato un economista inglese, vincitore del premio Nobel per l'economia nel 1991 per “ la scoperta e la spiegazione dell'importanza che i costi di transazione e i diritti di proprietà hanno nella struttura istituzionale e nel funzionamento dell'economia”. Coase propone una teoria dell’impresa basata sul confronto tra costo d’uso del mercato e costo d’uso dell’impresa per il governo di una determinata transazione.Le imprese esistono dunque perché riescono a realizzare alcune 314 315 125 dalla fine del XVIII° secolo agli inizi del XIX°, nessuno aveva fatto cenno alle imprese cooperative che, tuttavia, rimbalzavano dalle dissertazioni in materia filosofica, ad esempio quando gli ideali cooperativi venivano visti come i possibili prodromi di un nuovo ordine sociale. 1. Gli economisti classici: A. Smith e J.S. Mill, L. Walras e A. Marshall. Il più celebre esponente della storia economica dell'Ottocento è stato certamente Adam SMITH (1776) che, osservando una fabbrica di spilli (la fabbrica più celebre dell’intera storia dell’attività economica) si soffermò non sul macchinario ma sull’organizzazione del lavoro, facendo notare che la “divisione” del lavoro consentiva a ciascun operaio di diventare un esperto nella minuscola porzione del processo produttivo di sua competenza. “Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; per fare la capocchia occorrono due o tre distinte operazioni; il montarla è un lavoro particolare e il lucidare gli spilli un altro, mentre un mestiere a sé è persino incartarli”. Per Smith da questa specializzazione, cioè dalla divisione del lavoro, derivava la grande efficienza dell’impresa a lui contemporanea. Nella “Ricchezza delle Nazioni”317 aveva, anche, chiarito che la divisione (verticale) del lavoro non esclude di per sé l’eventualità che il lavoro possa assumere il capitale (invertendo il tradizionale ordine dei due fattori), consentendogli così di esercitare il controllo sull’impresa. Questa assunzione seguiva ad una sua critica sulla tendenza del mercato alla monopolizzazione che, come dimostrerà, avrebbe potuto rappresentare un rischio per lo sviluppo economico del mercato, poiché aveva osservato che i capitalisti, pur parlando di competizione, in realtà continuavano a cercare il sostegno dello Stato ed interventi legislativi mirati ad impedire la libera concorrenza del mercato, attraverso dazi e regole commerciali restrittive. 317 transazioni ad un costo minore di quello associato alla contrattazione di mercato. Risparmiando questi costi e affidando la direzione gerarchica delle risorse all'imprenditore, l'organizzazione di impresa si caratterizza per una maggiore efficienza rispetto al mercato Per approfondimenti cfr. Coase Ronald Harry (1960). Weath of nations è un trattato enorme, ricco di riflessioni profonde (e sempre attuali) e scritto in una prosa ammirevole. Con la Bibbia e il Capitale di Marx è uno dei tre libri che le cosiddette persone “colte” si sentono autorizzate a citare, senza averli letti. L' "Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni" è la testimonianza di Smith sui grandi cambiamenti del mercato a seguito della rivoluzione industriale, partita dall' Inghilterra alla fine del Settecento. I tre punti essenziali del volume sono: 1. la concezione delle forze che stimolano la vita e gli sforzi economici (cioè la natura del sistema economico); 2. le modalità di determinazione dei prezzi e la ripartizione dei salari, del profitto e della rendita; 3. le politiche mediante le quali lo Stato aiuta e promuove il progresso e la prosperità economica. Per approfondimenti cfr. A.S. Smith, riedizioni nel 1778, 1784, 1786 e 1789 e in italiano Utet, Torino, 1996. 126 Fra gli altri classici, John Stuart Mill 318, osservando i risultati raggiunti dai Probi Pionieri, passava da una iniziale avversione nei confronti delle associazioni cooperative di stampo collettivo (per essere contrarie alla dottrina del liberismo classico, per limitare la libera concorrenza del mercato e per violare la libertà degli individui) ad un’adesione quasi entusiastica. L’ultimo Mill, nella terza edizione dei Principi di Economia Politica (1852), sembra abbandonare del tutto le precedenti remore nei confronti delle associazioni cooperative, soffermandosi sulla loro gestione e sulla conseguente capacità di rigenerare dal basso il tessuto sociale, riscattando il ruolo dei lavoratori all’interno delle fabbriche. In altri termini, definì le cooperative “associazioni di operai” posti in condizione di uguaglianza sotto la direzione di gerenti ed insisteva scrivendo che “se l’umanità continua a migliorare ci si deve aspettare che la forma di associazione che alla fine prevalga, non è quella che può esistere tra un capitalista come capo e un lavoratore senza voce alcuna nella gestione (propria dell’impresa for profit), ma l’associazione su basi di eguaglianza degli stessi lavoratori che possiedono collettivamente il capitale con cui essi svolgono le loro attività e che sono diretti da manager nominati e rimossi da loro stessi319, concludendo nello stesso capitolo che “se l’umanità intende continuare a progredire la forma predominante del fare impresa dovrà essere quella cooperativa”. “La libertà di scelta e di autogestione” per Mill avrebbe quindi dovuto rappresentare uno dei presupposti validi per contribuire al conseguimento della felicità umana, perché oltre ad un certo livello di benessere, la libertà diventava un bene “superiore” che poteva contribuire alla felicità. L’impresa cooperativa era perciò destinata a sopraffare l’impresa capitalistica perché, prima o poi, la gente avrebbe preferito la libertà piuttosto che la sottomissione ai proprietari dei mezzi di produzione. Il capitale doveva perciò diventare strumentale rispetto al lavoro, e non viceversa. In contrapposizione alla scuola classica di questi primi economisti, si collocava il pensiero del francese Leon Walras320, uno dei tre capostipiti dell'economia marginalista (assieme a W.S. Jevons e 318 319 320 John Stuart Mill (1806 –1873) è stato un filosofo ed economista britannico. Definito da molti come un liberale classico, la sua collocazione in questa tradizione economica è controversa per lo scostamento di alcune sue posizioni dalla dottrina classica favorevole al libero mercato. L’opera più importante della produzione milliana, I Principi di economia politica espongono il problema della divisione tra la produzione e la distribuzione della ricchezza, affrontato con la fusione tra l'idea liberale e quella socialista della distribuzione. Mill auspica che il criterio utilitaristico (ereditato dal maestro Bentham ) del “maggior benessere per il maggior numero” sia sufficiente per applicare le riforme necessarie per una più equa distribuzione della ricchezza. Per approfondimenti cfr. Mill J.S., 1848 e in italiano Utet, Torino, 1983. Per approfondimenti cfr. PJ. S .Mill, 1952 (terza edizione). Marie Esprit Léon Walras (1834- 1910) considerato da Joseph Schumpeter "il più grande di tutti gli economisti", è stato il fondatore della scuola economica di Losanna, diventata famosa sotto la guida del suo discepolo italiano, l'economista e sociologo, Vilfredo Pareto. . 127 C. Menger) e "padre" della prima formulazione completa della teoria sull' equilibrio economico generale dello scambio e della produzione321. Partendo dalla teoria del valore, ossia dal principio della determinazione dei prezzi in base all' utilità marginale322 (rareté), arrivò a dimostrare che, in condizioni di concorrenza perfetta, è possibile determinare un sistema di prezzi d’equilibrio, che può consentire di raggiungere l’eguaglianza tra la domanda e l'offerta in tutti i mercati, nonché l’eguaglianza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita per ciascun bene e per ciascun imprenditore323. Con questa ipotesi, veniva eliminato il mistero della cd. “mano invisibile” proposto da Smith e dai classici, in cui l’equilibrio del mercato si raggiungeva in due stadi, ossia con la dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio e poi con la dimostrazione del modo per raggiungerlo attraverso l'intervento pubblico. Con Walras324 i due stadi diventavano uno solo e la dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio incorporava anche il come arrivarvi, con la conseguenza che la “mano invisibile” non era più necessaria. Nel corso dei suoi studi, a cavallo fra la filosofia morale e l' economia, dedicò ampio spazio anche al nascente movimento cooperativo in Francia e in Europa e dai suoi scritti325 emerse un atteggiamento favorevole nei confronti di questa categoria d'impresa, specie quando intravide in questa forma associativa una modalità produttiva avanzata e del tutto innovativa, capace di combinare capitale e lavoro in modo da permettere una distribuzione delle risorse favorevole alla classe dei lavoratori. Le associazioni popolari (denominazione iniziale delle cooperative francesi) furono da lui identificate come la migliore formula per “portare i lavoratori alla proprietà del capitale attraverso il risparmio”. Alfred MARSHALL326, padre della teoria dell’equilibrio economico parziale327 è una figura chiave 321 322 323 324 325 326 327 Walras fu il primo economista ad esporre la funzione di domanda delle preferenze individuali del consumatore. L'utilità marginale è l'incremento di utilità conseguente ad un aumento nel consumo di uno dei beni: con questa definizione Walras fornisce la prima completa e coerente teoria dello scambio fondata sulla funzione di utilità marginale di ciascun soggetto rispetto a ciascun bene. Con Walras l'utilità marginale diviene così il punto di partenza per la teoria dell'equilibrio economico generale. A questo proposito affermerà che “certamente il capitalismo postula e garantisce il libero mercato ma non è vero il contrario”, come dimostrerà, a livello teorico, con il suo modello dell’equilibrio economico generale. Per approfondimenti cfr. Walras L., 1847. Walras L., 1847 ; tradotto in inglese 1854, 1899 (4th ed).; 1926 ( rev ediz.); 1896 ; 1898. Per approfondimenti cfr.Walras L., 1865. Alfred Marshall (1842 –1924) si laureò in matematica all'Università di Cambridge dove successivamente proseguì la carriera accademica, divenendo professore di politica economica (nel 1868). E’ stato uno dei più influenti economisti del suo tempo. Negli anni Settanta scrisse alcuni trattati sul commercio internazionale e sui problemi del protezionismo. Nel 1879 buona parte di tali lavori fu assemblata in un unico testo intitolato The Pure Theory of Foreign Trade: The Pure Theory of Domestic Values(Teoria pura del commercio estero: teoria pura del valore nazionale) e, sempre nello stesso anno, pubblicò, insieme alla moglie Mary Paley Marshall, il testo The Economics of Industry (Economia industriale). Marshall desiderava migliorare le basi matematiche dell'economia, rendendola una scienza rigorosa senza però che la matematica complicasse troppo l'economia, rendendola non fruibile per il profano. Pertanto 128 per comprendere il ruolo economico della cooperazione nel tentativo di conciliare l'analisi marginalista con quella classica. Studiò, infatti, l'equilibrio di mercato di un bene 328 proponendo l'importante idea che l'aggiustamento verso l'equilibrio avveniva in modi diversi a seconda del tempo a disposizione delle imprese per ristabilire tempi e quantità. Poi riprendendo le teorizzazioni di J.S. Mill pose in luce da un lato, la possibilità dell’impresa cooperativa di formare unioni eccellenti e, dall’altro, la sua capacità di stimolare il pieno utilizzo delle capacità lavorative degli individui, mettendo in evidenza il potenziale potere emancipativo delle cooperative nei confronti delle classi operaie. In particolare nel piccolo e molto poco noto saggio intitolato Cooperation329 (1889) egli approfondiva due punti di forza330 dell’impresa cooperativa: 1) la capacità di favorire la “formazione di esseri umani eccellenti”; 2) la facoltà di concorrere alla piena utilizzazione della capacità di lavoro degli individui. Sulla base di questi elementi sosterrà che, nel lungo periodo, l’impresa cooperativa avrebbe potuto soppiantare l'impresa lucrativa e rimanere la forma produttiva dominante. Questa sua deduzione si basava sulla constatazione che il modello produttivo capitalistico era fondato sullo spreco e, in particolare, sullo spreco del lavoro perché creava disoccupazione ossia un ingente inutilizzo di risorse umane. Di conseguenza, nel lungo periodo, le imprese che, per una ragione o per un’altra, non avrebbero potuto garantire livelli di occupazione ottimali, sarebbero state automaticamente sostituite da quelle che avrebbero saputo rimpiazzare le risorse sprecate331. Concludendo, nel futuro la società si sarebbe ribellata allo spreco del capitale umano, attraverso la sostituzione delle tradizionali tipologie d’impresa. Accanto a queste peculiarità, certamente favorevoli al settore cooperativo, enuncerà un importante punto di debolezza delle cooperative, sintetizzabile nella carenza di leadership della sua dirigenza, ossia con l'osservazione della mancanza di una gestione manageriale (il maggiore punto di forza dell’Impresa capitalista), ancora oggi elemento di criticità delle imprese cooperative. 328 329 330 331 semplificò i suoi scritti in modo da renderli comprensibili a tutti ed espose le formule matematiche delle sue teorie in nota e in appendice. Marshall raggiunse l'equilibrio di mercato di un bene mediante l'intersezione di una curva di domanda, (derivata dalle preferenze dei consumatori) ed una di offerta (costruita sulla base della tecnologia delle imprese). Il suo libro più famoso, alla base dell'economia politica neoclassica rimane il testo dei Principi di economia (1890), dove espone in maniera coerente i concetti di domanda e offerta, utilità marginale e costo di produzione. Per approfondimenti cfr. Marshall A., 1889. Nella cooperativa, infatti, il lavoratore non produce per altri ma per se stesso e ciò libera enormi capacità di lavoro scrupoloso e di più alto livello, che il capitalismo comprime. Aveva anche osservato che nella storia del mondo vi è un fattore, tanto più importante di tutti gli altri, che ha diritto di essere chiamato il prodotto sprecato: le migliori capacità lavorative di gran parte delle classi lavoratrici. 129 2. L’approccio di C. Marx alle cooperative. J. Stuart Mill, come anzidetto, aveva dato risalto all’associazionismo (considerato un miglioramento del benessere umano), per la sua capacità di poter transitare pacificamente da una lotta di classe332 ad una amichevole collaborazione, consentendo il perseguimento di un bene comune a tutti. Queste considerazioni colpirono Marx che iniziò a credere che la nascita delle cooperative avrebbe potuto consentire la fine del capitalismo e l’avvio di un nuovo sistema di produzione, con imprese autogestite dai lavoratori (sistema da lui auspicato), per togliere ai padroni la facoltà di sfruttare il lavoro altrui. E, per qualche tempo, Marx sembrò effettivamente convinto che le cooperative avrebbero potuto soppiantare le imprese di capitali. Si trattava delle cooperative di produzione, organizzate in modo che i lavoratori potessero diventare “i capitalisti di se stessi” e dove, di conseguenza, i proprietari del capitale non avrebbero più avuto il potere assoluto di decidere sull’attività produttiva, poiché l’impresa sarebbe stata regolata dalla democrazia economica. I principi di democrazia e di uguaglianza tra i lavoratori che regolavano le cooperative, diventeranno per lui i necessari presupposti per poter creare una valida alternativa alle imprese di capitali; in realtà, si trattava di tematiche ricorrenti in quel periodo, che rimaneva caratterizzato dalla generale speranza di una nuova società, che avrebbe dovuto abolire ogni forma di proprietà privata e l’alienazione dal lavoro industriale333. Ma, a partire dalla metà del 1870, il movimento cooperativo inizierà a registrare una serie di fallimenti, interpretate da Marx come l’incapacità dei lavoratori di gestire le imprese e causa del suo abbandono degli studi e dell'interesse verso le imprese cooperative. Quest'ultimo orientamento influenzerà, nel periodo successivo, anche i suoi seguaci tanto che i marxisti hanno sempre dedicato poca attenzione e scarsa fiducia al movimento cooperativo. 3. Il Marginalismo. Questa corrente del pensiero economico (sviluppatasi tra il 1870 e il 1890) nonostante l' iniziale posizione di neutralità nei confronti del comparto cooperativo, come vedremo ha poi dato un contributo all'analisi economica del movimento cooperativo. La teoria dell’equilibrio economico dei marginalisti334 (di cui Walras e Pareto sono stati tra i sostenitori più noti) teorizzava 332 333 334 Il mercato a lui contemporaneo era gestito dalle corporation,,centralizzate e autocratiche, dove i lavoratori venivano sottomessi ad una organizzazione gerarchica, in cambio di un salario certo. Marx denuncia l'alienazione del lavoro industrializzato che influenza il rapporto dell'operaio con il prodotto del suo lavoro, un prodotto a lui estraneo, che non gli appartiene mentre è di esclusiva proprietà del capitalista per il quale lavora. Con l'alienazione dal lavoro l'uomo é privato anche del suo benessere sociale. Per approfondimenti cfr. Manoscritti economico-filosofici, 1844. La metodologia marginalista (a differenza di quella classica che ritiene fondamentale lo studio della crescita) incentra la sua analisi sull'equilibrio e sulla ricerca di una metodologia per l'efficiente 130 gli “ottimi” paretiani, ossia un’unica posizione di equilibrio in mercati in concorrenza perfetta, un equilibrio economico naturale raggiunto in maniera “meccanica” che avrebbe potuto consentire di raggiungere il massimo benessere sociale, indipendentemente dal contesto istituzionale, dalle strutture produttive e dalle categorie di impresa operanti. In altre parole, il marginalismo si occupa di individuare le scelte ottime dei soggetti economici, assumendo un atteggiamento di indifferenza nei confronti della tipologia di azienda prevalente sul mercato. Questa posizione di neutralità verrà successivamente ribaltata da un rappresentante italiano del marginalismo, ossia da M. Pantaleoni335 ed ancora più dal suo allievo Vilfredo Pareto336, più conosciuto come il padre del principio “80/20” sintetizzabile nell'affermazione: “la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause337“ (sulla base della legge dei grandi numeri). L'impostazione teorica paretiana era fondata sul tentativo di trasferire il metodo sperimentale delle scienze fisiche nella scienza economica, con il conseguente uso della matematica, approccio che ha poi dominato tutto il Novecento. Il principio base della moderna economia del benessere è, infatti, l'ottimo paretiano 338 e con Pantaleoni sostiene che democrazia339 ed uguaglianza non sono di esclusivo appannaggio delle cooperative perchè possono essere conseguite in tutte le strutture economiche, a prescindere dal settore di appartenenza. L' incapacità di Pantaleoni e Pareto di evidenziare il connotato democratico come specificità della formula cooperativa sarà successivamente interpretata quasi come una sorta di 335 336 337 338 339 allocazione delle risorse. A titolo esemplificativo, veniva supposto che “se la società è organizzata razionalmente, il salario deve sempre e comunque essere eguale alla produttività marginale del lavoro”. Maffeo Pantaleoni (1857-1924), economista ed uomo politico italiano (senatore viene nominato presidente del Comitato per le Economie nel 1923 ), aderì alla teoria marginalista del valore e si rifece ai teorici dell’utilità marginale. Occasionalmente si fa riferimento a lui come il Marshall italiano per la sua accanita difesa della politica economica del laissez-faire. Il suo primo lavoro sulla "Teoria della pressione tributaria" ed i "Principi di economia pura" (1889, tradotti in varie lingue), sono opere magistrali che segnano passi decisivi nel campo della scienza economica. Gli "Scritti vari di economia" contengono invece saggi storici, di economia pura, di sociologia generale, di economia applicata e di finanza. Per approfondimenti cfr. Pantaleoni M., 1882; 1884; 1889; 1898; 1925. Vilfredo Pareto (1848-1923) dopo un periodo trascorso come ingegnere straordinario presso la Società anonima delle strade ferrate (a Firenze) divenne (nel 1880) direttore generale della Società delle ferriere italiane (a San Giovanni Valdarno) e frequentò i circoli culturali fiorentini. Con articoli su riviste italiane e europee partecipò poi al dibattito politico sulle posizioni economiche liberiste ed anti-protezionistiche. Nel 1890 collaborò al “Giornale degli economisti”, testata acquistata da Pantaleoni assieme ad alcuni amici, la massima rivista scientifica di economia ed anche la più signifixcativa e prestigiosa dell'epoca. Nel 1894 fu nominato professore ordinario di economia politica all'Università di Losanna, dove prima di lui aveva insegnato Léon Walras. L’affermazione deriva dalla sua osservazione della curva di distribuzione del reddito caratterizzata dal fatto che man mano che aumenta il reddito il numero dei percettori diminuisce. L'ottimo paretiano cioè non tanto una situazione in cui l'utilità della società è massima quanto una situazione in cui non è possibile migliorare la condizione di un individuo senza peggiorare quella di un altro. Secondo Pareto la democrazia intesa come governo popolare è solo un "pio desiderio" poiché clientelismo e consorterie non sono, infatti, una degenerazione della democrazia ma la sua realtà perchè“…ci sarà sempre chi, stringendo un patto con le élites al potere, ne trae personale beneficio a scapito degli altri”. Per approfondimenti cfr. Pareto V., 1897; 1902; 1906; 1921. 131 debolezza di questo segmento produttivo, che ha però dato lo spunto per l'avvio di un filone autonomo di studi economici sulla cooperazione. 3.1. Il modello teorico di Ward. B. Ward (1958) costruì il primo schema di riferimento teorico per esprimere il comportamento dell’impresa cooperativa. e, in un noto articolo argomentò: “mentre l’impresa capitalistica tende a massimizzare il profitto totale, l’impresa cooperativa (o autogestita) tende a massimizzare il reddito medio per ciascun lavoratore”. La sua riflessione si sofferma in particolare sulle cooperative di produzione”, ossia sulle imprese controllate interamente dai lavoratori (escludendo a priori le altre categorie), che perseguono l’obiettivo di massimizzare il surplus del lavoratore. I risultati analitici di Ward si riferiscono ad un mercato in concorrenza perfetta e al breve periodo, in cui opera un’ impresa con le seguenti caratteristiche: 1. produce, ceteris paribus, un più basso ammontare di output (rispetto all’impresa capitalistica); 2. presenta una funzione di offerta inclinata negativamente (“perversa”); 3. di conseguenza, assume un comportamento atipico, cioè ad un aumento dei costi fissi aumenta la produzione340 mentre a fronte di una diminuzione dei costi fissi diminuisce la produzione341 Questi vincoli sono applicati sotto l’ipotesi che l’input lavoro sia la variabile di scelta dell’impresa cooperativa (e che il lavoro coincide con la “base sociale”); in altri termini e secondo le classiche assunzioni marshalliane, il capitale è fisso e il fattore lavoro è variabile. Nel rispetto di queste condizioni preliminari, nel modello teorico di Ward la cooperativa riesce a realizzare i seguenti risultati: 1. L’impresa cooperativa produce un ammontare di produzione inefficiente in senso allocativo (viola l’eguaglianza tra prezzo e costo marginale); _ 340 341 2. reagisce in modo perverso agli shock di mercato. Ne deriva che, a seguito di un aumento del costo del capitale, si registra l’aumento dell’offerta dell’impresa e dell’occupazione, per la convenienza della cooperativa a ripartire i maggiori costi su un numero più alto di lavoratori. Quindi, a seguito di un aumento del prezzo del prodotto si ha la riduzione dell’offerta dello stesso: nei periodi di espansione del mercato i soci dell’impresa avranno, infatti, convenienza a ridurre il numero dei lavoratori, allo scopo di aumentare il loro reddito medio. Per approfondimenti cfr.Zamagni S., 2006. 132 Ma ad una verifica empirica le cooperative tendono a trattare il fattore lavoro come fisso nel breve periodo e ad adeguare i redditi alle fluttuazioni del prezzo e della quantità domandata del prodotto. I risultati analitici del modello di Ward non sono perciò verificabili da un punto di vista operativo e in ciò il limite del modello (nel breve periodo il fattore lavoro cooperativo non è fisso). Nonostante questa limitazione, la teoria economica di Ward sul settore cooperativo ha contribuito ad avviare un gran numero di ricerche che metteranno in luce le molte differenze tra cooperative ed imprese di capitali. Fra queste, degno di nota il recente contributo di Hansmann (1996), che tenta di precisare la distinzione tra cooperative, società per azioni342 ed enti no profit343 e perviene alla conclusione che la cooperativa, rispetto all’impresa di capitali, si caratterizza per l’attribuzione dei diritti di proprietà ai lavoratori (e non ai detentori del capitale di rischio344). Giunge perciò alla conclusione che, nel mercato moderno, esistono due tipologie di imprese alternative alla tipica società per azioni: la cooperativa e l'impresa no profi, sebbene ci siano delle imprese (non pure) che presentano un mix caratteriale proprio dell’una e dell’altra tipologia. Il capitalismo, comunque, è quella particolare forma di proprietà che trova la sua legittimazione nel principio e nel rispetto dell’efficienza del mercato, mentre l’impresa cooperativa trova la sua giustificazione nel valore della libertà dell’uomo. E' proprio Hansmann a dimostrare che la presenza delle cooperative è superiore nelle economie più capitalistiche e più ricche mentre non sono molto diffuse nelle economie o nei settori sottosviluppati. 4. La letteratura economica cooperativa in Italia. Il movimento cooperativo italiano ha tratto molti stimoli dalle esperienze europee, per iniziativa di un’ampia cerchia di intellettuali, appartenenti al mondo dell’accademia e delle professioni345. Fra questi, Mazzini346, Wollemborg347, Luzzatti348 e 342 343 344 345 346 347 348 La distinzione tra una cooperativa e una società per azioni è che la proprietà di una cooperativa è riservata a tutte le persone che trattano con l’impresa (ad esempio consumatori o venditori), mentre la seconda è di esclusiva proprietà dei soci di capitale. Un ente no profit, contrariamente alle altre due categorie al contrario, non appartiene a nessuno. Infatti, a ben vedere una società capitalistica è una cooperativa di persone che forniscono capitale all’impresa, cioè una cooperativa di capitalisti. Per approfondimenti cfr. Hansmann H., 2006. Per approfondimenti cfr. Museo virtuale della cooperazione (www.movimentocooperativo.it) Giuseppe Mazzini (1805-1872) è stato un patriota, politico e filosofo italiano. Come noto, le sue idee e la sua azione politica contribuirono in maniera decisiva alla nascita dello Stato unitario italiano ed influenzarono i movimenti europei per l'affermazione della democrazia realizzabile attraverso la forma repubblicana dello Stato. Leone Wollemborg (1859–1932) economista e politico contribuì notevolmente (alla fine dell'Ottocento) alla diffusione in Italia dell'idea cooperativa . Luigi Luzzatti (1841–1927) giurista ed economista italiano e Presidente del Consiglio dei Ministri (dal 133 Viganò, appartenenti alla corrente liberale, che proporranno le cooperative come una valida alternativa al capitalismo, per la loro capacità intrinseca di conciliare capitale e lavoro e realizzare una sorta di giustizia sociale349 (come avevano già pensato gli economisti classici). Mazzini350, ad esempio, per salvaguardare l'economia e allo stesso tempo per tutelare i più poveri, puntava sul lavoro cooperativo perché poteva consentire all'operaio di rinunciare al dividendo in cambio della "piena responsabilità e proprietà sull'impresa" e realizzare così il superamento del capitalismo imprenditoriale classico (in senso sociale). Nella sua ottica la cooperazione non era infatti solo uno strumento di “pacificazione sociale” (ossia di generico miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari, secondo la dottrina liberale) ma assumeva la valenza di una “rivoluzione sociale”, in stretta connessione con la formula “libertà e associazione351 ”. Le cooperative di produzione e lavoro e quelle di consumo352 di stampo mazziniano si diffusero maggiormente in Liguria e in Toscana, meno in Lombardia. La grande stagione degli studi cooperativi in Italia continuò raggiungendo il suo culmine nell’età giolittiana con Gramsci353, il grande politico e teorico marxista che puntava molto sul ruolo dei consigli di fabbrica (organi di educazione alla gestione), come laboratori per rendere gli operai meglio preparati all’esercizio del potere. In quegli anni in Italia le rivendicazioni salariali, rese necessarie per la perdita del potere d'acquisto dei lavoratori per un elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali, ed avevano scatenato numerose manifestazioni di rivolta da parte della classe operaia. Tra queste, la più eclatante la serrata dell'Alfa Romeo (a Milano nel 1920) con l'occupazione di 300 fabbriche per iniziativa di mezzo milione di operai354, alcuni dei quali armati, seppure in modo rudimentale. Intanto alla FIAT di Torino l'operaio 349 350 351 352 353 354 31 marzo 1910 al 29 marzo 1911) è stato il fondatore della Banca Popolare di Milano e presidente dello stesso istituto di credito (dal 1865 al 1870). “La logica della politica è logica di democrazia e di libertà e la Repubblica garantirà l'istruzione popolare”, per approfondimenti cfr. Mazzini G., Dei doveri dell’uomo, capitolo undicesimo, Questioni economiche, 1860. Mazzini sarà un avversario del marxismo dato che i socialisti ragionavano per gli interessi del proletariato mentre in base alle idee mazziniane, era arbitrario ed impossibile pretendere l'abolizione della proprietà privata, poiché si sarebbe dato un colpo mortale all'economia che non avrebbe più potuto premiare i migliori. Con questo approccio Mazzini riuscirà ad anticipare sia le più moderne teorie economiche della distribuzione della ricchezza sia la corrente repubblicana e socializzatrice del fascismo che avrà infatti in Mazzini uno dei suoi padri fondatori. La cooperazione di consumo, per il suo carattere di strumento di miglioramento immediato delle condizioni economiche dei lavoratori, fu la forma cooperativa che si diffuse più velocemente. Antonio Gramsci (1891–1937) è stato un politico, filosofo e giornalista, considerato uno dei più originali pensatori della tradizione marxista e fondatore del partito comunista italiano. La Federazione Impiegati e Operai Metallurgici appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale ed estrema iniziativa potesse stimolare l'intervento del Governo per giungere ad una soluzione delle trattative. 134 comunista Giovanni Parodi e i consigli di fabbrica decisero di impossessarsi della produzione per tentare di dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche solo con gli operai e con l' assenza dei proprietari355. Il fallimento di questa protesta e la necessità dell' intervento del Governo per raggiungere un accordo salariale tra operai ed industriali, misero in evidenza l'impossibilità di realizzare l’autogestione dei lavoratori e l'impellenza della loro formazione professionale. 5. Le moderne teorie economiche: felicità, benessere e cooperazione. La letteratura economica tradizionale ha sempre continuato a vedere nella cooperazione una tipologia di impresa con un ruolo di sostegno all'economia solo in particolari situazioni di crisi del mercato poiché ritenuta, dagli economisti classici ed anche dai più moderni (tra cui Hansmann) un’azienda “meno efficiente” dell’impresa di capitali e con meno vantaggi competitivi. Secondo questi autori legati all'impresa profit, la mancanza dell’obiettivo prioritario del perseguimento del profitto e della sua massimizzazione, implicherebbe un' inevitabile inefficienza dell'impresa cooperativa, relegandola ai margini del mercato e limitando le sue possibilità di svilupparsi nel tempo. Queste congetture saranno smentite nei tempi più recenti da un filone letterario che tenterà di dimostrare lo stretto legame che intercorre tra economia del benessere ed efficienza della cooperazione. Queste considerazioni scaturiscono dal seguente recente approccio, in chiave economica, alla felicità. Nel passato, la letteratura economica dei paesi avanzati non affrontava il tema dei possibili collegamenti tra indicatori economici e sociali, ossia non aveva tentato di interpretare la correlazione tra la felicità degli individui (relegata ai confini della filosofia e delle scienze sociali) ed i parametri relativi alla distribuzione della ricchezza o al livello del reddito. A livello di ricerca scientifica inoltre, a parte alcuni sporadici approcci che non avevano condotto ad alcun risultato teorico, era sempre stata data particolare enfasi all'aspetto prettamente quantitativo della ricchezza delle famiglie, considerato e frainteso come il solo e diretto motivo del benessere della società. Cerchiamo quindi di spiegare le nuove frontiere del legame fra felicità ed economia. Come dicevamo, solo in questi ultimi anni è stato teoricamente dimostrato che la felicità degli individui non è solamente e semplicemente correlata alla soddisfazione dei bisogni economici (strettamente 355 Alla fine di settembre un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine alla occupazione delle fabbriche, dimostrando sia la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti che l'impreparazione degli stessi operai ad iniziative rivoluzionarie, per i quali fu richiesta maggiore organizzazione e disciplina. 135 dipendenti dal livello del reddito) ma anche ad altri elementi di carattere sociale, e quindi di natura qualitativa, che contribuiscono al raggiungimento del benessere individuale356 (ad esempio il tempo libero, l’ amicizia e la vita familiare). Si tratta di quei fattori, finora ricompresi nei modelli economici tradizionali fra le “esternalità” del mercato (ossia fra gli elementi esogeni), che invece il settore cooperativo ha da sempre riconosciuto come bisogni da soddisfare (come ad esempio la certezza e la stabilità del lavoro, la solidarietà, l'inclusione sociale, ecc.), anche per potere alleviare le inefficienze create dalle imprese di capitali e dalle multinazionali (ad es. la disoccupazione) che hanno recentemente condotto ad un inasprimento delle disuguaglianze economiche e sociali. Tra gli economisti che si sono recentemente accostati a questo approccio, studiando il legame tra fattori economici e sociali357 c' è il premio Nobel A. Sen358 che, a fronte degli innumerevoli indicatori per cogliere il nesso tra economia e benessere sociale, ha suggerito l'adozione dell’Indice di Sviluppo Umano (ISU), un indicatore che analizza lo sviluppo economico verificando il miglioramento qualiquantitativo delle condizioni di vita359 anzichè attraverso l'esclusiva osservazione dell' aumento del reddito (come le precedenti ipotesi sulla crescita360. Ed è proprio l'attenzione rivolta alla qualità piuttosto che alla quantità che caratterizza gli studi di Sen361 che, partendo da un esame critico dell'economia del benessere ricava un indice di povertà (largamente usato in letteratura sin dal 1977) ed introduce la teoria dell'eguaglianza e delle libertà362 un approccio radicalmente nuovo allo studio del mercato. In estrema sintesi, propone di studiare la povertà, la qualità della vita e l'eguaglianza tra i cittadini non solo attraverso i tradizionali indicatori sulla disponibilità, da parte 356 357 358 359 360 361 362 Per approfondimenti cfr. Arthur Cecil Pigou (1932) dal quale deriva il concetto di “economia del benessere”, ossia la disciplina che studia le ragioni e le regole dei fenomeni sociali, al fine di formulare soluzioni per poter raggiungere situazioni di ottimo benessere. Sempre nell’ambito dell’economia del benessere, un altro approccio ha dimostrato che lo sviluppo del reddito ha causato la riduzione dei legami familiari, quindi una perdita del benessere sociale (Lane, 2000). In base a questa teoria, man mano che il livello di reddito di una nazione è cresciuto, soddisfacendo sempre più la domanda di mercato di beni/servizi, ha contemporaneamente provocato il deterioramento delle relazioni interpersonali, perché la crescita della competitività e del tempo da dedicare al lavoro ha ridotto il tempo da dedicare ad altre attività personali. Amartya Kumar Sen (1933) è un economista indiano che ha ricevuto il Premio Nobel per l'economia nel 1998 per aver adottato un approccio teorico allo sviluppo economico che ha definitivamente superato i limiti delle precedenti analisi sulla crescita economica. L’ISU da lui calcolato a livello mondiale, che sintetizza le tre dimensioni del benessere umano (reddito, istruzione e salute), è risultato più alto nei paesi con bassi redditi ma con alti livelli di scolarizzazione e minori tassi di mortalità infantile rispetto ai paesi con redditi pro-capite molto più elevati (nell’ultimo decennio l’ISU è cresciuto in tutti i Paesi in via di Sviluppo, ad eccezione dell’Africa sub-sahariana,). Il caso più eclatante si può ricondurre all’eccezionale crescita del reddito pro-capite cinese (dai 1.000 ai 6.000 dollari, corretto in termini di parità di potere di acquisto) che non è stata accompagnata da una evoluzione del tenore di vita, perché all’esplosione economica non è corrisposto il miglioramento sociale della popolazione. Per approfondimenti cfr. Sen, A. K., 1970; ID., 1971. In particolare, Sen ha proposto le due nuove nozioni di capacità e funzionamenti come misure più consone per valutare la libertà e la qualità della vita degli individui. 136 dei consumatori, dei beni materiali (ricchezza, reddito o spesa per consumi) ma, soprattutto, estrapolando i fattori che possono sintetizzare situazioni ed esperienze a cui l'individuo attribuisce un valore positivo. Non solo, quindi, la possibilità di nutrirsi e di avere una casa adeguata ma anche le condizioni imposte dalla società per essere rispettati dai propri simili, per poter partecipare alla vita della comunità, per concedersi degli svaghi, ecc. Partendo da queste premesse e tentando di intersecare l'economia del benessere con il recente ruolo assunto dalle cooperative nel mercato italiano, tenteremo quindi di evidenziare le ipotesi che sottostanno alla corrente letteraria che coglie e sostiene il contributo positivo delle cooperative al benessere sociale intaccato, nei tempi moderni, dalle dinamiche e dalle brutture tipiche del capitalismo. Vogliamo, cioè, fare riferimento alle seguenti situazioni: 1. il ruolo della cooperazione quando la concorrenza ha implicato una sempre maggiore sottomissione dei lavoratori alle esigenze dei capitalisti; 2. il ruolo della cooperazione nei casi in cui il maggior livello del reddito non ha contribuito ad eliminare o ridurre la disoccupazione; 3. il ruolo della cooperazione tutte le volte che lo sviluppo economico è stato accompagnato da un accrescimento delle disparità economiche e sociali piuttosto che da una distribuzione del reddito più equa . E' facilmente dimostrabile empiricamente che le tre situazioni sopraelencate, certamente assimilabili alle contemporanee insoddisfazioni della società moderna e causate dagli eccessi del capitalismo, sono state stemperate (a volte tendendo a scomparire) con l'insediamento dell'impresa cooperativa, ossia con un modello di impresa alternativo al capitalismo. Vediamo allora come si perviene teoricamente a queste conclusioni. Anche nel passato, infatti, alcuni economisti classici erano intervenuti sul tema degli effetti positivi della cooperazione sulla felicità (cfr. Cap. 1), intravedendo in questa categoria produttiva una sorta di correttore degli squilibri dei mercati, sebbene in maniera marginale e senza troppa convinzione. Il contemporaneo perseguimento degli obiettivi economici e sociali delle imprese cooperative rappresenterà poi il punto di partenza degli approcci teorici successivi, nella consapevolezza che il benessere dell'individuo è una commistione tra soddisfazione economica ed individuale. A rafforzare questa ipotesi aveva anche contribuito, a suo tempo, la divergenza tra la teoria filosofica del materialismo 363 (per il quale l’individuo si 363 Il materialismo è la concezione filosofica per la quale l'unica realtà è la materia e tutto deriva dalla sua continua trasformazione; ciò sostanzialmente vale a dire che tutte le cose hanno una natura materiale, ovvero che il fondamento e la sostanza della realtà sono materiali. Il maggiore esponente delle teorie materialiste C. Marx sosteneva che in realtà le modalità di produzione potevano condizionare, in vario 137 realizzava di più se gratificato dal lavoro, piuttosto che soddisfacendo la propria domanda di beni di consumo) e la corrente del liberismo economico (in base alla quale rimaneva prioritaria una certa disponibilità economica per soddisfare l’acquisto dei beni di consumo). La disputa tra i sostenitori della felicità individuale nei momenti liberi dal lavoro e della felicità individuale intrinseca allo svolgimento del lavoro per raggiungere una maggiore disponibilità economica (la moderna teoria della personalità) è sopravvissuta fino ai nostri giorni364. Passando alle interpretazioni successive, degno di nota può essere il riferimento a Keynes365 che in base alla sua visione non materialista della personalità, considerava la felicità individuale correlata ai momenti più intimi della attività umana (es. lo studio, gli hobby, le attività artistiche, ecc.). Ne conseguiva che l’uomo si realizza soprattutto nel tempo libero o meglio, durante lo svolgimento di questa attività più nobili (es. rapporti di amicizia): da questa convinzione scaturiva la sua critica al capitalismo, visto come un sistema basato sull’egoismo (poiché l’intensità e la durata del lavoro non erano scelti liberamente né dai lavoratori né dai datori di lavoro, ma sottoposti alle condizioni di competitività dell’impresa366) e il suo avvicinamento al socialismo367. Il ritmo di lavoro imposto dall’impresa di capitali creava, infatti, una condizione lavorativa di sfruttamento dell' operaio che solo una gestione democratica dell’impresa avrebbe potuto ridurre, ossia l’unica organizzazione del lavoro che prevedeva la libera scelta del lavoratore tra orario di lavoro e tempo libero. Da questa osservazione discendeva che le cooperative, essendo basate su di una gestione che non richiedeva uno sforzo esasperato del singolo lavoratore, creavano un ambiente meno competitivo, evitando ai lavoratori di doversi sacrificare oltre un livello normale. Di conseguenza, nelle imprese di capitali si 364 365 366 367 modo, la vita sociale e spirituale dell’uomo. In base ai processi evolutivi, tra l’altro, il successo e la felicità non nascono da comportamenti tendenti alla massimizzazione del piacere ma dall’apprezzamento degli altri, che deriva da un lavoro ben fatto. Di conseguenza, in base a questa teoria che dà importanza ai beni relazionali (come anche Marx), la felicità umana derivava da una buona organizzazione dell’attività produttiva (da scelte collettive) piuttosto che dal consumo (scelte private). John Maynard Keynes (1883–1946), considerato il padre della moderna macroeconomia, ha dato origine alla "rivoluzione keynesiana" che, in contrasto con la teoria economica neoclassica, ha sostenuto la necessità dell'intervento pubblico nell'economia con misure di politica monetaria. Le sue idee sono state sviluppate e formalizzate nel dopoguerra dagli economisti della scuola keynesiana. La convinzione che l’uomo deve essere libero di scegliere tra lavoro e svago, sapendo ovviamente che solo il lavoro consente di guadagnare, verrà poi collegata alla convinzione che il lavoro fatto alle dipendenze altrui rende il lavoratore non molto diverso da uno schiavo. Il rapporto tra Keynes e Marx è stato controverso e il primo giudicò sempre Marx e la sua dottrina in maniera molto critica. Nel criticare il liberismo economico, Keynes nel volume La fine del laissez-faire (1926) osserva, infatti, che i principi del laissez-faire hanno potuto avere successo tra i filosofi e le masse per la qualità scadente delle correnti alternative: da un lato il protezionismo e dall'altro il socialismo di Marx: “.....una dottrina così illogica e vuota che non si sa come possa aver esercitato un'influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia." (Keynes, 1926). Per approfondimenti cfr. John Maynard Keynes, 1991. 138 lavorava di più e si guadagnava di più, ma a scapito del tempo a disposizione del singolo per poter godere e produrre beni relazionali, mentre il lavoro richiesto nelle imprese a gestione democratica concedeva al lavoratore più ampi margini di libertà. Passando al secondo aspetto, è stato dimostrato che la gestione democratica delle imprese ha favorito (e continua a farlo) la riduzione della disoccupazione, una conseguenza del capitalismo e causa di inefficienza del mercato produttivo. Fra gli obiettivi del settore cooperativo rientra, invece, la salvaguardia del posto di lavoro e, in caso di difficoltà e di crisi dell’impresa, il tentativo di salvare l'azienda e di mantenere il posto di lavoro, creando rapporti più stabili fra lavoratori ed imprese e rafforzando il loro personale senso di appartenenza ad una struttura produttiva. Questa peculiarità di tutto il segmento cooperativo, in controtendenza rispetto all' andamento dell'impresa profit, è dimostrabile osservando i dati sull’occupazione che, negli ultimi anni, hanno registrato (come visto in precedenza) un andamento divergente rispetto alla media delle altre categorie d'impresa. Le cooperative hanno sempre dimostrato, infatti, specie in situazioni di crisi generalizzate dei mercati, di poter garantire l' occupazione. E questo è stato confermato anche recentemente, in occasione dell'ultima crisi economica mondiale scatenata lo scorso anno dal dissesto finanziario statunitense (dopo il fallimento di Lehman Brothers) e propagatosi in tutto il mondo. Ancora una volta le più recenti statistiche ufficiali disponibili hanno denunciato, infatti, che i licenziamenti in corso (alla fine del 2008 la disoccupazione potrebbe lievitare dall' 8,3% al 9,5%, vale a dire al massimo livello dal 2000) provengono dal comparto delle imprese di capitali, le più esposte e condizionate dai modelli di gestione basati sull’efficienza e quindi obbligate ad affrontare la crisi con la chiusura di molti stabilimenti e la riduzione dei dipendenti. Di contro, le imprese cooperative sono state le uniche che, nel peggiore dei casi, hanno mantenuto una situazione stazionaria, confermando di essere un segmento produttivo che “non fallisce” e non “licenzia” ed anzi contribuisce al benessere locale del mercato di insediamento ed alla tutela del mercato del lavoro. La crescita delle disparità nella distribuzione del reddito, infine, ha ampliato nel tempo le differenze economiche tra le nazioni e tra le classi sociali di uno stesso mercato e, naturalmente sono sempre stati i più poveri a pagarne le conseguenze, senza trascurare che forti disuguaglianze economiche368 potrebbero, a loro volta, generare in tensioni sociali ed azioni criminali. A questo proposito, è stato empiricamente dimostrato che democrazia economica ed autogestione dei lavoratori (con conseguente perdita di ogni potere da parte dei capitalisti) potrebbero permettere di conseguire una migliore distribuzione del reddito, dato che in economia “quanto più democratica è 368 Per J.S. Mill ,ad esempio, nel capitalismo le disuguaglianze sociali avrebbero potuto essere alleviate dall’intervento pubblico ma, a ciò, si erano fortemente opposti i condizionamenti politici che i capitalisti avevano esercitato sulla gestione della cosa pubblica. 139 la società, tanto più egualitaria tenderà ad essere la distribuzione del reddito369”. Concludendo, la cooperazione e la gestione democratica delle imprese potrebbero, teoricamente ed empiricamente, lenire alcune cause di infelicità umana indotte dal capitalismo e dalla competitività sempre più agguerrita tra multinazionali anche se con dei costi, quelli della democrazia. Questi costi derivano anzitutto dal fatto che nelle imprese democratiche i lavoratori hanno “voce” nella direzione aziendale e ciò potrebbe mettere i soci cooperatori gli uni contro gli altri, dando luogo a continui tentativi di capovolgere o di allungare i tempi per le decisioni aziendali, specie se per iniziativa di una minoranza particolarmente attiva, tanto da ostacolare il raggiungimento del consenso. Inoltre, tra le imprese di capitali il vantaggio competitivo si è finora basato prioritariamente sul crescente interesse rivolto alla produttività del lavoro ed al suo livello, facilmente identificabile e precisamente misurabile, mentre le cooperative rimangono caratterizzate da una spiccata tendenza alla omogeneizzazione (massificazione) delle prestazioni lavorative, nel senso che comportano una valutazione indistinta dei risultati raggiunti, senza la percezione dell’apporto di ciascun lavoratore370 al risultato finale, con la conseguenza di indurre il singolo ad uno scarso stimolo a fare di più e meglio degli altri (cioè ad una scarsa produttività). Anche questo è un costo figurato per il settore cooperativo nel suo complesso poiché, nei tempi più recenti, ha condotto le cooperative ad avere una dirigenza caratterizzata da scarsa managerialità e bassa leadership (come aveva già evidenziato Walras).. Alcune considerazioni conclusive. Con l’affermarsi della globalizzazione, che è causa ed effetto di un significativo cambiamento dei processi di produzione e delle prassi commerciali , ci sono state ripercussioni nella teoria economica cooperativa di cui attualmente si dispone? Per quello che interessa queste argomentazioni, per globalizzazione si deve intendere il progressivo ampliamento delle dimensioni dei mercati mondiali, a seguito dell’abbassamento dei costi di trasporto, di comunicazione e dell'informazione in genere ed alla progressiva eliminazione delle barriere tariffarie, anche a seguito dell' ampia diffusione della tecnologia informatica. A questo ampliamento ha altresì contribuito l’espansione dei mercati finanziari che, consentendo movimenti di capitale molto rapidi da un paese all’altro, ha generato una sempre maggiore integrazione monetaria tra i diversi paesi. In questo contesto evolutivo le imprese cooperative hanno affrontato il cambiamento nel rispetto delle loro tradizioni e del loro sistema valoriale, cioè mantenendo 369 370 Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2007. Se si fa meglio in cooperativa non si guadagna di più personalmente ma si porta a contributo di tutti gli altri lavoratori 140 l’equilibrio fra le leggi del mercato globale e la difesa dell’identità cooperativa. Ma, in questa competizione globale che sta esaltando, prioritariamente, i valori individuali ed i comportamenti opportunistici a scapito dell'etica aziendale e dei valori e dei diritti della collettività, esiste uno spazio per la forma cooperativa? In altri termini, è possibile conservare e difendere i valori cooperativi (democrazia e libertà, per esempio) nella nuova competizione globale? Dalla moderna teoria economica cooperativa è possibile dedurre alcuni elementi utili per dare qualche risposta. Intanto, la possibilità di salvaguardare il sistema valoriale del movimento cooperativo è legata alla consapevolezza che oggi questi valori potrebbero essere dei veri vantaggi comparati, in grado di accrescere la competitività di imprese e mercati. Oggi, infatti, si chiede sempre più al mondo imprenditoriale di legittimare l’attività d’impresa non solo in base al perseguimento del profitto ma, anche, in relazione al rispetto di un comportamento etico, ossia alla possibilità e capacità di poter spiegare le modalità con cui il profitto è stato realizzato, risultato che si può raggiungere solo se si riesce a coniugare la logica del profitto con un complesso di regole “etiche”, che esprimono i bisogni del mercato e le istanze sociali. E per il settore cooperativo questi valori coincidono con la gestione aziendale, cioè con le relazioni che, quotidianamente, la cooperativa stabilisce al suo interno e nei confronti degli interlocutori (stakeholder371), influenzando tutti i momenti decisionali372. La sempre maggiore diffusione dell'economia della conoscenza, poi, è diventata sempre più la discriminante della competizione e questo orientamento avvicina sempre più la tradizione cooperativa con i mercati. Ne consegue che, nell'attuale mercato globalizzato, il sistema identitario cooperativo e, in particolare i principi, le reti tra imprese e la fiducia condivisa opportunamente valorizzati, possono rappresentare dei punti di forza straordinariamente efficienti per veicolare l’attuale governance della conoscenza373. Infine, se la globalizzazione è riuscita a creare tanta convergenza tra i sistemi economici, nel più lungo periodo i due modelli di impresa potranno continuare a coesistere all’interno del mercato? La risposta maggiormente accreditata fa riferimento al fatto che la globalizzazione, generando un confronto diretto tra le regole del gioco stabilite dai diversi Governi, dovrebbe condurre ad una sempre maggiore concorrenza tra i sistemi produttivi, facilitando la contemporanea operatività di tutte le diverse categorie di impresa374. 371 Si tratta degli interlocutori locali dell'azienda, ossia delle organizzazioni e delle altre istituzioni che hanno rapporti di vario tipo con l'azienda. Per approfondimenti cfr. Freeman, 1993. 372 Basti pensare, ad esempio, alla mutualità cooperativa (interna ed esterna), alle stringenti relazioni con l’ambiente sociale e territoriale ed alla logica intergenerazionale per comprendere le ragioni e per affermare i tratti della specificità (diversità) cooperativa L’economia della conoscenza può consentire di contribuire alle strategie di crescita di imprese e mercati attraverso la trasmissione delle conoscenze in termini di istruzione, formazione, ricerca e sviluppo. Per approfondimenti cfr. Foray D., 2000; Rullani R., 2006. Per approfondimenti cfr. Zamagni S.-Zamagni V., 2008. 373 374 141 IV. L’ ANTICAPITALISMO DELLE IMPRESE COOPERATIVE Introduzione. La letteratura corrente e l’esperienza economica hanno mostrato che il mercato non si identifica solamente con le imprese di capitali ma anche con forme aziendali diverse, tra le quali l’impresa cooperativa che persegue, come si è detto ripetutamente, una logica diversa dalla massimizzazione del profitto. E’ perciò importante conoscere il rapporto fra l’impresa capitalistica e la cooperativa all’interno del mercato. Il mercato è propriamente il luogo dello scambio ed esiste da quando esiste la civiltà umana ma, ciò non significa che l’economia di mercato sia sempre esistita, cioè un sistema in cui la distribuzione della ricchezza prodotta dalla società avveniva prevalentemente attraverso lo scambio. Prima dell’età moderna, infatti, la produzione e la distribuzione avvenivano con il baratto ed attraverso regole dettate da consuetudini dettate dalla comunità e/o dall’autorità politica, mentre lo scambio di merci contro moneta si è affermato con l' affermazione della logica dell’impresa capitalistica. In altri termini, il mercato come luogo dello scambio esiste da sempre, cioè da quando esiste la civiltà umana, mentre l’economia di mercato, in cui la distribuzione della ricchezza è sottoposta allo scambio si è affermata con il capitalismo, ossia solo a partire dal ‘600, anche se occorrerà aspettare la rivoluzione industriale per far assurgere il capitalismo ad un modello di ordine sociale. La primordiale economia di mercato veniva regolata dai tre seguenti principi a cui si rifaceva tutta l’attività delle imprese: 1. La divisione del lavoro: principio organizzativo che consentiva a tutti (anche ai meno dotati) di svolgere attività lavorativa. “Vivere significa produrre, cioè partecipare alla creazione del bene comune e l’elemosina non aiuta a produrre”, una massima della scuola francescana, la prima vera e propria scuola del pensiero economico. 2. La priorità dell’agire economico sullo sviluppo e, di conseguenza, sull’accumulazione della ricchezza, anche per far fronte alle esigenze delle generazioni future. Da questo concetto l’organizzazione del lavoro manifatturiero e la sistematica formazione di nuove professionalità, attraverso l’apprendistato e l’incentivo al miglioramento della qualità dei prodotti. 3. La libertà dell' impresa e dell’imprenditore, ossia del lavoratore libero di 142 intraprendere un’attività senza dover sottostare ad autorizzazioni e limiti, nel rispetto della autonoma applicazione dei seguenti tre elementi: − − − la creatività; la propensione al rischio; la capacità di coordinare il lavoro altrui. Il capitalismo aggiungerà a questi 3 principi il quarto, ossia la finalizzazione di tutta l’attività produttiva alla massimizzazione del profitto, da distribuire tra tutti i fornitori di capitale in proporzione ai loro apporti. La rivoluzione industriale, quindi, ha condotto alla precisa identificazione dei conferitori di capitale ed alla loro netta separazione dai conferitori di lavoro, passando così dall’economia di mercato all' economia capitalista. Dopo queste sintetiche precisazioni, vogliamo tentare di evidenziare gli elementi che contraddistinguono l’anticapitalismo delle imprese cooperative, con il riferimento all'organizzazione interna, ossia ai rapporti di lavoro (ossia la mutualità interna375) ed alle modalità con cui queste imprese si propongono nel loro territorio di insediamento (la mutualità esterna), dato che nelle cooperative il primo elemento postula l’altro in modo stringente. Al contrario, nelle imprese di capitali questi due processi sono scollegati e rimangono circoscritti entro limiti abbastanza ampi ed indifferenti (anche se c’è possibilità di scelta tra soluzioni diverse). Per chiarire questa tipicità delle cooperative occorre quindi approfondire le seguenti variabili: - la composizione sociale, il tipo di imprenditorialità e l’ orientamento strategico, ossia gli elementi che costituiscono la soggettività dell’impresa:; - gli elementi che regolano questi rapporti economici interni all’impresa, cioè la composizione e la distribuzione del capitale e il relativo sistema di distribuzione (politico ed organizzativo); - le componenti dell’ambiente esterno, ossia la rilevanza degli stakeholder propri ed istituzionali presenti nel sistema e tra le imprese associate; - l' ambiente esterno e, in specie, le peculiarità del mercato e il contesto concorrenziale. 375 In relazione alla diversa composizione dei rapporti imprenditoriali interni, in Italia è possibile fare riferimento a due principali esperienze: la cooperativa nucleare e la cooperativa manageriale. La prima, per le sue piccole dimensioni, permette l’effettiva partecipazione di tutti i soci alle decisioni e agli utili (cioè assume una forma molto vicina all’autogestione pura); l’altra, più grande e con una organizzazione tecnico-manageriale, non consente la completa partecipazione dei soci alle decisioni dell'assemblea ed ha previsto l'istituto della delega al gruppo dirigenziale in sostituzione alla base sociale. Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006. 143 1. L’anticapitalismo nei rapporti di lavoro cooperativo. L’impresa cooperativa è considerata, per definizione e per la sua natura, anticapitalistica perché capovolge il rapporto capitale-lavoro. Mentre nell’impresa profit i capitalisti assumono lavoratori, prendono decisioni e si appropriano dei profitti, nell’impresa cooperativa i soci-lavoratori diventano imprenditori di sé stessi, prendono le decisioni più importanti per l’impresa e si appropriano solo parzialmente del surplus376 di bilancio, realizzando così il completo rovesciamento del rapporto fra i fattori capitale e lavoro. Nelle imprese cooperative è, infatti, il lavoro (o l’utente377) che acquista il capitale (contrariamente alle imprese di capitali dove il capitale acquista il lavoro): sono perciò anticapitalistiche, anzitutto, perché capovolgendo il rapporto capitale-lavoro, riconoscono come fattore aggregante la persona e non il capitale. Realizzano quindi una sorta di “neutralizzazione” del capitale, che viene relegato alla sola dimensione finanziaria, a depauperamento degli impliciti effetti del potere gerarchizzante. Questo ribaltamento implica che, nell'ambito dei rapporti di primo grado, ossia quelli fra il socio lavoratore e l’impresa, occorre fare riferimento ai diversi livelli del rapporto di lavoro ed alla loro regolamentazione. Nell’impresa di capitali pura i lavoratori sono soggetti all’autorità dell’imprenditore (ossia di colui che possiede il capitale proprio ed ottiene finanziamenti esterni): il salario è fisso ed il rapporto di lavoro è rescindibile anche nel breve termine. Di conseguenza, il rischio connesso con l’attività economica pesa interamente sul datore di lavoro così come le scelte sulla produzione, sulle assunzioni, sugli investimenti, sui prezzi e sull' organizzazione generale mentre i lavoratori devono solo assolvere alle mansioni per le quali sono stati assunti, rimanendo sottoposti ad un principio ordinatore di tipo gerarchico. La natura dell’impresa capitalista pura rimane quindi caratterizzata dal fatto centrale che i ruoli e le remunerazioni delle due parti sono nettamente distinti: attivo di bilancio e surplus di esercizio spettano al datore di lavoro e il salario fisso378 al lavoratore, in cambio dell'esecuzione delle mansioni di competenza. Il contratto di lavoro è lo strumento giuridico che regola il rapporto imprenditore-lavoratore, stabilendo gli aspetti remunerativi, le modalità della prestazione lavorativa ed anche gli obblighi reciproci. L'impresa cooperativa si costituisce, invece, a seguito di un processo di auto- imprenditorializzazione, promosso da soggetti che sono portatori di bisogni (o di specifiche risorse) e che assumono la veste di imprenditori di se stessi. La condivisione della proprietà dei mezzi di 376 377 378 Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006. Si può anche dire che la cooperativa è una struttura di persone che scelgono di non delegare a terzi la funzione di soddisfare i bisogni che sono all’origine del loro associarsi. In altri termini, nell’impresa di capitali la netta divisione fra forza-lavoro e imprenditore già di per sé stabilisce i confini, pur variabili, fra gli ambiti di influenza e di operatività dei diversi soggetti. 144 produzione e l’eguaglianza giuridica dei soci (una testa un voto) danno a ciascuno lo stesso diritto di voto e di proposizione sulle scelte che coprono l’intera attività d’impresa. Di conseguenza, la necessità di salvaguardare e di gestire un processo partecipativo interno obbliga questi stessi lavoratori a stabilire un “patto sociale” che ricompone al proprio interno gli obiettivi economici e sociali, secondo una scala di preferenze condivisa o negoziata. In altri termini, la cooperativa è una forma di impresa che può annullare una delle fondamentali asimmetrie organizzative del processo economico, ossia il rapporto tra proprietà e lavoratore. Facendo invece specifico riferimento al regolamento del rapporto socio-impresa 379 nella gestione giuridica dei rapporti non si riscontrano disparità tra l' impresa cooperativa e l' impresa capitalistica che si estrinsecano con l'applicazione dei contratti di società380, dei contratti d’opera381 e dei contratti di lavoro382 veri e propri. Si tratta del riferimento alla ordinaria regolamentazione normativa che detta le condizioni per lo svolgimento dell'attività in tutto l’universo delle imprese di produzione. Per l'espletamento di questi istituti nel comparto cooperativo è però necessario prendere in considerazione i seguenti tre ulteriori elementi: 1. L'effettiva realizzazione della mutua responsabilità, per la quale non basta che i soci intendano fare la stessa azione ma, occorre che vogliano farla insieme; 2. il riconoscimento della reciprocità, cioè l’impegno reciproco e congiunto nello svolgimento delle mansioni (sia pure per ragioni diverse), nella consapevolezza che anche gli altri intendono fare lo stesso. Difatti, è impossibile quantificare il contributo specifico di ciascuno cooperatore al risultato finale; 3. il perseguimento della solidarietà, ossia l’impegno di ciascuno ad aiutare gli altri nei loro sforzi, cosicché il prodotto/servizio finale possa essere conseguito al meglio. 379 380 381 382 Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2004. Nel contratto di società due o più parti si coalizzano per l’esercizio di un’azione comune, allo scopo di dividersi gli utili. In questa tipologia il potere decisionale spetta equamente a tutti i soci e l’oggetto della transazione è l’ammontare del lavoro che i soci apportano oltre al capitale da loro, eventualmente, conferito. Con il contratto d’opera un soggetto si impegna a fornire una prestazione ad un altro soggetto, senza alcun vincolo di subordinazione. La remunerazione e la natura dei servizi erogati sono definiti ex ante. Il contratto di lavoro si stipula quando il lavoratore decide di rinunciare alla propria autonomia decisionale per un lasso di tempo a favore del datore di lavoro, in cambio di una remunerazione fissata ex ante ed indipendente dal risultato. Quindi con questo contratto si assume un impegno all’obbedienza, tanto che il salario si configura come il prezzo per la rinuncia all' autonomia personale. L’obbligo all’obbedienza, assunto con il contratto di lavoro, è proprio dell’impresa capitalistica. Nell’impresa cooperativa, invece, i soci lavoratori (pur se assunti con contratto di lavoro), sono posti nella condizione di controllare la propria attività produttiva, in base ai principi cooperativi della eguaglianza e della libertà: è perciò una scelta per i soggetti che cercano nel lavoro l’autonomia e la libertà personale. 145 . 1.1. Un approfondimento sul rapporto di lavoro cooperativo. Dopo il crollo del sistema sovietico, nell' immaginario collettivo, è stato messo in dubbio che vi sia una possibile alternativa al capitalismo nonostante il continuo fiorire degli studi sul socialismo383. Tra questi ultimi, degno di nota per le nostre argomentazioni è quello che ha fatto riferimento all’autogestione384, ossia ad un sistema di imprese gestite dai lavoratori in concorrenza tra loro sul mercato, in base al principio generale della massimizzazione del reddito medio di quanti lavorano insieme (Ward, 1958). Questo approccio ha permesso di evidenziare che nell’impresa gestita dai lavoratori chiunque si sforzi di aumentare il suo reddito, fa aumentare contemporaneamente anche quello degli altri che lavorano con lui. Quindi, mentre il capitalismo tende a rendere l’uomo egoista e più competitivo nelle faccende economiche, il socialismo al contrario tende a rendere l’uomo più cooperativo e più solidale nei suoi rapporti di lavoro, poiché promuove imprese “autogestite” (o imprese democratiche) ove il sovrappiù (differenza tra costi e ricavi) spetta equamente a tutti lavoratori, soci dell’impresa385. Teoricamente, empiricamente ed anche storicamente tra la forma capitalistica pura e l’autogestione pura si situano una vasta gamma di forme di produzione intermedie, caratterizzate da gradi crescenti di partecipazione dei lavoratori, sia ai risultati economici che alle decisioni e, in questo senso l’impresa cooperativa rappresenta una discontinuità rispetto alla forma pura. La discontinuità è insita nel fatto che nelle imprese cooperative è possibile realizzare una diversa modulazione dei rapporti interni, realizzando una sorta di identificazione tra chi persegue un interesse collettivo (risultato d’impresa) e chi è più sensibile all’interesse individuale. La tipologia cooperativa che identifica perfettamente l'antagonismo dell'impresa di capitali è rappresentata dalle cooperative pure Labour Managed Firm (LMF386 come le definisce Jossa, 2004) ossia le imprese che operano liberamente nel mercato, perseguono il massimo utile dei soci e non hanno vincoli di sorta387, tranne quello di assumere lavoro salariato. Si tratta di imprese che prendono le decisioni distribuendo democraticamente il potere tra tutti i soci, in base al principio 383 384 385 386 387 Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2004. L'autogestione socialista si basa su un modello che funziona in base a quanto teorizzato per la prima volta da Benjamin Ward (1958), uno dei contributi più importanti alla moderna teoria economica. Estendendo il discorso, rispetto all’attuale organizzazione dei mercati, la moderna teoria economica delle cooperative di produzione ha proposto una nuova forma di impresa società, che prevede un solo, ma fondamentale cambiamento, ossia l’assegnazione democratica, a tutti i lavoratori dell’impresa, del surplus dell’attività produttiva e il loro pieno diritto di eleggere i manager. Come riferito da B. Jossa nel loro tipo “puro” le imprese Labour Managed Firm (LMF) realizzano, puramente e semplicemente, un capovolgimento del rapporto capitale-lavoro. L’impresa autogestita, rispetto alle imprese convenzionali, deve godere di specifici vantaggi fiscali per poter così controbilanciare l’handicap della scarsa disponibilità di capitale di rischio e di managerialità. 146 “un’azione un voto”, perseguendo totalmente l'applicazione di un sistema di valori (nell’interpretare e nell’agire economico) che coincide con gli interessi dei lavoratori, a prescindere dalla proprietà (privata o pubblica) dei mezzi di produzione. Quella che meglio si identifica con l’impresa autogestita è l’impresa cooperativa con proprietà pubblica dei mezzi di produzione388 . 2. L’anticapitalismo cooperativo nei rapporti con l’ambiente esterno. L’interesse della cooperativa allo sviluppo sociale implica un suo costante e diretto riferimento al mercato locale ed ai rapporti con l’ambiente esterno, una prassi abbastanza frequente, tanto da costituire un elemento prioritario della gestione. In questo senso, le imprese di capitali, pur partecipi di diversi processi di esternalizzazione, mantengono ampi e maggiori gradi di libertà. In relazione alla trama dei rapporti che il sistema delle imprese cooperative intrattiene con l’ambiente esterno, essenziali per il superamento del dilemma tra interessi individuali ed interessi collettivi, è possibile riconoscere i tre seguenti modelli389: 1. Il modello del “radicamento locale”, che configura i rapporti di una (o delle) imprese localizzate nel medesimo territorio come rapporti gratificanti, in termini di riconoscimento da parte della comunità locale (rappresentata da persone esterne all'impresa, dai poteri civili e politici locali oltre che dalle altre imprese cooperative) e di consenso sociale (specie da parte degli stakeholder). 2. Il modello di appartenenza politica, che fa riferimento ai rapporti esterni avviati soprattutto con gli enti locali congiuntamente alle altre imprese cooperative: si può fare riferimento, ad esempio, all'insieme delle richieste o delle iniziative per gestione e la tutela degli interessi comuni nei confronti delle istituzioni pubbliche locali che influenzano la vita economica e politica nazionale. 3. 388 389 Il modello di appartenenza funzionale, in cui i rapporti verso l'esterno sono considerati alla L’impresa gestita dai lavoratori può essere considerata un “bene pubblico”, per le tre seguenti ragioni: 1. perché toglie ogni potere al capitale e rende così effettiva la democrazia popolare; 2. perché tende a fare scomparire la disoccupazione (abbattendo l’alto costo del lavoro); 3. perché favorisce una migliore distribuzione del reddito. Questi tre modelli sono effettivamente efficaci solo se possono creare vantaggi e condizioni tali da favorire comportamenti cooperativi, non solo a livello di impresa ma anche fra i singoli soci, ai quali in situazione di crisi può essere richiesta qualche rinuncia agli immediati interessi individuali. Questa capacità sembra sia maggiormente riconoscibile nel modello del radicamento locale. 147 stregua di scambi di funzioni (ad es. gestionali), nell’ambito dei quali emergono i servizi che il movimento mette a disposizione delle imprese e le strategie di gruppo che lo stesso promuove. In modo del tutto singolare lo sviluppo dell’esperienza cooperativa, rispetto alle altre tipologie di impresa, ha perciò rivolto una particolare attenzione all'integrazione con l’ambiente esterno e ciò ha richiesto (e richiede costantemente) la necessità di attivare comportamenti congrui e di destinare risorse umane finanziarie ad iniziative di interesse sociale, un' offerta cooperativa aggiuntiva e collaterale rispetto a quella principale. 2.1. Ulteriori note sull’anticapitalismo delle cooperative. A seguito delle considerazioni precedenti che hanno evidenziato alcune disparità tra due modelli imprenditoriali, è inevitabile domandarsi se e perché un sistema di imprese cooperative dovrebbe essere visto alternativo o complementare alle imprese di capitali. Alle origini, il cooperativismo era il risultato di un atteggiamento di reazione alle degenerazioni del capitalismo. A proposito, basti pensare in Italia alla discendenza delle cooperative sociali dalle società di mutuo soccorso (SMS) che, verso la metà del XIX° secolo, si sviluppavano in reazione al capitalismo390 con iniziative che dai sussidi si estendevano agli aiuti monetari alle famiglie (contributi alla disoccupazione, pensioni di invalidità e di vecchiaia, ecc.) e ad interventi di solidarietà nei confronti di tutta la collettività. Ma, una organizzazione basata, essenzialmente, sull’altruismo e sullo scopo mutualistico non avrebbe potuto continuare a sopravvivere in un mercato dominato dalla concorrenza dell’impresa capitalistica. In letteratura economica questa circostanza, apparentemente semplice, ha dato lo spunto ad un ampio dibattito sulle contraddizioni che hanno segnato le origini delle cooperative, evidenziando delle ovvie posizioni antitetiche tra gli economisti tradizionali ed i cooperatori. Alle origini e da un punto di vista operativo l’impresa cooperativa, presente in un ambiente capitalista e in regime di libera concorrenza, riuscì ad occupare una quota marginale del mercato, perseguendo prima l’altruismo e lo scopo mutualistico e poi proponendosi per rendere i lavoratori liberi e padroni di ciò che producevano. Ma, per la sua sopravvivenza non poteva continuare ad 390 Con la rivoluzione industriale, infatti, il capitalismo difendeva l’individualismo, lo spirito competitivo e l’egoismo mentre la società, per contrasto, abbisognava di solidarietà.. 148 impostare l' attività solo su una offerta assistenziale altruistica ed iniziò ad adeguarsi alle regole del mercato, facendo leva sul perseguimento di interessi economici oltre che sociali. Gli economisti, si inseriscono proprio in questa fase, soffermandosi e puntualizzando la finalità economica oltre che sociale delle imprese cooperative, soprattutto di quelle di produzione e lavoro, evidenziano uno snaturamento delle cooperative per il loro dirottamento verso il perseguimento di obiettivi economici e la massimizzazione del profitto, anche se equamente ripartito tra tutti i lavoratori. Di conseguenza (continuando con la discussione in letteratura), anche in questa tipologia i socilavoratori tendono a conseguire prioritariamente dei fini economici, tendendo a realizzare un utile e risultando così e a tutti gli effetti imprese molto vicine alle imprese di capitali. Ribadendo questo concetto, gli economisti tradizionali hanno intravisto nell'operatività delle cooperative di produzione e lavoro un modello che quasi si affianca ed opera in concorrenza con l'impresa di capitali, poiché anch'esse orientate al calcolo economico del massimo rendimento, quindi non meritevoli dei benefici fiscali. Ma, i cooperatori replicarono a questa assunzione che, anche se basate sul movente del lucro, le cooperative di produzione e lavoro rimarranno, comunque, anticapitalistiche sia perché, se necessario, sarà sempre data priorità ai bisogni dell' individuo (anche a scapito del capitale) ed anche perché il raggiungimento del profitto è sempre orientato ad un equo benessere di tutti i lavoratori, dal momento che se un cooperatore si sforza di aumentare il suo reddito personale ciò avviene, contemporaneamente, a vantaggio di tutti gli altri. Di conseguenza, la solidarietà (un ideale fortemente anticapitalistico) rimarrà il motore propulsore e la motivazione principale sulla quale i cooperatori fonderanno le loro attività, dichiarando così l’anticapitalismo come un elemento insito nella natura stessa dell’impresa autogestita. Da un punto di vista teorico, Pareto391 (nel 1921) partecipando a questo dibattito, aveva osservato una contraddizione nell' affermazione avanzata dai cooperatori ed aveva puntualizzato che la cooperativa sostituiva “la solidarietà dei lavoratori alla concorrenza degli imprenditori” perché “.....le cooperative mentre proclamano di far leva sulla solidarietà sono, a ben vedere, imprese non molto dissimili dalle altre, perché essendo basate sull’interesse personale riescono a far concorrenza alle imprese capitalistiche”. Per concludere, il carattere anticapitalista del movimento cooperative è sempre stato e continua ad essere un ambito di scontro tra economisti tradizionali e teorici della cooperazione ed ancora oggi il movimento cooperativo non ammette che l’impresa gestita dai lavoratori possa essere assimilata a quella di capitali, nonostante il comune perseguimento il massimo profitto. 391 Per approfondimenti cfr. Pareto V., 1921. 149 3. L’ efficienza cooperativa392. Nell'ambito di questa discussione che tenta di far emergere le principali divergenze tra le imprese cooperative e quelle di capitali, non si può prescindere dal riferimento teorico al concetto di efficienza economica 393 , l' indicatore adottato per valutare i risultati dell'impresa tradizionale che però, applicato nel contesto cooperativo, assume un significato riduttivo. Vediamo quindi di tentare di spiegare il perché ma soprattutto di individuare un parametro alternativo che possa meglio sintetizzare la rilevanza dei risultati e dell'offerta del modello produttivo cooperativo. Per affrontare questo argomento abbiamo ritenuto opportuno ricorrere al prof. Zamagni394 che suggerisce di affrontare questo tema approfondendo le due principali critiche mosse al cooperativismo: 1. la prima, di ispirazione neoclassica, che tende a dimostrare che la cooperazione non può avere uno spazio duraturo nel mercato, perché sarebbe meno efficiente dell’impresa di capitali; 2. la seconda, neo-istituzionalista, basata sull'ipotesi che, in caso di fallimento del mercato, l’impresa cooperativa può essere più efficiente di quella di capitali. Alla prima critica (la scarsa efficienza dell’impresa cooperativa) i difensori della cooperazione rispondono, anzitutto, contrapponendo all’efficienza dell’impresa capitalistica i valori propri della cooperativa, cioè l’autostima, la libertà dei soci, il rispetto per le persone, la democrazia interna all’impresa e lo spirito di solidarietà. Ma, la contrapposizione di un valore quantitativo a dei giudizi qualitativi lascia perplessi: da una parte, infatti, l’efficienza è anche possibile nell’impresa cooperativa e d’altra parte, alcuni dei valori cooperativi sono presenti anche nell’impresa di capitali. Affrontiamo più specificatamente questi aspetti. Al di sotto di un livello minimo di efficienza l’impresa profit viene espulsa dal mercato e, tra i fattori dell’organizzazione indispensabili per ottenere questa soglia minima, possiamo elencare l'ingerenza della dirigenza, la competenza del management e il sistema di controllo. Ma, in teoria e in pratica, qualcuno tra questi fattori è perseguito anche per la sopravvivenza delle cooperative, quindi non è di esclusiva pertinenza dell’impresa di capitali poiché direttamente correlato alla produttività aziendale anzi, all’aumento costante della produttività. Da ciò si può dedurre che l’efficienza, pur essendo un’esigenza introdotta storicamente dalla logica del profitto, non è esclusivo appannaggio di questa categoria 392 Per approfondimenti cfr. Perrotta C., 2006.. Il concetto di efficienza ha alimentato una vasta letteratura economica e diverse scuole di pensiero che non rientrano negli obiettivi di questo corso. 394 Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006; Zamagni S.-Zamagni V., 2008. 393 150 d'impresa. Allo stesso modo, alcuni dei valori propri della cooperazione sono stati adottati nel tempo anche dall’impresa capitalistica; si può fare ad esempio riferimento al senso di appartenenza da cui consegue l'attaccamento dei dipendenti all’impresa ed un ampio ventaglio di motivazioni e di gratificazioni che vanno dalla solidarietà all'etica. Questi valori acquisiti hanno rappresentato però dei costi aggiuntivi per l'impresa di capitali poiché non innati nella gestione e nell'organizzazione interna (per esempio i premi di produzione da aggiungere ai salari in proporzione all’efficienza, le spese per la socializzazione dei dipendenti o quelle per la loro istruzione, ecc), . Questa reciproca commistione tra le due categorie produttive ha poi provocato un sempre maggiore avvicinamento, gestionale ed operativo, tra imprese di capitali e cooperative e la riduzione delle disparità, anche perché la crescente concorrenza dei mercati ha reso insufficiente l' obiettivo della massimizzazione del profitto per orientare la gestione d'impresa. Ciò ha significato che nel tempo entrambe le categorie di impresa hanno tentato di ristabilire un nuovo equilibrio, attraverso il perseguimento di obiettivi multidimensionali, ossia con il profitto anche l' applicazione dei valori positivi per i lavoratori e l' esternalizzazione dei valori sociali per la collettività. Di conseguenza, ai nostri giorni i livelli di efficienza si sono ampliati e possono dipendere, alternativamente, dal raggiungimento dell'uno o l'altro obiettivo, coinvolgendo entrambe le tipologie di impresa. I neo-istituzionalisti, a loro volta, legittimano l’attività cooperativa riconoscendole un’efficienza propria che può essere superiore a quella delle imprese di capitali, ma solo nei momenti di crisi e di fallimento del mercato. Ma, cosa deve intendersi oggi per fallimento del mercato e quando si verifica? A ben vedere, nell’economia moderna i casi di fallimento del mercato sono una regola piuttosto che un’eccezione: basti pensare alla tendenza, all’oligopolio, all’informazione asimmetrica o ai licenziamenti, anche se fatti per aumentare la produttività del lavoro. A questi esempi classici potremmo aggiungere anche una lunga serie di nuovi bisogni che non vengono soddisfatti dal mercato: ad esempio, la carenza di verde pubblico, l'inefficienza dei trasporti pubblici, l'insufficienza degli asili-nido, la mancanza di assistenza domiciliare per malati ed anziani e di altre strutture elementari (come fognature, raccolta differenziata, compatibilità ambientale, ecc.). E’ possibile ipotizzare che per poter fruire di questi altri beni e servizi, una larga fascia di consumatori sarebbe disposta a spendere parte del proprio reddito piuttosto che destinarlo all’acquisto di beni ripetitivi o alla moda, che non aggiungono quasi più nulla al benessere familiare. Riprendendo il nostro discorso, suddette carenze potrebbero essere ricomprese fra le emergenti e ricorrenti cause di fallimento del mercato capitalistico che le imprese cooperative stanno cercando di colmare con 151 un'ampia gamma di prodotti e servizi complementari (basti far riferimento ad esempio, a tutta l'attività educativa ed assistenziale svolta dalle cooperative sociali attraverso la gestione di asili nido e/o all'assistenza sanitaria professionale). La cooperazione sta quindi tentando di contenere e talvolta è riuscita a far fronte agli effetti distorsivi del mercato dei capitali in maniera continuativa: quindi la sua presenza e il suo ruolo nel mercato locale svolgono un'azione correttiva andando incontro alle esigenze della società moderna e del territorio di insediamento più di quanto non si pensi (o si voglia accettare). 3.1. L’efficacia cooperativa. Anche la letteratura corrente395 dell’ultimo quarantennio si inserisce nel dibattito sull’efficienza dell’impresa capitalistica e dell’impresa cooperativa396, con un orientamento metodologico, a livello internazionale che, sostanzialmente, tenta di accreditare le tre seguenti tematiche: 1. Il successo della cooperativa come necessità di sopravvivenza: si basa sulla capacità della cooperativa di adattarsi, di modificarsi e magari di influire sull’ambiente esterno, quindi sul rapporto tra organizzazione interna della cooperativa ed evoluzione ambientale. 2. Il successo della cooperativa in termini di risultato economico, ossia attraverso la quantificazione e la valutazione delle performance economiche delle imprese cooperative tra loro e nei confronti delle imprese di capitali. 3. Il successo delle cooperative nel perseguimento di obiettivi sociali, ossia attraverso la verifica della potenziale influenza della struttura democratica e partecipativa sullo sviluppo umano e culturale della comunità di appartenenza. La base di partenza per l'analisi di questi traguardi del segmento cooperativo verte sulla circostanza che la non alienabilità del fattore lavoro e l’alienabilità del fattore capitale sono gli elementi che rimarcano la profonda differenza con le imprese di capitali e, quindi, ne determinano la diversa efficienza. Gli economisti italiani, infatti, per misurare la performance dei due diversi tipi di 395 Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006. 396 Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006. 152 imprese hanno continuato a fare riferimento all' efficienza397, parametro oggi superato dalla letteratura economica americana, perché considerato inadeguato ed insufficiente a cogliere le molteplici sfaccettature dell'offerta delle imprese di produzione. Il concetto di efficienza è stato così soppiantato dal valore aggiunto pieno o totale (il Full Added Value), più completo dell’indicatore di efficienza classico, perché il risultato della sintesi di due parametri: il profitto del produttore e le esternalità positive del consumatore398. Questo nuovo approccio deriva dalla constatazione che se si stabilisce un confronto tra impresa cooperativa ed impresa di capitali in base al profitto la seconda risulterà sempre più efficiente, mentre l'osservazione del valore aggiunto totale può consentire di aggiungere il vantaggio del consumatore al sovrappiù del produttore (il profitto). Sulla base di questo criterio, l’ impresa più efficace non solo è più efficiente in senso economico (condizione necessaria ma non sufficiente) ma riesce anche a realizzare esternalità positive (da molti definite appunto sovrappiù del consumatore) e, fra queste, la creazione di capitale sociale 399 e le condizioni necessarie per conseguire la libertà400 dell' individuo-lavoratore. Per questi nuovi obiettivi l’impresa cooperativa rappresenta se non l’unica, una protagonista importante che è riuscita a far superare i limiti dell’efficienza che, alla luce di questi nuovi confini, risulta adesso un concetto riduttivo e talvolta operativamente fuorviante401. Dall'esame di questo nuovo indicatore deriva che la cooperativa genera, probabilmente, meno profitto ma certamente più esternalità positive, con la possibilità di ottenere dal confronto un giudizio di merito favorevole (dalla somma algebrica delle due componenti). La teoria economica, in realtà, non ha mai considerato il profitto come l’unico parametro di comparazione fra le imprese e questa constatazione ha rafforzato la tesi della possibilità di esportare questo nuovo criterio: la somma del sovrappiù del consumatore e del sovrappiù del produttore è stato così largamente accettato per poter stabilire un più corretto giudizio di merito ed una più precisa comparazione dei risultati aziendali . La sua adozione peraltro non esclude che anche le cooperative possano perseguire uno scopo di lucro che, comunque, non sarà mai l'unico obiettivo, perché il guadagno è una tra le tante altre componenti che possono soddisfare 397 398 399 400 401 Il criterio dell’efficienza è insufficiente a mettere a confronto l’impresa capitalistica con quella cooperativa, in quanto fa prevalente riferimento ai rigidi parametri delle teorie utilitaristiche, trascurando la base motivazionale che è la risorsa aggiuntiva (fondamentale) delle cooperative. Per approfondimenti cfr. Zamagni S., La promozione cooperativa come pratica antimonopolistica, intervento al Convegno, “I valori e le regole: legalità, responsabilità, cooperazione e mercati”, Università di Siena, 23 ottobre, 2007; Zamagni S.-Zamagni V., 2008.. Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati dal definitivo consolidarsi dei filoni di studio sugli aspetti definitori e sulla sua differenza rispetto alle altre forme di capitale (fisico, economico, culturale, umano, ecc.). Per approfondimenti sulla libertà cfr. Freeman R.E., 1984 e 1988. Per la capacità di ottenere quello che si è liberamente scelto cfr. Sen A., 1984, 1986 e 1987. Se si continua ad insistere sul solo concetto di efficienza (cioè la capacità di produrre profitto) è evidente, infatti, che un cooperatore dovrà tentare di realizzare un profitto a tutti i costi, anche snaturandosi o violando i principi cooperativi. 153 i bisogni soci tra cui, in primis, la stabilità del lavoro e del posto di lavoro, la riduzione dello stress da lavoro a seguito del livellamento delle remunerazioni e delle mansioni , il senso di appartenenza all'azienda, la partecipazione democratica alla gestione, la difesa dell’ambiente (di lavoro e non), ecc. Fra le esternalità positive che l’impresa cooperativa riesce a generare per l’intero sistema, è stata prioritariamente collocata la capacità di creare e diffondere capitale sociale. Il termine capitale sociale è stato introdotto nel corso del XX° secolo, nell’ambito delle scienze sociali, ed è stato utilizzato per porre l’attenzione sul modo con cui la nostra vita è facilitata e resa maggiormente piacevole dai legami sociali402. Gli anni Ottanta hanno poi segnato il definitivo consolidarsi dei filoni di studio su questo concetto e sulla sua differenza dalle altre forme di capitale (fisico, economico, culturale, umano, ecc.); ma, pur essendo un termine molto diffuso nel dibattito economico e sociale, non ha ancora una definizione rigorosa e condivisa né un metodo di misurazione comunemente accettato. In letteratura, in genere, si distingue in due componenti principali: i legami forti (all'interno del nucleo familiare) e i legami deboli (relativi alla sfera dei rapporti tra amici, colleghi e conoscenti). E' quindi un termine entrato nel lessico corrente che fa riferimento a diverse categorie di capitale sociale dato che non c’è, infatti, solo il capitale sociale che R. Putnam403 (1993), ha chiamato bonding e bridging ma c’è anche il capitale sociale linking (cioè che crea l'integrazione sociale). Partendo dalla definizione, il capitale sociale bonding è quello che si genera all’interno dei piccoli gruppi, delle famiglie e delle piccole comunità e crea vincoli. Il capitale sociale bridging è, invece, quello che getta ponti (bridge in inglese vuole dire ponte), cioè a dire che genera reti di fiducia allargate che però non bastano per garantire il progresso senza la terza dimensione di capitale sociale, denominato linking, cioè quello che fa rete. Sulla base di questi parametri è stato dimostrato che un’area geografica, con un forte capitale sociale bridging ma non linking non si sviluppa più di tanto404. Allora sorge spontaneo chiedersi che cosa genera capitale sociale di tipo linking, ossia quello necessario per assicurare il progresso economico e sociale della società moderna? E’ stato metodologicamente dimostrato che l'impresa cooperativa, più di ogni altra tipologia, genera capitale sociale di tipo linking dato che, nelle regioni dove queste aziende sono più diffuse, l’indice di disparità del reddito è più basso. L’opera che in Italia ha contribuito a dimostrare quantitativamente questa circostanza è sempre di Putman405 (1993), che ha svolto uno studio 402 Per approfondimenti cfr. Iannone R., 2006; Tronca R., 2007; Zamagni S.-Zamagni V., 2008. 403 Per appprofondimenti cfr. Putnam R. in bibliografia. 404 Nel suo studio pionieristico sul Mezzogiorno italiano, Banfield (1958) individuava una delle cause dell’arretratezza della regione “nell’incapacità degli abitanti di agire collettivamente per il bene comune, o almeno per qualsiasi fine che trascenda l’immediato interesse materiale del nucleo familiare”. Per approfondimenti cfr.E.C.Banfield, (trad. in italiano 1976). Nella loro celebre ricerca sul caso italiano, Putnam, Leonardi e Nanetti (1993) attribuiscono alla scarsità di questa forma di capitale sociale il mancato sviluppo economico del Mezzogiorno. Per approfondimenti 405 154 ventennale sulle regioni italiane a statuto ordinario, giungendo alla conclusione che il più alto rendimento delle regioni del Nord e del Centro rispetto a quelle del Sud debba essere addebitato alla diversa dotazione di capitale sociale all’interno di ciascuna ripartizione territoriale. In particolare, Putman ha dimostrato che in Toscana la presenza delle cooperative ha consentito di abbattere gli indici di ineguaglianza del reddito (sia del Gini, di Taylor o altri più sofisticati) rispetto ad altre regioni che, a parità di reddito pro-capite o anche più ricche (es. Piemonte e Lombardia), registrano una minore incidenza di cooperative sul totale imprese. Dai risultati dell' analisi quantitativa emerge chiaramente che, in tutti questi anni, la cooperazione ha consentito a ceti ed a classi sociali, altrimenti esclusi, di accedere all’esperienza dell’imprenditoria, di produrre reddito e di creare occupazione e solidarietà, contribuendo allo sviluppo economico sostenibile, al progresso sociale e civile del nostro Paese406 e ad un maggiore benessere socio-economico Il capitale sociale calcolato da Putman sarebbe perciò una componente importante in grado di influenzare il rendimento istituzionale e lo sviluppo economico e culturale del territorio, poiché la sintesi dell’insieme delle relazioni interpersonali, delle norme sociali e della fiducia che permette ai singoli di agire collettivamente per perseguire in modo più efficace gli obiettivi comuni407. In altri termini, con capitale sociale devono intendersi quei network della vita sociale (reti, norme, fiducia) che riguardano le relazioni tra gli individui e le norme di reciprocità e di affidabilità che ne derivano e che mettono i partecipanti nella condizione di agire più efficacemente per il perseguimento di obiettivi condivisi. Il capitale sociale, poi, facilita la risoluzione dei problemi collettivi, consente alle comunità di funzionare sostenendo costi più bassi, aumenta la consapevolezza degli individui di avere tra loro destini intrecciati, fa circolare più facilmente le informazioni che occorrono agli individui per raggiungere i loro scopi e può riuscire, addirittura, a migliorare la vita biologica e psicologica dei cittadini. Questa prospettiva è ancora più esplicita in Fukuyama 408 (1995, 1999) che vede nel capitale sociale una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella società (famiglia, corpi 406 407 cfr. Putnam Robert D., 1993; ID., 1995; Putnam R.D., Leonardi Robert, Nanetti Raffaella Y., 1993; Leonardi R.- Nanetti R.Y., 24-25 July, 2007. Il movimento cooperativo conserverà, anzi non potrà che aumentare la sua attrattiva finché molti giovani vorranno essere protagonisti del proprio lavoro e la società tenderà verso la democrazia economica, con la libertà di scegliere l’ambito del proprio lavoro, le forme di impresa in cui esercitarlo, la libertà di scegliere i prodotti da consumare, ma anche la libertà di associarsi per proteggere i diritti del consumatore sul prezzo né sulla qualità. Nel caso delle cooperative sociali l’obiettivo comune prevalente è quello della creazione di un sistema di servizi alla persona basato sull’integrazione fra prestazioni garantite dalle istituzioni pubbliche e prestazioni garantite dal settore dell’associazionismo privato, a maggiore o minore grado di organizzazione (cooperative sociali, associazioni di volontariato, altro associazionismo) 408 Per approfondimenti cfr. Fukuyama F., 1995 e 1999. 155 intermedi, nazione), quindi in un insieme di valori o norme non ufficiali, condiviso dai membri di un gruppo o, alternativamente, una risorsa extra-economica ed extra-legale che ha, però, precisi effetti economici, poiché riduce i costi di transazione connessi ai contratti e all’applicazione di regole formali, promuovendo la cooperazione tra due o più individui. Una più recente misurazione empirica del capitale sociale delle regioni italiane (Sabatini, 2005) ha confermato sostanzialmente quanto descritto in precedenza, ovvero la chiara distinzione esistente tra legami forti (familiari) e legami deboli (tra conoscenti, amici, partecipanti a organizzazioni sociali), sia in termini di contributo ai processi di sviluppo che nei modelli di distribuzione territoriale, per cui sono le regioni del Centro-Nord del paese ad essere particolarmente povere di legami forti e ricche di legami deboli, mentre il contrario vale nel Sud del nostro paese409. La seconda principale esternalità positiva si ricollega, come anzidetto, al concetto di libertà ed alle sue tre dimensioni: dell’immunità, dell’autonomia e dell’opportunità che sintetizzano la condizione dell’essere liberi. Essere liberi vuol dire, infatti, sentirsi immunizzati dalla coercizione altrui e questo è l’aspetto che alcuni chiamano della libertà di scelta e, con le parole di Friedman (1970) la “libertà di scegliere in autonomia” per giungere alla terza dimensione, ossia alla capacità di “ottenere quello che si è liberamente scelto” (come direbbe Sen, 1987). Nel dibattito economico corrente ci sono però due teorie sulla libertà, in posizione diametralmente opposta: la prima (appena accennata) di natura liberale ed individualista, in base alla quale la libertà è solo immunità ed autonomia, ossia l’essere liberi dalla coercizione (è libertà di scelta); la seconda strutturale ed organicistica, afferma che la libertà si manifesta raggiungendo i risultati, anche in assenza di autonomia. Nelle odierne economie avanzate si pretende però che siano presenti tutte e tre le dimensioni, perché la libertà di scelta senza un risultato produce frustrazione e malcontento; al tempo stesso, anche ottenere un risultato senza avere la libertà di scelta produce frustrazione perché, evidentemente, non consente alla persone di esprimere le loro preferenze. In altre parole, si sta diffondendo il concetto che per raggiungere la libertà sono necessarie tutte e tre le dimensioni e che l’impresa cooperativa rappresenta non dico l’unica ma una componente importante per la libertà, perché realizza la ricchezza (o il reddito) e, con la logica dei due tempi, la redistribuisce senza creare disparità sociali. 409 In particolare, nella classifica delle regioni italiane per dotazione della componente di capitale sociale più favorevole allo sviluppo, la Toscana si colloca in 5° posizione, preceduta da Trentino-Alto-Adige, EmiliaRomagna, Friuli-Venezia-Giulia e Valle d’Aosta. 156 VI. IL FINANZIAMENTO DEL SETTORE COOPERATIVO Introduzione. La crescente terziarizzazione dell’economia ha imposto anche al settore cooperativo la necessità di un sempre maggiore investimento di capitali, nonostante la sotto-capitalizzazione sia una condizione endemica e strutturale più che una debolezza storica delle imprese cooperative. Le soluzioni proposte per poter superare queste carenze finanziarie sono attualmente due: l’accesso indiretto al mercato dei capitali (attraverso Spa a controllo cooperativo, formula sempre più diffusa); il ricorso diretto attraverso l'offerta sul mercato di un maggiore afflusso di prodotti e strumenti finanziari innovativi410. L’avvio dei problemi legati al finanziamento esterno delle imprese cooperative può farsi risalire ai tempi della pressione inflazionistica degli anni ‘70411 ed all’aumento del costo del denaro degli anni ‘80412. In particolare, la prima epoca è stata caratterizzata da un primo approccio delle cooperative alla problematica finanziaria, con particolare riferimento ai “rapporti con il mondo del credito”; durante il decennio successivo sono state, invece, affrontate le difficoltà legate ai finanziamenti esterni, risolte con l’avvio di una nuova politica finanziaria e la creazione di strutture creditizia interne al comparto cooperativo. Procediamo adesso ad una più puntuale ricostruzione storica per poi giungere ai nostri giorni. 1. L’evoluzione della funzione finanziaria nelle cooperative . A partire dagli anni Settanta si annuncia la decisione di avviare un consorzio cooperativo economico-finanziario con competenza nazionale, con il nome di FINCOOP (l’odierno FINCOOPER) per fornire al movimento cooperativo assistenza tecnica (soprattutto con la contrattazione collettiva delle garanzie e delle fideiussioni sussidiarie), consulenza finanziaria e per favorirne l’accesso al credito ordinario. Per la prima volta viene quindi affrontato concretamente il problema dell’accesso al credito bancario 413 e, in particolare, viene messa in risalto la discriminazione esercitata dalle banche nei confronti delle cooperative, sia con una politica di razionamento del credito che con la pratica di un più alto costo del denaro rispetto alle imprese profit, esercitato sia con maggiori tassi di interesse che con la Per approfondimenti cfr. Zamagni V., 2006; Fici A., 2004.. Per approfondimenti cfr. Zamagni 2006; Zevi A., 2006. 412 Soprattutto per le cooperative aderenti a Legacoop (più dell’80% in Toscana) la finanza ha iniziato ad essere parte integrante della gestione strategica d’impresa solo dagli anni ’80. 413 Da quella data si inizia a pensare di canalizzare più sistematicamente la liquidità delle aziende verso il Fincoop ed a trasformarlo in un ente di natura più marcatamente economica-finanziaria. 410 411 157 richiesta di garanzie sproporzionate rispetto al finanziamento414. Di conseguenza, fino agli inizi degli anni 80, il rapporto fra sistema bancario ordinario e cooperative veniva intermediato dalle Associazioni centrali che dovevano garantire la restituzione dell’eventuale credito erogato con le cosiddette “lettere di presa d’atto415”, che prevedevano il pieno coinvolgimento delle Associazioni centrali al finanziamento per la restituzione di ogni linea di credito accordata a ciascuna impresa416. Oltre alla “lettera” gli istituti di credito chiedevano anche la garanzia patrimoniale personale di tutti i consiglieri di amministrazione dell’azienda, che finivano così per rispondere personalmente e con tutti i loro beni delle obbligazioni dell’impresa, con evidente snaturamento anche della forma giuridica cooperativa417. Per far fronte a queste disparità, verranno avviate ulteriori interventi mirati al perseguimento di una maggiore autonomia finanziaria delle cooperative, tra cui l'istituzione di strutture in grado di favorire il finanziamento interno. Per iniziativa delle Associazioni centrali regionali venivano, infatti, creati (1981) gli Uffici finanziari418 e le Commissioni finanziarie (provinciali), per offrire consulenza e consentire alle singole imprese di acquisire familiarità con le problematiche finanziarie e la loro soluzione419. Questi Uffici finanziari avrebbero dovuto soddisfare le seguenti esigenze: • fornire supporto finanziario tecnico alle imprese (con attività informativa e di consulenza sulle opportunità esistenti); • gestire il rapporto con le banche (attraverso la contrattazione collettiva del credito presso gli istituti locali), modificando la prassi delle “lettere di presa d’atto” ed avviando un rapporto 414 415 416 417 418 419 Questo comportamento spingeva sempre più le cooperative a contenere la loro dimensione ed a spiegare come la realtà delle cooperative nazionali fosse concentrata nell’impresa piccola, nucleare e radicata nel territorio. Giuridicamente le lettere di presa d’atto avevano il valore delle lettere di patronage, ossia vere e proprie fidejussioni. Se la Lega provinciale non emetteva la “lettera” la banca revocava la disponibilità del credito. Il tipo di rapporto che veniva a crearsi era, perciò, esclusivamente di tipo politico tra le banche e la Lega provinciale (tra l’altro del tutto priva di patrimonio economico); le banche, infatti, non affidavano la cooperativa in base ai progetti aziendali o al suo patrimonio ma solo se sussisteva in base a questa “lettera”. L’avvio di questa fitta rete di rapporti tra imprese e banche locali, con un forte radicamento territoriale, può avere rappresentato l’avvio della rete di rapporti inter-istituzionali, poiché diversi dirigenti rappresentati nei consigli di amministrazione dei principali istituti di credito locali avevano cariche politiche anche negli enti territoriali (comuni e province). Si indirizzava così alle imprese un chiaro segnale sull’importanza della funzione finanziaria e, nel contempo, si tentava di approntare alcune forme di autonomia finanziaria per la crescita delle cooperative. A questo proposito, in alcune realtà più importanti (es. R. Emilia e Ravenna) erano già operanti consorzi finanziari delle cooperative locali, per fornire servizi finanziari, raccogliere la liquidità in surplus e gestire i rapporti contrattuali con le banche (es. la Federcoop di Ravenna). 158 diretto, di natura imprenditoriale420; • istituire, di concerto con l’Associazione centrale, vere e proprie divisioni finanziarie per la crescita della cultura finanziaria presso le singole imprese, per il rafforzamento patrimoniale delle stesse e l’incremento dei prestiti da parte dei soci. Alla fine degli anni Ottanta si era così giunti ad un incremento dei rapporti finanziari diretti tra istituti di credito speciale ed imprese cooperative, con il risultato che erano anche aumentati gli interventi di finanziamento esterno e la diffusione di strumenti finanziari innovativi (es. le accettazioni bancarie), oltre che il ricorso ai prestiti in valuta, erogati dalla Comunità Europea ed anche della prassi, oggi ricorrente, dei prestiti da soci421. Da un punto di vista legislativo, queste innovazioni erano state accompagnate dall’introduzione della legge Visentini bis (1983) e successive modifiche, tra cui quella relativa all’innalzamento della quota di capitale sociale sottoscrivibile da ciascun socio (da 2 a 20 milioni in generale per tutte le imprese e da 4 a 30 mil. per le cooperative di produzione di lavoro e di trasformazione di prodotti agricoli) e la possibilità per le cooperative, di entrare nella compagine sociale delle società di capitali (costituite in forma di SpA o di Srl): una piccola rivoluzione. 1.1. Le difficoltà di finanziamento delle imprese cooperative 422. I principali punti di debolezza delle cooperative per l’accesso al credito bancario possono essere sintetizzati nella scarsa disponibilità di capitale proprio e nella sua variabilità: limiti a cui, nei tempi più recenti, si è cercato di far fronte con le seguenti iniziative423: 1. con la richiesta allo Stato della promozione di enti specializzati per il finanziamento specifico delle cooperative e la concessione diretta di contributi e di finanziamenti; 420 421 422 423 Viene così superata la prassi delle “lettere di presa d’atto” e le banche iniziano ad aprire rapporti diretti con le cooperative. Ovviamente gli approcci alla finanza saranno differenti in relazione alla dimensione aziendale, alla redditività ed alle caratteristiche dell’impresa (in termini di funzione-obiettivo), al ruolo dei soci e al sistema partecipativo. Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2005. Nel tempo, l’insieme di questi interventi ha dato origine a risultati significativi ed ha consentito di superare il problema del finanziamento delle cooperative. Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006. 159 2. con l’istituzione di organismi cooperativi idonei ad interloquire direttamente con gli intermediari finanziari, nel tentativo di pervenire ad un’ auto-organizzazione per provvedere alla creazione di un circuito di finanziamento interno, per la distribuzione delle liquidità monetarie dalle imprese in surplus a quelle in deficit; 3. con l’incremento delle riserve indivisibili, per favorire la ricapitalizzazione delle cooperative. Un' altra problematica ha riguardato (e riguarda) il fatto che le difficoltà per il finanziamento di queste imprese424 sono maggiori nel caso di creazione ex novo di una azienda. Questo perché le cooperative, di solito, nascono per iniziativa di coloro che, almeno nella fase iniziale dell’attività, non hanno un capitale proprio ed anche difficoltà nel reperire finanziamenti dall’esterno, in sintesi poiché nessuno è disposto a prestare capitali a dei nullatenenti425. A differenza di un’impresa di capitali, infatti, in caso di insolvenza i soci di una cooperativa non rispondono dei debiti contratti dall’impresa e non sono obbligati a rimborsare ai creditori i prestiti ricevuti426: perciò chi finanzia una cooperativa ha facilmente timore di perdere i suoi soldi. Le difficoltà di finanziamento si vanno attenuando quando l’impresa è già avviata, ossia quando è già solvibile con gli impianti ed i macchinari su cui il creditore potrebbe rivalersi nel caso gli investimenti non andassero a buon fine. Il finanziatore è anche disposto a concedere più credito quanto l’impresa si auto-finanzia, ecco perché sarebbe necessario il co-finanziamento dell'attività e degli investimenti da parte degli stessi soci cooperatori. Nel mercato italiano, poi, sono sempre mancate istituzioni appositamente disegnate per il settore cooperativo, invece, modellate e strutturate per soddisfare le esigenze delle imprese di capitali. Sin dagli anni Novanta alle forme di finanziamento ordinario la legislazione bancaria ha perciò affiancato delle soluzioni alternative: l’utilizzo dei fondi raccolti a fini mutualistici per la promozione cooperativa (con la destinazione obbligatoria del 3% all’anno427 degli 424 425 426 427 Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2005. Per queste motivazioni i fautori della cooperativa hanno sempre sottolineato la necessità di creare istituti di credito con lo specifico scopo di finanziarie le cooperative. In questo caso, stiamo facendo riferimento alle cooperative di tipo “puro”, cioè alle imprese Labour Managed Firm (LMF), ossia alle imprese finanziate dall’esterno che si contrappongono specularmente alle imprese di capitali, per il capovolgimento del rapporto capitale-lavoro. In questa categoria i soci prendono a prestito il capitale e pagano su di esso un reddito fisso (interesse), mentre i lavoratori si appropriano del residuo. Passando in rassegna la legge n.59, i fondi mutualistici sono stati pensati soprattutto per creare (e quindi “promuovere”) nuove cooperative al fine di generare nuova occupazione. Lo “sviluppo” (il sostegno di quelle già esistenti) è un'attività importante e riconosciuta dalla legge che non dovrebbe essere sostitutiva della prima. 160 utili di bilancio) e lo strumento finanziario innovativo del venture capital428. Si tratta di una nuova modalità di finanziamento e di nuovi flussi di liquidità per le cooperative, già previsti da una legge del 1992 (n. 59), poi richiamata dalla riforma del diritto societario (del 2003). Quest'ultima legge, poi, al fine di favorire le cooperative nella raccolta diretta sul mercato dei capitali, ha introdotto le azioni di partecipazione429 e le azioni di sovvenzione. Le prime, ideate specificatamente per finanziare progetti di ristrutturazione aziendale, sono prive del diritto di voto ma godono di privilegi relativamente alla redditività ed al rimborso del capitale in caso di scioglimento della società; le azioni di sovvenzione, a loro volta, possono circolare liberamente sul mercato dei capitali e danno diritto ad una remunerazione che non incontra i limiti a cui sono soggette le quote dei soci cooperatori. I soci sovventori, però, non possono detenere più di un terzo dei voti in assemblea. Nel caso di autofinanziamento mediante gli utili (ossia con la sottoscrizione da parte dei soci di azioni senza diritto di voto) l’impresa dovrà assegnare ai suoi soci-investitori un ammontare di titoli pari agli utili che non percepiscono. 2. Il credito cooperativo ai nostri giorni. Come disse Schumpeter (nel 1911) “la finanza è imprescindibile per la crescita economica” e, possiamo aggiungere che, nel caso delle cooperative le probabilità di finanziamento sono strettamente correlate ai rapporti dell’impresa con l’ambiente esterno430. Il credito cooperativo rimane, infatti, fortemente correlato all'ambiente mantenendo, come carattere distintivo rispetto agli altri intermediari “la difesa di una identità da sempre alternativa”, come menzionato da. Hervè Giuder (segretario generale dell’Associazione europea delle banche cooperative431) evidenziando che “solidarietà” e “prossimità” sono due peculiarità tipiche della categoria, da mantenere e da difendere. Rispetto alle banche SpA, le banche popolari e quelle di credito cooperativo hanno, infatti, un ruolo da difendere nel loro territorio di competenza per garantire il principio della mutualità interna ed esterna, per alcuni aspetti distorto a seguito degli effetti della recente globalizzazione del mercato creditizio e finanziario.432. 428 429 430 431 432 Per approfondimenti cfr. Salani, 2005. Le azioni cooperative sottoscritte dagli stessi soci hanno un duplice vincolo: da una parte, nessun socio può superare il limite dei 100.000 euro nell’acquisto delle quote, anche se formalmente il voto assicura l’uguaglianza tra tutti i soci. L’altro vincolo (Art. 2530 C.C.) riguarda l’impossibilità del trasferimento (o cessione) delle quote a terzi se non autorizzato dagli amministratori. Ne consegue che l’impresa cooperativa, deve gestire strategicamente le relazioni con il mercato, ossia con il proprio capitale umano (fonte principale del vantaggio competitivo), con la clientela (con cui intrattiene rapporti di fidelizzazione nel lungo periodo) e con i fornitori (portatori di competenze e di capacità distintive). Per approfondimenti cfr. intervista a Roma riportata ne Il sole 24 Ore dell’ 01.02.2007. L’archiviazione della procedura di infrazione, a suoi tempo intentata contro le banche popolari che godono di un regime fiscale di favore, non ha infatti fermato chi vede in questa parte del sistema bancario 161 Il mondo del credito cooperativo “legato più a considerazioni di carattere culturale e sociale di un’area che non all’immediato profitto economico dei singoli” continua, infatti, ad imperniare la mission sulla propria identità e sui relativi valori, contrapponendo alle derive della finanza capitalista la sua forte stabilità patrimoniale sorretta da una continua capacità di presidiare il territorio, confermando continuamente l’attualità di questo modello dedito al localismo. In altri termini, nell’attuale clima di crisi ed instabilità finanziaria, i valori della tradizione cooperativa adeguatamente rinnovati, continuano a rappresentare dei vantaggi competitivi rispetto agli istituti di maggiori dimensioni insediati nello stesso contesto locale, secondo uno schema da alcuni chiamato “glocalismo433” (dall’unione tra globalizzazione e localismo).. Sul piano normativo il rinnovamento ha dato luogo ad un processo di de-specializzazione degli enti creditizi a seguito dell'applicazione del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D. Lgs. n.385 del 1993) che da un lato, ha avvicinato le Banche di Credito Cooperativo alla disciplina comune a tutti gli altri intermediari bancari e dall’altro lato, ne ha sottolineato il carattere mutualistico e la tradizionale connotazione locale attraverso regole speciali in materia di struttura, competenza territoriale ed operatività. Le modifiche introdotte hanno, perciò, lasciato inalterato ed anzi, sotto più profili, hanno accentuato la vocazione mutualistica delle banche di credito cooperativo ed il loro connotato distintivo di banche al servizio delle economie locali 434. Basti considerare che l’estensione della mutualità è stata anzitutto perseguita attraverso l’abbandono della vecchia denominazione di Casse Rurali ed Artigiane con la nuova di Banche di Credito Cooperativo435 (BCC), eliminando così il riferimento alle sole categorie di agricoltori e artigiani e con l’ampliamento del novero dei soci (anche persone giuridiche) a tutti coloro che risiedono od operano con continuità nel territorio di competenza436. Per quanto riguarda la struttura, la fissazione di un numero minimo di soci pari a 200 (pena la liquidazione se non segue un reintegro entro un anno) e di un importo massimo alle azioni detenibili da ogni socio (corrispondente alla cifra non superiore allo 0,5% del capitale sociale) sono vincoli finalizzati ad assicurare una compagine sociale sufficientemente articolata e democratica, a garantire la stabilità e ad evitare la costituzione di centri di potere. Il limite dell’ambito territoriale di competenza è stato poi attenuato, dando alla banca la possibilità di aprire nuovi sportelli in qualsiasi comune adiacente all’area in cui è già 433 434 435 436 una anomalia che non facilita fusioni e accorpamenti, come già avvenuto altrove. Per approfondimenti cfr. Mander J.- Goldsmith E. (a cura di), 1998. E’ proprio questo stretto legame con il territorio che consente alla categoria di godere, rispetto alle altre banche, di minori asimmetrie informative, soprattutto per i minori costi da sostenere in occasione di una procedura di valutazione del rischio di credito di un’impresa che deve basarsi su valutazioni che vanno ben oltre la mera osservazione degli indici di bilancio. Per approfondimenti cfr. Cfr. Cesarini F., 2003; Padoa Schioppa T., 1997. La richiesta di ammissione a socio, però è sottoposta a clausola di gradimento da parte del consiglio di amministrazione, il quale dovrà, in caso di rifiuto, motivare la risposta. 162 insediata, anche in presenza di un istituto di credito della stessa categoria437. Tuttavia, lo sviluppo economico di un territorio riguarda anche la capacità delle imprese di innovare e di crescere ed in questo la piccola banca e, in particolare, le BCC hanno mostrato alcuni punti di debolezza poiché la limitata diversificazione del portafoglio prodotti si è tradotto in evidenti ritardi nei confronti delle attività finanziarie innovative e in carenze emerse da un punto di vista organizzativo, procedurale e professionale. Per questo motivo, almeno nelle sue componenti di maggiori dimensioni, le BCC hanno tentanto di compensare investendo in un maggior livello di professionalità e di produttività del personale, per tentare di accrescere l’attività di consulenza e poter offrire prodotti/servizi finanziari maggiormente adeguati alle nuove esigenze di diversificazione e di ristrutturazione del passivo delle imprese minori. In questo processo, il radicamento sul territorio e la conoscenza personale della clientela hanno rappresentato degli importanti vantaggi e al rilievo della prossimità, tradizionale e irrinunciabile punto di forza della cooperazione, si sta quindi accompagnando il rafforzamento delle capacità professionali di analisi e di valutazione delle iniziative imprenditoriali locali. La cooperazione del credito si è così evoluta fino ai nostri giorni lavorando su queste direttrici e continuando così a contribuire alla crescita sociale ed economica della comunità di riferimento, in un mercato che ha integrato sempre più i mercati locali con quelli globali. Unico problema aperto ai nostri giorni è quello relativo alla governance delle banche di credito cooperativo e, in particolare, al principio “una testa un voto” che forse non potrà reggere il confronto con una concorrenza, da parte delle maggiori categorie bancarie, sempre più spietata ed aggressiva. 2.1. Un approfondimento legislativo. La recente riforma del diritto societario e il coordinamento con il TUB438 (con D.Lgs. n. 310/2004) hanno ulteriormente inciso, anche se senza eccessivi stravolgimenti, sulla disciplina delle banche cooperative439 consentendo di superare alcune incertezze normative. Intanto la nuova disciplina ha confermato la distinzione tra i due modelli di 437 438 439 L’estensione territoriale è ammessa anche al di fuori dei limiti ordinari se la Banca di Credito Cooperativo è in grado di procurarsi nuovi soci nell’area di insediamento e, se risulta in regola con i coefficienti di capitale e altre misure prudenziali. Questo decreto ha introdotto delle modifiche al precedente DL. n. 385 recante il Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. In particolare, con l’ultimo D.L. (n. 310 del 2004) sono state dettate una serie di nuove modifiche ed integrazioni al TUB, allo scopo di coordinare la riforma societaria con la disciplina bancaria sulle Banche Popolari e le Banche di Credito Cooperativo. 163 banca cooperativa (BCC e popolari, presenti anche nel TUB), incentrandola sulla diversa intensità del requisito mutualistico. Le BCC sono state ricondotte alla categoria civilistica delle cooperative “a mutualità prevalente”, in quanto tenute ad adottare nei propri statuti le clausole di mutualità prevalente 440(per cui il 70% dell’utile deve confluire a riserva indivisibile legale ed una quota deve essere destinata ai fondi mutualistici per la promozione della cooperazione) oltre che a rispettare i già accennati criteri di operatività prevalente con i soci. Il mancato rispetto dei vincoli di mutualità si tramuta nella perdita del favorevole regime fiscale applicato alla categoria441. Il regime fiscale è rimasto particolarmente favorevole fino a quando il maggior beneficio, ossia quello della riserva obbligatoria, è stato gradualmente smantellato. Sono ancora in vigore, invece le disposizioni che esonerano dalla tassazione gli utili destinati a riserva indivisibile e gli atti, del tutto esenti dalle imposte di bollo e di registro442. Le banche popolari, a loro volta, rientrano nella categoria delle cooperative a “mutualità non prevalente”, per espressa esclusione dalla prevalenza mutualistica. In base alle nuove disposizioni del Diritto Societario (2004) l’insieme degli istituti di credito cooperativo hanno dovuto procedere all’adeguamento dei rispettivi statuti alle nuove disposizioni (entro un termine differente rispetto alle altre società cooperative, fissato al 30 giugno 2005 ) ed hanno dovuto provvedere alla loro iscrizione nell’”Albo” a cui sono tenute anche le banche popolari, estensione meno ovvia, poiché notoriamente escluse dalle agevolazioni fiscali e non sottoposte alle procedure di revisione contabile delle BCC. Sembra, quindi, che questa iscrizione delle Banche Popolari nell’Albo delle cooperative (prevista dalla legge) abbia esclusive finalità anagrafiche (per un censimento della categoria veritiero ed aggiornato) e sia opportuna per la fruizione dei benefici “di altra natura” (previsti per le cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente) e per sopperire a finalità di vigilanza cooperativa. Le Banche Popolari, in quanto 440 441 442 Lo statuto tipo, inoltre, specifica che, per ottenere i vantaggi fiscali accordati dalla legge alle Banche di Credito Cooperativo gli utili distribuiti ai soci non possano eccedere l’interesse legale. Infine, in caso di scioglimento della società l’intero patrimonio, dedotto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati, deve essere devoluto a scopi di pubblica utilità. Fino al 1996, le Casse Rurali ed Artigiane se costituite sotto forma di società a responsabilità illimitata dovevano investire costantemente in titoli (al loro valore corrente), almeno il 10% dell’ammontare dei depositi ricevuti, se nate sotto forma di società cooperative a responsabilità limitata almeno il 20% degli stessi depositi ricevuti, con l’obbligo di adeguamento trimestrale. La stessa norma non era prevista per le altre aziende di credito le quali, a differenza delle Casse Rurali ed Artigiane, rimanevano sottoposte all’obbligo della riserva obbligatoria e al vincolo di portafoglio Fino al 1995, inoltre, alla parte di utili non destinata a riserva indivisibile erano applicate aliquote IRPEG e ILOR pari ad un quarto rispetto a quelle applicate all’intero sistema bancario (cioè il 27% rispetto al 36% richiesto alle altre aziende di credito, mentre l'ILOR ammontava al 12,15% contro il 16,2% degli altri intermediari bancari) 164 cooperative, sottostanno comunque alla normativa del Codice Civile sulle cooperative (ad eccezione ovviamente delle disposizioni che fanno espresso riferimento alla categoria a mutualità prevalente). 2.2. La governance delle BCC. La funzione-obiettivo delle BCC è quindi alquanto complessa poiché deve contemperare le esigenze proprie del modello creditizio mutualistico con i principi cooperativi di economicità (efficienza di costo) e mutualità (livello minimo di redditività e attività a favore dei soci e del territorio), in un mercato in cui la solidità patrimoniale di lungo periodo assume sempre più un ruolo fondamentale. Del resto, se il successo di una impresa cooperativa è legato al grado di unità di intenti tra i soci, appare evidente che l’obiettivo principale di una BCC deve essere ricercato all’interno del patto di lungo periodo che la comunità dei soci stringe nell’interesse comune di poter disporre, oggi e nel futuro, di finanziamenti e servizi bancari. Inoltre il principio del voto unitario, la democraticità e l’impossibilità di scalate di maggioranza rendono il management libero di amministrare l’impresa per il soddisfacimento degli interessi dei soci in misura certamente superiore rispetto a quanto non sia possibile agli amministratori delle imprese da capitali, talvolta spinti da interessi personali e/o da comportamenti nepotistici. Per mitigare possibili ed eventuali conflitti di interesse sussiste, inoltre, una ulteriore garanzia alla trasparenza gestionale delle BCC, attraverso due ulteriori elementi: le pre-condizioni per l’eleggibilità degli amministratore (ammessa solo per i soci con un ruolo all’interno della comunità locale) ed alcuni residui vincoli normativi (ossia i limiti all’operatività con non soci) che sono legati a meccanismi automatici di controllo, consistenti in possibili sanzioni sociali e morali che scattano all’interno della comunità in cui la banca opera443. Ciò, a sua volta, implica che gli obiettivi dei soci-azionisti non dovrebbero divergere troppo da quelli dei soci-amministratori444. Più in generale, il consenso (o l’unità di intenti, se si preferisce) tra i soci, amministratori e clienti, può costituire il presupposto irrinunciabile per una corretta gestione della società purché finalizzato a contemperare il rispetto del principio “una testa, un voto” e ad evitare comportamenti opportunistici. In tale ottica, l’attenuazione dei potenziali conflitti di interesse in alcuni casi ha anche rappresentato una modalità 443 444 La tradizionale vocazione delle BCC talvolta a favore di aree di mercato decentrate e relativamente marginali indica, inoltre, che la loro capacità di conoscere e di operare in tali realtà sia decisamente migliore di quella delle altre banche, per la sussistenza di particolari vantaggi informativi che tendono a ridurre i noti problemi di asimmetria informativa tra prenditori e prestatori di fondi monetari. Ipotizzando che la base sociale sia equamente distribuita tra soci-depositanti e soci-prenditori e che i sociamministratori rappresentino adeguatamente la base sociale, è possibile ritenere che le due categorie di “agenti” (proprietari e amministratori) presentino pressoché lo stesso grado di avversione al rischio e, quindi, supporre che non sussistano significativi incentivi all’assunzione di particolari rischi per massimizzare il rendimento di breve periodo. 165 per il contenimento dei margini di inefficienza dell’impresa cooperativa e, allo stesso tempo, la garanzia del corretto funzionamento dei meccanismi di selezione e di controllo della clientela. Contemporaneamente alla mission di questa categoria bancaria si aggiungono i principi di produttività e di efficienza, dettati dal mercato ed alla base della sostenibilità di lungo periodo di ogni impresa. Se comunque si assume, per ipotesi, che l’obiettivo di una banca cooperativa mutualistica possa divergere dalla massimizzazione del valore dell’impresa (ad esempio con una bassa attenzione ai costi di gestione) si deve anche presumere che tale inefficienza sia compensata da altri comportamenti virtuosi che, nel più lungo periodo, potranno contribuire alla redditività anche sociale dell’impresa. Unità di intenti tra i soci, solidità patrimoniale di lungo periodo e riduzione delle asimmetrie informative sembrano quindi costituire i pilastri delle specificità gestionali delle BCC e le modalità per consentire il perseguimento degli obiettivi di massimizzazione del valore dell’impresa. La valutazione “del se” e “del come” le specificità gestionali delle BCC consentano di far prevalere i vantaggi del radicamento locale e della riduzione delle asimmetrie informative sui clienti sugli svantaggi gestionali ed organizzativi legati alla dimensione rimane tutt'oggi una questione aperta. Concludendo, i principali elementi che contraddistinguono la governance creditizia cooperativa riguardano: - l’omogeneità di intenti e di interessi dei soci-azionisti (consenso) che esercita un’influenza certamente positiva sulla gestione cooperativa, determinandone il successo; - la fattiva applicazione di rapporti mutualistici (extra-economici) fra i soci e gli amministratori che sollecita ulteriormente il perseguimento dell' equilibrio gestionale, in coerenza con gli obiettivi aziendali; - la stabilità del management che, nel tempo, favorisce la continuità delle relazioni con la clientela e il radicamento della banca nell’economia locale, con conseguente riduzione delle asimmetrie informative, ed il miglioramento della performance complessiva della gestione nel medio-lungo termine. 3. L'operatività delle banche di credito cooperativo in Italia. Negli ultimi anni, anche la struttura bancaria italiana è stata protagonista di processi di profonda ristrutturazione territoriale ed 166 organizzativa con la concentrazione degli istituti bancari (a partire dagli anni ’90), ovvero con la riduzione del numero degli istituti operanti a seguito di un ampio processo di acquisizione e di fusioni bancarie e il raggiungimento di maggiori dimensioni aziendali, sia strutturali che patrimoniale ed operative. Ma, mentre le grandi banche hanno progressivamente abbandonato il settore della finanza tradizionale per dedicarsi agli strumenti finanziari innovativi, le piccole banche locali (come anzidetto) hanno continuato a consolidare i legami tradizionali, mantenendo il ruolo di principale partner finanziario per le micro e piccole aziende445. Nel mantenimento di questo ruolo, il comparto credito cooperativo nazionale assieme ai Confidi, ha così rappresentato un’importante opportunità per il sostegno del tessuto produttivo nazionale caratterizzato dalla prevalenza di PMI, continuando a facilitare l’accesso al credito alle aziende artigiane, alle piccole imprese ed alle cooperative nazionali. Nel panorama bancario italiano, le BCC ricoprono quindi una funzione peculiare, che tende a distinguerle in modo significativo anche dalle banche popolari che, seppure ancora largamente costituite nella forma di cooperative, hanno di fatto abbandonato ogni indole di tipo mutualistico e del no-profit. In questa funzione sono supportate dal sistema associativo, composto dalla Federazione Nazionale e dalle Federazioni Regionali446. Queste ultime447 costituiscono il “punto di snodo” del sistema del credito cooperativo in quanto, da un lato, raccolgono le istanze ed i segnali provenienti dalle banche e li filtrano verso gli organismi nazionali; dall’altro, sintetizzano le informazioni e le indicazioni provenienti da questi ultimi e le trasmettono alle aziende. Sono, inoltre, strumento di governo delle strategie locali-regionali per una serie di funzioni fondamentali: la rappresentanza, la tutela della qualità e dell' efficienza della gestione, il supporto associativo e consulenziale. L’operatività si articola su diverse tipologie di attività: rappresentanza e promozione; assistenza e consulenza; verifica e revisione; attività di informativa ed informatica destinata alle strutture consortili. 3.1. La dimensione delle BCC . Il variegato mondo delle banche cooperative presenti in Europa conta una rete capillare che copre complessivamente una quota del 20% del mercato creditizio 445 446 447 La missione di queste banche è, per loro natura, quella di cercare di promuovere la crescita dell’imprenditoria locale, cercando di “fare sviluppo” che è il contrario del “fare profitto”. Le Federazioni locali, sono società cooperative con funzione consortile senza scopo di lucro e rappresentano la diretta espressione sul territorio delle BCC (che aderiscono ad esse volontariamente) . Le Federazioni locali sono quindici e si articolano in: Federazione BCC Piemonte Valle d´Aosta Liguria, Federazione Lombarda delle BCC, Federazione Cooperative Raiffeisen, Federazione Trentina della Cooperazione, Federazione Veneta delle BCC, Federazione delle BCC del Friuli Venezia Giulia, Federazione delle BCC dell'Emilia Romagna, Federazione Toscana BCC, Federazione Marchigiana delle BCC, Federazione delle BCC del Lazio Umbria Sardegna, Federazione delle BCC dell'Abruzzo e del Molise, Federazione Campana delle BCC, Federazione delle BCC di Puglia e Basilicata, Federazione Calabrese delle BCC, Federazione Siciliana delle BCC. 167 totale ed è rappresentata da più di 4.500 banche locali, 62 mila sportelli, 49 milioni di soci, 160 milioni di clienti e 750 mila dipendenti (dati fine 2007). Una caratteristica comune è stata la generalizzata riduzione del numero di aziende operanti nei vari Paesi europei, dovuta per lo più alla insufficiente dimensione aziendale delle singole aziende di credito a fronte di un incremento del numero di sportelli. La media di sportelli per azienda (con differenze tra i vari Paesi) conferma comunque una dimensione modesta dai 3 ai 7 sportelli per azienda, indicando la natura di banca locale delle BCC europee. Nel territorio italiano il Credito Cooperativo occupa una posizione di primo piano sotto vari profili: la presenza sul territorio, la solidità patrimoniale e finanziaria, i volumi intermediati ed i ritmi di crescita. Il modello organizzativo nazionale del credito cooperativo ruota intorno alle 442 BCC complessivamente presenti sul territorio nazionale, con 3.863 sportelli (il 12 % degli sportelli bancari italiani), attraverso una presenza diretta in 2.529 comuni (in 542 comuni rappresentano l’unica realtà bancaria) ed in 98 province. La quota di mercato degli impieghi economici delle BCC è pari al 7% (101 miliardi di euro), con una variazione annua quasi del 12%, leggermente superiore a quanto registrato per il sistema bancario (+11,2%). La vocazione della categoria a supporto delle piccole e medie imprese artigiane, delle famiglie e del non profit è confermata dal 20% di credito erogato all’artigianato448 (sia imprese sia famiglie produttrici), a fronte del 7% consesso dal resto del mercato creditizio. La raccolta diretta, che copre una quota di mercato del 9% (pari a 118,5 miliardi di euro) ha registrato un tasso di crescita annua del 10,2%. L’articolazione del sistema creditizio toscano, a sua volta, è arricchita da una notevole presenza di piccole banche locali, prevalentemente di matrice cooperativa, nonostante la diffusione di gruppi extra-regionali di grandi dimensioni e l’innalzamento del grado di concentrazione del sistema. Nonostante le aggregazioni e le fusioni, le 37 banche di credito cooperativo rappresentano il 30% delle banche operanti in Toscana449 e il 59% di quelle con sede in regione450 (dati 2007). Tra 2001 e 2007 si è registrato un aumento del 35% circa degli sportelli che hanno raggiunto un’incidenza sul totale regionale451 di quasi il 12% (in linea con la media nazionale, 11,8%). Le BCC hanno anche mostrato una continua crescita delle quote di mercato sia degli sportelli che 448 Significativa è anche la quota di mercato del credito destinata alle altre categorie economiche: il 15% alle “altre imprese minori”, il 15,5% alle famiglie produttrici, l’8,5% alle famiglie consumatrici e il 10,5% del totale dei crediti alle Istituzioni senza scopo di lucro (Terzo Settore). 449 Tra le banche toscane l’articolazione in base all’assetto giuridico vede una consistente presenza di BCC (37 unità) seguite dalle SpA. (22 unità) e dalle 3 banche popolari. 450 Nel 2007 il numero complessivo di intermediari operanti in regione è di 122 unità. 451 A livello provinciale il maggior numero di sportelli si riscontra nella provincia di Firenze (74) seguita da Siena (50): proprio quest’ultima provincia mostra la più alta incidenza sul totale pari al 23%. 168 degli impieghi e della raccolta, testimoniando lo sviluppo di una importante componente a forte radicamento locale. I risultati 2007 delle BCC Toscane appaiono particolarmente buoni alla luce della instabilità che la crisi finanziaria statunitense ha diffuso su tutti i mercati del credito e finanziari, anche se forse alla data di chiusura del bilancio 2007, la crisi probabilmente non aveva ancora prodotto il massimo dei suoi effetti. Tuttavia le performance rimangono molto positive e sembrano non essere state particolarmente interessate da questo evento negativo452. Il merito del successo pare sia imputabile alla diversa governance453 di questa categoria rispetto ad altre banche. Considerazioni conclusive. Come ribadito il 2007 è stato un anno particolarmente negativo per il settore creditizio e finanziario internazionale e, a seguito della crisi americana sui mutui subprime, che si è tradotta in una profonda crisi di liquidità del settore bancario mondiale, che ha immediatamente provocato un aumento del costo del denaro, per l’inasprimento dei tassi interbancari e quindi dei tassi praticati alla clientela. In questo contesto, il sistema bancario nazionale sembra essere stato penalizzato meno rispetto agli altri paesi industrializzati, proprio per la bassa cultura finanziaria dei clienti e la conseguente minore domanda (rispetto all'estero) di prodotti finanziari più innovativi e sofisticati. Il 2008, a sua volta, ha sancito l’entrata in vigore (e a pieno regime) di Basilea 2 (del Nuovo Accordo sul Capitale) fra gli istituti bancari degli Stati aderenti 454 membri della Banca dei Regolamenti Internazionali (con sede a Basilea) cosicché anche dai maggiori gruppi italiani verranno utilizzati sistemi di rating avanzati455, con i quali dovrà essere possibile determinare la quantità di capitale necessario alle imprese richiedenti credito456 per poter essere considerate sicure e solide, sulla base del calcolo dei ratios 452 453 454 455 456 457 sul rischio di liquidità457. Inoltre, è estremamente Per approfondimenti cfr. Regione Toscana, Osservatorio Regionale Toscano sulla Cooperazione, Quarto rapporto, 2008. La specifica funzione-obiettivo delle BCC risulta distante, in misura rilevante, dal tradizionale modello basato sul principio della massimizzazione del profitto o del valore dell’impresa e dagli investimenti in Borsa. Gli stati aderenti all’accordo sono: Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera Regno Unito e Stati Uniti. Si tratta dei metodi standardizzati (standardized approach) oppure dei metodi di rating interno di primo livello (foundation internal rating based). A fine 2008 solo Unicredit e Credem avevano ricevuto la certificazione da parte della Banca d’Italia per utilizzare tali metodi di rating. L’adozione da parte della maggioranza delle banche italiane (medie e piccole) di metodi standardizzati di rating non dovrebbe comportare sostanziali modifiche nell’accesso e nel costo del credito per le PMI, in quanto le piccole e medie avranno la medesima ponderazione (100%) di Basilea I. Invece le piccolissime e le micro-imprese rientranti nel comparto retail avranno un coefficiente del 75%, ossia la soglia di liquidità per il loro accesso al credito si è innalzata del 25%. Se il livello di capitale richiesto non sarà considerato soddisfacente dalla Banca d’Italia, le sanzioni potranno andare dall'obbligo di incrementare il patrimonio fino al divieto di distribuire dividendi. 169 probabile attendersi una crescita sempre maggiore dell’importanza e dell’utilizzo da parte delle imprese dei Confidi458 a cui è stato richiesto di ricapitalizzarsi459, anche attraverso la sottoscrizione delle quote di capitale sul mercato di Borsa460. In questo contesto, le principali strategie delle banche di credito cooperativo si sono concretizzate nello sviluppo del sistema di “Classificazione del Rischio di Credito” (CRC) delle BCC, finalizzato a minimizzare i rischi di adverse selection e di svantaggio competitivo nei confronti delle altre categorie bancarie. Per le BCC l’utilizzo del sistema CRC nell’ordinaria gestione del rischio di credito, sarà anche un’opportunità di progredire verso più elevati standard gestionali, fortemente incentrati su sistemi di autovalutazione e di autocontrollo, avvantaggiate dalla ridotta dimensione, dalla flessibilità operativa delle strutture e dalla possibilità di una immediata trasmissione delle nuove procedure su tutto il sistema, in base alle caratteristiche operative ed alle esigenze gestionali461 di ciascuna azienda locale. 458 459 460 461 Come detto in Appendice (al cap. III) Il Confidi è un consorzio di garanzia collettiva dei fidi che svolge attività di prestazione di garanzie per agevolare le imprese nell’accesso ai finanziamenti, a breve medio e lungo termine, destinati allo sviluppo delle attività economiche e produttive. Il raggiungimento di quest’obiettivo ha permesso la ricapitalizzazione e la ristrutturazione organizzativa come richiesto (entro il 2007) per l'ottenimento della certificazione di qualità ISO 9001 anche per questi consorzi. Un Confidi certificato e con buone credenziali (sotto l’aspetto patrimoniale ed organizzativo) avrà le carte in regola per poter competere sul mercato delle garanzie e fornire servizi sempre più avanzati ai soci. Queste operazioni dovrebbero permettere di risolvere il problema legato alla patrimonializzazione dell’organismo e nello stesso tempo dovrebbero essere il primo passo verso l' iscrizione nell’elenco speciale degli intermediari finanziari (di cui all’art. 107 del Testo Unico Bancario). Questa evoluzione permetterebbe ad esempio a FidicoopToscana di agevolare l’accesso al credito delle cooperative socie ed essere un interlocutore di rilievo nella concessione di garanzia personali ai conglomerati finanziari di maggiore dimensione. Per le piccole banche il processo di autovalutazione patrimoniale dovrebbe rappresentare un percorso gestionale importante per finalità “aziendali” e regolamentari: ossia per accrescere la consapevolezza del rischio (specie di quello legato a cambiamenti del mercato dovuti a fattori esogeni ed endogeni), per rafforzare la capacità di valutare e monitorare il rischio e di credito e per assicurare un’idonea valutazione del livello di capitale sufficiente a far fronte a perdite non previste. 170 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE GENERALI A livello europeo, la nascita delle cooperative ha fatto parte di una tendenza generale del secolo scorso, per definire forme di impresa nelle quali far convergere sia il capitale finanziario che quello umano di più individui e famiglie, per soddisfare i molteplici interessi degli stakeholders462 e della comunità di appartenenza. Nel tempo, l’assimilazione del modello democratico e l’affermarsi del cooperativismo463 ha imposto di affrontare, specie nell’ambito delle cooperative di produzione e lavoro, i problemi tipici delle imprese di capitali: ossia il mantenimento del ruolo di centralità della dimensione organizzativa in un mercato sempre più esteso ed evoluto ed i problemi ad essa correlati, ossia il rischio di perdere il legame con l’area di insediamento e le difficoltà emergenti, in termini di responsabilità sociale, gestionale e di finanziamento degli investimenti innovativi. In seguito, l’esistenza di veri e propri “distretti cooperativi”, una risorsa peculiare nelle regioni di più antico insediamento, ha spinto a puntare soprattutto sulla regolamentazione delle reti (orizzontali e verticali) fra imprese, ampliando anche l'utilizzo dello strumento dei consorzi. Ai nostri giorni il ruolo della cooperazione nello sviluppo economico generale rimane un tema dibattuto e controverso dato che, storicamente, quasi tutti gli economisti hanno attribuito il merito dello sviluppo economico all’impresa capitalistica e, in particolare, all’imprenditore. In realtà, l’imprenditore ha risolto le situazioni di ristagno dell’economia agricola, ha aperto nuovi orizzonti e scoperto nuovi mondi; pressato dalla concorrenza, ha spinto in alto la produttività introducendo nuove invenzioni e creando processi di produzione e prodotti innovativi. Ma, accanto a questa realtà esiste un’altra storia del capitalismo, secondaria ma rilevante, in cui l’imprenditore ha anche svolto un ruolo di freno all’aumento della produttività e del progresso economico e civile. La letteratura e la storia hanno, infatti, dimostrato solo marginalmente che le rendite dell’imprenditore, a volte, sono state il risultato della speculazione edilizia, dei monopoli naturali sulle materie prime, dei privilegi assicurati da legislazioni favorevoli ed anche di ingenti rendite finanziarie personali sottratte da risorse monetarie originariamente destinate alla crescita economica e sociale della collettività. Ed è proprio in questo quadro complesso e spesso taciuto che dobbiamo guardare per osservare il contributo della cooperazione allo sviluppo economico del Paese, per la creazione di nuova occupazione e anche per la creazione delle condizioni di stabilità e di tutela del posto di lavoro, 462 463 Cfr. Zamagni S., 2006; Salani M.P., 2006. Per approfondimenti cfr. ISFOL, I fattori di successo delle imprese cooperative, 2004. 171 grazie alla priorità data nella gestione della cooperativa alla dignità dell'individuo. Bisogna quindi partire da questo fronte per mettere in evidenza le principali differenze tra imprese di capitali ed imprese cooperative e certamente affermare che, nel mondo della produzione e nel corso dello sviluppo economico italiano, sono emersi due elementi che hanno contribuito a dare dignità al lavoro: il sindacato (per l’attività rivendicativa e contrattuale) e le cooperative che, storicamente, hanno svolto un ruolo molto importante per l’occupazione della popolazione italiana. Rimane, comunque, irrisolto il quesito sull'apporto della cooperazione per lo sviluppo economico nazionale. Mentre quantitativamente si tratta di un valore facilmente quantificabile (ossia in termini di fatturato del 4-6% del PIL nazionale), non è invece calcolabile il suo contributo qualitativo, sintetizzabile nella crescita sociale, culturale e personale dei suoi soci e del territorio di insediamento. Così come non è misurabile la sua capacità di inserire i giovani nel mondo del lavoro, con meno barriere di quanto avviene in una impresa profit. Analogamente non è certamente quantificabile il suo contributo alla socializzazione delle classi emarginate, la sua capacità di diffondere qualità sui beni, sui rapporti interpersonali e sulla gestione delle relazioni imprenditoriali. Effetti diretti ed indiretti, beni e servizi non misurabili ma certamente rilevanti per una crescita sostenibile e civile della società moderna 172 BIBLIOGRAFIA Ambrosini M., Scelte solidali. L’impegno per gli altri in tempo di soggettivismo, Il Mulino, Bologna, 2005. AA.VV, L’orientamento responsabile, Approcci e prassi di responsabilità sociale d’impresa. Le esperienze del progetto Equal-Abruzzo: “L’impresa giusta”, CCIAA, Pescara, 2007.AA.VV., L’orientamento responsabile, CCIAA, Pescara, 2007. 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