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APPUNTI DI
COOPERAZIONE
Maria Vella
PREMESSA
4
I. LA COOPERAZIONE NEL MONDO
1. Introduzione sulla cooperazione internazionale
1.1. Stati Uniti
7
8
1.2. Canada
14
1.3 America Latina: Brasile e Argentina
16
1.4 Area Asiatica: India e Giappone
19
2. Le cooperative in Europa
23
3. L'attualità delle cooperative in Europa
26
3.1. Regno Unito
28
3.2 Germania
34
3.3 Austria
37
3.4 Francia
39
3.5 Italia
41
3.6 Danimarca
48
3.7 Finlandia
49
3.8. Spagna
50
3.8.1. L’esperienza Mondragon nei paesi Baschi
52
3.8.2. L’organizzazione di Mondragon
53
Alcune considerazioni conclusive sulla cooperazione in Europa
58
II. LA LEGISLAZIONE DEL SETTORE COOPERATIVO
Introduzione
1. Le funzioni dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI)
62
2. La definizione internazionale di cooperativa
63
2.1. I principi cooperativi dettati dall'ACI
65
3. La legislazione cooperativa in Europa.
3.1. Il più recente orientamento legislativo europeo sulle cooperative
4. Le cooperative nella Costituzione italiana e nel Codice Civile.
1
61
67
68
70
4.1. Le cooperative sociali nelle legislazione italiana
73
4.1.1. La più recente regolamentazione delle cooperative sociali.
76
4.1.2. Le odierne tipologie di cooperazione sociale
79
4.2. Verso la riforma del diritto societario
81
4.2.1. Le cooperative a mutualità non prevalente
84
5. Le Associazioni Centrali di Categoria
5.1. Alcune specificazioni sulle Associazioni Centrali di Categoria
Alcune considerazioni conclusive sulla cooperazione italiana.
85
89
92
III. DIMENSIONI E PECULIARITA’ DELLA COOPERAZIONE IN ITALIA
Introduzione
92
1. Le fonti statistiche cooperative: i censimenti ISTAT
92
2. L'Albo delle Cooperative
95
3. Analisi quantitativa del settore cooperativo
97
3.1. La dimensione della cooperazione sociale in Italia.
104
3.1.1. La cooperazione sociale in Toscana
106
4. Analisi qualitativa: i caratteri distintivi della cooperazione in Italia.
107
4.1. I principi cooperativi della mutualità’, solidarietà’ e democraticità’ 111
4.2. Un approfondimento sul principio di solidarietà: J.J. ROUSSEAU. 113
APPENDICE: analisi dell' Albo delle Cooperative
116
IV. LE TEORIE ECONOMICHE SULLE IMPRESE COOPERATIVE
Introduzione
1. Gli economisti classici: A. Smith e J.S. Mill, L. Walras e a. Marshall.
2. L’approccio di C. Marx alle cooperative
123
124
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3. Il marginalismo
128
3.1. Il modello teorico di Ward.
4. La letteratura economica cooperativa in Italia.
131
5. Le moderne teorie economiche: felicità, benessere e cooperazione
133
Alcune considerazioni conclusive.
2
130
138
V. L’ ANTICAPITALISMO DELLE IMPRESE COOPERATIVE
Introduzione
1. L’anticapitalismo nei rapporti di lavoro cooperativo.
2.
142
1.1. Un approfondimento sul rapporto di lavoro cooperativo.
144
L’anticapitalismo cooperativo nei rapporti con l’ambiente esterno.
145
2.1. Ulteriori note sull’anticapitalismo delle cooperative.
3.
140
146
L’ efficienza cooperativa.
148
3.1. L’efficacia cooperativa
150
VI. IL FINANZIAMENTO DEL SETTORE COOPERATIVO
Introduzione
1. Evoluzione della funzione finanziaria
1.1. Le difficoltà di finanziamento delle imprese cooperative
155
155
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2. Il credito cooperativo ai nostri giorni
159
2.1. Un approfondimento legislativo
161
2.2. La governance delle banche di credito cooperativo
163
3. L'operatività delle banche di credito cooperativo in Italia
3.1. La dimensione del credito cooperativo in Italia
Considerazioni conclusive.
164
165
167
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE GENERALI
169
BIBLIOGRAFIA
171
3
PREMESSA. La cooperazione coinvolge 850 milioni di persone in tutto il mondo ed è l’unica
esperienza di lavoro emancipata e libera1. E' anche una realtà poliedrica e multiforme, difficilmente
catalogabile e questa molteplicità funzionale è alla base del fatto che l’impresa cooperativa sorge
soprattutto per rispondere al soddisfacimento dei bisogni socio-economici dei soci-lavoratori,
piuttosto che per esigenze esclusivamente speculative.
L’eterogeneità delle forme in cui la
cooperazione si presenta, inoltre, aumenta al crescere della diversificazione dei contesti operativi in
cui i vari modelli d’impresa si sono insediati e sviluppati. Per questo è stato ed è così difficile
ricostruire uno schema univoco di riferimento, come dimostra il dibattito annoso che ha
accompagnato il tentativo di pervenire ad una definizione univoca (a livello mondiale), finalmente
approdato nel XXXI° Congresso dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (a Manchester nel 1995),
nella nota formula accettata in tutto il mondo e pervenuta fino ai nostri giorni. Definizione che,
comunque, appare in qualche modo riduttiva, quasi un compromesso che lascia fuori molte
esperienze e sottovaluta alcuni fenomeni. Per presentare questa analisi comparativa, abbiamo perciò
ritenuto necessario seguire una lettura per aree o meglio, per macro-aree (come faremo nelle pagine
seguenti), avendo chiaro che per la lettura del fenomeno cooperativo questa segmentazione non è
discrezionale, ma tiene conto dei processi di crescita e di sviluppo economico di ciascuno dei
diversi mercati di riferimento.
La cooperazione quale forma di soddisfazione dei bisogni (e di produzione di beni: quando il
bisogno è quello del lavoro), nasce più di 150 anni fa, in risposta (in opposizione?) ad una
condizione economica e sociale dell’economia percepita come inaccettabile (o, quanto meno,
iniqua). E', infatti, cresciuta e si è sviluppata nel corso di questo secolo e mezzo in modo
esponenziale non solo in Europa (dove ha avuto origine) ma anche in tutto il mondo, risentendo
fortemente dei contesti nei quali si produceva, dei “promotori” che la propugnavano e dei bisogni a
cui cercava di dare risposta.
Un esempio di questa mutabilità o, se si vuole, adattabilità è data dall’esperienza italiana: gli anni
del pionierismo hanno visto, infatti, il ruolo attivo delle cooperative nelle prime forme di lavoro
organizzato, dalle case del popolo ai primi movimenti emancipativi delle classi operaie a cui, in
qualche caso, hanno partecipato perfino le élite liberali. Poi, durante gli anni dello sviluppo direi
meno classista (dato che sarebbe difficile da definire interclassista) della ricostruzione post bellica,
la cooperazione ha rappresentato l’unica chance di “massa” per la proprietà diffusa di case: per gli
operai ma anche per i magistrati; per i ferrovieri, ma anche per i giornalisti ed i militari. In seguito,
1
4
Per approfondimenti cfr. Borzaga C.-Tortia E., in Mazzoli E.- Zamagni S.(2006).
negli anni ’70 la cooperazione ha svolto un ruolo del tutto originale, poco studiato e soprattutto
poco apprezzato, quando è intervenuta a “dare una mano” nel processo di ristrutturazione produttiva
e, in alcune aree, di deindustrializzazione che ha investito ampie zone del Paese, proponendosi
come una alternativa alle ampie quote di forza lavoro liberate a seguito della crisi che aveva colpito
la grande industria nazionale, quindi risorse potenzialmente sotto-occupate o disoccupate e
difficilmente ricollocabili in altre unità produttive. Nel periodo nascevano, infatti, quelle che si
possono definire le “cooperative ereditarie”, che avevano proseguito le precedenti attività
produttive, attraverso l’assunzione di responsabilità da parte dei lavoratori, che si sostituivano agli
imprenditori in fuga o in fallimento. Esperienza poco studiata e poco valorizzata se non altro sul
fronte del contenuto etico prima che civile.
Infine, come non fare cenno all’ennesima fattispecie di forma e di ruolo, rappresentata dalla
cooperazione sociale (che proprio in Italia affonda le sue origini) che ha consentito allo Stato di
seguire, senza troppi danni sociali, la tendenza al graduale disimpegno dal Welfare.
Nel corso degli ultimi anni2, all’avanzata del movimento cooperativo per risolvere le inefficienze
del mercato che si riflettevano all’interno della società civile, si sono accompagnate profonde
trasformazioni del modello, conseguenti alla crescita numerica delle imprese e dei fatturati che
iniziavano ad occupare i vertici delle classifiche, espandendosi in settori fino a qualche tempo fa
impensabili. I cambiamenti hanno poi interessato soprattutto due parametri: la dimensione media
delle imprese e l’innovazione tecnologica, che nel settore presenta una diffusione particolarmente
accentuata. Relativamente al primo indicatore possiamo certamente affermare che si tratta di un
valore largamente superiore alla media delle imprese for profit (con 17,5 addetti a fronte dei 7,8 in
media), con un contributo all'occupazione significativamente elevato (in Italia supera il 6%
dell'occupazione privata, al netto dell'agricoltura). La maggiore dimensione ha poi consentito di
registrare performance a volte incredibili, che hanno generato dinamiche talvolta contraddittorie
che, in alcuni casi, hanno finito per minare la stessa identità cooperativa. Passando al secondo
aspetto, l’impresa cooperativa, ha poi dimostrato di essere efficiente non solo nei mercati dei
prodotti/bisogni maturi (o di base) ma anche nel segmento delle nuove tecnologie (basti pensare
che nell’ultimo decennio le cooperative hanno registrato un incremento pari al 6% delle produzioni
innovative).
La crescita, infine, del settore è stata accompagnata dal rifiorire dell’interesse per questa forma di
2
5
La stessa cosa non può dirsi delle imprese di capitali “tradizionali” che, spesso, si sono sottratte alla
concorrenza rifugiandosi in mercati protetti ed abbandonando i settori innovativi e in espansione.
impresa non solo da parte degli istituti di ricerca, ma anche a livello istituzionale (Governi,
sindacati ed associazioni di produttori) anche se il sostegno principale al processo espansivo è stato
fornito dalle associazioni tra cooperative, sia centrali (come nella tradizione italiana e francese) che
locali (come in alcune esperienze statunitensi).
L’aiuto pubblico al segmento cooperativo, invece, non sembra sia stato specificatamente diretto al
loro accreditamento presso il pubblico ed alla loro promozione sul mercato essendo stato erogato,
per lo più, durante le fasi di recessione, allo scopo di creare posti di lavoro, prezzi al consumo e
redditi a costi minori. Se ne può dedurre che, da un punto di vista operativo, negli ultimi anni il
ruolo sociale della cooperativa è andato crescendo e le innovazioni legislative più recenti hanno
seguito questo processo di crescita in Italia così come in altri paesi dell’UE, dove si è anche assistito
all’introduzione di nuove e varie tipologie di cooperative.
6
I. INTRODUZIONE SULLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE.
In qualsiasi parte del mondo la cooperazione ha vissuto gli stessi problemi delle imprese di capitale:
processi di concentrazione, globalizzazione, mutamento tecnologico ed organizzativo, necessità di
rispondere ai
bisogni emergenti degli utenti e, contemporaneamente, ha dovuto affrontare le
particolari sfide legate alla loro specifica natura di organizzazioni volontarie ed aperte, con
controllo democratico ed equa partecipazione economica dei soci. Il maggiore sforzo è stato quello
di dover essere competitive pur mantenendo la loro natura specifica: quindi sono state obbligate non
solo al raggiungimento di risultati economici e di un'alta redditività (come le imprese di capitali) ma
anche al miglioramento del benessere personale, sociale ed anche finanziario dei soci (siano essi
società o persone fisiche) e della comunità in cui hanno operato. Di conseguenza, la cooperazione
ha interpretato e risentito di questa dimensione territoriale che, a volte è stata associata al localismo
ed altre, nella maggior parte dei casi, è stata cultura, proposta economico-politica e, talvolta, persino
testimonianza (o contributo) dello sviluppo di contesti socio-economici democratici. Il dibattito
politico ed economico sulla natura e sul ruolo dell’impresa cooperativa nel mondo ha, comunque,
prodotto diverse interpretazioni sulle specificità di questa particolare forma di impresa. E’ stata
definita, di volta in volta:
− strumento utile solo in situazione di crisi,
− impresa superiore a quella capitalistica, perché in grado di coniugare equità ed efficienza;
− impresa in grado di democratizzare le economie moderne;
− impresa adatta ad attività minori (marginali) o per imprese in transizione o, comunque,
bisognosa di sostegno pubblico.
Da un punto di vista quantitativo, se si fa riferimento ai fatturati ed al livello internazionale 3, il
settore cooperativo ancora oggi non occupa una posizione di grande rilievo ma è lungi dall’essere
economicamente marginale, anzi rappresenta una importante componente della moderna economia
di mercato. Nell’ambito dei paesi avanzati e dove il movimento cooperativo è storicamente radicato
(ossia negli Stati Uniti e in Europa) la quota globale dell’attività economica attribuita alle
cooperative è, comunque, maggiore rispetto a quella delle economie meno sviluppate4, con una
prevalenza di imprese agricole, di cooperative di utenza e, nel terziario, di strutture di credito.
3
4
7
Per approfondimenti cfr. Salani M.P. , (2008).
Per approfondimenti cfr. Hansmann H. (2005).
1.1. Stati Uniti. L’inizio del movimento cooperativo negli Stati Uniti d’America viene
generalmente associato alla fondazione (nel 1750) di una compagnia di assicurazione anti-incendio
a Philadelphia per iniziativa di Benjamin Franklin5 e colleghi la Philadelphia Contributionship for
the Insuerance of House from the Loss of Fire (tuttora esistente). Sempre a Philadelfia fu fondata
(nel 1758) la prima società cooperativa agricola mentre i tentativi successivi furono sporadici. Fra
questi, degne di note le seguenti esperienze: la prima cooperativa di produzione agricola (nel 1810,
una cooperativa casearia stabilitasi nel New Jersey); la New Harmony, fondata da Robert Owen nel
1825 (nello Stato dell’Indiana) e la Brook Farm una comunità cooperativa rurale nei pressi di
Boston (a West Roxburi, creata nel 1841 e poi chiusa nel 1847). Il movimento cooperativo
statunitense, alla fine del suo primo secolo di vita, era ancora di modeste proporzioni e prenderà
vigore solo dopo la fondazione della Rochdale Society (1844) in Gran Bretagna evento che, d’altra
parte, segnerà la nascita del movimento cooperativo di tutto il mondo.
L' humus delle cooperative all’interno del territorio statunitense si ritrova comunque nel settore
primario che svilupperà, in varie parti del Paese, un ampio numero di cooperative agricole di
successo6, dedite all'acquisto, alla produzione ed alla vendita di prodotti agricoli tanto da indurre i
cooperatori alla costituzione di forme di aggregazione superiore. Ciò diede l'avvio alla costituzione
delle Federazioni cooperative di produttori agricoli (di agrumi e di altri frutti, di grano, di latticini e
di tabacco) che iniziarono ad operare dapprima a livello regionale e poi nazionale. Queste iniziative
furono ripetute anche in altri settori emergenti, tra cui la prima sartoria a Boston (1849), le
associazioni casearie a New York (1856), i cantieri navali a Baltimora (1865) e l’Associazione
Cooperative Industriali a Philadelfia (nel 1874). Una prima legislazione cooperativa7 fu emanata in
Michigan (nel 1865), poi a New York (1867) e in Pennsylvania (1887).
Nel terziario altre attività degne di nota riguardarono soprattutto le cooperative telefoniche, nate
intorno al 1893 ed arrivate fino ai nostri giorni.
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Franklin B.(1706-1790) scienziato e politico statunitense, tra i protagonisti della rivoluzione americana.
All'estero é conosciuto soprattutto per i suoi esperimenti sull'elettricità mentre negli Stati Uniti è noto
come uno dei padri della patria.
Queste cooperative agricole si diffusero in tutto il territorio e, in particolare, nel Nord-Est (in
Massachussets, Connecticut, New York e New Jersey), nella regione Atlantica (in Maryland,
Pennsylvania e West Virginia), nell'area del Centro-Ovest (in Ohio, Illinois, Iowa, Wisconsin e
Minnesota), nel Sud (in Texas, Arkansas, Louisiana e Kentucky); e nella lontana costa Occidentale (in
California).
La legislazione nazionale riguardante le cooperative era compresa nella Legge Anti-Trust Sherman
(1890), nella Legge Anti-Trust Clayton (1914) e nella Legge per il Prestito alle aziende agricole (1916).
Le pubblicazioni di settore di questo periodo includono la History of Cooperation in the United States
(1888) pubblicata dalla Johns Hopkins University e la How to Cooperate (1891) di Herbert Myrick .
Alle iniziative di promozione dell’agricoltura ed alla relativa aggregazione a livello centrale in
Federazioni statali, nazionali e regionali ed in gruppi suddivisi per aree geografiche8 si associò
un’esperienza simile fra le cooperative di consumo9, che permise l'avvio di nuove attività per
iniziativa di gruppi locali o anche di organizzazioni sindacali, come i Sovrani dell’Industria, i
Cavalieri del Lavoro ed i Minatori Uniti che considerarono i soci cooperatori come compagni di
lavoro, uniti per creare un mondo migliore e le aziende un mezzo per assistere i sindacati nelle loro
lotte. La prima rappresentanza nazionale delle Cooperative di consumo si realizzò con l’Unione
Cooperative d’America (la prima associazione americana dell’ ACI del 1895), trasformata poi in
Lega Cooperativa (1909) ed infine (nel 1916) denominata Cooperative League of America
(CLUSA, Lega Cooperativa degli Stati Uniti), una grande organizzazione di cooperative di
consumo che completerà la sua evoluzione in una prospettiva associativa più inclusiva, diventando
(nel 1985) la National Cooperative Business Association (NCBA, l’ Associazione Nazionale per gli
Affari Cooperativi): la prima organizzazione nazionale in rappresentanza di tutti i settori della
cooperazione.
Le cooperative bancarie assunsero una certa importanza agli inizi del XX° secolo, con la prima
Banca Cooperativa per Afro-Americani (nel 1909) a Philadelfia e nel New England.
Nel corso della prima guerra mondiale le cooperative erano ormai un importante segmento del
mercato statunitense e, successivamente, tra la fine della prima guerra mondiale e lo scoppio della
seconda proseguirà una fase di continua crescita che porterà la cooperazione USA a diventare la più
estesa al mondo. In particolare, le grandi cooperative regionali di acquisto, produzione e vendita si
incrementarono numericamente, le società di credito (ancora poche nel 1919), iniziarono a crescere
(con un totale di circa 3.000.000 di soci nel 1945) e furono supportate ed assistite dal Credit Union
National Association (CUNA, l’Associazione Nazionale Società di Credito istituita nel 1934).
8
9
9
Nel 1925 fu fondato l’Istituto Americano per la Cooperazione, che difendeva gli interessi delle
cooperative agricole e si occupava della pubblicazione annuale di una rivista di settore, l' American
Cooperation. Il Consiglio Nazionale per le Cooperative Agricole, succeduta alla Camera Nazionale delle
Cooperative Agricole (fondata nel 1929) rimane tuttora la grande voce del settore agricolo.
Per iniziativa dei gruppi locali le cooperative di consumo emersero a Boston (1845), nello Utah tra i
mormoni (1868), nel New England con la Associazione Cooperativa (1880), a Filadelfia, con una
Cooperativa di Dettaglianti (1888), nella regione medio occidentale con i Patron of Industry (mecenati
dell’Industria nel 1889), a New Orleans e Saint Louis con i Nelson Cooperative Stores (1892), a San
Francisco con la Rochdale Society all'ingrosso (1900), nel Kansas con l’Associazione Cooperativa dello
Stato del Kansas (1901) ed anche sulla costa del Pacifico (1913).
Dopo il secondo conflitto mondiale, il movimento cooperativo americano si estese in altri campi di
attività economica, occupando settori rilevanti anche ai nostri giorni. A proposito, basti considerare
le cooperative petrolifere, che emersero negli anni ’20 per soddisfare le necessità dei numerosi
possessori di automobili e per la crescente meccanizzazione dell’agricoltura (fino a giungere, nel
1945, a 1.500 società con oltre 900.000 soci-lavoratori). Allo stesso periodo risalgono anche le
cooperative nate per offrire servizi collaterali al settore agricolo, come quelle elettriche rurali che
iniziarono ad operare per la prima volta durante la prima metà degli anni ’30 e che, dopo appena un
decennio (nel 1945) la loro estesa diffusione, avviarono la creazione di una propria organizzazione
nazionale, la National Rural Electric Cooperative Association (la NRECA, istituita nel 1942). La
National Company of Insurance (NIC, la Compagnia Nazionale delle Assicurazioni) fu invece
fondata nel 1926 e riunì 2.000 cooperative di assicurazione (con 10.550.000 soci nel 1945), mentre
le rinomate cooperative sanitarie, operarono per la prima volta nel 1929, come ospedali cooperativi
rappresentati da una Federazione Sanitaria (fondata nel 1939) e supportati da una Agenzia per la
Medicina Cooperativa. Nel 1945 esistevano 75 gruppi cooperativi sanitari (prototipi dell’attuale
HMOs, istituita nel 1973) e veniva fondata una cooperativa per il servizio telefonico, tramandata
fino ai nostri giorni.
Tab. 1
ANDAMENTO COOPERATIVE STATUNITENSI
Cooperative Agricole
1945
Imprese
Soci
1984
Cooperative di consumo
Variazione
1945-84
1945
6.000
-41%
9.100
5.030
-45%
7.732.000
5.000.000
-35%
3.500.000
1.500.000
-67%
1945
Soci
Variazione
1945-84
10.179
Cooperative di Credito
Imprese
1984
1984
Variazione
1945-84
Cooperative Totali
1945
1984
Variazione
1945-84
8.842
19.200
-42%
28121
30230
+ 8%
2.838.000
48.500.000
+5%
14070000
55000000
+ 290%
Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc.
Lanham, Md. & c., London, 1999
10
A livello istituzionale, l'interesse del Governo per le cooperative si trasformò nella diffusione di in
un corpo legislativo sempre crescente10, mentre anche altri gruppi territoriali locali contribuirono
alla crescita della cooperazione e, tra questi, la Conferenza Cattolica Nazionale e il Consiglio
Nazionale delle Chiese, che raccomandarono ai membri delle loro parrocchie di fondare
organizzazioni cooperative. Durante la crisi degli anni ’30 anche il governo statunitense incluse le
cooperative tra le attività per la ripresa economica11 .
Le cooperative agricole raggiungeranno la loro massima rappresentanza nel 1950 (con 10.179
associazioni e 7.732.000 soci) a cui seguirà una lenta contrazione 12 a causa di una serie di eventi
concomitanti come, ad esempio, la migrazione della popolazione dalle campagne alla città, l’
incremento dei costi in agricoltura (in particolare per i piccoli operatori) e, a latere, per il processo
di concentrazione delle piccole cooperative in imprese più ampie accompagnato dalla evoluzione
delle organizzazioni centrali regionali in associazioni interregionali. Questa crescita del settore
cooperativo agricolo statunitense proseguì anche con il contributo di interventi produttivi ed
organizzativi e con l'appoggio del Governo, sia sul mercato interno che in ambito internazionale. Le
cooperative agricole USA13 ancora oggi continuano a ricoprire un ruolo importante all’interno del
mercato: basti pensare che quasi la metà dell'offerta di prodotti agricoli compresi quelli di prima
trasformazione, proviene da cooperative agricole (3.500 imprese) e che quasi un terzo dei servizi
usati nel settore agricolo provengono da cooperative di servizi tra contadini. Caratteristica del
movimento cooperativo agricolo statunitense è costituita dalla presenza di imprese altamente
specializzate e meccanizzate (come la Blue Diamone o la Sun Maid, per la produzione di mandorle
e di uva). Inoltre, le cooperative elettriche rurali (che procurano elettricità a 26 milioni di soci a
prezzo di costo), rappresentano più della metà delle linee di distribuzione di energia elettrica
statunitense.
10
11
12
13
11
A livello nazionale, la Legge Capper-Volstead (del 1922) fu seguita dalla Legge per il Credito Agricolo
(del ’23), dalla Legge per le vendite Cooperative (del ’26), dal Farm Credit Act (del ’33) , dalla Legge
per le Unioni Federali di Credito (del 1934) e dalla Legge per l’Elettrificazione Rurale (del ’36).
In questa direzione fu organizzato a New York il progetto cooperativo per la pubblicazione del Works
Progress Administration (WPA), che occupò varie centinaia di persone per ricercare e pubblicare
materiale su tutti gli aspetti dello sviluppo cooperativo. Tra i progetti non portati a termine rientra la
proposta per la stesura di una Enciclopedia delle Cooperative.
Nel 1984 si era così scesi a 6.000 cooperative con 5.000.000 di soci
Fra le più importanti troviamo la cooperativa lattiero-casearia Dairy Farmers of America (Dfa), la Agway
e la Farmland Industries .
Tab. 2
COOPERATIVE USA
(1996)
Agricole
Imprese
Soci
Soci
Infanzia
Edilizia
Prod/Lavoro
Elettricita’
4. 244
350
650
6.450
54
1.290
(15%)
(1,3%)
(2,3%)
(23%)
(0,2%)
(17%)
4.000.000
324.000
50.000
N.D.
1081000
26.200.000
(2,6%)
(0,2%)
(0,03%)
(07%)
(17,4%)
Sanità
Imprese
Consumo
Credito
Assicurazione
Altre
11
12.560
1.800
190
(0,03%)
(45%)
(33%)
(0,7%
1.600.000
67.500.000
50.000.000
(0,7%
N.D.
(1,1%)
(44,8%)
(33,2%)
Totale
27.599
150.692.000
(56,7%)
Le cooperative di consumo, a loro volta, hanno ripreso la loro attività nell’immediato secondo
dopoguerra ma, subito dopo e in poco tempo, anche le associazioni più grandi registrarono delle
crisi a causa di un un ambiente molto competitivo e per la comparsa delle moderne e sofisticate
catene di distribuzione. Uno stimolo alla ripresa della cooperazione di consumo14 sarà dato dalla
fondazione (nel 1978) della Banca per le Cooperative di Consumo (un importante canale di
finanziamento del settore) per iniziativa del Congresso degli Stati Uniti.
Passando, infine, al settore terziario il credito cooperativo ha da sempre rappresentato un segmento
di grande interesse e con tassi di crescita significativi15. Nella seconda metà del secolo scorso il
settore fu protagonista di un ampio processo di concentrazione (culminato nel 1994), motivato dalla
necessità di aumentare la dimensione e la capitalizzazione delle banche, attraverso i diffusi processi
di fusione e di accorpamento, accompagnati da un innalzamento del numero di soci (giunti a
67.500.000 nel 1996). Il movimento delle società di credito americano ha, oggi, una valenza
internazionale raggiunta prima con l’inclusione delle società di credito Canadesi e poi di altre
istituzioni finanziarie di altri paesi Occidentali. Non è dunque un caso che nel 1970 a Madison (in
Wisconsin), la patria del movimento cooperativo statunitense, sia stato organizzato il Consiglio
14
15
12
Le società cooperative che nel ’45 erano 9.100 e contavano 3.500.000 soci, nel 1984 erano scese a 5.030
società con 1.500.000 soci.
Nel 1945 le cooperative di credito erano 8.842 e contavano 2.838.000 soci, nel 1984 erano più che
raddoppiate (salivano a 19.200) con un considerevole numero di 48.500.000 soci.
Mondiale delle Società di Credito (WOCCU). Il comparto del credito e, in particolare, quello dei
servizi bancari è promotore di due importanti esperienze, diffuse in tutto il mondo: la Master Card e
la VISA16, entrambe cooperative che hanno come socie le migliaia di banche indipendenti, di fatto i
rivenditori delle carte elettroniche e del credito in circolazione nel mondo.
Nei tempi più recenti stanno
mantenendo la loro importante tradizione anche le cooperative
universitarie, che hanno tratto origine dalle prime cooperative di studenti, organizzate all’interno
delle Università ed oggi orientate a fornire prodotti e servizi di consulenza tra i più disparati agli
studenti (dal tutoraggio didattico all' acquisto di libri, dal vitto all'alloggio basso costo, ecc.). Una
delle più conosciute cooperative universitarie è quella di Harvard, che vanta più di 100 anni di età.
Peculiarità della cooperazione statunitense è quella di essere sostanzialmente una cooperazione di
secondo grado, ossia una cooperazione tra imprenditori. La principale differenza fra la cooperazione
statunitense e quella europea è dunque riconducibile al fatto che negli Stati Uniti sono molto scarse
le esperienze cooperative in cui i soci sono individui anziché aziende. Questa particolarità è molto
diffusa nelle diverse articolazioni della cooperazione americana e ne rappresenta un tratto tipico,
dato che queste imprese sono costituite dagli stessi soci che poi diventano clienti di sé stessi, ossia
delle cooperative di cui sono proprietari17 .Queste tipologie (da noi denominate consorzi) sono
presenti in tutti i settori di attività economica, dalla panetteria all’autotrasporto fino alle Borse e la
loro specificità potrebbe trovare una risposta nel fatto che sono sorte e si sono sviluppate laddove
esisteva un tentativo di resistenza (o come risposta) a posizioni di mercato monopolistiche 18. E',
infatti, possibile supporre che in presenza di condizioni di mercato monopolistiche la risposta sia
stata proprio la creazione di aziende cooperative gestite dagli stessi clienti, tanto è vero che sono
sorte soprattutto nei mercati delle vendite all'ingrosso, dove le economie di scala sono enormi e,
quindi, i margini per l'imprenditore molto appetibili e, quindi, suscettibili a tentativi di scalate
monopolistiche a scapito del consumatore. Altra peculiarità è rappresentata dalle cooperative di
lavoratori che si differenziano dalle cooperative tipiche e sono molto diffuse nella forma di
associazioni professionali (studi legali, ecc.), dove i soci-lavoratori sono portatori degli interessi
della categoria.
16
17
18
13
Master Card e VISA provvedono ai servizi centrali di compensazione e, in quanto società informatiche,
non vendono le carte di credito ma la licenza per usare il marchio.
Per esempio, piccoli negozi di generi alimentari a conduzione familiare spesso condividono fra loro,
nella forma di una società cooperativa, la proprietà della rivendita all’ingrosso da cui si riforniscono.
Per approfondimenti cfr. Hansmann H. (1996, tradotto in italiano 2005); Hasmann H., intervento al
convegno Legacoop , La proprietà dell’impresa cooperativa, Roma, 28 Marzo 2006.
Da un punto di vista legislativo, la cooperazione statunitense è regolata da una normativa che
avvicina molto le cooperative alle grandi imprese di capitali: basti far riferimento al principio del
numero chiuso dei soci (closet membership), alla richiesta di un loro elevato investimento procapite e all’obbligo di effettuare conferimenti in quantità fissa, con la possibilità di vendere i diritti
dei soci nella cooperativa ai prezzi di mercato 19. Anche sotto questo profilo, il modello statunitense,
è molto lontano da quello diffuso in Europa e in Italia e perciò meriterebbe di essere meglio
conosciuto, se non altro per valutare la possibilità di avere una qualche rilevanza nei moderni
processi evolutivi della cooperazione europea20.
Dal 1998 ed ai nostri giorni il ruolo delle cooperative nell’economia degli Stati Uniti è il più grande
del mondo industrializzato, sia in termini assoluti che in termini percentuali con un alto numero
medio di cooperatori (cfr. Tab. 2) e superato solo dalla Cina e dall’India21. A livello territoriale le
cooperative sono articolate all’interno di organizzazioni centrali che, a volte, formano veri e propri
conglomerati di cooperative, con un importante potere economico e contrattuale nel mercato interno
ed una rilevante proiezione verso l’esterno ed anche nei confronti dei Paesi del Terzo Mondo22.
1.2. Canada. Una situazione di rilievo per la cooperazione si registrava anche nell’area canadese 23
dove il settore cooperativo nasceva con una società di assicurazioni anti-incendio (la Mutual Fire,
nel 1852), seguita (nel 1876) dalla prima cooperativa di assicurazione sulla vita (Coopvie), Les
artisans fondata nel Quebec . Nella prima metà dell’Ottocento il Canada (dopo Giappone e Stati
Uniti) era il terzo paese extra-europeo che partecipava al movimento cooperativo, anche se questo
segmento inizierà ad articolarsi nei diversi settori solo dopo la seconda metà del XIX° secolo, con
alcune cooperative tra produttori (1876) e tra consumatori (a Winnipeg nel 1885). Nel 1887 nella
provincia di Manitoba veniva poi emanata la prima legislazione cooperativa, che verrà promulgata
come prima legge nazionale solo nel 1949. La prima società di credito cooperativo, la Caisse
Populaire de Lévis, sarà invece fondata nel 1900, per iniziativa di Alphonse Desjardins,. Per
19
20
Per approfondimenti cfr. Merrett C.D. -Walzer N. (2001).
Nell’Aprile 1990 l’Associazione Cooperativa Alumni, formata da "veterani" del movimento cooperativo
americano con il supporto di 17 organizzazioni nazionali ha pubblicato il Cooperative- Credit Union
Dictionary and Reference (e cura di Jack McLanahan e Connie McLanahan) che fornisce informazioni
dettagliate sul movimento cooperativo Nordamericano, ossia sulla storia, lo sviluppo e la posizione di
mercato delle cooperative in Canada e negli Stati Uniti alla fine del secolo scorso
21
22
23
14
L’attività internazionale ha una tradizione storica. La CUNA, infatti, era stata già coinvolta nello sviluppo
delle società di credito in varie parti del mondo così come la CLUSA per le cooperative di consumo.
Per approfondimenti cfr. Shaffer Jack (1999)..
completare questa sommario elenco di eventi che rappresentano la scansione dello sviluppo della
cooperazione canadese occorre aggiungere che nel 1909, per rappresentare adeguatamente il
fenomeno cooperativo, ormai esteso a livello nazionale, veniva istituita un’associazione centrale di
categoria, operante a livello nazionale, denominata l’ Unione delle Cooperative del Canada.
Nel corso del nuovo secolo si aggiunsero assai rapidamente altre esperienze in molte province: tra
queste, le cooperative agricole che registrarono una maggiore vitalità rispetto a quelle di altri settori
e che, a fronte della consistenza raggiunta, fondarono una istituzione consortile per la gestione del
grano (a tutela e in rappresentanza degli interessi agricoli nell’area occidentale del Paese). Nel 1924
nelle province marittime sorse anche la prima cooperativa della pesca e poi la prima cooperativa
edilizia (1930). Questa lenta diffusione delle imprese
cooperative si accompagnava alla
costituzione delle rispettive Federazioni Nazionali di settore e, contemporaneamente, nel terziario
alla fondazione della Società di Credito Cooperativo Canadese (per le cooperative bancarie
dislocate nelle province di lingua inglese).
Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale favoriva la stabilizzazione delle cooperative
nazionali (sia nell’area inglese che in quella francese) e la istituzione di una Federazione centrale
nel campo delle fornitura di servizi sanitari. Nel 1953 l’Unione delle Cooperative del Canada
riconosceva l’importanza dell’assistenza alle cooperative dei Paesi in via di sviluppo e richiedeva al
Governo una partecipazione al movimento cooperativo internazionale per facilitare tale compito.
Nel 1960 le cooperative prescolastiche si riunivano con quelle degli Stati Uniti per dar vita alla
Cooperativa Internazionale Prescolastica dei genitori.
Questo sviluppo lento ma costante della cooperazione canadese raggiunse, alla fine del secolo
scorso, una consistenza evidentemente non paragonabile a quella registrata negli Stati Uniti ma
comunque importante e significativa per lo sviluppo economico del Paese, con una prevalenza nel
settore del credito, dell'edilizia abitativa e dell'agricoltura (cfr. Tab.3). I cooperatori canadesi nel
1996 rappresentavano il 50% della popolazione.
15
Tab. 3
COOPERATIVE CANADESI
(1996)
Agricole
Imprese
Soci
Imprese
Soci
Forestali
Credito
Pesca
Consumo
Produz./Lav
904
88
2.448
61
582
62
(11,5%)
(1,1%)
(31%)
(0,8%)
(7,4%)
(0,8%)
623.339
8.684
10.014.000
9.813
2.976.513
4.171
(4,3%
(0,05%)
(69%)
Edilizia
(0,06%)
Trasporto
(20%)
Sanità
Sociali
Altre
28
446
2.011
64
779
(0,35%)
(5,7%)
(25.5%)
(0,8%)
(9,8%)
(0,03%)
Totale
7.870
316.304
32.812
116.276
7.972
266.281
14.518.682
(2,2%)
(0,2%)
(0,8%)
(0,05%)
(1,9%)
(50% pop.)
Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc. Lanham
Md. & c., London, 1999.
In corrispondenza alla struttura federale del territorio24, anche il movimento cooperativo è
rappresentato da due strutture organizzative centrali, rispettivamente francese (Desjardins Group,
dal fondatore delle banche di credito cooperativo) ed una inglese (Canadian Cooperative
Association25 , erede della prima associazione centrale di categoria).
1.3. America Latina: Brasile ed Argentina. Nell’area dell’America Latina le cooperative hanno
sempre svolto una funzione sociale di grande rilievo, tanto che in alcuni tra questi paesi le politiche
governative hanno favorito e stimolato la diffusione della cooperazione, interpretata come
strumento di promozione economica e di inclusione sociale. È il caso del Brasile.
L’inizio del movimento cooperativo brasiliano risale al 1847, con la fondazione di una società
rurale (nella fattoria di Teresa Cristina) nello stato di Paraňa, per iniziativa di un dottore francese,
Jean Maurice Fibre; nel 1888 questa struttura cooperativa si era evoluta al punto da essere promossa
e sostenuta da una campagna pubblicitaria diffusa a livello nazionale. Gli interventi legislativi del
24
25
16
Il Canada è uno Stato federale (il più esteso del mondo dopo la Russia) che comprende 10 province e tre
territori.
Per ulteriori approfondimenti cfr. Jack Shaffer (1999, op. cit.).
1903 e del 1907 stimolarono ulteriormente la crescita delle cooperative in tutto il Paese e nel 1925
le stesse imprese diedero l’avvio a varie Federazioni regionali, per poter usufruire dei vantaggi della
collaborazione cooperativa e diffonderli all’interno della categoria: una strategia lungamente
perseguita, tanto che negli anni ’90 si contavano 92 Federazioni di questo tipo, che rappresentavano
gli interessi dei diversi settori del movimento cooperativo che assommava (nel 1998) 5.339 società
e 3.741.667 soci (il 2,3% della popolazione). Tutti i governi del Brasile hanno costantemente
incentivato lo sviluppo del modello cooperativo
e, in particolare, negli ultimi anni si sono
sviluppate sinergie di partnership e di assistenza allo sviluppo con molti paesi europei . Si è sempre
trattato, infatti, di un movimento importante per l'economia del Paese e di grande vitalità26 nel quale
il peso maggiore è rappresentato dal settore agricolo e dalla cooperazione di lavoro (cfr. Tab. 4).
Tab. 4
COOPERATIVE BRASILIANE
(1998)
Imprese
Soci
Imprese
Soci
Agricole
Pesca
Edilizia
Consumo
Elettr/Tel
1.496
(28%)
25
170
(0,5)
(3,2%)
238
(4,4%)
(3,8%)
918.883
(25%)
16.209
36.468
(9,4%)
Produz/Lav
205
(0,9%)
1.221.985
(33%)
(7,2%)
Sanità
Credito
Altre
Totale
1.103
(21%)
862
(16%)
842
(16%)
458
(8,6%)
5.339
297.121
595.105
(16%)
655.896
(17%)
Nd
3.741.667
(2,3% pop. )
(7,9%)
270.000
Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc.
Lanham, Md., & London 1999
.
Il movimento cooperativo in Argentina27 è la più recente fra le esperienze maturate del Sud
America, poiché la prima cooperativa, la Sociedad de Producciòn y Consumo fu fondata solo nel
1875 seguita, a distanza di un decennio, dalla prima cooperativa telefonica a Buenos Aires (nel
1887) e rimasta in attività fino al 1925. Anche per l’Argentina la prima legislazione cooperativa
risale ai primi anni del ‘900 (nel 1905) e altrettanto tarda è la costituzione della prima struttura
associativa di rilievo, l’ Unione Centrale Nazionale (fondata nel 1922).
26
27
17
Nel 1999 proprio un brasiliano, Roberto Rodrigues ha ricoperto il ruolo di Presidente dell’ACI .
Per approfondimenti cfr. Jack Shaffer (1999, op. cit.).
Il movimento cooperativo argentino si è quindi sviluppato gradualmente, articolandosi in una vasta
rete di settori economici e continuando a crescere, nonostante la continua instabilità politica della
nazione. Negli anni più recenti il numero di cooperative è aumentato mentre il numero di soci ha
avuto un andamento altalenante: si è prima abbassato (toccando un picco minimo del 10% della
popolazione) per poi risalire negli anni Novanta a più di 1/4 (cfr. Tab. 5).
Tab. 5
COOPERATIVE ARGENTINE
(1991)
Edilizia
Consumo
Produz./Lav
Assicuraz.
Imprese
1.428
(17,5%)
467
(8,1%)
2.111
(26%)
49
(0,6%)
Soci
243.973
(2,7%)
1.000.000
(11%)
33.329
(0,4%)
727.097
(7,9%)
Servizi pubbl.
Agricole
Credito
1.628
(20%)
983
(12%)
8.142
3.100.964
(34,1%)
2.000.000
(21,9%)
9.103.268
(27,8% POP.)
Imprese
Soci
1.476
(18%)
1.997.905
(22%)
TOTALE
Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press,
Inc.Lanham, Md., & London 1999.
Il movimento cooperativo argentino, nonostante le vicissitudini politiche è stabile, indipendente e
diversificato come in qualsiasi altra parte del mondo ed è rappresentato da una fitta rete di
Federazioni, di istituzioni finanziarie, di strutture educative, di formazione professionale e da una
casa editrice cooperativa, la Intercoop Editora Cooperativa Limitada, di reputazione internazionale.
In questi ultimi anni caratterizzati da una profonda crisi economica nazionale, la cooperazione
argentina ha cercato di svolgere un ruolo di recupero della forza lavoro disoccupata, tentando così
di dare continuità alle grandi imprese fallite a seguito della crisi o abbandonate da parte dei
proprietari per la sopravvenuta scarsa redditività (analogamente al ruolo svolto dalla cooperazione
in Italia negli anni ’80).
18
1.4. Area Asiatica: India e Giappone. In India28 il moderno movimento cooperativo si avviava
alla fine del XIX° secolo con un sistema di imprese basato sul modello Occidentale e regolamentato
con la Legge sulle Società Cooperative (del 1904) , che focalizzava l’attenzione sulle cooperative di
credito, tipologia maggiormente diffusa all’interno del mercato indiano (nel 1907 si contavano già
843 cooperative di credito). Nel 1912 questa prima legislazione veniva estesa in tutte le regioni del
Paese ed a tutte le categorie cooperative che, da quella data, iniziarono a diffondersi rapidamente,
raggiungendo un tasso di crescita del 50% in appena un decennio (dalle 8.177 del 1912 29 alle
12.324 del 1922). L’espansione dell’ attività cooperativa proseguirà nei 25 anni successivi, durante
il quale verrà istituita anche l’Unione Nazionale Cooperative Indiane 30 (nel 1929). Il nuovo governo
dell’India indipendente, a sua volta inizierà (nel periodo dal 1956 al ’61)
a considerare le
cooperative come istituzioni pubbliche integrate al mercato privato e, a tal fine, avvierà delle
politiche che tenderanno a rendere il Paese una sorta di Commonwealth Cooperativo Socialista31. La
compresenza dell’interesse pubblico e di quello privato all’interno di questo segmento di mercato
condurrà però ad un conflitto di interessi tra poteri pubblici e cooperativi32 e, da un lato, alla
formazione di un gruppo di leader cooperativi sempre più emancipati che avrebbero voluto un
movimento autonomo e dall’altro, all’accrescimento dell’ingerenza statale, orientata ad affidare alle
cooperative il controllo dello sviluppo economico nazionale. A prescindere da queste tendenze
divergenti, le cooperative continuarono a svilupparsi tentando di confermare le originarie tendenze
all’indipendenza, ma restando strettamente legate ai finanziamenti pubblici e ad una legislazione
basata sul coinvolgimento diretto del Governo sulla gestione cooperativa.
Oggi il movimento cooperativo indiano è il più ampio al mondo33, sia per numero di società che per
numero di associati (cfr. Tab. 6). In tutto il territorio nazionale la quota dei prodotti offerti dalle
cooperative è consistente ed è determinante per tutta l’economia del paese: nel 2000 ad esempio, la
cooperazione copriva oltre il 50% della produzione nazionale di zucchero, il 70% nella produzione
28
29
30
Per approfondimenti cfr. Jack Shaffer (1999, op. cit.).
Il trend di rapida crescita delle cooperative nei principali settori dell’economia continuò, accompagnato
nel 1919 da una legge che trasferiva alle amministrazioni regionali la responsabilità primaria e la
supervisione sulle cooperative (adesso statali).
Dalla prima metà del XX° secolo le imprese cooperative locali iniziarono a diventare una componente
importante nella vita e nell'economia dei villaggi dell’India rurale e cominciarono ad espandersi anche
nelle zone urbane.
31
Il Commonwealth Cooperativo (o stato cooperativo) designava un sistema alternativo al modello d'impresa
capitalistica che si diffuse nel Regno Unito e che si basava su radici socialiste dell'ideologia cooperativa e su
aspirazioni al cambiamento pacifico del sistema (dall'interno, dal basso e senza conflitti).
32
L’implementazione di questi obiettivi portò il governo ad essere coinvolto negli affari quotidiani delle
cooperative; invece, si sarebbe dovuto incrementare il carattere indipendente di queste imprese per poterle
considerate strutture economiche e sociali private e non governative.
Nel 1989 l’ACI fissava l’incontro della Commissione Centrale in India (per la prima volta in un paese in
via di sviluppo), confermando l’importanza e l’influenza delle cooperative indiane nella Comunità
internazionale.
33
19
di fertilizzanti e quote importanti nella produzione casearia. La più importante esperienza
cooperativa è certamente quella che si è sviluppata nello Stato del Kerala dove, accanto alle
cooperative agricole, opera una cooperativa di lavoro tra le più grandi del mondo (la Kerala Dinesh
Beedi Cooperative) che produce tabacco lavorato (le sigarette “beedi”) in oltre 320 fabbriche con
32.000 soci-lavoratori. Recentemente, le cooperative indiane sono entrate anche nel settore del
micro-credito (sulla scorta del modello della Grameen Bank34), per offrire finanziamenti al
comparto cooperativo. Il movimento cooperativo indiano è così complesso da avere una struttura di
rappresentanza che conta ben 19 Federazioni nazionali.
Tab. 6
COOPERATIVE INDIANE
(1995)
Agricole
Pesca
Edilizia
Consumo
Imprese
102.935
(23%)
10.763
(2,4%)
71.040
(6%)
23.903
(5,4)
Soci
20.244.000
(11%)
1.122.000
(0,6%)
5.933.000
(3,2%)
11.234.000
(6,2%)
Servizi
Credito
Altre
Totale
Imprese
4.470
(1%)
41.500
(9,3%)
139.191
(31%)
446.784
Soci
3.180.000
(1,7%)
43.716.000
(24%)
93.500.000
(51%)
182.921.000
(19,7% Pop.)
Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow Press, Inc.
Lanham, Md., & London 1999.
Queste esperienze indiane (specie quelle di credito cooperativo e di produzione e lavoro del Kerala)
formano oggetto di analisi e di studio, per tentare di esportare il modello cooperativo all'estero per
la crescita economica di altri paesi asiatici in via di sviluppo.
Giappone Il 1843 è l’anno cui si fa generalmente risalire l’avvio del movimento cooperativo del
paese35 per la iniziativa di un collettivo di lavoratori agricoli e artigiani (con la Hotokusha), ossia la
prima esperienza cooperativa nipponica. Da allora cominciarono a diffondersi altre imprese
34
35
20
Per approfondimenti cfr. Muhammad Yunus (2005).
Per approfondimenti cfr. Jack Shaffer (1999, op. cit.).
cooperative ed alla fine del 1800 (nel 1870) operavano già diverse società di consumo, una
importante cooperativa di distribuzione (ad Hiroshima), una associazione agricola di ex samurai,
alcune società di distribuzione di prodotti agricoli ed alcune prime banche di credito cooperativo.
Le odierne società per la produzione della seta, quelle industriali e quelle della pesca iniziarono a
diffondersi solo in seguito.
Nel 1900 (dopo alcuni tentativi falliti) fu approvata la legislazione cooperativa nazionale che diede
l’avvio ad un ulteriore sviluppo del settore e alla costituzione di una Federazione cooperativa. Dopo
appena un decennio (nel 1912) si contavano 9.683 cooperative, operanti principalmente nel
comparto agricolo ed industriale, della distribuzione e del credito, con 34 Federazioni ed un milione
di soci. Nel decennio successivo l’incremento aveva raggiunto il 50% in termini di imprese (con
14.047 cooperative nel 1922) e livelli ragguardevoli relativamente al numero di soci (più del
doppio con 2.734.695 unità) e di Federazioni (sestuplicate a 191). Nel 1923 le cooperative
giapponesi entravano a far parte dell’ACI36.
Con la seconda guerra mondiale e la sconfitta del Giappone, le forze di occupazione americane
iniziarono a fornire aiuto per la ricostituzione del comparto cooperativo giapponese, con una
legislazione rinnovata ed una nuova rete di Federazioni nazionali e di strutture ad esse correlate. Da
allora, la crescita del settore cooperativo ha seguito le sorti di tutte le economie occidentali, con un
iniziale sviluppo costante a cui hanno fatto seguito i processi di fusione e di concentrazione fra le
imprese più piccole. Nel corso degli anni '90 quasi la metà della popolazione giapponese è
compresa fra i cooperatori (cfr. Tab 7).
Le cooperative giapponesi rientrano nell’ACI nel 195237 e nel 1992 Tokyo è sede del trentesimo
Congresso ACI.
36
37
21
Negli anni ’30 le strutture cooperative giapponesi si erano sviluppate al punto da essere viste come una
minaccia per le altre categorie di impresa. Di conseguenza, la Camera di Commercio organizzò una
campagna anti-cooperativa e il Parlamento promulgò una legislazione repressiva. Alla fine degli anni ’30
queste misure avevano ridotto l’iniziativa cooperativa, compromessa anche dal suo sostegno al conflitto
contro la Cina, atteggiamento che provocherà la disapprovazione da parte del movimento cooperativo
internazionale e la conseguente espulsione del Giappone dall’ ACI.
Nel 1972 l’agenzia della ILO registrava 21.600.000 soci cooperativi (il 19,9% della popolazione
giapponese).
Tab. 7
COOPERATIVE GIAPPONESI
(1993)
Agricole
Pesca
Imprese
3.204
(33,1%)
3.894
(40,2%)
Soci
8.843.705
(15%)
Imprese
Edilizia
Consumo
Produz./Lav
48
(0,5%)
663
(6,8%)
113
(1,2%)
836.403
(1,4%)
1.076.832
(18,7%)
16.252.375
(28%)
5.974
(0,01%)
Assicuraz.
Servizi
Credito
Altre
Totale
55
(0,6%)
117
(1,2%)
200
(2,0%)
1.394
(14,4%)
9688
12.000.000
1.618.823 5.752.000
1.817.569
57.527.085
(21%)
(2,8%)
(10%)
(3,15)
(45,9%)
Fonte: Jack Shaffer, Historical Dictionary of the Cooperative Movement, The Scarecrow
Press, Inc. Lanham, Md., & London 1999.
Soci
In Giappone, così come in America, le cooperative gestiscono molte scuole, permettendo ai soci
(genitori degli studenti, insegnanti o entrambi) di influenzarne direttamente la gestione. Un’altra
importante peculiarità del mercato giapponese è legata alle cooperative in franchising, con le quali
le piccole aziende cooperative forniscono prodotti finiti alle aziende più grandi (specie nel settore
automobilistico), riuscendo ad ottenere un certo potere contrattuale ed evitando così interruzioni
nella produzione e nella fornitura dei mercati esteri.
In altri paesi in via di sviluppo, il movimento cooperativo è ancora in uno stadio aurorale, anche se
non mancano esperienze di successo benché, complessivamente, solo nel 25% dei casi le
cooperative operanti (per lo più di credito, di assicurazione e di produzione agricola) rispondono ai
requisiti necessari per potere essere riconosciute dall’Alleanza Cooperativa Internazionale.
22
2. Le cooperative in Europa. È indubbio che molte specificità e disparità dell'odierno movimento
cooperativo europeo risalgono alle diverse origini del fenomeno in ciascun territorio, alle diverse
fasi di mercato nel periodo del loro insediamento ed ai differenti tratti storici che ne hanno poi
caratterizzato l' evoluzione. A questi elementi occorre aggiungere alcune componenti endogene, tra
cui le diverse traiettorie del processo di industrializzazione, i differenti sistemi politici, le disparate
forme e le varie intensità con cui l'ingerenza pubblica ha influito sui mercati privati, anche se nel
panorama europeo non sono mancate spinte produttive imitative, comuni pulsioni politiche e forme
di internazionalizzazione delle ideologie che hanno “cavalcato” la cooperazione, permeando le
logiche razionalizzanti dei processi competitivi e la dimensione, di fatto europea, dei mercati fino
dalla fine dell’Ottocento. Così che, nel rappresentare l’articolazione attuale del (dei) movimento
(movimenti) cooperativo europeo, non ci si può sottrarre dal delineare nel proseguo alcuni cenni
storici sulle prime diverse avvisaglie di cooperazione nei principali mercati dell’Europa occidentale.
In Europa, sin dagli inizi del XIX° secolo, è possibile segnalare alcune prime sperimentazioni
cooperative, anche se alquanto rudimentali, che in seguito rappresenteranno le fondamenta della
moderna cooperazione. Fra queste possiamo citare quelle considerate fra le principali. Nel 1809, ad
esempio, nel Lussemburgo venivano costituite varie società fra giardinieri ed agricoltori (dando vita
a primitive cooperative agricole dell’epoca) e nel 1816 a Berna e Friburgo nascevano le prime
cooperative svizzere nel settore caseario. In Spagna, invece il primo approccio alla cooperazione (di
allevatori), si può far risalire alla Asociaciòn General de Ganaderos de Espana fondata a Madrid
(nel 1838). Ma il fenomeno diventerà consistente nella prima metà dell’Ottocento e in diversi paesi
europei (soprattutto nel Regno Unito, Germania e Francia) dove iniziavano a delinearsi esperienze
cooperative che presentavano modelli organizzativi assimilabili alle imprese moderne e ciò
soprattutto nei settori del consumo, della produzione e del lavoro, dell' agricoltura e del credito,
ossia per tutte quelle attività che stanno replicando la loro presenza nei loro originari territori di
insediamento mostrando, sin dall’inizio e nel tempo, la capacità di specializzarsi e di svilupparsi nei
tradizionali settori produttivi.
La rivoluzione industriale, partita dall’Inghilterra e dalla Scozia meridionale (alla fine del XVIII°
secolo) è però la data alla quale si fa ufficialmente riferimento. Come vedremo, si è trattato di un
vero e proprio cambiamento delle modalità di produzione, segnando il passaggio dall’artigianato
all’industria38 ed influenzando profondamente l’evoluzione della sociologia e delle scienze
economiche. In particolare, l'inizio si fa risalire al 1844 quando a Rochdale nel Regno Unito
38
23
Analogamente si può anche dire che segnerà il passaggio dalla società feudale alla società capitalistica. Per
approfondimenti cfr. Mokir J. (1997).
(Londra) fu avviata dai Probi Pionieri una raccolta di fondi per l'apertura degli spacci alimentari
(Equitable Pioneers): l’evento che ha segnato il vero e proprio inizio del movimento cooperativo
moderno, la prima iniziativa economica fondata sui principi cooperativi con ripercussioni in tutto il
mondo ed anche il primo modello di cooperazione di consumo che si contrapponeva ai modelli
aziendali classici, troppo onerosi per i consumatori. Il nerbo della cooperazione inglese sarà, infatti,
il modello che oggi cataloghiamo “cooperazione di consumo”.
A differenza di quanto talvolta affermato, sin dal primo periodo della seconda metà dell’Ottocento
in Gran Bretagna e altrove in Europa erano già trascorsi, quasi cento anni di sperimentazione del
modello cooperativo. La Rochdale Society, più precisamente, fu dunque il risultato per il
soddisfacimento dei bisogni di mercato piuttosto che una esperienza originale, che nasceva dalla
necessità di risolvere i problemi della classe operaia, ossia con l’obiettivo di difendere il valore
reale dei salari e di migliorare le condizioni economiche e sociali dei lavoratori. La scuola di
pensiero inglese vedeva, quindi, nella cooperazione e nelle cooperative un complemento all’impresa
di tipo capitalistico e quindi un ulteriore segmento produttivo ed un potenziale strumento di
compensazione del più competitivo mercato dei capitali.
In Francia, intanto, gettavano le fondamenta le cooperative di lavoro; nel 1831 veniva, infatti, creata
la prima cooperativa di lavoratori a Parigi, per lottare contro la disoccupazione e Louis Blanc
pubblicava l’Organisation du travail (l’Organizzazione del lavoro), definendo le basi del
movimento cooperativo dei lavoratori. Alcuni decenni più tardi (nel 1851) alcuni agricoltori danesi
costituivano la prima cooperativa di proprietari terrieri, per reagire alla crisi del mercato agricolo
accanto ad altre aziende della stessa tipologia per gestire per gestire caseifici, cantine e mulini e
sostenere il crollo dei prezzi e della domanda di prodotti agricoli: si trattava del primo esempio di
cooperazione agricola di conferimento. Queste esperienze si moltiplicarono, diversificandosi, in
tutta Europa.
In Germania39 (nel 1865) intanto si gettavano le fondamenta della cooperazione di credito (di
ispirazione cattolica, come vedremo meglio in seguito), esperienza avviata da F. Raiffeisen che sarà
replicata in tutto il resto dell’Europa così come in Italia da L. Wollemborg 40 promotore delle casse
rurali ed artigiane (le banche di credito cooperativo di oggi).
Bisognerà, infine, giungere al 1872 per avere le prime cooperative di costruzione e questo passaggio
da fornitori di materie prime (quale è di fatto la cooperazione di lavoro) in gestori di processo e di
39
40
24
Münkner H.H. (2000).
L.Wollemborg fondò (nel 1883) la prima cassa rurale italiana a Padova, la Cassa Cooperativa di Prestiti di
Loreggia.
prodotti finiti (costruttori) avveniva per la prima volta in Svezia.
Nell’area dell’Europa orientale le origini della cooperazione, come nel resto d’Europa,
sono
riconducibili agli inizi dell’Ottocento, quando in Polonia venne fondata la Hrubieszow, una società
agricola e la prima cooperativa della nazione. Successivamente (1845) venne avviata un’esperienza
cooperativa nel comparto del credito, con la Spolek Gazdovski in Slovacchia seguita, alcuni anni
dopo (1850), da una struttura simile in Ungheria (con una associazione di credito e la prima
cooperativa ungherese), in Romania e in Bulgaria (con l’attuale Banca Cooperativa Bulgara). Nella
Repubblica Ceca (e precisamente in Boemia) il movimento cooperativo si identificava, invece, con
un primo gruppo di risparmio e di fornitura alimentare (1852), mentre la prima cooperativa di
consumo dell’ Est europeo si insediava (nel 1860) nella regione della Lettonia (allora parte della
Russia). Ma, con la pianificazione centrale dell’Unione Sovietica, la cooperazione era uno
strumento politico-economico dello Stato, quindi rappresentò per la popolazione un simbolo di
dittatura e di predominio piuttosto che di democrazia e di libertà, cioè con un ruolo esattamente
opposto a quello che è stato nel resto d' Europa. E il ricordo di questa esperienza è stato così
negativo che anche oggi nei paesi dell’ ex blocco dell’Europa orientale la cooperazione stenta a
decollare41.
In Italia, infine, la nascita e lo sviluppo della cooperazione, come si vedrà più avanti, sarà
contemporaneamente di lavoro e di utenza anche se le sue specificità ed i suoi primati innovativi
saranno riscontrabili sia in quelle imprese che abbiamo precedentemente definito “passaggi
generazionali” che in quella tipologia del tutto originale che è la “cooperazione sociale”, che ha
assecondato in Italia il processo di privatizzazione del welfare42.
A prescindere dai diversi modelli adottati, in tutto il territorio europeo è stato riscontrato un denominatore
comune della cooperazione, individuabile nella fattiva applicazione dei principi di solidarietà e di
mutualità e, questo fatto, ha consentito a queste imprese di insediarsi in mercati dove l’iniziativa privata
mancava o non era ancora stata in grado di perseguire lo sviluppo sociale insieme a quello economico.
Nel complesso il movimento europeo ha registrato percorsi di crescita difformi in termini di consistenza,
41
42
25
Ancora oggi nei paesi a regime pianificato la cooperazione rimane regolamentata da leggi interne ed è
sottoposta alla realizzazione di programmi coercitivi stabiliti dal Governo centrale, che limitano la libera
iniziativa privata.
Per un approfondimento sull’origine dei diversi modelli della cooperazione europea cfr. S. Zamagni-V.
Zamagni (2008).
di specializzazione settoriale e di best practicies; inoltre, ciascun paese europeo ha reagito diversamente
alla globalizzazione. Ci sono stati paesi come, ad esempio, la Francia e l’Inghilterra con movimenti
cooperativi iniziali di grande rilievo nel settore del consumo che, però, nel giro di pochi anni, sono
lentamente crollati o si sono fortemente ridimensionati ed altri in cui la cooperazione è nata e si è diffusa
partendo dal terziario (come le Raiffeisen Bank in Germania). In Italia la risposta cooperativa al diffuso
processo di industrializzazione del dopoguerra (più comunemente conosciuto come la fese del “miracolo
economico43”) sarà orientata alla riconversione organizzativa e gestionale delle imprese in aziende di
dimensioni più grandi, un passaggio non facile ma inevitabile, che l' origine modesta dei protagonisti ha
affrontato non senza fallimenti e/o grandi e piccole crisi.
3. L’attualità delle cooperative in Europa. Sin dalla prima metà del XIX° secolo, come anzidetto,
è possibile riscontrare in quasi tutti i paesi Europei l’humus del moderno movimento cooperativo in
larga parte come risultato o come una risposta organizzativa dei nuovi imprenditori a seguito del
passaggio dall’economia agricola (basata sul baratto e sulla produzione su piccola scala) a quella
industriale (quindi orientata alla crescita sistematica della grande e media industria di capitali). Per
alcuni aspetti, la cooperazione europea ha anche rappresentato un istituto per la tutela dei lavoratori
nelle industrie penalizzati per il passaggio ad un modello di organizzazione della produzione basato
sull'impiego sistematico ed intensivo dei macchinari. La cooperazione europea nasce quindi sulla
base di spinte politiche ed ideologiche se non rivoluzionarie certamente riformiste, poiché legate a
lotte, utopie ed a condizioni sociali di base diverse ed ha fatto riferimento a molti paradigmi
politici, sicuramente a quello socialista (e più tardi, in parte a quello marxista) così come a quello
sociale-cattolico ed anche al filone democratico, rappresentato dal pensiero mazziniano. Si tratta,
quindi, di un panorama poliedrico e tuttora molto differenziato, non solo in termini numerici ma,
anche in base ai diversi modelli storici, politici e culturali che ciascun paese ha vissuto.
A livello comunitario e nella maggior parte degli Stati membri, le cooperative detengono quote di
mercato importanti, specie nel settore primario e terziario. Nel 1996 il 35% delle cooperative
europee operava, infatti, nel settore agricolo44, il 20% nel settore secondario45 e ben il 45% nel
43
Per approfondimenti cfr. Cardini A. (2006).
44
Alla stessa data (1996) la quota di mercato delle cooperative nel settore agricolo era dell' 83%in Olanda,
del 79% in Finlandia e del 55% in Italia. Nella silvicoltura, le cooperative detenevano una quota di
mercato del 60% in Svezia e del 31% in Finlandia.
Nella vendita al dettaglio, le cooperative di consumatori detenevano una quota di mercato del 35,5% in
Finlandia e del 20% in Svezia. Nel comparto della cura della salute e nell'approvvigionamento
farmaceutico, le cooperative avevano una quota di mercato del 21% in Spagna e del 18% in Belgio.
45
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terziario46, occupando in media circa 2,3 milioni di lavoratori (il 2,3% in media del lavoro
stipendiato a tempo pieno), con una percentuale rispetto al totale degli occupati, che oscillava da un
massimo del 4,6% in Spagna e il 4,5% in Finlandia ad un minimo dello 0,57% in Grecia. In questo
panorama strutturalmente molto differenziato, emerge come carattere generale che la grande
dimensione prevale nei paesi del Nord Europa, mentre l’area del Sud rimane caratterizzata da
imprese mediamente più piccole, operanti soprattutto nel terzo settore.
Agli inizi del Duemila si contavano circa 132.000 cooperative che impiegavano 2,3 milioni di
cittadini europei (una percentuale di lavoratori salita al 3% sul totale) e con 83,5 milioni di soci 47 a
cui si aggiungeranno i 23 milioni di soci delle imprese dei paesi dell’Est europeo candidate ad
entrare in Europa48.
Con l’ampliamento del mercato europeo ed a seguito degli ampi processi di concentrazione, che
stanno interessando tutte le aree produttive, si è verificata l’estensione della presenza cooperativa in
settori prima inesplorati, per la necessità di doversi adeguare o per compensare la nuova domanda di
mercato e le nuove regole del commercio internazionale 49. Si è così assistito alla diffusione ed al
successo di molte cooperative nel terziario e, in particolare, nel settore informatico o dei servizi
tecnologicamente evoluti per le imprese, come ad esempio il caso della compagnia telefonica nel
Regno Unito, che compra “traffico telefonico” per poi rivenderlo ai soci a tariffe vantaggiose,
realizzando un significativo abbattimento per i soci del prezzo del servizio. Altre esperienze
significative si sono avute anche nel settore della cultura: è il caso della Francia dove operano ben
oltre 50 teatri cooperativi (che assicurano la piena libertà artistica), tra cui il rinomato “Théàtre du
Soleil”. Stanno emergendo nuove forme cooperative anche nei settori del sociale e del welfare, che
offrono servizi e partecipazione alla vita sociale a coloro che ne sono esclusi e che ne necessitano.
Nei paesi del Nord Europa, invece, si continuano a rilevare performance interessanti per iniziativa
di imprese cooperative che continuano ad operare nel settore primario , riuscendo con la loro
offerta, a contribuire in misura massiccia all’offerta nazionale. Basti pensare che nel 1996, in
Olanda la quota di mercato della cooperazione agricola raggiungeva l’83%, in Finlandia il 79% e in
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Nel settore terziario, le cooperative avevano raggiunto oltre il 50% del mercato del risparmio in Francia,
il 35% in Finlandia, il 31% in Austria e il 21% in Germania.
Per approfondimenti cfr. UE, Libro bianco sulle imprese cooperative europee (2001).
Nell’Europa centrale ed orientale le cooperative stanno contribuendo alla formazione professionale degli
imprenditori ma scontano ancora l'eredità politica delle precedenti economie pianificate.
I dati riportati nel proseguo per ciascun singolo paese in Europa e relative al 1996 sono tratti da l’
“International Co-operative Alliance (ICA), Statistics and Information in European Co-operatives, ICA,
1998.
Italia il 55%. Analogamente per la silvicoltura, con una incidenza delle cooperative del 60% in
Svezia e del 31% in Finlandia. Queste importanti quote di mercato confermano che nel NordEuropa l'offerta delle cooperative è dominante nel settore primario e, fra queste, al primo posto,
nella graduatoria delle prime 25 imprese del mondo (per capitale), compare la finlandese
“Metsäliito”, che opera nell’industria della forestazione e del legno (con un giro d’affari di quasi 6
miliardi di euro, 60.000 soci e oltre 20.000 addetti). Per importanza è doveroso citare anche le
cooperative casearie e per la produzione della carne localizzate, prevalentemente, in Danimarca, in
Svezia, nei Paesi Bassi, in Germania e in Irlanda che detengono quote di mercato che, in alcuni
casi, sfiorano addirittura il 90% (Ms foods in Danimarca) o il 75% (Swedish Meat in Svezia).
Nei paesi con una connotazione cooperativa storica, a più recente e significativa presenza del
movimento cooperativo si riscontra, invece, sempre nell'ambito del settore terziario, specialmente
nel credito e nella grande distribuzione50. Tra i gruppi creditizi cooperativi europei più noti
possiamo, infatti, citare la Radobank (Paesi Bassi), il Crédit Agricole (Francia) e le Banche
Raiffeisen (in Germania e nei paesi di lingua tedesca). In particolare, il Crédit Agricole è stato per
decenni (fino alla fine del secolo scorso e prima dell’ampio processo di concentrazione che ne ha
modificato la struttura proprietaria e la dimensione), il secondo istituto di credito (per dimensione)
del mondo occidentale; anche Radobank, seconda banca dei Paesi Bassi, ha svolto negli anni un
ruolo prioritario all'interno del mercato europeo. Le banche popolari tedesche e le Raiffeisen, a loro
volta, compaiono ancora oggi nelle classifiche mondiali e sono ricomprese tra le principali
istituzioni finanziarie europee.
3.1. Regno Unito. La cooperazione inglese risale alla prima metà del XVIII° secolo e la sua origine
è associata alle organizzazioni di tessitori riuniti in cooperative e ad alcuni mulini collettivi,
dislocati in Inghilterra e in Scozia (intorno al 1760). Il decennio successivo segnò l’avvio delle
società di abitazione (per tentare di risolvere il problema delle pessime condizioni abitative degli
operai) ed alla stessa decade risale la nascita della prima cooperativa di sarti, che rafforzò il
movimento degli operai tessili. L’ origine delle cooperative, intese nell'accezione moderna, coincise
però con la Rivoluzione industriale, partita alla fine di quello stesso secolo proprio dal Regno Unito
e dalla Scozia meridionale (nel 1770 circa), imponendo ai lavoratori, prima artigiani autonomi che
50
28
Per la grande distribuzione degna di nota è la catena finlandese Scandinavian Coop Norden e la rete di
negozi Migros in Svizzera.
producevano beni manufatti nelle loro case, di trasferirsi nelle città industriali alla ricerca di lavoro
nelle fabbriche gestite dai capitalisti-proprietari. Le ripercussioni sociali della rivoluzione
industriale modificarono, perciò, l’equilibrio del mercato e, di conseguenza, le posizioni di potere: il
capitale prima investito dai mercanti in materiali tessili per essere trasformati in tessuti e confezioni
dagli artigiani indipendenti verrà ora dirottato, in quantità molto maggiori, nelle fabbriche (per
l’acquisto di macchinari). Questo diverso impiego del capitale segnerà il passaggio dal mercato
dominato dalla figura del mercante e dai beni prodotti dagli artigiani in autonomia, al sistema
gestito dall’industriale e basato sull'impiego del lavoro umano per sfruttare al massimo i
macchinari. I profondi effetti sociali della rivoluzione industriale51 furono, infatti, tramandato come
la nuova posizione di uomini, donne e bambini assoggettati ad un lavoro che richiedeva orari
massacranti e bassi salari. E, come riportato in tutta la letteratura e la storiografia economica52, la
rivoluzione industriale portò alla rovina numerosi artigiani, costrinse al lavoro donne e bambini e
determinò spaventose crisi di sovrapproduzione53 (per un eccesso di offerta di lavoro). Da ciò la
necessità di concepire modelli di organizzazione della produzione alternativi all'impresa
capitalistica e, in qualche modo, in grado di riscattare, economicamente e socialmente, i lavoratori e
ad un diffuso clima di insoddisfazione e di ingiustizia sociale che darà l’avvio anche ad interventi
politici ed istituzionali. Una prima risposta in tal senso si ebbe con David Dale, un capitalista e
filantropo scozzese che, richiamando l’attenzione di tutta l’Europa, avviò un primo tentativo di
riforma legislativa, proponendo una città-fabbrica modello dove trasferire i giovani ospiti degli
orfanotrofi di Glasgow ed Edimburgo54 per lavorare: questo progetto associava l'idea dell'
educazione a quella del lavoro. Sulla stessa scia, il socialista “utopista55” Robert Owen56 (genero di
Dale), volendo ulteriormente ridurre lo sfruttamento dei minori istituì (nel 1799) il New Lanark on
the Clyde, ossia un altro esempio di città-fabbrica modello, però rinnovata, con ulteriori finalità
51
Per “rivoluzione industriale” si intende la prima fase dello sviluppo dell'industria moderna e il periodo
storico in cui si è affermato l’uso di macchinari per la produzione in serie dei beni. Ha avuto origine nella
seconda metà del XVIII secolo in Inghilterra e nel settore tessile, da dove si è poi propagata in tutti i rami
di attività economica.
52
Fra i primi studi storici storico-sociologici sul tema degli effetti del capitalismo e il generale dell' impoverimento dei
lavoratori cfr. Engels F. (1972).
53
Alcuni ritennero che la rivoluzione industriale avrebbe potuto addirittura ricreare gli orrori della schiavitù
e, in effetti, in alcuni luoghi e in alcuni momenti i lavoratori furono sottoposti a condizioni di
sfruttamento disumano. Per approfondimenti cfr. Zamagni V.-Battilani P.- Casali A. (2004).
In questa fabbrica i bambini avevano il privilegio di poter lavorare nelle officine tessili “soltanto” 13 ore
al giorno, anziché le almeno 15 previste fino allora.
54
55
I socialisti cosiddetti utopisti (Owen, Fourier), sin dalla fine del XVIII° ed inizi del XIX°secolo cominciarono ad
ipotizzare modalità di organizzazione della produzione diversi da quelli dell'impresa di capitali fino ad allora
dominante (quindi un'utopia).
56
Robert Owen (1771-1858) fu uno dei primi pensatori inglesi a propugnare ideali socialisti e di tipo
cooperativo con modalità di produzione in cui non c'era contrapposizione tra capitale e lavoro, quindi
alternativi all' impresa capitalistica.
29
sociali ed educative dato che prevedeva l'introduzione di nuove forme di educazione al lavoro ed
alla cooperazione, dando l’avvio ad un nuovo modello di produzione industriale. In questa fabbrica
si applicò un' ulteriore riduzione dell’orario di lavoro dei minori (ad 11 ore) e si introdussero alcune
lezioni e qualche svago nel tempo libero: si trattava di riforme radicali per quell’ epoca. Poi, sotto
l’influenza di pensatori francesi a lui contemporanei (come l'utopista Charles Fourier57, che vedremo
in seguito) e nello svolgimento del suo ruolo di politico (per il coordinamento dei lavori di un
Comitato di indagine sullo stato di applicazione della Poor Laws58), venne incaricato dalla Camera
dei Comuni per redigere un rapporto, il “Villages of Cooperation”, nel quale avrebbe dovuto esporre
le sue idee di trasformazione sociale, ossia il suo modello produttivo e di organizzazione sociale
ispirato a finalità educative59 che, in pratica, aveva applicato nella sua fabbrica-modello. Si trattava
in realtà di una nuova forma di organizzazione della produzione, da contrapporre alle imprese di
capitale e basata sull’utopia di una società futura senza classi, attenta al soddisfacimento dei bisogni
umani e fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e dei risultati del lavoro operaio60.
La fabbrica doveva essere gestita in forma cooperativa, i beni si sarebbero dovuti scambiare in base
al lavoro in essi contenuto (come suggerito dall’ortodossia ricardiana) e la gestione avrebbe dovuto
provvedere non solo alla produzione ma anche alla formazione professionale e spirituale dei
lavoratori: un'ipotetico nuovo ordine sociale basato sui valori cooperativi di eguaglianza,
democrazia e solidarietà (così come le prime sperimentazioni negli stabilimenti tessili di New
Lanark). L’esperienza di Owen favorì ed influenzò anche i successivi interventi in tema di
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30
Le radici del pensiero di Fourier , che si può definire progressista se non rivoluzionario, sono da ricercarsi
nell'Illuminismo e in Jean-Jacques Rousseau, in particolare nel considerare la parità tra uomo e donna e
nel nuovo metodo pedagogico, che avrebbe dovuto favorire lo sviluppo libero e creativo dei bambini,
attraverso la scoperta dei loro istinti naturali.
Le Leggi sui poveri (le Poor Laws) erano state introdotte nel XVI° secolo, durante il regno di Elisabetta I°
per l'assistenza agli strati più poveri della popolazione. Prevedevano una forma di sostegno per individui
che, a causa dell'età o della malattia, non erano in grado di svolgere attività lavorativa e mancavano di
mezzi propri di sostentamento. Alla fine del XVIII° secolo, si trattava di un sistema che provvedeva ad
integrare lo stipendio dei lavoratori che percepivano un salario al di sotto del limite minimo di sussistenza
(detto di Speenhamland). Con il diffondersi dei modelli di produzione capitalistica e dell'idea di self-help
(autosufficienza) si iniziò a vedere nel sostentamento pubblico un elemento corruttore della fibra morale
dell'individuo e nella carità uno sprone alla pigrizia: di conseguenza, le stesse poor laws divennero
sempre più restrittive e selettive. Di conseguenza, la legge del 1834 non diede più alcun sostentamento a
coloro che erano fisicamente in grado di lavorare. Il problema dell'assistenza si ripropose con il
diffondersi delle teorie interventiste dello Stato, che portarono alla sostituzione delle poor laws con un
sistema di servizi assistenziali, ossia il welfare state.
Le teorie di Owen erano basate sul presupposto che l’ambiente influenzasse in maniera determinante il
comportamento umano e che, fornendo nutrizione gratuita ed alloggi decenti ed estendendo a tutti i
lavoratori la partecipazione agli utili derivanti dal proprio lavoro, si potesse giungere a sopprimere gli
istinti egoistici ed antagonistici del capitale e ad abolire ai lavoratori la funzione penalizzante della
proprietà privata.
In altri termini, per Owen la fabbrica rappresentava il nucleo intorno al quale poter ricostruire,
gradualmente e pacificamente, una società più giusta, senza le prevaricazioni fra classi provocate dal
capitalismo.
cooperazione, rappresentando la base di partenza per molti illustri pensatori che lo seguirono e per
altre esperienze cooperative (nel decennio 1826-1835 in Gran Bretagna furono infatti costituite più
di 250 cooperative61). Nel 1820, intanto, sempre nel Regno Unito le esperienze cooperative di
consumo si moltiplicarono: il Dottor William King, organizzò una importante cooperativa di
consumo (a Brighton) ma, soprattutto, fondò la prima rivista cooperativa62, The Cooperator. Nel
1830 nacque proprio a Londra, la prima fabbrica cooperativa del Regno Unito63.
Il movimento cooperativo fondato da Owen (imitato dai riformatori sociali e dagli ambienti politici
conservatori) ed il suo progetto di riforma iniziò però a scontrarsi con le regole di mercatom,
soprattutto per il suo sostegno alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, per l’uguaglianza
delle retribuzioni dei lavoratori e per il suo rifiuto sia della moneta (quale mezzo di scambio
universalmente accettato) che della libera concorrenza del mercato64 (quale regolatore della
produzione e della distribuzione della ricchezza). In particolare, i comportamenti spietati della
nuova imprenditoria delle industrie di Manchester e la loro corsa all’arricchimento lo convinsero
che la libera concorrenza fosse la causa del diffondersi dell’avidità umana, dei comportamenti
egoistici e del deterioramento dei rapporti umani.
Intanto nel 1844, 28 tessitori di Rochdale (cittadina a nord di Manchester) o più comunemente noti
come i “Probi Pionieri” avviarono la The Rochdale Equitable Pioneers Society, una sottoscrizione
di fondi per l' apertura di uno spaccio fra alcuni tessitori che, anziché scioperare per la crisi del
settore, decisero di vendere direttamente sul mercato i loro prodotti finiti e, contemporaneamente,
generi alimentari di prima necessità (farina, burro e zucchero) ai propri soci. Nel 1850 i soci del
magazzino erano già 600 e la cooperativa iniziò ad estendersi in altri settori (calzoleria, sartoria,
macelleria, ecc.), creando posti di lavoro per molti artigiani; nel 1855 venne aperto il primo
61
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L’Industrial and Provident Societies Act, la prima legislazione cooperativa al mondo, fu emanata (nel
1852) proprio nel Regno Unito e l’anno successivo fu fondata la Central Cooperative Agency, ossia la
prima cooperativa all’ingrosso al mondo e la progenitrice della grande distribuzione all’ingrosso
britannica. Nel 1869 il movimento cooperativo inglese organizzò il il primo Congresso Cooperativo
Europeo.
Nel 1830, secondo i dati della ILO Cooperative Chronology, esistevano 300 società cooperative e 12
riviste cooperative registrate ufficialmente. L’anno seguente a Manchester si tenne il primo Congresso
Cooperativo del Regno Unito.
63
Per approfondimenti cfr. Hornsby M. (1988).
64
Le attività produttive auspicate da Owen proposero anche l’applicazione di ulteriori vincoli, ossia la
garanzia di un utile “equo” per chi investiva il capitale nell’impresa e la necessità di reinvestire parte dei
ricavi nella stessa impresa, per poter rafforzare la struttura patrimoniale dell’azienda e per migliorare il
benessere degli operai.
31
magazzino all’ingrosso ed altre succursali in tutto il territorio del Regno Unito65. L’attività fu estesa
anche nel campo delle scuole e della formazione, dell’edilizia e del credito.
I Rochdale Principles66, che vigevano per la gestione di questi magazzini, rappresentarono le
fondamenta per la stesura degli odierni principi67 dettati dall’Alleanza Cooperativa Internazionale
(ACI) ed applicati a livello internazionale. A differenza del rapido fallimento dei villaggi
cooperativi di Owen, l'esperienza dei Probi Pionieri rappresentò il primo esperimento di successo di
una cooperativa di consumo ed anche un iniziale spunto teorico, per iniziativa di alcuni economisti
inglesi che, partendo da questa nuova struttura commerciale, iniziarono a promuovere il principio
della “sovranità del consumatore”, nel rispetto delle nuove regole vigenti nel mercato, ossia la
concorrenza, la proprietà dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori e la remunerazione
proporzionale al contributo dei lavoratori all'attività e in base all’entità degli acquisti effettuati. I
magazzini dei Probi Pionieri vennero gestiti nel rispetto di queste regole, prevedendo la raccolta del
risparmio fra i soci (con la corresponsione di un interesse minimo) e la devoluzione di una parte
degli utili (il 5%) a fini sociali68. Già da allora veniva anche prevista l'attività di istruzione e di
formazione professionale a favore dei soci, a supporto del necessario processo di emancipazione
economica e politica delle classi lavoratrici. I principi dei Probi Pionieri, proprio per queste
intuizioni tramandate fino ai nostri giorni, rappresentarono perciò il primo importante riferimento
per il controllo democratico dell’impresa (una testa un voto69), per il riconoscimento della parità dei
sessi, per l’offerta di prodotti genuini e non adulterati e per la neutralità politica e religiosa.
Nello stesso periodo, sull’impronta di questa esperienza, le cooperativa si diffondevano anche in
altri settori di attività economica: nel Galles, con la prima azienda per i minatori (fondata nel 1859)
seguita da imprese simili nel campo della produzione (1850) e del consumo all'ingrosso (1862-63).
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Nel 1885 a Londra nacque l’Unione Cooperative Femminili (in Inghilterra e nel Galles) che segnò l’inizio
della storia della cooperazione femminile, un movimento che da allora iniziò a diffondersi in altri paesi
europei ed extra-europei.
I principi che vigevano per la gestione di questo magazzino erano i seguenti: 1. vendita in contanti a
prezzi fissi; 2. ristorno degli utili ai soci (in proporzione ai ricavi); 3. libertà di acquisto (i soci non erano
obbligati ad acquistare nel magazzino); 4. riconoscimento di un interesse minimo sui prestiti dai soci: 5.
devoluzione di una parte degli utili per la formazione professionale dei soci; 6. governo democratico (una
testa un voto, anche per le donne); 7. neutralità e tolleranza religiosa.
Tra questi il ristorno, l'attuale strumento apprezzato e dibattuto fra i cooperatori, che già allora
riconosceva la necessità di fidelizzare e gratificare i soci con un ulteriore compenso monetario, in
proporzione agli acquisti effettuati o ai ricavi realizzati con il loro contributo all'attività lavorativa.
Questo obiettivo si è oggi esteso al perseguimento di ulteriori finalità anche sul fronte internazionale
come, ad esempio, la tutela dell’ambiente, il sostegno economico-sociale e lo sviluppo dei paesi del Terzo
mondo (ad esempio con il commercio equo e solidale).
Il principio “una testa un voto” segnerà la differenza fondamentale fra le società di capitali (in cui il voto
è proporzionale al numero di azioni possedute) e quelle cooperative, sottolineando il valore strumentale
del capitale rispetto alla persona.
Seguirà il comparto delle assicurazione70 (1867), dell’agricoltura71 (1867), del credito (1868, 1872,
1876), dell’edilizia abitativa (1884) e dell’ immobiliare (1900). Sorsero anche Federazioni di
cooperative ed altre associazioni centrali di supporto72 alle imprese operanti. Il Congresso di Londra
(del 1869) a sua volta, avviò un ampio processo di internazionalizzazione73 dell’esperienza
cooperativa inglese e, pochi anni dopo (nel 1886), per iniziativa di Edward de Boyve (un
cooperatore francese) fu possibile proporre a Londra l' istituzione di una Federazione Cooperativa
Internazionale, un passo importante per arrivare alla nascita dell’odierna ACI (nel 1895).
Il periodo successivo, ossia il cinquantennio da Rochdale alla prima guerra mondiale, continuò a
rappresentare per la cooperazione un' importante fase di sviluppo e di crescita74,.
.
Gli anni successivi, tra le due Guerre segnarono, invece, il periodo di istituzionalizzazione dei passi
già fatti in precedenza75. Le attività della cooperazione di consumo si estesero, si registrò la fusione
fra il comparto dell'ingrosso inglese e quello scozzese e fu data maggiore attenzione alla fornitura di
servizi cooperativi, sempre più adattabili alle nuove esigenze espresse dal mercato. La fondazione
della Horace Plunkett (successivamente “Fondazione Plunkett” per gli Studi Cooperativi), istituita
a Londra nel 1919, diventò il principale centro per la diffusione delle informazione sulle attività
delle cooperative agricole ed iniziò, nel 1926, la pubblicazione dello Year Book of Agricultural
Cooperatives. La prima Scuola Estiva Internazionale Cooperativa fu, invece, fondata nel 1921; nel
1926 si diede avvio al Sindacato Nazionale dei Cooperatori ed alla Woodcraft Folk, per le attività
educative, formative e ludiche rivolte ai figli dei cooperatori. Nel 1941 si formò anche la
Federazione Nazionale Giovani Cooperatori76.
70
71
72
73
74
75
76
33
La Società Cooperativa di Assicurazione del Regno Unito assieme alla Banca Cooperativa saranno
leader, a livello internazionale, per i programmi di assistenza ai paesi in via di sviluppo.
Le cooperative agricole estesero il loro campo di attività grazie alla costituzione dell’Associazione
Cooperative Agricole Gallesi e del Comitato Cooperativo (operanti entrambe nell’ambito della National
Farmers Union).
Tra le altre, l’Unione Cooperativa di Manchester (1869), una Federazione di produzione (1882), una
Federazione agricola (1901) e altre Federazioni della pesca (1914). Allo stesso periodo risale la creazione
di un Comitato consultivo per l’Educazione cooperativa (l'avvio del Cooperative College di
Loughborough).
Nel 1920 fu fondata la Overseas Farmer’ Cooperative Association con la funzione di facilitare le
relazioni politiche e commerciali con l’Australia, la Nuova Zelanda ed il Sud-Africa.
Nel periodo il Governo sostenne l’azione cooperativa istituendo il Registro delle cooperative (nel 1846) e
promulgando la prima legislazione cooperativa al mondo (l’Industrial and Provident Societies Act, del
1852), corretta nel 1862 per regolamentare la formazione dei consorzi cooperativi.
Nel 1919 fu fondato il Cooperative College di Loughborough ed il primo Partito Cooperativo, la cui
funzione era quella di difendere con maggiore determinazione gli interessi politici ed economici delle
cooperative presso il Governo.
Per approfondimenti cfr. Tamagnini G., (1960); Ferri A., (1978).
Nell’immediato secondo dopo-guerra, le cooperative si dedicarono alla ricostruzione ed al ripristino
delle loro reti, attraverso l’avvio dei negozi77, la riattivazione delle imprese di produzione, la
ricostruzione degli edifici78 e, soprattutto, per la riorganizzazione del settore agricolo, a causa della
continua migrazione della popolazione dalle campagne alle città e per la minore produzione
agricola. In quegli stessi anni fu possibile assistere, anche, ad una certa ripresa delle relazioni
internazionali mentre le varie organizzazioni nazionali vennero affiliate le federazioni Cooperative
Internazionali, un crescente movimento diffuso in tutta Europa, per creare una rete operativa di
cooperative nell’ambito di tutto il territorio comunitario79.
3.2. Germania. Il percorso storico del movimento cooperativo tedesco ci riconduce, come
anzidetto, ai primi istituti di credito cooperativi80. Il perno della cooperazione tedesca fu, infatti, il
credito. Agli albori della rivoluzione industriale, il paese si caratterizzava per un’economia ancora
incentrata su un comparto agricolo poco innovativo e dominato dalla piccola e media proprietà
terriera contadina. Il 1845 segnò l’ avvio del movimento cooperativo, ossia quando Victor Aimé
Huber 81 associò la cooperazione ad una “soluzione economica ottimale” per la ripresa del mercato e
il per il riscatto degli operai a basso reddito. Quasi contemporaneamente fu organizzata (nel 1846)
da W. Raiffeisen82 una prima associazione con un forno per la distribuzione del pane e per
combattere la carestia, dando l’avvio alle cooperative rurali Raiffeisen, mentre nelle aree urbane fu
dato un maggiore impulso al settore dell'artigianato, con una prima cooperativa tra falegnami
seguita da una tra calzolai (1847). Intanto l'attività cooperativa in ambito bancario, sempre per
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Le cooperative di consumo furono nel tempo sottoposte ad ampi processi di concentrazione: i piccoli
negozi locali vennero, infatti, riuniti e trasformati nei più moderni supermercati; e questi, a loro volta, in
ipermercati regionali, che, nelle modalità del loro operato, erano assimilabili ai grandi magazzini.
Le cooperative edilizie cominciarono a diffondersi soprattutto a Londra e nel Nord-Est dell’Inghilterra,
diventando il secondo settore economico, in termini di numero di soci.
Nel 1955, in occasione dell’incontro per il centenario dell’ICA, il movimento cooperativo mondiale
scelse come presidente un inglese (Grahan Melmoth).
Per approfondimenti cfr. Dowe D. (1988).
Victor Aimé Huber (nato a Stoccarda nel 1800) è stato un riformatore sociale; ha infatti proposto un
modello per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori con basso salario. E’ stato uno dei predecessori
di intellettuali del movimento cooperativo in Germania e membro attivo del Comitato esecutivo del noprofit (dal 1949 al 1952). Ha inoltre partecipato alla creazione di imprese impegnate nella costruzione di
abitazioni per gli operai .
F.W. Raiffeisen (1818-1888) è stato un politico che, per far fronte alla crisi economica ed alimentare degli
anni 1846-48, intervenne prima con l' Associazione per il pane (1846) e poi con la Società di soccorso
agli agricoltori indigenti (1849), per alleviare le carenze di liquidità e le difficoltà di finanziamento di
contadini e di artigiani. Nella valle del Reno fondò l'Associazione caritatevole di Heddersdorf (1852) che
diventerà l' Associazione Cassa Rurale di Heddersdorf.
iniziativa di Raiffeisen, si estese anche al di fuori dei confini locali, con la costituzione della Mutual
Aid Association (nel 1849 a Flammersfeld), ossia la prima cassa rurale a responsabilità illimitata,
per la concessione del credito al comparto agricolo83. Allo stesso modo nelle aree urbane Herman
Schulze-Delitzsch84, nel suo ruolo di economista e poi di parlamentare, contribuì in maniera
massiccia alla diffusione della cooperazione del credito nelle aree urbane con la fondazione
(nell'anno successivo) della prima banca popolare (Vorschuszverein), avviando così il credito
cooperativo urbano, per finanziare nuovi investimenti nel comparto del piccolo commercio e
dell’artigianato e per sottrarre questi piccoli imprenditori allo sfruttamento degli usurai. Nel 1859
dall’aggregazione delle società bancarie più piccole, veniva promossa la prima Genossenschaftstag.
La diffusione e il successo della cooperazione nei diversi settori di attività economica non solo in
Germania ma in tutta Europa e il complesso delle attese sociali che questo modello di produzione
stava iniziando ad alimentare, ponendosi come alternativa al mercato capitalista e come un
interlocutore diretto delle classi operaie, spingerà Karl Marx, proprio in quegli anni (nel 1864), ad
affrontare il tema del ruolo sociale del movimento cooperativo. La posizione di Marx nei confronti
del movimento cooperativo però (come vedremo meglio in seguito) non sarà mai univoco ed
oscillerà tra un apprezzamento iniziale ed una successiva posizione di indifferenza, come d'altra
parte si riscontra nello schema, sostanzialmente dicotomico, del suo approccio al tema sociale.
Il trentennio successivo della storia del movimento cooperativo tedesco fu segnato dalla
proliferazione sia delle casse rurali di credito agricolo (patrocinate da F.W. Raiffeisen85 nella valle
del Reno) che delle aziende di credito per artigiani e piccoli imprenditori, nelle aree urbane (sul
modello Schulze-Delitzsch). Le prime, all'origine un network di istituti di credito rurale, basate su
forti unità locali e federate a livello regionale, verranno poi unificate, a livello nazionale, in una
Unione tra singole casse sociali di credito cooperativo (la prima nel 1865 a Weimar 86). Il successo e
le politiche innovative che questo sistema alimentò, nel corso degli anni successivi condusse ad un
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Questa prima cassa rurale, operando su un piccolo mercato (al massimo due villaggi) erogava il credito
esclusivamente ai soci (illimitatamente responsabili), ad un basso tasso di interesse e riuscendo così a far
circolare le poche risorse disponibili tra gli agricoltori, al fine di facilitare gli investimenti e la
modernizzazione del settore.
Franz Hermann Schulze-Delitzsch (1808-1883) economista e membro del parlamento (nel 1848) in
rappresentanza del partito del centro sinistra, in qualità di Presidente della Commissione d’inchiesta si
occupò delle misere condizioni economiche di agricoltori ed artigiani, e propose i nuovi modelli di
cooperazione al fine di incentivare, in entrambi i settori, la produzione e il commercio.
Il paese dove fu maggiore l'influenza di Raiffeissen fu l'Austria, dove tuttora gli è dedicata una
organizzazione bancaria cooperativa molto efficiente collegata, con iniziative analoghe alla provincia di
Bolzano.
La prima banca cooperativa centrale di Prussia (la Deutsche Genossenschaftskasse, DG Bank) fu, invece,
fondata nel 1895.
ampio processo di integrazione e di centralizzazione delle singole imprese, che si estese anche in
altri settori produttivi (ad esempio con la Federazione delle cooperative agricole) e ad una
regolamentazione normativa (iniziata nel comparto del lavoro), che culminerà con l' emanazione
della prima legislazione cooperativa tedesca (nel 1867). Questo intervento normativo stimolato dall'
iniziativa di Shulze-Delitzsch87 (in qualità di membro del Parlamento austriaco) segnerà il
riconoscimento legale delle cooperative, definendole “società a comunione di beni per fini
commerciali”, cioè strutture produttive non alternative ma interne ed integrate al mercato capitalista
tedesco e complementari agli altri modelli di produzione.
Gli anni successivi alla prima guerra mondiale, segnarono lo stabilizzarsi della cooperazione di
consumo con la fondazione di una Organizzazione Nazionale per la grande distribuzione (nel 1897)
poi riunita in un' associazione centrale, denominata Organizzazione Nazionale per la Grande
Distribuzione a cui, all’inizio del Novecento, si affiancò la Federazione Nazionale delle
Cooperative Tedesche dei consumatori, operante su tutto il territorio per rappresentare un numero
crescente di soci e di imprese di produzione88. Durante la prima guerra mondiale89 venne poi
formato il Libero Comitato delle Associazioni Cooperative Tedesche (Freier Ausschuss der
Deutschen Genossenschaftsverbande), che esiste tuttora con la denominazione di Confederazione
Nazionale Autonoma90. Il mercato è poi stato interessato ad un ampio processo di centralizzazione e
di concentrazione delle singole imprese in Unioni cooperative91 (per settore)
Il primo dopoguerra fu poi un periodo molto complesso, in cui le dinamiche di crescita del
movimento si intersecarono con le vicissitudini politiche (dando vita a cooperative neutrali,
cooperative socialiste e cooperative cristiane92), alimentando così un'ampia serie di conflitti e di
rivalità, specie tra le associazioni di rappresentanza dei settori. Con la salita al governo del partito
nazista, ostile all’autonomia, alla democrazia e all’orientamento democratico della cooperazione, la
struttura organizzativa di questo segmento produttivo fu immediatamente abolita e la supervisione
centralizzata del settore fu affidata al Governo centrale (il Nazi Deutsche Arbeitsfront).
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Schulze-Delitzsch, in qualità di membro della Camera riuscì, infatti, a trasferire il diritto prussiamo a
Nord della Confederazione tedesca e poi in tutto l’impero germanico (nel 1867).
Intorno al 1910 si contavano 6 Unioni cooperative che raccoglievano i 5/6 delle imprese mentre negli
anni 20-30 si verificò un’ulteriore integrazione e l’accorpamento di quelle esistenti in 3 Unioni, una per
ciascun settore (commerciale, agrario e di consumo).
All’inizio della prima guerra mondiale erano presenti in Germania 34.568 cooperative con 6.250.000 di
soci . Alla fine del 1943 il numero di cooperative raggiunse un picco di 53.348 imprese con 9.000.000 di
soci. Nel 1985 nella Repubblica Federale Tedesca erano presenti 10.185 cooperative con 14.018.037 soci
(il 22,8% della popolazione).
Per approfondimenti cfr. Dowe D. (1988).
Nel 1864 Schulze-Delitzsch aveva anche fondato la Allgemeiner Verban (AV), la prima Unione
Cooperativa tedesca.
Per approfondimenti cfr. Dowe D., op.cit.
Si trattava della fase del cosiddetto “allineamento” delle Unioni cooperative (1933), ossia la perdita
della loro autonomia e la conseguente sottomissione al controllo dello Stato93. Nel giro di pochi
mesi, infatti, Hitler aveva allestito l'apparato istituzionale del "nuovo ordine" nazista, che
significava il predominio del regime sulle imprese cooperative, cioè l’abolizione del loro
ordinamento democratico e la liquidazione di ogni forma di partecipazione dei soci- lavoratori alla
gestione dell'impresa.
Nel secondo dopoguerra si poté assistere alla ripresa del movimento cooperativo e delle sue prassi
organizzative, con il ripristino di una certa autonomia dal Governo centrale. Come in tutti gli altri
Paesi si trattò di un processo rapido in tutti i settori che, nel 1948, permise la ricostituzione della
Federazione delle Cooperative di Consumo e delle società Raiffeisen, alle quali ben presto si
aggiunsero la Federazione delle cooperative di abitazione (nel 1949) e l’Unione delle Associazioni
Centrali (nella Repubblica Federale Tedesca). Con questi interventi il comparto cooperativo tedesco
ben presto si ristabilizzò, sebbene con prassi, dimensioni e peculiarità nettamente diverse rispetto al
passato ma con l’intento di continuare a rappresentare, in tutto il territorio, un elemento chiave per
lo sviluppo economico nazionale94,, sebbene con marcate e comprensibili divergenze tra le due aree
(Germania democratica e socialista).
In ambito internazionale la cooperazione tedesca è presente, sin dal secondo dopoguerra, con la
Raiffeisen International Union (RIU95, fondata nel 1968) che ancora oggi raggruppa le associazioni
di volontariato di tutto il mondo, mettendo in pratica l’organizzazione del lavoro basata sull' autoresponsabilità e sull' auto-governo, in base ai principi e le idee di Friedrich Wilhelm Raiffeisen e
favorendo lo scambio di esperienze tra le diverse organizzazioni aderenti. La sensibilità a farsi
carico dello sviluppo dei paesi meno industrializzati è sempre stata una costante di tutta la politica
tedesca96. Le università tedesche, a loro volta, hanno creato una rete di istituti di ricerca che
studiano e promuovono in tutto il mondo la forma e le potenzialità della cooperazione come motore
propulsore per lo sviluppo economico nel mondo e dei PVS.
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Con questo nuovo ordine la Germania uscì dalla profonda crisi in cui versava l'economia nazionale: le
sorti dell’alta finanza e della grande industria nazionale furono risollevate e gradualmente fu assorbita
anche la disoccupazione. La ripresa economica fu possibile soprattutto per in contributo dovuto alla
organizzazione di una possente industria bellica.
L’Economia sociale tedesca distingue al suo interno tre grandi tipologie di imprese: 1. la cooperazione
(che identifica la figura del lavoratore con quella dell'imprenditore); 2. l'impresa mutualistica (che
identifica la fruizione dei servizi con l’adesione all'organizzazione); 3. l’associazionismo (modelli di
organizzazione dei cittadini e distinte dalle due precedenti).
Ai nostri giorni conta 73 membri provenienti da 41 Paesi.
I padri fondatori della moderna politica tedesca, Konrad Adenauer, Friedrich Ebert e Friederich
Neumann inclusero sempre nei loro programmi l’assistenza alle cooperative dei paesi in via di sviluppo.
3.3. Austria. La prima cooperativa Austriaca è l' estensione della categoria delle banche di credito
cooperativo tedesche, rappresentate da una società aperta a Klagenfurt (nel 1851) da Franz
Hermann Schulze-Delitzsch. Da allora fu avviato un movimento precursore dell’intero movimento
cooperativo austriaco, il Gruppo Generale di Aiuto Viennese, che si estese rapidamente nel territorio
tanto da creare una Federazione Nazionale per la Cooperazione (nel 1872) . La istituzionalizzazione
del movimento cooperativo austriaco fu fortemente sostenuto dall’impegno parlamentare del suo
promotore, Schulze-Delitzsch H. impegnato sia nella regolamentazione del settore che per
promuovere la cooperazione considerata uno strumento in grado di riscattare lo sfruttamento della
classe operaia. Nel 1873 verrà poi emanata la prima legislazione per regolamentare l’attività del
movimento cooperativo e parallelamente sorgerà l' Istituto Centrale di Categoria delle banche di
credito cooperativo, denominato “Unione Austriaca Raiffeisen” (nel 1898) a cui farà seguito la
Federazione delle Cooperative Agricole e la Federazione dei consumatori (nel 1901).
Fino agli anni antecedenti la prima guerra mondiale si registrò la continua ed intensa diffusione
delle imprese; poi a seguito dello scioglimento dell’Impero Austro-Ungarico, si registrò una
graduale riduzione del segmento produttivo cooperativo così come la perdita del sostegno politico
che ne aveva accompagnato l' espansione, con effetti dapprima all’interno dell’Impero e poi anche
al di fuori dei confini97 nazionali. Nel periodo tra le due guerre furono invece create nuove strutture,
tra cui un’Associazione centrale per le banche di credito cooperativo, altre cooperative per l’edilizia
abitativa (che diedero vita ad una apposita Federazione Nazionale) ed una società cooperativa di
assicurazione, con competenza su tutto il territorio nazionale, che rappresentò la volontà di
estendere l’esperienza della mutualità cooperativa in altri nuovi settori.
Nel 1930 Vienna fu scelta quale sede per l’incontro del tredicesimo Congresso dell’ACI attestando,
così il pieno riconoscimento dello status internazionale del movimento cooperativo austriaco. In
seguito, l’occupazione tedesca dell’Austria (del 1938) e la sua annessione al Reich condussero alla
dissoluzione forzata di molte imprese cooperative e, in specie, di quelle di consumo fortemente
legate ai sindacati e alle strutture politiche socialiste. Il movimento cooperativo austriaco poté
ristrutturarsi nei settori tradizionali (dell’ agricoltura, del consumo, del credito e dell’abitazione)
soltanto dopo la seconda guerra mondiale.
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Al ridursi dell’interesse politico all’interno del movimento cooperativo austriaco farà seguito la nascita di
piccoli nuclei di nuove comunità cooperative nei territori che poi diverranno Stati autonomi (ossia in
l’Ungheria e nelle appena costituite Cecoslovacchia e Jugoslavia)
Nel 1966 anche il XXIV° Congresso dell’ICA fu tenuto a Vienna98. Se confrontiamo la consistenza
delle cooperative di quegli anni con i dati rilevati dall’ACI alla fine degli anni Novanta, si nota una
sostanziale stabilità nella dimensione del mercato cooperativo austriaco, sia in termini di aziende
operanti (passate nel trentennio da 1440 imprese a 1485) che in base ai soci cooperatori, che
continuano a rappresentare, approssimativamente, quasi la metà della popolazione (e precisamente
il 47,9%).
3.4. Francia. La nascita del movimento cooperativo francese, come in altri paesi europei, può farsi
risalire al 1750 ed alle imprese tra produttori del settore caseario, localizzate nella regione FrancheComté: le prime esperienze cooperative francesi. A questa iniziativa seguiranno, agli inizi del XIX°
secolo, i falansteri ideati da F.M.C.Fourier99, ossia alcune comunità di tipo cooperativo, basate sui
principi del volontariato e dell’aiuto reciproco. Lo sviluppo sistematico della cooperazione francese
proseguirà nel suo percorso di crescita, anche con il contributo di importanti teorizzatori del
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Nel 1966 le cooperative austriache operavano nel settore agricolo (con 1.067 società e 444.139 soci), nel
credito (763/2.388.450), nel consumo (76/648.575), nell’edilizia abitativa (183/332.842), nella
cooperazione del lavoro (12/1.160) e in altri settori di attività economica (che complessivamente
contavano 102 aziende con 24.201 soci).
Fourier François Marie Charles (1768-1830) fu un socialista utopista ed un filosofo, apprezzato per la sua
satira verso la miseria morale e materiale del mondo borghese. Le comunità da lui ideate, denominate
falangi, si basavano su abitazioni comuni chiamate falansteri, perchè auspicava una società unita e
cooperante come una falange, il lavoro vissuto come un valore e gli interessi individuali assimilati agli
interessi collettivi dell’intera falange. Il movimento fourierista riscosse molto successo anche al di fuori
dei confini francesi, in Algeria, in Spagna, in Russia e soprattutto in America. Proprio in America
vennero fondate 41 comunità sul suo modello: la prima comunità cooperativa, la Brook Farm (1841)
nelle vicinanze di Boston, da studenti, intellettuali ed artigiani che dividevano i profitti in base alle
giornate di lavoro (intellettuale o manuale) svolto da ciascuno. Purtroppo la comunità di Brook Farm si
sciolse nel 1849 a seguito di un incendio che distrusse il falansterio. Altra importante comunità fu la
North American Phalanx (fondata nel 1843 nel New Jersey da Albert Brisbane) che ispirò Victor
Considérant (successore di Fourier) a fondare a Dallas, nel Texas, una più importante colonia, la Réunion,
fallita pochi anni dopo per mancanza di fondi.
principio cooperativo, tra cui C. Gide100, L. Blanc101 e lo stesso Fourier102 che vedevano nella
cooperativa un efficace strumento per abbattere le disparità e le brutture dell’economia di mercato
provocate dalle imprese di capitali. L’abolizione della proprietà privata e la sostituzione dell'impresa
di capitali con tipologia produttiva della cooperazione furono, infatti, i prodromi delle teorie
francesi. La diffusione delle cooperative fu anche facilitata dalle peculiarità della struttura
produttiva del mercato di allora, cioè da un'economia dominata da un settore industriale già
sviluppato (soprattutto nel comparto manifatturiero delle ceramiche), con una avviata automazione
dei processi, quindi con una struttura produttiva caratterizzata da una diffusa innovazione
tecnologica dei processi produttivi103 che aveva causato ampie sacche di disoccupazione.
Le prime cooperative di lavoro si avviarono, a loro volta, con gli ateliers nationaux, vere e proprie
officine statali104 (nate dalle idee socialiste di Louis Blanc), in cui trovarono impiego i lavoratori
urbani disoccupati ed impegnati a svolgere opere di pubblica utilità.
La prima legislazione sistematica per la cooperazione fu elaborata nel 1865 e promulgata nel 1867.
Allo stesso periodo risalgono i primi contatti con le cooperative del Regno Unito e di altri paesi
Europei che offrirono l’occasione per la preparazione di un Congresso Internazionale di
Cooperative, progetto che però non ebbe seguito. Alla fine del XIX° secolo fu, invece, avviata con
un certo fermento l' attività delle cooperative di credito e la loro successiva organizzazione in
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Gide Charles (1847-1932) fu un leader francese, economista e storico del pensiero economico ed un
instancabile paladino del movimento cooperativo, sia agricolo che dei consumatori. Il suo libro,
Coopération et économie sociale, che apparve per la prima volta in francese nel 1904 (e in inglese nel
1921) è un classico nel campo della tradizione cooperativa e del federalismo. Per approfondimenti cfr.
Coopération et économie sociale 1886-1904 (1905), trad. Patrice Devillers, Edizioni L’Harmattan
(2001) ; Les Societes Cooperatives de Consomption, (1904) tradotto in Consumer’s Co-operative
Societies (1921).
Blanc Louis Jean Joseph Charles (1811–1882) fu uno storico e politico francese, con una visione
decisamente anti-liberale del mercato e della concorrenza a cui attribuì i mali della società moderna
poiché “spinge da parte i più deboli”. Proclamò la parificazione dei salari e la unione degli interessi
personali in un più generale bene comune, secondo la famosa formula "a ciascuno secondo i suoi bisogni,
da ciascuno secondo le sue capacità” (tratto da L' organisation du travail, 1839, il testo base del suo
pensiero politico). La sede per la realizzazione dei suoi programmi sarebbero stati i cosiddetti "laboratori
sociali", una vera e propria nuova organizzazione sociale, metà cooperativa e metà sindacato, che avrebbe
consentito ai lavoratori la proprietà comune dei mezzi di produzione, ossia il luogo dove i lavoratori
avrebbero potuto unire i propri sforzi per il bene comune. Per approfondimenti cfr. Blanc L. J. J. C. ,
Appel aux hommes gens, 1849.
Per approfondimenti cfr. Fourier F.M.C., 1829 ; 1833; 2005.
Le prime cooperative cercarono di dare una risposta agli emergenti problemi derivanti dalla iniziale, ma
inesorabile, sostituzione in fabbrica del lavoro manuale con i macchinari.
Grazie agli incentivi concessi con alcuni decreti legge (del luglio 1848), vennero fondate molte
cooperative, fra cui l’Atelier social di Cliché, creato da un gruppo di operai parigini per produrre
indumenti per la guardia nazionale, sulla base del principio di salari uguali per tutti e di guadagni
equamente distribuiti.
Federazioni regionali (struttura che è all'origine dell’attuale Crèdit Agricole), che diede lo spunto
per l’emanazione di una legge specifica sulle cooperative di credito agricolo.
L’ultimo decennio dell’ ‘800 ed i primi quindici anni successivi furono caratterizzati da una crescita
vigorosa del movimento cooperativo francese e da una partecipazione attiva del paese all’Alleanza
Cooperativa Internazionale (appena fondata), che tenne il suo secondo e quarto Congresso proprio a
Parigi (rispettivamente nel 1896 e nel 1900). Per il movimento cooperativo francese furono anni
intensissimi, sia per l’impegno al consolidamento ed allo sviluppo del settore ma anche per
l’entusiasmo all'espansione verso nuove esperienze: basti pensare, ad esempio, alle cooperative
“scolastiche” che divennero ampia materia di discussione e di sperimentazione, così come anche
alle prime società di “assicurazione mutualistica” che divennero (come sono tuttora), un caposaldo
delle politiche del Welfare francese. L’espansione territoriale e settoriale impose al movimento
cooperativo francese, come nel resto d’Europa, problemi di organizzazione o, come diremo oggi, di
governance oltre che di rappresentanza dei soci nelle organizzazioni cooperative (di consumo, di
credito, agricole ed immobiliari) che confluiranno nelle Federazioni regionali e nazionali, per poter
contare su di una rappresentanza più forte e qualificata. Tra le principali associazioni centrali
ricordiamo la Società Cooperativa per la Vendita all’Ingrosso, la Banca Cooperativa Centrale (a
Parigi nel 1917) e la fondazione del Crèdit Agricole. Da un punto di vista teorico, invece, fu
avviata la pubblicazione della Revue des études coopératives. L’aumento dei soci fu l’ ovvia
conseguenza di questo processo di espansione del movimento cooperativo francese, con
protagonisti autorevoli che assunsero ruoli importanti anche sulla scena internazionale105.
Dal 1945 al 1948 le cooperative agricole si riorganizzarono in 15 nuove Federazioni territoriali; le
cooperative di consumo riordinarono la loro attività in strutture più ampie e complesse, in grado di
fornire una più vasta gamma di servizi alle associate e le cooperative di produzione e lavoro, a loro
volta, continuarono a crescere. Il movimento cooperativo ebbe quindi l’importante ruolo di
assecondare e di accompagnare la ricostruzione del paese, partecipando attivamente alla successiva
fase di sviluppo economico con il contributo di un numero crescente di imprese e di attività che si
riorganizzano (nel 1968) in una associazione centrale nazionale, denominata “Groupement national
de la cooperation” . A seguito di questo trend evolutivo, la Francia rappresentò, per l’intero
movimento internazionale, la nazione leader nell'ambito del settore cooperativo.
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Tra tutti ricordiamo Albert Thomas, che divenne il primo direttore dell’ILO.
Nel 1988 si è assistito ad una concentrazione del mercato, con la conseguente riduzione del numero
di imprese106 e ad un ampliamento della compagine dei soci cooperatori cooperative 107 (fino al 30%
della popolazione).
3.5. Italia. In Italia, nel 1806 a Osoppo fu istituito il primo collettivo di lavoratori del settore
caseario, la prima cooperativa in Italia che subirà, nel corso degli anni, diverse fratture ed
articolazioni. Ma, l' analisi dell'evoluzione storica del movimento nazionale non può prescindere dal
riferimento alla cooperazione sociale e al ruolo assunto, inizialmente, dalla Chiesa poi gradualmente
sostituita dalle Società di Mutuo Soccorso. Per comprendere questo passaggio è necessario
ricordare che agli inizi del XVIII° secolo, l'assistenza sociale e sanitaria, la cura degli anziani e
l'istruzione erano sostenuti dall'attività caritativa dei privati, sollecitati dalla Chiesa Cattolica 108.
Peculiarità di queste organizzazioni era il loro stretto e diretto contatto con il territorio e la società
e, conseguentemente, la loro immediata percezione delle mutate esigenze della collettività. Lo
Stato, a sua volta, rimaneva assente da qualsiasi forma di assistenza sociale nei confronti dei
cittadini, anche per una tacita delega alla Chiesa delle opere di misericordia e in materia di
educazione e di assistenza sociale. Alla fine del XVIII secolo gli enti caritativi promossi dalla
Chiesa iniziarono però ad essere visti dai Governi come un “potere estraneo”109, in quanto si
frapponevano tra lo Stato e gli individui, e si iniziò a ripristinare un contatto diretto tra Governo
centrale e cittadino, così come suggerito dallo Stato liberale (generato dalla Rivoluzione Francese).
Ciò indusse gli stessi politici italiani ad occuparsi specificatamente della tutela dei diritti individuali
dell’uomo, riducendo così gli spazi fino ad allora occupati dalle opere private cattoliche. Tutto ciò
condusse alla nascita di una realtà assistenziale laica, slegata dal movimento religioso e
rappresentata dalle Società di Mutuo Soccorso110 (SMS), associazioni strettamente legate al
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Le cooperative francesi sono presenti nei seguenti settori: agricoltura, commercio, consumo, pesca,
immobiliare, credito, scolastico, trasporti e produzione lavoro. Per i dati più recenti sulle cooperative
europee cfr. Eurostat (2001).
Nel 1998 si contavano 17.485.573 soci.
Il “soccorso agli altri” era allora vissuto come un dovere morale o meglio, un obbligo per chi voleva
espiare i propri peccati; in quest'ottica, le prestazioni venivano erogate a chiunque, sia valido che
invalido, in quanto ciò che contava era l'elemosina in sé e non il soggetto che la riceveva.
Forse per le nuove teorie filosofiche (come il giusnaturalismo che teorizzava l'esistenza di un diritto
naturale all'assistenza, scollegando il discorso da ogni legame morale e religioso per affermare il diritto
del povero ad essere mantenuto, sia pure in termini minimi, dalla comunità) e religiose (dato che con le
chiese riformate fu necessario provvedere alla chiusura dei monasteri ed alla laicizzazione della
beneficenza).
Il mutuo soccorso nasceva in Italia durante la metà dell'Ottocento e venne autorizzato dallo Statuto
Albertino (1848) che concesse la libertà di associazione. Ma, le prime esperienze, possono farsi risalire
territorio e finalizzate al perseguimento degli obiettivi di promozione economica e sociale della
classe operaia, attraverso il richiamo agli obiettivi di mutualità111, di solidarietà fra i lavoratori e di
autogestione dei fondi sociali112; in altri termini, le prime e più evolute forme di organizzazione
sociale113. In risposta a queste nuove finalità, gli Statuti delle associazioni dei lavoratori vennero
riformulati per permettere l'inserimento di nuovi fini mutualistici: il sostegno creditizio agli
associati, la fornitura di materie prime, la vendita ai soci dei prodotti di prima necessità al prezzo di
costo e la costituzione di magazzini sociali. Da questi obiettivi, legati alla difesa degli interessi dei
lavoratori, sarà possibile risalire all'embrione delle diverse tipologie di cooperative italiane. Una
primordiale forma di “cooperativa di consumo” apparsa in Italia (Torino, 1854) sarà il Magazzino di
previdenza (con la vendita di prodotti ai soli soci), avviato dalla locale Associazione generale degli
operai che raccoglieva lavoratori di ogni settore impoveriti dalla carestia del 1853. Nel luglio del
1854 nacque a Genova la prima società operaia cattolica italiana114, la Compagnia di San Giovanni
Battista, espressione di un mondo clericale più aperto e illuminato, convinto della necessità di
mettersi al passo con i tempi riunendo i lavoratori cattolici in proprie SMS115.
Dopo questi magazzini di previdenza, sorse l'Associazione artistico-vetraia in un piccolo centro in
provincia di Savona (ad Altare nel 1856) fra 86 artigiani vetrai, disoccupati (o minacciati dalla
disoccupazione) per la crisi della locale ed antica industria del vetro. La società di Altare è stata
considerata il prototipo nazionale della prima cooperativa di produzione e lavoro italiana legata
all’artigianato e caratterizzata dalla difesa di secolari tradizioni dei mestieri locali assieme alla
salvaguardia dell’occupazione: categoria di impresa che inizierà a diffondersi nei centri urbani (tra
il 1860 e il 1870) e, soprattutto, nelle grandi città dell’Italia centro-settentrionale, sempre per
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43
alle vecchie corporazioni (sciolte in Europa da Napoleone). L' assistenza si estendeva al tentativo di far
fronte ai primi timidi sviluppi industriali ed ai conseguenti problemi sociali, ossia la lenta espulsione dei
lavoratori dalle campagne, i bassi salari degli operai e la mancanza di lavoro.
La mutualità si fondava sul principio della comunione dei rischi possibili (malattia, invalidità, infortunio
e disoccupazione) o futuri (vecchiaia, morte).
Agli affiliati era richiesto il regolare versamento di una quota del salario (in rapporto alla prestazione
garantita): una condizione non semplice da rispettare (data l'esiguità degli stipendi) che però educava alla
parsimonia. Con questi contributi obbligatori veniva costituito un fondo autonomo, ripartito per malattie e
per sussidi di invalidità e di vecchiaia. Gli oneri per gli eventuali bisogni dei singoli venivano ripartiti fra
tutti gli associati ed il diritto alle prestazioni sorgeva automaticamente, previo accertamento delle
condizioni.
Il mutuo soccorso si presentava in Italia come una reazione sia alla crisi dei vecchi ordinamenti che ai
nuovi e radicali rivolgimenti economici e sociali. È dal mutuo soccorso, infatti, che si svilupperanno la
resistenza, la cooperazione e l’organizzazione politica, filoni importanti della nostra storia e le prime
risposte al malessere dei ceti operai.
Lo statuto di questa prima società cattolica sarà il testo base per le successive associazioni operaie
cattoliche. Il primo articolo affermava: “fine della Compagnia è di soccorrere le famiglie della classe
operaia, non solamente per sollevare le infermità corporali, ma per rendere anche morigerati i membri,
solleciti nell'adempimento dei loro doveri verso Dio e verso il prossimo”.
Al 31 dicembre 1862 risultavano 443 società di mutuo soccorso delle quali 66 anteriori al 1848, mentre
168 erano state fondate tra il 1848 e il 1860, e 209 dal 1860 al 1862.
iniziativa delle società operaie avviate dai lavoratori più istruiti e coraggiosi che, a fronte del
versamento di una quota settimanale, garantivano agli associati una assistenza reciproca e mutua, in
caso di malattia, infortunio e morte. La radice della cooperazione in Italia sarà quindi riscontrabile
nel rapporto di filiazione tra società di mutuo soccorso116 ed imprese cooperative, conseguente ad
una precisa logica: a seguito della forte debolezza della classe operaia per la crisi del mercato le
prime SMS assunsero anche la connotazione di una struttura per la difesa economico-sindacale dei
lavoratori, dando ulteriori stimoli al nascente movimento delle cooperative, ossia una risposta
democratica e di solidarietà all’iniziativa economica privata. Le prime forme di associazionismo
estendevano così il loro campo di attività dal soccorso e dalla previdenza dell’individuo ad
interventi di natura economica, segnando così il passaggio dalla beneficenza alla previdenza, dalla
carità al mutualismo, dal ruolo passivo al ruolo attivo di una classe sociale che, cercando un
miglioramento concreto delle proprie condizioni economico-sociali, davano vita ad un profondo
impulso al dibattito politico e al quadro legislativo del tempo117, segnando così il passaggio dallo
Stato sociale al Welfare State italiano118 . Molti sono quindi gli intrecci e le derivazioni rispetto
all’originario seme del mutuo soccorso (soprattutto educativo e lavorativo) ed è forse in questa
continua commistione ed integrazione tra forme associative diverse uno dei caratteri distintivi del
nascente movimento operaio italiano e delle prime moderne forme di organizzazione dei lavoratori.
Con l'avvento del nuovo secolo il ruolo di ponte che le Società di Mutuo Soccorso svolsero fra
beneficenza, mutualismo volontario e Stato sociale andò sempre più accorciandosi, lasciando ai
Sindacati, alle Camere del Lavoro ed ai Partiti politici (di cui erano state matrici) la prosecuzione
della loro opera di promozione, mentre lo Stato iniziò ad assumere precise attribuzioni nel campo
della tutela sociale dei lavoratori. Il ruolo delle Società di Mutuo Soccorso 119 rimase attivo sul fronte
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Le società di mutuo soccorso erano infatti “fondazioni, per le quali gli operai si assicuravano
mutualmente un premio convenuto, dei soccorsi gratuiti ed anche parte del loro salario in caso di
infermità o d’infortunio”. Lo scopo fondamentale di queste società era soccorrere i soci in caso di
malattia; gli scopi secondari, che naturalmente variavano a seconda delle società erano: “soccorrere gli
invalidi ed i vecchi con pensioni vitalizie, pensionare e sussidiare gli orfani e le vedove, procurare lavoro
ed occupazione ai soci, istruire con scuole serali e domenicali i soci e i figli dei soci, fare prestiti ed
anticipazioni, ricevere depositi per formazione di capitali o costituzioni di rendite, somministrare viveri
ed altri oggetti di prima necessità ai soci, al prezzo di costo, fornire la materia prima ai lavoratori,
sussidiare i soci di passaggio”. Per approfondimenti cfr. Conti F.-Silei G. (2005); Ferrera M. (1993).
Il 17 luglio del 1898 nasceva la “Cassa Nazionale di Previdenza per l'Invalidità e la vecchiaia” da cui le
Società di Mutuo Soccorso potevano attingere per un'integrazione ai sussidi che riconoscevano ai soci.
Questa assicurazione diventò obbligatoria nel 1914.
Con l'assicurazione obbligatoria lo Stato, riconoscendo implicitamente la salute del lavoratore come un
diritto e un patrimonio per la collettività, iniziava ad offrire ed a garantire prestazioni standardizzate e
imparziali, fondate su diritti degli individui. Tali norme avrebbero rivoluzionato i tradizionali criteri
dell'assistenza e della beneficenza.
In Italia nel 1901 le oltre 8.000 SMS con più di un milione di soci si riunirono nella Federazione Italiana
delle Società di Mutuo Soccorso ed il Congresso ne indicò le linee principali. Nei primi venti anni del
1900 il movimento associativo si sviluppò e si estese fino all' apertura di circoli ricreativi, culturali e
delle associazioni volontarie e per l'assistenza al sostegno e al potenziamento delle iniziative di
cooperazione, da cui ebbero origine realtà autonome ed estremamente rilevanti per l'economia e la
società italiana.
Negli anni della guerra la diffusione delle associazioni venne inevitabilmente rallentato, anche se le
Società di Mutuo Soccorso si impegnarono in una campagna contro la guerra e, nel contempo,
promossero in tutte le sedi aiuti ed assistenza per i cittadini, per i soldati e per le loro famiglie.
Nel primo ventennio post-unitario, per iniziativa di intellettuali e di economisti con orientamento
liberale120 o cattolico, il movimento sarà rappresentato da due tipologie cooperative: quella del
credito121 e quella del consumo.
La cooperazione del credito122 italiana (a differenza delle successive esperienze del consumo e del
lavoro) si prefisse, fin dalle origini, obiettivi di utilità sociale, rispondendo alla necessità di liberare
le fasce più umili della popolazione dalla miseria, aggravata dalla cronica mancanza di capitali o da
una ricorrente rapace usura. La prima Cassa Rurale (sul modello tedesco creato da Raiffeisen nel
1849), nasceva nel 1883 in provincia di Padova (a Loreggia), ad opera di Leone Wollemborg123 e si
presentava come una associazione di mutuo aiuto fra i “capi famiglia probi e capaci del villaggio”,
ossia con comprovata onestà e moralità. Alla creazione aggregò 32 soci fondatori (soprattutto
contadini e piccoli proprietari terrieri), operanti con 27 casse iniziali (nel 1886), salite a 40 agenzie
dopo tre anni ed a 70 nel triennio successivo (1892). Con l’emanazione dell’enciclica Rerum
Novarum da parte di Leone XIII (nel 1891), che invitava i cattolici a dare vita a forme di solidarietà
per favorire lo sviluppo dei ceti rurali e del proletariato urbano, sorsero anche le prime Casse Rurali
di ispirazione cattolica, per iniziativa di don Luigi Cerutti. Dopo 15 anni dalla costituzione della
prima banca (nel 1897 ), si contavano 904 Casse Rurali, dislocate principalmente in Veneto, Emilia
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sportivi.
Uno dei padri del movimento solidaristico-mutualistico del nostro paese è stato Giuseppe Mazzini, le cui
idee rappresentarono un veicolo di grande importanza per la diffusione degli ideali cooperativi e per la
nascita di alcune società di mutuo soccorso, che videro nell'unità e nell'indipendenza le premesse
necessarie per risolvere in modo concreto ed efficace il futuro assetto sociale. I successivi moti
risorgimentali aprirono una frattura tra le società operaie mazziniane (che si ispiravano ai principi
solidaristici e democratici) e quelle dei moderati (sostenute da vecchi e nuovi filantropi, esponenti dei ceti
nobiliari e della grande borghesia terriera e finanziaria), interessati ad un controllo paternalistico delle
classi lavoratrici).
Nel 1870 le banche popolari erano già 50 e salivano a 124 in meno di un decennio (nel 1878), con un
notevole incremento negli anni Ottanta che le portò dalle 205 (del 1882) alle 368 (del 1885), per giungere
alle 604 (fine 1889).
Per l'avvio delle Casse rurali in Italia è stato fondamentale il contributo di Raiffeisen le cui opere avevano
fortemente influenzato Leone Wollemborg (di famiglia ebrea padovana, di origine tedesca) incline ad un
incondizionato appoggio nel basso clero veneto. Trovò, infatti, in Raiffeisen un solido consenso nella
comune lotta all'estrema povertà della popolazione rurale.
Leone Wollemborg fu un economista e politico italiano che contribuì alla diffusione dell'idea cooperativa
di fine Ottocento.
Romagna, Piemonte e Lombardia. Di queste, 779 di matrice cattolica e 125 di ispirazione liberale
anche se, fin da subito, le Casse avvertirono l’esigenza di fare sistema, per valorizzare la
cooperazione e favorire il raggiungimento di obiettivi che non avrebbero potuto conseguire
singolarmente.
.Intanto anche Luigi Luzzatti124, uomo politico liberale e conservatore, nell’ambito delle iniziative
di credito aveva promosso e fondato anche la prima Banca Popolare di Milano (1865) nella forma di
società anonima a responsabilità limitata125, finalizzata a concedere credito alle classi intermedie
(rurali ed urbane) rimaste ai margini dello sviluppo economico nazionale, che riconosceva ad ogni
socio un solo voto in assemblea. Un particolare clima politico favorevole alla cooperazione e
sempre per iniziativa di Luigi Luzzatti, il più convinto sostenitore del credito cooperativo, fu
possibile procedere alla costituzione della Federazione delle Casse Rurali (1905) che, a sua volta,
incentivava l'istituzione di numerose Federazioni locali e dell’ Istituto Nazionale di Credito per la
Cooperazione (nel 1913).
Le dinamiche più vistose di quegli anni riguardarono però le cooperative di consumo (la cui
vendita dei beni era riservata ai soci a prezzo di costo), la cui diffusione sul territorio fu agevolata
dall'esenzione dalla tassa comunale, sgravio che probabilmente stimolò la diffusione del modello
cooperativo anche al di fuori degli ambienti da cui era nata, per estendersi anche fra gli impiegati
delle principali città italiane. Fra le altre importanti iniziative, la Cooperativa ferroviaria, fondata da
Luigi Buffoni (nel 1886) con l’appoggio dell’Associazione Generale degli Impiegati. Questa
impresa, su imitazione del modello inglese, ebbe per scopo la vendita di beni aperta a tutti, a prezzi
di mercato minimi e la possibilità di distribuire il ristorno (ossia una parte degli utili) ai consumatori
(soci e non soci) in proporzione agli acquisti fatti. Questa sarebbe diventata nel tempo la prima
esperienza italiana nel campo delle cooperative di consumo. Ma, il primo esperimento
nell’accezione moderna di cooperativa di consumo fu, invece, quella del lombardo Francesco
Vigano a Como, sul modello inglese dei Probi Pionieri (1895). Vigano si rivelò, infatti, un convinto
sostenitore della necessità che le cooperative dovessero essere composte unicamente dai soci
lavoratori ed essere dirette da loro stessi per “insegnare all’operaio a trattare i propri affari”: questa
funzione educatrice della cooperazione costituì uno dei pilastri fondamentali della crescita civile,
culturale e politica delle classi lavoratrici. Accanto a questo obiettivo, fu messa in risalto, in modo
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125
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Luzzatti L. (1841-1927) fu giurista ed economista oltre che presidente del Consiglio dei Ministri (19101911). Partecipò alla fondazione dell' Università Cà Foscari di Venezia (1868) , il primo ateneo in Italia
per l'insegnamento dell'economia.
In questo modello i soci erano responsabili in solido per l’importo delle quote sociali da loro sottoscritte,
contrariamente al modello tedesco che prevedeva la responsabilità illimitata (con tutto il patrimonio) dei
soci.
esplicito, la funzione economico-sociale della cooperazione, che non doveva limitarsi solo al
miglioramento delle miserabili condizioni di vita degli operai ma contribuire anche alla loro
educazione sociale ed alla loro formazione professionale, per poter pervenire ad una società più
giusta. Per raggiungere questo obiettivo ipotizzò che, a coronamento dello sviluppo del movimento
cooperativo, sarebbe dovuto sorgere il “municipio cooperativo”, ossia una organizzazione sociale
pubblica gestita totalmente in forma cooperativa.
Le cooperative di produzione e lavoro, a loro volta, furono promosse da un giovane economista
dell'epoca
Ugo Rabbeno (1863-1897), che le presentò come “la forma per eccellenza” della
cooperazione. Il suo ragionamento si basava sul fatto che la cooperativa, proprio per la sua
organizzazione del lavoro e per la sua struttura, avrebbe potuto contribuire ad una trasformazione
pacifica della società (“pacificazione sociale”) verso forme solidaristiche, attenuando le sempre più
aspre conflittualità fra capitale e lavoro126.
Nei primi quindici anni del XX° secolo127 la cooperazione continuò a crescere, al pari di tutta
l’economia italiana, dimostrando di essere un fenomeno destinato a consolidarsi e sopravvivendo
alla crisi economica che seguirà alla prima guerra mondiale: dalle quasi 2000 cooperative nel 1902
si passò, infatti, a 7500 nel 1914, con circa 2 milioni di soci. Questa espansione stimolò (tra il 1904
e il 1911) la promulgazione di leggi molto importanti, orientate a migliorare l'operatività di queste
imprese, che stavano crescendo sui mercati in termini di dimensioni e di complessità, favorendo la
formazione di consorzi fra cooperative per ottenere una struttura patrimoniale più solida e per poter
concorrere alle gare di appalto per la realizzazione di opere pubbliche.
Durante il ventennio fascista le cooperative furono, invece, le prime associazione ad essere colpite
(in Emilia R., Lombardia e Toscana) dall’azione squadrista dei fascisti (1920), con distruzioni,
incendi e devastazioni cui seguì l’espulsione dei soci “sovversivi”, accusati di svolgere attività
“antinazionale”, uno dei metodi più diffusi dai fascisti per l’appropriazione delle cooperative, specie
di quelle con una buona consistenza patrimoniale. L’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione
aveva, infatti, inglobato circa 12.000 cooperative e 3 milioni di soci, favorendo la crescita del
movimento, ma solo nel settore agro-alimentare, l'unico ritenuto prioritario per lo sviluppo
economico del Paese (le cooperative passarono dalle 2.200 circa del 1921 ad oltre 3.700 nel 1939).
Ma, il processo di appropriazione o di controllo serrato delle cooperative fu esercitato anche
indirettamente, con il taglio dei finanziamenti e la richiesta del rientro immediato dai crediti
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127
47
Per approfondimenti cfr. Rabbeno U. (1889).
Per approfondimenti cfr. R. Zangheri- G. Galasso - V. Castronovo (1987).
concessi128, con l’ovvia conseguenza del fallimento o della liquidazione della cooperativa
(pubblicamente attribuita alla cattiva gestione dei “cooperatori”). Il comportamento vessatorio del
regime nei confronti delle cooperative fu formalizzato nel 1923 dal Gran Consiglio fascista, che
riconobbe alla cooperazione le potenzialità per contribuire alla ricostruzione dell’economia
nazionale, a condizione di aderire al partito o al sindacato fascista. Ciò confermò che, in realtà,
l'ideologia sociale del partito fascista non era contraria alla forma cooperativa anzi ne riconosceva il
ruolo economico tanto che la sopravvivenza delle cooperative durante il ventennio non fu ostacolata
anzi, in taluni casi, molte imprese poterono approfittare degli interventi e degli investimenti del
Regime per rafforzarsi, anche se a prezzo della pressoché totale rinuncia all’autonomia e solo
nell'ambito delle direttive e degli indirizzi del partito. L'avvento del fascismo tolse perciò le sedi
politiche, sindacali ed associative alle organizzazioni dei lavoratori, rimpiazzandole con le grandi
istituzioni del regime129; in particolare, la definitiva estinzione delle Società di Mutuo Soccorso
coincise con l'emanazione di Leggi Speciali (del 1926) e con la costituzione dell'Opera Nazionale
Dopolavoro, che assorbì nella struttura fascista tutte le forme di associazionismo. Terminato il
regime fascista, le Società di Mutuo Soccorso130 non ripresero più lo slancio iniziale e molte di esse
non tornarono più in attività. Ma, le necessità del sistema previdenziale ed assistenziale offrirono
alla classe politica (come vedremo) ampi margini per un'azione di intervento, sia sul piano dei
contenuti che su quello dell'organizzazione legislativa.
Il rilancio delle cooperative avverrà nel periodo repubblicano, con l’emanazione della Carta
Costituzionale che all’articolo 45 riconoscerà il ruolo della cooperazione con finalità mutualistiche.
Nel periodo venne anche ricostituito il comparto del credito con la Federazione Italiana delle Casse
Rurali e Artigiane131 (nel 1950) che aderì a Confcooperative (nel 1967) . Nel 1963 venne poi
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Il regime fascista contrasterà fortemente il credito cooperativo, determinandone un generale
ridimensionamento: dalle 3.540 casse del 1922 si scese alle 986 del 1940 ed alle 804 del 1947.
Si tratta delle seguenti iniziative: l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia, con attività assistenziali per
l’infanzia, lasciando però le funzioni educative alle istituzioni religiose private (1925); l' Istituto
Nazionale Fascista Assicurazione Infortuni (poi INAIL), per gli infortuni e le malattie del lavoro (1933);
l' Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale (poi INPS), per la vecchiaia, l’invalidità e la
disoccupazione (1935); gli Enti Comunali di Assistenza (in sostituzione delle congregazioni di carità) con
il compito di attuare politiche previdenziali nei confronti di categorie specifiche, ad esempio i ciechi, i
sordomuti e così via (1937); l' Ente per la Mutualità Fascista (poi INAM) per la malattia e la maternità
(1943).
Fra quelle che ripresero la loro attività la Federazione Italiana della Mutualità (erede della soppressa
Federazione Italiana delle Società di Mutuo Soccorso) che si alleò con la Confederazione Generale del
Lavoro per rafforzare la tutela dei lavoratori. Poi fu fondata un'organizzazione di credito popolare a
bassissimo tasso d' interesse, che favorì lo sviluppo di piccole aziende cooperative e garantì l'assistenza
sanitaria ed il sostegno economico alle categorie più deboli (disoccupati, orfani e vedove).
La legge n. 707 del 1955 riconfermò il carattere mutualistico di queste banche e stabilì che i servizi
dovevano essere rivolti prevalentemente ai soci e le operazioni con i terzi non avrebbero dovuto superare
il 25% dei depositi totali, attenuando la loro responsabilità patrimoniale.
fondato l’Istituto di Credito delle Casse Rurali e Artigiane (Iccrea)132.
3.6. Danimarca. Nel 1851 fu fondata la prima cooperativa fra proprietari terrieri con una
operatività molto ampia, tanto che il Paese133 è ancora oggi considerato la patria della cooperazione
agricola e successivamente, nel 1860, fu fondata la prima società cooperativa fra consumatori. Alla
fine del XIX° secolo, per impulso del teologo e vescovo luterano Nicolas Frederich Grϋndtvi Gts,
vennero introdotti (1880) anche i primi caseifici cooperativi, poi i macelli ed i salumifici e ben
presto il modello di produzione cooperativo finì per monopolizzare il settore produttivo.
L’agricoltura danese si è dunque sviluppata con il prevalente contributo delle imprese cooperative
che, nel corso del tempo, hanno subito tutte le trasformazioni imposte dal mercato, fino ad un
consistente processo di concentrazione che ha provocato una drastica riduzione delle aziende
casearie (passate dalle 1.400 iniziali del 1935 alle 42 del 1992); la nuova struttura è caratterizzata da
aziende con una grande dimensione media ed una forte vocazione verso l’estero.
Ai nostri giorni, il comparto cooperativo è anche rappresentato, con quote di mercato significative,
nel settore del consumo (nel 1993 operante con 683 società e 1.200.000 soci ). La rilevanza delle
cooperative si è mantenuta nel tempo e si è tramandata fino ai nostri giorni, con più di un terzo dei
danesi socio di una cooperativa. A latere, le cooperative per l’edilizia abitativa con la loro elevata
capillarità territoriale (con 712 imprese nel 1993) hanno contribuito alla costruzione di abitazioni a
più di 400.000 famiglie (ben oltre il 18% delle unità abitative dell’intera nazione). Accanto a queste
principali categorie, la presenza è consistente anche nel terziario dove operano reti di cooperative
ben stabilizzate nel settore bancario e delle assicurazioni. Nel 1998134 un terzo della popolazione
danese rientrava fra i soci cooperatori.
Nel 1986 fu fondato il Centro Cooperativo Danese per i rapporti con l'estero, a cui compete anche la
rappresentanza di tutto il segmento cooperativo danese nell'attività di assistenza economica e
finanziaria ai PVS.
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Per approfondimenti cfr. Giardino Michele (1997).
Per approfondimenti cfr. M. Degl'Innocenti (1988); Shaffer J. (1999).
Nel 1998 in Danimarca si registrava la presenza di 1.445 cooperative con 1.797.067 soci (pari al 34,2%
della popolazione), con una quota di mercato dell’1,7% rispetto alle imprese totali, un tasso di
occupazione del 3% dei lavoratori e un contributo del 9,3% al fatturato totale. Distintamente per settore le
cooperative danesi erano così suddivise: agricolo (65 aziende e 113.000 soci); consumo (526/1.226.867);
abitazione (695/400.000 unità nel 1993); credito (41/52.000) e produzione lavoro (115/5.200). Operavano
anche 3 cooperative di assicurazione.
Precipuità del movimento danese è la totale assenza di una legislazione specifica per il settore
cooperativo, che viene regolamentato dalle leggi ordinarie che riguardano tutte le altre tipologie di
impresa. Questa caratteristica, unica nel panorama legislativo comunitario, rappresenta per molti
cooperatori danesi una questione di orgoglio.
3.7. Finlandia. La cooperazione finlandese ebbe inizio nel 1870 (quando era ancora annessa alla
Russia), con la fondazione (a Viperi e Tampere) delle prime cooperative di consumo, a cui seguì la
prima cooperativa agricola (nel 1880). Da un punto di vista storico questo paese è spesso citato per
aver vissuto un periodo di forti tensioni tra le cooperative rurali e quelle urbane, situazione che
provocò l’iniziale suddivisione del movimento cooperativo in fazioni “progressiste” e “neutrali”.
Successivamente questa scissione diede vita a vere e proprie organizzazioni nazionali separate e la
distinzione si è protratta fino ai nostri giorni, tanto che persiste tuttora.
Sia il settore agricolo che quello di consumo crebbero nel tempo e si diversificarono, scontando solo
lievemente le conseguenze della prima guerra mondiale e dell’Indipendenza finlandese135
dall’Unione Sovietica. Anzi, durante gli anni tra le due guerre, proseguì una fase di moderata
crescita del settore cooperativo che, alla fine del secondo conflitto mondiale, darà origine alla
fondazione dell’Istituto Cooperativo per l’Educazione e di un Dipartimento per gli Studi
Cooperativi (presso l’Università di Helsinki). La produzione agricola e quella forestale rimasero
comunque le più importanti e dominate da imprese organizzate in reti di cooperative, ancora oggi
motori propulsori dell’economia nazionale.
Negli anni '90 , a causa degli alti tassi di disoccupazione provocati da una persistente stagnazione
dell’economia locale e da palesi difficoltà per una ripresa economica, furono create 700 cooperative
di lavoro, che sostennero ampie fasce di lavoratori. Nel settore terziario è nota a livello
internazionale la OKOBANK, che deve le sue origini alla prima banca centrale cooperativa (del
1902) creata per favorire la nascita di altre banche di credito cooperativo e per fornire flussi di
finanziamento al movimento stesso.
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Nel 1923 esistevano 10 organizzazioni nazionali che rappresentavano 3.626 società con più di 540.000
soci.
La larga incidenza della cooperazione sul mercato finlandese136 è ai nostri giorni confermata (dati
ACI137) dal presidio del gruppo cooperativo Pellervo nei principali settori di attività economica con
quote di mercato rilevanti: il 74% del comparto alimentare, il 96% nella produzione casearia, il 50%
per il pollame, il 34% nella produzione forestale e il 34% nel totale dei depositi bancari finlandesi.
Quasi la metà dei finlandesi sono soci-cooperatori (45,8%) .
3.8. Spagna. La prima cooperativa spagnola (l’Associazione Generale Allevatori Spagnoli), fondata
a Madrid nel 1838, ci suggerisce che il motore propulsivo dello sviluppo ideologico ed economico
del movimento spagnolo fu il settore agricolo, al quale si deve aggiungere quello della produzione e
del consumo. Rispetto agli altri paesi europei la cooperazione spagnola ha presentato, fin dalle
origini, una forte connotazione politica di estrazione socialista.
La prima legislazione per la regolamentazione del settore introdusse all’interno del Codice
Commerciale (del 1885) una sezione speciale per le cooperative. La prima struttura cooperativa
regionale fu invece costituita in Catalogna (nel 1898) e, come tutte le altre che seguirono ben presto,
la presenza si estese, diversificandosi, nei settori dell’agricoltura, del consumo, del credito,
dell’edilizia abitativa, della produzione e del lavoro: realtà produttive che ancora oggi ricoprono un
ruolo importante all’interno dell’economia spagnola. Nel 1928 fu fondata una Federazione
Cooperativa Nazionale, che ha rappresentato la Spagna fino alla Rivoluzione Civile.
Dopo la vittoria di Franco, nel 1942, le Federazioni cooperative regionali e di settore esistenti (che
all’epoca rappresentavano più di 2.200 società cooperative) furono liquidate con una dichiarazione
di illegalità138.. Ma, nonostante ciò, le cooperative spagnole continuarono a crescere ed a
diversificarsi anche sotto il regime franchista139. Con la sua morte (nel 1975), riemersero le nuove
136
Nel 1998 l' ACI registrava la presenza di 1.664 cooperative finlandesi con oltre 2.337.374 soci (addirittura
pari al 45,8% della popolazione nazionale), suddivise per settore nel modo seguente: agricoltura (64 imprese
e 134.800 soci); consumo (46/1.066.774); foreste (1/117.800); assicurazioni (115/350.000); banche
(298/668.000).
137
Per approfondimenti cfr. ACI, Annual Report, 2006
138
Alla guerra civile spagnola (1936-1940) seguì la lunga dittatura franchista, che durò quasi 40 anni ed
ebbe come caratteristica il ruolo interventista dello Stato in materia economica. Di conseguenza, la
regolamentazione del lavoro era molto rigida, non esisteva un movimento sindacale libero e gli scioperi
erano vietati. Inoltre, lo sviluppo della tecnologia applicata all’industria era scarsa, l’esportazione dei beni
non era permessa e il mercato interno era poco sviluppato.
139
Dai dati forniti da un rapporto dell’ International Labour Organization (1972) nel ’71 operavano in
Spagna 14.984 società con più di 2,6 milioni di soci (l’8,5% circa della popolazione). Per
approfondimenti cfr. ILO, Thesaurus, 2005.
51
Federazioni di settore in rappresentanza delle cooperative agricole, di consumo, di credito, della
pesca, edilizie, della produzione e del lavoro. Recentemente è stata fondata anche una
Confederazione Spagnola delle Cooperative, che si pone al vertice dell’organizzazione cooperativa
nazionale.
Nel tempo anche nel mercato spagnolo è stato interessato da un ampio processo di concentrazione a
cui è seguito un riassetto dimensionale140, comune a tutto il territorio europeo, necessario per
fronteggiare la maggiore competitività dei mercati, sia da un punto di vista quantitativo (con una
maggiore dimensione media delle aziende e più ampia patrimonializzazione) che qualitativo (con
l’ampliamento della sfera mutualistica, come conferma l’aumento della base sociale).
Passando al corpus legislativo che regolamenta le cooperative spagnole emerge una peculiarità che
le differenzia dalla legislazione italiana e da quella degli altri paesi europei, ossia il riconoscimento,
da parte dell’ordinamento locale, di un’ampia autonomia legislativa per ciascuna delle Comunità
autonome141 che, da un punto di vista amministrativo, rappresentano tutto il territorio nazionale. Per
cui alla legga nazionale (la recente Ley de cooperatives, 27/1999) si affiancano le disposizioni delle
13 Comunità autonome che hanno legiferato in materia142. La compresenza di questi due piani
normativi, uno nazionale ed uno locale, se da una parte complica la regolamentazione del settore
per le disparità che inevitabilmente possono sorgere dall’altra ha permesso (e permette) al
movimento cooperativo spagnolo di poter testare continuamente le
differenti ed innovative
soluzioni legislative143.
140
141
142
143
52
Nel 1986 si contavano un totale di 25.868 società con 3.864.182 soci (il 10% della popolazione). A
distanza di dieci anni (nel 1996) erano presenti 23.481 cooperative (dati ACI) con un totale di 4.336.502
soci (pari all’11% della popolazione nazionale), ossia si era verificata una mortalità delle cooperative (con
duemila imprese in meno) a fronte di una crescita della compagine societaria per il maggior numero di
soci cooperatori (il 2,3% del totale lavoratori). Nel 1998 le imprese cooperative rappresentavano appena
l’1% delle imprese totali (dati Eurostat) ed erano presenti nei seguenti settori: agricolo (4.350 imprese e
950.000 soci); bancario (96/905.473); edilizia abitativa (3.378/1.255.961); consumo (nd/2.674);
assicurazioni (1/nd); trasporti (396/4.710); produzione lavoro (13.101/163.952) ed altri settori
(1.597/47.960).
Le diciotto Comunità Autonome nelle quali è diviso amministrativamente lo Stato spagnolo sono, in
ordine alfabetico: Andalucía, Aragón, Asturias, Baleares, Canarias, Cantabria, Castlla-La Mancha,
Castilla y León, Cataluña, Ceuta-Melilla, Comunidad Valenciana, Extremadura, Galicia, La Rioja,
Madrid, Murcia, Navarra, País Vasco.
L’ordinamento prevede che la normativa nazionale venga applicata alle imprese che
svolgono la loro attività in più Comunità Autonome o nelle 5 Comunità Autonome prive di
legislazione in materia. Qualora l’attività dell’impresa si svolga interamente o
principalmente nel territorio di una delle tredici Comunità Autonome dotate di una
normativa cooperativa dovrà farsi riferimento a quest'ultima.
Nella stesura della recente Ley de Cooperativas (27/1999), per esempio, è stato fatto ampio
ricorso alle esperienze e alle indicazioni provenienti dalle legislazioni delle Comunità
Autonome, prendendo spesso ad esempio le scelte più virtuose emerse a livello locale.
3.8.1. L’esperienza Mondragon nei paesi baschi. Elemento distintivo del settore cooperativo
spagnolo144 è l’unicità e la complessità delle cooperative industriali Mondragon145 (Mondragon
Corporation Cooperativa, MCC) presenti nella regione Basca, una rete assai estesa e dinamica di
cooperative di produzione e di lavoro (di cui si parlerà più approfonditamente nel prosieguo) che,
per le sue peculiarità operative, può essere assimilata ad una holding cooperativa che “controlla”
oltre 300 imprese (di capitali e cooperative) operanti in vari settori (tra cui oltre ai classici, quello
scolastico, farmaceutico e sanitario), contribuendo significativamente allo sviluppo economico
della Spagna. La cooperativa basca Mondragon rappresenta, infatti, una esperienza di grande
suggestione, molto diversa dalla tipologia e dalla gestione prevalente in Europa, così che il
movimento europeo ed extraeuropeo guarda con grande attenzione a questo gruppo, anche se
Mondragon rimane sostanzialmente unica e senza veri epigoni.
Fondata nel 1956, cioè nel pieno della dittatura franchista146, da pochi giovani disoccupati di questa
cittadina basca che, sotto la guida del sacerdote Don Josè M. Arizmendiarrieta, decisero di avviare
una fabbrica di elettrodomestici. Questa iniziativa affondava le sue radici in una Scuola
Professionale, voluta dallo stesso sacerdote, per la professionalizzazione dei giovani periti
industriali del luogo disoccupati, per i quali la cooperazione rappresentava l’unica soluzione per
un'opportunità di lavoro, in un’economia stagnante e chiusa agli scambi con l’estero. Accanto alla
scuola professionale fu così avviata la prima cooperativa per la produzione di elettrodomestici (la
Ulgor) che, ben presto, ebbe un certo successo sul mercato locale tanto che il gruppo dei giovani
capeggiati da Don Josè, incoraggiati dai risultati, ampliarono la loro attività autofinanziando la
produzione e le iniziative successive, dando così l'avvio alla creazione, 5 anni dopo (nel 1960), del
primo ente creditizio del gruppo: la Cassa Popolare del Lavoratori147, per consentire il
finanziamento dei nuovi investimenti in fabbrica con i risparmi dei soci lavoratori (i primi capitali
investiti furono, infatti, proprio della Ulgor).
144
Come nella normativa italiana, il legislatore spagnolo riconosce il ruolo sociale alle società cooperative,
definite entità al cui centro stanno le persone, con valori e condotte che le differenziano dalle imprese il
cui fine è lo scopo di lucro.
145
Dal nome del comune di insediamento Mondragon (in castigliano) e Arrasate (in basco).
146
Quando il movimento cooperativo di Mondragon intraprese i primi passi si avvertiva l’esigenza di
rinnovare il tessuto imprenditoriale e di studiare nuove formule che dessero impulso e stimolo ad
un’economia chiusa e per nulla competitiva. Per approfondimenti cfr. Darpetti G. (2006).
Dopo un triennio di attività interamente dedicato alla crescita del gruppo, la Cassa iniziò ad essere il
volano di tutte le successive iniziative: ricerca e sviluppo, nuove tecnologie, innovazioni dei prodotti e dei
processi e per i nuovi settore (ad es. l’ingegneria informatica).
147
53
Il gruppo Mondragon148 nel 2003 comprendeva complessivamente oltre 150 imprese, che a loro
volta controllavano altrettante società presenti in ogni regione spagnola (cfr. Tab. 8), oltre che in
altre 15 nazioni del mondo, dando lavoro a circa 66.000 occupati in 57 impianti produttivi
all’estero. Opera ancora oggi nei principali settori dell’industria manifatturiera, della distribuzione
commerciale e dei servizi finanziari continuando ad avere come collante di base la ricerca,
l'innovazione tecnologica e la formazione professionale a tutti i livelli.
Da un punto di vista strutturale può essere considerata una rete multinazionale di imprese di
produzione (per i macchinari di alta precisione), commerciali e finanziarie (per la presenza di una
banca) ed anche un centro di ricerca tecnologica e per la formazione professionale (per la presenza
di una università privata nel campo del management e dell’ingegneria). Da un punto di vista
gestionale Mondragon aggiunge agli obiettivi specifici di un’organizzazione presente sui mercati
internazionali, una gestione basata sui principi democratici ed orientata alla creazione di posti di
lavoro, alla promozione umana e professionale dei dipendenti e all’impegno per lo sviluppo
sostenibile dell’ambiente in cui opera.
Tab. 8
MONDRAGON IN SPAGNA
REGIONI
148
54
INDUSTRIE
IXMERCATI
Per approfondimenti cfr. Darpetti G. (2006).
SUXMERCATI
SPORT. B.
OCCUPATI
ANDALUSIA
2
8
103
-
3.582
ARAGONA
4
2
126
22
1.925
ASTURIE
-
1
16
-
406
BALEARI/CANARIE
-
-
3
-
145
CANTABRIA
1
1
22
1
416
CASTIGLIA-LEON
-
4
92
43
1.624
LA MANCHA
1
4
40
-
952
CATALOGNA
4
4
95
2
4.098
ESTREMADURA
-
1
12
-
422
GALIZIA
2
1
272
-
3.877
CARIOCA
-
1
39
11
457
MADRID
-
2
39
12
1.142
MURCIA
-
4
14
-
NAVARRA
9
2
87
51
3.231
VALENCIA
1
4
347
1
4.967
TOTALE
34
39
1.307
135
28.027
783
Fonte: Darpetti G., (a cura di), L'esperienza cooperativa di Mondragon, Ediz. Metauro, 2006.
3.8.2. L’organizzazione di Mondragon. Le imprese industriali hanno rappresentato le fondamenta
del gruppo cooperativo Mondragon anche se, inizialmente, il divario tecnologico con le imprese dei
paesi europei più avanzati risultò considerevole, dato che le conoscenze produttive spagnole erano
alquanto scarse e poco all’avanguardia. Con la nascita della prima impresa (la Fagor) per la
produzione di elettrodomestici il gap, rispetto ai paesi europei più industrializzati (Germania in
primis), divenne ancora più evidente, ma fu colmato con la spedizione dei giovani della scuola
professionale di Don Josè all’estero, per poter acquisire le più avanzate tecnologie, avviare ricerche
di mercato e per conoscere le nuove tecniche di vendita, con particolare attenzione ai gusti del
consumatore (le prime mosse verso l’orientamento al mercato, ossia al marketing). Dalla metà degli
anni Settanta si iniziò però ad avvertire l’esigenza di allentare la dipendenza tecnica dai partner
stranieri e di consolidare la struttura interna, puntando sulla ricerca, lo sviluppo e l’innovazione.
Alla fine anni Sessanta, a seguito della maturità raggiunta, fu così possibile avviare le prime
alleanze produttive e commerciali tra l’industria spagnola e quella europea dei paesi maggiormente
55
industrializzati. La cooperativa di elettrodomestici divenne quindi il laboratorio per la
sperimentazione di nuove iniziative imprenditoriali e, seppure in tempi diversi, delle quattro grandi
articolazioni che rappresenteranno gli odierni pilastri del Gruppo, cioè:
1. La Mondragon Unibertsitatea (1976) dalla iniziale Scuola Professionale149 e poi,
Scuola Politecnica Superiore (dal 1966) a sostegno di tutta l'attività del gruppo.
2. La Banca dei Lavoratori150 (dal 1959), con il compito di raccogliere risparmio tra i
soci con il quale finanziare gli investimenti del gruppo e sostenere le esigenze di
credito degli altri soci-lavoratori;
3. La Lagun-Aro151, creata per garantire ai soci un servizio di previdenza, di assistenza e
per assicurare il rispetto dei principi sulla sicurezza del lavoro, anche tenendo conto
delle condizioni di salute dei soci lavoratori e provvedendo al loro pensionamento;
4. La Ikerlan152, centro di ricerca tecnologico per lo sviluppo innovativo dei prodotti e
dei processi, con l’obiettivo prioritario di fornire prodotti e servizi innovativi alla
produzione del gruppo.
Le quattro articolazioni diedero coesione e sostegno all’unica attività industriale con il quale
149
150
151
152
56
Originariamente l’Università di Mondragon era costituita dalla Scuola Politecnica Superiore, dalla
Facoltà di Scienze dell’Impresa e dalla Facoltà di Scienze dell’Educazione, alle quali si aggiungeranno
due Centri di Ricerca per l'innovazione tecnologica. A seguito di una legge approvata nel 1997 dal
Parlamento Basco l’attività didattica e di ricerca dell’università venne riconosciuta di particolare interesse
per l’impresa basca, sia sotto l’aspetto tecnologico ed economico che umanistico.
La filosofia della Cassa era di reinvestire il risparmio nella stessa zona dove era stato raccolto ed una
strategia per stimolare il risparmio ed accelerare la crescita fu quella di rendere partecipi degli utili e dei
diritti dell’ente i risparmiatori locali. Si trattava di un compenso cooperativo, o meglio di un vero e
proprio ristorno, ossia di un supplemento di interessi sui risparmi, in funzione degli utili che la Cassa
realizzava a fine esercizio. Inoltre su ogni mille risparmiatori, uno aveva diritto a far parte del Consiglio
generale per esprimere il suo voto e far valere la volontà dei risparmiatori, soci di minoranza. Ai nostri
giorni la Banca dei Lavoratori è un istituto di credito che opera, indistintamente, con ogni tipo di cliente.
Ha più di 350 filiali ed ha esteso il suo raggio di azione in varie regioni della Spagna.
La Lagun-Aro è un Ente che fornisce un servizio di previdenza sociale (pensioni e pensioni di
reversibilità) e prestazioni assistenziali, cioè interviene (per il 95% dei casi nel 2000) a favore dei soci nei
casi di assistenza sanitaria, di incapacità lavorativa temporanea, di interventi per l’occupazione (con il
prepensionamento in casi speciali, la riconversione professionale e le indennità in situazioni di
disoccupazione insuperabile) e per l'assistenza ai soggetti portatori di handicap, e/o in caso di maternità e
per la liquidazione della quota sociale in caso di scioglimento del rapporto con la società.
La Ikerlan, inizialmente, concentrava la sua attività di ricerca tecnologica verso il mercato degli
elettrodomestici, delle macchine utensili e degli apparecchi elettronici. Dal 2001 al 2004 il piano
strategico ha previsto la presenza di tre unità operative, ciascuna per i diversi settori: 1. sviluppo del
prodotto (per ingegneria meccanica, disegno meccanico, elettronica, comunicazioni, automazione ed
ingegneria di controllo, tecnologia del software); 2. processi di disegno (per tecnologie del disegno,
modelli di produzione e tecnologia delle informazioni); 3. produzione energia (le aree di studio sono:
tecnologia della combustione, sistemi alternativi di generazione e tecnologie elettriche).
Mondragon si presentava (e si presenta) sul mercato e con politiche, organizzazione e gestione
comuni, nonostante l’autonomia economico-patrimoniale di ciascuna struttura. La tipicità di
Mondragon è insita, infatti, nella capacità della dirigenza di saper organizzare unitariamente la
produzione e l’organizzazione, pur mantenendo distinte le molteplici partecipazioni societarie.
A partire dal 1994 la Mcc, a seguito di un piano di sviluppo strategico internazionale, ha dato vita a
una rete multinazionale di imprese153, che ha previsto l’acquisizione delle imprese locali, la
creazione di filiali private nei mercati esteri e l’affiliazione con altre aziende europee, anche in
Italia154, Francia, Germania, Portogallo, Regno Unito e negli Usa (cfr. Tab. 9).
Tab. 9
MONDRAGON NEL MONDO
Paese
Imprese Paese
Industrie
Germania
2
Argentina
1
Brasile
6
Repubblica Ceca
4
Cina
6
Francia
4
India
2
Italia
2
Marocco
2
Messico
3
Polonia
1
Inghilterra
2
Romania
1
Tailandia
1
Totale industrie nel mondo
Totale occupati sedi estere
Fonte: Darpetti G., 2006.
37
7.782
Questa rete internazionale di imprese155 comprende 37 stabilimenti industriali all'estero e 15 holding
cooperative multinazionali ed offre opportunità di lavoro a 66.558 occupati nel mondo per la
153
La strategia di internazionalizzazione seguita è stata quella tipica di molte imprese multinazionali di
capitale; sono stati, infatti, effettuati investimenti esteri per integrazioni di tipo orizzontale e verticale
soprattutto nei paesi emergenti, ossia in Cina, Brasile, India, Messico, Uruguay, Egitto, Marocco, Polonia,
Romania e Repubblica Ceca.
154
In Italia Mondragon è presente a Bolzano (Monguelfo), Treviso (Mareno di Piave) e Teramo (Civitella del Tronto).
155
La maggioranza degli investimenti è avvenuta attraverso l’acquisizione di imprese locali, mentre gli
investimenti in nuovi impianti (greenfield) hanno inciso sul totale per il 40% (Errasti et al. 2003).
57
fabbricazione di macchinari, beni di consumo durevoli, componenti industriali ed anche servizi di
varia natura (con una quota del 65% del fatturato del gruppo).
La complessità del gruppo (di natura cooperativa ma integrato per molti aspetti a società di capitali)
ha creato, anche a livello teorico, una serie di dubbi sulla possibilità di contemperare in concreto gli
interessi (anche culturali oltre che economiche e sociali) delle differenti componenti in una efficace
ed efficiente gestione unitaria (considerando i risultati economici positivi). Sull’articolazione e
sull’espansione territoriale di Mondragon, infatti, persiste ancora ai nostri giorni, un ampio dibattito
tra operatori, esperti della cooperazione e teorici in specie su alcune questioni relative, in
particolare, alla possibilità (o meno) di un circuito interno dei flussi finanziari tra le imprese del
gruppo che possa soddisfare bisogni economici e sociali e, in caso di risposta affermativa, su come
si possa fare sistema tra imprese cooperative ed imprese di capitali, pur mantenendo e garantendo
una governance cooperativa. Intorno a queste domande sono state ipotizzate risposte e soluzioni fra
le più disparate, anche se ancora nessuno è riuscito a dare risposte univoche su questa esperienza,
certamente originale ed inimitabile come modello di impresa cooperativa multinazionale e
democratica. Rimane l’originalità da riscontrarsi nel modello duale, ossia nel fatto che alcune
imprese di capitale sono sottoposte al controllo delle cooperative e ciò ha alimentato il sospetto che
non risulti del tutto infondata la tesi della “degenerazione” del modello cooperativo come forma di
produzione che, nel lungo periodo e col mantenimento del mercato capitalista, potrà sopravvivere
solo rinunciando al principio della gestione aziendale su base democratica156.
.
A prescindere dal presunto snaturamento dei principi cooperativi, è certo che l’esperienza del
gruppo Mondragon rimane singolare e non replicabile, poiché non si può ricondurre a tipologie
cooperative simili. E' stato anche supposto che forse, più correttamente, si potrebbe assimilare ad un
“distretto produttivo cooperativo” poiché crea i legami tipici di una rete industriale, con modalità
uniche al mondo e, forse, rappresenta il migliore esempio di espansione territoriale internazionale in
rete di una cooperativa. Il riferimento al distretto deriva dalla applicazione pratica di una esplicita
156
58
Nella storia del movimento cooperativo è possibile distinguere due approcci fondamentali: l’approccio
anglo-italiano e l’approccio tedesco-francese. La differenza fra le due scuole è enorme: mentre la scuola
di pensiero francese, vede nella cooperazione la forma che deve rimpiazzare e sostituire quella
capitalistica, la scuola di pensiero anglo-italiana vede nella cooperazione e nelle cooperative un
complemento all’impresa di tipo capitalistico, e quindi una componente del mercato. In base alla prima
tesi allora nel lungo periodo e in un’economia capitalistica, le imprese cooperative potranno sopravvivere
solo rinunciando al principio della gestione su base democratica. Per approfondimenti cfr. Atti del
Convegno del 29 ottobre 2007, Zamagni S., I valori e le regole. Legalità, responsabilità, cooperazione e
mercati, Siena.
integrazione funzionale157 (di cui non si hanno altri esempi e non solo in campo cooperativo), in cui
l'industria si combina con l’assistenza sociale, sanitaria e previdenziale dei soci-lavoratori e delle
loro famiglie (con la Cassa dei Lavoratori), si associa alla ricerca tecnologica e si unisce ai flussi
finanziari per gli investimenti. Perciò non esiste altro esempio al mondo in cui l'applicazione delle
discipline manageriali e la formazione professionale siano così strettamente correlate allo
svolgimento dell’attività produttiva e, in qualche modo, auto-promosse, finanziate e gestite in
autonomia.
Alcune considerazioni conclusive sulla cooperazione in Europa. La panoramica svolta sulla
cooperazione internazionale e, soprattutto sulle origini e l'evoluzione
all'interno del territorio
europeo ha consentito di evidenziare le principali peculiarità e le disparità della cooperazione
comunitaria. Passiamo ora a fare un cenno sul recente dibattito comunitario su “quale Europa per la
cooperazione e su quali cooperative per l’Europa158”.
Sul primo versante e, quindi, a cosa si attende la cooperazione dai mercati e dalle istituzioni
europee, la prima impressione è che, nel corso di questo ultimo decennio, ci sia stato un profondo
cambiamento di rotta (o meglio, un giro di boa) da parte della Comunità nei confronti del settore
cooperativo. Fino a qualche anno indietro, infatti, la cooperazione appariva alla Comunità europea
come uno strumento positivo di intervento sulla collettività e le veniva riconosciuto anche il ruolo
di motore propulsore per uno sviluppo economico sostenibile e per la lotta alla disoccupazione. Nei
tempi più recenti, invece, la spinta del pensiero capitalista ha riconfermato, in letteratura e sul
mercato, la sua organizzazione e la sua funzionalità159, riportando ai margini della letteratura e del
mercato il ruolo delle cooperative, anche se il sistema avrebbe tutto da guadagnare da una sempre
maggiore concorrenza tra una pluralità di diverse tipologie di impresa160. L' ulteriore diffondersi
157
Anche nell'esperienza tradizionale del distretto si possono riscontrare attività produttive ed attività di
credito presenti contemporaneamente e, spesso, con sinergie esplicite ma non si ha mai una interazione
così stretta, neppure nelle condizioni più virtuose, con la formazione professionale e con la ricerca nel
campo dell'innovazione tecnologica.
158
Per approfondimenti cfr. Comunità Europea, seminario sul tema “Il ruolo delle cooperative nel dialogo
sociale europeo”, Bruxelles, 21 novenbre 2006; Cooperatives Europe, progetto “Cooperatives Europe
Social Partner Program (SPPP), ricerca sulla rappresentatività delle cooperative e sul loro ruolo, presente
e futuro, nell’ambito del dialogo sociale europeo (sul sito: www.coopseurope.coop).
Di conseguenza, la cooperazione è stata relegata ai margini del mercato o su versanti che risultano poco
redditizi per l’impresa di capitali.
Per approfondimenti cfr. Zamagni S.- Zamagni V. (2008); Jossa B. (1999), (2005).
159
160
59
della cooperazione potrebbe, infatti, aggiungere elementi di competitività all’interno del mercato
europeo, migliorando così le condizioni di offerta per il consumatore, sempre più maturo, informato
ed esigente.
Passando alla seconda tematica, ossia a “quali cooperative per l'Europa” il problema si può invece
affrontare studiando cosa può fare e come può intervenire la cooperazione per favorire lo sviluppo
economico comunitario, nonostante sia un soggetto ed uno strumento economico locale che
potrebbe incorrere nei rischi di una degenerazione del modello cooperativo (come intuibile dagli
orientamenti del mercato statunitense e come è stato talvolta supposto a proposito dell'espansione
internazionale di Mongragon). È lecito porsi, perciò, la domanda sulla congruità e sulla capacità
delle cooperative di incidere in modo significativo sulla crescita sostenibile del mercato europeo
globalizzato. Fra le innumerevoli ricerche di mercato commissionate dalla Comunità europea su per
approfondire le attuali condizioni di offerta e di competitività delle cooperative europee161, sono
emerse le seguenti considerazioni istituzionali:
1. L’impresa cooperativa è più adatta dell’impresa capitalista per mettere a frutto le nuove
opportunità offerte dall’innovazione tecnologica, poiché l’attenuazione del vincolo del
profitto la rende maggiormente adatta a distribuire all’interno del sistema innovazione,
comunicazione e capitale umano, ossia le variabili su cui si basa l’efficienza dei moderni
sistemi produttivi. A ciò bisogna aggiungere che il più lungo “tempo” delle cooperative
consente di applicare azioni di maggior respiro temporale e meno occasionali, come nel caso
dell’introduzione dei nuovi processi produttivi e nel trasferimento dell'innovazione
tecnologica.
2. I più forti legami che i soci hanno con il territorio hanno spinto le imprese cooperative a
partecipare attivamente allo sviluppo delle comunità di riferimento, ciascuna con modalità e
interventi diversi, anche se denominatore comune delle politiche seguite all’interno del
territorio
è lo sviluppo sostenibile dell’area di insediamento, sotto il profilo sociale,
economico ed ambientale (così come indicato nel Libro Verde dell’Unione Europea162).
161
162
60
Per approfondimenti cfr. Alto Consiglio per la Cooperazione 2000 (Task Force interministeriale per
l’innovazione sociale e per l’economia sociale, Francia): I movimenti cooperativi nell’Unione Europea,
Gennaio 2001; Raccomandazioni della Comunicazione della Commissione al Consiglio Business in the
Economie Sociale Sector. Europe’s frontier-free market, SEC(89), 1989; Rapporto EMES, Ricerca
finanziata nel quadro delle ricerche socio-economiche della Commissione Europea, http://www.emes.net/
uk/presentation.htm, 2001; Borzaga, C. & Santuari, A., (1998).
Per approfondimenti cfr. tra gli altri: Commissione Europea, Libro Verde “Sull'imprenditorialità in Europa”,
2003; ID., Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, 2001.
3. La proiezione internazionale delle cooperative ha consentito la realizzazione di importanti
interventi comunitari orientati sia allo sviluppo dei paesi meno avanzati che a ridurre, sia
pure parzialmente, le conseguenze negative della globalizzazione sui mercati locali. Di
solito queste iniziative, lanciate da istituzioni multilaterali, nazionali e regionali sono state,
infatti, affidate e gestite a vario titolo, a società organizzate in forma cooperativa163.
4. Le cooperative sociali si sono diffuse sempre più nel territorio europeo sostituendosi alla
progressiva riduzione della presenza pubblica in campo sanitario, assistenziale ed educativo.
Questo inserimento ha anche permesso di affrontare la disoccupazione, la povertà e,
soprattutto, l’emarginazione sociale e di distribuire prodotti e servizi relazionali, presenti
con sempre maggiori difficoltà nei mercati privati.
163
61
E’ il caso di Legacoop in Italia che è inserita attivamente nel circuito del commercio equo e solidale; di
Mondragon in Spagna che, con la creazione della fondazione “Mondukida”, può promuovere campagne
in aiuto ai PVS.
II LA LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE DEL SETTORE COOPERATIVO
Introduzione. A livello internazionale la regolamentazione cooperativa si pone il problema di
favorire lo svolgimento dell’attività economica delle imprese, attraverso l' armonizzazione delle
legislazioni tra i singoli paesi ed anche con la costruzione di cornici valoriali e funzionali che
possano permettere di disporre di una immagine sufficientemente unitaria della forma cooperativa.
In altri termini, si tratta di pervenire ad un contesto di principi condiviso, che renda la cooperativa
riconoscibile e riconosciuta per la sua natura in qualunque parte del mondo. Questo vuole anche
dire gestire situazioni nelle quali i 7 principi che caratterizzano la forma cooperativa siano non solo
applicati e condivisi, ma anche interpretati e recepiti con una certa elasticità. Questo compito è
affidato all’Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI), che è l' associazione internazionale non
governativa ed indipendente che unisce, rappresenta ed assiste le cooperative oggi presenti in oltre
100 paesi del mondo. L' origine di questo ente internazionale si può ricondurre a Robert Owen, il
“padre” del movimento cooperativo164 che, nel 1835, fondò l’”Associazione di tutte le Classi e di
tutte le Nazioni”, un primo tentativo di formare una organizzazione centrale con estensione
internazionale per tutta la cooperazione165. L’ idea di Owen non fu realizzata subito ma dopo un
sessantennio, con la fondazione a Londra dell' ACI, in occasione del primo Congresso Cooperativo
Internazionale166 (nel 1895), che aveva come unico scopo l’ internazionalizzazione del movimento
cooperativo167 e la proclamazione degli intenti e della natura dell’Alleanza, ossia la sua neutralità in
materia sociale, culturale, politica e religiosa.
.
L’ACI non è una consueta associazione di rappresentanza come altre ed anche in questo (ma, si
potrebbe dire “proprio in questo”) la cooperazione mostra la sua diversità rispetto alle altre
categorie di impresa. Si tratta, infatti, di una realtà unica di cui non esiste corrispondenza in altre
tipologie aziendali, poiché non si è mai vista, ad esempio, un’associazione di industriali che abbia
164
165
166
167
62
OWEN è stato anche considerato il fondatore del socialismo e, in particolare, uno strenuo sostenitore di
quella che oggi definiamo governance, ossia quel processo centrato sul carattere democratico della
gestione e sulla tutela dei soci di minoranza.
Lo Statuto dell’Associazione proponeva la fondazione di una organizzazione cooperativa internazionale
con ramificazioni in tutte le nazioni.
A questo primo congresso internazionale parteciparono circa 200 delegati di gruppi cooperativi
provenienti da 13 Paesi: la maggior parte dalla Gran Bretagna e poi anche da Argentina, Australia, Belgio,
Danimarca, Francia, Olanda, Ungheria, India, Italia, Russia, Serbia, Regno Unito e Stati Uniti
(rappresentati da tre delegati e cinque ospiti).
Scopo principale dell’incontro fu la fondazione di una organizzazione ma, anche un dibattito sui problemi
dei quattro principali settori della cooperazione (agricoltura, consumi, credito e produzione e lavoro)
rilevanti a livello mondiale.
definito, a livello internazionale, il ruolo dell’ impresa profit o che abbia indicato i requisiti
funzionali che ne costituiscono l’identità morfologica. Sin dal 1946 è stata poi una delle prime
organizzazioni non governative a ricevere lo status di organo consultivo presso le Nazioni Unite,
nell’ambito del Consiglio Economico e Sociale. L’ACI non è perciò un’associazione di
rappresentanza ma un soggetto socio-economico che promuove una tipologia di impresa che opera
sulla base dei principi sociali e non solo economici ed a vantaggio, in modo esplicito, della
comunità di appartenenza.
1. Le funzioni dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI). Obiettivo primario dell'A.C.I. è
quello di promuovere (e rafforzare) le cooperative autonome nel mondo, attraverso una serie di
attività istituzionali e di progetti diffusi a livello nazionale, regionale ed internazionale, per il
perseguimento dei seguenti obiettivi:
1. tenere alto il livello di attenzione sulla realtà cooperativa, aiutando gli individui, i Governi,
le Istituzioni locali ed internazionali a comprendere il modello cooperativo d'impresa. In
questo senso l'A.C.I. è considerata la “voce” del movimento cooperativo;
2. contribuire alla creazione di un ambiente favorevole allo sviluppo di queste imprese, con un
quadro normativo ed amministrativo che rispetti i principi ed i valori del modello
cooperativo. In tal senso, fornisce assistenza politica e tecnica, affinché le cooperative
possano competere sui mercati nazionali ed internazionali, al pari di altre imprese;
3.
fornire ai propri associati pubblicazioni (settimanali, quindicinali, mensili ed annuali),
organizzare incontri e workshop su tematiche rilevanti per il movimento cooperativo,
agevolare la discussione e la condivisione delle informazioni fra i cooperatori di tutto il
mondo, facilitando così gli scambi commerciali e culturali fra i vari settori. Tramite il
proprio programma di sviluppo può anche favorire la creazione di posti di lavoro (con la
promozione e il sostegno di programmi rivolti all'occupazione giovanile ed alla riduzione
della povertà) e il supporto finanziario ai progetti di investimento provenienti da tutto il
mondo. Attraverso tutta la sua struttura (globale, regionale e settoriale) e da oltre 40 anni
l'ACI è impegnata, in particolare, nei progetti di cooperazione allo sviluppo per il
rafforzamento delle cooperative in Africa, in Asia e in America Latina168.
168
63
Si noti ancora che la specifica funzionalità di questa struttura (in termini di obiettivi e di compiti) non
Da un punto di vista organizzativo, sin dal congresso di Tokyo (del 1992), è articolata in 4 strutture
regionali (Assemblee Regionali) presenti in ciascuna area geografica:
1. ACI-Europa,
2. ACI-Americhe,
3. ACI-Asia-Pacifico,
4. ACI Africa
allo scopo di promuovere la collaborazione inter-cooperativa internazionale e poter organizzare un
Forum per discutere le questioni di maggiore interesse per ciascun
movimento cooperativo
territoriale. E’ presente in 92 paesi169 e comprende 219 organizzazioni cooperative nazionali ed
internazionali, 1 internazionale (ONU) e 7 membri associati che rappresentano più di 800 milioni di
persone nel mondo. E’ strutturata in 9 Organizzazioni settoriali operanti in tutti i comparti di attività
economica (agricoltura, pesca, sanità, industria, turismo, abitazione, consumo, settore bancario ed
assicurativo) e 4 Comitati Tematici. E' dunque una organizzazione complessa e di difficile gestione,
non solo per la vastità territoriale in cui opera ma, per le evidenti differenze (antropologiche) che
spiegano le ragioni di una così laboriosa gestazione della definizione della forma e dei principi della
cooperazione.
2. La definizione internazionale di cooperativa. Uno dei problemi più complessi affrontati
dall’ACI è stato, infatti, quello di una definizione univoca della forma cooperativa che potesse
conciliare tutte le diverse esperienza che si erano sviluppate nel mondo. Nel congresso di
Manchester (del 1996) si pervenne alla seguente definizione: “un’associazione autonoma di
persone che si riuniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni economici, sociali e
culturali e le proprie aspirazioni attraverso la creazione di un’impresa a proprietà comune,
controllata democraticamente”. Con questa tormentata definizione si riconosce e si identifica, a
livello internazionale, l' impresa cooperativa come la forma giuridica ed economica che esiste per
169
64
trova analogie neppure in altre organizzazioni internazionali.
Territorialmente è rappresentata dal 36% di associati in Europa (84 paesi), il 28% in America (66 paesi),
il 25% in Asia (57 paesi) e il 10% in Africa (22 paesi).
soddisfare i bisogni dei soci che ne hanno la proprietà. Ne consegue che, mentre una impresa “non
cooperativa" è una associazione di capitali170 (perché controllata dagli investitori) la "cooperativa" è
una associazione di persone (perché guidata democraticamente da persone): entrambe le tipologie
possono contribuire al funzionamento efficiente e sostenibile dei mercati171”. La cooperazione è
anche considerata il risultato del soddisfacimento di un’ampia serie di bisogni collettivi che non
trovano adeguato riscontro nel funzionamento dell'economia classica (profit) e, per questa sua
natura, le possibili applicazioni di questo modello sono molteplici ed estremamente estese e
diversificate. Le precipuità del modello cooperativo sono insite nella capacità di non essere
esclusivamente economico ma anche sociale, ossia di non risolversi esclusivamente nell'ambito
della capacità euristica e operativa del principio della razionalità economica ma di basarsi sulla
contemperanza di risultati sociali ed economici, con ovvie implicazioni sulla gestione e sulla
governance. A titolo esemplificativo, basti considerare l'applicazione, a livello mondiale, di uno dei
principi della forma cooperativa, ossia il governo “democratico” dell'impresa: la complessità e la
diversa applicazione del concetto di democrazia nei diversi mercati lascia facilmente intuire
l'estrema articolazione e, talvolta, la comprensibile divergenza delle risposte operative che questo
principio può dare nei diversi contesti. Non va dimenticato poi che la cooperazione nasce in
Occidente, in particolare in Inghilterra e che questo profila la cooperazione di un background
culturale ed ideologico che probabilmente non si può riproporre in altri contesti: basti pensare
all’interpretazione della cooperazione in senso dittatoriale per l'Unione Sovietica o all'errata
identificazione della cooperazione con strutture statali (coercitive o collettiviste) dell' Est europeo
oppure al significato che le può essere dato in un kibbutz israeliano172.
170
171
172
65
Questo non vuole dire che nella definizione di impresa di capitali non siano rinvenibili principi e pratiche
valoriali come, ad esempio, l'accettazione e la condivisione del principio del profitto e della concorrenza,
ma si tratta di principi che attengono più al mercato che non alle attività economicamente significative
tanto che, solo da recente e sulla spinta di un bisogno di maggiore “responsabilità”, alcune imprese di
capitali hanno cominciato ad elaborare codici etici che appaiono incomparabili con il complesso valoriale
della cooperazione (basti vedere, ad esempio, in quanti di questi codici vengono indicate le condizioni
che permettono il rispetto dei diritti delle minoranze).
Per approfondimenti cfr. documento di lavoro dei Servizi della Commissione Europea, Le cooperative
nell’ Europa imprenditoriale, 2004.
L'associazionismo in forma di kibbutz risale all'inizio del XX secolo (1909) ed è stato uno dei modelli di
sviluppo dell'economia israeliana, sia per la forte carica ideologica socialista che per la struttura
innovativa, in un'area in cui l'agricoltura era a livello di sussistenza. Si trattava di una forma associativa
volontaria di lavoratori, basata su regole rigidamente paritarie e sul concetto della proprietà comune, con
direzione affidata ad un numero ristretto di persone e con un' assemblea generale per le decisioni di
carattere ordinario.
2.1. I principi cooperativi dettati dall’ACI. La definizione di cooperativa proposta dall’ACI
racchiude un modello ideologico per l’interpretazione e il soddisfacimento dei bisogni socioeconomici del mercato e si risolve nei sotto-elencati “Principi Cooperativi”, ossia in un insieme di
regole, recepite a livello internazionale, che dovrebbe favorire una certa armonizzazione
nell'organizzazione e nella gestione dell'impresa cooperativa. L’obiettivo strettamente correlato ad
un accoglimento unanime della definizione dovrebbe, infatti, consentire una certa omogeneità
operativa fra le diverse aziende cooperative dislocate nel mondo, facilitare le interazioni ed i
rapporti di collaborazione tra le stesse nei diversi paesi del mondo e favorire la convergenza tra le
normative nazionali che disciplinano la costituzione e il funzionamento dell’impresa cooperativa. I
principi (tranne l'ultimo più recente) richiamano l’insegnamento dei padri fondatori, ossia dei Probi
Pionieri che nel 1844 (come già detto) e per la prima volta nella storia, gettavano il seme della
solidarietà nella struttura del mercato produttivo.
I principi dell’identità cooperativa, approvati nel Congresso ACI svoltosi a Manchester (nel 1995),
sono i seguenti:
1° Principio: adesione libera e volontaria (principio della “porta aperta”): le cooperative sono
organizzazioni volontarie, aperte a tutti gli individui bisognosi di usare i prodotti/servizi offerti e
disposti ad assumersi le responsabilità che la qualità di socio comporta, senza alcuna
discriminazione sessuale, sociale, razziale, politica e religiosa.
2° Principio: gestione e controllo democratico dei soci (principio di “un voto per testa”): le
cooperative sono organizzazioni democratiche, controllate dai propri soci che partecipano
attivamente alla gestione per lo stabilire le politiche imprenditoriali e per assumerne le decisioni.
Gli uomini e le donne, eletti come rappresentanti secondo procedure democratiche, sono
responsabili del loro operato nei confronti dei soci. Nelle cooperative i soci hanno gli stessi diritti di
voto (una testa, un voto), sono cioè organizzate in modo democratico.
3° Principio: partecipazione economica dei soci: i soci contribuiscono equamente al capitale delle
cooperative di appartenenza e lo controllano democraticamente. Almeno una parte di questo
capitale è, di norma, proprietà comune della cooperativa. I soci percepiscono un rendimento limitato
sul capitale sottoscritto e i surplus di bilancio possono essere destinati, oltre che alla creazione di
riserve indivisibili, a fondi destinati a garantire la prosecuzione dell'attività della cooperativa nel
tempo (intergenerazionalità) o ad altri possibili ulteriori scopi (stabiliti in statuto), per esempio all'
66
offerta di ulteriori benefici ai soci (ristorno) in proporzione al contributo di ciascuno alla
cooperativa stessa (in lavoro e denaro) o anche per il finanziamento di attività sociali, collaterali a
quella principale, ed approvate dalla base sociale.
4° Principio: autonomia ed indipendenza dei soci: le cooperative sono organizzazioni autonome
ed autosufficienti, controllate esclusivamente dai soci. Nei casi in cui l'impresa sottoscriva accordi
di collaborazione con altre organizzazioni (produttive o governative) o ottenga capitali da istituti
esterni (es. regionali o comunitari), è obbligata a garantire il mantenimento dell'autonomia
gestionale e del controllo democratico della cooperativa da parte dei soci.
5° Principio: educazione, formazione ed informazione: le cooperative si impegnano ad educare
ed a formare professionalmente i propri soci, i rappresentanti eletti ed i manager in modo che siano
in grado di contribuire allo sviluppo delle società cooperative. Il movimento cooperativo deve,
inoltre, promuovere campagne di informazione sulla cultura cooperativa, allo scopo di
sensibilizzare l'opinione pubblica e, in particolare, i giovani e gli opinion leader sulla natura ed i
benefici dell'applicazione dei principi di democrazia e di solidarietà.
6° Principio: cooperazione tra cooperative: le cooperative devono rafforzare il movimento
cooperativo attraverso rapporti di collaborazione inter-aziendali, attraverso il coinvolgimento delle
strutture locali nazionali, regionali e internazionali.
7° Principio: interesse verso la comunità: le cooperative con la loro attività partecipano e
contribuiscono anche allo sviluppo sostenibile del territorio e della propria comunità di
appartenenza, attraverso l'attivazione di politiche proposte ed approvate dai soci. Si tratta di un
nuovo principio inerente la vocazione sociale della cooperazione (non presente tra quelli dettati dei
Probi Pionieri). Dal 1992 si concretizza con la cessione del 3% dell'avanzo di gestione ai fondi
mutualistici per la promozione cooperativa.
In sostanza, l'insieme dei precedenti principi possono essere considerati alla stregua di un codice
etico basato sui valori dell’auto-aiuto, della democrazia, dell’uguaglianza, dell’equità e della
solidarietà ossia su qualità ideologiche che, a loro volta, si basano sui valori più generali
dell’onestà, della responsabilità sociale e dell’attenzione verso gli altri. Fra questi, sono stati recepiti
incondizionatamente a livello internazionale (che quindi ricorrono in tutto il mondo), quelli che
fanno esplicito riferimento all’apparato etico della gestione democratica, alla mutualità ed alla inter67
generazionalità, cioè:
a) il principio della libera adesione (o della porta aperta) per cui, compatibilmente con la
sopravvivenza e lo sviluppo della cooperativa, è garantito il libero accesso a tutti;
b) il principio dell'amministrazione democratica (una testa un voto), per cui ad ogni
socio spetta un voto, indipendentemente dall'entità dei conferimenti di capitale effettuati;
c) il principio della mutualità esterna, volto a favorire una effettiva collaborazione tra le
aziende e quindi, uno sviluppo coerente dell'intero settore cooperativo.
3. La legislazione cooperativa in Europa. Le cooperative sono state espressamente riconosciute
nell’Unione Europea (ai sensi del Trattato di Roma, articolo 48) come un tipo di “società” e, in tutti
gli Stati membri, fanno riferimento ad un quadro normativo entro cui operare (anche ove non esista
una legge specifica) che consente di tutelare gli interessi dei soci e dei terzi. Questo orientamento
legislativo è stato espresso variamente nel tempo, ossia a volte in modo stringente ed altre in modo
più elastico; comunque, l’approccio dell'UE alla cooperazione ha sempre fatto specifico riferimento
al loro contributo alla crescita economica dei mercati e, in particolare, all' occupazione e al ruolo
svolto per lo sviluppo sostenibile dell’economia europea173 mentre si è tradotto in un corpus di
raccomandazioni specifiche solo nel caso dello “Statuto della cooperativa europea”.
La Commissione Europea è tornata a parlare di cooperazione in occasione della dichiarazione di
centralità della responsabilità sociale d'impresa174 nel processo economico, affermando l’esemplarità
della forma cooperativa nell’acquisizione dell’orientamento "socialmente responsabile" che
significa non solo soddisfare e sottostare agli obblighi ed ai vincoli giuridici ma anche avere una
gestione rispettosa della popolazione e delle regole di tutela imposte sia dai vincoli ambientali che
dalle regole sociali.
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68
Tra queste le più significative sono la Risoluzione del Parlamento Europeo sulle cooperative nella
Comunità europea (del 13 aprile 1983) e quella sul contributo delle cooperative allo sviluppo Regionale
(del 9 luglio 1987).
L’Unione Europea considera la RSI “un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile”, ovvero un
approccio di gestione aziendale che rafforza la competitività, la coesione sociale e la protezione
dell’ambiente. Per approfondimenti cfr. CEE (2001).
Recentemente è in corso un ampio dibattito sulla necessità (o meno) di una specifica
regolamentazione della Società Cooperativa Europea (SCE) che potrebbe fornire alle imprese del
settore adeguati strumenti giuridici per facilitarne l'attività transfrontaliera e transnazionale
(attualmente ostacolate da difficoltà giuridiche ed amministrative, non più accettabili in un mercato
senza frontiere). In assenza di questa normativa si continua a fare riferimento allo Statuto della
Società Europea che, però non è uno strumento adatto alle caratteristiche delle cooperative, poiché
regolamenta rapporti propri dell'impresa di capitalI. Ma, a fronte di questa inadeguatezza operativa,
alcuni rappresentanti dei paesi europei influenti a livello istituzionale hanno messo in dubbio la
necessità pratica di uno specifico Statuto Cooperativo Europeo175, trascurando che la Società
Cooperativa Europea176 potrebbe essere una soluzione ottimale per consentire alle cooperative di
operare a livello europeo in condizioni di concorrenza. D'altra parte, negli ultimi cinque anni, l'
esigenza di una normativa comunitaria è stata sempre più pressante, specie a seguito del
significativo incremento delle operazioni transfrontaliere, realizzate con fusioni e concentrazioni tra
alcuni maggiori soggetti economici,
che potrebbero essere facilitate e stimolate grazie al
riferimento ad uno strumento giuridico ad hoc, quindi ad un apparato organico ed unitario di regole,
strutture e di trattamenti fiscali e legislativi. Ciò nonostante non è ancora stato possibile giungere
ad un orientamento unanime per la predisposizione di una bozza dello Statuto della Cooperativa
Europea, anche a causa delle disparità legislative evidenziate nell'ambito di ciascuna
regolamentazione nazionale cooperativa177.
3.1. Il più recente orientamento legislativo europeo sulle cooperative.
Scopo principale
dell’intervento normativo degli organismi europei è finora consistito nel dettare le regole per
l'apertura e lo svolgimento dell'attività economica delle cooperative senza significativi interventi ma
solo al fine di una certa armonizzazione del settore nell'ambito di ciascuno dei diversi paesi europei.
All’interno degli Stati membri il quadro normativo non è comunque unitario e può essere così
suddiviso:
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Chi si oppone allo statuto sulla SCE ha affermato che le poche cooperative che hanno attività in più di
uno Stato membro possono agevolmente operare utilizzando le leggi nazionali in vigore. Ma questo
riferimento risulta insufficiente ed oggi sono le stesse cooperative a richiedere fortemente questo
strumento.
L'obiettivo principale della SCE dovrebbe essere quello della soddisfazione dei bisogni dei soci e/o lo
sviluppo delle attività economiche e sociali correlate e non la mera remunerazione di un investimento di
capitali.
Ciò ha comportato numerosi rinvii alle leggi degli Stati membri nei quali la SCE è registrata, anche se tali
rinvii stanno provocando la riduzione della trasparenza e dell’efficienza delle cooperative che operano su
tutto il territorio europeo.
1. Paesi in cui esiste un'unica normativa di carattere generale, che regola indistintamente tutte
le tipologie d’impresa operanti. In questo caso la cooperazione è ricondotta all'interno della
normativa generale che regola le altre tipologie di impresa: è il caso della Germania 178. In
questo mercato si tende a non concedere specifici benefici fiscali o indennità a questa
categoria di imprese e il carattere cooperativo delle società si evince dallo statuto e dalle
rispettive regole interne;
2. Paesi in cui la normativa fornisce alcuni riferimenti su specifiche questioni di settore e per
lo scopo sociale perseguito dalla cooperativa. In questi casi sono previsti
benefici
speciali179 o concessioni, fatte in relazione agli scopi sociali dell’impresa o ai settori
produttivi di appartenenza
•
3. Paesi in cui esiste una normativa ad hoc: è il caso dell' Italia.
Nella maggior parte degli Stati membri, negli ultimi anni, sono state introdotte importanti
innovazioni nei regolamenti e nelle normative che disciplinano la forma cooperativa, nel tentativo
di ridurre i vincoli e le restrizioni imposte al settore. Queste riforme 180 hanno riguardato, soprattutto,
la necessità di rendere possibile il finanziamento delle cooperative da parte di terzi o anche
attraverso il ricorso ai mercati finanziari e le regole per la costituzione di imprese ex novo e/o la
loro espansione territoriale, al fine di tenere conto delle nuove esigenze dell'economia moderna. In
particolare, tali riforme hanno riguardato i seguenti aspetti, sia operativi che patrimoniali:
1. la riduzione del numero minimo di persone necessarie per costituire una cooperativa181. Una
base sociale minima (come nel nostro paese di 9 soci) presupponeva un’impresa con una
incidenza del costo del lavoro molto alta sin dalla costituzione.
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Il codice del commercio Germanico (del 1861) era in Europa la legislazione più avanzata sulle
cooperative.
In dieci Stati membri le cooperative (o almeno alcuni tipi di cooperative) godono di alcuni vantaggi
legislativi, soprattutto di carattere fiscale. In quattro Stati membri, invece, le cooperative agricole
usufruiscono di particolari benefici (ad esempio, per favorire la formazione di capitale e controbilanciare
le restrizioni derivanti dalla scelta della forma cooperativa).
Questi principi sono stati recentemente oggetto di discussione da parte della Organizzazione
Internazionale del Lavoro. Per approfondimenti cfr. http://www.oit.org.
Questa modifica ha tenuto conto della necessità, sempre più diffusa, di strutture produttive più snelle.
2. la possibilità di attribuire ad alcuni soci più di un voto (voto plurimo). La regola "una testaun voto" è presente nella normativa di tutti gli Stati membri (almeno per le cooperative di
primo grado); recenti sviluppi in alcuni Paesi (tra cui l’Italia), tendono però verso
un'applicazione più flessibile di questo principio. Ad esempio, si può prevedere che i soci
detengano voti multipli o, viceversa, che il numero dei voti sia direttamente proporzionale al
conferimento. Per permettere questa flessibilità, senza che si realizzi una situazione in cui
gli interessi dei soci possano ledere gli scopi democratici della cooperativa, sono stati posti
dei limiti al numero massimo di voti che una persona o un gruppo può detenere.
3. la riduzione dei vincoli sulle attività con i non soci182. Per esempio, molti paesi autorizzano
operazioni con soggetti terzi non soci della cooperativa purché queste operazioni rimangano
accessorie e non mettano in pericolo gli interessi dei soci; in altri Paesi, fare affari con non
soci è tollerato, anche se in contrasto con la definizione di cooperativa del diritto interno;
infine, altri paesi non permettono ai soci esclusivamente investitori (“non utilizzatori”) di
beneficiare dei profitti ottenuti con i soci.
4. la possibilità per i terzi di partecipare alle quote di capitale della cooperativa. La regola del
capitale variabile, ossia del "principio della porta aperta", è presente nella legislazione di
tutti gli Stati membri183 (ad eccezione della Germania). A questi soci non cooperatori (non
sottoposti ad un limite quantitativo nella sottoscrizione di capitale) può essere attribuito più
di un voto in assemblea e può essere distribuito un dividendo maggiore (ma comunque
limitato) di quello attribuito ai soci cooperatori.
5. la possibilità per le cooperative di trasformarsi in società per azioni. Più della metà degli
stati membri (compresa l'Italia dalla riforma del diritto societario) prevede, infatti, la
possibilità di abbandonare lo “status” di cooperative per trasformarsi in società di lucro,
senza però perdere le peculiarità delle società di persone. In questi casi è richiesto il
consenso della maggioranza dei soci, che devono anche esprimere la loro volontà di
182
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71
Quando nella legislazione è inserito il principio di esclusività le cooperative possono avere relazioni di
affari unicamente con i loro soci. Ma, se non espresso e in ottemperanza alla tradizione cooperativa, è
previsto che l’impresa può avere rapporti con i terzi (non solo in Italia): ad esempio, impiegare lavoratori
non soci nella cooperativa di produzione e lavoro, vendere beni/servizi a consumatori non soci in quelle
di consumo ed acquistare da fornitori non soci in quelle agricole o detenere depositi e/o concedere prestiti
ai non soci per le cooperative di credito.
Dal 1992 anche in Italia è previsto che in ogni tipo di cooperativa possono diventare soci anche soggetti
(persone fisiche e/o giuridiche) che non perseguono l’obiettivo mutualistico.
rinunciare al patrimonio accumulato fino a quella data.
4. Le cooperative nella Costituzione italiana e nel Codice Civile. La società cooperativa viene
inserita per la prima volta nel Codice del commercio del 1882 184 (al titolo IX, sezione VII, artt. 219228) con le Disposizioni riguardanti le società cooperative, nell’ottica di una regolamentazione
delle cooperative di credito, con specifico riferimento ad
alcuni limiti imposti al socio ed
all’esenzione dalle tasse di registro e di bollo. Per gli altri aspetti questa norma rimandava alla
legislazione sulla società anonima e non specificava i caratteri distintivi della cooperativa né vi era
accenno ai principi della “porta aperta”, al ristorno o ai fini mutualistici. Si era però salvaguardato il
principio “un voto per testa” e posto un “limite” all’entità delle azioni possedute da ciascun socio
(pari a 5.000 lire). Una successiva legge sugli appalti (luglio 1889) avrebbe poi previsto una
normativa185 per la concessione di lavori pubblici186 (anche tramite trattativa privata e fino
all’importo massimo di 100.000 lire) anche alle cooperative di produzione e lavoro, legalmente
costituite fra operai, purché nell’appalto fosse evidenziato il “valore della mano d’opera”. Era,
inoltre, richiesta la ripartizione degli utili fra coloro che avevano effettivamente concorso a produrli
in proporzione al lavoro svolto applicando, per la prima volta, il metodo del “ristorno”.Per la
partecipazione agli appalti veniva, infine, prevista l’iscrizione delle cooperative in un registro
prefettizio, appositamente costituito sia per finalità statistiche che per facilitare eventuali controlli
sul settore187.
E' però nel 1947 che l’impresa cooperativa trova una prima fondamentale legittimazione con un
richiamo esplicito nella Costituzione della Repubblica Italiana (entrata in vigore il 1° gennaio
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72
L’inizio dei lavori per il nuovo Codice di commercio risale al 1869, quando la Camera dei Deputati stava
valutando le conseguenze giuridiche che sarebbero seguite all’annessione delle province venete al Regno.
L’estensione di questo Codice a queste due nuove province avrebbe provocato, infatti, notevoli
problematiche, dato che queste erano regolate dal Codice del Commercio germanico (del 1861). Questo
Codice sarà promulgato dal ministro guardasigilli Giuseppe Zanardelli e rappresenta la prima legislazione
che tenterà di dare un quadro normativo sistematico all'istituto della cooperazione
In quella occasione veniva anche abolito l’obbligo della cauzione preliminare sulle concessioni, sostituito
da una trattenuta del 10% sulle rate dei pagamenti.
L’ammissione delle imprese cooperative agli appalti pubblici rientrava nella legge n. 6216 (11 luglio
1889, Art. 4) e in un Regio Decreto (23 agosto 1890, n. 7040) che approvavano il regolamento per
l'ammissione delle cooperative agli appalti. Un successivo Regio Decreto n. 146 (del 17 marzo 1907),
estendeva il regolamento sugli appalti alle cooperative di produzione e lavoro (con Legge n. 422, 25
giugno 1909) e ammetteva la costituzione di consorzi tra cooperative per l'assunzione degli appalti
approvati con Regio decreto n. 278 (del 12 febbraio 1911).
La legge era espressione della volontà di mantenere le imprese cooperative operaie in posizione
economica subordinata e di condizionarle politicamente, attraverso il controllo pubblico (ciò varrà anche
per la legislazione successiva). Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2005.
1948) che, dedicandole l’Art. 45188, riconosce in modo solenne
“il valore sociale della
cooperazione a carattere di mutualità”, impegnando lo Stato a promuoverla ed a favorirne lo
sviluppo. La costituzione italiana riconosceva quindi il valore sociale della cooperazione (art.45),
un riferimento che ritroveremo anche nel Codice Civile (Art. 2511 e segg.).
E' importante sottolineare che questo riconoscimento avveniva in un periodo in cui la cooperazione
non era di dimensioni economiche tali da suscitare l’attenzione dei Costituenti si trattava, quindi, di
un interesse basato sulla storia e sui motivi che avevano dato le origini alla cooperazione, quindi sui
suoi principi ed i suoi valori che avevano finito per ritrovarsi, sebbene con e per interessi diversi, in
quasi tutti i partiti nazionali189. Il fondamento normativa della legislazione italiana nei confronti
della cooperazione è dunque nella Costituzione190 a cui è stata aggiunta una legislazione specifica
non marginale, ossia una serie di leggi che ne regolamentano principi ed operatività oltre ad una
legislazione fiscale che, nell'immaginario collettivo, è anche stata causa di uno dei più pesanti
fraintendimenti della forma cooperativa. Stiamo facendo specifico riferimento alla "Legge
Basevi191"(1947) considerata una legge basilare per la cooperazione che conteneva provvedimenti in
materia di controllo del comparto cooperativo192 , non affrontando però, sul terreno civilistico, il
problema della necessità di una definizione univoca di società cooperativa. I "requisiti mutualistici"
riportati nell' Art. 26 erano, infatti,
prescritti esclusivamente per "gli effetti tributari" ed il
baricentro della sua applicazione rimaneva circoscritto ai temi della vigilanza e della reintroduzione
di un Registro prefettizio193 integrato da uno schedario generale, nel quale sarebbero state obbligate
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L’Art. 45 enuncia: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, il carattere di
mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi
più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. In base allo stesso articolo
“le imprese che soddisfano i principi cooperativi meritano benefici fiscali”.
La cooperazione nel dopoguerra ha quindi rappresentato un luogo di consenso che accomunava i laici (del
partito d’azione) con i socialisti, i comunisti con i liberali nella convinzione comune che questa struttura
di mercato, con finalità sociali ed economiche, potesse svolgere una funzione, temperante e concorrente,
alla forma capitalista.
Si tratta di una produzione non copiosa in senso specifico ma significativa per il fatto che la cooperazione
è stata spesso richiamata anche dalla giurisprudenza ordinaria (come capita, per esempio, nel caso
dell'edilizia sociale).
Nel 1947 vennero approvati i “Provvedimenti per la cooperazione” (D.L. n. 1577), detti più comunemente
Legge Basevi (dal nome di Alberto Basevi), figura storica del movimento cooperativo che si adoperò per
il riconoscimento giuridico e costituzionale della cooperazione. Questa legge ribadisce (nell’art. 26) il
concetto di società cooperativa come impresa per lo svolgimento della "funzione sociale della
cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata", come contenuto nell'art. 45
della Costituzione. Da sottolineare la sostanziale coincidenza fra l'ispirazione della "Basevi" e quella
dell'art. 45, elaborati nello stesso arco di tempo.
“Gli enti mutualistici (escluse banche ed assicurazioni), di cui all'art.2512 del Codice Civile sono
sottoposti alla vigilanza del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, salvo quanto disposto dalle
leggi speciali” che regolano specificatamente la cooperazione.
Nei tempi dei Governi centristi degli anni Cinquanta questo Registro assumerà una funzione di
contenimento, soprattutto nei confronti della cooperazione più direttamente collegata al movimento
operaio e, in particolare, al Partito Comunista.
ad iscriversi tutte le cooperative. Ciò nonostante la legge Basevi ha rappresentato un importante
passo in avanti ed un importante punto di riferimento per la legislazione successiva e, in particolare,
per la disciplina delle agevolazioni tributarie per le imprese cooperative (Artt. 10-14 del Decreto
del Presidente della Repubblica n. 601, 29 settembre 1973). Nel 1977 (con legge n. 904) verrà
decretata, a completamento della precedente, l’integrale esenzione fiscale degli utili messi a riserva
indivisibile dalle cooperative194. L'importanza di questa norma è stata fondamentale per lo sviluppo
della cooperazione perché ne ha agevolato la capitalizzazione e la patrimonializzazione proprio nel
periodo in cui si determinava la necessità di un riposizionamento, anche dimensionale, dell’offerta
delle imprese cooperative195.
Passando al Codice Civile (CC) per molto tempo è stato necessario ricorrere alla generica
definizione di impresa, valida per tutte le categorie (contenuta nell’Art. 2247196 del CC.), che
dettava la principale finalità, riconosciuta dalla legislazione italiana, per l’esercizio di un’attività
economica, ossia la divisione degli utili, obiettivo che però esulava dallo scopo cooperativo. Ma,
tale obiettivo, in verità, non escludeva la possibilità di perseguire tutta una serie di altri bisogni
economici e non, tra cui ad esempio anche quelli sociali (propri delle cooperative). Di conseguenza,
anche per il regolamento civilistico delle imprese cooperative si faceva riferimento a questo
articolo.
Un collegamento alle cooperative era invece riscontrabile nell’Art. 2511 del CC che riportava una
precisa definizione di impresa mutualistica. Infatti “le imprese che hanno scopo mutualistico
possono costituirsi come società cooperative a responsabilità limitata”: anche in questo caso il
perseguimento del profitto rimaneva prioritario (con il richiamo all'impresa) che veniva però
temperata dal concetto di mutualità, proprio delle cooperative. Nella relazione al Codice Civile del
1942 (al Titolo VI) venivano poi indicati gli elementi essenziali allo scopo mutualistico, cioè la
necessità di fornire ai soci dell' eventuale impresa cooperativa occasioni di lavoro o beni o servizi a
condizioni di maggior vantaggio rispetto a quelle di mercato L' articolo sulle imprese mutualistiche
ha costituito, nel tempo, la chiave di lettura di tutte le elaborazioni teoriche sulle cooperative ed è
rimasto vigente fino alla riforma del diritto societario (del 31 dicembre 2003)..
194
195
196
74
In altri termini, su tutti gli utili che non vengono erogati ma depositati in una apposita riserva (che diviene
pertanto indivisibile), non viene applicata alcuna tassazione.
Nel 2003 fra le grandi e maggiori cooperative aderenti a Legacoop la quota degli utili messi a riserva
indivisibile ammontava addirittura all’87% degli utili di esercizio, mentre solo il 4,1% veniva distribuito
ai soci.
Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di
un’attività economica, allo scopo di dividerne gli utili.
4.1. Le cooperative sociali nelle legislazione italiana. La stessa Costituzione si era anche occupata
della classificazione delle prestazioni sociali197, dividendo i cittadini in due macro-categorie: gli
inabili al lavoro (coloro che, per il loro mantenimento, avevano bisogno di servizi di natura
assistenziale) ed i lavoratori veri e propri (a cui erano rivolte le politiche previdenzali, in caso di
situazioni temporanee di incapacità al lavoro). L’innovazione legislativa della Costituzione
risiedeva nel riconoscere l’assistenza come un diritto del cittadino e non un bisogno eventuale e
discrezionale (come nella legislazione precedente). Lo Stato mantenne così il suo ruolo di gestore e
di erogatore di questi servizi198 e si impegnò ad attirare presso di sé gran parte delle organizzazioni
sociali private e cattoliche (operanti nel passato in questo settore), attraverso una sempre più stretta
dipendenza dai finanziamenti pubblici199.
I successivi anni Sessanta furono poi cruciali per le ideologie e le politiche sociali ed assistenziali:
sono i tempi del boom economico e dell’aumento della ricchezza e del benessere della popolazione
italiana, composta soprattutto da giovani e, quindi, con una base sociale pronta all’inserimento
lavorativo ed al sostegno di un’economia in piena crescita. In quegli anni, le strutture private dedite
all'assunzione di ruoli e di finalità sociali erano le cooperative che, pur nell'incertezza legislativa,
iniziavano ad avviare le prime esperienze nell'ambito delle attività socio-sanitarie e di assistenza
alla persona. Tra queste, degna di nota la prima cooperativa sociale italiana (1963) la “San
Giuseppe” di Roè Volciano (in provincia di Brescia). Il suo presidente onorario, Giuseppe Filippini,
è rimasto famoso per essere riuscito ad eludere il vincolo della cosiddetta mutualità interna200, cioè
per avere allargato ed esteso il fine mutualistico proprio della cooperativa anche ai non soci:
finalità rivoluzionaria per quei tempi, per la natura stessa e il riconoscimento giuridico della
cooperazione e preludio alla concezione moderna di cooperazione sociale201. Nei successivi anni
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75
L’art. 38 della Costituzione sanciva che “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari
per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano
prevenuti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità,
vecchiaia e disoccupazione involontaria”.
Le organizzazioni caritative no profit nel frattempo erano tutt'altro che numerose e si limitavano a
svolgere funzioni di promozione e di tutela dei diritti a beneficio dei soci.
Per approfondimenti cfr. F. Belli (2005).
Secondo l’articolo 3 dello Statuto, scopo della “San Giuseppe” era: l'elevazione morale dei soci, dei loro
figli nati o futuri e dei loro parenti fino al quarto grado. In aggiunta, l' Art. 4 riservava al giudizio del
consiglio di amministrazione l’ammissione al beneficio dell’attività sociale della cooperativa anche “i
non soci e non parenti dei soci, purché provenienti ed operanti in zone da cui provengono, in cui
risiedono o dove operano i soci e i loro parenti, indicati nel succitato articolo 3”.
In altri termini, la cooperazione sociale rappresenta la specificità nella specificità, nel senso che è una
forma di impresa che interpreta in maniera ancora più ampia il principio della mutualità, estendendolo dal
Settanta, lo Stato varò norme a favore dei portatori di handicap202, per i centri antidroga203 e per
l’abolizione degli ospedali psichiatrici204, quindi intervenne specificatamente a sostegno delle
categorie più deboli ed anche nei confronti delle donne, per l’emancipazione della figura femminile
e l' inserimento nel mondo del lavoro205. In questa stessa decade fu chiara l’impossibilità dello Stato
di farsi carico di tutti i bisogni di assistenza presenti nel mercato.
Le concomitanti trasformazioni socio-demografiche della popolazione, dovute al progressivo
invecchiamento della classe lavorativa e quindi all’aumento del contributo previdenziale a carico
dello Stato, si aggiunsero alla carenza di fondi da destinare ai servizi assistenziali rivolti ai cittadini.
Si pose perciò il problema dello stato di salute del Welfare State italiano, ormai quasi al collasso. Fu
così necessario ricorrere ad un ridimensionamento dell'intervento economico pubblico, che
comportò un taglio dei servizi sociali fino ad allora erogati e il blocco delle assunzioni nelle piante
organiche delle pubbliche amministrazioni206. La fine degli anni Settanta decretò perciò la crisi dei
modelli nazionale di Welfare fino ad allora vigenti e il ritrarsi dei suoi due principali protagonisti: lo
Stato e le imprese profit, non più in grado di colmare lo spazio crescente derivante dai sempre
maggiori e sempre più diversificati bisogni della società moderna. Sulla base dell’esperienza, dei
principi valoriali e del senso di responsabilità, le cooperative assieme a numerose associazioni di
volontariato furono le uniche organizzazioni in grado di colmare il vuoto lasciato dalla Stato
centrale207 e di rispondere a queste nuove esigenze.
La collaborazione tra cooperative e volontariato non deve però indurre nell'errore di trascurare le
sostanziali differenze tra le due specie: la forma giuridica della cooperativa (come anzidetto) era
espressamente riconosciuta dal Codice Civile e dalla legislazione di settore con l'impresa
mutualistica, mentre il volontariato non era regolamentato e poteva esprimersi anche in forme
transitorie e non del tutto continuative; in altri termini, la cooperativa era un' impresa a tutti gli
effetti mentre l’associazione di volontariato non lo era. Queste disparità legislative e le ovvie
conseguenze sul piano gestionale ed economico-finanziario condussero molti gruppi di volontariato
202
gruppo dei soci lavoratori a quello degli utenti dei servizi (cd. doppia natura del principio di mutualità,
interna verso i soci e esterna verso gli utenti). Questa caratteristica trova anche un chiaro riconoscimento
giuridico nel fatto che la cooperazione sociale è l’unica tipologia di impresa cooperativa considerata a
mutualità prevalente per definizione.
Con la legge n. 118/71 per le barriere architettoniche, la n. 517/77 per l’inserimento scolastico e l’abbattimento
delle classi differenziali.
203
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205
Con la legge n. 685/75.
Con la legge n. 180/78
Con la legge n.1204/71 per il periodo di congedo causa maternità, la legge n.1044/71 e la n. 405/78 per l’istituzione
degli asili nido e dei consultori familiari.
206
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76
Gran parte delle competenze, delle risorse e delle strutture furono trasferite da alcuni enti centrali adesso
soppressi (con legge n. 349/1977) alle Regioni nate pochi anni prima (con legge n.. 382/1975).
Per approfondimenti cfr. C. Borzaga e F. Zadonai (2002).
alla trasformazione in cooperative, anche per la necessità di costituire organizzazioni stabili e
tutelate dalla legge. L’avvicinamento tra il volontariato di assistenza sociale ed il mondo della
cooperazione era favorito dal perseguimento di obiettivi comuni, ossia dal fatto che l'individuo ed i
suoi bisogni erano collocati al centro dell’attività, permettendo così ai due settori di orientarsi verso
la promozione e la tutela del diritto del cittadino all’assistenza sociale. La cooperazione sociale,
inoltre, dalla sostanziale convergenza tra la tradizione di solidarietà di matrice cattolica
(prevalentemente orientata a migliorare le condizioni dei soggetti in stato di disagio), con quella di
matrice laica (più sensibile all’elemento occupazionale, cui si deve tra l’altro l’ideazione
dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati 208), è riuscita a rappresentare uno dei segmenti
più complessi ed articolati del mondo cooperativo italiano.
4.1.1. La più recente regolamentazione delle cooperative sociali. Negli anni Ottanta le
cooperative sociali, in base al loro scopo sociale prevalente209, sono state suddivise in:
•
Cooperative di servizi sociali, operanti nel comparto socio-assistenziale per dare
un’opportunità di lavoro ai soci attraverso convenzioni stipulate con Enti pubblici locali e,
più raramente, con i privati. Nacquero in risposta al ritrarsi dell'offerta e del blocco delle
assunzioni nelle amministrazioni pubbliche e si collegavano alle consorelle cooperative di
produzione e lavoro. Inizialmente non si trattava di aziende a tutti gli effetti, in quanto i
dipendenti non acquisivano lo status di socio e non partecipavano attivamente alla vita
assembleare; talvolta è anche stata una formula adottata per mascherare un'attività di
intermediazione di manodopera, anche sottopagata.
•
Cooperative di solidarietà sociale per
orientare le capacità imprenditoriali verso la
solidarietà, la promozione e il reinserimento sociale di persone in difficoltà, indirizzando
questi servizi non solo verso i soci ma anche i non soci.
•
Cooperative di produzione e di lavoro integrate per la parziale occupazione di persone
svantaggiate210, nell’obiettivo di garantire loro l’acquisizione di competenze da poter
208
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210
77
Per approfondimenti cfr. CGM, 1997,
Per approfondimenti cfr. Borzaga e Failoni (2002).
L'inserimento di persone svantaggiate all'interno del mondo del lavoro era previsto per legge anche nelle
tradizionali imprese di capitali, anch'esse soggette alle norme del collocamento obbligatorio degli
invalidi. Nell'applicazione di questa legge nelle imprese di capitali si riscontravano però numerose
difficoltà, in quanto certe categorie svantaggiate non si adattavano bene al lavoro prestabilito. Per questo
spendere anche in imprese di altro tipo (ad esempio di capitali). Obiettivo prioritario
rimaneva, comunque, la possibilità di un lavoro stabile e definitivo per i soci211.
Da un punto di vista legislativo si poneva però la necessità, già affrontata in precedenza212,
dell’individuazione di una forma giuridica più consona alla gestione delle attività di solidarietà e di
assistenza sociale, che venivano svolte con continuità e che iniziavano ad assumere una certa
rilevanza economica,213 in modo da assegnare a queste organizzazione un ruolo circoscritto e
preciso. La legislazione cooperativa, infatti, pur essendo in possesso dei requisiti per una gestione
democratica e per lo svolgimento di attività economiche, risultava giuridicamente limitata dal
vincolo mutualistico, che riservava il beneficio dell’attività svolta ai soli soci214.
Nacque quindi la necessità legislativa215 di allargare il concetto mutualistico oltre il numero dei soci
effettivi (con la cd. “mutualità allargata”) e di estendere l'apporto lavorativo alla figura del socio
volontario216 con un'apposita legge (la L. 381/91) che diede un forte impulso alla costituzione ed
alla diffusione delle aziende specializzate in cooperazione sociale, codificandone la natura e
promuovendone il carattere innovativo. La L.381 si è inserita nel quadro legislativo nazionale in
una fase di relativa maturità del fenomeno ed i suoi contenuti sono scaturiti dall’unione delle
esperienze locali con diverse tradizioni culturali, concentrandosi soprattutto sulla definizione della
natura217 e dello scopo della cooperazione sociale, per poi definirne i settori di attività. Questa
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motivo nacque l'esigenza di avviare cooperative con il fine di provvedere alla formazione professionale
delle categorie svantaggiate, per un loro successivo inserimento nel mercato del lavoro tradizionale.
Per approfondimenti cfr. G. Marocchi (1997).
Nel 1981 era già approdato in Parlamento un disegno di legge, presentato dall’Onorevole Salvi
(appartenente al gruppo politico della Democrazia Cristina), andato in discussione in Senato nella
legislatura successiva. Durante la decima legislatura si fecero largo anche iniziative provenienti dall’ala
sinistra del Parlamento (disegno di legge a firma dell’Onorevole Vecchi, appartenente al PC).
Si era anche ipotizzato il riferimento alle fondazioni ed alle associazioni, ma le prime avevano un
carattere gestionale di tipo dirigistico (e quindi poco conciliabile con le esigenze di democrazia interna
delle cooperative) mentre le seconde avevano, per loro stessa natura, una forma giuridica non
propriamente adatta per l’esercizio di attività economiche.
Per approfondimenti cfr. G. Marocchi, op. cit.
In altri termini, fu necessario modificare l’articolo 2511 del Codice Civile che definiva le cooperative
come “imprese che hanno scopo mutualistico” ed impediva ai non soci di poter beneficiare dei beni e dei
servizi prodotti. Il disegno di legge prevedeva quindi l'integrazione dell'Art. 2511 C.C. con il 2511 bis che
forniva una nuova denominazione della cooperativa, cioè quella di impresa “cooperativa di solidarietà
sociale”.
L’approvazione di questo testo normativo causò forti dibattiti, sia all'interno del Parlamento che nei
consigli delle centrali cooperative, soprattutto per la presenza dei soci volontari, per la rigidità dei vincoli
no profit e per lo stesso termine “solidarietà sociale”.
La definizione è contenuta nell' Art. 1 comma 1: le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire
l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini
attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse
(agricole, industriali, commerciali o di servizi) finalizzate all'inserimento lavorativo di persone
normativa nazionale diede, a sua volta, origine alla proliferazione di leggi regionali, collegate a
strumenti di sostegno, promozione e controllo della cooperazione218. A proposito dello scopo
perseguito da queste imprese è chiaro sin dal primo articolo della legge 381 il bisogno di estendere
l’aspetto mutualistico e solidaristico non solo ai soci della cooperativa, ma alla comunità stessa,
quindi anche ai soggetti che restano esclusi dal legame sociale con l’impresa ma che, per la
similarità dei bisogni, hanno il potenziale diritto ad usufruire dei servizi prestati dalla cooperativa 219.
E proprio questa finalità allontana la cooperazione sociale dalle altre tipologie di imprese
cooperative e ne accentua la socialità, sia perché svolgono attività di rilevanza sociale ed anche
perché agiscono nell’interesse di tutti i potenziali destinatari della loro attività. La cooperazione
sociale quindi si distingue nettamente dai tradizionali modelli di cooperazione, non tanto per le
forme di organizzazione del lavoro ma, soprattutto, per la finalità specifica dell'attività che ha
richiesto la definizione normativa del socio volontario220 e delle persone svantaggiate221 .
La distinzione più importante tra cooperative sociali e cooperative ordinarie era quindi sottolineata
da questo concetto di mutualità allargata che riguardava esclusivamente le cooperative sociali, le
quali intendevano applicarla alle diverse componenti della comunità locale di insediamento. In altri
termini, le cooperative sociali una volta realizzata la mutualità interna (adempiendo così al principio
di uguaglianza sostanziale e non formale tra i soggetti) si prefiggevano di allargare il loro raggio di
azione al territorio ed all'intera comunità di appartenenza. Alla legge 381 si affiancarono successive
norme222 che avrebbero completato la disciplina della cooperazione sociale, ridefinendo la figura del
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svantaggiate.
Tra questi successivi interventi legislativi, le circolari Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale
n.1662 (del 1992) e la n. 153 (dell’8 novembre 1996) che presenteremo nel prossimo paragrafo.
Il recupero o l’avviamento al lavoro di soggetti che si trovano in condizione di precarietà fisica, psichica e
sociale, rappresenta uno degli obiettivi primari della Pubblica Amministrazione. L’Art. 4 della L.381
(comma 1 e 2) definisce specificatamente i soggetti svantaggiati: “si considerano persone svantaggiate
gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento
psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà
familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione. Si considerano inoltre persone
svantaggiate i soggetti indicati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri..... con cui il
legislatore ha ammesso la possibilità di ampliare il concetto di svantaggio a problematiche che vanno
oltre le difficoltà socio-sanitarie.
I soci volontari, per loro natura, sono lavoratori che prestano la loro attività gratuitamente e che si
affiancavano al socio-lavoratore ordinario pur non partecipando alla distribuzione degli utili conseguiti
dalla cooperativa. Come stabilito dall' Art. 2 della legge n. 381 del 1991, comma 1: “...oltre ai soci
previsti dalla normativa vigente, gli statuti delle cooperative sociali possono prevedere la presenza di
soci volontari che prestino la loro attività gratuitamente”.
Il secondo aspetto distintivo riguarda la presenza di “persone svantaggiate” tra i soci ordinari e volontari
delle cooperative di tipo B. Questi soggetti non hanno capacità per condurre un'attività economica
autonoma e sono, di fatto, in una posizione simile a quella degli assistiti anche se c' é per loro la
possibilità di diventare soci della cooperativa a tutti gli effetti, se le loro condizioni psico-fisiche glielo
permettono (come stabilito dall'art. 4, legge n. 381/1991)
Tra queste il DL. 460/1997, che riconosce le cooperative sociali come onlus di diritto e quindi
socio-lavoratore223 ed esonerando queste imprese dalla tassazione degli utili (a differenza di tutte le
altre tipologie di cooperative, in base alla L. 63/2002). Con la riforma del diritto societario (D.L. 17
del gennaio 2003224) che ha suddiviso le imprese cooperative in mutualistiche e non ed a seguito
delle correlate politiche economiche, patrimoniali e finanziarie, le cooperative sociali sono rientrate,
ope legis, tra le cooperative a mutualità prevalente.
4.1.2. Le odierne tipologie di cooperazione sociale. Il secondo comma dell’Art.1 della L.381 ha
quindi introdotto la suddivisione tra “cooperative sociali di tipo A”, “cooperative sociali di tipo B” e
“cooperative miste” che operano in ambiti differenti per i diversi scopi perseguiti e, di conseguenza,
con modelli di gestione e di operatività distinti, anche se tra le due categorie le aree di
“sovrapposizione” sono molto più numerose dei fattori differenziali, rendendo a volte difficoltosa la
loro precisa classificazione.
Le cooperative di tipo A sono imprese di servizi rivolti alla persona che si occupano direttamente
dell’assistenza, della riabilitazione e dell' educazione di disabili, malati, anziani, minori senza
dimora e di persone con disagio psichiatrico, con la possibilità di poter usufruire di professionalità
specialistiche. Le attività svolte da questa categoria si legano strettamente alla pubblica
amministrazione (il loro primo interlocutore), con cui operano in genere in convenzione. La loro
offerta225 è quindi rivolta a diverse tipologie di utenza con le più disparate situazioni di svantaggio
sociale (anziani, minori e portatori di handicap). Fra le cooperative sociali nazionali queste imprese
rappresentano la tipologia più diffusa226 e per le loro caratteristiche sono più facilmente
223
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beneficiarie di tutte le agevolazioni fiscali riconosciute alle organizzazioni non lucrative di utilità sociale.
Del medesimo anno la legge 266/1997 che istituiva la piccola cooperativa, al fine di consentire anche ad
un numero di persone inferiore a 9 di costituire una società con un fine mutualistico.
La legge 142 del 2001stabilisce, infatti, che in una cooperativa in cui il carattere mutualistico ha per
oggetto la prestazione di attività lavorative, il socio può stabilire con l'impresa un rapporto di lavoro, in
forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, con carattere strumentale rispetto al
conseguimento dello scopo mutualistico.
Anche il D.Lgs. 276/2003, promulgato in attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato
del lavoro (di cui alla L.14 febbraio 2003, n. 30) trattava del contenuto e della forma del contratto di
inserimento lavorativo, prerogativa delle cooperative sociali di tipo B. Per approfondimenti cfr. F. Perrini
(2004).
Si suddividono in imprese che forniscono servizi residenziali (ossia gli utenti risiedono nella stessa
struttura, es. le comunità per minori, per portatori di handicap o per persone con disagio mentale, le
residenze per anziani, ecc.), servizi domiciliari (il servizio viene svolto nel domicilio dell'utente), servizi
territoriali (svolti in luoghi diversi da quelli abituali, ad esempio l'animazione in strada per i minori in
difficoltà) e servizi diurni che fondono alcune delle caratteristiche menzionate (es. i centri diurni per
minori o portatori di handicap).
La forma di intervento prevalente è quella residenziale destinata a minori, tossicodipendenti e pazienti
psichiatrici seguita dall’intervento domiciliare rivolto soprattutto agli anziani.
“rintracciabili” nei registri delle imprese non specificamente dedicati al fenomeno cooperativo,
mentre l’informazione sulle altre tipologie finisce dispersa tra i vari settori di attività. .
Le cooperative di tipo B si occupano dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate227
altrimenti condannate ad una possibile emarginazione: si tratta di disabili fisici, psichici e sensoriali,
soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti e detenuti.
Sono imprese che
operano in vari campi di attività ed integrate al comparto di produzione e lavoro; la mission è
trasversale rispetto ai settori produttivi, anche se sono concentrate nel settore dei servizi. Sono
cooperative che perseguono un particolare scopo di rilevanza pubblica: il loro obiettivo, infatti, non
è quello di migliorare la qualità del lavoro né di regolamentarlo ma il reinserimento al lavoro, ossia
la creazione di opportunità di lavoro (occupazione temporanea o permanente) e la formazione
professionale di persone svantaggiate (per il 30% rispetto al totale occupati228). Questa categoria di
cooperative sviluppa molteplici relazioni con la comunità di appartenenza, presenta una certa
flessibilità dei servizi ed una forte motivazione del personale, spesso specificatamente qualificato
per il servizio alla persona. In contropartita la legge
ha stabilito un’importante regime di
agevolazione fiscale, ossia l’ammissibilità di diritto delle cooperative di tipo B alla fiscalizzazione
degli oneri sociali per i lavoratori svantaggiati che include anche l'esonero dal pagamento
dell’assicurazione (previdenziale ed assistenziale) obbligatoria229.
La legge 381 non presentava la specificazione riguardante la possibilità di poter svolgere
contemporaneamente le funzioni di tipo A e B. Successivamente, il Ministero del Lavoro e della
Previdenza sociale ha pubblicato una circolare (la n.1662/92) che ha stabilito la totale
discrezionalità, da parte delle cooperative sociali, nella scelta tra i due campi di attività, a patto di
non esercitarli contemporaneamente e purché nell’Atto costitutivo e nello Statuto fosse indicato
chiaramente l’oggetto sociale scelto230. Il dibattito sulla necessità di specificare in statuto l’ambito di
227
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La cooperazione sociale di reinserimento lavorativo promuove l'offerta di occupazione per agevolare
l’entrata nel mercato del lavoro di persone svantaggiate. Il presupposto di questo contratto è un progetto
individuale e personalizzato, che ha lo scopo di promuovere la crescita culturale e professionale
dell’individuo mediante un percorso che adatti le sue competenze ad un determinato contesto lavorativo.
Il contratto ha una durata minima di 9 mesi e massima di 18 mesi: c’è quindi una sostanziale differenza
con il rapporto di lavoro ordinario, che riguarda anche la retribuzione.
Le cooperative di tipo B continuano a dimostrare che è possibile operare con efficacia per favorire
l’occupazione di persone che, a causa delle problematiche di cui sono portatrici, non trovano lavoro o, se
lo trovano l'occupazione spesso non risponde alla specificità dei loro problemi (come nel caso del
collocamento obbligatorio).
L'Art. 4 comma 3 cita a proposito: le aliquote complessive della contribuzione per l'assicurazione
obbligatoria previdenziale ed assistenziale dovute dalle cooperative sociali, relativamente alla
retribuzione corrisposta alle persone svantaggiate di cui al presente articolo, sono ridotte a zero.
Una successiva circolare del Ministero del Lavoro (n.153/96) ha ritenuto legittima la coesistenza di
operatività è stato definitivamente risolto con una circolare (del Ministero del Lavoro dell’8
novembre 1996, n. 153) che ha ammesso il possibile contestuale svolgimento di entrambe le
tipologie di attività (A e B). Questa direttiva ha consentito alla cooperative di evitare una artificiosa
distinzione formale e di poter giustificare il conseguimento di obiettivi, in alcuni casi, unici per le
due categorie: la promozione umana e l’integrazione sociale. Ciò ha consentito di introdurre le
cooperative sociali miste (o a scopo plurimo) ed i consorzi di cooperative, cioè l'aggregazione delle
due precedenti categorie cooperative. In particolare, le cooperative ad oggetto misto devono
dimostrare che la tipologia di svantaggio e l’area di intervento siano tali da richiedere un
collegamento funzionale fra le due attività; i consorzi sociali, a loro volta, sono costituiti tra società
aventi la base sociale formata, in misura non inferiore al 70%, da cooperative sociali .
4.2. Verso la riforma del diritto societario. Sempre agli inizi degli anni Novanta (e precisamente
alla fine del 1992) la legge n. 59 introduceva alcune importanti novità in materia di finanza
cooperativa e, allo scopo di affrontare l’annoso problema della sotto-capitalizzazione, introduceva
degli strumenti innovativi per il finanziamento delle cooperative: le azioni di partecipazione
cooperativa e le azioni di sovvenzione231. Le prime, pensate per finanziare progetti di
ristrutturazione aziendale, sono prive del diritto di voto ma godono di privilegi speciali relativi alla
redditività ed al rimborso del capitale in caso di scioglimento della cooperativa; le azioni di
sovvenzione, a differenza delle prime, possono liberamente circolare nel mercato, dando diritto ad
una remunerazione non vincolata ai limiti previsti per i soci cooperatori. I soci sovventori, inoltre,
possono partecipare all'elezione degli amministratori (anche se di minoranza) e in assemblea non
possono detenere più di un terzo dei voti. Nonostante le attese, le due nuove categorie di azioni non
riusciranno a risolvere il problema del finanziamento delle cooperative, tanto che si solleciterà il
ricorso al capitale di debito con l'emissione di obbligazioni232 (bloccato fino al 1998) e la raccolta di
231
232
82
entrambe le tipologie, ma solo in presenza di determinate condizioni, ossia se le tipologie di svantaggio e
le aree di intervento siano tali da richiedere attività coordinate per l'efficace raggiungimento delle finalità
attribuite alle cooperative sociali e se l'organizzazione amministrativa può consentire la netta separazione
delle gestioni (ai fini della corretta applicazione delle agevolazioni concesse).
Veniva anche istituita una nuova categoria di soci sovventori, le cui risorse finanziarie potevano essere
utilizzate per lo sviluppo tecnologico, la ristrutturazione e il potenziamento aziendale.
Le cooperative, da questa riforma, inizieranno ad emettere obbligazioni per un ammontare pari alla
somma del capitale sociale e dei fondi propri e solo le banche di credito cooperativo, a seguito
dell’istituzione di un apposito consorzio di garanzia per i possessori delle obbligazioni emesse, potranno
superare questo limite. La possibilità di emettere obbligazioni rappresentanti il capitale di rischio o di
debito permetterà poi alle cooperative non solo di partecipare a società di capitali ma, anche, di favorire la
costituzione di gruppi e la raccolta di capitali sul mercato, rafforzando ulteriormente la loro
capitalizzazione.
liquidità attraverso il prestito da soci (che nelle cooperative con più di 50 soci non può superare il
triplo della somma del capitale sociale, delle riserve legali e delle riserve disponibili). Con la stessa
legge (59/1992) venivano anche introdotti i fondi mutualistici SpA senza scopo di lucro, il cui
oggetto sociale è la promozione cooperativa sotto il controllo del Ministero del Lavoro233 e
venivano regolamentate le Centrali Cooperative (che vedremo in seguito).
Bisognerà però aspettare la riforma del diritto societario (2004) e le disposizione generali “sulle
società cooperative e delle mutue assicuratrici” (Titolo VI, Artt. 2511–2548 del CC) per giungere
alla attuale regolamentazione vigente. Con questo ulteriore intervento il legislatore ha proposto una
nuova formulazione del precedente Art. 2511, che adesso qualifica specificatamente la cooperativa
come “società mutualistica” prescrivendo, in un successivo articolo (Art. 2515), che “l’indicazione
di cooperativa non può essere usata da società che non hanno scopo mutualistico”. Con la riforma
del diritto societario è stato così introdotto nel nostro ordinamento il modello di “società
cooperativa a mutualità prevalente” e quello di imprese “a mutualità non prevalente” (o anche “altre
cooperative”) di cui sono stati dettati i requisiti ed i criteri per l’individuazione (Artt. 2512-2514).
L’univocità del modello cooperativo viene così superata da questa bipartizione, basata sull’obiettivo
sociale o meglio in ragione del tipo di scambio mutualistico, ossia sull' incidenza della mutualità
(espressa come servizio al socio) rispetto alle prestazioni erogate .
In particolare, l’Art. 2512 C.C., definisce “cooperative a mutualità prevalente” quelle che
“svolgono la loro attività prevalentemente a favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi”;
o che “nello svolgimento della loro attività si avvalgono, prevalentemente, delle prestazioni
lavorative dei soci234”; infine quelle che “nello svolgimento della loro attività si avvalgono,
prevalentemente, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci235”. Il successivo Art. 2513 C.C.
fissa, invece, i criteri per conseguire il requisito della prevalenza nello scambio mutualistico,
stabilendo i parametri necessari per qualificarsi a mutualità prevalente, distintamente per ciascuna
233
234
235
83
La cooperazione essendo stata posta sotto il controllo del Ministero del Lavoro viene indirettamente
ricondotta al mondo del lavoro, evidenziando la sua funzione di protagonista delle politiche sociali, in
specie di quelle occupazionali. E, in realtà, la cooperazione non ha mai tradito queste attese: in tutta la
seconda metà del secolo scorso, infatti, ha visto crescere proporzionalmente la sua base occupazionale, in
misura superiore rispetto all'impresa capitalista. In molti casi, perfino quando si registravano crisi o
situazioni di grande difficoltà occupazionale, il settore ha registrato risultati positivi in controtendenza
all’andamento generale del mercato, al punto da guadagnarsi l'immagine di promotore dello sviluppo
economico locale.
Lo scambio mutualistico si pone “a monte” dell’attività economica, in quanto finalizzato all’acquisizione
delle prestazioni lavorative dei soci.
Lo scambio mutualistico, in questo caso, si pone “a monte” dell’attività produttiva, in quanto finalizzato
ad assicurare alla società l’acquisizione dei fattori della produzione diversi dal capitale e lavoro, ossia le
merci, i beni e i servizi.
tipologia di cooperativa236.
Dall’analisi del testo legislativo è interessante notare che la condizione di prevalenza non è valutata
in relazione al rapporto sociale della cooperativa con i soci ma rispetto ad un elemento economico,
ossia rispetto alla prevalenza dei “ricavi dalle vendite” per le cooperative di consumo, al “costo del
lavoro” per le cooperative di produzione e lavoro ed alla prevalenza del valore dei conferimenti da
parte dei soci. Tale condizione di prevalenza deve essere documentata nella nota integrativa al
bilancio, con l’indicazione precisa dei criteri utilizzati nella gestione per il conseguimento dello
scopo mutualistico. Ciò conduce (in bilancio) ad una netta separazione fra i risultati dell’attività
mutualistica svolta con i soci e gli utili derivanti dall’attività conseguita con i terzi e, di
conseguenza, ad una differente destinazione degli utili: quelli derivanti dall’attività speculativa
svolta con non soci saranno liberamente appropriabili dai soci, mentre quelli conseguenti all’attività
mutualistica andranno a costituire la riserva indivisibile.
Lo status di cooperativa a mutualità prevalente viene acquisito con effetto immediato dalle imprese
il cui statuto contiene automaticamente le clausole di “non lucratività237” (art. 2514 c.c.), cioè:
1. il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni
postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato;
2. il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in
misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi;
3.
il divieto di distribuire le riserve tra i soci cooperatori;
4. in caso di scioglimento della società, l’obbligo di devolvere l’intero patrimonio sociale
(dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati) ai fondi
mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.
Al di là di una scelta aziendale fatta ex ante, il mancato rispetto di una delle condizioni di non
lucratività al termine del secondo esercizio consecutivo, fa perdere il requisito della prevalenza e,
conseguentemente, decadere le agevolazioni fiscali a decorrere dal medesimo secondo esercizio
236
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84
Le cooperative di utenza o consumo devono conseguire ricavi sulle vendite dei beni e delle prestazioni di
servizi verso i soci in misura superiore al 50% del totale dei ricavi delle vendite e delle prestazioni; 2. le
cooperative di lavoro devono sostenere un costo per il lavoro relativo all’opera dei soci superiore al 50%
del totale del costo complessivo della manodopera; 3. nelle cooperative di conferimento dei beni, il costo
dei beni o servizi conferiti dai soci deve essere superiore al 50% del costo totale delle merci, materie
prime, sussidiarie, ovvero dei servizi”; per le cooperative agricole di conferimento il valore dei prodotti
finiti deve superare rispettivamente il 50% del valore complessivo o della quantità dei prodotti finiti.
L’ introduzione delle clausole di non lucratività consente di definire la scelta aziendale nel mantenere (o
non mantenere) prevalente il rapporto di scambio con i soci rispetto a qualsiasi altro tipo di rapporto.
(cfr. Art. 2545-octies c.c. e Circ M.A.P. del 13/1/06), con la conseguente perdita dello status
giuridico di società cooperativa a mutualità prevalente e il passaggio alla fattispecie delle
cooperative “diverse”. La perdita di tale qualifica si verifica anche a seguito della soppressione
delle citate clausole mutualistiche dallo statuto ed a decorrere dall’esercizio in cui sono state
apportate suddette modifiche statutarie. Ne consegue che non vi è alcun obbligo a carico della
società cooperativa di indicare in statuto la mutualità prevalente dato che tale scelta, se esiste,
vincola gli amministratori a gestire l’attività “caratteristica” della società secondo il criterio della
prevalenza238. Tuttavia, per tutte le cooperative vige l’obbligo di far risaltare nella relazione degli
amministratori e dei sindaci, i criteri seguiti per perseguire lo scopo mutualistico 239. L’elemento che
caratterizza la cooperativa a mutualità prevalente è dunque l'impossibilità per i soci di appropriarsi
degli utili alla cui formazione hanno partecipato (che invece andranno a costituire per il 70% le
riserve indivisibili), la limitazione della remunerazione dei dividendi e l’indivisibilità del
patrimonio240, cioè l’impossibilità per il socio di rientrarne in possesso in caso di recesso dalla
società241 o di scioglimento della società. .
E, volendo sostenere la critica mossa dai cooperatori alla riforma, la possibilità di trasformare
l'impresa cooperativa in impresa di capitali, tassativamente esclusa in precedenza, forse maschera
un tentativo istituzionale di far convergere il modello cooperativo verso il modello profit.
4.2.1. Le cooperative a mutualità non prevalente. In questa categoria (cd. anche delle
“cooperative diverse”) è consentita ai soci la disponibilità di una maggior quota degli utili (67%
anziché del 33%), ridotti dalla riserva indivisibile (30%) e dalla quota destinata ai fondi mutualistici
(3%). Fatte queste deduzioni, l'utile rimanente costituisce l'ammontare delle riserve divisibili, di cui
ciascun socio può liberamente appropriarsi oppure accantonare, per ripartirla successivamente (in
caso di recesso242 o di scioglimento della società). Da un punto di vista legislativo, la tipologia della
238
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240
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242
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Ai fini del calcolo della prevalenza sono ininfluenti i proventi che le cooperative ricevono da contributi
pubblici ed anche gli eventuali altri ricavi derivanti da altri settori e non direttamente collegati allo
scambio mutualistico.
Il Decreto Legislativo n. 310 (28 dicembre 2004) ha ampliato le modalità di assunzione in una
cooperativa, prima limitate al lavoro subordinato ed adesso estese anche ad altri contratti (lavoro a
progetto, rapporto professionale, etc.), a condizione di un collegamento con il rapporto mutualistico e,
quindi, purchè conformi all’oggetto sociale della cooperativa.
Con questa limitazione, contestabile sotto molti profili, viene introdotta una discriminazione
nell'applicazione dei vantaggi fiscali destinati alle due categorie di imprese cooperative.
In caso di recesso il diritto del socio si limita, infatti, alla restituzione del capitale versato rivalutato dagli
eventuali dividendi accumulati nel tempo (e/o dedotte le eventuali perdite)
Al momento del recesso, la quota delle riserve divisibili di spettanza al socio potrà essere erogata in
contanti o convertita in titoli della cooperativa, la cui commerciabilità potrà consentire il conseguimento
mutualità non prevalente non perde la natura giuridica della cooperativa ma adotta un modello
operativo ed organizzativo alternativo a quello della mutualità prevalente, cioè con un connotato di
mutualità meno accentuato, che appartiene, comunque, al genus della cooperazione. Ne discende
che anche queste imprese, in virtù della loro funzione sociale, possono usufruire delle agevolazioni
riconosciute alla categoria (di natura fiscale, previdenziale, finanziaria, ecc.) sebbene ridotte rispetto
a quelle riconosciute alla prima tipologia. Queste imprese devono, comunque, mantenere e
possedere i requisiti strutturali e funzionali della mutualità ed osservare la disciplina che tende ad
attenuare l'obiettivo della massimizzazione del profitto, che le distingue dalle imprese di capitali.
Per quanto non espressamente previsto dalle specifiche norme sulla cooperazione (in base all’ Art.
2519 e di quelle contenute nel titolo VI del C.C.) e, nonostante il principio della mutualità sia alla
base della distinzione tra società cooperative (a mutualità prevalente e non prevalente) e società
lucrative, per le regole di carattere generale circa il loro funzionamento le cooperative sono
sottoposte alla normativa vigente per le società per azioni o per quelle a responsabilità limitata243 .
La scelta dell’uno o dell’altro modello è vincolata alla dimensione della cooperativa: qualora la
cooperativa abbia un numero di soci cooperatori compreso tra 3 e 9 ed un attivo di bilancio non
superiore ad un milione di euro rientra fra le Srl244; se la compagine societaria è formata da 9-20
soci e si registra un attivo superiore al limite previsto o, alternativamente, se con una base sociale
più numerosa, non si supera un attivo di 1 milione di € euro, le imprese possono optare nella scelta
tra una Srl o una SpA. Con le maggiori di dimensioni (con più di 20 soci ed un attivo di bilancio
maggiore di 1 milione di euro) l’impresa cooperativa rientra nella regolamentazione generale delle
società per azioni.
5. Le Associazioni Centrali di Categoria. Fin dalle prime esperienze cooperative è emersa
l'esigenza di strutture associative centrali di rappresentanza, qualunque fosse il settore operativo e il
modello ideologico di riferimento. Nei diversi periodi sono stati, invece, molto differenziati gli
di quel capital gain fino escluso.
243
244
86
Per quando non espressamente specificato dalla legge si rimanda alla normativa generale sulle SpA. e
sulle Srl.(Art. 2519), cioè: le società cooperative possono assumere la forma delle SpA e delle S.r.l.; la
scelta del modello non influisce sulle caratteristiche funzionali e strutturali dettate dal legislatore,
l’importante è lo scopo mutualistico e la variabilità del capitale. Per approfondimenti cfr. E. Tonelli
(2003)
Se entro un anno il numero dei soci scende sotto i 9, deve essere reintegrato oppure la società si scioglie;
per le cooperative di credito il numero minimo dei soci sale a 200 e per le cooperative Srl il minimo
previsto scende a 3 soci.
obiettivi e le funzioni che si intendevano assegnare a questa istituzione, la cui definizione ha
rappresentato un tema sul quale si sono scontrati e confrontati i diversi modi di intendere il
protagonismo della cooperazione e lo “stato di salute” delle imprese esistenti nel momento.
La prima Federazione Nazionale delle Cooperative e Mutue verrà costituita a Milano (nell’ottobre
1886) e sarà progenitrice dell’attuale Lega Nazionale delle Cooperative (nel 1893) . In quel periodo
il movimento cooperativo era ancora scarsamente diffuso e, considerando l'iniziale carattere di
neutralità della cooperazione, era un organismo che operava in rappresentanza di tutte le correnti
politiche (radicali, liberali, repubblicani e socialisti) come “portavoce”, presso il Parlamento, dei
bisogni di tutte le cooperative245. Questo accreditamento presso gli esponenti delle forze politiche
ebbe un buon esito, tanto che per la prima volta la società cooperativa ebbe un riconoscimento
istituzionale con l'inserimento nel nuovo Codice del Commercio (nel 1882). La cooperazione
ricevette un ulteriore e decisivo impulso con la pubblicazione dell’Enciclica “Rerum Novarum246” di
Papa Leone XIII° (nel 1891) da cui si svilupperà un altro filone del pensiero cooperativo, definito
“Dottrina Sociale della Chiesa” (al quale si ispira ancora oggi l’azione di Confcooperative). Durante
il successivo periodo giolittiano e con l’avvio del XX° secolo, l’attività dell’associazione continuerà
ad essere unitaria e valida per tutte le associazioni dei lavoratori, fino a giungere alla “triplice
alleanza” del lavoro (tra la Federazione Nazionale delle società cooperative, la Federazione delle
Società di Mutuo Soccorso e la Federazione delle Camere del Lavoro) che potrà consentire ai
rispettivi associati di partecipare agli organi consultivi dello Stato. Durante il Governo Giolitti sarà
quindi possibile rilanciare l’associazionismo popolare e con esso una sua componente importante, le
cooperative.
All’inizio del Novecento (1908) l’esigenza delle rappresentanze del lavoro di partecipare agli organi
consultivi del Governo, stimolò la creazione della Federazione Nazionale delle Cooperative
Agricole Italiane (con sede a Bologna) e della Federazione Italiana delle Casse Rurali Cattoliche
(1909) con compiti di coordinamento, sviluppo, formazione professionale (con corsi d’istruzione
amministrativa) e controllo delle rispettive categorie (con servizi d’ispezione), dando ulteriori
stimoli alla crescita del movimento247. Nel 1919 nasceva anche la “Confederazione Cooperativa
Italiana” per iniziativa di 7.365 imprese che si ispiravano ai principi ed ai valori della dottrina
245
246
247
87
Nei primi anni di vita, l’attività di questa associazione si era concretizzata in un valido supporto
all’iniziativa parlamentare con un importante contributo al miglioramento della legislazione sulla
cooperazione, grazie all'intervento di alcuni deputati radicali e socialisti..
I contenuti della “Rerum Novarum” hanno rappresentato il “clima di fondo” in cui il cattolicesimo sociale
organizzò le sue prime forme cooperative nelle campagne e nei settori del consumo e del credito.
Nel 1910 il movimento cattolico era rappresentato da 942 casse rurali concentrate in Veneto, Emilia,
Lombardia e Sicilia, 250 cooperative di consumo di piccola dimensione, 487 cooperative agricole, 57
cooperative di produzione e lavoro e 64 affittanze collettive concentrate in Sicilia, Lombardia e Veneto.
sociale della Chiesa.
Durante il ventennio fascista e, in particolare, nel 1923, fu avviata la fase di annessione dei
patrimoni delle imprese cooperative ai bilanci del Partito nazionale fascista e, come conseguenza di
questo processo, la Lega delle Cooperative e la Confederazione Cooperativa Italiana saranno
sciolte (tra il 1925 ed il 1927) e sostituite dall’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione (fondato
nel 1926).
Nel dopoguerra la cooperazione rinasce e ciò avviene in parte spontaneamente, soprattutto a seguito
delle particolari condizioni di ripresa economica e sociale del mercato ed in parte per un interesse
specifico delle forze politiche e sociali aderenti ai Comitati di Liberazione Nazionale. Nel 1945 le
associazioni centrali cooperative vennero così ricostituite
con la Confederazione Cooperative
Italiane (per le cooperative di ispirazione cattolica in occasione dell’anniversario della “Rerum
Novarum”) e, pochi mesi più tardi, con la Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue (Legacoop, di
ispirazione comunista, socialista e repubblicana), mantenendo quel certo distacco già evidente
prima del fascismo e protrattosi fino ai nostri giorni. A differenza di altri paesi europei, la
cooperazione italiana si è quindi sviluppata intorno a due diversi filoni ideologici, quello di matrice
cattolica, interclassista e più spostato sul concetto di solidarietà per Confcooperative e l’altro di
matrice operaio-sindacale con forte connotazione di classe e centrato soprattutto sul concetto di
mutualità per Legacoop (propria dei braccianti della Val Padana).
Il movimento cooperativo, da quella data, inizia quindi ad articolarsi e ad organizzarsi intorno a più
associazioni cooperative, fino al punto che nel 1952, dietro la spinta delle dinamiche politiche
italiane (profondamente condizionate dalla divisione in blocchi dell’Europa e dalla posizione dell'
Italia come Stato di confine), un piccolo gruppo di cooperative di ispirazione repubblicana,
socialdemocratica e liberale si distacca dalla Legacoop per dar vita ad una terza centrale del
movimento cooperativo”248, l’Associazione Generale Cooperative Italiane (AGCI). Oggi, accanto a
queste tre Centrali Cooperative249 operano altre 2
associazioni di rappresentanza minori,
giuridicamente riconosciute per l’assistenza e la tutela al movimento cooperativo: l’ Unione
Nazionale Cooperative Italiane (UNCI) e l’ultima l’Un.I.Coop (riconosciuta con D.M. Del 2004
n.775), una associazione di promozione, assistenza, tutela e revisione centrale di un piccolo gruppo
248
249
88
Così recita la mission di AGCI: in http://www.agci.it/
Le prime tre centrali storiche hanno sempre operato e, continuano ad operare nell’ambito delle tre
dimensioni della politica italiana: quella cattolica, quella laica e quella di sinistra con una forte
connotazione socialcomunista.
di cooperative che fanno riferimento ad orientamenti politici legati della destra sociale250.
Da un punto di vista operativo, la marcata dicotomia tra le due principali centrali (Confcoop e
Legacoop) è stata, nel passato, un grande vantaggio per la cooperazione, poiché ha consentito al
movimento di disporre di un consenso e di una legittimazione così articolate da coprire l’intero arco
politico e determinando altresì, un qualche conflitto emulativo che ha stimolato la sperimentazione
di nuove forme operative. Il permanere di questa divisione ancora oggi sembra stia però
conducendo ad una conflittualità diventata quasi un disvalore a causa dell’acuirsi della competitività
dei mercati e per le correlate difficoltà nel disporre e nel formare adeguati gruppi dirigenti.
Da un punto di vista istituzionale le sopracitate centrali cooperative sono riconosciute dal Ministero
delle Attività Produttive (prima della riforma del diritto societario facevano capo al Ministero del
Lavoro e del Welfare) e dallo stesso delegate allo svolgimento delle funzioni di “vigilanza” sulle
associate, ruolo assolto nel passato dalle autorità pubbliche. A questa competenza è stato aggiunta la
gestione del
contributo che ciascuna associata deve versare al Fondo mutualistico per la
promozione e lo sviluppo della cooperazione (con legge n. 59 del 31 gennaio 1992) istituiti per
costituire dei patrimoni, alimentati dalla e destinati alla cooperazione, e finanziati con il 3% degli
utili annuali conseguiti da tutte le cooperative nonché con i patrimoni residui (se poste in
liquidazione). La redistribuzione delle risorse accumulate immagazzinate avviene poi
tra
cooperative, vecchie e nuove, considerate particolarmente meritevoli di sostegno. Si tratta insomma
uno degli strumenti che il Movimento cooperativo possiede per concretizzare il principio della
“cooperazione tra cooperative”, presente nel patrimonio genetico della cooperazione e riconfermato
dall'Alleanza Cooperativa Internazionale (A.C.I.).
250
89
La mission della nuova associazione sottolinea che “la nostra azione vuole dimostrare che i valori della
cooperazione sono un patrimonio di tutti e non soltanto di coloro che si identificano in uno schieramento
politico di centro o di sinistra.” Per approfondimenti cfr. http://www.unicoop.it/mission.htm
5.1. Alcune specificazioni sulle Associazioni Centrali di Categoria251. Distintamente per ciascuna
associazione centrale abbiamo evidenziato qualche particolare carattere distintivo.
CONFCOOPERATIVE252, è come anzidetto, l' associazione di estrazione cattolica storicamente legata alla
democrazia cristiana (sin dalla “Prima repubblica”), si ispira alla tradizione della dottrina della
Chiesa ed agli indirizzi di alcuni dei personaggi più importanti che hanno interpretato, in chiave
politica quel pensiero, a cominciare da Don L. Sturzo. Questo orientamento è richiamato nell’Art. 1
dello Statuto che, esplicitamente, dichiara che: “la Confederazione Cooperative Italiane … ispira la
sua azione ai principi e alla tradizione sociale cristiana253 ed è aperta a quanti pongono a
fondamento della vita associativa i valori di solidarietà economica e sociale, di libertà e di
partecipazione”. Questo orientamento è assimilato dalle associate che vengono convenzionalmente
considerate aderenti alla cosiddetta “cooperazione bianca”.
Confcooperative è un’organizzazione che si articola in 8 Federazioni nazionali con un Segretariato
delle Mutue e si divide orizzontalmente in 22 Unioni regionali, 80 Unioni provinciali e 7 Unioni
interprovinciali; distintamente per ciascun settore di operatività delle associate (abitazione,
agroalimentare, consumo e distribuzione, cultura turismo sport, lavoro e servizi, pesca, sociale e
credito cooperativo). Comprende, inoltre, un’ampia rete di strutture254 di servizio che, con compiti
diversi, hanno il ruolo di fornire assistenza e servizi alle cooperative associate e/o alla stessa
Confederazione nelle sue varie articolazioni organizzative. Le Banche di credito Cooperativo
251
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253
254
90
La separazione delle centrali è piuttosto rigida e collegata a diversi fattori, tra cui la cultura, i modelli
organizzativi ed i sistemi relazionali. Questa scissione è di fatto evitata solo in pochi casi locali e in settori
specifici, come ad esempio, nel settore agricolo di alcune regioni del Centro Nord. Per il resto si assiste
ad una quasi sistematica duplicazione di ciascuna struttura. L’unica eccezione nazionale è la Compagnia
Finanziaria Industriale (costituita nella seconda metà degli anni ’80 con L49/1985): si tratta di un
intermediario finanziario istituzionale che aderisce alle tre principali associazioni cooperative per le
imprese cooperative di produzione e lavoro e per le cooperative sociali, che partecipa al rischio di
impresa, che sostiene gli investimenti e che garantisce al management il costante supporto nelle decisioni
strategiche e nelle scelte, (Agci, Confcooperative e Legacoop). Per approfondimenti cfr. www.cfi.it.
Confcooperative si conferma leader tra le associazioni di rappresentanza del movimento cooperativo in
Italia, per numero di imprese cooperative (19.657), per addetti (480.253) e per fatturato (con 58.934
milioni di euro ). L'associazione ha una presenza capillare su tutto il territorio nazionale e conta 2,9
milioni di soci.
Confcooperative ispira i suoi principi alla scuola sociale cristiana, con particolare riferimento alla
valorizzazione della persona umana ed all' iniziativa del singolo con la realizzazione, su base volontaria,
del libero principio associativo. In questo modo oltre ad assicurare l'inserimento dell'individuo nella vita
economica e sociale contribuisce alla realizzazione di una compiuta società democratica.
Le strutture di servizio della Confcooperative si suddividono in strutture operative nazionali, centri
servizi, consorzi, strutture nazionali di settore ed agenzie formative.
aggregate alla Confcooperative255 confluiscono nel 1993 nell’ Istituto di Credito delle Casse Rurali
e Artigiane (ICCREA), che ha il compito di agevolare, coordinare ed incrementare l’azione delle
singole Casse attraverso lo svolgimento delle funzioni di intermediazione bancaria e di assistenza
finanziaria. Il fondo di promozione di Confcooperative (istituito con L. 59/92) è gestito dal Fondo
Sviluppo Spa.
LEGACOOP256 è, come anzidetto, l’associazione che nel tempo è sempre stata orientata dalle (e alle)
correnti di sinistra, con forte predominio dei comunisti, tanto da farla conoscere, anche se sempre
meno correttamente, come la cooperazione “rossa”. La revisione del sistema di valori e delle
regole della Lega delle cooperative è iniziato nel 1991 con tre principali obiettivi da perseguire: la
"ricollocazione politico-sociale della Lega" (la sanzione della sua autonomia politica), il "progetto
imprenditoriale" (a seguito della consapevolezza che, per svolgere un ruolo incisivo sul mercato,
sono necessarie imprese, strumenti e metodi operativi più efficaci) ed una "nuova organizzazione di
rappresentanza" (per l’esigenza di rivedere i rapporti tra le cooperative e tra il movimento e la
società, ossia per riformare il ruolo dell’associazione). E’ la principale struttura associativa
cooperativa italiana in termini di numerosità dei soci (con 7,3 milioni), con attività che spaziano
dalle cooperative di consumo a quelle di produzione, dall’edilizia al turismo, dai servizi
professionali all'editoria ed alla cultura. E’ presente nel comparto del credito e delle assicurazioni
con il gruppo UNIPOL (una sinergia tra assicurazione e banca).
La varietà dei settori in cui è presente Legacoop e la distribuzione non del tutto armonica delle
imprese sul territorio, hanno prodotto una articolazione territoriale abbastanza complessa: in
ciascuna regione sono presenti delle rappresentanze ma, nelle realtà maggiori sono attive anche
strutture a livello provinciale e locale. In alcuni casi sono previste anche strutture sovra-regionali257.
Coopfond è la Spa che gestisce il fondo di promozione Legacoop (di cui alla legge 59/92).
L’ ASSOCIAZIONE GENERALE COOPERATIVE ITALIANE (A.G.C.I.), come anzidetto, nasce ufficialmente nel
1952, quando un gruppo di cooperative di ispirazione repubblicana, socialdemocratica e liberale si
distacca dalla Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue per dar vita ad una terza “Centrale”, sulla
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257
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Per approfondimenti cfr.: www.fondosviluppo.coop
L’associazione comprende 14.000 cooperative ed oltre 400.000 addetti che realizzano importanti
iniziative in campo internazionale, nell'ambito del commercio equo e solidale e, in generale, con
iniziative rivolte ai paesi meno avanzati.
La principale struttura di servizio è Coopfond (per approfondimenti cfr. www.coopfond.it) e tra le altre si
trovano: il Consorzio Cooperativo Finanziario per lo Sviluppo che opera nel campo del credito e della
finanza (cfr. www.ccfs.it), l' Inforcoop srl per la formazione professionale (che associa le agenzie di
formazione regionali della Legacoop e quelle delle associazioni di settore con società di ricerca e
consulenza, www.inforcoop.it) e nel Centro Studi sono raggruppate le attività di ricerca e di studio.
base delle stesse pressioni e motivazioni che nello stesso periodo porteranno anche alla frattura del
sindacato
e di molte altre organizzazioni dell’Italia civile ed economica. L' A.G.C.I è una
organizzazione senza fini di lucro, libera ed indipendente, che ha come fine istituzionale la
rappresentanza, l'assistenza, la tutela e la vigilanza del movimento cooperativo258. Nell'ambito di
queste finalità generali promuove e gestisce, per conto delle proprie associate, attività di
informazione, di scambio, di servizio, di coordinamento politico-organizzativo, di diffusione della
conoscenza cooperativa e di formazione tecnica e professionale dei cooperatori259. Oltre che in
ambito nazionale l'Associazione ha proprie rappresentanze regionali su tutto il territorio e svolge la
propria attività anche all'estero, nelle sedi in cui si discutono le direttive legislative, economiche e
sociali che interessano la cooperazione. Ha sede nazionale a Roma ed una organizzazione
imperniata su tre articolazioni260 : la struttura politico sindacale; le rappresentanze territoriali e le
associazioni settoriali di categoria.
L' UNIONE NAZIONALE DELLE COOPERATIVE ITALIANE (U.N.C.I.261) nasce nel 1971 con il distacco da Conf
-Cooperative di un nucleo proveniente sia dal movimento Associazione Cristiana Lavoratori Italiani
(ACLI) che dalla Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori (CISL), a causa della mancanza
di un progetto autonomo sulla promozione ed attuazione di quegli ideali di libertà, di giustizia e di
solidarietà che legittimano la presenza dei cattolici nel sociale262. Nasce, quindi, in un periodo di
crisi ma anche di crescita dell'economia, soprattutto nel tessuto di base delle cooperative, ossia nel
segmento produttivo delle piccole e medie imprese. Una caratteristica peculiare del movimento
cooperativo U.N.C.I.263 è il concetto di radicamento, ancorché proiettato in un contesto
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263
92
In attuazione dei suoi principi statutari e con spirito riformatore e progressista, l'A.G.C.I. contribuisce alla
elaborazione di un progetto generale di sviluppo, basato sulla libera circolazione delle idee, delle persone
e delle merci.
Le strutture di supporto sono le seguenti: l' Assoforr (1983) un centro di servizi avanzati di consulenza e
di formazione alle imprese; il Cifap (1987) il Consorzio Italiano Fidejussorio Acquacoltura e Pesca
(costituito nel 1987, conta oggi 62 soci); il Fin.Coop.Ra s.r.l (1980) che opera in ambito nazionale per l'
erogazione del credito alle cooperative associate, lo svolgimento di attività finanziaria e la consulenza
anche nei confronti delle piccole e medie imprese (PMI). La società per la gestione del fondo
mutualistico di promozione cooperativa è la General Fond SpA (dal 1993).
Organi principali sono il Congresso Nazionale, il Consiglio Generale, il Comitato di Presidenza e la
Presidenza, articolazioni che, con parziali modifiche, si riproducono anche nelle rappresentanze
territoriali.
L'U.N.C.I. conta 7.825 imprese aderenti (presenti sull’intero territorio nazionale ed attive in tutti i settori
produttivi, dati 2004) con cui dichiara di rappresentare il 20% circa del movimento cooperativo
organizzato italiano. A circa trent’ anni dal suo riconoscimento giuridico oggi rappresenta un universo
composito e articolato di imprese di grande, media, piccola e micro dimensione, fortemente radicate al
territorio di appartenenza.
Anche l'U.N.C.I. si propone di attuare gli ideali e i principi della cooperazione, ispirandosi alla dottrina
sociale della Chiesa enunciata nell'Enciclica Rerum Novarum.
La società per la gestione del fondo mutualistico di promozione cooperativa dell’UNCI è denominata
internazionale e globale dei mercati, che rappresenta il tentativo dell'associazione di valorizzare le
risorse locali traendo sostentamento dal proprio territorio e restituendo a quello stesso le risorse
“reddito”, “occupazione” e “solidarietà” generate con il lavoro cooperativo264.
Alcune considerazioni conclusive sulla cooperazione italiana. L’excursus finora svolto sulla
storia del movimento cooperativo italiano ci spinge ad avanzare qualche ipotesi su alcune
peculiarità che lo distinguono da quello di altri paesi265. In primo luogo, non è mai stato neutro,
ossia a-politico e a-religioso (come invece previsto dall’ACI fra i principi della cooperazione) dato
che, come abbiamo visto, la radicata propensione al cooperativismo da parte di vaste aree della
popolazione italiana ha moltiplicato le ispirazioni ideali del movimento verso i più disparati
referenti partitici, tanto da coprire tutto lo spettro politico ed impedire persino al fascismo di ledere
i principi costitutivi ed i caratteri distintivi della cooperazione266.
Come conseguenza di questa molteplicità di ispirazioni e di ideali, la seconda caratteristica del
movimento cooperativo italiano è il suo vasto radicamento sul territorio nazionale e il suo forte
legame con le amministrazioni pubbliche locali267, forse proprio per la ricchezza delle proposte di
solidarietà che il movimento poteva offrire268 o per la sua natura mutualistica.
La terza ed ultima, ma non meno importante, caratteristica del movimento è la forte coesione
sociale di ciascuna Centrale cooperativa269 che, raggruppando aziende con la medesima ispirazione
ideale, ha spinto le cooperative associate a coordinarsi, più o meno strettamente, in networks
( gruppi e consorzi270) sia orizzontali (territoriali) che verticali (settoriali)271.
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271
93
Promocoop Spa (per approfondimenti cfr. www.unci.org/content/promocoop).
L' UNCI è presente nei settori più innovativi e dinamici, tra cui la cooperazione sociale e la pesca ma
anche nei settori tipici della produzione e lavoro, del trasporto, dell' agricoltura, dell’edilizia e del
consumo.
Per approfondimenti cfr. Zamagni V. (2006).
Per approfondimenti cfr. Fornasari M.e Zamagni V. (1997).
Il primo partito a non avere un legame cooperativo è stato Forza Italia, sorto nel 1993.
Per approfondimenti cfr. Battimani P. (2006).
Se una cooperativa italiana non aderisce ad una associazione centrale (restando “non aderente”) dipende
direttamente dalla Direzione per la cooperazione presso il Ministero delle Attività Produttive, a cui spetta
il compito di vigilare sulle imprese e di gestore il 3% degli utili destinati ai Fondi di promozione
cooperativa.
I consorzi possono assumere molte forme, nel rispetto del vincolo che le cooperative che ne fanno parte
abbiano autonomia amministrativa e finanziaria mentre vengono messi in comune i servizi destinati ai
soci le strategie di acquisizione, le politiche di coordinamento e quelle di promozione strategica.
Da questa coesione è derivata una sempre maggiore possibilità di effettuare fusioni e concentrazioni
produttive (più in Legacoop che in Confcooperative, quest'ultima fino a poco tempo fa legata ad una
visione della cooperazione come piccola impresa) che hanno consentito aumenti dimensionali delle
imprese e il rafforzamento delle filiere, e quindi maggiore produttività e competitività all’interno del
III. DIMENSIONI E PECULIARITA’ DELLA COOPERAZIONE IN ITALIA.
Introduzione. Il segmento delle cooperative è una componente del tessuto economico e produttivo
che ha visto crescere nel tempo il suo ruolo all’interno del Paese, rafforzandosi sia sotto il profilo
della dimensione e della espansione settoriale che della rilevanza strategica. Si tratta, infatti, di una
categoria d'impresa che ha mostrato la tendenza a crescere più rapidamente della media delle altre
tipologie (in termini di numero di imprese, di fatturato e di addetti), mostrando di poter contribuire
in maniera significativa alla crescita, non solo economica ma, anche e soprattutto, culturale e
sociale della comunità di appartenenza. Da un punto di vista quantitativo, si tratta di un segmento
produttivo che nel 2007 ha contribuito per il 5,3% al Valore Aggiunto (VA) annuo nazionale e che
ha registrato, nei settori del commercio e dei servizi alle imprese ed alle persone, un fatturato
medio più che doppio rispetto a quello delle corrispondenti imprese di capitali 272. Tuttavia le
statistiche ufficiali mostrano ancora oggi diverse carenze informative, nonostante non manchino i
riferimenti ad una pluralità di banche dati pubbliche ed amministrative e la carenza dipende,
probabilmente, proprio dalla difficoltà di armonizzare le diverse fonti disponibili. Vediamo, quindi,
nel prosieguo quali sono i principali archivi a cui si può fare riferimento per una corretta
valutazione del settore cooperativo.
1. Le fonti statistiche cooperative: i censimenti ISTAT. La prima statistica ufficiale delle
associazioni cooperative italiane risale alla promulgazione della già citata Legge n. 6216 (del luglio
1889) che, per la prima volta, prevedeva il primo censimento delle cooperative (nel 1902, durante il
governo Zanardelli-Giolitti, per iniziativa della Lega e della Società Umanitaria di Milano) per
consentire l'ammissione delle cooperative di produzione e lavoro (legalmente costituite fra operai),
alla partecipazione agli appalti pubblici. In quel periodo l’attenzione della classe dirigente era
rivolta, infatti, alle cooperative di lavoro (fra braccianti, muratori ed affini) molto diffuse nelle
maggiori città, dove esercitavano forti pressioni sulle amministrazioni comunali e provinciali273.
Questo primo censimento registrò 2.872 cooperative
274
(di cui 2.199 imprese pienamente
mercato. Per approfondimenti cfr. B. Jossa, Vol II, 2005.
272
273
274
94
Invece, nel comparto della sanità e dell'assistenza il fatturato medio delle cooperative si mantiene
allineato a quello delle imprese for profit.
I soci di queste cooperative mostravano un intenso impegno politico rivolto ai gruppi di partito favorevoli
alla cooperazione, con un conseguente ed inevitabile processo di politicizzazione degli aderenti.
L’80,7% di queste cooperative risultava dislocato soprattutto in Lombardia e nel Veneto, il 14% nell’area
centrale ed appena il 5,3% nel Sud-Isole. La prevalenza della cooperazione nell’area centro settentrionale
cooperative275)), di cui il 56% appartenenti al settore del credito (tra cui il 37% di banche popolari
con 604 aziende, appena il 2,5% con 40 casse rurali e il 60% rappresentato da 981 piccole casse di
mutuo soccorso). Prevaleva, quindi la categoria del credito (per più della metà della consistenza)
seguita da quella del consumo (con 684 aziende che coprivano una quota di mercato del 7,7%). Ma
questo primo censimento fornirà una valutazione parziale dell’intero fenomeno cooperativo poiché,
essendo direttamente rivolto alla tipologia di produzione e lavoro, trascurava le altre categorie. In
particolare, come sarà meglio evidenziato in seguito, questa prima indagine presenterà le seguenti
lacune:
a) l'assenza delle cooperative agricole (e di conduzione dei fondi agricoli), non incluse nei
censimenti “industriali” e comparse nei censimenti agricoli solo dal 1982;
b) l'assenza delle cooperative di abitazione che, o per i pochissimi addetti (a volte solo 1 per
cooperativa) o per la transitorietà dell'attività non vengono rilevate neppure oggi.
A prescindere dalle due precedenti categorie, questa prima rilevazione Istat risultava inesatta e
deficitaria anche relativamente al numero totale di imprese (che risultava inferiore da quello fornito
dalle Centrali cooperative) e si può certamente affermare che, sino al Censimento sull'industria ed i
servizi dell'Istat del 1971 (con dati nazionali disaggregati anche a livello comunale e cadenza
decennale, l'ultimo del 2001) le statistiche Istat sulle cooperative rimarranno poco attendibili.
L’affidabilità migliorerà negli anni più recenti anche se ancora oggi il censimento anagrafico delle
cooperative non può dar conto, da solo, dell'effettivo peso economico del settore, motivo per cui si
sono moltiplicate le fonti a cui fare riferimento per poter effettuare analisi attendibili ed anche
comparative. Ai nostri giorni, fra le altre principali fonti statistiche, possiamo citare:
– il BUSARL (il Bollettino Ufficiale depositato presso le CCIAA 276, che raccoglie i bilanci
di tutte le società), con buona veridicità soprattutto dagli ultimi anni, ossia da quando
l’Unioncamere ha iniziato a pubblicare anche alcune elaborazioni sui dati di bilancio277
(con dettaglio provinciale);
275
276
277
95
del nostro Paese durerà fino alla fine del primo conflitto mondiale.
Di queste la maggior parte era rappresentata da cooperative di consumo (con 860 società) dislocate
soprattutto in Lombardia (con 408 imprese) e in Emilia R. Permaneva una scarsa presenza nell’Italia
meridionale, ad eccezione della Sicilia.
L’inserimento dei bilanci delle cooperative nel BUSARL (iniziato nel 1990) è stato discontinuo, per la
prospettiva della predisposizione di un Albo separato, poi avvenuta dal gennaio 2006.
Per approfondimenti cfr. Istituto Tagliacarne, Primo rapporto sulle imprese cooperative, redatto per conto
dell’Unioncamere nel 2004 che, contiene il numero delle cooperative e degli addetti oltre ad alcuni
approfondimenti sugli indicatori di bilancio.
–
l'Albo delle Cooperative (approfondito nel paragrafo successivo) previsto dal Ministero
delle Attività Produttive (annuale con dati nazionali e dettaglio provinciale);
–
le pubblicazioni delle Amministrazioni regionali278;
– gli archivi delle Associazioni centrali di categoria (sebbene parziali, perché relativi alle
sole cooperative aderenti), che cominceranno ad essere significativi solo dalla fine degli
anni Settanta279.
Per una esaustiva analisi quantitativa, temporale e territoriale, anche di carattere comparato del
settore cooperativo la fonte ufficiale rimane comunque l’Istat che, nel suo ruolo istituzionale di
fornitore di statistiche, è un referente universalmente riconosciuto ed è l'unico che può fornire i dati
per effettuare analisi storiche . L’analisi quantitativa sull'evoluzione del settore cooperativo in Italia
lascia emergere le seguenti caratteristiche:
1. La trasformazione del tessuto produttivo italiano, che si era avviato con il secondo
dopoguerra e che i primi censimenti avevano già registrato per l’economia italiana si ritrova,
senza particolari differenze, anche all’interno delle dinamiche cooperative. La cooperazione
segue da subito l’evoluzione del mercato e dei bisogni che lo muovono e registra il
passaggio dall’agricoltura al manifatturiero prima, per poi esplorare il terziario ed inserirsi,
nel corso della seconda metà del secolo passato, soprattutto nel commercio. In questo settore
si registra uno dei processi di razionalizzazione più complesso della storia economicoproduttiva di questo paese: un processo poco studiato, ma di grande interesse per gli sviluppi
che ha affrontato e per i soggetti coinvolti. In pochi anni si passa, infatti, da centinaia di
piccole cooperative di consumo e di spacci ad una ventina di cooperative di medio grandi
dimensioni per poi giungere a meno di una dozzina di grandi imprese che rappresentano
tutta la grande distribuzione moderna..
2. Nel decennio 1991-2001 in tutti i settori in cui ha operato la cooperazione l’incidenza degli
278
279
96
Per esempio in Toscana è stato istituito l'Osservatorio regionale della Cooperazione che, dal 2002,
assieme all'IRPET pubblica il rapporto sulle “Imprese cooperative nel sistema economico della Toscana”,
il risultato di un sistema informativo strutturato, elaborato mettendo insieme dati rilevati dal Registro
delle Imprese , dall'Archivio statistico (REA) delle Camere di Commercio e dagli archivi forniti dalle 4
centrali presenti nella Regione.
Oltre al numero delle imprese, le centrali cooperative forniscono anche il numero dei soci, il giro d’affari
e talora il patrimonio: dati disaggregati che, solo da recente, consentono la formulazione di analisi
quantitative comparate.
addetti è cresciuta significativamente, con tassi ben superiori alla media nazionale.
3. L’evoluzione delle cooperative ha rispecchiato e mantenuto il primato nelle regioni
“storiche” della cooperazione, ossia in Emilia-Romagna, in Trentino-Alto Adige e in
Toscana; fra le regioni meridionali le migliori evoluzioni si sono invece registrate in Puglia e
in Sardegna.
2. L’Albo delle Cooperative. Nel processo di continuo miglioramento della conoscenza del
fenomeno cooperativo, svolge un ruolo considerevole l’Albo delle cooperative280 (introdotto nel
2004 dalla riforma del diritto societario281 in sostituzione del precedente Registro prefettizio), al
quale devono iscriversi tutte le società cooperative (ad esclusione delle società di mutuo soccorso e
degli altri enti mutualistici non societari)282. La ratio che ha condotto, nei tempi più recenti, alla
creazione di un nuovo e più credibile Albo è riconducibile alla necessità di disporre di un registro
anagrafico locale attendibile (per l'esattezza provinciale), in grado di “censire” tutte le cooperative
(a mutualità prevalente e non) ed i consorzi con sede nel territorio nazionale, tentando così di dare
maggiore certezza informativa sulla consistenza, le dimensioni e l'andamento demografico del
comparto cooperativo nazionale e locale283. Questa “attendibilità” (ancora in parte deficitaria)
assume un ruolo importante non solo per svolgere le indagini di carattere quantitativo ma anche per
poter assolvere agli obiettivi di natura pubblica (es. esenzioni fiscali) e per poter dare un preciso
contesto di riferimento alla Vigilanza territoriale assegnata alle Centrali cooperative. Per dare
concretezza alla veridicità dei dati è stato previsto un vincolo, ossia che la mancata iscrizione della
280
281
282
283
97
L’Albo delle cooperative (istituito presso il Ministero delle Attività Produttive attraverso le Camere di
Commercio con D.M. 23 giugno 2004, n.162), non consente l’analisi dell’evoluzione delle imprese
cooperative per la mancanza di dati storici; fornisce però dati di consistenza attendibili .
In base all’art. 2502 CC al comma 2: “le società cooperative a mutualità prevalente si iscrivono in
apposito Albo, presso il quale annualmente depositano i propri bilanci. L’istituzione dell’Albo completa
il quadro della riforma delle società cooperative (che aveva avuto inizio nell’Aprile del 2001) e si era
concluso con la riforma del diritto societario cooperativo (predisposta dalla Commissione Vietti e
introdotta dal Decreto Legislativo 17 gennaio 2003).
Con l’istituzione dell’Albo scompaiono, automaticamente, lo Schedario nazionale della cooperazione
(articolato per provincia e depositato presso le Direzioni provinciali del Lavoro) ed i Registri prefettizi
(introdotti precedentemente dalla legge Basevi) che avevano presentato ricorrenti carenze a causa delle
numerose imprecisioni e duplicazioni. Al comma 3 dell’art. 2515 c.c. si stabilisce che “le società
cooperative a mutualità prevalente devono indicare, negli atti e nella corrispondenza, il numero di
iscrizione presso l’Albo delle cooperative a mutualità prevalente
Per la piena operatività dell’Albo la nuova iscrizione delle società cooperative (in sostituzione dei
Registri Prefettizi ) era stato fissata entro il 31 marzo 2005 (per le banche di credito cooperativo
prorogato al 30 giugno 2005). Ma, il termine ha subito uno slittamento temporale.
società nell'Albo determina l’esclusione della cooperativa da ogni forma di agevolazione fiscale e di
altra natura, oltre all’avvio di una specifica attività di vigilanza e di verifica.
L’Albo è composto da due sezioni: nella prima vengono iscritte le società cooperative a mutualità
prevalente mentre nella seconda vengono comprese tutte le altre. Nell’ambito della prima sezione è
stata poi prevista una sottosezione, riservata alla cooperative a mutualità prevalente di diritto,
regolamentate da leggi speciali, cioè: le cooperative sociali (qualificate per legge a mutualità
prevalente); le banche di credito cooperativo (a mutualità prevalente se rispettano le clausole di
mutualità), le cooperative agricole ed i loro consorzi (se i prodotti offerti sul mercato provengono
per più del 50% da aziende operanti al loro interno). Altro aspetto importante, riconducibile
all’istituzione dell’Albo è il tentativo di mettere ordine alla classificazione settoriale delle
cooperative, tassonomia che è sempre stata abbastanza arbitraria dato che ciascun ente finiva per
classificare in autonomia a piacimento, per l'assenza di un riferimento preciso. Un
Decreto
Ministeriale (il D.M. 23 giugno 2004, n. 310), ha finalmente definito le 14 categorie di attività
produttiva, all’interno delle quali devono essere collocate le imprese cooperative dell’Albo (per
approfondimenti sulle singole categorie cfr. Appendice).
Tipologie cooperative
1. COOPERATIVE DI PRODUZIONE E LAVORO
2. COOPERATIVE DI LAVORO AGRICOLO
3. COOPERATIVE SOCIALI
4. COOPERATIVE DI CONFERIMENTO PRODOTTI
AGRICOLI E ALLEVAMENTO
5. COOPERATIVE EDILIZIE DI ABITAZIONE
6. COOPERATIVE DELLA PESCA
7. COOPERATIVE DI CONSUMO
8. COOPERATIVE DI DETTAGLIANTI
9. COOPERATIVE DI TRASPORTO
10. CONSORZI COOPERATIVI
11. CONSORZI AGRARI
12. BANCHE DI CREDITO COOPERATIVO
13. CONSORZI DI GARANZIA E FIDI
14. ALTRE COOPERATIVE
3. Analisi quantitativa del settore cooperativo. Passando ad una sommaria analisi dei dati
censuari relativi all'ultimo trentennio (1971-2001) si osserva una progressiva e costante crescita
delle cooperative, passate dalle 11.000 del periodo iniziale alla soglia delle 53.000 unità a fine
periodo (nonostante i processi di concentrazione registrati in tutti i comparti, ma particolarmente
intensi nella cooperazione di consumo). Nello stesso periodo è anche cresciuto il numero degli
98
addetti, passati dai 2.207 occupati iniziali agli oltre 935 mila del 2001.
Dai dati dell' ultimo censimento (2001) è possibile risalire all' evoluzione dell' ultimo decennio
(1991-2001) per notare che le cooperative sono cresciute con un andamento anti-ciclico rispetto al
resto del mercato, registrando sia la maggiore creazione di nuove imprese (+60,1% ) che più alti
tassi di crescita in termini di nuovi addetti (+72,8%) rispetto alla media generale. Da queste
percentuali è quindi possibile dedurre che il peso economico del settore cooperativo ha recato un
notevole contributo allo sviluppo economico e al mondo del lavoro nazionale, partecipando nel
decennio284 alla creazione di nuova occupazione (per il 25%). È difficile dire se le oltre 75.000
cooperative attualmente operanti, pari a quasi l’1,5% delle imprese attive, al 4,4% del valore
aggiunto nazionale e al 4,7% di occupazione, siano quello che i Padri costituenti in qualche modo si
aspettavano o auspicavano, ma è certo che si tratta di una componente del mercato che ha iniziato
ad occupare una quota di mercato significativa, con caratteristiche strutturali, in termini di
dimensione media (addetti per cooperativa) e di longevità, degne un approfondimento.
Relativamente al primo parametro, possiamo certamente affermare che le cooperative presentano
una dimensione media più alta rispetto alle imprese profit, anche se con un trend che sembra ridursi
nel tempo. Nel 2001 la dimensione media delle cooperative era pari a 16,5 addetti per impresa
(contro i 19,3 del 1971), mentre nelle imprese di capitali lo stesso rapporto scendeva (nel 2001) ai
3,8 occupati per azienda (dai 4,6 addetti medi del 1991). Ad una analisi più approfondita, è possibile
evidenziare che l’incidenza degli addetti nelle cooperative maggiori (da 500 ad oltre 1000285) è
addirittura cresciuta di più (nel 2001) e con una percentuale quasi doppia rispetto al decennio
passato (pari al 9,3%) e più che tripla rispetto al 1971 (del 2,7%). Si tratta di un andamento
tendenziale che non è riconducibile a motivazioni di esclusiva natura esogene così come non si
tratta di circostanze casuali, ma della commistione di dinamiche economiche con fattori culturali,
tradizionali e locali. Da un punto di vista regolamentare, il legislatore nel riconoscere la funzione
sociale della cooperazione (specie per la sua capacità di soddisfare la domanda di lavoro) ha da
sempre imposto un vincolo minimo dimensionale per la creazione di una nuova cooperativa che, per
decenni, è stato di 9 soci (unità che quasi raddoppiavano nel caso di imprese operanti nel mercato
degli appalti pubblici). Solo negli anni più recenti (dal 2002) questo vincolo è stato attenuato con
284
285
99
In particolare, gli addetti alle cooperative sociali sono più che quadruplicati (dai 27.510 nel censimento
del 1991 a 149.147 nel 2001).
Analizzando le prime 30 imprese nazionali classificate in base al fatturato, la cooperazione è presente
nell’industria alimentare e delle bevande, nelle costruzioni, nella grande distribuzione alimentare, nella
ristorazione collettiva, nei servizi di pulizia integrati e nelle assicurazioni. L’unica, ben nota, grande
impresa cooperativa della meccanica è la Sacmi, insediata in un’area che può essere considerata un vero e
proprio distretto cooperativo (cioè a Imola), dove il 60% del PIL è prodotto da cooperative.
l’introduzione della cd. “piccola cooperativa” (che prevedeva un minimo di 5 soci) e con la riforma
del diritto societario (che li ha ulteriormente ridotti a 3). Oltre a questo elemento di natura
legislativa occorre citare altri due fattori correlati alle maggiori dimensioni delle cooperative. Il
primo è quello derivante dal principio della “porta aperta”: poiché la massimizzazione del profitto
non è il fine prioritario della cooperativa, la realizzazione di obiettivi sociali ha reso appetibile la
costituzione e l'inserimento lavorativo nelle cooperative traducendosi, pressoché automaticamente,
nell'ampliamento delle opportunità di lavoro. Il secondo elemento, meno evidente ma non senza
ripercussioni, è riconducibile al doppio ruolo dei soci-lavoratori della cooperativa: la loro posizione
di dipendenti e contemporaneamente di proprietari delle imprese è, infatti, un deterrente ai
licenziamenti che dà stabilità all'impresa e crea le condizioni operative per la sua crescita
dimensionale.
Queste circostanze si sono verificate non solo nelle cooperative minori ma anche su quelle più
grandi che, sin dal decennio1970-’80, sono state le artefici e le protagoniste degli ampi processi di
concentrazione, per fusione o per incorporazione, e delle aggregazioni per la costituzione di reti fra
imprese (in generale consorzi) in aree territoriali geograficamente circoscritte286. A questi interventi
ha quindi fatto seguito un’altra ondata di crescita (quella degli anni ’90), condotta con operazioni di
joint venture e di partnership funzionali (anche con i privati), fino agli attuali “gruppi cooperativi
paritetici287”, operanti ai diversi livelli di integrazione (verticale ed orizzontale), che stanno
confermando
la tendenza, peraltro già esistente, verso la creazione di molteplici network fra
imprese cooperative e non. Nel tempo la cooperazione si è così proposta, nei territori in cui era
insediata, come un vero e proprio soggetto aggregatore e coordinatore delle piccole e medie imprese
(cooperative e non), attraverso l’esplicita formazione di gruppi maggiori e con il rilancio dei
consorzi, anche su scala nazionale. Questa evoluzione del settore ha confermato l'ipotesi di un
andamento in controtendenza rispetto al resto del mercato, rafforzata dalla circostanza che, nello
stesso periodo, la dimensione media delle società di capitali tendeva a diminuire così come anche
quella di alcune cooperative dei settori dell'agricoltura, della pesca e dell’edilizia.
L'esame degli ultimi dati disponibili (2007) ci consentono di avanzare ulteriori considerazioni sul
posizionamento del settore cooperativo nell'ambito del mercato nazionale. Alla fine del 2007 le
286
287
Le difficoltà susseguitesi, molte delle quali esogene (come gli effetti di Mani Pulite sul settore delle
costruzioni), hanno rafforzato la convinzione che la più grande dimensione era necessaria, sia sul piano
reddituale che sul piano organizzativo e in termini di potere di mercato e di lobby.
Il gruppo cooperativo paritetico è previsto dall' Art. 2545 septies del Codice Civile ed è una tipologia di
gruppo di imprese stabilito su una base contrattuale. Con questo contratto le cooperative aderenti
regolano la direzione ed il coordinamento delle rispettive imprese. Per approfondimenti cfr. Persiani N.,
2008.
100
imprese cooperative attive in Italia erano poco più di 74.000 (dati tratti dal Registro delle Imprese),
registrando una crescita di 10.000 imprese nel decennio 1998-2007 (cfr. Tab. 10) mentre la loro
incidenza sul totale delle imprese attive è rimasta pressoché invariata (pari all' 1,4%), nonostante le
diverse dinamiche di crescita tra le due categorie di impresa. Osservando l'andamento delle
variazioni annue del numero di imprese, si può notare che fino al 2002 queste aziende sono sempre
cresciute in misura maggiore rispetto alle imprese di capitali (+2,5% e +1,1% rispettivamente),
mentre nel triennio 2003-2005 le prime sono cresciute meno (registrando addirittura una lieve
riduzione nel 2004 e nel 2005)288, perché nei settori dell'agricoltura, della pesca e dell'edilizia
(come anzidetto)
sono state coinvolte dai noti processi di fusione e di concentrazione289 .
L’espansione del settore è ripresa solo da recente (dal 2006) soprattutto per il contributo delle
cooperative sociali (di cui parleremo nel prossimo paragrafo) che hanno registrato una importante
crescita della loro quota di mercato nell'ambito delle cooperative ordinarie, anche per la possibilità
di intraprendere nuove iniziative imprenditoriali.
Tab.10
ANDAMENTO DELLE IMPRESE COOPERATIVE
(1998-2007)
Cooperative
Imprese
Valori
Assoluti
Variaz%
Annue
Valori
Assoluti
Variaz.
%
Annue
1998
64.616
-
4.727.504
-
1999
65.592
1,5
4.774.276
1,0
2000
67.383
2,7
4.840.366
1,4
2001
70.029
3,9
4.897.933
1,2
2002
71.814
2,5
4.952.053
1,1
2003
72.138
0,5
4.995.738
0,9
2004
71.464
-0,9
5.061.859
1,3
2005
70.397
-1,5
5.118.498
1,1
2006
71.534
1,6
5.158.278
0,8
2007
74.186
3,7
5.174.921
0,3
Fonte: Registro delle Imprese, 2008.
288
289
Una sostanziale divergenza fra la nascita di nuove imprese cooperative si era già manifestata nel periodo
1990-1999, durante il quale erano nate il 34,6% delle imprese italiane rispetto ad un più contenuto
numero di cooperative (il 23,3%). .
Per approfondimenti cfr. Regione Toscana, 2008.
101
Riprendendo la seconda caratteristica delle cooperative, ossia la longevità, anche gli ultimi dati
disponibili (del 2007) confermano il permanere di questo aspetto, messo in luce più volte nei diversi
studi di settore, cioè la maggiore anzianità delle cooperative rispetto a quanto avviene nelle imprese
di capitali. In concreto, a livello nazionale, possiamo notare che il 2% delle cooperative presenti nel
Registro delle Imprese vanta più di 65 anni (essendo sorte prima del 1940) contro lo 0,1% di
imprese ultrasessantenni della categoria profit. Il riferimento alle imprese più giovani conferma la
stessa tendenza dato che prima del 1980 sono nate il 18,2% delle cooperative attive a fronte del
7,7% delle altre imprese.
Passando alla distribuzione territoriale delle cooperative, si può notare che non si rileva un peso
omogeneo sui diversi contesti economico-produttivi, anzi questa presenza talvolta rispecchia in
modo esemplare le molteplici dinamiche socio-economiche che ha vissuto questo paese. A titolo
esemplificativo, alcune imprese si sono, infatti, maggiormente insediate dove prima era presente un
modello industriale che ha subito i processi di destrutturazione produttiva tipica del post
fordismo290. Ma, l’incidenza delle cooperative sull’intera offerta imprenditoriale di capitali è molto
alta anche in zone che non si possono dire con forti
vocazioni al lavoro autonomo e
imprenditoriale, quasi a riprova della sua natura sostanzialmente inclusiva e della sua capacità di
creare occasioni di lavoro. Poco meno della metà delle cooperative, per l'esattezza il 47,5% ha,
infatti, sede nelle regioni meridionali (a fronte di appena 1/3 di imprese for profit), mentre nel Nord
Est, notoriamente baricentro dell'industria italiana, è insediato un minor numero della categoria no
profit (appena il 13% del totale nazionale). E, per singola regione le cooperative attive sul totale
imprese hanno un'incidenza numerica ben superiore rispetto al dato medio nazionale (cfr. Tab. 11)
nel Mezzogiorno in Sicilia (2,5%), in Campania (2,1%) e in Puglia (1,9%) mentre rimangono su
quote al di sotto della media in regioni ricche e dinamiche dell'industria tradizionale italiana, ossia
290
Il termine post-fordismo è entrato nel linguaggio corrente negli anni '90 per indicare un insieme di
caratteristiche economiche, sociali e istituzionali avvertite come profondamente diverse rispetto agli anni
precedenti. In sintesi, si tratta della sintesi di tre fenomeni seguiti al boom industriale degli anni '60: la
tendenza a una diminuzione dell'offerta di lavoro, un nuovo assetto della produzione definito "flessibile" e
uno spostamento dei poteri economici del governo dall'ambito nazionale a quello sovranazionale (o
"globale"). Si tratta perciò del periodo successivo al “miracolo” economico ed all'aumento generalizzato
del benessere a cui è seguita una lunga crisi, che ha portato austerità e povertà a vasti strati della
popolazione italiana e mondiale.
102
in Emilia Romagna (1,2%), in Toscana (1,1%), in Piemonte e nel Veneto (0,8%). .
TAB. 11
REGIONI ITALIANE.
(2007, dati %)
COOPERATIVE ED IMPRESE NELLE
Regioni
%
Cooperative Imprese cooperative
su imprese
Abruzzo
2,1
2,5
1,2
Basilicata
1,5
1,1
2,1
Calabria
3,4
3,0
1,6
Campania
13,1
8,9
2,1
Emilia R.
6,8
8,3
1,2
Friuli V. G.
1,3
2,0
1,0
Lazio
7,6
7,4
1,5
Liguria
2,0
2,7
1,1
Lombardia
15,6
15,6
1,4
Marche
2,1
3,1
0,9
Molise
0,6
0,6
1,4
Piemonte
4,6
8,0
0,8
Puglia
8,8
6,6
1,9
Sardegna
3,7
2,9
1,8
Sicilia
13,4
7,6
2,5
Toscana
5,2
6,9
1,1
Trentino A. A.
1,7
2,0
1,3
Umbria
1,2
1,6
1,1
Valle d'Aosta
0,3
0,2
1,6
Veneto
4,8
8,9
0,8
TOTALE
100,0
100,0
1,4
Fonte: dati Unioncamere-Infocamere Toscana, 2008
Considerando il contributo delle cooperative nei singoli settori di attività economica (sempre alla
fine del 2007), abbiamo rilevato una presenza significativa (cfr. Tab. 12) nel comparto delle
costruzioni e dell'edilizia abitativa (con il 21%) seguite, per ordine di importanza, dai servizi alle
imprese, dall’informatica (17,3%) e poi dall'agricoltura (12,4%), dall'istruzione e dalla sanità
(10,9%). Altri comparti
di rilievo, anche se per quote inferiori al 10%, sono i trasporti, il
magazzinaggio, le comunicazioni (9,8%) e l' industria in senso stretto (8,3%). Anche la ripartizione
delle cooperative per settore presenta dunque differenze piuttosto marcate rispetto alla categoria
103
delle imprese profit. Tra queste ultime prevale, infatti, il commercio al dettaglio e all'ingrosso
(27,4%) che tra le cooperative pesa, invece, per appena il 6%, anche se in realtà si tratta dell' offerta
alimentare della grande distribuzione (GDO) che si colloca ai vertici del settore, mostrandosi capace
di tenere testa a colossi multinazionali.
Tab. 12
Cooperative e imprese per settori di attività economica
(2007, dati %)
Settori
Cooperative
Agricoltura
12,4
Pesca
1,4
Industria in senso stretto
8,3
Costruzioni e coop.abitative
21,0
Commercio ingrosso e dettaglio
6,0
Alberghi e ristoranti
2,3
Trasporti, magazzinaggio, comunicazioni
9,8
Intermediazione monetaria e finanziaria
1,6
Servizi alle imprese e informatica
17,3
Servizi sociali
6,7
Istruzione e sanità
10,9
Altri settori
2,3
100,0
Imprese
17,6
0,2
12,3
15,4
27,4
5,1
3,7
2,0
10,5
4,4
0,8
0,6
100,0
Fonte: dati Unioncamere-Infocamere Toscana, 2008.
Rilevando, infine, la distribuzione regionale dei principali settori di attività economica si nota che le
cooperative del settore primario sono maggiormente concentrate in Calabria (29,5%), in Sicilia
(23,4%) e in Sardegna (20,0%). La rilevanza delle cooperative calabresi nel settore primario, con
una produzione agricola che copre un terzo del mercato, risulta l'unica esperienza tra tutti i contesti
territoriali meridionali a forte propensione agricola dove, al contrario, la cooperazione non è tra i
modelli di impresa più diffusi. Osservando, invece, il settore secondario, emerge la realtà della
Campania dove, a fine 2007, più di una cooperativa su tre (pari al 38,2%) rientrava nel settore delle
costruzioni; degna di nota anche la Puglia, sebbene si collochi su e su valori più contenuti, con un
peso del 24% delle cooperative edili sull'offerta regionale totale. Passando, infine, al settore dei
servizi, si può sottolineare che il contributo delle cooperative alla terziarizzazione del mercato è
molto spiccato in Piemonte (con il 69% di cooperative locali), in Lombardia (67%), in Toscana
(67%) e Veneto (65%). Nelle prime tre regioni si tratta del settore immobiliare, del noleggio,
104
dell'informatica e della ricerca. In Veneto, invece, si ha una forte componente di imprese
cooperative nei trasporti (15% sul totale regionale).
3.1. La dimensione della cooperazione sociale in Italia. Gli ultimi dati disponibili sulle
cooperative sociali attive in Italia sono quelli forniti dall'ISTAT (al 31dicembre 2005) che rilevano
7.363 imprese (oltre a 652 non ancora avviate o sospese), con una crescita di quasi il 20% rispetto
alla rilevazione del 2003. Metà di queste cooperative opera nell’Italia settentrionale (3.445
cooperative, pari al 46,8 % del totale), un terzo nel Mezzogiorno (2.487 imprese pari al 33,8%) e il
rimanente 19,4 % nel Centro (con 1.431 aziende).
Cooperative sociali per ripartizione territoriale
( 2001, 2003 e 2005)
105
Fonte: Annuario Istat, 2007.
Passando alla distribuzione regionale, il maggior numero di cooperative sociali ha sede in
Lombardia (1.191 unità, pari al 16,2 per cento del totale nazionale), nel Lazio (719), in Sicilia
(589), in Emilia-Romagna (584), nel Veneto (564) e in Puglia (545). Le regioni minori mostrano
una presenza inferiore, come dimostrato dai dati relativi alla Valle d’Aosta (32), al Molise (67) ed
all' Umbria (104). Rispetto al 2003, il numero di cooperative sociali è aumentato significativamente
in Sardegna (64,1 per cento), in Calabria e in Liguria (intorno al 53 per cento); con percentuali più
basse in Campania (23,7 per cento) e nel Lazio (21,7 per cento). Per valutare l'incidenza di questa
categoria di imprese sul tessuto sociale calcolato in base alla componente demografica, abbiamo
normalizzato il dato assoluto relativo al numero di imprese con la popolazione residente in ciascuna
regione. E' risultato che in Italia sono attive 12,5 cooperative ogni 100.000 abitanti e tale rapporto
tende ad essere più elevato nelle regioni del Nord-est (con 13,2 cooperative ogni 100.000 abitanti),
mentre si attesta al di sotto della media nazionale nel Mezzogiorno (con 12 imprese). Sempre in
base a questo indicatore emerge la Sardegna che primeggia rispetto a tutte le altre regioni (con 29
cooperative ogni 100.000 abitanti), seguita dalla Valle d’Aosta (25,8), la Basilicata (22,1), il Molise
(20,9) e la Liguria (19,3). Chiude la graduatoria la Campania (con 4,1 cooperative ogni 100 mila
abitanti).
106
Riguardo alla distinzione per tipologia, le cooperative italiane che si occupano dell’erogazione di
servizi socio-sanitari ed educativi costituiscono la maggior quota delle imprese operanti, ossia quasi
il 60% del totale (con 4.345 unità) e le cooperative di tipo B (per il reinserimento lavorativo)sono il
32% (2.419 unità); la quota residua è equamente ripartita tra le cooperative ad oggetto misto (con
315 imprese pari al 4% che svolgono sia attività di tipo A che B) ed i 289 consorzi (sempre il 4%).
Il profilo tipologico muta rispetto all’area geografica: nelle regioni del Nord e del Centro sono più
frequenti le cooperative di tipo B (che rappresentano rispettivamente il 34% e il 43% del totale
cooperative contro il 33% a livello nazionale) ed i consorzi (con una quota superiore al 4 % contro
il 2,5 % del Mezzogiorno). Al contrario, nel Mezzogiorno è più significativa la quota di cooperative
di tipo A (68% contro il 59% a livello nazionale), mentre, le cooperative ad oggetto misto sono più
diffuse al Centro (7% del totale cooperative contro il 4% della quota nazionale) e nel Nord-est (5%)
Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, le cooperative più grandi prevalgono nell’Italia
settentrionale (dove circa il 68% di società presenta ricavi superiori a 250.000 euro) e quelle più
piccole nel Mezzogiorno (con il 63% di cooperative con entrate inferiori a 250.000 euro). Per le
cooperative del Centro la distribuzione per classi di valori della produzione è sostanzialmente
analoga a quella nazionale.
3.1.1. La cooperazione sociale in Toscana. La Toscana è tradizionalmente riconosciuta come uno
dei territori in cui con maggiore intensità e da più lungo tempo si è affermato il cosiddetto sistema
di welfare mix, ovvero un sistema di offerta di servizi alla persona ancora molto ampio e centrato
sulla partecipazione attiva del terzo settore in tutte le fasi della politica sociale, dalla rilevazione dei
bisogni alla programmazione degli interventi ed alla realizzazione degli stessi. Ciò è stato possibile
grazie alla lunga tradizione di partecipazione sociale e di collaborazione tra istituzioni locali e
società che contraddistingue la regione, unita allo spirito imprenditoriale diffuso, tipico dei contesti
di piccola impresa. Il “modello toscano” della cooperazione sociale è caratterizzato da dimensioni
medie piuttosto contenute, anche se non piccolissime e da un'elevata quota di imprese aderenti ad
organizzazioni di secondo livello quali consorzi e centrali cooperative. Secondo l'ultima rilevazione
Istat (aggiornata al 2005) in Toscana si trovano il 6% delle cooperative sociali attive sul territorio
nazionale e il 7% delle risorse umane operanti nel settore; si tratta, complessivamente, di 402
soggetti, di cui 221 di tipo A (nel settore dei servizi alle persone), 160 di tipo B (per l’inserimento
107
lavorativo di persone svantaggiate) e 21 consorzi costituiti tra questo tipo di cooperative. Il 60%
delle cooperative sociali toscane rientra nella tipologia A, mentre una realtà crescente e recente sono
i consorzi. Inoltre, oltre un terzo delle cooperative di tipo A sono pluri-attive, ossia si occupano
contemporaneamente di diversi bisogni, potendo così coprire competenze e commesse nel comparto
del global service, con gestioni pluriservizio, oggi sempre più richieste. Nel febbraio 2008 (dati
provenienti dall’Albo del Ministero delle Attività Produttive) le cooperative sociali toscane erano
salite a 626 (febbraio 2008), con un peso del 15% sul totale delle cooperative. Questo dato
ministeriale, poiché non distingue la cooperazione sociale per tipo, non ci fa sapere quante delle
626 siano attive nel campo dei servizi alla persona e quante in quello dell’inserimento lavorativo dei
soggetti svantaggiati.
La cooperazione sociale regionale presenta la caratteristica di nascere, soprattutto, come risposta
alla domanda di occupazione di una parte della popolazione residente (in particolare manodopera
femminile per la cooperazione di tipo A e manodopera svantaggiata per la cooperazione di tipo B) e,
confrontando le caratteristiche delle diverse componenti, emerge con chiarezza che la cooperazione
di tipo A, oltre ad essere la più consistente (in termini di numero di imprese) è anche quella che
assorbe il maggior numero di soci e di lavoratori e che produce il fatturato più alto, con dimensioni
medie maggiori. La cooperazione di tipo A, infine, è anche quella che vanta la più lunga tradizione,
mentre i consorzi sono la componente di sviluppo più recente291 (da 21 a 31 nel 2008). Passando alle
cooperative di tipo B (cresciute da 124 a 185 imprese soprattutto per il contributo della componente
delle imprese attive nei servizi connessi all’agricoltura e alla zootecnia), rappresentano il terzo
settore di attività della cooperazione sociale, a pari merito con le attività di istruzione.
4. Analisi qualitativa: i caratteri distintivi della cooperazione in Italia. Come abbiamo potuto
dimostrare con l'analisi quantitativa, in Italia l' universo cooperativo è presente in quasi tutti i settori
di attività economica o di erogazione dei servizi. Si tratta, infatti, di una componente del sistema
produttivo nazionale che, nel tempo, è cresciuta lentamente, facendo emergere un certo ruolo
all’interno della moderna economia di mercato e rafforzandosi sia sotto il profilo della diffusione
territoriale e settoriale che della rilevanza strategica. A conferma, basti considerare che ormai da
291
La cooperazione di tipo A rimane l’elemento portante della cooperazione sociale, mentre i consorzi e le
altre forma di collaborazione tra imprese rappresentano un importante strumento di raccordo e di sinergia
tra le due anime del modo cooperativo sociale.
108
decenni e, malgrado il succedersi di generalizzate crisi della domanda di mercato, è una tipologia di
impresa che ha continuato a crescere (sia in termini di occupazione e di fatturato) che, talvolta,
anche con risultati in controtendenza rispetto all'andamento medio delle altre categorie produttive
operanti. La disamina dei dati precedenti ci ha permesso di confermare questo trend di crescita delle
cooperative che, in alcuni casi, ha anche significato la scalata delle classifiche nazionali o anche l'
espansione in settori tecnologicamente innovativi, fino a qualche tempo fa inespugnabili. Ai nostri
giorni l’offerta cooperativa italiana può essere così riassunta:
1. le imprese ai vertici del settore della grande distribuzione (di produttori e di utenti) sono
cooperative;
2. le imprese ai vertici del settore agro-alimentare e di molti comparti dei servizi alle imprese
(management, trasporto, informatica e logistica) sono le cooperative di grandi e di maggiori
dimensioni;
3. le maggiori imprese del settore edilizio sono cooperative;
4. le imprese che assicurano i servizi alla persona (in primis educativi, assistenziali e sanitari)
di fronte al ritrarsi del welfare, rientrano nella categoria delle cooperative sociali.
Dal raffronto con altri paesi europei, l' esperienza cooperativa italiana risulta inoltre unica, specifica
e singolare, poiché non si rilevano similarità con altre esperienze, specialmente facendo riferimento
alla sua diversificazione strutturale e gestionale ed alla sua diffusa presenza in tutti i settori di
attività economica.
Ma, considerando che all'inizio della trattazione abbiamo ampiamente parlato di un codice
cooperativo universalmente accettato da tutte le imprese attraverso l'applicazione dei principi dettati
dall'ACI, riteniamo opportuno domandarci se e fino a che punto l'esperienza nazionale si differenzia
da quella del resto del mondo per le modalità con cui, sin dall'inizio, questi principi sono stati
recepiti e trasformati in prassi cooperativa o se, invece, nel tempo sono intervenuti altri fattori
(esogeni ed endogeni) che hanno potuto alimentare e provocare questa singolarità operativa.
Ripercorrendo i principi dall’ACI ed osservando quanto praticato negli altri paesi del mondo
occidentale292 sembra che, apparentemente, non ci si discosti molto da quanto codificato ma, ad una
292
Questi caratteri riguardano ogni tipo di cooperativa: le cooperative di produzione e lavoro, in cui sono i
109
osservazione più attenta, siamo invece riusciti a cogliere alcune specificità della cooperazione
nazionale che potrebbero spiegare queste differenze. Abbiamo perciò ritenuto opportuno
ripercorrere le modalità di applicazione dei singoli principi ACI nell' esperienza italiana
Il principio “una testa, un voto” è e resta nella pratica italiana un cardine dell’identità cooperativa,
anzi, capita sempre più spesso di sentirlo interpretare come il principale valore cooperativo, se non
l’ unico. Certo testimonia il predominio dei bisogni (dei soci) sugli interessi (del capitale) è quindi
l'espressione di un caposaldo della ideologia cooperativa ma, purtuttavia da solo non è sufficiente a
convalidare l' applicabilità degli altri principi cooperativi. E', infatti, possibile replicarlo anche in
altri contesti: basti pensare, per esempio, all' ipotesi di una società di capitali in cui le quote di
capitale siano equiripartite fra i soci.
Il secondo principio, quello della “porta aperta293” è accolto ed è abbastanza praticato in Italia. A
conferma basti fare riferimento al dato relativo alla continua crescita della compagine
occupazionale delle cooperative, con consistenze e trend ben superiori rispetto alle imprese profit.
E' pure vero che, in alcuni casi, nelle cooperative più grandi e anche in alcune storicamente
consolidate, sono stati colti dei tentativi di aggiramento di questo principio, con l'inclusione in
Statuto di una clausola che prevedeva la necessità di maggioranze più che qualificate per l'ingresso
di un nuovo socio, al punto che la riforma del Diritto Societario ha previsto questa circostanza e
reso obbligatoria una giustificazione, ossia l'obbligo alla dichiarazione della motivazione avanzata
dall'assemblea in caso di mancato accoglimento di una nuova domanda di adesione (un indirizzo
suggerito prima della riforma ma non sempre praticato).
Seguendo il modello interpretativo proposto da Salani294 , correlato al principio della porta aperta è
quello della promozione della cultura cooperativa tema sul quale, nel nostro paese, c’è
indubbiamente una sensibilità diversa rispetto all'estero. Nel nostro mercato l’attenzione alla
293
294
soci (tutti o in parte) gli addetti occupati nell’impresa (la forma che più si avvicina all’autogestione); le
cooperative di utenza (consumo, abitazioni, ecc.) in cui i soci sono, appunto, consumatori e utenti; le
cooperative di conferimento (agricoltura, pesca e dettaglio) in cui i soci sono, in genere, lavoratori
autonomi o imprese. All’origine di ciascun tipo di cooperativa vi è, infatti, l’esigenza prioritaria di
soddisfare i bisogni comuni dei soci: la possibilità di avere un lavoro con un salario simile a quello
prevalente nel mercato (primo caso), la disponibilità di beni e condizioni migliori di quanto non consente
il mercato (2), la valorizzazione della propria produzione di beni/servizi (3).
Il principio della “porta aperta” deriva dal fatto che la cooperativa nasce come un organismo che soddisfa
esigenze comuni dei soggetti economici portatori di un bisogno comune (lavoratore, utente, produttore);
di conseguenza, ciascun interessato deve avere la possibilità di poter partecipare all’impresa comune ed
alla gestione, senza nessuna esclusione. Tuttavia, nella realtà e in pratica, il principio della porta aperta è
stato spesso disatteso.
Per approfondimenti cfr. M.P. Salani, 2006.
110
promozione (anche se non è avvenuta nel modo delineato da questo autore) è sempre stata molto
forte ed anche sostenuta da più parti, sia dalla Chiesa che dai partiti politici, almeno fino agli anni
’90. Questa attitudine è poi proseguita con una regolamentazione legislativa (L. 59/92) che ha
provveduto alla istituzione del Fondo mutualistico di Promozione cooperativa, per gestire il 3%
degli utili delle cooperative accantonati per questo scopo295. . Se ne può dedurre che in Italia questo
principio è ampiamente regolamentato e rispettato, prevedendo anche la nascita ex novo di imprese
concorrenti alle cooperative che le stanno finanziando (notoriamente un contro senso dal punto di
vista dell’ottica capitalista).
Passando adesso alle disparità, un principio certamente disatteso In Italia o comunque applicato in
maniera quantomeno discutibile, almeno fino agli ultimi anni, è quello che fa riferimento al
ristorno, al cui riconoscimento le imprese nazionali hanno sempre fatto poco ricorso mentre, al
contrario, è un valore che converte, in forma economica, la misura della mutualità cooperativa
(come giustamente dice Bonfante296). Fin dalle prime esperienze Ottocentesche, come riportato
nelle pagine precedenti, il ristorno rappresentava una modalità aggiuntiva di distribuzione degli utili
tra i soci che si accostava all’istituto della remunerazione del capitale sottoscritto. Operativamente
il ristorno può essere riconosciuto dall’assemblea dei soci non in proporzione al capitale sottoscritto
ma in relazione al contributo di ciascun socio all’attività d'impresa, ossia in base all’entità e
all'intensità del rapporto mutualistico che intrattiene con la cooperativa di cui è membro. Si può
avere ristorno nelle cooperative di lavoro sotto forma di integrazione salariale, nelle cooperative di
conferimento in termini di valutazione del bene conferito e nelle cooperative di utenza nei riguardi
dei prodotti/servizi consumati. Anche la legislazione italiana è intervenuta a proposito del ristorno,
prevedendo un limite massimo (posto a salvaguardia della parità e dell’uguaglianza fra soci) e la
sua occasionalità. Ciò nonostante, nel nostro Paese questo principio è stato per anni disatteso o
interpretato in modo svilente (come nel caso di “pacchi” dono di alcune vecchie cooperative di
consumo), con la giustificazione che le particolari situazioni di crisi del mercato imponevano di
dare priorità alla società e, quindi, alla sua ricapitalizzazione a scapito di qualsiasi altro
riconoscimento economico aggiuntivo al socio: scelta che ha quindi privilegiato la struttura
imprenditoriale rispetto al ruolo del socio297. Ma, probabilmente, il perpetrarsi di questa
consuetudine operativa e il mancato ricorso al ristorno, è un ulteriore e preciso indizio della netta e
295
In questa funzione si inserisce anche l’azione della Compagnia Finanziaria Industriale (CFI) che ha molto
operato soprattutto sul versante delle imprese spin-off
296
Per approfondimenti cfr. M.P.Salani, 2008.
297
La solidità dimensionale e patrimoniale della cooperazione italiana è correlata a questa scelta che negli
anni ’80 ha permesso di dare priorità al bisogno di ricapitalizzare l’impresa cooperativa: una rivoluzione
rispetto ai periodi precedenti durante i quali il socio si collocava al centro delle decisioni
111
marcata differenza fra la prassi cooperativa italiana e quella estera. Tra l'altro, questo diffuso
orientamento di rigetto nei confronti della distribuzione del ristorno è continuato anche a seguito dei
segnali di una certa ripresa del mercato, alimentando così un ampio dibattito. Ai nostri giorni
sembra che nel nostro Paese la prassi del ristorno stia timidamente cominciando ad essere praticata,
probabilmente a causa dell’esenzione dalla tassazione dei ristorni (per essere esatti, dell’intassabilità
temporanea298) reinvestiti in cooperativa come aumento di capitale o come fattore di
patrimonializzazione.
Strettamente correlate al ristorno sono evidentemente le riserve indivisibili, un istituto non molto
diffuso nel mondo, come invece la teoria cooperativa richiederebbe. In Italia le riserve indivisibili
hanno rappresentato nel tempo un elemento chiave per rafforzare il patrimonio della cooperativa,
per stabilizzarlo (rispetto all’evoluzione della compagine sociale) e per confermare il carattere
intergenerazionale del capitale della cooperativa (eredità delle generazioni future, proprio per
l’impossibilità del socio di poter disporre della ricchezza accumulata dall' impresa con il suo
contributo lavorativo299. I diritti del socio sul capitale sociale sono, quindi, limitati sia perché non si
può disporre delle riserve indivisibili ed anche perché i diritti del socio (usufruttuario) rimangono
validi fino a quando si mantengono i legami mutualistici con la cooperativa.
.
Da un punto di vista strutturale, infine, la regolamentazione italiana ha mantenuto nel tempo e sino
alla riforma del diritto societario (2004) il divieto di trasformazione della cooperativa in altre forme
di società, strumento normativo a salvaguardia dei principi costitutivi dell’impresa cooperativa ed a
tutela del soddisfacimento dei bisogni dei soci. Con la riforma legislativa è stato confermato che la
cooperativa non può essere costituita da una impresa profit ma è stata prevista la possibilità della
sua trasformazione in impresa di capitali. Moltissime cooperative hanno, però, raggirato questa
disposizione, introducendo nei loro statuti la non praticabilità della trasformazione.
Dall'esposizione condotta possiamo quindi concludere che alla base dell'originalità della formula
cooperativa italiana300 possiamo collocare i vincoli posti ai soci per la fruizione del capitale sociale,
elementi che la rendono certamente unica rispetto agli altri Paesi, mentre i principi pienamente
298
299
300
La tassazione è traslata al momento dell’uscita del socio dalla cooperativa.
Questo obbligo è sorto perchè le cooperative hanno sempre avuto difficoltà a raccogliere sul mercato i
fondi necessari al loro sviluppo (come vedremo meglio in seguito) e implica la posizione del socio di
usufruttuario anzichè di proprietario pro-quota come l’azionista di una impresa profit.
Per l’elenco dei caratteri distintivi delle cooperative italiane cfr., Zamagni S., 2005.
112
recepiti sono quelli che fanno riferimento ai rapporti interpersonali tra i soci e tra questi e l'impresa,
sinteticamente i seguenti:
I PRINCIPI COOPERATIVI IN ITALIA :
1. PRINCIPIO MUTUALISTICO
2. PRINCIPIO PORTA APERTA
3. PRINCIPIO DEMOCRATICO
4.1. I principi cooperativi della democrazia, mutualità e solidarietà. Da quanto detto, possiamo
dedurre che i tre principi ispiratori della cooperazione italiana e che poi nel mercato nazionale sono
alla base della profonda differenza di queste imprese dalle altre categorie (in particolare, le società
per azioni) sono quelli che garantiscono la gestione democratica dell'azienda. All’interno di una
cooperativa vige, infatti, la parità e l'uguaglianza: ogni socio ha diritto ad un solo voto come tutti gli
altri (principio “una testa, un voto”) mentre, come già detto, nelle imprese di capitali i soci
contano in proporzione alla quota di capitale conferito. Il secondo caposaldo riguarda la
mutualità301, ossia la finalità della gestione d’impresa: per le cooperative il soddisfacimento dei
bisogni dei soci e per le società di capitali la realizzazione del massimo profitto. Concretamente,
mentre in queste ultime i ricavi sono destinati ai soci, dato che vengono redistribuiti tra gli azionisti
come contributo alle quote di capitale conferito, gli utili di una cooperativa, al contrario, rimangono
in società poiché reinvestiti, quasi interamente, per lo sviluppo della stessa e per la sua
ricapitalizzazione attraverso le riserve indivisibili e, in caso di scioglimento della società, destinati
ai fondi mutualistici di promozione cooperativa, per la nascita e lo sviluppo di altre nuove aziende.
Le cooperative sono quindi imprese che, alla loro costituzione, hanno come fine prioritario i bisogni
301
La mutualità, seppur da sempre praticata nella cooperazione , non è mai stata definita a livello legislativo
se non nella Relazione al Codice Civile del 1942. In questa occasione la mutualità viene definita come la
soddisfazione diretta dei bisogni dei soci, la cd. “gestione di servizio” che, con il passare degli anni,
appare però sempre più inadeguata per una cooperazione in continua evoluzione e crescita. La mutualità
inizia perciò a modellarsi secondo il comune sentire della coscienza collettiva ed a essere condizionata
dal mutare dei tempi, delle situazioni e dei luoghi. Ecco allora negli anni 90 alla mutualità interna tra soci
si associa la mutualità esterna, ossia quella fra cooperative, con l'istituzione dei Fondi mutualistici. .
113
dei soci rispetto al denaro e il lavoro rispetto al capitale302 (mutualità) ma che destinano il risultato
dell'attività
all'azienda
stessa
ed
alle
consorelle
oltre
che
alle
generazioni
future
(intergenerazionalità).
Questi tre principi, combinati insieme, hanno delle ovvie conseguenze sulla gestione interna, che si
risolvono nelle seguenti implicazioni: la democrazia si concretizza nella circostanza che i soci sono
contemporaneamente lavoratori ed imprenditori di se stessi in maniera paritaria; la mutualità
implica che i soci non solo intendono fare la stessa azione ma vogliono farla insieme costituendo
l'impresa; la solidarietà è l’impegno reciproco e congiunto nello svolgimento delle mansioni (sia
pure per ragioni diverse) nella consapevolezza del perseguimento di un obiettivo comune: difatti, è
impossibile quantificare il contributo specifico di ciascun lavoratore al prodotto finale.
La cooperazione può perciò essere assunta come la realizzazione pratica di un sistema di valori, di
un complesso di norme, di regole di funzionamento e di ruoli orientati al soddisfacimento di un
bisogno o di un complesso di bisogni, tra loro coerenti, dei soci. Le differenze con le altre categorie
di imprese (e, in primis, con quelle profit) sono quindi da ricercare nel campo dei valori, ossia nel
complesso delle regole e dei ruoli che governano il suo modo di operare sul mercato e nella logica
che regola la soddisfazione dei bisogni dei soci. La cooperazione nasce, infatti, con un sistema di
valori difforme, nell’interpretazione e nell’agire economico, sia dal capitalismo che da qualsiasi
altra dimensione imprenditoriale. Nel pensiero politico e nelle scelte operative l’impresa
cooperativa nasce, infatti, dalla volontà di essere diversa da tutte le altre forme di produzione.
4.2. Un approfondimento sul principio di solidarietà: J.J. ROUSSEAU. I nodi della cooperativa
riguardano il problema della conciliabilità tra interessi gli individuali e quelli collettivi, a sua volta
strettamente correlato alla stabilità dell’equilibrio cooperativo. Per fornire qualche chiarimento a
questo proposito abbiamo ritenuto opportuno il ricorso al pensiero filosofico di J.J. Rousseau e al
suo “Discorso sull’origine e sui fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini 303”: «……….se si
302
303
Per approfondimenti cfr. http://www.legacoop.bologna.it/approfondimenti/default.asp?id=11.
Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes è un testo di Jean-Jacques
Rousseau, pubblicato in Francia nel 1755. «Ecco come gli uomini poterono acquistare man mano
qualche idea grossolana dei reciproci impegni e del vantaggio di adempierli, ma solamente nella misura
in cui poteva essere richiesto da un interesse presente e concreto; infatti in loro non esisteva previdenza;
e non solo non si preoccupavano di un avvenire lontano ma non pensavano neppure all’indomani»..
114
trattava di prendere un cervo, ognuno capiva che doveva per questo restare fedelmente al proprio
posto; ma se una lepre passava vicino ad uno di loro, non c’è da dubitare ch’egli la inseguisse
senza scrupoli e, che una volta raggiunta la preda, si preoccupasse pochissimo di far perdere la
loro ai suoi compagni». Questo passo specifica esattamente le motivazioni che inducono al
prevalere degli interessi individuali (la lepre) su quelli collettivi (il cervo), pregiudicandone il
raggiungimento. Il punto dal quale dobbiamo partire è: “si preoccupasse pochissimo di far perdere
la loro ai suoi compagni”. Perché si “preoccuperebbe pochissimo”? Il cacciatore ha ben due motivi
per agire così dato che, prima di tutto potrebbe pensare che anche gli altri, se l’occasione si
presentasse, seguirebbero la lepre e quindi il cervo sarebbe perduto per colpa degli altri, con il
risultato che lui, restando al suo posto, non otterrebbe nulla, né la lepre né la sua parte di cervo. In
secondo luogo, se il cervo venisse preso, probabilmente una parte toccherebbe anche a lui,
ottenendo così un vantaggio maggiore, dato che avrebbe la lepre e la sua parte di cervo304
In teoria economica, l’assunzione di comportamenti razionali mossi dalla massimizzazione
dell’utilità individuale va però incontro alla formidabile obiezione del “dilemma del prigioniero 305”.
In altri termini, se il risultato di un’azione individuale (ed anche di un interesse individuale) nasce
necessariamente dalla combinazione delle azioni di tutti gli altri ed è massimo se tutti cooperano,
mentre è punitivo se un individuo coopera mentre gli altri pensano solo a sé stessi allora, nel timore
di questa perdita, ciascuno penserà solo a sé con il risultato che tutti, irrimediabilmente, perderanno
ogni possibilità di ottenere un risultato ottimale (l'ottimo-paretiano306): in letteratura economica
questo paradosso è stato assimilato alla difficoltà di configurare l’equilibrio cooperativo.
Riprendiamo Rousseau. “....nel villaggio vige una regola che non può essere violata, pena il bando:
quando si prende un cervo esso è diviso tra tutte le famiglie, anche tra quelle che non hanno
partecipato alla caccia. Le prede minori sono, invece, di chi le prende. La caccia al cervo richiede
la partecipazione di almeno 10 cacciatori”. Il problema non è però il numero (perché nel villaggio
i cacciatori sono molto di più) ma è formare la squadra307. Essi, infatti, non partono insieme (in
questo caso si avrebbe il controllo reciproco diretto), ma ciascuno deve raggiungere un posto
304
305
306
307
Per approfondimenti cfr. Veca S., 1986.
Il dilemma consiste nel fatto che due prigionieri hanno a disposizione una soluzione molto favorevole
(solo un anno di prigione a testa) se nessuno dei due confessa. Ma, mossi dall'egoismo e nel timore di
prendere 10 anni se l’altro confessa, ciascuno confesserà e quindi prenderanno non uno ma ben 8 anni di
prigione a testa.
L'ottimo paretiano (o efficienza paretiana) è un concetto introdotto dall'ingegnere ed economista italiano
Vilfredo Pareto, largamente applicato oltre che in economia anche in teoria dei giochi, in ingegneria e
nelle scienze sociali. Si realizza quando l'allocazione delle risorse è tale che non è possibile migliorare la
condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro.
Se andassero tutti, il cervo è preso e la parte che tocca ad ognuno vale molto di più di qualunque preda
piccola, fosse anche una lepre.
115
diverso e quindi sono isolati. Se però qualcuno non parte, preferendo andare a caccia della lepre per
conto suo, gli altri avranno perso una giornata intera senza ottenere niente. Che cosa succederà
allora? Succederà che la caccia al cervo non inizierà mai, dato che tutti potrebbero fare il medesimo
ragionamento: meglio prendere una lepre che rischiare di perdere una giornata.
Supponiamo adesso che tra i membri del villaggio non sia estraneo il senso della solidarietà: in
fondo, ogni tanto un cervo è necessario per il benessere del villaggio, specie alle donne ed ai
bambini poi con le pelli si fanno anche scarpe e vestiti, con le corna piccoli utili utensili e la carne è
molto nutriente. La caccia dunque inizia, e tutti sono ai loro posti, anzi i cacciatori sono più di dieci,
succede però che, nel bel mezzo della giornata, una lepre passa velocissima ed a poche decine di
metri da un cacciatore. Egli è molto abile e pensa che assentandosi per inseguire la lepre intanto gli
altri potranno comunque prendere il cervo, potendo così avere la lepre oltre ad una parte del cervo.
Ma, quella lepre ha proprio deciso di rovinare tutto e passa anche nei pressi di altri cacciatori che,
ragionando allo stesso modo, fanno finire ingloriosamente la caccia al cervo.
Tornando al nostro ragionamento iniziale, questa caccia è stata sufficientemente esplicativa per farci
comprendere che i gesti cooperativi sono difficili da attuare perché, apparentemente ed
immediatamente, possono andare contro gli obiettivi e gli interessi individuali razionalmente
superiori, anche se nel tempo potrebbero risultare sfavorevoli.
Riprendendo la caccia, se si introduce, un’altra ipotesi308 e cioè che la situazione si può replicare nel
tempo (è ripetitiva) e che le strategie siano reciprocamente condizionate, ossia che ciascun
interessato inizi il gioco con un atto cooperativo, continuando a cooperare anche se un altro non
coopera (anziché rispondere con un atto di egoismo), allora (come dimostrato empiricamente da
R.Axelrod309) “da un comportamento che abbia orizzonti temporali molto lunghi può nascere un
equilibrio strategico di tipo cooperativo, cioè si è raggiunta la solidarietà cooperativa”. Nella
realtà, il dilemma cooperativo si pone e si ripropone continuamente perché non si esaurisce in un
solo atto e, in effetti, la quotidianità di una impresa cooperativa richiede continuamente la necessità
di rinnovare il patto costitutivo e di soddisfare esigenze multiple. La cooperazione, infatti, una volta
fissatasi in un territorio e in una comunità, non può essere sopraffatta da un gruppo di individui che
persegue obiettivi egoistici, cercando di prevalere sugli altri dato che la sua esistenza diventa un
308
309
Una via per la soluzione era stata intravista da Luce e Raiffa (1957) così come da molti altri autori in
seguito: essa si ottiene immaginando che il gioco (la caccia) non si svolga una sola volta, ma sia ripetuto.
In questo caso i giocatori hanno una informazione in più che è quella del comportamento tenuto dagli altri
nel turno precedente.
R. Axelrod è conosciuto per il suo lavoro interdisciplinare per quanto riguarda l'evoluzione della
cooperazione. I suoi attuali interessi di ricerca includono la teoria della complessità e della sicurezza
internazionale. Recentemente si è occupato della relazione tra cooperazione e lo sfruttamento per la
complessità per le Nazioni Unite, la Banca mondiale e il Dipartimento della difesa USA. Per
approfondimenti cfr. Axelrod R., 1981; 1984.
116
interesse specifico della comunità locale310 ed anche l’opportunità e la garanzia di un lavoro
democratico ed indipendente. Inoltre, in tutte le comunità e solo con la cooperazione, è possibile
ottenere beni e servizi a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato così come spetta alle cooperative
la produzione di beni e servizi che altrimenti non sarebbe conveniente produrre ai prezzi di mercato.
In altri termini, la realtà e la fattiva applicazione dei principi cooperativi può anche essere
interpretata come la possibilità di mediare e di conciliare tutta una serie di interessi collettivi,
individuali e sociali.
310
Questo modo di interpretare la cooperativa rientra specificatamente nell’ambito della cooperativa sociale,
cioè nella categoria delle imprese orientate alla produzione di servizi di interesse collettivo.
117
APPENDICE: ANALISI DELL’ALBO DELLE COOPERATIVE311.
L’albo si divide in due sezioni:
I° Sezione
II° Sezione
Sezione cooperative a mutualità prevalente
(L’iscrizione in questa sezione consente di
usufruire delle agevolazioni fiscali:
Sezione cooperative diverse:
cooperative diverse da quelle
a mutualità prevalente
Nella I^ sezione sono presenti delle sottosezioni per:
1) Cooperative sociali (qualificate a mutualità prevalente direttamente dalla legge)
2) Banche di credito cooperativo (che rispettano le normative speciali)
3) Cooperative agricole e loro consorzi (se la quantità o il valore di prodotti conferiti dai soci supera
il 50% della quantità o del valore totale dei prodotti)
Le 14 categorie di cooperative da inserire nell'Albo inquadrate (dal D.M. 23 giugno 2004, n. 310) in
base all'attività economica svolta (come anzidetto) sono le seguenti:
Tipologie cooperative
1. COOPERATIVE DI PRODUZIONE E LAVORO
2. COOPERATIVE DI LAVORO AGRICOLO
3. COOPERATIVE SOCIALI
4. COOPERATIVE DI CONFERIMENTO PRODOTTI
AGRICOLI E ALLEVAMENTO
5. COOPERATIVE EDILIZIE DI ABITAZIONE
6. COOPERATIVE DELLA PESCA
7. COOPERATIVE DI CONSUMO
8. COOPERATIVE DI DETTAGLIANTI
9. COOPERATIVE DI TRASPORTO
10. CONSORZI COOPERATIVI
11. CONSORZI AGRARI
12. BANCHE DI CREDITO COOPERATIVO
13. CONSORZI DI GARANZIA E FIDI
14. ALTRE COOPERATIVE
1. Le cooperative di produzione e lavoro hanno lo scopo sociale di “ricercare e garantire
l’occupazione dei propri soci alle migliori condizioni di mercato, sia qualitative che economiche”. A
tal fine, e in adempimento al contratto sociale, i soci lavoratori sono tenuti a prestare la propria
attività all’interno della cooperativa, per la produzione diretta di beni e per la fornitura di servizi e,
311
Unioncamere, Secondo rapporto sulle imprese cooperative. Roma, 2006. Per approfondimenti cfr. sito
Unioncamere.
118
in senso più generale, per il conseguimento dello scopo statutario. La posizione del socio lavoratore
è duplice: egli è infatti lavoratore (quindi sottoposto al Contratto collettivo nazionale di lavoro, fatte
salve tutte le disposizioni espressamente richiamate dalle norme di legge relative ai soci di
cooperative) ed anche socio, partecipando perciò alla gestione aziendale. Da un punto di vista
economico, il lavoratore di una cooperativa ha diritto al salario, più o meno contrattualizzato a cui
si può aggiungere l'eventuale partecipazione al profitto dell’impresa (nelle forme consentite del
modello di mutualità adottato e nei limiti previsti dalla legge) e al ristorno, se previsto Nella
tradizione italiana per cooperative di produzione e lavoro si intendevano anche quelle del settore
delle costruzioni, del manifatturiero e dell'ingegneria progettuale; nella nuova classificazione sono
invece comprese quelle storicamente definite cooperative di servizi, ad eccezione del settore dei
trasporti che, data la rilevanza assunta in Italia, è diventato un settore a se stante. La cooperazione
di servizio, a sua volta, che ha origini in segmenti erogativi marginali (come le pulizie, le
manutenzioni e il facchinaggio) si è profondamente trasformata, divenendo leader nel settore delle
gestioni complesse, come ad esempio il Facility management e in altre forme (gestionali od
operative) sempre più sofisticate, per la fornitura di servizi sempre più evoluti (come le reti di gas,
acqua ed energia). La trasformazione forse più esemplare è quella realizzata in un comparto povero
come il facchinaggio, che si avvia ad essere un fattore di rilievo con una buona competitività
all’interno della logistica .
2- 4. Sono cooperative di lavoro agricolo (ai sensi dell’Art. 2135 CC.) quelle che esercitano
attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e ad altre
attività connesse (volte alla trasformazione o alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nel
normale esercizio dell’agricoltura). Nell’ambito delle cooperative agricole è anche possibile
distinguere la produzione di beni, il servizio ai soci ed una attività mista, che unisce le due
tipologie. Le cooperative di produzione agricola gestiscono direttamente la coltivazione del terreno
con il lavoro dei propri soci e provvedono, successivamente, alla commercializzazione dei prodotti
ottenuti. A tale categoria appartengono sia le cooperative che si occupano della conduzione di
terreni, sia le cooperative che esercitano la gestione diretta delle stalle sociali. Nel primo caso, i soci
provvedono alla coltivazione di uno o più fondi rustici acquisiti in uso, affitto oppure di proprietà
(in questo caso, la cooperativa gestisce la coltivazione, ma non è proprietaria dei terreni conferiti
dai soci). Una ulteriore forma di cooperativa agricola è rappresentata, inoltre, dalla impresa
associata, in cui partecipano soci proprietari ma non lavoratori (si pensi, ad esempio, all’apporto di
terreni agricoli da parte di Enti pubblici). Nel caso delle stalle sociali, i rapporti tra i soci e la
119
cooperativa restano immutati, tuttavia cambia la specializzazione dell’attività svolta, rivolta, questa
volta, alla produzione di carne o latte. Le cooperative di servizio in agricoltura integrano l’attività
agricola con l’offerta di servizi che, altrimenti, sarebbe impossibile o eccessivamente oneroso per i
singoli soci realizzare. In particolare, si possono individuare due categorie: le cooperative che
forniscono beni e servizi per la produzione o la gestione d’impresa (ad esempio, assistenza agrozootecnica, amministrativa, ecc.) e le cooperative di trasformazione e commercializzazione delle
produzioni conferite dai soci (ad esempio, i frantoi sociali, le cantine sociali, etc.). Quest’ultima
tipologia di cooperativa rappresenta la categoria, prima individuata, delle cooperative di
conferimento di prodotti agricoli e di allevamento.
3. Introdotte con la legge n. 381/1991312 le cooperative sociali sono una speciale categoria di
cooperative di lavoro, caratterizzata dal fatto di "perseguire l'interesse generale della comunità per
la promozione umana e l'integrazione sociale dei cittadini”. Questa legge non ha creato il settore
della cooperazione sociale ex-novo ma lo ha collocato correttamente all’interno di un preciso
quadro legislativo, dall’unione delle esperienze legate a tradizioni culturali diverse. Il legislatore ha
anche fornito la definizione della natura e dello scopo della cooperazione sociale e poi distinto i
settori di attività in cui queste imprese operano313 (il comma secondo dell’art.1 introduce, infatti, le
cooperative sociali di tipo A e le cooperative sociali di tipo B). Come abbiamo visto, gli scopi
sociali di ciascuna delle due categorie sono profondamente diversi e, di conseguenza, differenti
sono i rispettivi modelli di gestione, di rendicontazione e di analisi economica. Inoltre, per una sorta
di contiguità che spesso non è solo tipologica ma anche operativa, sussistono tra i due tipi di
intervento sempre più frequenti esempi di scambio di esperienze e di conoscenze.
5. Le cooperative edilizie di abitazione, dopo quelle di produzione e lavoro rappresentano la
categoria più numerosa, in termini di imprese ed anche la più ampiamente diffusa su tutto il
312
313
La Legge n° 381 dell’8/11/1991 all’Art. 3 definisce gli specifici obblighi ed i divieti a cui queste
cooperative sono sottoposte e che ne giustificano il particolare regime tributario (art. 7). La stessa legge
disciplina la figura del socio volontario (art. 2) e del socio svantaggiato (art.4) e prevede convenzioni
(art.5) stipulabili tra Enti pubblici e cooperative sociali.
L. 381 art. 1 comma 1: “ Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della
comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di
servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali,
commerciali o di servizi finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.” Secondo Antonio
Fici ci sarebbe una duplice interpretazione del significato del primo articolo della legge 381 (art. 1,
comma 1): una di tipo forte, l’altra di tipo debole. Per approfondimenti cfr.Fici A., 2004.
120
territorio nazionale. È un settore della cooperazione “storico” dato che ha cercato di contribuire a
dare una risposta ad uno dei bisogni primari della popolazione: la casa e, in questa sua attività, è
stata riconosciuta come uno dei principali interlocutori delle Istituzioni Pubbliche e della politica. A
differenza di quanto si potrebbe credere, quello delle cooperative di abitazione è un settore che, nel
corso degli anni, si è molto trasformato mostrando di essere anche un soggetto fortemente
innovativo.. In particolare, accanto alle tipologie a proprietà indivisa in cui il socio paga un canone
d’uso a fronte del godimento a vita per sé (e, a volte, per gli eredi diretti) di un immobile che è, e
resta, di proprietà della cooperativa e a proprietà divisa (cui il socio assegnatario dell’immobile ne
diviene anche il proprietario), è stata aggiunto il settore degli alloggi in affitto, per categorie sociali
speciali a tempo definito o indeterminato. Non è un caso se la cooperazione ha sentito il bisogno di
definirsi cooperazione di abitanti, infatti alle attività immobiliari classiche le cooperative hanno
aggiunto una quota crescente di servizi, sia alle persone che alle città.
6. Le cooperative della pesca si propongono di garantire l’occupazione dei soci attraverso
l’esercizio della pesca (con imbarcazioni proprie della cooperativa o di proprietà dei singoli soci),
sia in acque interne (pesca lacuale e fluviale) che marine, nonché attraverso lo svolgimento di
attività inerenti o accessorie alla pesca. Oltre alle cooperative dedite esplicitamente alla piscicoltura
assumono, infatti, un ruolo fondamentale quelle che si occupano del commercio dei prodotti della
pesca. Al settore aderiscono anche cooperative che svolgono attività di ricerca bio-naturalistica e
quelle di servizi specializzati, che effettuano consulenza in ambito legale, contabile, fiscale e
commerciale alle cooperative della pesca. In tempi più recenti si è avviato un settore di attività
ancora marginale ma in significativa crescita che è quello della pesca-turismo.
7. Le cooperative di consumo (oggi, di consumatori) costituiscono una categoria che coinvolge un
grande numero di soci per la funzione sociale che esse svolgono, ossia la difesa dei consumatori di
generi di largo consumo, con l’obiettivo di ottenere i prodotti di migliore qualità alle condizioni
economiche più vantaggiose. A tal fine, le cooperative di consumo acquistano generi di consumo,
merci, servizi, prodotti ed articoli di qualsiasi natura e tipo, in alcuni casi provvedendo alla loro
trasformazione, e successivamente, alla loro distribuzione tra i consumatori, soci e non soci,
attraverso la gestione di “punti vendita” che, nel tempo, si sono successivamente razionalizzati fino
ad arrivare agli odierni ipermercati. L’attività primaria, concentrata sin dall’inizio nel “food”, si è
allargata ai generi diversi e, nei tempi recenti, anche ai servizi di largo utilizzo, come le schede
telefoniche. Da sempre la cooperazione di consumo italiana ha dedicato grande attenzione alla
promozione di attività dirette alla tutela del consumatore, all’informazione, all’educazione igienico121
sanitaria ed alimentare ed alla salvaguardia dell’ambiente. Tra i più recenti interventi, le attività
relative al sostegno e alla promozione dei prodotti provenienti dal commercio equo e solidale. In
alcuni casi le cooperative di consumo hanno anche promosso altri servizi collaterali di largo
consumo, come quelli turistici attraverso agenzie collegate, che si sono rivelati di grande interesse
per i risultati e sotto il profilo delle dinamiche strutturali e organizzative. Nel nostro paese, a
differenza delle traiettorie percorse in altri paesi industrializzati, la cooperazione di consumo è
riuscita a diventare leader del mercato pur partendo da una frantumazione organizzativa e
gestionale. Stiamo, infatti, parlando del settore primigenio della cooperazione e di quello che,
storicamente e soprattutto in Occidente, è stato il più diffuso svolgendo altresì un ruolo sociale di
portata straordinaria dato che milioni di cittadini del mondo hanno conosciuto la forma cooperativa
proprio attraverso il consumo organizzato.
8. Le cooperative di dettaglianti rappresentano le modalità con cui si è evoluta la distribuzione
commerciale di taglia più minuta ed è l’unica realtà che non è stata travolta dall’arrivo delle grandi
superfici. Queste cooperative sono quindi l’evoluzione delle forme organizzative che aggregano le
funzioni aziendali, come ad esempio gli acquisti centralizzati, la gestione di marchi di vendita, la
definizione di strategie commerciali o l’ottimizzazione dei processi ristrutturativi ecc. Con la
cooperazione tra dettaglianti si cerca quindi non solo di massimizzare le opportunità offerte dalle
associate e dai risparmi provenienti dalle economie di scala, ma si asseconda un processo di crescita
imprenditoriale degli operatori commerciali, che così possono decidere tutte le fasi a più alto
contenuto economico e organizzativo. Questa tipologia è soprattutto dedita al commercio e, in
particolare, alle attività del commercio al dettaglio di prodotti alimentari, bevande e tabacchi e di
altri beni di consumo finale.
9. Le cooperative di trasporto rappresentano una fattispecie tipica delle cooperative di servizio,
che si pongono lo scopo di procurare occasioni di lavoro ai propri soci, operatori di attività di
trasporto. Ciò che le distingue dalle cooperative di prestazione di servizi a terzi (che rientrano nelle
cooperative di lavoro), è la proprietà dei mezzi di trasporto (ad esempio, cooperative tra
autotrasportatori, tassisti, moto-taxi, etc.), in cui ciascun socio è proprietario di un mezzo. Come
indica la denominazione stessa, le attività di trasporto e di movimentazione delle merci sono quelle
prevalenti nell’ambito di questa tipologia di cooperative. L'interesse per questo settore come per
quello della cooperazione tra dettaglianti è il fatto che ad associarsi non sono i lavoratori ma
professionisti, artigiani, imprenditori. Questo tipo di cooperazione rappresenta una delle probabili
122
evoluzioni della cooperazione di lavoro che tende verso l'immaterialità della prestazione.
10. Nei consorzi cooperativi, i principali settori di attività sono quelli della consulenza legale,
fiscale, gestionale, commerciale, etc. e dei servizi alle imprese, ma un rilievo fondamentale è anche
rivestito dall’attività edile
I consorzi agrari lo scopo dei consorzi agrari consiste nel contribuire all’innovazione e al
miglioramento della produzione agricola, nonché alla predisposizione ed alla gestione dei servizi
utili in agricoltura. Le attività economiche prevalenti sono i servizi connessi all’agricoltura e alla
zootecnia, la produzione di prodotti per l’alimentazione degli animali e il commercio all’ingrosso di
materie prime e di animali vivi.
12. Banche di credito cooperativo (che tratteremo nel Cap. VI)
13. I consorzi di garanzia dei fidi o “confidi” hanno avuto origine con la legge quadro
sull’artigianato (Legge 25 luglio 1956, n.860) e fanno ricorso al finanziamento esterno, aiutando le
PMI ad ottenere credito anche in condizioni di difficoltà, attraverso la fornitura di garanzie
adeguate. In particolare, nascono come espressione delle Associazioni di Categoria nei comparti
dell’industria, del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura, basandosi su principi di mutualità
e solidarietà. I primi consorzi fidi, o cooperative di garanzia, vengono costituiti già nel 1956 per
facilitare l’accesso al credito alle piccole imprese e nel 1963 per iniziativa della Confartigianato, a
Roma, si costituisce la prima Cooperativa di garanzia operativa a livello regionale del Lazio (la
Cooperativa Laziale di Garanzia). Successivamente, anche grazie alle incentivazioni regionali,
vengono costituiti diversi organismi di garanzia, principalmente nell'artigianato ma anche nei
comparti della PMI e dell'industria. I Confidi sono stati recentemente sottoposti ad una nuova
disciplina (con D.L. n. 269/2003) che ridefinisce (Art. 13) la loro struttura organizzativa,
patrimoniale e gestionale, allo scopo di consentire quella solidità patrimoniale e quelle tutele
istituzionali necessarie per soddisfare i requisiti previsti negli accordi di Basilea 2. Le nuove regole
dettate dall’art. 13, oltre a dare una definizione puntuale dei Confidi e del loro ambito di operatività
ed a introdurre previsioni per tutelarne la denominazione, sono finalizzate a: riorganizzare, in un
sistema efficiente, i numerosi Confidi già esistenti; regolamentarli sotto il profilo societario e di
funzionamento. Questi interventi
miravano anche ad attribuire a tali organismi la solidità
patrimoniale e le tutele istituzionali necessarie per la valutazione del rischio da parte degli istituti di
credito e per il loro ingresso fra gli intermediari finanziari ed incentivarne la trasformazione in
123
forme giuridiche più strutturate. Nel rispetto dei principi di Basilea 2, il ruolo dei Confidi sta
assumendo un’importanza crescente anche sul fronte dell’offerta di servizi di consulenza finanziaria
collaterali, quindi nelle attività ausiliarie all’intermediazione finanziaria ed anche legali, di
contabilità, di consulenza fiscale e societaria, di assistenza commerciale e gestionale, nonché nel
campo delle ricerche di mercato e dei sondaggi di opinione.
14. Le altre tipologie di cooperative diverse da quelle descritte rientrano fra le cd. “altre”..
124
IV. LE TEORIE ECONOMICHE SULLE IMPRESE COOPERATIVE
Introduzione. L’approccio teorico alla forma cooperativa e la sua proposta scientifica da parte delle
Università è molto recente (anche se sempre più pressante314), perché la letteratura economica è
sempre stata dominata dal pensiero egemonico delle imprese di capitali315. D’altra parte, nei decenni
passati la cooperazione stessa non ha sentito il bisogno di sensibilizzare il mondo accademico; nei
tempi più recenti, invece, sta cercando una sua precisa collocazione dottrinale e nuovi strumenti
scientifici che possano consentire la sistematizzazione e l' approfondimento delle sue problematiche
morfologiche e gestionali. Questo confronto teorico è ancora più complesso considerando che
l’adozione di un modello di gestione e di governance cooperativa implica la considerazione
congiunta dei criteri di efficienza (per gli obiettivi economici) e di efficacia (per gli obiettivi
sociali), mentre nell’impresa di capitali ci si può limitare al perseguimento esclusivo dell’efficienza,
con il quale si riesce a risolvere il problema dell’equilibrio economico. In altri termini, il
raggiungimento dell’equilibrio gestionale di una cooperativa richiede il contemporaneo
perseguimento di obiettivi economici e di valori sociali, che ovviamente ampliano la complessità
operativa ed organizzativa di queste strutture: si tratta di tematiche trattate in letteratura economica
solo da recente.
In questo capitolo faremo riferimento agli approcci teorici, elaborati nel passato dagli economisti (a
volte anche occasionalmente), per tentare di interpretare il percorso di crescita dell'analisi
economica e delle teoria d'impresa che possono essere ricondotte al settore cooperativo.
Ripercorrendo la letteratura degli economisti classici (tra cui Smith, Mill, Walras) possiamo riferire
che, in realtà, si trattava di studi che avevano come obiettivo principale l'analisi dei fenomeni
macroeconomici del capitalismo (distribuzione del reddito, livello dei prezzi, ecc.) e, in nessun caso
le imprese, neppure quelle di capitali, erano oggetto di una trattazione specifica. Le teorie
economiche del periodo, infatti, studiavano esclusivamente il mercato come regolatore e motore
delle altre organizzazioni economiche e bisognerà aspettare il XX° secolo (in particolare il 1937)
perché Coase316, per primo mettesse in evidenza la teoria economica d'impresa. Allo stesso modo,
Per approfondimenti cfr. M.P. Salani, 2007.
Se si analizza con più attenzione la forma cooperativa si scopre che è un soggetto di grande potenzialità e
di diffuse attese (se non entusiasmi), come nel caso dei pensatori liberali di grande rilievo, come ad
esempio J.S. Mill.
316
Coase Ronald Harry (Londra 1910) è stato un economista inglese, vincitore del premio Nobel per
l'economia nel 1991 per “ la scoperta e la spiegazione dell'importanza che i costi di transazione e i diritti
di proprietà hanno nella struttura istituzionale e nel funzionamento dell'economia”. Coase propone una
teoria dell’impresa basata sul confronto tra costo d’uso del mercato e costo d’uso dell’impresa per il
governo di una determinata transazione.Le imprese esistono dunque perché riescono a realizzare alcune
314
315
125
dalla fine del XVIII° secolo agli inizi del XIX°, nessuno aveva fatto cenno alle imprese cooperative
che, tuttavia, rimbalzavano dalle dissertazioni in materia filosofica, ad esempio quando gli ideali
cooperativi venivano visti come i possibili prodromi di un nuovo ordine sociale.
1. Gli economisti classici: A. Smith e J.S. Mill, L. Walras e A. Marshall. Il più celebre esponente
della storia economica dell'Ottocento è stato certamente Adam SMITH (1776) che, osservando una
fabbrica di spilli (la fabbrica più celebre dell’intera storia dell’attività economica) si soffermò non
sul macchinario ma sull’organizzazione del lavoro, facendo notare che la “divisione” del lavoro
consentiva a ciascun operaio di diventare un esperto nella minuscola porzione del processo
produttivo di sua competenza. “Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo
taglia, un quarto lo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; per fare la
capocchia occorrono due o tre distinte operazioni; il montarla è un lavoro particolare e il lucidare
gli spilli un altro, mentre un mestiere a sé è persino incartarli”. Per Smith da questa
specializzazione, cioè dalla divisione del lavoro, derivava la grande efficienza dell’impresa a lui
contemporanea. Nella “Ricchezza delle Nazioni”317 aveva, anche, chiarito che la divisione
(verticale) del lavoro non esclude di per sé l’eventualità che il lavoro possa assumere il capitale
(invertendo il tradizionale ordine dei due fattori), consentendogli così di esercitare il controllo
sull’impresa. Questa assunzione seguiva ad una sua critica sulla tendenza del mercato alla
monopolizzazione che, come dimostrerà, avrebbe potuto rappresentare un rischio per lo sviluppo
economico del mercato, poiché aveva osservato che i capitalisti, pur parlando di competizione, in
realtà continuavano a cercare il sostegno dello Stato ed interventi legislativi mirati ad impedire la
libera concorrenza del mercato, attraverso dazi e regole commerciali restrittive.
317
transazioni ad un costo minore di quello associato alla contrattazione di mercato. Risparmiando questi
costi e affidando la direzione gerarchica delle risorse all'imprenditore, l'organizzazione di impresa si
caratterizza per una maggiore efficienza rispetto al mercato Per approfondimenti cfr. Coase Ronald Harry
(1960).
Weath of nations è un trattato enorme, ricco di riflessioni profonde (e sempre attuali) e scritto in una prosa
ammirevole. Con la Bibbia e il Capitale di Marx è uno dei tre libri che le cosiddette persone “colte” si
sentono autorizzate a citare, senza averli letti. L' "Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle
nazioni" è la testimonianza di Smith sui grandi cambiamenti del mercato a seguito della rivoluzione
industriale, partita dall' Inghilterra alla fine del Settecento. I tre punti essenziali del volume sono: 1. la
concezione delle forze che stimolano la vita e gli sforzi economici (cioè la natura del sistema
economico); 2. le modalità di determinazione dei prezzi e la ripartizione dei salari, del profitto e della
rendita; 3. le politiche mediante le quali lo Stato aiuta e promuove il progresso e la prosperità economica.
Per approfondimenti cfr. A.S. Smith, riedizioni nel 1778, 1784, 1786 e 1789 e in italiano Utet, Torino,
1996.
126
Fra gli altri classici, John Stuart Mill 318, osservando i risultati raggiunti dai Probi Pionieri, passava
da una iniziale avversione nei confronti delle associazioni cooperative di stampo collettivo (per
essere contrarie alla dottrina del liberismo classico, per limitare la libera concorrenza del mercato e
per violare la libertà degli individui) ad un’adesione quasi entusiastica. L’ultimo Mill, nella terza
edizione dei Principi di Economia Politica (1852), sembra abbandonare del tutto le precedenti
remore nei confronti delle associazioni cooperative, soffermandosi sulla loro gestione e sulla
conseguente capacità di rigenerare dal basso il tessuto sociale, riscattando il ruolo dei lavoratori
all’interno delle fabbriche. In altri termini, definì le cooperative “associazioni di operai” posti in
condizione di uguaglianza sotto la direzione di gerenti ed insisteva scrivendo che “se l’umanità
continua a migliorare ci si deve aspettare che la forma di associazione che alla fine prevalga, non è
quella che può esistere tra un capitalista come capo e un lavoratore senza voce alcuna nella
gestione (propria dell’impresa for profit), ma l’associazione su basi di eguaglianza degli stessi
lavoratori che possiedono collettivamente il capitale con cui essi svolgono le loro attività e che
sono diretti da manager nominati e rimossi da loro stessi319, concludendo nello stesso capitolo che
“se l’umanità intende continuare a progredire la forma predominante del fare impresa dovrà essere
quella cooperativa”. “La libertà di scelta e di autogestione” per Mill avrebbe quindi dovuto
rappresentare uno dei presupposti validi per contribuire al conseguimento della felicità umana,
perché oltre ad un certo livello di benessere, la libertà diventava un bene “superiore” che poteva
contribuire alla felicità. L’impresa cooperativa era perciò destinata a sopraffare l’impresa
capitalistica perché, prima o poi, la gente avrebbe preferito la libertà piuttosto che la sottomissione
ai proprietari dei mezzi di produzione. Il capitale doveva perciò diventare strumentale rispetto al
lavoro, e non viceversa.
In contrapposizione alla scuola classica di questi primi economisti, si collocava il pensiero del
francese Leon Walras320, uno dei tre capostipiti dell'economia marginalista (assieme a W.S. Jevons e
318
319
320
John Stuart Mill (1806 –1873) è stato un filosofo ed economista britannico. Definito da molti come un
liberale classico, la sua collocazione in questa tradizione economica è controversa per lo scostamento di
alcune sue posizioni dalla dottrina classica favorevole al libero mercato. L’opera più importante della
produzione milliana, I Principi di economia politica espongono il problema della divisione tra la
produzione e la distribuzione della ricchezza, affrontato con la fusione tra l'idea liberale e quella socialista
della distribuzione. Mill auspica che il criterio utilitaristico (ereditato dal maestro Bentham ) del
“maggior benessere per il maggior numero” sia sufficiente per applicare le riforme necessarie per una più
equa distribuzione della ricchezza. Per approfondimenti cfr. Mill J.S., 1848 e in italiano Utet, Torino,
1983.
Per approfondimenti cfr. PJ. S .Mill, 1952 (terza edizione).
Marie Esprit Léon Walras (1834- 1910) considerato da Joseph Schumpeter "il più grande di tutti gli
economisti", è stato il fondatore della scuola economica di Losanna, diventata famosa sotto la guida del
suo discepolo italiano, l'economista e sociologo, Vilfredo Pareto. .
127
C. Menger) e "padre" della prima formulazione completa della teoria sull' equilibrio economico
generale dello scambio e della produzione321. Partendo dalla teoria del valore, ossia dal principio
della determinazione dei prezzi in base all' utilità marginale322 (rareté), arrivò a dimostrare che, in
condizioni di concorrenza perfetta, è possibile determinare un sistema di prezzi d’equilibrio, che
può consentire di raggiungere l’eguaglianza tra la domanda e l'offerta in tutti i mercati, nonché
l’eguaglianza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita per ciascun bene e per ciascun
imprenditore323. Con questa ipotesi, veniva eliminato il mistero della cd. “mano invisibile” proposto
da Smith e dai classici, in cui l’equilibrio del mercato si raggiungeva in due stadi, ossia con la
dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio e poi con la dimostrazione del modo per
raggiungerlo attraverso l'intervento pubblico. Con Walras324 i due stadi diventavano uno solo e la
dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio incorporava anche il come arrivarvi, con la
conseguenza che la “mano invisibile” non era più necessaria. Nel corso dei suoi studi, a cavallo fra
la filosofia morale e l' economia, dedicò ampio spazio anche al nascente movimento cooperativo in
Francia e in Europa e dai suoi scritti325 emerse un atteggiamento favorevole nei confronti di questa
categoria d'impresa, specie quando intravide in questa forma associativa una modalità produttiva
avanzata e del tutto innovativa, capace di combinare capitale e lavoro in modo da permettere una
distribuzione delle risorse favorevole alla classe dei lavoratori. Le associazioni popolari
(denominazione iniziale delle cooperative francesi) furono da lui identificate come la migliore
formula per “portare i lavoratori alla proprietà del capitale attraverso il risparmio”.
Alfred MARSHALL326, padre della teoria dell’equilibrio economico parziale327 è una figura chiave
321
322
323
324
325
326
327
Walras fu il primo economista ad esporre la funzione di domanda delle preferenze individuali del
consumatore.
L'utilità marginale è l'incremento di utilità conseguente ad un aumento nel consumo di uno dei beni: con
questa definizione Walras fornisce la prima completa e coerente teoria dello scambio fondata sulla
funzione di utilità marginale di ciascun soggetto rispetto a ciascun bene. Con Walras l'utilità marginale
diviene così il punto di partenza per la teoria dell'equilibrio economico generale.
A questo proposito affermerà che “certamente il capitalismo postula e garantisce il libero mercato ma
non è vero il contrario”, come dimostrerà, a livello teorico, con il suo modello dell’equilibrio economico
generale. Per approfondimenti cfr. Walras L., 1847.
Walras L., 1847 ; tradotto in inglese 1854, 1899 (4th ed).; 1926 ( rev ediz.); 1896 ; 1898.
Per approfondimenti cfr.Walras L., 1865.
Alfred Marshall (1842 –1924) si laureò in matematica all'Università di Cambridge dove successivamente
proseguì la carriera accademica, divenendo professore di politica economica (nel 1868). E’ stato uno dei
più influenti economisti del suo tempo. Negli anni Settanta scrisse alcuni trattati sul commercio
internazionale e sui problemi del protezionismo. Nel 1879 buona parte di tali lavori fu assemblata in un
unico testo intitolato The Pure Theory of Foreign Trade: The Pure Theory of Domestic Values(Teoria
pura del commercio estero: teoria pura del valore nazionale) e, sempre nello stesso anno, pubblicò,
insieme alla moglie Mary Paley Marshall, il testo The Economics of Industry (Economia industriale).
Marshall desiderava migliorare le basi matematiche dell'economia, rendendola una scienza rigorosa senza
però che la matematica complicasse troppo l'economia, rendendola non fruibile per il profano. Pertanto
128
per comprendere il ruolo economico della cooperazione nel tentativo di conciliare l'analisi
marginalista con quella classica. Studiò, infatti, l'equilibrio di mercato di un bene 328 proponendo
l'importante idea che l'aggiustamento verso l'equilibrio avveniva in modi diversi a seconda del
tempo a disposizione delle imprese per ristabilire tempi e quantità. Poi riprendendo le teorizzazioni
di J.S. Mill pose in luce da un lato, la possibilità dell’impresa cooperativa di formare unioni
eccellenti e, dall’altro, la sua capacità di stimolare il pieno utilizzo delle capacità lavorative degli
individui, mettendo in evidenza il potenziale potere emancipativo delle cooperative nei confronti
delle classi operaie. In particolare nel piccolo e molto poco noto saggio intitolato Cooperation329
(1889) egli approfondiva due punti di forza330 dell’impresa cooperativa: 1) la capacità di favorire la
“formazione di esseri umani eccellenti”; 2) la facoltà di concorrere alla piena utilizzazione della
capacità di lavoro degli individui. Sulla base di questi elementi sosterrà che, nel lungo periodo,
l’impresa cooperativa avrebbe potuto soppiantare l'impresa lucrativa e rimanere la forma produttiva
dominante. Questa sua deduzione si basava sulla constatazione che il modello produttivo
capitalistico era fondato sullo spreco e, in particolare, sullo spreco del lavoro perché creava
disoccupazione ossia un ingente inutilizzo di risorse umane. Di conseguenza, nel lungo periodo, le
imprese che, per una ragione o per un’altra, non avrebbero potuto garantire livelli di occupazione
ottimali, sarebbero state automaticamente sostituite da quelle che avrebbero saputo rimpiazzare le
risorse sprecate331. Concludendo, nel futuro la società si sarebbe ribellata allo spreco del capitale
umano, attraverso la sostituzione delle tradizionali tipologie d’impresa. Accanto a queste
peculiarità, certamente favorevoli al settore cooperativo, enuncerà un importante punto di debolezza
delle cooperative, sintetizzabile nella carenza di leadership della sua dirigenza, ossia con
l'osservazione della mancanza di una gestione manageriale (il maggiore punto di forza dell’Impresa
capitalista), ancora oggi elemento di criticità delle imprese cooperative.
328
329
330
331
semplificò i suoi scritti in modo da renderli comprensibili a tutti ed espose le formule matematiche delle
sue teorie in nota e in appendice.
Marshall raggiunse l'equilibrio di mercato di un bene mediante l'intersezione di una curva di domanda,
(derivata dalle preferenze dei consumatori) ed una di offerta (costruita sulla base della tecnologia delle
imprese).
Il suo libro più famoso, alla base dell'economia politica neoclassica rimane il testo dei Principi di
economia (1890), dove espone in maniera coerente i concetti di domanda e offerta, utilità marginale e
costo di produzione.
Per approfondimenti cfr. Marshall A., 1889.
Nella cooperativa, infatti, il lavoratore non produce per altri ma per se stesso e ciò libera enormi capacità
di lavoro scrupoloso e di più alto livello, che il capitalismo comprime. Aveva anche osservato che nella
storia del mondo vi è un fattore, tanto più importante di tutti gli altri, che ha diritto di essere chiamato il
prodotto sprecato: le migliori capacità lavorative di gran parte delle classi lavoratrici.
129
2. L’approccio di C. Marx alle cooperative. J. Stuart Mill, come anzidetto, aveva dato risalto
all’associazionismo (considerato un miglioramento del benessere umano), per la sua capacità di
poter transitare pacificamente da una lotta di classe332 ad una amichevole collaborazione,
consentendo il perseguimento di un bene comune a tutti. Queste considerazioni colpirono Marx che
iniziò a credere che la nascita delle cooperative avrebbe potuto consentire la fine del capitalismo e
l’avvio di un nuovo sistema di produzione, con imprese autogestite dai lavoratori (sistema da lui
auspicato), per togliere ai padroni la facoltà di sfruttare il lavoro altrui.
E, per qualche tempo, Marx sembrò effettivamente convinto che le cooperative avrebbero potuto
soppiantare le imprese di capitali. Si trattava delle cooperative di produzione, organizzate in modo
che i lavoratori potessero diventare “i capitalisti di se stessi” e dove, di conseguenza, i proprietari
del capitale non avrebbero più avuto il potere assoluto di decidere sull’attività produttiva, poiché
l’impresa sarebbe stata regolata dalla democrazia economica. I principi di democrazia e di
uguaglianza tra i lavoratori che regolavano le cooperative, diventeranno per lui i necessari
presupposti per poter creare una valida alternativa alle imprese di capitali; in realtà, si trattava di
tematiche ricorrenti in quel periodo, che rimaneva caratterizzato dalla generale speranza di una
nuova società, che avrebbe dovuto abolire ogni forma di proprietà privata e l’alienazione dal lavoro
industriale333. Ma, a partire dalla metà del 1870, il movimento cooperativo inizierà a registrare una
serie di fallimenti, interpretate da Marx come l’incapacità dei lavoratori di gestire le imprese e causa
del suo abbandono degli studi e dell'interesse verso le imprese cooperative. Quest'ultimo
orientamento influenzerà, nel periodo successivo, anche i suoi seguaci tanto che i marxisti hanno
sempre dedicato poca attenzione e scarsa fiducia al movimento cooperativo.
3. Il Marginalismo. Questa corrente del pensiero economico (sviluppatasi tra il 1870 e il 1890)
nonostante l' iniziale posizione di neutralità nei confronti del comparto cooperativo, come vedremo
ha poi dato un contributo all'analisi economica del movimento cooperativo. La teoria dell’equilibrio
economico dei marginalisti334 (di cui Walras e Pareto sono stati tra i sostenitori più noti) teorizzava
332
333
334
Il mercato a lui contemporaneo era gestito dalle corporation,,centralizzate e autocratiche, dove i
lavoratori venivano sottomessi ad una organizzazione gerarchica, in cambio di un salario certo.
Marx denuncia l'alienazione del lavoro industrializzato che influenza il rapporto dell'operaio con il
prodotto del suo lavoro, un prodotto a lui estraneo, che non gli appartiene mentre è di esclusiva proprietà
del capitalista per il quale lavora. Con l'alienazione dal lavoro l'uomo é privato anche del suo benessere
sociale. Per approfondimenti cfr. Manoscritti economico-filosofici, 1844.
La metodologia marginalista (a differenza di quella classica che ritiene fondamentale lo studio della
crescita) incentra la sua analisi sull'equilibrio e sulla ricerca di una metodologia per l'efficiente
130
gli “ottimi” paretiani, ossia un’unica posizione di equilibrio in mercati in concorrenza perfetta, un
equilibrio economico naturale raggiunto in maniera “meccanica” che avrebbe potuto consentire di
raggiungere il massimo benessere sociale, indipendentemente dal contesto istituzionale, dalle
strutture produttive e dalle categorie di impresa operanti. In altre parole, il marginalismo si occupa
di individuare le scelte ottime dei soggetti economici, assumendo un atteggiamento di indifferenza
nei confronti della tipologia di azienda prevalente sul mercato. Questa posizione di neutralità verrà
successivamente ribaltata da un rappresentante italiano del marginalismo, ossia da M. Pantaleoni335
ed ancora più dal suo allievo Vilfredo Pareto336, più conosciuto come il padre del principio “80/20”
sintetizzabile nell'affermazione: “la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di
cause337“ (sulla base della legge dei grandi numeri). L'impostazione teorica paretiana era fondata
sul tentativo di trasferire il metodo sperimentale delle scienze fisiche nella scienza economica, con
il conseguente uso della matematica, approccio che ha poi dominato tutto il Novecento. Il principio
base della moderna economia del benessere è, infatti, l'ottimo paretiano 338 e con Pantaleoni sostiene
che democrazia339 ed uguaglianza non sono di esclusivo appannaggio delle cooperative perchè
possono essere conseguite in tutte le strutture economiche, a prescindere dal settore di
appartenenza. L' incapacità di Pantaleoni e Pareto di evidenziare il connotato democratico come
specificità della formula cooperativa sarà successivamente interpretata quasi come una sorta di
335
336
337
338
339
allocazione delle risorse. A titolo esemplificativo, veniva supposto che “se la società è organizzata
razionalmente, il salario deve sempre e comunque essere eguale alla produttività marginale del lavoro”.
Maffeo Pantaleoni (1857-1924), economista ed uomo politico italiano (senatore viene nominato
presidente del Comitato per le Economie nel 1923 ), aderì alla teoria marginalista del valore e si rifece ai
teorici dell’utilità marginale. Occasionalmente si fa riferimento a lui come il Marshall italiano per la sua
accanita difesa della politica economica del laissez-faire. Il suo primo lavoro sulla "Teoria della pressione
tributaria" ed i "Principi di economia pura" (1889, tradotti in varie lingue), sono opere magistrali che
segnano passi decisivi nel campo della scienza economica. Gli "Scritti vari di economia" contengono
invece saggi storici, di economia pura, di sociologia generale, di economia applicata e di finanza. Per
approfondimenti cfr. Pantaleoni M., 1882; 1884; 1889; 1898; 1925.
Vilfredo Pareto (1848-1923) dopo un periodo trascorso come ingegnere straordinario presso la Società
anonima delle strade ferrate (a Firenze) divenne (nel 1880) direttore generale della Società delle ferriere
italiane (a San Giovanni Valdarno) e frequentò i circoli culturali fiorentini. Con articoli su riviste italiane
e europee partecipò poi al dibattito politico sulle posizioni economiche liberiste ed anti-protezionistiche.
Nel 1890 collaborò al “Giornale degli economisti”, testata acquistata da Pantaleoni assieme ad alcuni
amici, la massima rivista scientifica di economia ed anche la più signifixcativa e prestigiosa dell'epoca.
Nel 1894 fu nominato professore ordinario di economia politica all'Università di Losanna, dove prima di
lui aveva insegnato Léon Walras.
L’affermazione deriva dalla sua osservazione della curva di distribuzione del reddito caratterizzata dal
fatto che man mano che aumenta il reddito il numero dei percettori diminuisce.
L'ottimo paretiano cioè non tanto una situazione in cui l'utilità della società è massima quanto una
situazione in cui non è possibile migliorare la condizione di un individuo senza peggiorare quella di un
altro.
Secondo Pareto la democrazia intesa come governo popolare è solo un "pio desiderio" poiché
clientelismo e consorterie non sono, infatti, una degenerazione della democrazia ma la sua realtà
perchè“…ci sarà sempre chi, stringendo un patto con le élites al potere, ne trae personale beneficio a
scapito degli altri”. Per approfondimenti cfr. Pareto V., 1897; 1902; 1906; 1921.
131
debolezza di questo segmento produttivo, che ha però dato lo spunto per l'avvio di un filone
autonomo di studi economici sulla cooperazione.
3.1. Il modello teorico di Ward. B. Ward (1958) costruì il primo schema di riferimento teorico per
esprimere il comportamento dell’impresa cooperativa. e, in un noto articolo argomentò: “mentre
l’impresa capitalistica tende a massimizzare il profitto totale, l’impresa cooperativa (o autogestita)
tende a massimizzare il reddito medio per ciascun lavoratore”. La sua riflessione si sofferma in
particolare sulle cooperative di produzione”, ossia sulle imprese controllate interamente dai
lavoratori (escludendo a priori le altre categorie), che perseguono l’obiettivo di massimizzare il
surplus del lavoratore. I risultati analitici di Ward si riferiscono ad un mercato in concorrenza
perfetta e al breve periodo, in cui opera un’ impresa con le seguenti caratteristiche: 1. produce,
ceteris paribus, un più basso ammontare di output (rispetto all’impresa capitalistica); 2. presenta
una funzione di offerta inclinata negativamente (“perversa”); 3. di conseguenza, assume un
comportamento atipico, cioè ad un aumento dei costi fissi aumenta la produzione340 mentre a fronte
di una diminuzione dei costi fissi diminuisce la produzione341 Questi vincoli sono applicati sotto
l’ipotesi che l’input lavoro sia la variabile di scelta dell’impresa cooperativa (e che il lavoro
coincide con la “base sociale”); in altri termini e secondo le classiche assunzioni marshalliane, il
capitale è fisso e il fattore lavoro è variabile.
Nel rispetto di queste condizioni preliminari, nel modello teorico di Ward la cooperativa riesce a
realizzare i seguenti risultati:
1. L’impresa cooperativa produce un ammontare di produzione
inefficiente in senso allocativo (viola l’eguaglianza tra prezzo e
costo marginale);
_
340
341
2. reagisce in modo perverso agli shock di mercato.
Ne deriva che, a seguito di un aumento del costo del capitale, si registra l’aumento dell’offerta
dell’impresa e dell’occupazione, per la convenienza della cooperativa a ripartire i maggiori costi su un
numero più alto di lavoratori.
Quindi, a seguito di un aumento del prezzo del prodotto si ha la riduzione dell’offerta dello stesso: nei
periodi di espansione del mercato i soci dell’impresa avranno, infatti, convenienza a ridurre il numero dei
lavoratori, allo scopo di aumentare il loro reddito medio. Per approfondimenti cfr.Zamagni S., 2006.
132
Ma ad una verifica empirica le cooperative tendono a trattare il fattore lavoro come fisso nel breve
periodo e ad adeguare i redditi alle fluttuazioni del prezzo e della quantità domandata del prodotto. I
risultati analitici del modello di Ward non sono perciò verificabili da un punto di vista operativo e in
ciò il limite del modello (nel breve periodo il fattore lavoro cooperativo non è fisso). Nonostante
questa limitazione, la teoria economica di Ward sul settore cooperativo ha contribuito ad avviare un
gran numero di ricerche che metteranno in luce le molte differenze tra cooperative ed imprese di
capitali. Fra queste, degno di nota il recente contributo di Hansmann (1996), che tenta di precisare
la distinzione tra cooperative, società per azioni342 ed enti no profit343 e perviene alla conclusione
che la cooperativa, rispetto all’impresa di capitali, si caratterizza per l’attribuzione dei diritti di
proprietà ai lavoratori (e non ai detentori del capitale di rischio344). Giunge perciò alla conclusione
che, nel mercato moderno, esistono due tipologie di imprese alternative alla tipica società per
azioni: la cooperativa e l'impresa no profi, sebbene ci siano delle imprese (non pure) che presentano
un mix caratteriale proprio dell’una e dell’altra tipologia. Il capitalismo, comunque, è quella
particolare forma di proprietà che trova la sua legittimazione nel principio e nel rispetto
dell’efficienza del mercato, mentre l’impresa cooperativa trova la sua giustificazione nel valore
della libertà dell’uomo. E' proprio Hansmann a dimostrare che la presenza delle cooperative è
superiore nelle economie più capitalistiche e più ricche mentre non sono molto diffuse nelle
economie o nei settori sottosviluppati.
4. La letteratura economica cooperativa in Italia. Il movimento cooperativo italiano ha tratto
molti stimoli dalle esperienze europee, per iniziativa di un’ampia cerchia di intellettuali, appartenenti
al mondo dell’accademia e delle professioni345. Fra questi, Mazzini346, Wollemborg347, Luzzatti348 e
342
343
344
345
346
347
348
La distinzione tra una cooperativa e una società per azioni è che la proprietà di una cooperativa è riservata
a tutte le persone che trattano con l’impresa (ad esempio consumatori o venditori), mentre la seconda è di
esclusiva proprietà dei soci di capitale.
Un ente no profit, contrariamente alle altre due categorie al contrario, non appartiene a nessuno.
Infatti, a ben vedere una società capitalistica è una cooperativa di persone che forniscono capitale
all’impresa, cioè una cooperativa di capitalisti. Per approfondimenti cfr. Hansmann H., 2006.
Per approfondimenti cfr. Museo virtuale della cooperazione (www.movimentocooperativo.it)
Giuseppe Mazzini (1805-1872) è stato un patriota, politico e filosofo italiano. Come noto, le sue idee e la
sua azione politica contribuirono in maniera decisiva alla nascita dello Stato unitario italiano ed
influenzarono i movimenti europei per l'affermazione della democrazia realizzabile attraverso la forma
repubblicana dello Stato.
Leone Wollemborg (1859–1932) economista e politico contribuì notevolmente (alla fine dell'Ottocento)
alla diffusione in Italia dell'idea cooperativa .
Luigi Luzzatti (1841–1927) giurista ed economista italiano e Presidente del Consiglio dei Ministri (dal
133
Viganò, appartenenti alla corrente liberale, che proporranno le cooperative come una valida
alternativa al capitalismo, per la loro capacità intrinseca di conciliare capitale e lavoro e realizzare
una sorta di giustizia sociale349 (come avevano già pensato gli economisti classici). Mazzini350, ad
esempio, per salvaguardare l'economia e allo stesso tempo per tutelare i più poveri, puntava sul
lavoro cooperativo perché poteva consentire all'operaio di rinunciare al dividendo in cambio della
"piena responsabilità e proprietà sull'impresa" e realizzare così il superamento del capitalismo
imprenditoriale classico (in senso sociale). Nella sua ottica la cooperazione non era infatti solo uno
strumento di “pacificazione sociale” (ossia di generico miglioramento delle condizioni di vita delle
masse popolari, secondo la dottrina liberale) ma assumeva la valenza di una “rivoluzione sociale”, in
stretta connessione con la formula “libertà e associazione351 ”. Le cooperative di produzione e lavoro
e quelle di consumo352 di stampo mazziniano si diffusero maggiormente in Liguria e in Toscana,
meno in Lombardia.
La grande stagione degli studi cooperativi in Italia continuò raggiungendo il suo culmine nell’età
giolittiana con Gramsci353, il grande politico e teorico marxista che puntava molto sul ruolo dei
consigli di fabbrica (organi di educazione alla gestione), come laboratori per rendere gli operai
meglio preparati all’esercizio del potere. In quegli anni in Italia le rivendicazioni salariali, rese
necessarie per la perdita del potere d'acquisto dei lavoratori per un elevato indice d'inflazione, non
trovavano accoglienza presso gli industriali, ed avevano scatenato numerose manifestazioni di
rivolta da parte della classe operaia. Tra queste, la più eclatante la serrata dell'Alfa Romeo (a
Milano nel 1920) con l'occupazione di 300 fabbriche per iniziativa di mezzo milione di operai354,
alcuni dei quali armati, seppure in modo rudimentale. Intanto alla FIAT di Torino l'operaio
349
350
351
352
353
354
31 marzo 1910 al 29 marzo 1911) è stato il fondatore della Banca Popolare di Milano e presidente dello
stesso istituto di credito (dal 1865 al 1870).
“La logica della politica è logica di democrazia e di libertà e la Repubblica garantirà l'istruzione
popolare”, per approfondimenti cfr. Mazzini G., Dei doveri dell’uomo, capitolo undicesimo, Questioni
economiche, 1860.
Mazzini sarà un avversario del marxismo dato che i socialisti ragionavano per gli interessi del proletariato
mentre in base alle idee mazziniane, era arbitrario ed impossibile pretendere l'abolizione della proprietà
privata, poiché si sarebbe dato un colpo mortale all'economia che non avrebbe più potuto premiare i
migliori.
Con questo approccio Mazzini riuscirà ad anticipare sia le più moderne teorie economiche della
distribuzione della ricchezza sia la corrente repubblicana e socializzatrice del fascismo che avrà infatti in
Mazzini uno dei suoi padri fondatori.
La cooperazione di consumo, per il suo carattere di strumento di miglioramento immediato delle
condizioni economiche dei lavoratori, fu la forma cooperativa che si diffuse più velocemente.
Antonio Gramsci (1891–1937) è stato un politico, filosofo e giornalista, considerato uno dei più originali
pensatori della tradizione marxista e fondatore del partito comunista italiano.
La Federazione Impiegati e Operai Metallurgici appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le
fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale ed estrema iniziativa potesse stimolare
l'intervento del Governo per giungere ad una soluzione delle trattative.
134
comunista Giovanni Parodi e i consigli di fabbrica decisero di impossessarsi della produzione per
tentare di dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche solo con gli operai e con l'
assenza dei proprietari355. Il fallimento di questa protesta e la necessità dell' intervento del Governo
per raggiungere un accordo salariale tra operai ed industriali, misero in evidenza l'impossibilità di
realizzare l’autogestione dei lavoratori e l'impellenza della loro formazione professionale.
5. Le moderne teorie economiche: felicità, benessere e cooperazione. La letteratura economica
tradizionale ha sempre continuato a vedere nella cooperazione una tipologia di impresa con un
ruolo di sostegno all'economia solo in particolari situazioni di crisi del mercato poiché ritenuta,
dagli economisti classici ed anche dai più moderni (tra cui Hansmann) un’azienda “meno
efficiente” dell’impresa di capitali e con meno vantaggi competitivi. Secondo questi autori legati
all'impresa profit, la mancanza dell’obiettivo prioritario del perseguimento del profitto e della sua
massimizzazione, implicherebbe un' inevitabile inefficienza dell'impresa cooperativa, relegandola ai
margini del mercato e limitando le sue possibilità di svilupparsi nel tempo. Queste congetture
saranno smentite nei tempi più recenti da un filone letterario che tenterà di dimostrare lo stretto
legame che intercorre tra economia del benessere ed efficienza della cooperazione. Queste
considerazioni scaturiscono dal seguente recente approccio, in chiave economica, alla felicità.
Nel passato, la letteratura economica dei paesi avanzati non affrontava il tema dei possibili
collegamenti tra indicatori economici e sociali, ossia non aveva tentato di interpretare la
correlazione tra la felicità degli individui (relegata ai confini della filosofia e delle scienze sociali)
ed i parametri relativi alla distribuzione della ricchezza o al livello del reddito. A livello di ricerca
scientifica inoltre, a parte alcuni sporadici approcci che non avevano condotto ad alcun risultato
teorico, era sempre stata data particolare enfasi all'aspetto prettamente quantitativo della ricchezza
delle famiglie, considerato e frainteso come il solo e diretto motivo del benessere della società.
Cerchiamo quindi di spiegare le nuove frontiere del legame fra felicità ed economia. Come
dicevamo, solo in questi ultimi anni è stato teoricamente dimostrato che la felicità degli individui
non è solamente e semplicemente correlata alla soddisfazione dei bisogni economici (strettamente
355
Alla fine di settembre un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine alla
occupazione delle fabbriche, dimostrando sia la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti che
l'impreparazione degli stessi operai ad iniziative rivoluzionarie, per i quali fu richiesta maggiore
organizzazione e disciplina.
135
dipendenti dal livello del reddito) ma anche ad altri elementi di carattere sociale, e quindi di natura
qualitativa, che contribuiscono al raggiungimento del benessere individuale356 (ad esempio il tempo
libero, l’ amicizia e la vita familiare). Si tratta di quei fattori, finora ricompresi nei modelli
economici tradizionali fra le “esternalità” del mercato (ossia fra gli elementi esogeni), che invece il
settore cooperativo ha da sempre riconosciuto come bisogni da soddisfare (come ad esempio la
certezza e la stabilità del lavoro, la solidarietà, l'inclusione sociale, ecc.), anche per potere alleviare
le inefficienze create dalle imprese di capitali e dalle multinazionali (ad es. la disoccupazione) che
hanno recentemente condotto ad un inasprimento delle disuguaglianze economiche e sociali. Tra gli
economisti che si sono recentemente accostati a questo approccio, studiando il legame tra fattori
economici e sociali357 c' è il premio Nobel A. Sen358 che, a fronte degli innumerevoli indicatori per
cogliere il nesso tra economia e benessere sociale, ha suggerito l'adozione dell’Indice di Sviluppo
Umano (ISU), un indicatore che analizza lo sviluppo economico verificando il miglioramento qualiquantitativo delle condizioni di vita359 anzichè attraverso l'esclusiva osservazione dell' aumento del
reddito (come le precedenti ipotesi sulla crescita360. Ed è proprio l'attenzione rivolta alla qualità
piuttosto che alla quantità che caratterizza gli studi di Sen361 che, partendo da un esame critico
dell'economia del benessere ricava un indice di povertà (largamente usato in letteratura sin dal
1977) ed introduce la teoria dell'eguaglianza e delle libertà362 un approccio radicalmente nuovo
allo studio del mercato. In estrema sintesi, propone di studiare la povertà, la qualità della vita e
l'eguaglianza tra i cittadini non solo attraverso i tradizionali indicatori sulla disponibilità, da parte
356
357
358
359
360
361
362
Per approfondimenti cfr. Arthur Cecil Pigou (1932) dal quale deriva il concetto di “economia del
benessere”, ossia la disciplina che studia le ragioni e le regole dei fenomeni sociali, al fine di formulare
soluzioni per poter raggiungere situazioni di ottimo benessere.
Sempre nell’ambito dell’economia del benessere, un altro approccio ha dimostrato che lo sviluppo del
reddito ha causato la riduzione dei legami familiari, quindi una perdita del benessere sociale (Lane, 2000).
In base a questa teoria, man mano che il livello di reddito di una nazione è cresciuto, soddisfacendo
sempre più la domanda di mercato di beni/servizi, ha contemporaneamente provocato il deterioramento
delle relazioni interpersonali, perché la crescita della competitività e del tempo da dedicare al lavoro ha
ridotto il tempo da dedicare ad altre attività personali.
Amartya Kumar Sen (1933) è un economista indiano che ha ricevuto il Premio Nobel per l'economia nel
1998 per aver adottato un approccio teorico allo sviluppo economico che ha definitivamente superato i
limiti delle precedenti analisi sulla crescita economica.
L’ISU da lui calcolato a livello mondiale, che sintetizza le tre dimensioni del benessere umano (reddito,
istruzione e salute), è risultato più alto nei paesi con bassi redditi ma con alti livelli di scolarizzazione e
minori tassi di mortalità infantile rispetto ai paesi con redditi pro-capite molto più elevati (nell’ultimo
decennio l’ISU è cresciuto in tutti i Paesi in via di Sviluppo, ad eccezione dell’Africa sub-sahariana,).
Il caso più eclatante si può ricondurre all’eccezionale crescita del reddito pro-capite cinese (dai 1.000 ai
6.000 dollari, corretto in termini di parità di potere di acquisto) che non è stata accompagnata da una
evoluzione del tenore di vita, perché all’esplosione economica non è corrisposto il miglioramento sociale
della popolazione.
Per approfondimenti cfr. Sen, A. K., 1970; ID., 1971.
In particolare, Sen ha proposto le due nuove nozioni di capacità e funzionamenti come misure più
consone per valutare la libertà e la qualità della vita degli individui.
136
dei consumatori, dei beni materiali (ricchezza, reddito o spesa per consumi) ma, soprattutto,
estrapolando i fattori che possono sintetizzare situazioni ed esperienze a cui l'individuo attribuisce
un valore positivo. Non solo, quindi, la possibilità di nutrirsi e di avere una casa adeguata ma anche
le condizioni imposte dalla società per essere rispettati dai propri simili, per poter partecipare alla
vita della comunità, per concedersi degli svaghi, ecc.
Partendo da queste premesse e tentando di intersecare l'economia del benessere con il recente ruolo
assunto dalle cooperative nel mercato italiano, tenteremo quindi di evidenziare le ipotesi che
sottostanno alla corrente letteraria che coglie e sostiene il contributo positivo delle cooperative al
benessere sociale intaccato, nei tempi moderni, dalle dinamiche e dalle brutture tipiche del
capitalismo. Vogliamo, cioè, fare riferimento alle seguenti situazioni:
1. il ruolo della cooperazione quando la concorrenza ha implicato una sempre maggiore
sottomissione dei lavoratori alle esigenze dei capitalisti;
2. il ruolo della cooperazione nei casi in cui il maggior livello del reddito non ha contribuito ad
eliminare o ridurre la disoccupazione;
3. il ruolo della cooperazione tutte le volte che lo sviluppo economico è stato accompagnato da
un accrescimento delle disparità economiche e sociali piuttosto che da una distribuzione del
reddito più equa .
E' facilmente dimostrabile empiricamente che le tre situazioni sopraelencate, certamente
assimilabili alle contemporanee insoddisfazioni della società moderna e causate dagli eccessi del
capitalismo, sono state stemperate (a volte tendendo a scomparire) con l'insediamento dell'impresa
cooperativa, ossia con un modello di impresa alternativo al capitalismo. Vediamo allora come si
perviene teoricamente a queste conclusioni. Anche nel passato, infatti, alcuni economisti classici
erano intervenuti sul tema degli effetti positivi della cooperazione sulla felicità (cfr. Cap. 1),
intravedendo in questa categoria produttiva una sorta di correttore degli squilibri dei mercati,
sebbene in maniera marginale e senza troppa convinzione. Il contemporaneo perseguimento degli
obiettivi economici e sociali delle imprese cooperative rappresenterà poi il punto di partenza degli
approcci teorici successivi, nella consapevolezza che il benessere dell'individuo è una commistione
tra soddisfazione economica ed individuale. A rafforzare questa ipotesi aveva anche contribuito, a
suo tempo, la divergenza tra la teoria filosofica del materialismo 363 (per il quale l’individuo si
363
Il materialismo è la concezione filosofica per la quale l'unica realtà è la materia e tutto deriva dalla sua
continua trasformazione; ciò sostanzialmente vale a dire che tutte le cose hanno una natura materiale,
ovvero che il fondamento e la sostanza della realtà sono materiali. Il maggiore esponente delle teorie
materialiste C. Marx sosteneva che in realtà le modalità di produzione potevano condizionare, in vario
137
realizzava di più se gratificato dal lavoro, piuttosto che soddisfacendo la propria domanda di beni di
consumo) e la corrente del liberismo economico (in base alla quale rimaneva prioritaria una certa
disponibilità economica per soddisfare l’acquisto dei beni di consumo). La disputa tra i sostenitori
della felicità individuale nei momenti liberi dal lavoro e della felicità individuale intrinseca allo
svolgimento del lavoro per raggiungere una maggiore disponibilità economica (la moderna teoria
della personalità) è sopravvissuta fino ai nostri giorni364.
Passando alle interpretazioni successive, degno di nota può essere il riferimento a Keynes365 che in
base alla sua visione non materialista della personalità, considerava la felicità individuale correlata
ai momenti più intimi della attività umana (es. lo studio, gli hobby, le attività artistiche, ecc.). Ne
conseguiva che l’uomo si realizza soprattutto nel tempo libero o meglio, durante lo svolgimento di
questa attività più nobili (es. rapporti di amicizia): da questa convinzione scaturiva la sua critica al
capitalismo, visto come un sistema basato sull’egoismo (poiché l’intensità e la durata del lavoro non
erano scelti liberamente né dai lavoratori né dai datori di lavoro, ma sottoposti alle condizioni di
competitività dell’impresa366) e il suo avvicinamento al socialismo367. Il ritmo di lavoro imposto
dall’impresa di capitali creava, infatti, una condizione lavorativa di sfruttamento dell' operaio che
solo una gestione democratica dell’impresa avrebbe potuto ridurre, ossia l’unica organizzazione del
lavoro che prevedeva la libera scelta del lavoratore tra orario di lavoro e tempo libero. Da questa
osservazione discendeva che le cooperative, essendo basate su di una gestione che non richiedeva
uno sforzo esasperato del singolo lavoratore, creavano un ambiente meno competitivo, evitando ai
lavoratori di doversi sacrificare oltre un livello normale. Di conseguenza, nelle imprese di capitali si
364
365
366
367
modo, la vita sociale e spirituale dell’uomo.
In base ai processi evolutivi, tra l’altro, il successo e la felicità non nascono da comportamenti tendenti
alla massimizzazione del piacere ma dall’apprezzamento degli altri, che deriva da un lavoro ben fatto. Di
conseguenza, in base a questa teoria che dà importanza ai beni relazionali (come anche Marx), la felicità
umana derivava da una buona organizzazione dell’attività produttiva (da scelte collettive) piuttosto che
dal consumo (scelte private).
John Maynard Keynes (1883–1946), considerato il padre della moderna macroeconomia, ha dato origine
alla "rivoluzione keynesiana" che, in contrasto con la teoria economica neoclassica, ha sostenuto la
necessità dell'intervento pubblico nell'economia con misure di politica monetaria. Le sue idee sono state
sviluppate e formalizzate nel dopoguerra dagli economisti della scuola keynesiana.
La convinzione che l’uomo deve essere libero di scegliere tra lavoro e svago, sapendo ovviamente che
solo il lavoro consente di guadagnare, verrà poi collegata alla convinzione che il lavoro fatto alle
dipendenze altrui rende il lavoratore non molto diverso da uno schiavo.
Il rapporto tra Keynes e Marx è stato controverso e il primo giudicò sempre Marx e la sua dottrina in
maniera molto critica. Nel criticare il liberismo economico, Keynes nel volume La fine del laissez-faire
(1926) osserva, infatti, che i principi del laissez-faire hanno potuto avere successo tra i filosofi e le masse
per la qualità scadente delle correnti alternative: da un lato il protezionismo e dall'altro il socialismo di
Marx: “.....una dottrina così illogica e vuota che non si sa come possa aver esercitato un'influenza così
potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia." (Keynes, 1926).
Per approfondimenti cfr. John Maynard Keynes, 1991.
138
lavorava di più e si guadagnava di più, ma a scapito del tempo a disposizione del singolo per poter
godere e produrre beni relazionali, mentre il lavoro richiesto nelle imprese a gestione democratica
concedeva al lavoratore più ampi margini di libertà.
Passando al secondo aspetto, è stato dimostrato che la gestione democratica delle imprese ha
favorito (e continua a farlo) la riduzione della disoccupazione, una conseguenza del capitalismo e
causa di inefficienza del mercato produttivo. Fra gli obiettivi del settore cooperativo rientra, invece,
la salvaguardia del posto di lavoro e, in caso di difficoltà e di crisi dell’impresa, il tentativo di
salvare l'azienda e di mantenere il posto di lavoro, creando rapporti più stabili fra lavoratori ed
imprese e rafforzando il loro personale senso di appartenenza ad una struttura produttiva. Questa
peculiarità di tutto il segmento cooperativo, in controtendenza rispetto all' andamento dell'impresa
profit, è dimostrabile osservando i dati sull’occupazione che, negli ultimi anni, hanno registrato
(come visto in precedenza) un andamento divergente rispetto alla media delle altre categorie
d'impresa. Le cooperative hanno sempre dimostrato, infatti, specie in situazioni di crisi
generalizzate dei mercati, di poter garantire l' occupazione. E questo è stato confermato anche
recentemente, in occasione dell'ultima crisi economica mondiale scatenata lo scorso anno dal
dissesto finanziario statunitense (dopo il fallimento di Lehman Brothers) e propagatosi in tutto il
mondo. Ancora una volta le più recenti statistiche ufficiali disponibili hanno denunciato, infatti, che
i licenziamenti in corso (alla fine del 2008 la disoccupazione potrebbe lievitare dall' 8,3% al 9,5%,
vale a dire al massimo livello dal 2000) provengono dal comparto delle imprese di capitali, le più
esposte e condizionate dai modelli di gestione basati sull’efficienza e quindi obbligate ad affrontare
la crisi con la chiusura di molti stabilimenti e la riduzione dei dipendenti. Di contro, le imprese
cooperative sono state le uniche che, nel peggiore dei casi, hanno mantenuto una situazione
stazionaria, confermando di essere un segmento produttivo che “non fallisce” e non “licenzia” ed
anzi contribuisce al benessere locale del mercato di insediamento ed alla tutela del mercato del
lavoro.
La crescita delle disparità nella distribuzione del reddito, infine,
ha ampliato nel tempo le
differenze economiche tra le nazioni e tra le classi sociali di uno stesso mercato e, naturalmente
sono sempre stati i più poveri a pagarne le conseguenze, senza trascurare che forti disuguaglianze
economiche368 potrebbero, a loro volta, generare in tensioni sociali ed azioni criminali. A questo
proposito, è
stato empiricamente dimostrato che democrazia economica ed autogestione dei
lavoratori (con conseguente perdita di ogni potere da parte dei capitalisti) potrebbero permettere di
conseguire una migliore distribuzione del reddito, dato che in economia “quanto più democratica è
368
Per J.S. Mill ,ad esempio, nel capitalismo le disuguaglianze sociali avrebbero potuto essere alleviate
dall’intervento pubblico ma, a ciò, si erano fortemente opposti i condizionamenti politici che i capitalisti
avevano esercitato sulla gestione della cosa pubblica.
139
la società, tanto più egualitaria tenderà ad essere la distribuzione del reddito369”.
Concludendo, la cooperazione e la gestione democratica delle imprese potrebbero, teoricamente ed
empiricamente, lenire alcune cause di infelicità umana indotte dal capitalismo e dalla competitività
sempre più agguerrita tra multinazionali anche se con dei costi, quelli della democrazia. Questi costi
derivano anzitutto dal fatto che nelle imprese democratiche i lavoratori hanno “voce”
nella
direzione aziendale e ciò potrebbe mettere i soci cooperatori gli uni contro gli altri, dando luogo a
continui tentativi di capovolgere o di allungare i tempi per le decisioni aziendali, specie se per
iniziativa di una minoranza particolarmente attiva, tanto da ostacolare il raggiungimento del
consenso. Inoltre, tra le imprese di capitali il vantaggio competitivo si è finora basato
prioritariamente sul crescente interesse rivolto alla produttività del lavoro ed al suo livello,
facilmente identificabile e precisamente misurabile, mentre le cooperative rimangono caratterizzate
da una spiccata tendenza alla omogeneizzazione (massificazione) delle prestazioni lavorative, nel
senso che comportano una valutazione indistinta dei risultati raggiunti, senza la percezione
dell’apporto di ciascun lavoratore370 al risultato finale, con la conseguenza di indurre il singolo ad
uno scarso stimolo a fare di più e meglio degli altri (cioè ad una scarsa produttività). Anche questo è
un costo figurato per il settore cooperativo nel suo complesso poiché, nei tempi più recenti, ha
condotto le cooperative ad avere una dirigenza caratterizzata da scarsa managerialità e bassa
leadership (come aveva già evidenziato Walras)..
Alcune considerazioni conclusive. Con l’affermarsi della globalizzazione, che è causa ed effetto di
un significativo cambiamento dei processi di produzione e delle prassi commerciali , ci sono state
ripercussioni nella teoria economica cooperativa di cui attualmente si dispone?
Per quello che interessa queste argomentazioni, per globalizzazione si deve intendere il progressivo
ampliamento delle dimensioni dei mercati mondiali, a seguito dell’abbassamento dei costi di
trasporto, di comunicazione e dell'informazione in genere ed alla progressiva eliminazione delle
barriere tariffarie, anche a seguito dell' ampia diffusione della tecnologia informatica. A questo
ampliamento ha altresì contribuito l’espansione dei mercati finanziari che, consentendo movimenti
di capitale molto rapidi da un paese all’altro, ha generato una sempre maggiore integrazione
monetaria tra i diversi paesi. In questo contesto evolutivo le imprese cooperative hanno affrontato il
cambiamento nel rispetto delle loro tradizioni e del loro sistema valoriale, cioè mantenendo
369
370
Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2007.
Se si fa meglio in cooperativa non si guadagna di più personalmente ma si porta a contributo di tutti gli
altri lavoratori
140
l’equilibrio fra le leggi del mercato globale e la difesa dell’identità cooperativa. Ma, in questa
competizione globale che sta esaltando, prioritariamente, i valori individuali ed i comportamenti
opportunistici a scapito dell'etica aziendale e dei valori e dei diritti della collettività, esiste uno
spazio per la forma cooperativa? In altri termini, è possibile conservare e difendere i valori
cooperativi (democrazia e libertà, per esempio) nella nuova competizione globale?
Dalla moderna teoria economica cooperativa è possibile dedurre alcuni elementi utili per dare
qualche risposta. Intanto, la possibilità di salvaguardare il sistema valoriale del movimento
cooperativo è legata alla consapevolezza che oggi questi valori potrebbero essere dei veri vantaggi
comparati, in grado di accrescere la competitività di imprese e mercati. Oggi, infatti, si chiede
sempre più al mondo imprenditoriale di legittimare l’attività d’impresa non solo in base al
perseguimento del profitto ma, anche, in relazione al rispetto di un comportamento etico, ossia alla
possibilità e capacità di poter spiegare le modalità con cui il profitto è stato realizzato, risultato che
si può raggiungere solo se si riesce a coniugare la logica del profitto con un complesso di regole
“etiche”, che esprimono i bisogni del mercato e le istanze sociali. E per il settore cooperativo questi
valori coincidono con la gestione aziendale, cioè con le relazioni che, quotidianamente, la
cooperativa stabilisce al suo interno e nei confronti degli interlocutori (stakeholder371), influenzando
tutti i momenti decisionali372.
La sempre maggiore diffusione dell'economia della conoscenza, poi, è diventata sempre più la
discriminante della competizione e questo orientamento avvicina sempre più la tradizione
cooperativa con i mercati. Ne consegue che, nell'attuale mercato globalizzato, il sistema identitario
cooperativo e, in particolare i principi, le reti tra imprese e la fiducia condivisa opportunamente
valorizzati, possono rappresentare dei punti di forza straordinariamente efficienti per veicolare
l’attuale governance della conoscenza373. Infine, se la globalizzazione è riuscita a creare tanta
convergenza tra i sistemi economici, nel più lungo periodo i due modelli di impresa potranno
continuare a coesistere all’interno del mercato? La risposta maggiormente accreditata fa riferimento
al fatto che la globalizzazione, generando un confronto diretto tra le regole del gioco stabilite dai
diversi Governi, dovrebbe condurre ad una sempre maggiore concorrenza tra i sistemi produttivi,
facilitando la contemporanea operatività di tutte le diverse categorie di impresa374.
371
Si tratta degli interlocutori locali dell'azienda, ossia delle organizzazioni e delle altre istituzioni che hanno rapporti
di vario tipo con l'azienda. Per approfondimenti cfr. Freeman, 1993.
372
Basti pensare, ad esempio, alla mutualità cooperativa (interna ed esterna), alle stringenti relazioni con
l’ambiente sociale e territoriale ed alla logica intergenerazionale per comprendere le ragioni e per
affermare i tratti della specificità (diversità) cooperativa
L’economia della conoscenza può consentire di contribuire alle strategie di crescita di imprese e mercati
attraverso la trasmissione delle conoscenze in termini di istruzione, formazione, ricerca e sviluppo. Per
approfondimenti cfr. Foray D., 2000; Rullani R., 2006.
Per approfondimenti cfr. Zamagni S.-Zamagni V., 2008.
373
374
141
IV. L’ ANTICAPITALISMO DELLE IMPRESE COOPERATIVE
Introduzione. La letteratura corrente e l’esperienza economica hanno mostrato che il mercato non
si identifica solamente con le imprese di capitali ma anche con forme aziendali diverse, tra le quali
l’impresa cooperativa che persegue, come si è detto ripetutamente, una logica diversa dalla
massimizzazione del profitto. E’ perciò importante conoscere il rapporto fra l’impresa capitalistica e
la cooperativa all’interno del mercato.
Il mercato è propriamente il luogo dello scambio ed esiste da quando esiste la civiltà umana ma, ciò
non significa che l’economia di mercato sia sempre esistita, cioè un sistema in cui la distribuzione
della ricchezza prodotta dalla società avveniva prevalentemente attraverso lo scambio. Prima
dell’età moderna, infatti, la produzione e la distribuzione avvenivano con il baratto ed attraverso
regole dettate da consuetudini dettate dalla comunità e/o dall’autorità politica, mentre lo scambio di
merci contro moneta si è affermato con l' affermazione della logica dell’impresa capitalistica. In
altri termini, il mercato come luogo dello scambio esiste da sempre, cioè da quando esiste la civiltà
umana, mentre l’economia di mercato, in cui la distribuzione della ricchezza è sottoposta allo
scambio si è affermata con il capitalismo, ossia solo a partire dal ‘600, anche se occorrerà aspettare
la rivoluzione industriale per far assurgere il capitalismo ad un modello di ordine sociale. La
primordiale economia di mercato veniva regolata dai tre seguenti principi a cui si rifaceva tutta
l’attività delle imprese:
1. La divisione del lavoro: principio organizzativo che consentiva a tutti (anche ai meno
dotati) di svolgere attività lavorativa. “Vivere significa produrre, cioè partecipare
alla creazione del bene comune e l’elemosina non aiuta a produrre”, una massima
della scuola francescana, la prima vera e propria scuola del pensiero economico.
2. La
priorità
dell’agire
economico
sullo
sviluppo
e,
di
conseguenza,
sull’accumulazione della ricchezza, anche per far fronte alle esigenze delle
generazioni future. Da questo concetto l’organizzazione del lavoro manifatturiero e
la sistematica formazione di nuove professionalità, attraverso l’apprendistato e
l’incentivo al miglioramento della qualità dei prodotti.
3. La libertà dell' impresa e dell’imprenditore, ossia del lavoratore libero di
142
intraprendere un’attività senza dover sottostare ad autorizzazioni e limiti, nel rispetto
della autonoma applicazione dei seguenti tre elementi:
−
−
−
la creatività;
la propensione al rischio;
la capacità di coordinare il lavoro altrui.
Il capitalismo aggiungerà a questi 3 principi il quarto, ossia la finalizzazione di tutta l’attività
produttiva alla massimizzazione del profitto, da distribuire tra tutti i fornitori di capitale in
proporzione ai loro apporti. La rivoluzione industriale, quindi, ha condotto alla precisa
identificazione dei conferitori di capitale ed alla loro netta separazione dai conferitori di lavoro,
passando così dall’economia di mercato all' economia capitalista.
Dopo queste sintetiche precisazioni, vogliamo tentare di evidenziare gli elementi che
contraddistinguono
l’anticapitalismo
delle
imprese
cooperative,
con
il
riferimento
all'organizzazione interna, ossia ai rapporti di lavoro (ossia la mutualità interna375) ed alle modalità
con cui queste imprese si propongono nel loro territorio di insediamento (la mutualità esterna), dato
che nelle cooperative il primo elemento postula l’altro in modo stringente. Al contrario, nelle
imprese di capitali questi due processi sono scollegati e rimangono circoscritti entro limiti
abbastanza ampi ed indifferenti (anche se c’è possibilità di scelta tra soluzioni diverse). Per chiarire
questa tipicità delle cooperative occorre quindi approfondire le seguenti variabili:
- la composizione sociale, il tipo di imprenditorialità e l’ orientamento strategico, ossia gli
elementi che costituiscono la soggettività dell’impresa:;
- gli elementi che regolano questi rapporti economici interni all’impresa, cioè la
composizione e la distribuzione del capitale e il relativo sistema di distribuzione (politico ed
organizzativo);
- le componenti dell’ambiente esterno, ossia la rilevanza degli stakeholder propri ed
istituzionali presenti nel sistema e tra le imprese associate;
- l' ambiente esterno e, in specie, le peculiarità del mercato e il contesto concorrenziale.
375
In relazione alla diversa composizione dei rapporti imprenditoriali interni, in Italia è possibile fare
riferimento a due principali esperienze: la cooperativa nucleare e la cooperativa manageriale. La prima,
per le sue piccole dimensioni, permette l’effettiva partecipazione di tutti i soci alle decisioni e agli utili
(cioè assume una forma molto vicina all’autogestione pura); l’altra, più grande e con una organizzazione
tecnico-manageriale, non consente la completa partecipazione dei soci alle decisioni dell'assemblea ed ha
previsto l'istituto della delega al gruppo dirigenziale in sostituzione alla base sociale. Per approfondimenti
cfr. Zamagni S., 2006.
143
1. L’anticapitalismo nei rapporti di lavoro cooperativo. L’impresa cooperativa è considerata, per
definizione e per la sua natura, anticapitalistica perché capovolge il rapporto capitale-lavoro. Mentre
nell’impresa profit i capitalisti assumono lavoratori, prendono decisioni e si appropriano dei profitti,
nell’impresa cooperativa i soci-lavoratori diventano imprenditori di sé stessi, prendono le decisioni
più importanti per l’impresa e si appropriano solo parzialmente del surplus376 di bilancio,
realizzando così il completo rovesciamento del rapporto fra i fattori capitale e lavoro. Nelle imprese
cooperative è, infatti, il lavoro (o l’utente377) che acquista il capitale (contrariamente alle imprese di
capitali dove il capitale acquista il lavoro): sono perciò anticapitalistiche, anzitutto, perché
capovolgendo il rapporto capitale-lavoro, riconoscono come fattore aggregante la persona e non il
capitale. Realizzano quindi una sorta di “neutralizzazione” del capitale, che viene relegato alla sola
dimensione finanziaria, a depauperamento degli impliciti effetti del potere gerarchizzante.
Questo ribaltamento implica che, nell'ambito dei rapporti di primo grado, ossia quelli fra il socio
lavoratore e l’impresa, occorre fare riferimento ai diversi livelli del rapporto di lavoro ed alla loro
regolamentazione. Nell’impresa di capitali pura i lavoratori sono soggetti all’autorità
dell’imprenditore (ossia di colui che possiede il capitale proprio ed ottiene finanziamenti esterni): il
salario è fisso ed il rapporto di lavoro è rescindibile anche nel breve termine. Di conseguenza, il
rischio connesso con l’attività economica pesa interamente sul datore di lavoro così come le scelte
sulla produzione, sulle assunzioni, sugli investimenti, sui prezzi e sull' organizzazione generale
mentre i lavoratori devono solo assolvere alle mansioni per le quali sono stati assunti, rimanendo
sottoposti ad un principio ordinatore di tipo gerarchico. La natura dell’impresa capitalista pura
rimane quindi caratterizzata dal fatto centrale che i ruoli e le remunerazioni delle due parti sono
nettamente distinti: attivo di bilancio e surplus di esercizio spettano al datore di lavoro e il salario
fisso378 al lavoratore, in cambio dell'esecuzione delle mansioni di competenza. Il contratto di lavoro
è lo strumento giuridico che regola il rapporto imprenditore-lavoratore, stabilendo gli aspetti
remunerativi, le modalità della prestazione lavorativa ed anche gli obblighi reciproci.
L'impresa
cooperativa
si
costituisce,
invece,
a
seguito
di
un
processo
di
auto-
imprenditorializzazione, promosso da soggetti che sono portatori di bisogni (o di specifiche risorse)
e che assumono la veste di imprenditori di se stessi. La condivisione della proprietà dei mezzi di
376
377
378
Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006.
Si può anche dire che la cooperativa è una struttura di persone che scelgono di non delegare a terzi la
funzione di soddisfare i bisogni che sono all’origine del loro associarsi.
In altri termini, nell’impresa di capitali la netta divisione fra forza-lavoro e imprenditore già di per sé
stabilisce i confini, pur variabili, fra gli ambiti di influenza e di operatività dei diversi soggetti.
144
produzione e l’eguaglianza giuridica dei soci (una testa un voto) danno a ciascuno lo stesso diritto
di voto e di proposizione sulle scelte che coprono l’intera attività d’impresa. Di conseguenza, la
necessità di salvaguardare e di gestire un processo partecipativo interno obbliga questi stessi
lavoratori a stabilire un “patto sociale” che ricompone al proprio interno gli obiettivi economici e
sociali, secondo una scala di preferenze condivisa o negoziata. In altri termini, la cooperativa è una
forma di impresa che può annullare una delle fondamentali asimmetrie organizzative del processo
economico, ossia il rapporto tra proprietà e lavoratore.
Facendo invece specifico riferimento al regolamento del rapporto socio-impresa 379 nella gestione
giuridica dei rapporti non si riscontrano disparità tra l' impresa cooperativa e l' impresa capitalistica
che si estrinsecano con l'applicazione dei contratti di società380, dei contratti d’opera381 e dei contratti
di lavoro382 veri e propri. Si tratta del riferimento alla ordinaria regolamentazione normativa che
detta le condizioni per lo svolgimento dell'attività in tutto l’universo delle imprese di produzione.
Per l'espletamento di questi istituti nel comparto cooperativo è però necessario prendere in
considerazione i seguenti tre ulteriori elementi:
1. L'effettiva realizzazione della mutua responsabilità, per la quale non basta che i soci
intendano fare la stessa azione ma, occorre che vogliano farla insieme;
2. il riconoscimento della reciprocità, cioè l’impegno reciproco e congiunto nello svolgimento
delle mansioni (sia pure per ragioni diverse), nella consapevolezza che anche gli altri
intendono fare lo stesso. Difatti, è impossibile quantificare il contributo specifico di
ciascuno cooperatore al risultato finale;
3. il perseguimento della solidarietà, ossia l’impegno di ciascuno ad aiutare gli altri nei loro
sforzi, cosicché il prodotto/servizio finale possa essere conseguito al meglio.
379
380
381
382
Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2004.
Nel contratto di società due o più parti si coalizzano per l’esercizio di un’azione comune, allo scopo di
dividersi gli utili. In questa tipologia il potere decisionale spetta equamente a tutti i soci e l’oggetto della
transazione è l’ammontare del lavoro che i soci apportano oltre al capitale da loro, eventualmente,
conferito.
Con il contratto d’opera un soggetto si impegna a fornire una prestazione ad un altro soggetto, senza
alcun vincolo di subordinazione. La remunerazione e la natura dei servizi erogati sono definiti ex ante.
Il contratto di lavoro si stipula quando il lavoratore decide di rinunciare alla propria autonomia
decisionale per un lasso di tempo a favore del datore di lavoro, in cambio di una remunerazione fissata ex
ante ed indipendente dal risultato. Quindi con questo contratto si assume un impegno all’obbedienza,
tanto che il salario si configura come il prezzo per la rinuncia all' autonomia personale. L’obbligo
all’obbedienza, assunto con il contratto di lavoro, è proprio dell’impresa capitalistica. Nell’impresa
cooperativa, invece, i soci lavoratori (pur se assunti con contratto di lavoro), sono posti nella condizione
di controllare la propria attività produttiva, in base ai principi cooperativi della eguaglianza e della libertà:
è perciò una scelta per i soggetti che cercano nel lavoro l’autonomia e la libertà personale.
145
.
1.1. Un approfondimento sul rapporto di lavoro cooperativo. Dopo il crollo del sistema
sovietico, nell' immaginario collettivo, è stato messo in dubbio che vi sia una possibile alternativa al
capitalismo nonostante il continuo fiorire degli studi sul socialismo383. Tra questi ultimi, degno di
nota per le nostre argomentazioni è quello che ha fatto riferimento all’autogestione384, ossia ad un
sistema di imprese gestite dai lavoratori in concorrenza tra loro sul mercato, in base al principio
generale della massimizzazione del reddito medio di quanti lavorano insieme (Ward, 1958). Questo
approccio ha permesso di evidenziare che nell’impresa gestita dai lavoratori chiunque si sforzi di
aumentare il suo reddito, fa aumentare contemporaneamente anche quello degli altri che lavorano
con lui. Quindi, mentre il capitalismo tende a rendere l’uomo egoista e più competitivo nelle
faccende economiche, il socialismo al contrario tende a rendere l’uomo più cooperativo e più
solidale nei suoi rapporti di lavoro, poiché promuove imprese “autogestite” (o imprese
democratiche) ove il sovrappiù (differenza tra costi e ricavi) spetta equamente a tutti lavoratori, soci
dell’impresa385. Teoricamente, empiricamente ed anche storicamente tra la forma capitalistica pura
e l’autogestione pura si situano una vasta gamma di forme di produzione intermedie, caratterizzate
da gradi crescenti di partecipazione dei lavoratori, sia ai risultati economici che alle decisioni e, in
questo senso l’impresa cooperativa rappresenta una discontinuità rispetto alla forma pura. La
discontinuità è insita nel fatto che nelle imprese cooperative è possibile realizzare una diversa
modulazione dei rapporti interni, realizzando una sorta di identificazione tra chi persegue un
interesse collettivo (risultato d’impresa) e chi è più sensibile all’interesse individuale.
La tipologia cooperativa che identifica perfettamente l'antagonismo dell'impresa di capitali
è
rappresentata dalle cooperative pure Labour Managed Firm (LMF386 come le definisce Jossa, 2004)
ossia le imprese che operano liberamente nel mercato, perseguono il massimo utile dei soci e non
hanno vincoli di sorta387, tranne quello di assumere lavoro salariato. Si tratta di imprese che
prendono le decisioni distribuendo democraticamente il potere tra tutti i soci, in base al principio
383
384
385
386
387
Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2004.
L'autogestione socialista si basa su un modello che funziona in base a quanto teorizzato per la prima volta
da Benjamin Ward (1958), uno dei contributi più importanti alla moderna teoria economica.
Estendendo il discorso, rispetto all’attuale organizzazione dei mercati, la moderna teoria economica delle
cooperative di produzione ha proposto una nuova forma di impresa società, che prevede un solo, ma
fondamentale cambiamento, ossia l’assegnazione democratica, a tutti i lavoratori dell’impresa, del
surplus dell’attività produttiva e il loro pieno diritto di eleggere i manager.
Come riferito da B. Jossa nel loro tipo “puro” le imprese Labour Managed Firm (LMF) realizzano,
puramente e semplicemente, un capovolgimento del rapporto capitale-lavoro.
L’impresa autogestita, rispetto alle imprese convenzionali, deve godere di specifici vantaggi fiscali per
poter così controbilanciare l’handicap della scarsa disponibilità di capitale di rischio e di managerialità.
146
“un’azione un voto”, perseguendo totalmente l'applicazione di un sistema di valori (nell’interpretare
e nell’agire economico) che coincide con gli interessi dei lavoratori, a prescindere dalla proprietà
(privata o pubblica) dei mezzi di produzione. Quella che meglio si identifica con l’impresa
autogestita è l’impresa cooperativa con proprietà pubblica dei mezzi di produzione388 .
2. L’anticapitalismo cooperativo nei rapporti con l’ambiente esterno. L’interesse della
cooperativa allo sviluppo sociale implica un suo costante e diretto riferimento al mercato locale ed
ai rapporti con l’ambiente esterno, una prassi abbastanza frequente, tanto da costituire un elemento
prioritario della gestione. In questo senso, le imprese di capitali, pur partecipi di diversi processi di
esternalizzazione, mantengono ampi e maggiori gradi di libertà.
In relazione alla trama dei rapporti che il sistema delle imprese cooperative intrattiene con
l’ambiente esterno, essenziali per il superamento del dilemma tra interessi individuali ed interessi
collettivi, è possibile riconoscere i tre seguenti modelli389:
1. Il modello del “radicamento locale”, che configura i rapporti di una (o delle) imprese
localizzate nel medesimo territorio come rapporti gratificanti, in termini di riconoscimento
da parte della comunità locale (rappresentata da persone esterne all'impresa, dai poteri civili
e politici locali oltre che dalle altre imprese cooperative) e di consenso sociale (specie da
parte degli stakeholder).
2.
Il modello di appartenenza politica, che fa riferimento ai rapporti esterni avviati soprattutto
con gli enti locali congiuntamente alle altre imprese cooperative: si può fare riferimento, ad
esempio, all'insieme delle richieste o delle iniziative per gestione e la tutela degli interessi
comuni nei confronti delle istituzioni pubbliche locali che influenzano la vita economica e
politica nazionale.
3.
388
389
Il modello di appartenenza funzionale, in cui i rapporti verso l'esterno sono considerati alla
L’impresa gestita dai lavoratori può essere considerata un “bene pubblico”, per le tre seguenti ragioni: 1.
perché toglie ogni potere al capitale e rende così effettiva la democrazia popolare; 2. perché tende a fare
scomparire la disoccupazione (abbattendo l’alto costo del lavoro); 3. perché favorisce una migliore
distribuzione del reddito.
Questi tre modelli sono effettivamente efficaci solo se possono creare vantaggi e condizioni tali da favorire
comportamenti cooperativi, non solo a livello di impresa ma anche fra i singoli soci, ai quali in situazione di crisi
può essere richiesta qualche rinuncia agli immediati interessi individuali. Questa capacità sembra sia maggiormente
riconoscibile nel modello del radicamento locale.
147
stregua di scambi di funzioni (ad es. gestionali), nell’ambito dei quali emergono i servizi che
il movimento mette a disposizione delle imprese e le strategie di gruppo che lo stesso
promuove.
In modo del tutto singolare lo sviluppo dell’esperienza cooperativa, rispetto alle altre tipologie di
impresa, ha perciò rivolto una particolare attenzione all'integrazione con l’ambiente esterno e ciò
ha richiesto (e richiede costantemente) la necessità di attivare comportamenti congrui e di destinare
risorse umane finanziarie ad iniziative di interesse sociale, un' offerta cooperativa aggiuntiva e
collaterale rispetto a quella principale.
2.1. Ulteriori note sull’anticapitalismo delle cooperative. A seguito delle considerazioni
precedenti che hanno evidenziato alcune disparità tra due modelli imprenditoriali, è inevitabile
domandarsi se e perché un sistema di imprese cooperative dovrebbe essere visto alternativo o
complementare alle imprese di capitali.
Alle origini, il cooperativismo era il risultato di un atteggiamento di reazione alle degenerazioni del
capitalismo. A proposito, basti pensare in Italia alla discendenza delle cooperative sociali dalle
società di mutuo soccorso (SMS) che, verso la metà del XIX° secolo, si sviluppavano in reazione al
capitalismo390 con iniziative che dai sussidi si estendevano agli aiuti monetari alle famiglie
(contributi alla disoccupazione, pensioni di invalidità e di vecchiaia, ecc.) e ad interventi di
solidarietà nei confronti di tutta la collettività. Ma, una organizzazione basata, essenzialmente,
sull’altruismo e sullo scopo mutualistico non avrebbe potuto continuare a sopravvivere in un
mercato dominato dalla concorrenza dell’impresa capitalistica. In letteratura economica questa
circostanza, apparentemente semplice, ha dato lo spunto ad un ampio dibattito sulle contraddizioni
che hanno segnato le origini delle cooperative, evidenziando delle ovvie posizioni antitetiche tra gli
economisti tradizionali ed i cooperatori.
Alle origini e da un punto di vista operativo l’impresa cooperativa, presente in un ambiente
capitalista e in regime di libera concorrenza, riuscì ad occupare una quota marginale del mercato,
perseguendo prima l’altruismo e lo scopo mutualistico e poi proponendosi per rendere i lavoratori
liberi e padroni di ciò che producevano. Ma, per la sua sopravvivenza non poteva continuare ad
390
Con la rivoluzione industriale, infatti, il capitalismo difendeva l’individualismo, lo spirito competitivo e
l’egoismo mentre la società, per contrasto, abbisognava di solidarietà..
148
impostare l' attività solo su una offerta assistenziale altruistica ed iniziò ad adeguarsi alle regole del
mercato, facendo leva sul perseguimento di interessi economici oltre che sociali. Gli economisti, si
inseriscono proprio in questa fase, soffermandosi e puntualizzando la finalità economica oltre che
sociale delle imprese cooperative, soprattutto di quelle di produzione e lavoro, evidenziano uno
snaturamento delle cooperative per il loro dirottamento verso il perseguimento di obiettivi
economici e la massimizzazione del profitto, anche se equamente ripartito tra tutti i lavoratori. Di
conseguenza (continuando con la discussione in letteratura), anche in questa tipologia i socilavoratori tendono a conseguire prioritariamente dei fini economici, tendendo a realizzare un utile e
risultando così e a tutti gli effetti imprese molto vicine alle imprese di capitali. Ribadendo questo
concetto, gli economisti tradizionali hanno intravisto nell'operatività delle cooperative di
produzione e lavoro un modello che quasi si affianca ed opera in concorrenza con l'impresa di
capitali, poiché anch'esse orientate al calcolo economico del massimo rendimento, quindi non
meritevoli dei benefici fiscali. Ma, i cooperatori replicarono a questa assunzione che, anche se
basate sul movente del lucro, le cooperative di produzione e lavoro rimarranno, comunque,
anticapitalistiche sia perché, se necessario, sarà sempre data priorità ai bisogni dell' individuo
(anche a scapito del capitale) ed anche perché il raggiungimento del profitto è sempre orientato ad
un equo benessere di tutti i lavoratori, dal momento che se un cooperatore si sforza di aumentare il
suo reddito personale ciò avviene, contemporaneamente, a vantaggio di tutti gli altri. Di
conseguenza, la solidarietà (un ideale fortemente anticapitalistico) rimarrà il motore propulsore e la
motivazione principale sulla quale i cooperatori fonderanno le loro attività, dichiarando così
l’anticapitalismo come un elemento insito nella natura stessa dell’impresa autogestita. Da un punto
di vista teorico, Pareto391 (nel 1921) partecipando a questo dibattito, aveva osservato una
contraddizione nell' affermazione avanzata dai cooperatori ed aveva puntualizzato che la
cooperativa sostituiva “la solidarietà dei lavoratori alla concorrenza degli imprenditori” perché
“.....le cooperative mentre proclamano di far leva sulla solidarietà sono, a ben vedere, imprese non
molto dissimili dalle altre, perché essendo basate sull’interesse personale riescono a far
concorrenza alle imprese capitalistiche”.
Per concludere, il carattere anticapitalista del movimento cooperative è sempre stato e continua ad
essere un ambito di scontro tra economisti tradizionali e teorici della cooperazione ed ancora oggi il
movimento cooperativo non ammette che l’impresa gestita dai lavoratori possa essere assimilata a
quella di capitali, nonostante il comune perseguimento il massimo profitto.
391
Per approfondimenti cfr. Pareto V., 1921.
149
3. L’ efficienza cooperativa392. Nell'ambito di questa discussione che tenta di far emergere le
principali divergenze tra le imprese cooperative e quelle di capitali, non si può prescindere dal
riferimento teorico al concetto di efficienza economica
393
, l' indicatore adottato per valutare i
risultati dell'impresa tradizionale che però, applicato nel contesto cooperativo, assume un significato
riduttivo. Vediamo quindi di tentare di spiegare il perché ma soprattutto di individuare un parametro
alternativo che possa meglio sintetizzare la rilevanza dei risultati e dell'offerta del modello
produttivo cooperativo.
Per affrontare questo argomento abbiamo ritenuto opportuno ricorrere al prof. Zamagni394 che
suggerisce di affrontare questo tema approfondendo le due principali critiche mosse al
cooperativismo:
1. la prima, di ispirazione neoclassica, che tende a dimostrare che la cooperazione
non può avere uno spazio duraturo nel mercato, perché sarebbe meno efficiente
dell’impresa di capitali;
2. la seconda, neo-istituzionalista, basata sull'ipotesi che, in caso di fallimento del
mercato, l’impresa cooperativa può essere più efficiente di quella di capitali.
Alla prima critica (la scarsa efficienza dell’impresa cooperativa) i difensori della cooperazione
rispondono, anzitutto, contrapponendo all’efficienza dell’impresa capitalistica i valori propri della
cooperativa, cioè l’autostima, la libertà dei soci, il rispetto per le persone, la democrazia interna
all’impresa e lo spirito di solidarietà. Ma, la contrapposizione di un valore quantitativo a dei giudizi
qualitativi lascia perplessi: da una parte, infatti, l’efficienza è anche possibile nell’impresa
cooperativa e d’altra parte, alcuni dei valori cooperativi sono presenti anche nell’impresa di capitali.
Affrontiamo più specificatamente questi aspetti. Al di sotto di un livello minimo di efficienza
l’impresa profit viene espulsa dal mercato e, tra i fattori dell’organizzazione indispensabili per
ottenere questa soglia minima, possiamo elencare l'ingerenza della dirigenza, la competenza del
management e il sistema di controllo. Ma, in teoria e in pratica, qualcuno tra questi fattori è
perseguito anche per la sopravvivenza delle cooperative, quindi non è di esclusiva pertinenza
dell’impresa di capitali poiché direttamente correlato alla produttività aziendale anzi, all’aumento
costante della produttività. Da ciò si può dedurre che l’efficienza, pur essendo un’esigenza
introdotta storicamente dalla logica del profitto, non è esclusivo appannaggio di questa categoria
392
Per approfondimenti cfr. Perrotta C., 2006..
Il concetto di efficienza ha alimentato una vasta letteratura economica e diverse scuole di pensiero che
non rientrano negli obiettivi di questo corso.
394
Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006; Zamagni S.-Zamagni V., 2008.
393
150
d'impresa. Allo stesso modo, alcuni dei valori propri della cooperazione sono stati adottati nel
tempo anche dall’impresa capitalistica; si può fare ad esempio riferimento al senso di appartenenza
da cui consegue l'attaccamento dei dipendenti all’impresa ed un ampio ventaglio di motivazioni e di
gratificazioni che vanno dalla solidarietà all'etica. Questi valori acquisiti hanno rappresentato però
dei costi aggiuntivi per l'impresa di capitali poiché non innati nella gestione e nell'organizzazione
interna (per esempio i premi di produzione da aggiungere ai salari in proporzione all’efficienza, le
spese per la socializzazione dei dipendenti o quelle per la loro istruzione, ecc), .
Questa reciproca commistione tra le due categorie produttive ha poi provocato un sempre maggiore
avvicinamento, gestionale ed operativo, tra imprese di capitali e cooperative e la riduzione delle
disparità, anche perché la crescente concorrenza dei mercati ha reso insufficiente l' obiettivo della
massimizzazione del profitto per orientare la gestione d'impresa. Ciò ha significato che nel tempo
entrambe le categorie di impresa hanno tentato di ristabilire un nuovo equilibrio, attraverso il
perseguimento di obiettivi multidimensionali, ossia con il profitto anche l' applicazione dei valori
positivi per i lavoratori e l' esternalizzazione dei valori sociali per la collettività. Di conseguenza, ai
nostri giorni i livelli di efficienza si sono ampliati e possono dipendere, alternativamente, dal
raggiungimento dell'uno o l'altro obiettivo, coinvolgendo entrambe le tipologie di impresa.
I neo-istituzionalisti, a loro volta, legittimano l’attività cooperativa riconoscendole un’efficienza
propria che può essere superiore a quella delle imprese di capitali, ma solo nei momenti di crisi e di
fallimento del mercato. Ma, cosa deve intendersi oggi per fallimento del mercato e quando si
verifica?
A ben vedere, nell’economia moderna i casi di fallimento del mercato sono una regola piuttosto che
un’eccezione: basti pensare alla tendenza, all’oligopolio, all’informazione asimmetrica o ai
licenziamenti, anche se fatti per aumentare la produttività del lavoro. A questi esempi classici
potremmo aggiungere anche una lunga serie di nuovi bisogni che non vengono soddisfatti dal
mercato: ad esempio, la carenza di verde pubblico, l'inefficienza dei trasporti pubblici,
l'insufficienza degli asili-nido, la mancanza di assistenza domiciliare per malati ed anziani e di altre
strutture elementari (come fognature, raccolta differenziata, compatibilità ambientale, ecc.). E’
possibile ipotizzare che per poter fruire di questi altri beni e servizi, una larga fascia di consumatori
sarebbe disposta a spendere parte del proprio reddito piuttosto che destinarlo all’acquisto di beni
ripetitivi o alla moda, che non aggiungono quasi più nulla al benessere familiare. Riprendendo il
nostro discorso, suddette carenze potrebbero essere ricomprese fra le emergenti e ricorrenti cause di
fallimento del mercato capitalistico che le imprese cooperative stanno cercando di colmare con
151
un'ampia gamma di prodotti e servizi complementari (basti far riferimento ad esempio, a tutta
l'attività educativa ed assistenziale svolta dalle cooperative sociali attraverso la gestione di asili nido
e/o all'assistenza sanitaria professionale). La cooperazione sta quindi tentando di contenere e
talvolta è riuscita a far fronte agli effetti distorsivi del mercato dei capitali in maniera continuativa:
quindi la sua presenza e il suo ruolo nel mercato locale svolgono un'azione correttiva andando
incontro alle esigenze della società moderna e del territorio di insediamento più di quanto non si
pensi (o si voglia accettare).
3.1. L’efficacia cooperativa. Anche la letteratura corrente395 dell’ultimo quarantennio si inserisce
nel dibattito sull’efficienza dell’impresa capitalistica e dell’impresa cooperativa396, con un
orientamento metodologico, a livello internazionale che, sostanzialmente, tenta di accreditare le tre
seguenti tematiche:
1. Il successo della cooperativa come necessità di sopravvivenza: si basa sulla capacità
della cooperativa di adattarsi, di modificarsi e magari di influire sull’ambiente
esterno, quindi sul rapporto tra organizzazione interna della cooperativa ed
evoluzione ambientale.
2. Il successo della cooperativa in termini di risultato economico, ossia attraverso la
quantificazione e la valutazione delle performance economiche delle imprese
cooperative tra loro e nei confronti delle imprese di capitali.
3. Il successo delle cooperative nel perseguimento di obiettivi sociali, ossia attraverso
la verifica della potenziale influenza della struttura democratica e partecipativa sullo
sviluppo umano e culturale della comunità di appartenenza.
La base di partenza per l'analisi di questi traguardi del segmento cooperativo verte sulla circostanza
che la non alienabilità del fattore lavoro e l’alienabilità del fattore capitale sono gli elementi che
rimarcano la profonda differenza con le imprese di capitali e, quindi, ne determinano la diversa
efficienza. Gli economisti italiani, infatti, per misurare la performance dei due diversi tipi di
395
Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006.
396
Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006.
152
imprese hanno continuato a fare riferimento all' efficienza397, parametro oggi superato dalla
letteratura economica americana, perché considerato inadeguato ed insufficiente a cogliere le
molteplici sfaccettature dell'offerta delle imprese di produzione. Il concetto di efficienza è stato così
soppiantato dal valore aggiunto pieno o totale (il Full Added Value), più completo dell’indicatore di
efficienza classico, perché il risultato della sintesi di due parametri: il profitto del produttore e le
esternalità positive del consumatore398. Questo nuovo approccio deriva dalla constatazione che se si
stabilisce un confronto tra impresa cooperativa ed impresa di capitali in base al profitto la seconda
risulterà sempre più efficiente, mentre l'osservazione del valore aggiunto totale può consentire di
aggiungere il vantaggio del consumatore al sovrappiù del produttore (il profitto). Sulla base di
questo criterio, l’ impresa più efficace non solo è più efficiente in senso economico (condizione
necessaria ma non sufficiente) ma riesce anche a realizzare esternalità positive (da molti definite
appunto sovrappiù del consumatore) e, fra queste, la creazione di capitale sociale 399 e le condizioni
necessarie per conseguire la libertà400 dell' individuo-lavoratore. Per questi nuovi obiettivi l’impresa
cooperativa rappresenta se non l’unica, una protagonista importante che è riuscita a far superare i
limiti dell’efficienza che, alla luce di questi nuovi confini, risulta adesso un concetto riduttivo e
talvolta operativamente fuorviante401. Dall'esame di questo nuovo indicatore deriva che la
cooperativa genera, probabilmente, meno profitto ma certamente più esternalità positive, con la
possibilità di ottenere dal confronto un giudizio di merito favorevole (dalla somma algebrica delle
due componenti). La teoria economica, in realtà, non ha mai considerato il profitto come l’unico
parametro di comparazione fra le imprese e questa constatazione ha rafforzato la tesi della
possibilità di esportare questo nuovo criterio: la somma del sovrappiù del consumatore e del
sovrappiù del produttore è stato così largamente accettato per poter stabilire un più corretto giudizio
di merito ed una più precisa comparazione dei risultati aziendali . La sua adozione peraltro non
esclude che anche le cooperative possano perseguire uno scopo di lucro che, comunque, non sarà
mai l'unico obiettivo, perché il guadagno è una tra le tante altre componenti che possono soddisfare
397
398
399
400
401
Il criterio dell’efficienza è insufficiente a mettere a confronto l’impresa capitalistica con quella
cooperativa, in quanto fa prevalente riferimento ai rigidi parametri delle teorie utilitaristiche, trascurando
la base motivazionale che è la risorsa aggiuntiva (fondamentale) delle cooperative.
Per approfondimenti cfr. Zamagni S., La promozione cooperativa come pratica antimonopolistica,
intervento al Convegno, “I valori e le regole: legalità, responsabilità, cooperazione e mercati”, Università
di Siena, 23 ottobre, 2007; Zamagni S.-Zamagni V., 2008..
Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati dal definitivo consolidarsi dei filoni di studio sugli aspetti
definitori e sulla sua differenza rispetto alle altre forme di capitale (fisico, economico, culturale, umano,
ecc.).
Per approfondimenti sulla libertà cfr. Freeman R.E., 1984 e 1988. Per la capacità di ottenere quello che si
è liberamente scelto cfr. Sen A., 1984, 1986 e 1987.
Se si continua ad insistere sul solo concetto di efficienza (cioè la capacità di produrre profitto) è evidente,
infatti, che un cooperatore dovrà tentare di realizzare un profitto a tutti i costi, anche snaturandosi o
violando i principi cooperativi.
153
i bisogni soci tra cui, in primis, la stabilità del lavoro e del posto di lavoro, la riduzione dello stress
da lavoro a seguito del livellamento delle remunerazioni e delle mansioni , il senso di appartenenza
all'azienda, la partecipazione democratica alla gestione, la difesa dell’ambiente (di lavoro e non),
ecc. Fra le esternalità positive che l’impresa cooperativa riesce a generare per l’intero sistema, è
stata prioritariamente collocata la capacità di creare e diffondere capitale sociale. Il termine capitale
sociale è stato introdotto nel corso del XX° secolo, nell’ambito delle scienze sociali, ed è stato
utilizzato per porre l’attenzione sul modo con cui la nostra vita è facilitata e resa maggiormente
piacevole dai legami sociali402. Gli anni Ottanta hanno poi segnato il definitivo consolidarsi dei
filoni di studio su questo concetto e sulla sua differenza dalle altre forme di capitale (fisico,
economico, culturale, umano, ecc.); ma, pur essendo un termine molto diffuso nel dibattito
economico e sociale, non ha ancora una definizione rigorosa e condivisa né un metodo di
misurazione comunemente accettato. In letteratura, in genere, si distingue in due componenti
principali: i legami forti (all'interno del nucleo familiare) e i legami deboli (relativi alla sfera dei
rapporti tra amici, colleghi e conoscenti). E' quindi un termine entrato nel lessico corrente che fa
riferimento a diverse categorie di capitale sociale dato che non c’è, infatti, solo il capitale sociale
che R. Putnam403 (1993), ha chiamato bonding e bridging ma c’è anche il capitale sociale linking
(cioè che crea l'integrazione sociale). Partendo dalla definizione, il capitale sociale bonding è quello
che si genera all’interno dei piccoli gruppi, delle famiglie e delle piccole comunità e crea vincoli. Il
capitale sociale bridging è, invece, quello che getta ponti (bridge in inglese vuole dire ponte), cioè a
dire che genera reti di fiducia allargate che però non bastano per garantire il progresso senza la terza
dimensione di capitale sociale, denominato linking, cioè quello che fa rete. Sulla base di questi
parametri è stato dimostrato che un’area geografica, con un forte capitale sociale bridging ma non
linking non si sviluppa più di tanto404. Allora sorge spontaneo chiedersi che cosa genera capitale
sociale di tipo linking, ossia quello necessario per assicurare il progresso economico e sociale della
società moderna?
E’ stato metodologicamente dimostrato che l'impresa cooperativa, più di ogni altra tipologia, genera
capitale sociale di tipo linking dato che, nelle regioni dove queste aziende sono più diffuse, l’indice
di disparità del reddito è più basso. L’opera che in Italia ha contribuito a dimostrare
quantitativamente questa circostanza è sempre di Putman405 (1993), che ha svolto uno studio
402
Per approfondimenti cfr. Iannone R., 2006; Tronca R., 2007; Zamagni S.-Zamagni V., 2008.
403
Per appprofondimenti cfr. Putnam R. in bibliografia.
404
Nel suo studio pionieristico sul Mezzogiorno italiano, Banfield (1958) individuava una delle cause
dell’arretratezza della regione “nell’incapacità degli abitanti di agire collettivamente per il bene comune,
o almeno per qualsiasi fine che trascenda l’immediato interesse materiale del nucleo familiare”. Per
approfondimenti cfr.E.C.Banfield, (trad. in italiano 1976).
Nella loro celebre ricerca sul caso italiano, Putnam, Leonardi e Nanetti (1993) attribuiscono alla scarsità
di questa forma di capitale sociale il mancato sviluppo economico del Mezzogiorno. Per approfondimenti
405
154
ventennale sulle regioni italiane a statuto ordinario, giungendo alla conclusione che il più alto
rendimento delle regioni del Nord e del Centro rispetto a quelle del Sud debba essere addebitato
alla diversa dotazione di capitale sociale all’interno di ciascuna ripartizione territoriale. In
particolare, Putman ha dimostrato che in Toscana la presenza delle cooperative ha consentito di
abbattere gli indici di ineguaglianza del reddito (sia del Gini, di Taylor o altri più sofisticati) rispetto
ad altre regioni che, a parità di reddito pro-capite o anche più ricche (es. Piemonte e Lombardia),
registrano una minore incidenza di cooperative sul totale imprese. Dai risultati dell' analisi
quantitativa emerge chiaramente che, in tutti questi anni, la cooperazione ha consentito a ceti ed a
classi sociali, altrimenti esclusi, di accedere all’esperienza dell’imprenditoria, di produrre reddito e
di creare occupazione e solidarietà, contribuendo allo sviluppo economico sostenibile, al progresso
sociale e civile del nostro Paese406 e ad un maggiore benessere socio-economico Il capitale sociale
calcolato da Putman sarebbe perciò una componente importante in grado di influenzare il
rendimento istituzionale e lo sviluppo economico e culturale del territorio, poiché la sintesi
dell’insieme delle relazioni interpersonali, delle norme sociali e della fiducia che permette ai singoli
di agire collettivamente per perseguire in modo più efficace gli obiettivi comuni407. In altri termini,
con capitale sociale devono intendersi quei network della vita sociale (reti, norme, fiducia) che
riguardano le relazioni tra gli individui e le norme di reciprocità e di affidabilità che ne derivano e
che mettono i partecipanti nella condizione di agire più efficacemente per il perseguimento di
obiettivi condivisi.
Il capitale sociale, poi, facilita la risoluzione dei problemi collettivi, consente alle comunità di
funzionare sostenendo costi più bassi, aumenta la consapevolezza degli individui di avere tra loro
destini intrecciati, fa circolare più facilmente le informazioni che occorrono agli individui per
raggiungere i loro scopi e può riuscire, addirittura, a migliorare la vita biologica e psicologica dei
cittadini. Questa prospettiva è ancora più esplicita in Fukuyama 408 (1995, 1999) che vede nel
capitale sociale una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella società (famiglia, corpi
406
407
cfr. Putnam Robert D., 1993; ID., 1995; Putnam R.D., Leonardi Robert, Nanetti Raffaella Y., 1993;
Leonardi R.- Nanetti R.Y., 24-25 July, 2007.
Il movimento cooperativo conserverà, anzi non potrà che aumentare la sua attrattiva finché molti giovani
vorranno essere protagonisti del proprio lavoro e la società tenderà verso la democrazia economica, con la
libertà di scegliere l’ambito del proprio lavoro, le forme di impresa in cui esercitarlo, la libertà di
scegliere i prodotti da consumare, ma anche la libertà di associarsi per proteggere i diritti del consumatore
sul prezzo né sulla qualità.
Nel caso delle cooperative sociali l’obiettivo comune prevalente è quello della creazione di un sistema di servizi
alla persona basato sull’integrazione fra prestazioni garantite dalle istituzioni pubbliche e prestazioni garantite dal
settore dell’associazionismo privato, a maggiore o minore grado di organizzazione (cooperative sociali, associazioni
di volontariato, altro associazionismo)
408
Per approfondimenti cfr. Fukuyama F., 1995 e 1999.
155
intermedi, nazione), quindi in un insieme di valori o norme non ufficiali, condiviso dai membri di
un gruppo o, alternativamente, una risorsa extra-economica ed extra-legale che ha, però, precisi
effetti economici, poiché riduce i costi di transazione connessi ai contratti e all’applicazione di
regole formali, promuovendo la cooperazione tra due o più individui. Una più recente misurazione
empirica del capitale sociale delle regioni italiane (Sabatini, 2005) ha confermato sostanzialmente
quanto descritto in precedenza, ovvero la chiara distinzione esistente tra legami forti (familiari) e
legami deboli (tra conoscenti, amici, partecipanti a organizzazioni sociali), sia in termini di
contributo ai processi di sviluppo che nei modelli di distribuzione territoriale, per cui sono le
regioni del Centro-Nord del paese ad essere particolarmente povere di legami forti e ricche di
legami deboli, mentre il contrario vale nel Sud del nostro paese409.
La seconda principale esternalità positiva si ricollega, come anzidetto, al concetto di libertà ed alle
sue tre dimensioni: dell’immunità, dell’autonomia e dell’opportunità che sintetizzano la condizione
dell’essere liberi. Essere liberi vuol dire, infatti, sentirsi immunizzati dalla coercizione altrui e
questo è l’aspetto che alcuni chiamano della libertà di scelta e, con le parole di Friedman (1970) la
“libertà di scegliere in autonomia” per giungere alla terza dimensione, ossia alla capacità di
“ottenere quello che si è liberamente scelto” (come direbbe Sen, 1987).
Nel dibattito economico corrente ci sono però due teorie sulla libertà, in posizione diametralmente
opposta: la prima (appena accennata) di natura liberale ed individualista, in base alla quale la libertà
è solo immunità ed autonomia, ossia l’essere liberi dalla coercizione (è libertà di scelta); la seconda
strutturale ed organicistica, afferma che la libertà si manifesta raggiungendo i risultati, anche in
assenza di autonomia. Nelle odierne economie avanzate si pretende però che siano presenti tutte e
tre le dimensioni, perché la libertà di scelta senza un risultato produce frustrazione e malcontento; al
tempo stesso, anche ottenere un risultato senza avere la libertà di scelta produce frustrazione perché,
evidentemente, non consente alla persone di esprimere le loro preferenze. In altre parole, si sta
diffondendo il concetto che per raggiungere la libertà sono necessarie tutte e tre le dimensioni e che
l’impresa cooperativa rappresenta non dico l’unica ma una componente importante per la libertà,
perché realizza la ricchezza (o il reddito) e, con la logica dei due tempi, la redistribuisce senza
creare disparità sociali.
409
In particolare, nella classifica delle regioni italiane per dotazione della componente di capitale sociale più
favorevole allo sviluppo, la Toscana si colloca in 5° posizione, preceduta da Trentino-Alto-Adige, EmiliaRomagna, Friuli-Venezia-Giulia e Valle d’Aosta.
156
VI. IL FINANZIAMENTO DEL SETTORE COOPERATIVO
Introduzione. La crescente terziarizzazione dell’economia ha imposto anche al settore cooperativo
la necessità di un sempre maggiore investimento di capitali, nonostante la sotto-capitalizzazione sia
una condizione endemica e strutturale più che una debolezza storica delle imprese cooperative. Le
soluzioni proposte per poter superare queste carenze finanziarie sono attualmente due: l’accesso
indiretto al mercato dei capitali (attraverso Spa a controllo cooperativo, formula sempre più
diffusa); il ricorso diretto attraverso l'offerta sul mercato di un maggiore afflusso di prodotti e
strumenti finanziari innovativi410.
L’avvio dei problemi legati al finanziamento esterno delle imprese cooperative può farsi risalire ai
tempi della pressione inflazionistica degli anni ‘70411 ed all’aumento del costo del denaro degli anni
‘80412. In particolare, la prima epoca è stata caratterizzata da un primo approccio delle cooperative
alla problematica finanziaria, con particolare riferimento ai “rapporti con il mondo del credito”;
durante il decennio successivo sono state, invece, affrontate le difficoltà legate ai finanziamenti
esterni, risolte con l’avvio di una nuova politica finanziaria e la creazione di strutture creditizia
interne al comparto cooperativo. Procediamo adesso ad una più puntuale ricostruzione storica per
poi giungere ai nostri giorni.
1. L’evoluzione della funzione finanziaria nelle cooperative . A partire dagli anni Settanta si
annuncia la decisione di avviare un consorzio cooperativo economico-finanziario con competenza
nazionale, con il nome di FINCOOP (l’odierno FINCOOPER) per
fornire al movimento
cooperativo assistenza tecnica (soprattutto con la contrattazione collettiva delle garanzie e delle
fideiussioni sussidiarie), consulenza finanziaria e per favorirne l’accesso al credito ordinario. Per la
prima volta viene quindi affrontato concretamente il problema dell’accesso al credito bancario 413 e,
in particolare, viene messa in risalto la discriminazione esercitata dalle banche nei confronti delle
cooperative, sia con una politica di razionamento del credito che con la pratica di un più alto costo
del denaro rispetto alle imprese profit, esercitato sia con maggiori tassi di interesse che con la
Per approfondimenti cfr. Zamagni V., 2006; Fici A., 2004..
Per approfondimenti cfr. Zamagni 2006; Zevi A., 2006.
412
Soprattutto per le cooperative aderenti a Legacoop (più dell’80% in Toscana) la finanza ha iniziato ad
essere parte integrante della gestione strategica d’impresa solo dagli anni ’80.
413
Da quella data si inizia a pensare di canalizzare più sistematicamente la liquidità delle aziende verso il
Fincoop ed a trasformarlo in un ente di natura più marcatamente economica-finanziaria.
410
411
157
richiesta di garanzie sproporzionate rispetto al finanziamento414. Di conseguenza, fino agli inizi
degli anni 80, il rapporto fra sistema bancario ordinario e cooperative veniva intermediato dalle
Associazioni centrali che dovevano garantire la restituzione dell’eventuale credito erogato con le
cosiddette “lettere di presa d’atto415”, che prevedevano il pieno coinvolgimento delle Associazioni
centrali al finanziamento per la restituzione di ogni linea di credito accordata a ciascuna impresa416.
Oltre alla “lettera” gli istituti di credito chiedevano anche la garanzia patrimoniale personale di tutti
i consiglieri di amministrazione dell’azienda, che finivano così per rispondere personalmente e con
tutti i loro beni delle obbligazioni dell’impresa, con evidente snaturamento anche della forma
giuridica cooperativa417.
Per far fronte a queste disparità, verranno avviate ulteriori interventi mirati al perseguimento di una
maggiore autonomia finanziaria delle cooperative, tra cui l'istituzione di strutture in grado di
favorire il finanziamento interno. Per iniziativa delle Associazioni centrali regionali venivano,
infatti, creati (1981) gli Uffici finanziari418 e le Commissioni finanziarie (provinciali), per offrire
consulenza e consentire alle singole imprese di acquisire familiarità con le problematiche
finanziarie e la loro soluzione419. Questi Uffici finanziari avrebbero dovuto soddisfare le seguenti
esigenze:
•
fornire supporto finanziario tecnico alle imprese (con attività informativa e di consulenza
sulle opportunità esistenti);
•
gestire il rapporto con le banche (attraverso la contrattazione collettiva del credito presso gli
istituti locali), modificando la prassi delle “lettere di presa d’atto” ed avviando un rapporto
414
415
416
417
418
419
Questo comportamento spingeva sempre più le cooperative a contenere la loro dimensione ed a spiegare
come la realtà delle cooperative nazionali fosse concentrata nell’impresa piccola, nucleare e radicata nel
territorio.
Giuridicamente le lettere di presa d’atto avevano il valore delle lettere di patronage, ossia vere e proprie
fidejussioni. Se la Lega provinciale non emetteva la “lettera” la banca revocava la disponibilità del
credito.
Il tipo di rapporto che veniva a crearsi era, perciò, esclusivamente di tipo politico tra le banche e la Lega
provinciale (tra l’altro del tutto priva di patrimonio economico); le banche, infatti, non affidavano la
cooperativa in base ai progetti aziendali o al suo patrimonio ma solo se sussisteva in base a questa
“lettera”.
L’avvio di questa fitta rete di rapporti tra imprese e banche locali, con un forte radicamento territoriale,
può avere rappresentato l’avvio della rete di rapporti inter-istituzionali, poiché diversi dirigenti
rappresentati nei consigli di amministrazione dei principali istituti di credito locali avevano cariche
politiche anche negli enti territoriali (comuni e province).
Si indirizzava così alle imprese un chiaro segnale sull’importanza della funzione finanziaria e, nel
contempo, si tentava di approntare alcune forme di autonomia finanziaria per la crescita delle cooperative.
A questo proposito, in alcune realtà più importanti (es. R. Emilia e Ravenna) erano già operanti consorzi
finanziari delle cooperative locali, per fornire servizi finanziari, raccogliere la liquidità in surplus e gestire
i rapporti contrattuali con le banche (es. la Federcoop di Ravenna).
158
diretto, di natura imprenditoriale420;
•
istituire, di concerto con l’Associazione centrale, vere e proprie divisioni finanziarie per la
crescita della cultura finanziaria presso le singole imprese, per il rafforzamento patrimoniale
delle stesse e l’incremento dei prestiti da parte dei soci.
Alla fine degli anni Ottanta si era così giunti ad un incremento dei rapporti finanziari diretti tra
istituti di credito speciale ed imprese cooperative, con il risultato che erano anche aumentati gli
interventi di finanziamento esterno e la diffusione di strumenti finanziari innovativi (es. le
accettazioni bancarie), oltre che il ricorso ai prestiti in valuta, erogati dalla Comunità Europea ed
anche della prassi, oggi ricorrente, dei prestiti da soci421.
Da un punto di vista legislativo, queste innovazioni erano state accompagnate dall’introduzione
della legge Visentini bis (1983) e successive modifiche, tra cui quella relativa all’innalzamento della
quota di capitale sociale sottoscrivibile da ciascun socio (da 2 a 20 milioni in generale per tutte le
imprese e da 4 a 30 mil. per le cooperative di produzione di lavoro e di trasformazione di prodotti
agricoli) e la possibilità per le cooperative, di entrare nella compagine sociale delle società di
capitali (costituite in forma di SpA o di Srl): una piccola rivoluzione.
1.1. Le difficoltà di finanziamento delle imprese cooperative 422. I principali punti di debolezza
delle cooperative per l’accesso al credito bancario possono essere sintetizzati nella scarsa
disponibilità di capitale proprio e nella sua variabilità: limiti a cui, nei tempi più recenti, si è cercato
di far fronte con le seguenti iniziative423:
1. con la richiesta allo Stato della promozione di enti specializzati per il finanziamento
specifico delle cooperative e la concessione diretta di contributi e di finanziamenti;
420
421
422
423
Viene così superata la prassi delle “lettere di presa d’atto” e le banche iniziano ad aprire rapporti diretti
con le cooperative.
Ovviamente gli approcci alla finanza saranno differenti in relazione alla dimensione aziendale, alla
redditività ed alle caratteristiche dell’impresa (in termini di funzione-obiettivo), al ruolo dei soci e al
sistema partecipativo.
Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2005.
Nel tempo, l’insieme di questi interventi ha dato origine a risultati significativi ed ha consentito di
superare il problema del finanziamento delle cooperative. Per approfondimenti cfr. Zamagni S., 2006.
159
2. con l’istituzione di organismi cooperativi idonei ad interloquire direttamente con gli
intermediari finanziari, nel tentativo di pervenire ad un’ auto-organizzazione per
provvedere alla creazione di un circuito di finanziamento interno, per la distribuzione
delle liquidità monetarie dalle imprese in surplus a quelle in deficit;
3. con l’incremento delle riserve indivisibili, per favorire la ricapitalizzazione delle
cooperative.
Un' altra problematica ha riguardato (e riguarda) il fatto che le difficoltà per il finanziamento di
queste imprese424 sono maggiori nel caso di creazione ex novo di una azienda. Questo perché le
cooperative, di solito, nascono per iniziativa di coloro che, almeno nella fase iniziale dell’attività,
non hanno un capitale proprio ed anche difficoltà nel reperire finanziamenti dall’esterno, in sintesi
poiché nessuno è disposto a prestare capitali a dei nullatenenti425. A differenza di un’impresa di
capitali, infatti, in caso di insolvenza i soci di una cooperativa non rispondono dei debiti contratti
dall’impresa e non sono obbligati a rimborsare ai creditori i prestiti ricevuti426: perciò chi finanzia
una cooperativa ha facilmente timore di perdere i suoi soldi. Le difficoltà di finanziamento si vanno
attenuando quando l’impresa è già avviata, ossia quando è già solvibile con gli impianti ed i
macchinari su cui il creditore potrebbe rivalersi nel caso gli investimenti non andassero a buon fine.
Il finanziatore è anche disposto a concedere più credito quanto l’impresa si auto-finanzia, ecco
perché sarebbe necessario il co-finanziamento dell'attività e degli investimenti da parte degli stessi
soci cooperatori. Nel mercato italiano, poi, sono sempre mancate istituzioni appositamente
disegnate per il settore cooperativo, invece, modellate e strutturate per soddisfare le esigenze delle
imprese di capitali. Sin dagli anni Novanta alle forme di finanziamento ordinario la legislazione
bancaria ha perciò affiancato delle soluzioni alternative: l’utilizzo dei fondi raccolti a fini
mutualistici per la promozione cooperativa (con la destinazione obbligatoria del 3% all’anno427 degli
424
425
426
427
Per approfondimenti cfr. Jossa B., 2005.
Per queste motivazioni i fautori della cooperativa hanno sempre sottolineato la necessità di creare istituti
di credito con lo specifico scopo di finanziarie le cooperative.
In questo caso, stiamo facendo riferimento alle cooperative di tipo “puro”, cioè alle imprese Labour
Managed Firm (LMF), ossia alle imprese finanziate dall’esterno che si contrappongono specularmente
alle imprese di capitali, per il capovolgimento del rapporto capitale-lavoro. In questa categoria i soci
prendono a prestito il capitale e pagano su di esso un reddito fisso (interesse), mentre i lavoratori si
appropriano del residuo.
Passando in rassegna la legge n.59, i fondi mutualistici sono stati pensati soprattutto per creare (e quindi
“promuovere”) nuove cooperative al fine di generare nuova occupazione. Lo “sviluppo” (il sostegno di
quelle già esistenti) è un'attività importante e riconosciuta dalla legge che non dovrebbe essere sostitutiva
della prima.
160
utili di bilancio) e lo strumento finanziario innovativo del venture capital428. Si tratta di una nuova
modalità di finanziamento e di nuovi flussi di liquidità per le cooperative, già previsti da una legge
del 1992 (n. 59), poi richiamata dalla riforma del diritto societario (del 2003). Quest'ultima legge,
poi, al fine di favorire le cooperative nella raccolta diretta sul mercato dei capitali, ha introdotto le
azioni di partecipazione429 e le azioni di sovvenzione. Le prime, ideate specificatamente per
finanziare progetti di ristrutturazione aziendale, sono prive del diritto di voto ma godono di privilegi
relativamente alla redditività ed al rimborso del capitale in caso di scioglimento della società; le
azioni di sovvenzione, a loro volta, possono circolare liberamente sul mercato dei capitali e danno
diritto ad una remunerazione che non incontra i limiti a cui sono soggette le quote dei soci
cooperatori. I soci sovventori, però, non possono detenere più di un terzo dei voti in assemblea. Nel
caso di autofinanziamento mediante gli utili (ossia con la sottoscrizione da parte dei soci di azioni
senza diritto di voto) l’impresa dovrà assegnare ai suoi soci-investitori un ammontare di titoli pari
agli utili che non percepiscono.
2. Il credito cooperativo ai nostri giorni. Come disse Schumpeter (nel 1911) “la finanza è
imprescindibile per la crescita economica” e, possiamo aggiungere che, nel caso delle cooperative
le probabilità di finanziamento sono strettamente correlate ai rapporti dell’impresa con l’ambiente
esterno430. Il credito cooperativo rimane, infatti, fortemente correlato all'ambiente mantenendo,
come carattere distintivo rispetto agli altri intermediari “la difesa di una identità da sempre
alternativa”, come menzionato da. Hervè Giuder (segretario generale dell’Associazione europea
delle banche cooperative431) evidenziando che “solidarietà” e “prossimità” sono due peculiarità
tipiche della categoria, da mantenere e da difendere. Rispetto alle banche SpA, le banche popolari e
quelle di credito cooperativo hanno, infatti, un ruolo da difendere nel loro territorio di competenza
per garantire il principio della mutualità interna ed esterna, per alcuni aspetti distorto a seguito degli
effetti della recente globalizzazione del mercato creditizio e finanziario.432.
428
429
430
431
432
Per approfondimenti cfr. Salani, 2005.
Le azioni cooperative sottoscritte dagli stessi soci hanno un duplice vincolo: da una parte, nessun socio
può superare il limite dei 100.000 euro nell’acquisto delle quote, anche se formalmente il voto assicura
l’uguaglianza tra tutti i soci. L’altro vincolo (Art. 2530 C.C.) riguarda l’impossibilità del trasferimento (o
cessione) delle quote a terzi se non autorizzato dagli amministratori.
Ne consegue che l’impresa cooperativa, deve gestire strategicamente le relazioni con il mercato, ossia con
il proprio capitale umano (fonte principale del vantaggio competitivo), con la clientela (con cui intrattiene
rapporti di fidelizzazione nel lungo periodo) e con i fornitori (portatori di competenze e di capacità
distintive).
Per approfondimenti cfr. intervista a Roma riportata ne Il sole 24 Ore dell’ 01.02.2007.
L’archiviazione della procedura di infrazione, a suoi tempo intentata contro le banche popolari che
godono di un regime fiscale di favore, non ha infatti fermato chi vede in questa parte del sistema bancario
161
Il mondo del credito cooperativo “legato più a considerazioni di carattere culturale e sociale di
un’area che non all’immediato profitto economico dei singoli” continua, infatti, ad imperniare la
mission sulla propria identità e sui relativi valori, contrapponendo alle derive della finanza
capitalista la sua forte stabilità patrimoniale sorretta da una continua capacità di presidiare il
territorio, confermando continuamente l’attualità di questo modello dedito al localismo. In altri
termini, nell’attuale clima di crisi ed instabilità finanziaria, i valori della tradizione cooperativa
adeguatamente rinnovati, continuano a rappresentare dei vantaggi competitivi rispetto agli istituti di
maggiori dimensioni insediati nello stesso contesto locale, secondo uno schema da alcuni chiamato
“glocalismo433” (dall’unione tra globalizzazione e localismo)..
Sul piano normativo il rinnovamento ha dato luogo ad un processo di de-specializzazione degli enti
creditizi a seguito dell'applicazione del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D.
Lgs. n.385 del 1993) che da un lato, ha avvicinato le Banche di Credito Cooperativo alla disciplina
comune a tutti gli altri intermediari bancari e dall’altro lato, ne ha sottolineato il carattere
mutualistico e la tradizionale connotazione locale attraverso regole speciali in materia di struttura,
competenza territoriale ed operatività. Le modifiche introdotte hanno, perciò, lasciato inalterato ed
anzi, sotto più profili, hanno accentuato la vocazione mutualistica delle banche di credito
cooperativo ed il loro connotato distintivo di banche al servizio delle economie locali 434. Basti
considerare che l’estensione della mutualità è stata anzitutto perseguita attraverso l’abbandono della
vecchia denominazione di Casse Rurali ed Artigiane con la nuova di Banche di Credito
Cooperativo435 (BCC), eliminando così il riferimento alle sole categorie di agricoltori e artigiani e
con l’ampliamento del novero dei soci (anche persone giuridiche) a tutti coloro che risiedono od
operano con continuità nel territorio di competenza436. Per quanto riguarda la struttura, la fissazione
di un numero minimo di soci pari a 200 (pena la liquidazione se non segue un reintegro entro un
anno) e di un importo massimo alle azioni detenibili da ogni socio (corrispondente alla cifra non
superiore allo 0,5% del capitale sociale) sono vincoli finalizzati ad assicurare una compagine
sociale sufficientemente articolata e democratica, a garantire la stabilità e ad evitare la costituzione
di centri di potere. Il limite dell’ambito territoriale di competenza è stato poi attenuato, dando alla
banca la possibilità di aprire nuovi sportelli in qualsiasi comune adiacente all’area in cui è già
433
434
435
436
una anomalia che non facilita fusioni e accorpamenti, come già avvenuto altrove.
Per approfondimenti cfr. Mander J.- Goldsmith E. (a cura di), 1998.
E’ proprio questo stretto legame con il territorio che consente alla categoria di godere, rispetto alle altre
banche, di minori asimmetrie informative, soprattutto per i minori costi da sostenere in occasione di una
procedura di valutazione del rischio di credito di un’impresa che deve basarsi su valutazioni che vanno
ben oltre la mera osservazione degli indici di bilancio.
Per approfondimenti cfr. Cfr. Cesarini F., 2003; Padoa Schioppa T., 1997.
La richiesta di ammissione a socio, però è sottoposta a clausola di gradimento da parte del consiglio di
amministrazione, il quale dovrà, in caso di rifiuto, motivare la risposta.
162
insediata, anche in presenza di un istituto di credito della stessa categoria437.
Tuttavia, lo sviluppo economico di un territorio riguarda anche la capacità delle imprese di innovare
e di crescere ed in questo la piccola banca e, in particolare, le BCC hanno mostrato alcuni punti di
debolezza poiché la limitata diversificazione del portafoglio prodotti si è tradotto in evidenti ritardi
nei confronti delle attività finanziarie innovative e in carenze emerse da un punto di vista
organizzativo, procedurale e professionale. Per questo motivo, almeno nelle sue componenti di
maggiori dimensioni, le BCC hanno tentanto di compensare investendo in un maggior livello di
professionalità e di produttività del personale, per tentare di accrescere l’attività di consulenza e
poter offrire prodotti/servizi finanziari maggiormente adeguati alle nuove esigenze di
diversificazione e di ristrutturazione del passivo delle imprese minori. In questo processo, il
radicamento sul territorio e la conoscenza personale della clientela hanno rappresentato degli
importanti vantaggi e al rilievo della prossimità, tradizionale e irrinunciabile punto di forza della
cooperazione, si sta quindi accompagnando il rafforzamento delle capacità professionali di analisi e
di valutazione delle iniziative imprenditoriali locali. La cooperazione del credito si è così evoluta
fino ai nostri giorni lavorando su queste direttrici e continuando così a contribuire alla crescita
sociale ed economica della comunità di riferimento, in un mercato che ha integrato sempre più i
mercati locali con quelli globali.
Unico problema aperto ai nostri giorni è quello relativo alla governance delle banche di credito
cooperativo e, in particolare, al principio “una testa un voto” che forse non potrà reggere il
confronto con una concorrenza, da parte delle maggiori categorie bancarie, sempre più spietata ed
aggressiva.
2.1. Un approfondimento legislativo. La recente riforma del diritto societario e il coordinamento
con il TUB438 (con D.Lgs. n. 310/2004) hanno ulteriormente inciso, anche se senza eccessivi
stravolgimenti, sulla disciplina delle banche cooperative439 consentendo di superare alcune
incertezze normative. Intanto la nuova disciplina ha confermato la distinzione tra i due modelli di
437
438
439
L’estensione territoriale è ammessa anche al di fuori dei limiti ordinari se la Banca di Credito Cooperativo
è in grado di procurarsi nuovi soci nell’area di insediamento e, se risulta in regola con i coefficienti di
capitale e altre misure prudenziali.
Questo decreto ha introdotto delle modifiche al precedente DL. n. 385 recante il Testo Unico delle leggi
in materia bancaria e creditizia.
In particolare, con l’ultimo D.L. (n. 310 del 2004) sono state dettate una serie di nuove modifiche ed
integrazioni al TUB, allo scopo di coordinare la riforma societaria con la disciplina bancaria sulle Banche
Popolari e le Banche di Credito Cooperativo.
163
banca cooperativa (BCC e popolari, presenti anche nel TUB), incentrandola sulla diversa intensità
del requisito mutualistico. Le BCC sono state ricondotte alla categoria civilistica delle cooperative
“a mutualità prevalente”, in quanto tenute ad adottare nei propri statuti le clausole di mutualità
prevalente 440(per cui il 70% dell’utile deve confluire a riserva indivisibile legale ed una quota deve
essere destinata ai fondi mutualistici per la promozione della cooperazione) oltre che a rispettare i
già accennati criteri di operatività prevalente con i soci. Il mancato rispetto dei vincoli di mutualità
si tramuta nella perdita del favorevole regime fiscale applicato alla categoria441. Il regime fiscale è
rimasto particolarmente favorevole fino a quando il maggior beneficio, ossia quello della riserva
obbligatoria, è stato gradualmente smantellato. Sono ancora in vigore, invece le disposizioni che
esonerano dalla tassazione gli utili destinati a riserva indivisibile e gli atti, del tutto esenti dalle
imposte di bollo e di registro442.
Le banche popolari, a loro volta, rientrano nella categoria delle cooperative a “mutualità non
prevalente”, per espressa esclusione dalla prevalenza mutualistica.
In base alle nuove disposizioni del Diritto Societario (2004) l’insieme degli istituti di credito
cooperativo hanno dovuto procedere all’adeguamento dei rispettivi statuti alle nuove disposizioni
(entro un termine differente rispetto alle altre società cooperative, fissato al 30 giugno 2005 ) ed
hanno dovuto provvedere alla loro iscrizione nell’”Albo” a cui sono tenute anche le banche
popolari, estensione meno ovvia, poiché notoriamente escluse dalle agevolazioni fiscali e non
sottoposte alle procedure di revisione contabile delle BCC. Sembra, quindi, che questa iscrizione
delle Banche Popolari nell’Albo delle cooperative (prevista dalla legge) abbia esclusive finalità
anagrafiche (per un censimento della categoria veritiero ed aggiornato) e sia opportuna per la
fruizione dei benefici “di altra natura” (previsti per le cooperative diverse da quelle a mutualità
prevalente) e per sopperire a finalità di vigilanza cooperativa. Le Banche Popolari, in quanto
440
441
442
Lo statuto tipo, inoltre, specifica che, per ottenere i vantaggi fiscali accordati dalla legge alle Banche di
Credito Cooperativo gli utili distribuiti ai soci non possano eccedere l’interesse legale. Infine, in caso di
scioglimento della società l’intero patrimonio, dedotto il capitale versato e i dividendi eventualmente
maturati, deve essere devoluto a scopi di pubblica utilità.
Fino al 1996, le Casse Rurali ed Artigiane se costituite sotto forma di società a responsabilità illimitata
dovevano investire costantemente in titoli (al loro valore corrente), almeno il 10% dell’ammontare dei
depositi ricevuti, se nate sotto forma di società cooperative a responsabilità limitata almeno il 20% degli
stessi depositi ricevuti, con l’obbligo di adeguamento trimestrale. La stessa norma non era prevista per le
altre aziende di credito le quali, a differenza delle Casse Rurali ed Artigiane, rimanevano sottoposte
all’obbligo della riserva obbligatoria e al vincolo di portafoglio
Fino al 1995, inoltre, alla parte di utili non destinata a riserva indivisibile erano applicate aliquote IRPEG
e ILOR pari ad un quarto rispetto a quelle applicate all’intero sistema bancario (cioè il 27% rispetto al
36% richiesto alle altre aziende di credito, mentre l'ILOR ammontava al 12,15% contro il 16,2% degli
altri intermediari bancari)
164
cooperative, sottostanno comunque alla normativa del Codice Civile sulle cooperative (ad eccezione
ovviamente delle disposizioni che fanno espresso riferimento alla categoria a mutualità prevalente).
2.2. La governance delle BCC. La funzione-obiettivo delle BCC è quindi alquanto complessa
poiché deve contemperare le esigenze proprie del modello creditizio mutualistico con i principi
cooperativi di economicità (efficienza di costo) e mutualità (livello minimo di redditività e attività a
favore dei soci e del territorio), in un mercato in cui la solidità patrimoniale di lungo periodo
assume sempre più un ruolo fondamentale. Del resto, se il successo di una impresa cooperativa è
legato al grado di unità di intenti tra i soci, appare evidente che l’obiettivo principale di una BCC
deve essere ricercato all’interno del patto di lungo periodo che la comunità dei soci stringe
nell’interesse comune di poter disporre, oggi e nel futuro, di finanziamenti e servizi bancari. Inoltre
il principio del voto unitario, la democraticità e l’impossibilità di scalate di maggioranza rendono il
management libero di amministrare l’impresa per il soddisfacimento degli interessi dei soci in
misura certamente superiore rispetto a quanto non sia possibile agli amministratori delle imprese da
capitali, talvolta spinti da interessi
personali e/o da comportamenti nepotistici. Per mitigare
possibili ed eventuali conflitti di interesse sussiste, inoltre, una ulteriore garanzia alla trasparenza
gestionale delle BCC, attraverso due ulteriori elementi: le pre-condizioni per l’eleggibilità degli
amministratore (ammessa solo per i soci con un ruolo all’interno della comunità locale) ed alcuni
residui vincoli normativi (ossia i limiti all’operatività con non soci) che sono legati a meccanismi
automatici di controllo, consistenti in possibili sanzioni sociali e morali che scattano all’interno
della comunità in cui la banca opera443. Ciò, a sua volta, implica che gli obiettivi dei soci-azionisti
non dovrebbero divergere troppo da quelli dei soci-amministratori444. Più in generale, il consenso (o
l’unità di intenti, se si preferisce) tra i soci, amministratori e clienti, può costituire il presupposto
irrinunciabile per una corretta gestione della società purché finalizzato a contemperare il rispetto del
principio “una testa, un voto” e ad evitare comportamenti opportunistici. In tale ottica,
l’attenuazione dei potenziali conflitti di interesse in alcuni casi ha anche rappresentato una modalità
443
444
La tradizionale vocazione delle BCC talvolta a favore di aree di mercato decentrate e relativamente
marginali indica, inoltre, che la loro capacità di conoscere e di operare in tali realtà sia decisamente
migliore di quella delle altre banche, per la sussistenza di particolari vantaggi informativi che tendono a
ridurre i noti problemi di asimmetria informativa tra prenditori e prestatori di fondi monetari.
Ipotizzando che la base sociale sia equamente distribuita tra soci-depositanti e soci-prenditori e che i sociamministratori rappresentino adeguatamente la base sociale, è possibile ritenere che le due categorie di
“agenti” (proprietari e amministratori) presentino pressoché lo stesso grado di avversione al rischio e,
quindi, supporre che non sussistano significativi incentivi all’assunzione di particolari rischi per
massimizzare il rendimento di breve periodo.
165
per il contenimento dei margini di inefficienza dell’impresa cooperativa e, allo stesso tempo, la
garanzia del corretto funzionamento dei meccanismi di selezione e di controllo della clientela.
Contemporaneamente alla mission di questa categoria bancaria si aggiungono i principi di
produttività e di efficienza, dettati dal mercato ed alla base della sostenibilità di lungo periodo di
ogni impresa. Se comunque si assume, per ipotesi, che l’obiettivo di una banca cooperativa
mutualistica possa divergere dalla massimizzazione del valore dell’impresa (ad esempio con una
bassa attenzione ai costi di gestione) si deve anche presumere che tale inefficienza sia compensata
da altri comportamenti virtuosi che, nel più lungo periodo, potranno contribuire alla redditività
anche sociale dell’impresa. Unità di intenti tra i soci, solidità patrimoniale di lungo periodo e
riduzione delle asimmetrie informative sembrano quindi costituire i pilastri delle specificità
gestionali delle BCC e le modalità per consentire il perseguimento degli obiettivi di
massimizzazione del valore dell’impresa. La valutazione “del se” e “del come” le specificità
gestionali delle BCC consentano di far prevalere i vantaggi del radicamento locale e della riduzione
delle asimmetrie informative sui clienti sugli svantaggi gestionali ed organizzativi legati alla
dimensione rimane tutt'oggi una questione aperta.
Concludendo, i principali elementi che contraddistinguono la governance creditizia cooperativa
riguardano:
- l’omogeneità di intenti e di interessi dei soci-azionisti (consenso) che esercita un’influenza
certamente positiva sulla gestione cooperativa, determinandone il successo;
- la fattiva applicazione di rapporti mutualistici (extra-economici) fra i soci e gli amministratori
che sollecita ulteriormente il perseguimento dell' equilibrio gestionale, in coerenza con gli
obiettivi aziendali;
- la stabilità del management che, nel tempo, favorisce la continuità delle relazioni con la
clientela e il radicamento della banca nell’economia locale, con conseguente riduzione delle
asimmetrie informative, ed il miglioramento della performance complessiva della gestione nel
medio-lungo termine.
3. L'operatività delle banche di credito cooperativo in Italia. Negli ultimi anni, anche la struttura
bancaria italiana è stata protagonista di processi di profonda ristrutturazione territoriale ed
166
organizzativa con la concentrazione degli istituti bancari (a partire dagli anni ’90), ovvero con la
riduzione del numero degli istituti operanti a seguito di un ampio processo di acquisizione e di
fusioni bancarie e il raggiungimento di maggiori dimensioni aziendali, sia strutturali che
patrimoniale ed operative. Ma, mentre le grandi banche hanno progressivamente abbandonato il
settore della finanza tradizionale per dedicarsi agli strumenti finanziari innovativi, le piccole banche
locali (come anzidetto) hanno continuato a consolidare i legami tradizionali, mantenendo il ruolo di
principale partner finanziario per le micro e piccole aziende445. Nel mantenimento di questo ruolo, il
comparto credito cooperativo nazionale assieme ai Confidi, ha così rappresentato un’importante
opportunità per il sostegno del tessuto produttivo nazionale caratterizzato dalla prevalenza di PMI,
continuando a facilitare l’accesso al credito alle aziende artigiane, alle piccole imprese ed alle
cooperative nazionali. Nel panorama bancario italiano, le BCC ricoprono quindi una funzione
peculiare, che tende a distinguerle in modo significativo anche dalle banche popolari che, seppure
ancora largamente costituite nella forma di cooperative, hanno di fatto abbandonato ogni indole di
tipo mutualistico e del no-profit.
In questa funzione sono supportate dal sistema associativo, composto dalla Federazione Nazionale
e dalle Federazioni Regionali446. Queste ultime447 costituiscono il “punto di snodo” del sistema del
credito cooperativo in quanto, da un lato, raccolgono le istanze ed i segnali provenienti dalle banche
e li filtrano verso gli organismi nazionali; dall’altro, sintetizzano le informazioni e le indicazioni
provenienti da questi ultimi e le trasmettono alle aziende. Sono, inoltre, strumento di governo delle
strategie locali-regionali per una serie di funzioni fondamentali: la rappresentanza, la tutela della
qualità e dell' efficienza della gestione, il supporto associativo e consulenziale. L’operatività si
articola su diverse tipologie di attività: rappresentanza e promozione; assistenza e consulenza;
verifica e revisione; attività di informativa ed informatica destinata alle strutture consortili.
3.1. La dimensione delle BCC . Il variegato mondo delle banche cooperative presenti in Europa
conta una rete capillare che copre complessivamente una quota del 20% del mercato creditizio
445
446
447
La missione di queste banche è, per loro natura, quella di cercare di promuovere la crescita
dell’imprenditoria locale, cercando di “fare sviluppo” che è il contrario del “fare profitto”.
Le Federazioni locali, sono società cooperative con funzione consortile senza scopo di lucro e
rappresentano la diretta espressione sul territorio delle BCC (che aderiscono ad esse volontariamente) .
Le Federazioni locali sono quindici e si articolano in: Federazione BCC Piemonte Valle d´Aosta Liguria,
Federazione Lombarda delle BCC, Federazione Cooperative Raiffeisen, Federazione Trentina della
Cooperazione, Federazione Veneta delle BCC, Federazione delle BCC del Friuli Venezia Giulia,
Federazione delle BCC dell'Emilia Romagna, Federazione Toscana BCC, Federazione Marchigiana delle
BCC, Federazione delle BCC del Lazio Umbria Sardegna, Federazione delle BCC dell'Abruzzo e del
Molise, Federazione Campana delle BCC, Federazione delle BCC di Puglia e Basilicata, Federazione
Calabrese delle BCC, Federazione Siciliana delle BCC.
167
totale ed è rappresentata da più di 4.500 banche locali, 62 mila sportelli, 49 milioni di soci, 160
milioni di clienti e 750 mila dipendenti (dati fine 2007). Una caratteristica comune è stata la
generalizzata riduzione del numero di aziende operanti nei vari Paesi europei, dovuta per lo più alla
insufficiente dimensione aziendale delle singole aziende di credito a fronte di un incremento del
numero di sportelli. La media di sportelli per azienda (con differenze tra i vari Paesi) conferma
comunque una dimensione modesta dai 3 ai 7 sportelli per azienda, indicando la natura di banca
locale delle BCC europee.
Nel territorio italiano il Credito Cooperativo occupa una posizione di primo piano sotto vari profili:
la presenza sul territorio, la solidità patrimoniale e finanziaria, i volumi intermediati ed i ritmi di
crescita. Il modello organizzativo nazionale del credito cooperativo ruota intorno alle 442 BCC
complessivamente presenti sul territorio nazionale, con 3.863 sportelli (il 12 % degli sportelli
bancari italiani), attraverso una presenza diretta in 2.529 comuni (in 542 comuni rappresentano
l’unica realtà bancaria) ed in 98 province. La quota di mercato degli impieghi economici delle BCC
è pari al 7% (101 miliardi di euro), con una variazione annua quasi del 12%, leggermente superiore
a quanto registrato per il sistema bancario (+11,2%). La vocazione della categoria a supporto delle
piccole e medie imprese artigiane, delle famiglie e del non profit è confermata dal 20% di credito
erogato all’artigianato448 (sia imprese sia famiglie produttrici), a fronte del 7% consesso dal resto
del mercato creditizio. La raccolta diretta, che copre una quota di mercato del 9% (pari a 118,5
miliardi di euro) ha registrato un tasso di crescita annua del 10,2%.
L’articolazione del sistema creditizio toscano, a sua volta, è arricchita da una notevole presenza di
piccole banche locali, prevalentemente di matrice cooperativa, nonostante la diffusione di gruppi
extra-regionali di grandi dimensioni e l’innalzamento del grado di concentrazione del sistema.
Nonostante le aggregazioni e le fusioni, le 37 banche di credito cooperativo rappresentano il 30%
delle banche operanti in Toscana449 e il 59% di quelle con sede in regione450 (dati 2007). Tra 2001 e
2007 si è registrato un aumento del 35% circa degli sportelli che hanno raggiunto un’incidenza sul
totale regionale451 di quasi il 12% (in linea con la media nazionale, 11,8%).
Le BCC hanno anche mostrato una continua crescita delle quote di mercato sia degli sportelli che
448
Significativa è anche la quota di mercato del credito destinata alle altre categorie economiche: il 15% alle
“altre imprese minori”, il 15,5% alle famiglie produttrici, l’8,5% alle famiglie consumatrici e il 10,5% del
totale dei crediti alle Istituzioni senza scopo di lucro (Terzo Settore).
449
Tra le banche toscane l’articolazione in base all’assetto giuridico vede una consistente presenza di BCC
(37 unità) seguite dalle SpA. (22 unità) e dalle 3 banche popolari.
450
Nel 2007 il numero complessivo di intermediari operanti in regione è di 122 unità.
451
A livello provinciale il maggior numero di sportelli si riscontra nella provincia di Firenze (74) seguita da
Siena (50): proprio quest’ultima provincia mostra la più alta incidenza sul totale pari al 23%.
168
degli impieghi e della raccolta, testimoniando lo sviluppo di una importante componente a forte
radicamento locale. I risultati 2007 delle BCC Toscane appaiono particolarmente buoni alla luce
della instabilità che la crisi finanziaria statunitense ha diffuso su tutti i mercati del credito e
finanziari, anche se forse alla data di chiusura del bilancio 2007, la crisi probabilmente non aveva
ancora prodotto il massimo dei suoi effetti. Tuttavia le performance rimangono molto positive e
sembrano non essere state particolarmente interessate da questo evento negativo452. Il merito del
successo pare sia imputabile alla diversa governance453 di questa categoria rispetto ad altre banche.
Considerazioni conclusive. Come ribadito il 2007 è stato un anno particolarmente negativo per il
settore creditizio e finanziario internazionale e, a seguito della crisi americana sui mutui subprime,
che si è tradotta in una profonda crisi di liquidità del settore bancario mondiale, che ha
immediatamente provocato un aumento del costo del denaro, per l’inasprimento dei tassi
interbancari e quindi dei tassi praticati alla clientela. In questo contesto, il sistema bancario
nazionale sembra essere stato penalizzato meno rispetto agli altri paesi industrializzati, proprio per
la bassa cultura finanziaria dei clienti e la conseguente minore domanda (rispetto all'estero) di
prodotti finanziari più innovativi e sofisticati.
Il 2008, a sua volta, ha sancito l’entrata in vigore (e a pieno regime) di Basilea 2 (del Nuovo
Accordo sul Capitale) fra gli istituti bancari degli Stati aderenti 454 membri della Banca dei
Regolamenti Internazionali (con sede a Basilea) cosicché anche dai maggiori gruppi italiani
verranno utilizzati sistemi di rating avanzati455, con i quali dovrà essere possibile determinare la
quantità di capitale necessario alle imprese richiedenti credito456 per poter essere considerate sicure
e solide, sulla base del calcolo dei ratios
452
453
454
455
456
457
sul rischio di liquidità457. Inoltre, è estremamente
Per approfondimenti cfr. Regione Toscana, Osservatorio Regionale Toscano sulla Cooperazione, Quarto
rapporto, 2008.
La specifica funzione-obiettivo delle BCC risulta distante, in misura rilevante, dal tradizionale modello
basato sul principio della massimizzazione del profitto o del valore dell’impresa e dagli investimenti in
Borsa.
Gli stati aderenti all’accordo sono: Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Paesi Bassi,
Svezia, Svizzera Regno Unito e Stati Uniti.
Si tratta dei metodi standardizzati (standardized approach) oppure dei metodi di rating interno di primo
livello (foundation internal rating based). A fine 2008 solo Unicredit e Credem avevano ricevuto la
certificazione da parte della Banca d’Italia per utilizzare tali metodi di rating.
L’adozione da parte della maggioranza delle banche italiane (medie e piccole) di metodi standardizzati di
rating non dovrebbe comportare sostanziali modifiche nell’accesso e nel costo del credito per le PMI, in
quanto le piccole e medie avranno la medesima ponderazione (100%) di Basilea I. Invece le piccolissime
e le micro-imprese rientranti nel comparto retail avranno un coefficiente del 75%, ossia la soglia di
liquidità per il loro accesso al credito si è innalzata del 25%.
Se il livello di capitale richiesto non sarà considerato soddisfacente dalla Banca d’Italia, le sanzioni
potranno andare dall'obbligo di incrementare il patrimonio fino al divieto di distribuire dividendi.
169
probabile attendersi una crescita sempre maggiore dell’importanza e dell’utilizzo da parte delle
imprese dei Confidi458 a cui è stato richiesto di ricapitalizzarsi459, anche attraverso la sottoscrizione
delle quote di capitale sul mercato di Borsa460.
In questo contesto, le principali strategie delle banche di credito cooperativo si sono concretizzate
nello sviluppo del sistema di “Classificazione del Rischio di Credito” (CRC) delle BCC, finalizzato
a minimizzare i rischi di adverse selection e di svantaggio competitivo nei confronti delle altre
categorie bancarie. Per le BCC l’utilizzo del sistema CRC nell’ordinaria gestione del rischio di
credito, sarà anche un’opportunità di progredire verso più elevati standard gestionali, fortemente
incentrati su sistemi di autovalutazione e di autocontrollo, avvantaggiate dalla ridotta dimensione,
dalla flessibilità operativa delle strutture e dalla possibilità di una immediata trasmissione delle
nuove procedure su tutto il sistema, in base alle caratteristiche operative ed alle esigenze
gestionali461 di ciascuna azienda locale.
458
459
460
461
Come detto in Appendice (al cap. III) Il Confidi è un consorzio di garanzia collettiva dei fidi che svolge
attività di prestazione di garanzie per agevolare le imprese nell’accesso ai finanziamenti, a breve medio e
lungo termine, destinati allo sviluppo delle attività economiche e produttive.
Il raggiungimento di quest’obiettivo ha permesso la ricapitalizzazione e la ristrutturazione organizzativa
come richiesto (entro il 2007) per l'ottenimento della certificazione di qualità ISO 9001 anche per questi
consorzi. Un Confidi certificato e con buone credenziali (sotto l’aspetto patrimoniale ed organizzativo)
avrà le carte in regola per poter competere sul mercato delle garanzie e fornire servizi sempre più avanzati
ai soci.
Queste operazioni dovrebbero permettere di risolvere il problema legato alla patrimonializzazione
dell’organismo e nello stesso tempo dovrebbero essere il primo passo verso l' iscrizione nell’elenco
speciale degli intermediari finanziari (di cui all’art. 107 del Testo Unico Bancario). Questa evoluzione
permetterebbe ad esempio a FidicoopToscana di agevolare l’accesso al credito delle cooperative socie ed
essere un interlocutore di rilievo nella concessione di garanzia personali ai conglomerati finanziari di
maggiore dimensione.
Per le piccole banche il processo di autovalutazione patrimoniale dovrebbe rappresentare un percorso
gestionale importante per finalità “aziendali” e regolamentari: ossia per accrescere la consapevolezza del
rischio (specie di quello legato a cambiamenti del mercato dovuti a fattori esogeni ed endogeni), per
rafforzare la capacità di valutare e monitorare il rischio e di credito e per assicurare un’idonea valutazione
del livello di capitale sufficiente a far fronte a perdite non previste.
170
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE GENERALI A livello europeo, la nascita delle cooperative ha fatto parte di
una tendenza generale del secolo scorso, per definire forme di impresa nelle quali far convergere sia
il capitale finanziario che quello umano di più individui e famiglie, per soddisfare i molteplici
interessi degli stakeholders462 e della comunità di appartenenza. Nel tempo, l’assimilazione del
modello democratico
e l’affermarsi del cooperativismo463 ha imposto di affrontare, specie
nell’ambito delle cooperative di produzione e lavoro, i problemi tipici delle imprese di capitali:
ossia il mantenimento del ruolo di centralità della dimensione organizzativa in un mercato sempre
più esteso ed evoluto ed i problemi ad essa correlati, ossia il rischio di perdere il legame con l’area
di insediamento e le difficoltà emergenti, in termini di responsabilità sociale, gestionale e di
finanziamento degli investimenti innovativi. In seguito, l’esistenza di veri e propri “distretti
cooperativi”, una risorsa peculiare nelle regioni di più antico insediamento, ha spinto a puntare
soprattutto sulla regolamentazione delle reti (orizzontali e verticali) fra imprese, ampliando anche
l'utilizzo dello strumento dei consorzi.
Ai nostri giorni il ruolo della cooperazione nello sviluppo economico generale rimane un tema
dibattuto e controverso dato che, storicamente, quasi tutti gli economisti hanno attribuito il merito
dello sviluppo economico all’impresa capitalistica e, in particolare, all’imprenditore. In realtà,
l’imprenditore ha risolto le situazioni di ristagno dell’economia agricola, ha aperto nuovi orizzonti e
scoperto nuovi mondi; pressato dalla concorrenza, ha spinto in alto la produttività introducendo
nuove invenzioni e creando processi di produzione e prodotti innovativi. Ma, accanto a questa realtà
esiste un’altra storia del capitalismo, secondaria ma rilevante, in cui l’imprenditore ha anche svolto
un ruolo di freno all’aumento della produttività e del progresso economico e civile. La letteratura e
la storia hanno, infatti, dimostrato solo marginalmente che le rendite dell’imprenditore, a volte,
sono state il risultato della speculazione edilizia, dei monopoli naturali sulle materie prime, dei
privilegi assicurati da legislazioni favorevoli ed anche di ingenti rendite finanziarie personali
sottratte da risorse monetarie originariamente destinate alla crescita economica e sociale della
collettività.
Ed è proprio in questo quadro complesso e spesso taciuto che dobbiamo guardare per osservare il
contributo della cooperazione allo sviluppo economico del Paese, per la creazione di nuova
occupazione e anche per la creazione delle condizioni di stabilità e di tutela del posto di lavoro,
462
463
Cfr. Zamagni S., 2006; Salani M.P., 2006.
Per approfondimenti cfr. ISFOL, I fattori di successo delle imprese cooperative, 2004.
171
grazie alla priorità data nella gestione della cooperativa alla dignità dell'individuo. Bisogna quindi
partire da questo fronte per mettere in evidenza le principali differenze tra imprese di capitali ed
imprese cooperative e certamente affermare che, nel mondo della produzione e nel corso dello
sviluppo economico italiano, sono emersi due elementi che hanno contribuito a dare dignità al
lavoro: il sindacato (per l’attività rivendicativa e contrattuale) e le cooperative che, storicamente,
hanno svolto un ruolo molto importante per l’occupazione della popolazione italiana.
Rimane, comunque, irrisolto il quesito sull'apporto della cooperazione per lo sviluppo economico
nazionale. Mentre quantitativamente si tratta di un valore facilmente quantificabile (ossia in termini
di fatturato del 4-6% del PIL nazionale), non è invece calcolabile il suo contributo qualitativo,
sintetizzabile nella crescita sociale, culturale e personale
dei suoi soci e del territorio di
insediamento. Così come non è misurabile la sua capacità di inserire i giovani nel mondo del lavoro,
con meno barriere di quanto avviene in una impresa profit. Analogamente non è certamente
quantificabile il suo contributo alla socializzazione delle classi emarginate, la sua capacità di
diffondere qualità sui beni, sui rapporti interpersonali e sulla gestione delle relazioni
imprenditoriali. Effetti diretti ed indiretti, beni e servizi non misurabili ma certamente rilevanti per
una crescita sostenibile e civile della società moderna
172
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