le argentine - Provincia di Pisa

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le argentine - Provincia di Pisa
LE ARGENTINE
Partecipano all’incontro (2 marzo 2006):
Rosa Dello Sbarba, Assessora alla Pubblica Istruzione della Provincia di Pisa
Alessandra Peretti, Centro per la didattica della Storia
Virginia Del Re, Associazione Casa della donna di Pisa
Daniela Padoan, autrice de “Le pazze (Un incontro con le madri di Plaza de Mayo)”
Virginia Del Re
Porto oggi i saluti della Casa della donna di Pisa, scusandomi per l’assenza della settimana
scorsa. Prima di tutto un grande ringraziamento ad Alessandra Peretti che ha pensato questa
iniziativa straordinariamente nuova. Penso che, specialmente in Italia, di Resistenza si parli spesso,
ma la Resistenza delle donne come fatto specifico non è alla ribalta come il fenomeno generale, che
conosciamo storicamente con tutte le sue gloriose benemerenze. Quello che trovo particolarmente
nuovo ed affascinante è l’idea che queste resistenze femminili non siano resistenze classiche,
storicamente inquadrate, ma prendano le forme che spesso la vita delle donne prende, cioè si
adattino ad una realtà non di primo piano, non immediatamente restituibile agli schemi militari, di
guerra, di armamenti e altre cose simili. Quindi il problema che si pone è come resistono le donne,
sotto quali forme resistono.
Infatti le madri argentine, di cui sentiremo parlare oggi, hanno “inventato” una forma che è
tipica delle donne: si sono armate della loro maternità e della loro caparbietà. Così pure le
bosniache hanno trovato altre forme calate nel concreto delle circostanze. E per le iraniane lì
addirittura è una storia che si sta facendo, è un qualcosa che non si può ancora dire. C’è una storia
della resistenza delle iraniane? Non credo.
Mi fermo qui. Mi fa piacere che ci sia stata questa idea veramente intelligente e affascinante,
anche per vedere come la storia si fa in forme non canoniche.
Alessandra Peretti
A nome del Centro per la didattica della Storia, ringrazio tutte le intervenute a questo
secondo incontro dedicato appunto alla resistenza delle donne argentine.
Il programma del pomeriggio è questo: dopo una mia breve presentazione del tema di oggi,
vedremo la prima parte di un’intervista ad una delle madri di Plaza de Mayo, fatta dalla nostra
relatrice che è Daniela Padoan, autrice di un bel libro che vi consiglio, intitolato Le pazze. Un
incontro con le madri di Plaza de Mayo. Dopodiché Daniela ci parlerà appunto delle madri e del
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suo incontro con loro. Alla fine, dopo l’eventuale dibattito, sarà possibile assistere alla seconda
parte dell’intervista, purché non sia troppo tardi.
Comincerei dal fatto che nell’appuntamento di oggi, come in quello della volta prossima,
che sarà appunto con le bosniache, parliamo di due grandi tragedie dei nostri tempi. Quelle che si
possono definire, senza esagerare, le due più infami carneficine del mondo occidentale dalla fine
della seconda guerra mondiale. 30.000 desaparecidos in Argentina, 8/10.000 massacrati solamente
nell’enclave di Srebrenica, come vedremo. E quindi Argentina e Bosnia ci rimandano entrambe
immagini di morte, di riesumazione dei cadaveri, di fosse comuni.
Per noi italiani Argentina e Bosnia sono state poi nello stesso modo, io credo, molto lontane
e molto vicine. Molto lontane perché si può ben dire che di queste due tragedie noi non ci siamo
accorti o non abbiamo voluto accorgercene nel momento in cui avvenivano, come se si trattasse di
cose di un altro mondo. Che la Bosnia sia invece molto vicina, da un punto di vista geografico, è
evidente: si arriva in Bosnia con la stessa rapidità con cui si arriva in Germania. Per l’Argentina è
diverso, perché è vero che l’Argentina è geograficamente dall’altra parte del mondo; eppure
l’Argentina è anche la nostra seconda casa. Dobbiamo ricordarci che la popolazione argentina è per
il 40% composta da emigranti italiani, da figli di emigranti, da discendenti di emigranti italiani.
Daniela Padoan, nelle prime pagine del suo libro, racconta che nel mondo latino-americano
si dice che i Messicani discendono dagli Aztechi, i Peruviani dagli Incas e gli Argentini dalle navi,
in quanto provengono appunto dalle navi delle emigrazioni europee, a diverse riprese: questa è la
loro storia. Che ci sia tanta parte di casa nostra nell’Argentina così lontana è dimostrato anche dal
fatto che sono di origine italiana sei su nove membri delle tre giunte militari che hanno massacrato
l’Argentina tra il ’76 e l’83. Ci sono nomi che sono noti: il generale Galtieri, l’ammiraglio Massera,
sono tutti nomi italiani.
Una domanda che io continuo a pormi tutte le volte che penso all’Argentina - e non solo io,
naturalmente - è: perché non l’abbiamo saputo? Perché non abbiamo voluto saperlo? O perché
l’abbiamo saputo e non abbiamo voluto pensarci davvero?
Alla prima di queste domande - “perché non l’abbiamo saputo?” -, prima ancora che nel
libro di Daniela Padoan, io ho trovato delle risposte nelle memorie così dimesse e così drammatiche
di Enrico Calamai, che è stato console italiano in Argentina dal ’72 al ’77. Si può dire che è un
Perlasca dei nostri tempi, anche se non mi risulta che nessuna istituzione italiana gli abbia mai reso
omaggio. Calamai fu console italiano negli anni della dittatura, dopo una prima drammatica
esperienza nel Cile di Pinochet, e, prima di essere allontanato da Buenos Aires dal ministero degli
Esteri che non gli rinnovò l’incarico, salvò molti italo-argentini. Anche se non si possono fare i
conti esatti, almeno 100 italo-argentini dichiarano di dovergli la vita, persone a cui lui procurò
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passaporti, biglietti d’aereo, che nascose negli scantinati del consolato, facendo quello che lui
dichiara essere stato il suo dovere istituzionale, cioè tutelare dei concittadini all’estero. Fu l’unico
diplomatico italiano a farlo.
Dalle sue memorie si ricava dunque la spiegazione del perché non l’abbiamo saputo. Certo a
causa dei caratteri tipici del terrorismo di stato argentino, di cui parleremo fra poco, ma anche per le
complicità gravissime che il mondo diplomatico, economico, politico italiano ha avuto con le giunte
militari dell’epoca. Molti nel nostro Paese erano interessati a che non si raccogliesse, come ci dirà
Daniela Padoan, il grido di aiuto delle madri. La stessa stampa fu in gran parte silenziosa, e sempre
Calamai ci parla dell’unico giornalista che si batté fin all’inizio perché si sapesse quello che
succedeva, il corrispondente del Corriere della Sera, che fu costretto nel giro di un anno a lasciare
l’Argentina e riparare in Brasile, minacciato dagli squadroni della morte e non sostenuto dal suo
giornale, che era allora diretto da un uomo della P2. La P2, immagino che voi lo sappiate, non solo
era strapotente in quegli anni in Italia, ma era con Licio Gelli energicamente al fianco del regime
militare e rappresentava di fatto il vero filone diplomatico tra l’Italia e l’Argentina. L’ammiraglio
Massera, che ho citato prima, era un affiliato della P2.
Questo può spiegare perché non l’abbiamo saputo. Però io sono anche convinta che non
l’abbiamo voluto sapere, né pensarci davvero. Lo devo credere se ricordo quello che è stato
l’atteggiamento mio e di tante persone come me, che pure erano scese in piazza ai tempi del golpe
cileno, che avevano manifestato contro la repressione di Pinochet e che per l’Argentina non hanno
fatto niente di simile. Ci possono essere tanti motivi per questo e, se si finisce con l’indagare nello
psicologico, si corrono dei rischi. Però penso che questa specie di rimozione sia dovuta al fatto che,
a differenza di cinque anni prima, avevamo allora i nostri problemi. In particolare la sinistra aveva
problemi gravissimi: se vi ricordate c’era il terrorismo, il caso Moro, la fine di una militanza
combattiva che naufragava nel privato e nella droga, per alcuni. Non abbiamo voluto sapere
dell’Argentina, forse, anche perché rifuggiamo dalle enormità, perché le enormità ci costringono in
qualche modo a ripensare ed a fare i conti, a ridimensionare le nostre private e pubbliche lamentele.
Nella tragedia argentina ci sono state enormità spaventose, non solamente per quanto riguarda il
numero dei desaparecidos. Ne vorrei ricordare solo due che sono ormai patrimonio comune, anche
e soprattutto perché costituiscono la trama di due film di Marco Bechis, colui che ha avuto il merito
di proporre all’attenzione del vasto pubblico quelle vicende. I film - li avete certo presenti - sono
Garage Olimpo e Figli.
La prima enormità è quella dei voli della morte. Non solo tanti giovani sono stati sequestrati,
torturati e tenuti nascosti mentre le madri giravano da un commissariato all’altro, da un carcere
all’altro, nel tentativo di trovarli; ma poi queste stesse persone venivano caricate su aerei e
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scaricate vive in mare aperto. Chi ha visto Garage Olimpo credo che non potrà mai dimenticare
l’immagine finale con quel grande aereo che vola sull’oceano, il rombo di motori così normale e il
portellone posteriore che si apre per rovesciare il suo carico di morte.
L’altra enormità, che costituisce la trama di Figli, è invece la sparizione dei bambini, cioè
quella specie di strage degli innocenti alla rovescia per cui gli stessi torturatori e uccisori si
appropriavano dei neonati e dei bambini di chi veniva torturato e ucciso. E’ stato calcolato che ben
500 bambini siano spariti in questo modo, bambini dei quali le nonne di Plaza de Mayo - a cui per
altro mi sembra che nelle loro interviste le madri non risparmino critiche – continuano a ricercare le
tracce. Pare che per ora ne abbiano ritrovati 75.
Tutto questo fa sì che, quando si parla dell’Argentina, io senta anche una grande amarezza,
amarezza per noi che non ci siamo stati, dopo tanta mobilitazione per il Cile, dopo tanta emozione
per le immagini dell’assalto alla Moneda, dello stadio-lager di Santiago, delle ambasciate prese
d’assalto. Amarezza per gli esponenti del PCI del compromesso storico che, dopo aver sostenuto il
console Calamai durante le prime ricerche, quando è rientrato in Italia hanno chiuso l’ultima porta
rimasta aperta al dramma argentino, rifiutandogli un ulteriore aiuto ai “suoi guerriglieri”, come li ha
chiamati un funzionario di Botteghe Oscure a cui Calamai si era rivolto. “Ne abbiamo già troppi in
Italia” si è sentito rispondere. Questo è il motivo per cui questo tema di oggi mi è particolarmente
caro. E’ doveroso accennare a tutto questo anche se, come vedremo, dell’Argentina Daniela Padoan
ci parlerà con tutta la forza e la positività che viene espressa dalla resistenza delle madri. Finora ho
parlato infatti del versante tragico di questa vicenda e, rispetto a questo versante tragico, la cosa che
colpisce e che ha dell’incredibile è la forza di una resistenza che è in apparenza particolarmente
fragile, perché è la resistenza degli inermi, degli isolati, di quelle persone che sono particolarmente
ricattabili, proprio dalla paura di fare del male ai propri figli. Che questa debolezza si trasformi
nella forza che traspare da questo libro è veramente una cosa incredibile.
Per concludere rapidamente, voglio ancora darvi alcuni elementi schematici della situazione
argentina dell’epoca. Nel ’55 cade con un golpe militare la dittatura di Perón, che aveva governato
per più di dieci anni, i peronisti vengono messi fuori legge e Perón esiliato. Inizia un periodo di
instabilità in cui si alternano per circa un ventennio presidenti liberamente eletti, successi elettorali
peronisti e colpi di stato militari. Negli anni ’60 si sviluppano poi i movimenti di guerriglia, non
solo la guerriglia “di sinistra” guevarista o marxista, a seconda dell’epoca, ma anche la guerriglia
peronista, perché Perón chiama i suoi seguaci alla lotta armata; in una situazione di crescente
tensione sociale anche per le scelte economiche sbagliate, che avrebbero portato progressivamente
l’Argentina al baratro in cui si è trovata con la bancarotta istituzionale del 2001. A causa di tale
situazione sociale, in effetti, c’è stato un grosso movimento di solidarietà con la popolazione sempre
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più povera, sempre più emarginata, con questa parte della società abbandonata a se stessa. I
desaparecidos di cui parleremo erano per i 2/3 giovani tra i 20 e i 30 anni, in genere figli della
borghesia argentina, che andavano nelle bidonvilles a fare attività di volontariato, come infermieri,
insegnanti, medici, sindacalisti. Il ritorno al potere di Perón nel ’73 non cambiò le cose, anzi
accentuò la corruzione, il disordine, la violenza e la paura dell’esercito che intanto, fin dagli anni
’60, era stato a lezione di contro-guerriglia nei centri organizzati dal Pentagono e aveva reclamato
per sé un ruolo di garante sovracostituzionale contro il pericolo comunista.
Tutto questo, dopo la morte di Perón e la successione di sua moglie Isabelita, porta ad una
situazione di tensione, attentati e violenze, commesse sia dalla guerriglia che dagli squadroni della
morte – su cui io non mi soffermo, naturalmente - che fa sì che in Argentina, nei mesi che
precedono il marzo ’76, che è la data del golpe, ci sia una diffusa attesa di un colpo di stato alla
cilena e che gli stessi militari golpisti si presentino come restauratori dell’ordine. Gli ambienti
diplomatici e politici - lo stesso Calamai ne parla - sapevano cosa si preparava. I militari
convocarono il corpo diplomatico per avvertirlo che non ci sarebbero dovute essere le ambasciate
occupate dai profughi, come a Santiago, e l’ambasciatore italiano si allineò rapidamente, perché la
prima cosa che fece fu di mettere nell’ambasciata le doppie porte, come quelle delle banche, per
ostacolare l’accesso. Difatti non ci furono profughi nelle ambasciate a Buenos Aires. Ci fu quella
repressione clandestina e violenta, senza pietà, che diffuse il terrore nel Paese, attuando un progetto
politico di sterminio degli oppositori che non ha eguali. Una parte della popolazione sicuramente fu
connivente e complice, alimentando l’idea largamente diffusa che la dittatura di Videla fosse una
dittatura moderata, che non avesse niente a che fare con quello che era successo in Cile: e questo
spiega anche l’isolamento in cui le madri furono tenute. Io ho trovato un’espressione terribile, che
mi ha fatto ricordare quello che successe nella Germania nazista negli anni ’30. Quando qualcuno
spariva, l’atteggiamento dei vicini si manifestava nella frase: “Por algo serà”. Per qualcosa sarà.
Qualcosa avrà pure commesso.
Il ’77 e il ’78 furono anni terribili di repressione da questo punto di vista. Il ’78 fu anche
l’anno dei campionati mondiali di calcio: l’Argentina era sotto gli occhi del mondo, moltissimi
sportivi andarono in Argentina a seguire le partite, la Nazionale argentina vinse il mondiale e tutto
questo avveniva mentre nei “garage Olimpo” della città si torturavano le persone.
Le cose andarono avanti fino all’82, fin quando la spedizione suicida nelle Malvinas
provocò l’intervento militare del governo della Thatcher, che sconfiggendo la scelta nazionalista
argentina provocò l’implosione della stessa giunta militare. Seguirono libere elezioni con la vittoria
di Alfonsín e la lenta ripresa democratica, anche se le madri dicono che non c’è democrazia laddove
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non c’è punizione dei colpevoli, non c’è democrazia laddove i bambini sono costretti a prostituirsi
per mangiare o muoiono di fame per le strade.
Questo è il quadro, presentato inevitabilmente in modo molto sommario, che fa da sfondo a
quello che vi dirà Daniela Padoan, dopo aver presentato il video con la prima parte della intervista
che lei ha fatto.
Daniela Padoan
Solo due parole, per spiegare quello che vedrete adesso, un’intervista che ho fatto ad Hebe
de Bonafini, la presidente delle madri di Plaza de Mayo. E’ un documentario che abbiamo girato nel
1999, ma che non è mai andato in onda ed è quindi montato abbastanza artigianalmente. Inoltre non
potevamo permetterci un doppiaggio e le madri, tutte le volte che in Italia vanno ad incontrare
qualcuno, chiedono di essere tradotte da un gruppo di italo-argentini - che non sono stati
desaparecidos per miracolo e sono andati poi esuli - perché dicono che nel loro linguaggio ci sono
sfumature che un semplice traduttore non capisce e loro vogliono che siano rese esattamente. Per
questo motivo non vi stupite che ci sia una voce maschile a doppiare Hebe.
Il contesto è leggermente diverso da quello attuale, perché nel ’99 era ancora al potere
Menem e Menem fa parte di quella serie di presidenti che le madri dicono fintamente democratici,
perché non solo non hanno fatto i conti con quello che è accaduto in Argentina durante la dittatura,
ma addirittura hanno protetto e garantito l’impunità dei colpevoli. Tant’è che Menem, finendo
l’opera di Alfonsín che aveva già fatto due leggi, di cui parleremo dopo, a tutela dei colpevoli,
emanò un indulto. In questo modo i gerarchi del regime di cui vi parlava Alessandra hanno passato
la vita in lussuose ville con piscine, dove potevano di fatto ricevere chiunque e talvolta anche
andarsene in giro per Buenos Aires.
Hebe all’inizio del governo di Menem era stata intervistata da Gianni Minà ed era stata
l’unica volta che la si era vista in televisione, che si era parlato in televisione delle madri. In quella
circostanza Hebe si era dimostrata, com’è in realtà, piuttosto spiccia e aveva parlato con la
radicalità alla quale sono arrivate le madri, partendo dalla loro immediatezza di donne semplici,
casalinghe, poco istruite, che escono dalle cucine cercando i figli e imparano man mano cos’è la
politica, ma anche che la cosa necessaria è dire il vero e scegliere le parole per dirlo.
Hebe, in questa intervista di Minà, aveva chiamato il governo Menem “una pozzanghera di
acqua fetida” e aveva detto che Menem era un trafficante d’armi. Tre anni dopo Menem è stato
effettivamente condannato per traffico d’armi, perché aveva dato armi alla Croazia e all’Ecuador.
Tuttavia il governo Menem denunciò la RAI e Minà per questa dichiarazione di Hebe. Lo stesso
accadde per il fatto che Hebe aveva parlato del coinvolgimento del Nunzio apostolico e delle alte
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gerarchie ecclesiastiche col regime militare, pur dicendo che in Argentina invece tutta una parte di
Chiesa terzomondista e di sacerdoti che lavoravano nei barrios erano stati vicini ai loro figli,
addirittura erano stati loro stessi sequestrati e torturati. Però anche lì ci fu una denuncia da parte del
Vaticano.
Per questo motivo, quando io feci la mia intervista a Hebe alla fine del governo di Menem e
provai a chiedere il materiale di copertura - si chiamano così le immagini che vedete sovrapposte
all’intervista -, in particolare quando chiesi la cassetta famosa di Minà, non riuscii ad avere quasi
nulla. La cassetta di Minà era stata secretata, non in modo formale, naturalmente, così come questo
documentario non si può dire che non sia andato in onda per una vera censura. Ci si trova nelle
sabbie mobili, non si hanno risposte e poi le cose appunto non si fanno.
Abbiamo cercato comunque di finire l’intervista e questo che vedrete è il risultato. Almeno
potrete sentire in modo molto immediato la voce di Hebe. Quello che dice è tuttora assolutamente
attuale, salvo il fatto che intanto è stato eletto Kirchner e sembra che in Argentina si stia andando
verso una possibilità di democrazia vera e anche di fare i conti con 30 anni in cui la giustizia non è
esistita.
Intervista a Hebe de Bonafini (dal video “La piazza delle madri dal fazzoletto bianco”,
regia di Dario Barezzi, prima parte)
D. Qual era la situazione politica in Argentina, prima del golpe?
R. Prima del golpe militare c’era un governo populista-nazionalista che perseguitava tutti gli
oppositori. I nostri figli erano oppositori politici, rivoluzionari, e non erano d’accordo con quello
che succedeva, con il piano economico di quel governo, con la persecuzione ideologica, politica,
sociale di tutti i giovani, le donne e gli uomini che avevano deciso di trasformare il paese in
qualcosa di migliore, non così perverso. C’erano assassinii e tanta morte nelle strade già col
governo di Maria Estela Martinez de Perón, che era la donna di Perón, e che ha cominciato la
distruzione del paese.
D. Voi sapevate che cosa facevano i vostri figli?
R. I miei figli hanno cominciato a fare politica da molto giovani, a domandarsi perché
siamo qui, in questo mondo, cosa facciamo, perché viviamo, come dobbiamo lottare. Ci hanno
insegnato che cos’è la solidarietà, hanno cominciato a fare politica seria da molto giovani, con
analisi molto profonde della realtà del paese. Allora hanno deciso di unirsi ad altri giovani per
formare gruppi politici rivoluzionari, per opporsi e affrontare la realtà perversa e sinistra che gli è
toccato vivere in quell’epoca. E man mano che sono avanzati i governi repressivi, loro hanno avuto
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più impegno e responsabilità. Facevano il loro lavoro politico, alcuni dentro l’università, altri in
forma di guerriglia, altri in quartieri marginali, rendendo consapevole la gente, dando coscienza
politica, per non lasciarsi opprimere, per non lasciarsi perseguitare, reprimere. Loro avevano molto
chiaro che cosa stava succedendo e che cosa sarebbe successo e ci dicevano: “Mamma, succedono
cose molto gravi qui nel paese. I militari hanno molta forza e gli Stati Uniti stanno mettendo la
prepotenza”. Noi non ci credevamo. Non capivamo niente. Li ascoltavamo. Ma man mano abbiamo
capito che loro avevano ragione.
D. Quali sono state le prime avvisaglie che vi hanno fatto capire ciò che stava
accadendo?
R. I primi fatti che mi hanno colpito sono stati quando ho visto che all’angolo della mia
casa suonavano il campanello, usciva una donna incinta e facevano un’esecuzione sommaria lì,
senza domandare chi era. E l’hanno lasciata lì, buttata per la strada, circondata di poliziotti, morta.
Davanti a questi crimini orrendi uno si impressiona, ma quando è molto ignorante non analizza. Noi
sapevamo chi lo aveva fatto, ma non perché. E quel perché lo abbiamo capito dopo tanti anni. Dopo
c’è stato l’assassinio di tre giovani che stavano arrivando in moto. Li inseguiva la polizia, e li hanno
uccisi in un angolo e li hanno lasciati lì tutto il tempo. Uno si impressiona, si terrorizza, però non
analizza. Non analizza perché e come sta succedendo questo. Questo è molto triste, è molto
doloroso, ma ci è successo, mi è successo.
D. Che cosa è successo nelle vostre case il giorno del golpe?
R. Il giorno del colpo di stato ci siamo svegliati con quel comunicato terrificante. Mio
marito diceva: “Non andiamo a lavorare, che cosa succederà?”. Però i miei figli, e anche i loro
amici che arrivavano sempre a casa, sembrava che avessero toccato un vespaio. Andavano,
venivano, facevano telefonate, e quello stesso giorno sono cominciati i sequestri; ma loro non ci
dicevano quello che stava succedendo con i loro compagni, ma ci dicevano che cos’era il colpo di
stato, che era lo stesso che era successo in Cile, e che ci sarebbero state molte più persecuzioni.
Tuttavia il giorno del golpe si vedeva che la gente era contenta che erano arrivati i militari, e noi
non capivamo come mai la gente poteva festeggiare questi assassini al potere, ma non sapevamo
nemmeno noi che cosa erano capaci di fare. Noi non sapevamo che cosa sarebbe successo,
quell’orrore, non sapevamo che i militari erano repressori, che dipendevano dagli Stati Uniti.
Sapevamo qualche cosa, ma non con una comprensione esatta. Era un giorno amaro, dove uno
vedeva le due differenze: quelli che erano d’accordo con i militari e gli altri, che erano spaventati.
D. Quando ha cominciato a esservi chiaro che il golpe cileno, e poi quello argentino,
facevano parte di una strategia che riguardava l’intera America Latina?
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R. Quando è successa quella cosa in Cile, per me il Cile era così lontano. Mio figlio diceva:
“Guarda”. Loro avevano tanta illusione con quel governo socialista, gli aveva dato una speranza
molto forte. Era così vicino. Ma in tutto il Sud America c’erano problemi. C’era il tema della
Bolivia, c’erano già altri segnali molto gravi; la verità è che i miei figli capivano, mi portavano cose
da leggere, ma io pensavo: “No, non può essere”. Anche perché non si vuole capire, non si vuole
vedere. Credo che fosse anche questo. Man mano non è che si è capito, ma lo abbiamo vissuto sulla
nostra pelle.
D. Il golpe era stato preparato già da tempo?
R. I militari dell’America Latina e gli uomini che erano al governo di Isabel Perón sono stati
preparati dagli Stati Uniti con molto preavviso. Il capo della polizia, dopo, è diventato il ministro
degli Interni della dittatura, dunque aveva le liste di tutti i compagni, di tutti i giovani che facevano
militanza politica attiva. C’era il capo militare dell’esercito, il generale Videla, che poi fu il
presidente della giunta militare. Poi c’era Martinez de Hoz, che aveva già un ruolo preciso allora, e
poi fu il ministro dell’economia della dittatura che portò al disastro. Noi non abbiamo capito che
rapporto c’era tra un piano economico così spaventoso, dove tanta gente sarebbe diventata ricca e
milioni e milioni così poveri, e la scomparsa dei nostri figli. Ma poi abbiamo capito che per
applicare questo piano era necessario far scomparire tre generazioni.
D. Qual era più esattamente la situazione economica in Argentina prima del golpe?
R. Ci sono stati tanti cambiamenti bruschi, la svalutazione, col denaro che non valeva più
niente. I sindacati avevano soltanto una organizzazione peronista, quindi erano parte del colpo di
stato. Loro segnalavano i compagni. Le multinazionali davano molto denaro, non solo ai sindacati
ma anche ai politici. Questo lo abbiamo imparato dopo, non allora. Lo abbiamo visto dopo. Lo
abbiamo sofferto dopo. Perché uno non sa di politica. Io leggevo il giornale, leggevo la cronaca, ma
mio figlio mi diceva: “Leggi la politica nazionale, la politica internazionale, e dopo se vuoi il resto”.
Ma era molto difficile capire.
D. I militari non hanno preso il potere da soli. Quali sono state le connivenze, sia
interne che esterne?
R. L’opposizione politica al peronismo, cioè a quel nazionalismo fascista, era rappresentata
dai radicali. Ma i radicali erano molto vicini ai militari, sono andati a bussare alla porta dei militari
perché venissero a salvare la patria. Durante il governo peronista si erano formate le Tre A:
Alleanza Anticomunista Argentina. Tutti i giovani che erano comunisti o socialisti venivano
assassinati, perseguitati, emarginati dal lavoro. Allora i radicali hanno chiesto ai militari di venire a
salvare la patria. Era molto utile per loro continuare a reprimere i giovani rivoluzionari che
facevano attività politica in fabbrica e nelle università. Nelle università erano molto combattivi. E lì
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man mano è cominciata questa cosa terribile della complicità dei politici e anche della complicità
della Chiesa, una complicità molto grande che ha sostenuto il colpo di stato e che sostiene tuttora
l’idea militarista.
D. Quali sono state le responsabilità degli Stati Uniti?
R. Gli Stati Uniti hanno preparato i militari nella scuola di Panama, nella scuola de Las
Americas, hanno insegnato le torture più allucinanti, le maniere più nazi. Hanno dato armi, tutte
quelle che sono state usate per uccidere i nostri figli. Hanno dato molti soldi. C’è un debito estero
che non si può pagare nemmeno adesso, eppure gli Stati Uniti non fanno pagare gli interessi. Hanno
inviato tutte le macchine Falcon, della fabbrica Ford: cento, mille di queste macchine Ford Falcon
circolavano per il paese a sequestrare i nostri figli. Gli Stati Uniti avevano degli ambasciatori che ci
hanno fatto credere che ci avrebbero aiutato e noi siamo andate molte volte a denunciare
all’ambasciata degli Stati Uniti quanto avveniva: e abbiamo capito che proprio lì c’erano i nostri
nemici. Ma fino a che non ce ne siamo rese conto è passato molto tempo; fino a che non abbiamo
imparato che gli Stati Uniti avevano una grande responsabilità, e hanno una grande responsabilità
adesso di quello che succede, anche in altri paesi del mondo. Questo lo abbiamo imparato dopo un
po’ di tempo. Quando uno è in casa, cucinando, lavando, attendendo ai suoi figli, o lavora in
fabbrica, non ha tempo di pensarci e questi governi nazionalisti-fascisti come il peronismo vogliono
sempre che i popoli non siano preparati ed educati. A loro serve avere un popolo ignorante per
poterlo convincere, per poterlo reprimere.
D. Quello che gli Stati Uniti hanno fatto in Argentina rientrava nella più complessa
Operazione Condor?
R. Dell’Operazione Condor abbiamo saputo in una riunione dell’Organizzazione degli Stati
Americani in Bolivia. Siamo andati lì nel 1979, perché andavamo dappertutto, non perché capivamo
cos’era. Era un posto dove si poteva denunciare e siamo andati. Quando siamo arrivati, ci siamo
trovati con una deputata paraguaiana che ci ha detto: “Madres, io ho una persona molto seria che mi
dice che c’è un intercambio di prigionieri tra i nostri paesi. Qualcosa che si chiama Operazione
Condor”. Noi non capivamo. Ci ha dato delle lettere. Noi abbiamo letto, le abbiamo analizzate
insieme a lei, abbiamo capito che era una cosa molto importante e insieme - donne paraguaiane e
madres - abbiamo fatto una denuncia dell’Operazione Condor. Era bellissimo perché la stessa
Organizzazione era responsabile di questa cosa; però, con l’ignoranza delle madres, abbiamo
denunciato lo stesso. Una denuncia che non è stata ascoltata. E poi abbiamo cominciato a
investigare e abbiamo capito che c’era uno scambio di prigionieri cileni in Argentina, consegnati da
Videla a Pinochet, o viceversa, da Pinochet a Videla. Oggi noi madres nel nostro archivio abbiamo
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le lettere dell’ambasciatore nordamericano in Argentina a Kissinger, in cui domandava: “Che cosa
facciamo adesso?”. E Kissinger rispondeva: “Va’ avanti”.
Alla prima riunione dell’Operazione Condor, che si è fatta in Cile, c’erano tutti i capi della
polizia di Paraguay, Cile, Argentina, Uruguay. In quel momento tutti i capi della polizia erano
militari, e hanno deciso di infiltrarsi anche dentro l’ambasciata, per capire quando arrivavano i
rifugiati e per poterli sequestrare dentro l’ambasciata e fare lo scambio con altri paesi. Abbiamo
tanta documentazione anche della consegna dei prigionieri della dittatura paraguaiana; a questo
signor Acosta, la Tigre Acosta, che era un capo della Marina, hanno dato due giovani, una donna e
un uomo argentini, che sono stati portati via aereo fino a Buenos Aires e poi assassinati nella Scuola
della Meccanica della Marina. Lo stesso è successo con una compagna nostra, che era paraguaiana
ed era fuggita dalla dittatura paraguaiana: è stata sequestrata nel 1977 e consegnata al governo del
Paraguay, ma noi abbiamo capito questo molti anni dopo, non in quel momento.
D. E’ vero che dopo la risposta di Kissinger all’ambasciatore americano, nel giro di
pochi giorni scomparvero novemila persone?
R. Quando Kissinger disse: “Va’ avanti” all’ambasciatore americano in Argentina, in
quindici giorni furono sequestrate novemila persone in diversi posti del paese. Sappiamo che queste
cifre non sono accettate dai governi. I governi credono che siano meno: noi sappiamo che ci sono
più di trentamila scomparsi, ma anche solo uno scomparso ci deve preoccupare. Non è una
questione di quantità. Novemila, diecimila sono comunque troppi. La responsabilità degli Stati
Uniti in questo, nella morte, nella distruzione, nella tortura in America Latina, è feroce. Continua a
essere feroce.
D. Che cosa pensa delle ammissioni e persino delle scuse che sono state fatte
ultimamente da rappresentanti degli Stati Uniti, tra cui Carter?
R. Il governo di Carter ha una grande responsabilità, ma adesso a Carter hanno dato
un’immagine di difensore dei diritti umani. Noi abbiamo avuto l’opportunità di dirgli quello che è
in realtà nel 1994, in una riunione dell’ONU, quando è venuto da noi a parlarci di diritti umani: lui
che ha inviato le armi, che ha permesso la tortura, la morte, la scomparsa. Carter ha una grande
responsabilità, e in definitiva l’hanno tutti gli Stati Uniti, un grande impero coi suoi deputati,
senatori, presidenti. Non è una sola persona che è responsabile, ci sono tanti responsabili. E’ da tanti
anni che gli Stati Uniti vogliono prendere possesso di tutta l’America Latina. Di tutto il mondo, in
realtà, non solo del nostro paese, perché c’è tanta ricchezza, c’è tanta terra. Ma noi dobbiamo lottare
contro di loro.
D. Prima parlava della Chiesa: quali sono state le responsabilità della Chiesa?
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R. La responsabilità della Chiesa fu totale, perché il Nunzio apostolico inviato nell’epoca
della dittatura era un grande amico dei militari. La Chiesa garantiva direttamente che si torturava
cristianamente, si assassinava cristianamente. Fino a sette ore di tortura non era peccato. E
l’assassinato era buttato nel fiume o in mare con una iniezione che lo addormentava: questa era una
maniera cristiana di uccidere, perché erano addormentati. I sacerdoti erano cappellani dell’esercito,
della marina, della polizia. Prendevano uno stipendio di giudice istruttorio. Usavano armi, usavano
stivali e pistola. Erano sacerdoti armati. Tutta l’altra parte della Chiesa del Terzo mondo fu
perseguitata, perché stava insieme con i nostri figli. Ci furono anche religiosi assassinati, insieme a
qualche vescovo che lottava per difendere i poveri. La Chiesa fu partecipe diretta delle decisioni
della dittatura, e noi madres abbiamo fatto una denuncia molto forte contro il Nunzio Pio Laghi,
senza risposta. Ma noi ci aspettiamo che molta gente capisca che la Chiesa non può essere partecipe
dell’orrore, della dittatura e del genocidio, perché diventa una Chiesa genocida.
D. In Argentina dopo il golpe iniziò il terrore. Vi furono più di trecento campi di
concentramento e trentamila desaparecidos. Ci può spiegare che cosa accadde?
R. In Argentina dei campi di concentramento all’inizio tutti sapevano, ma nessuno vedeva
dove erano. Dove sono? Nei commissariati? Sembrava una bugia, perché non era possibile che
davanti ai commissariati ci fosse l’albero di Natale, e dentro ci fossero tante persone torturate. Man
mano ci siamo convertite in investigatori privati e abbiamo capito che i campi di concentramento
nascevano nelle case, in grandi capannoni, nei commissariati, in alberghi e presso le multinazionali,
che prestavano i loro capannoni e i loro camion per sequestrare e torturare e massacrare i nostri
figli. Le multinazionali hanno molta responsabilità nei sequestri, perché i nostri figli si opponevano
alla loro politica. Le multinazionali pagano ancora oggi i politici per fargli tenere la bocca chiusa.
Sono complici di quello che è successo. Trentamila scomparsi sembrano... è quasi una città.
Quindicimila esecuzioni sommarie. 8.900 prigionieri politici, nelle carceri sinistre. Più di un
milione e mezzo di uomini e donne in esilio. Un paese rovinato, schiacciato, sottomesso,
terrorizzato.
D. E’ stato allora che voi madri avete cominciato, dapprima individualmente, a fare
un’azione politica?
R. Noi madri, quando ci scompare un figlio... non si capisce niente, ma si capisce che ci
sono altre storie simili. Ma uno ha sempre pensato: “A me non succederà”. E allora esce fuori e
dove va? Dove ci hanno insegnato le famiglie: dai giudici, la giustizia. Come, non c’è giustizia?
Allora si va dal prete, dall’amico, dal politico: e tutte le porte sono chiuse. E allora un giorno una
madre ha detto: “Basta. Noi stiamo pregando, basta, andiamo in piazza. Facciamo una lettera a
Videla, che ci dica dove sono i nostri figli”. E così nel ’77 in 14 donne, poi 33, siamo andate per la
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prima volta in piazza, ma per le nostre storie personali, come una cosa individuale; ma man mano
abbiamo capito che la lotta individuale non aveva senso, che lottare solo per il proprio figlio non
faceva crescere niente. Man mano abbiamo chiamato altre madres, convocandole in piazza, per dare
più peso a questa lettera, e così eravamo diventate un gruppo grande. Allora la polizia è venuta e ci
ha detto: “C’è stato di assedio, non potete stare qui”. Ci ha picchiato e ha detto: “Camminate”. E
così è iniziata questa marcia che ha 22 anni. Camminando, marciando, in un grido soffocato di
richiesta di giustizia. Certo che all’inizio volevamo trovare i nostri figli. Abbiamo cercato
disperatamente, tormentosamente, dappertutto. Carceri, commissariati, posti dove c’era l’esercito.
Ci ingannavano sempre. Ci dicevano: “Nel tal posto è arrivato un camion carico di persone strane.
Saranno desaparecidos”, e lì correvamo. Ma quando arrivavamo alla porta di quella casa ci
dicevano: “Non c’è niente”. Nessuno sapeva niente. I giudici sono stati grandi complici della
dittatura e c’è stato un uomo che ha preso in giro le madres, che diceva di non sapere niente e che
gli scomparsi non c’erano, mentre era un grande servitore della dittatura.
D. All’inizio eravate casalinghe.
R. All’inizio era molto difficile uscire fuori di casa, era molto difficile spiegare alla famiglia
perché eravamo fuori tutto il giorno; ma poi la famiglia ha cominciato a capire che la lotta, la
ricerca era la cosa più importante. Noi continuiamo a essere donne di casa, donne che si occupano
dei propri figli, delle proprie mamme. Io ho una mamma di novant’anni. Ma essenzialmente
abbiamo messo la nostra vita al servizio della nostra lotta. Abbiamo scelto questa lotta, di non stare
zitte, di non stare ferme. Uno diventa migliore quando lotta. Io mi sento più sana, più sicura che non
abbandonerò mai i miei simili; e finché ci sarà una sola madre, un solo giovane, un solo amico, un
solo compagno che li nominerà, un solo programma TV che li ricorderà, un solo film, una sola
radio, una sola lettera, i nostri figli non moriranno. Non permetteremo che i nostri figli muoiano. I
nostri figli vivono con noi.
D. Lei ha perso due figli.
R. Io non ho perso i miei figli, perché li porto dentro di me. Sono incinta per sempre di loro.
I miei figli li hanno portati via, li hanno sequestrati, hanno voluto farli scomparire, ma non ci sono
riusciti. Hanno voluto buttarli in mare, ma non ci sono riusciti. Perché ci siamo noi, a chiamare per
loro, a urlare, e ci sono i loro compagni, i figli dei nostri figli, i loro genitori, i loro fratelli. Io non li
ho persi. Li ritrovo tutti i giorni. Al mattino presto, quando mi alzo e guardo la loro fotografia con le
loro facce bellissime, e lascio che loro mi guardino, solo per un attimo, così mi posso ricordare di
quel “ciao mamma” detto al mattino presto. E poi è molto difficile perché quello che si dimentica
per primo è la voce. A volte mi sforzo di ricordare la loro voce, ma uno si dimentica del timbro
della voce. E voglio immaginarli adesso, ma non ci riesco, anche se una cosa non potrò mai
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immaginarmi: quella di vedere i miei figli come un cadavere, perché un rivoluzionario non è mai un
cadavere.
D. Voi non avete mai accettato il discorso della riesumazione dei cadaveri, né quello del
risarcimento.
R. Per questo che ho appena detto, noi madres non accettiamo la morte dei nostri figli. E
non accettiamo la riesumazione dei cadaveri. E’ una cosa sinistra. I nostri figli hanno lottato per la
vita e sono vita pura, e anche noi lottiamo per la vita contro la morte e non accettiamo il
risarcimento economico che ci vogliono dare per i morti. Nessuno dà un risarcimento per un vivo. Il
governo vuole dare 250.000 dollari per ogni scomparso. E’ ripugnante che la vita valga denaro, la
vita vale vita e a quella dei nostri figli non permetteremo mai che nessuno metta prezzo. Nessuno
metterà prezzo alla loro vita. La loro vita è troppo forte e troppo grande. Hanno donato tutta la
propria vita al loro popolo, come ha detto Marcos: “Diamo la vita perché altri vivano, perché altri
sognino”. Come possiamo prendere soldi per quella vita? Non c’è denaro, non ci sono soldi che
paghino quella vita, né la loro né quella di nessun altro essere umano. Così noi madres possiamo
andare a testa alta e dire alla gente: “Signori, noi continueremo a lottare in questo mondo perverso,
perché la vita non ha prezzo e può essere spesa solo al servizio di un altro. Noi abbiamo imparato
questo dai nostri figli, la vita vale quando uno la mette al servizio di un altro, quando la dà a un
altro, così l’altro può vivere, e la dà con generosità, senza aspettarsi niente. Non ci interessa un
monumento per i nostri figli. Loro non hanno scelto di essere eroi e martiri. Amavano la vita e per
questo l’hanno donata”.
D. Tutti i giovedì avete cominciato ad andare in Plaza de Mayo. Come hanno reagito le
autorità?
R. All’inizio era molto difficile perché eravamo molto sole e ci arrestavano tutti i giovedì; e
al commissariato ci mettevano in cella, a volte con un morto. Ma noi decidemmo che quando
arrestavano una di noi ci saremmo fatte arrestare tutte. Andare in piazza durante la dittatura era
molto duro. Abbiamo madres desaparecidas, hanno sequestrato tre delle nostre migliori madres.
Molte volte siamo state dentro anche per quindici giorni. Niente ci ha fermato, né chiuso la bocca.
Abbiamo deciso di non abbandonare mai questa piazza. La piazza: è molto difficile spiegare che
cosa si sente quando si arriva qui. Io ho bisogno di un paio di minuti per l’incontro che ho con i
miei figli. Sono loro che ci danno la forza per continuare, lì. Credo che sia un vero miracolo, la
resurrezione che c’è in piazza. Dove loro ci accompagnano, dove questo fazzoletto ci dà forza, dove
quando una si mette questo fazzoletto si sente più alta, più forte, più convinta.
D. Può raccontare la volta che vi hanno puntato le armi addosso e voi avete gridato
“fuoco!”?
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R. Un giorno arrivò un personaggio dagli Stati Uniti e noi abbiamo pensato: “Questo ci
aiuterà”. Siamo andate in piazza, al mattino, perché lui arrivava al mattino. Allora ci hanno detto:
“Andate via” e noi abbiamo risposto: “No, rimaniamo qua”. Questo era il delegato dei diritti umani
degli Stati Uniti, che poi è stato ambasciatore in Argentina e adesso è presidente di una delle
multinazionali più grandi. Figuratevi voi come i giochi fossero già fatti. E quel giorno per mandarci
via hanno messo un camion dell’esercito, sono scesi di corsa, noi ci siamo prese forte sottobraccio.
Loro hanno detto: “Puntare”. E noi abbiamo detto: “Fuoco”. Tutti i giornalisti hanno chiesto: “Chi
sono questi gruppi di donne che hanno gridato “fuoco” a chi li puntava?”. Noi madres abbiamo
deciso di dare la vita per i nostri figli. Nel momento in cui uno partorisce un figlio gli dà la vita,
credo che tutte le donne quando partoriscono dicano: “Se succede qualcosa, voglio che viva lui, non
io”. In quel momento è quello che noi pensiamo: la vita per loro. E noi non abbiamo paura dei
militari, perché la vita di noi vale per questo, perché l’abbiamo donata, per questa lotta.
D. Vi chiamavano le pazze.
R. E’ vero, ci chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse offensivo. Certo, ci
mettevano dentro tutti i giovedì e noi ritornavamo, e loro ci dicevano: “Eccole lì, le pazze. Le
arrestiamo e loro ritornano”. Ma noi pensiamo che siamo pazze d’amore, pazze di ritrovare i nostri
figli, e perché no? Un po’ di pazzia è importante per lottare; e così come facciamo sempre, abbiamo
ribaltato il significato dell’insulto di questi assassini e a noi non ci offende che ci diano delle pazze.
Per fare quello che facciamo dobbiamo essere un po’ pazze. La follia è molto importante. Alle volte
i pazzi e i bambini sono gli unici che dicono la verità.
Fine della prima parte dell’intervista
Daniela Padoan
Anch’io, ogni volta che rivedo queste immagini, continuo a stupirmi di come delle persone
che hanno vissuto un’esperienza così atroce di dolore possano apparire tanto serene. Per esempio
Hebe, che avete visto, ha perso nel giro di un anno e mezzo prima il figlio maggiore, poi il figlio
minore, infine la moglie del figlio maggiore che viveva in casa con lei, ed è rimasta con una
bambina che allora aveva 12 anni. A quel punto ha cominciato a cercare ovunque, ma non pensava
che i figli fossero morti.
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Le madri dicono di aver accettato fin dall’inizio questo insulto di “pazze”, che veniva dato a
loro in Argentina non solo dai militari, ma anche dalle persone che assistevano a ciò che accadeva
facendo finta di nulla, perfino dai tifosi di calcio che più tardi durante i campionati del mondo
riempivano gli stadi e volevano metterle a tacere perché rovinavano l’enorme festa organizzata da
un Paese dove la democrazia, seppur “vigilata”, come dicevano loro, aveva arginato il comunismo,
perché questo era lo spettro. E questo è un discorso sul quale magari si può tornare.
Queste donne cominciano singolarmente a vedere che i figli non tornano a casa. Avevano
imparato a capire che facevano politica in qualche modo, ma non avevano le idee molto chiare di
cosa questo significasse. Raccontano molto spesso che i figli facevano riunioni in casa, andavano
magari a fare volontariato nelle bidonvilles, nei quartieri dove già una miseria terribile cominciava a
dilagare a quei tempi. Soltanto una minoranza di questi giovani ha fatto parte delle formazioni di
guerriglia, che erano nate in un Paese dove i golpe si susseguivano uno dopo l’altro, un Paese dove
già esisteva un’associazione di fatto completamente interna al governo, ma non ufficiale, segreta,
che si chiamava Tripla A, Alleanza Anticomunista Argentina, che andava in giro fucilando e
sequestrando per la strada, facendo sparire quelli che venivano considerati oppositori.
In questa situazione, alcuni hanno scelto forme di resistenza armata, una minima parte. Altri
hanno cercato forme di resistenza che passavano attraverso varie attività, quelle della Chiesa del
Terzo mondo per esempio, del volontariato medico; alcuni semplicemente erano studenti che
lavoravano nel movimento studentesco delle scuole medie superiori e delle università.
Mentre prima dicevate che questa iniziativa è all’interno di un progetto didattico che si
rivolge a studenti e insegnanti, mi veniva in mente che in Argentina proprio gli studenti e gli
insegnanti sono stati tra i principali nemici del potere, anche prima del golpe del ‘76, perché la sola
idea di cultura, la sola idea di insegnamento era considerata di per sé sovversiva. In particolare lo
studio delle materie umanistiche lo era. Sono stati letteralmente sterminati sociologi, psicologi,
psicanalisti, soprattutto i lacaniani, gente di teatro, attori, sospetti in quanto tali, al di là di
qualunque attività potessero in quel momento esercitare.
Quindi le madri si trovano in un Paese dove, senza capire bene come e perché, i figli
scompaiono e nessuno dice loro, però, né che i figli sono stati arrestati, né che sono stati uccisi. Era
stato pianificato fin dall’inizio che, a differenza di quello che aveva fatto Pinochet in Cile, in
Argentina non si sarebbero dovuti vedere gli stadi pieni di prigionieri e il mondo non avrebbe
dovuto gridare allo scandalo.
Questa categoria dello scomparso, del desaparecido, non è venuta fuori poco per volta in
modo casuale, è stata scientemente pensata da militari che per altro avevano alle spalle una
formazione molto specifica. Lo stesso Perón era andato in Italia e in Germania durante il
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nazifascismo a imparare, a vedere coi propri occhi sul campo i meccanismi della repressione
totalitaria, ed aveva teorizzato queste forme di controllo del potere. Ma poi, in Argentina, dopo le
ondate di immigrati ebrei che scappavano dai pogrom e dalle persecuzioni, è arrivata un’altra
ondata, alla fine della guerra, che era quella dei gerarchi nazisti che scappavano dai processi in
Europa. In Argentina ci sono stati Mengele, Eichmann, Priebke, a Bariloche. I gerarchi argentini
erano impregnati di ideologia nazifascista. Ci sono state molte testimonianze, di prigionieri che
sono riusciti a salvarsi, che durante il golpe il saluto era “Heil Hitler”, che c’erano le svastiche
dipinte sui muri delle prigioni, che insomma tutti i riferimenti erano al nazismo. E’ un Paese dove
viene pianificata una sorta di genocidio, anche se il termine “genocidio” ha un’etimologia che
richiama la volontà di estirpare un intero popolo; qui si tratta piuttosto della volontà di estirpare una
categoria di persone considerate nemiche, in quanto ideologicamente portatrici di un progetto
diverso.
Questi ragazzi, anche quelli che, come vi dicevo, facevano cose assolutamente innocue,
hanno cominciato ad essere considerati un “cancro della società”. Venivano portati via non da
militari in divisa, ma quasi sempre da individui in borghese che, appunto come diceva Hebe,
entravano nelle case nel cuore della notte e portavano via le persone a bordo di macchine senza
targa, oppure le prendevano a scuola, sul posto di lavoro, in mezzo all’indifferenza sempre più
grande della gente. Questa è una cosa molto inquietante perché evidentemente, quando un regime
riesce ad individuare una categoria di persone e a farle cessare di esistere in quanto individui, ma a
definirli in quanto categoria - è quello che è stato fatto per gli ebrei – una minaccia per la società, un
cancro, un nemico interno da estirpare, chi sta attorno a queste persone diventa potenzialmente
nemico o sospetto e gli altri cercano di prendere le distanze, perché non vogliono essere in nessun
modo coinvolti.
Così queste madri non solo vedono sparire i figli, ma cominciano a vedere da parte degli
stessi parenti, dei vicini di casa, dei colleghi di lavoro dei padri sguardi sospetti, atteggiamenti
strani, che rivelano che, in virtù della scomparsa del figlio o della figlia, anche loro non fanno più
parte del mondo nel quale erano vissute fino al momento prima.
A questo punto, in un Paese dove la gente si era abituata alla proibizione di ogni tipo di
manifestazione e di protesta, al divieto di prendere la parola in pubblico, al divieto degli
assembramenti - quando si voleva fare una festa di compleanno con più di 5 persone, dice Hebe,
bisognava chiedere il permesso - loro sono state le uniche a non abituarsi. Le madri hanno
continuato ad apparecchiare la tavola con un posto vuoto, dicendo: “Mio figlio o mia figlia tornerà”,
rendendosi conto giorno dopo giorno che non tornavano. Allora hanno cominciato a chiedere
informazioni alle persone delle quali si fidavano: erano state educate a fidarsi dei giudici, dei
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politici, dei sacerdoti e via via hanno cominciato a vedere che - Hebe usa molto spesso questa
immagine - “le porte si chiudevano in faccia”. Gli avvocati avevano paura di fare gli habeas corpus
perché si era capito che a volte venivano presi e scomparivano anche loro. Frequente è stata per
tutte l’esperienza di andare nelle parrocchie dove i figli erano cresciuti e di chiedere al prete di
essere aiutate. Ma il prete chiedeva loro i nomi delle persone che avevano incontrato nelle loro
ricerche e, se le madri facevano i nomi degli amici dei figli, nei giorni successivi questi nomi
corrispondevano ad altri desaparecidos. Poco per volta hanno cominciato a rendersi conto che c’era
un’omertà, che c’era una complicità e comunque una paura così forte, così pervasiva, che
attanagliava tutto il Paese.
D’altronde c’erano dei manifesti sui muri con degli indici accusatori che si rivolgevano ai
genitori e dicevano: “Tu sai, in questo momento, cosa sta facendo tuo figlio?”, “come hai cresciuto
tuo figlio?”. Una sorta di colpevolizzazione collettiva per il fatto di aver messo al mondo e cresciuto
una persona che faceva una qualche forma di attività sociale e politica.
Durante la dittatura l’ossessione anticomunista è diventata tale che, per fare un esempio, ci
sono stati roghi di libri e tra i libri bruciati c’erano anche Il rosso e il nero di Stendhal e i saggi sul
cubismo perché la parola “Cuba” era impronunciabile. E’ grottesco e paradossale, ma si è arrivati a
questo punto.
Quando le madri hanno cominciato a vedere che nessuno dava loro retta, hanno deciso di
incontrarsi tra di loro e di andare in piazza. In piazza, per l’appunto, era vietato stare, la polizia ha
cominciato a picchiarle, ma all’inizio loro non pensavano assolutamente di fare quella che poi è
diventata la “marcia del giovedì”. La marcia è nata semplicemente perché loro stavano in piedi,
parlando tra di loro, e la polizia, picchiandole, diceva che era vietato stare ferme in piazza e che
marciassero. Quindi, sotto i colpi dei manganelli, hanno cominciato a camminare una vicina
all’altra e a capire, però, che lì in piazza dovevano tornare, perché era l’unico posto dove potevano
sperare in qualche modo di avere strumenti per trovare i figli.
Poco per volta hanno capito - ma è stato un processo lungo, di almeno tre anni - che i figli
non sarebbero tornati. Ad un certo punto soprattutto Amnesty International ha cominciato a parlare
di torturati e di morti nei campi. Nessuno sapeva in Argentina dei campi. Nel giro di tre anni si è
cominciato a capire che, in luoghi assolutamente impensabili (garage, officine, piccole aziende,
alberghi, luoghi dell’esercito) c’erano, come diceva prima Alessandra, tanti “garage Olimpo”, anche
molto grandi, come per esempio il Centro della Meccanica della Marina, l’ESMA, che era
incaricato dell’eliminazione dei montoneros, i guerriglieri peronisti.
All’ESMA il problema a un certo punto è stato l’eliminazione dei corpi perché, se nessuno
doveva sapere, cosa si doveva fare di queste persone torturate e uccise? Questo ricorda in qualche
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modo la soluzione finale dei nazisti, senza voler sovrapporre le cose perché, naturalmente, non è
possibile né corretto farlo. Hanno cominciato a buttarli nei fiumi, nel mare, ma i corpi riaffioravano
e la gente cominciava a dire: “Chi sono queste persone che si trovano sulle rive?”. Così hanno
inventato che li drogavano con una iniezione di pentotal, li portavano a bordo di aerei che volavano
in mare aperto, veniva loro messo un blocco di cemento ai piedi e venivano gettati ancora vivi, di
fatto - tramortiti dal pentotal ma ancora vivi - in mare. C’erano perfino dei cappellani militari su
questi voli.
Dire queste cose io credo che sia necessario, non solo per fare un discorso storico, pure
importante, ma perché occorre vedere in una situazione estrema, com’è stata quella dell’Argentina,
come i poteri riescano a coalizzarsi e, in un certo senso, a supportarsi l’uno con l’altro senza che
nulla appaia. Per poteri non intendo soltanto il potere militare, non intendo soltanto i militari
americani che hanno addestrato alla contro-guerriglia e anche alla tortura, o i militari francesi che si
erano addestrati durante la contro-guerriglia in Algeria. (Qui faccio una parentesi. Una cosa anche
paradossale, ma estremamente interessante: i militari argentini utilizzavano per addestrare i loro
soldati il film La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, che aveva voluto piuttosto denunciare
quello che faceva la Francia).
Insomma dietro a questi poteri militari evidenti c’erano quelli potentissimi degli affari, i
poteri economici. Perché questo poi alla fine, al di là dei discorsi strettamente etici, è ciò che muove
le cose, ciò che occorre imparare. Hebe lo dice sempre: “Noi non capivamo allora che i nostri figli
sono spariti perché si attuasse un piano economico, e perché quel piano economico si potesse
attuare era necessario che i nostri figli sparissero”.
Le democrazie, anche quelle europee, in particolare quella italiana, hanno fatto grandi affari
con la dittatura argentina. In Argentina c’erano stabilimenti della Fiat, della Dalmine, della Technit,
c’erano molte industrie italiane. Addirittura ci sono testimonianze che dicono che all’interno dei
cancelli di alcune c’erano piccoli campi dove venivano tenuti gli attivisti e i sindacalisti e
consegnati ai militari. Talvolta venivano torturati già all’interno dei cancelli.
Alessandra prima diceva: “Perché noi non abbiamo percepito questa tragedia che si stava
svolgendo, mentre solo tre anni prima eravamo in piazza per il golpe in Cile, per l’uccisione di
Allende?”. Probabilmente i motivi sono molti e compositi ed è interessante anche capirli, proprio
per il discorso che cercavo di fare prima, di come il potere si struttura secondo complicità più o
meno palesi, più o meno ampie, ma che a noi serve capire per riconoscerle anche quando capitano
in misure minime.
In Italia c’era allora la P2 di Licio Gelli, che stava effettivamente diffondendosi
spaventosamente, aveva assunto i gangli dell’informazione, aveva fatto la scalata del Corriere della
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Sera, e il Corriere e tutta la Rizzoli erano presenti in Argentina dove facevano lauti affari. La
Rizzoli possedeva la quasi totalità del mercato di libri e giornali in Argentina. Naturalmente il
Corriere ad un certo punto smise di dare notizie su quello che accadeva perché lo stesso Massera,
uno dei triumviri del golpe in quanto comandante della Marina - i tre capi della Giunta erano i tre
comandanti militari di Esercito, Aviazione e Marina -, aveva ottenuto la nomina di ammiraglio
sponsorizzato da Licio Gelli. Bene, Massera diventa ammiraglio della Marina, entra a far parte del
golpe e pochi giorni dopo si aprono le filiali del Banco Ambrosiano in Argentina.
I nostri diplomatici in Argentina, per esempio l’ambasciatore, che si chiamava Carrara,
erano noti perché andavano a cavallo con Videla e partecipavano alle feste dei vertici della dittatura.
Quando i tanti italo-argentini che cercavano di scappare chiesero aiuto all’ambasciatore, Carrara
fece mettere una blindatura e poi ancora una transennatura di fronte all’ambasciata, di modo che
nessuno potesse entrare. Ben presto tutti impararono che andare all’ambasciata italiana significava
di fatto consegnarsi ai militari. L’unico soccorso reale venne dal console Calamai, che per altro fu
richiamato in Italia un anno dopo, promosso ambasciatore e mandato in Nepal. Lui salvò
effettivamente molte persone, ma fu l’unico, insieme al giornalista Giangiacomo Foà, che ebbe con
grande coraggio la capacità di scrivere delle cronache veritiere, ma poi dovette scappare in Brasile
perché stavano per farlo fuori.
In Italia, per altro, anche la sinistra non è stata molto attenta all’Argentina perché, come dice
Calamai, da un lato il PCI aveva delle direttive precise dall’Unione Sovietica, che in quel momento
aveva deciso di appoggiare la dittatura perché aveva bisogno del grano argentino, che scambiava
con armi e materiale nucleare. D’altra parte in Italia si stava allora sotto il tiro delle Brigate Rosse e
i dirigenti comunisti avevano appunto il terrore di parole come “guerrigliero” o “sovversivo”. E
questa è una cosa con cui forse, prima o poi, bisognerà fare i conti.
Le madri ebbero la capacità di indicare tutto questo con grande chiarezza. Ora dicono che,
partendo dai fornelli e dalle pentole, hanno fatto una scuola di vita andando a bussare a tante porte
e subendo disillusioni e ferite profondissime: ma è come se avessero tolto la maschera al potere. A
me, alla fine, questo interessava ed è il motivo per cui da tempo lavoro su questa vicenda, perché è
come se loro avessero conosciuto la maschera del potere nella sua forma più estrema, che è quella
del potere di togliere la vita, e adesso fossero capaci di declinarlo e riconoscerlo anche nelle
sfumature e di avere sempre una risposta a partire dalla loro idea che la relazione con le persone,
con l’altro - non l’Altro maiuscolo, l’altro che ti sta attorno - è centrale e deve fondarsi sul loro
essere madri. Sul fatto appunto di controbattere al potere di dare la morte, nell’inermità totale,
dicendo: “Io ho il potere di dare vita. Io una volta ho dato vita e, per quanto tu sia potente, questa
vita non hai il potere di togliermela.” E’ una posizione estrema perché è evidente a loro, ed è stato
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evidente fin da molto presto, che i loro figli sono stati ammazzati; ma loro sono 30 anni che dicono:
“No, non ce li avete ammazzati”, nell’idea di una sorta di maternità che non può cessare. Loro
dicono: “Noi siamo sempre incinte dei nostri figli”, ma al tempo stesso anche: “Noi siamo state
partorite dai nostri figli, perché assumere la loro lotta ci ha dato una nuova lettura del mondo”.
E così continuano sempre con le loro marce, tutti i giovedì, anzi dicono: “Anche quando
dovremo andare con la sedia a rotelle ci andremo”. Una volta all’anno facevano quella che
chiamavano “la marcia della resistenza”, cioè stavano 24 ore di fila in piazza: durante la dittatura
questo aveva un significato enorme, perché era la testimonianza di un coraggio di resistenza
estremo. Adesso hanno tutte tra gli 80 e i 90 anni, qualcuna anche di più, e non fanno più la marcia
di 24 ore, ma ogni giovedì tutte quelle che riescono vanno in piazza.
Alessandra Peretti
Volevo chiederti di approfondire alcune cose. Intanto mi ha molto colpito nel tuo libro il
capitolo in cui si parla dei padri e del rapporto diverso che, senza voler generalizzare, i padri hanno
avuto rispetto a questa tragedia: anche questo mi sembra un elemento significativo. Rispetto poi alla
valutazione se le madri hanno vinto o se hanno perso la loro lotta - che sono certamente termini
molto difficili da usare - francamente una cosa di cui sono convinta è la necessità di riconoscere che
si realizza comunque una sconfitta nel momento in cui un terrore di questo tipo invade un Paese. I
militari, per far trionfare il loro progetto, dovevano eliminare tre generazioni: e tre generazioni sono
state eliminate. Da questo non si può prescindere. Questo è da un lato, certamente, anche la misura
di che cosa ha significato e di cosa è stato l’impegno delle madri; però è vero che, rispetto alla
vivacità e all’impegno sociale e al movimento, al di là di tutte le contraddizioni, dei giovani
argentini degli anni ’60 e ’70, la situazione oggi è ben diversa, anche se si stanno aprendo
prospettive positive. Questo lo terrei presente rispetto al giudizio su chi ha vinto e chi ha perso.
Certo è che nelle cose che dicono le madri c’è in questo caso, come in tanti altri, una specie
di visione paradossale di quanto è successo. Per esempio, un’altra questione su cui mi piacerebbe
che dicessi qualcosa di più è il tema della memoria dei morti, che c’è anche nell’intervista. Li
vogliamo ricordare vivi, dicono le madri, non vogliamo le riesumazioni: questo, tra l’altro, è in forte
contrasto con tutta una certa celebrazione della memoria delle stragi che è invece presente nella
nostra società. Se pensiamo alla giornata della memoria e alla memoria della Shoà, a cui noi
attribuiamo per altro tanta importanza per le giovani generazioni, è tutto un altro modo di ricordare.
Tra l’altro, Daniela si è occupata anche di questo tema, perché ha raccolto in un altro suo libro le
testimonianze delle deportate. Allora la rivendicazione di una memoria che sia solo ricordo di come
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erano i figli da vivi e non del fatto che sono morti, anche questa mi sembra una cosa difficile da
capire e che fa percepire che c’è qualcosa che sfugge alla ragione.
(Ci sono alcune domande senza microfono che non vengono registrate, sulla dislocazione
dei campi di concentramento, sulle divisioni all’interno del movimento delle madri, sulla rimozione
di quanto successo da parte della società argentina e in Italia, anche in relazione alle diversità tra
la situazione cilena e quella argentina)
Daniela Padoan
A proposito dei padri Hebe dice sempre: “Non è che i padri non abbiano sofferto come noi”.
Anzi dice addirittura che in Argentina ci sono stati studi, nel corso degli anni, che dimostrano che
c’è stata una mortalità altissima tra gli uomini che avevano avuto i figli scomparsi, per problemi
cardiaci o tumorali. Il fatto di aver tenuto tutto dentro, di non aver trovato vie per esprimere il
dolore e il desiderio di far qualcosa di sensato, in qualche modo li ha fatti implodere. Le madri
dicono che gli uomini non sono riusciti a fare quello che hanno fatto le donne perché erano troppo
legati alle strutture e articolazioni della politica che conosciamo: i partiti, i sindacati, le associazioni
e via dicendo. Per cui cercavano tra di loro di mettersi d’accordo, ma alla fine c’era sempre una
frattura, provocata dalla diversa appartenenza e identità politica. E’ anche successa una cosa
piuttosto buffa perché, ad un certo punto, quando già le madri erano abbastanza strutturate come
associazione e avevano la loro prima piccolissima sede, i padri hanno chiesto di farne parte anche
loro, e loro, per contro, hanno detto: “No. Noi siamo nate come madri e continuiamo la nostra
politica come madri; però, se volete, vi lasciamo una stanzina”. Allora i padri hanno cominciato a
riunirsi, a formulare delle idee, e l’unico progetto che ne è venuto fuori è stata l’idea di una partita
tra due squadre: diritti umani contro non so chi altri. Ed Hebe gli ha detto: “Ma siete pazzi? E se
vincono gli altri?”. Insomma li prendevano in giro. Ma Hebe dice che sono stati importantissimi
perché hanno avuto la grande capacità di continuare a lavorare, anche se avevano subito pure loro
un rovesciamento delle condizioni di vita. In una famiglia dove era l’uomo che lavorava – si tratta
di una cosa molto pratica – era indispensabile che il padre continuasse a mantenere la famiglia,
continuasse a occuparsi degli altri figli che rimanevano, mentre la madre andava in giro a cercare i
figli e a bussare alle varie porte.
Poi, poco per volta, non con la decisione: “Adesso mi iscrivo a un’associazione o ad un
partito”, ma in modo naturale, la cosa si è sviluppata ed è diventata evidente da sola: le madri
avevano un impegno e a quell’impegno non avrebbero rinunciato per nulla al mondo. A quel punto i
mariti hanno dovuto capire che o la famiglia esplodeva - ed in molte circostanze è esplosa, ci sono
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stati anche molti divorzi – oppure, d’improvviso e nonostante una vita ormai assestata e
un’educazione per cui mai avrebbero pensato di mettersi a fare questo, loro dovevano preoccuparsi
di cuocere il cibo per gli altri figli o le pappe per i nipotini, perché tanti erano quelli che erano
rimasti coi bimbi dei figli desaparecidos da crescere.
Insomma gli uomini hanno accettato tutto questo e hanno accettato anche di accompagnare
le madri in piazza, di stare dietro gli alberi, di stare intorno a vedere che a loro non succedesse
niente, riconoscendo questa loro forza anche simbolica in quanto madri e però proteggendole e
sostenendole come potevano.
Le madri dicono che il movimento è fondamentalmente loro, in quanto sono riuscite come
madri a capire più a fondo i figli in quello che facevano, e che il continuare a dar vita ai figli, come
loro lo hanno interpretato, significa continuare a dar vita all’idea che questi figli portavano e ai
progetti che volevano realizzare. Dicono che i padri non li hanno capiti nello stesso modo: alcuni
padri si sono distanziati dalle scelte dei figli, e comunque hanno seguito una strada razionale di
incontro con questi figli che non c’erano più. Invece loro dicono: “Li abbiamo cercati fisicamente,
poi abbiamo capito che non aveva più senso cercare dove fossero, e abbiamo cominciato a cercare
di capire chi fossero”. Volevano imparare quello che i figli avevano imparato.
C’è una questione aperta con Linea Fundadora, il movimento che si è staccato dalle madri.
E’ successo che a un certo punto, dato che la giunta aveva avuto il colpo di genio della scomparsa,
dei desaparecidos, questi fantasmi hanno cominciato ad aleggiare sulle democrazie che sono
venute dopo la dittatura. Quello che doveva essere la garanzia dell’impunità dei colpevoli, perché se
non c’è il corpo non c’è il reato e quindi non c’è punizione, è diventato una sorta di boomerang,
perché c’è una legge internazionale che dice che il reato di scomparsa non va mai in prescrizione.
Finché non viene fuori il corpo, virtualmente il responsabile può sempre essere indagato e
processato.
Quindi quando Alfonsín è andato al governo nell’83, dopo la caduta della giunta militare in
seguito alla spedizione contro le Malvinas, hanno cominciato a dire alle madri: “Firmate una
dichiarazione di morte”. Facevano leva anche sul fatto che non doveva essere semplice stare tutti
quegli anni in una sospensione che ti nega l’elaborazione del lutto, che non lascia mai che qualcosa
si allenti: perché da una parte tu sai benissimo che tuo figlio non c’è più, ma dall’altra devi
continuare a stare in quell’incertezza in cui neghi la morte. Però, quando hanno cominciato a dire:
“Firmate, vi diamo anche un risarcimento economico perché ne avete diritto e il governo ha fatto
una legge su questo”, all’inizio le madri hanno detto tutte di no. Poco per volta poi il governo ha
cercato di far riavere i resti dei desaparecidos e sono iniziate delle cose terribilmente macabre,
perché arrivavano a casa, alle madri, delle cassette con delle ossa e l’avviso: “Qui dentro c’è suo
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figlio o sua figlia”. Alcune madri lo hanno accettato, perché volevano avere un luogo dove poter
seppellire e andare a ricordare il figlio, invece altre hanno detto no. Dopo sette anni in cui negavano
la morte e dicevano che i figli vivevano nelle loro idee, queste hanno detto: “Adesso vivono nelle
loro idee, un rivoluzionario non è mai un cadavere”. E hanno deciso che mai avrebbero accettato i
resti, che mai avrebbero accettato il risarcimento - che via via Alfonsín e i governi successivi fino a
Menem hanno reso sempre più cospicuo - perché in questo modo avrebbero dovuto firmare un
documento dove c’era scritto che il figlio era morto: neanche assassinato, morto, verosimilmente il
giorno tale. Questo loro l’hanno rifiutato e si è creata una spaccatura terribile, perché hanno avuto
un’enorme discussione tra loro e alcune hanno deciso che il risarcimento lo avrebbero preso.
Su questo io penso che non si possa dare un giudizio negativo perché, di fronte ad una cosa
così enorme, nessuno sa come ci si deve comportare. C’erano per esempio delle madri che avevano
la famiglia da mantenere, che magari avevano nipoti piccoli; altre che erano di estrazione sociale
anche alto-borghese e avevano mariti avvocati, magistrati, politici, che a un certo punto si sono
trovati coinvolti coi nuovi governi e hanno cominciato a dire che non aveva più senso che le madri
scendessero in piazza coi loro fazzoletti: “La dittatura è finita, i processi si cominciano a fare, la
ricomposizione del Paese si sta attuando. Basta. Si tratta di elaborare la storia passata”. Ne è
scaturita una scissione che ha provocato l’uscita di una parte minoritaria di madri, che si è chiamata
Linea Fundadora; mentre le altre si sono continuate a chiamare madres de Plaza de Mayo. Sono
loro quelle che tutti i giovedì vanno in piazza, quelle che non hanno accettato il risarcimento, quelle
che non hanno voluto la restituzione dei corpi: effettivamente, se voi andate a Buenos Aires, le altre
non le vedete.
Un’altra piccola differenza che viene sempre fuori - forse è bene chiarirlo - è quella con le
nonne. Le nonne sono quelle che avevano avuto delle figlie desaparecidas, alle quali erano stati
portati via i bambini al momento del parto, per essere poi adottati dai gerarchi o dagli amici dei
gerarchi della dittatura. Queste donne hanno fatto una ricerca strenua dei nipoti, hanno cercato di
riaverli, in alcuni casi ci sono anche riuscite. Questo le ha portate, secondo le madri, alla scelta di
chiedere giustizia in modo singolo; le madri invece dicono: “Noi non vogliamo processi ai singoli.
Non ci interessa chiedere che venga processata una persona perché ha portato via un bambino. A
noi interessa che venga fuori la verità, il giudizio politico e la memoria storica”. Su questo non sono
state d’accordo invece le nonne, che hanno continuato ad andare avanti individualmente, sui singoli
casi. Adesso le madri sono ancora più contrarie, perché questi ragazzi hanno ormai 30 anni e le
nonne continuano a cercarli e hanno proposto che, per legge, si faccia obbligatoriamente il test del
DNA, anche a chi non vuole assolutamente sapere di essere figlio di una desaparecida, perché è
stato cresciuto da genitori che ha imparato a considerare i suoi e che in qualche modo ama. Le
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madri dicono che non si può fare un’ulteriore violenza a persone che già hanno subito una violenza
gravissima. Però queste sono cose delicate, sono scelte individuali di fronte a situazioni estreme.
Per quanto riguarda le ragioni della rimozione che c’è stata in Italia su questi avvenimenti,
io credo che sia stato fondamentale il fatto che noi siamo abituati alle immagini, a ciò che è
rappresentabile, a ciò che in qualche modo è visibile. Se ci si trova in una situazione in cui a priori
si è decisa la non rappresentabilità di ciò che accade, resta molto più difficile portarlo alla luce.
Credo che il Cile, fondamentalmente, sia stato quello che è stato anche per noi per quelle immagini
degli stadi, quelle immagini della Moneda...
Alessandra Peretti
Mi sembrava molto interessante anche la domanda sulla rimozione in Argentina, non solo in
Italia. Mi ha molto colpito questo atteggiamento della società argentina rispetto a quanto avveniva,
che mi richiama una serie di cose che sono state dette a suo tempo, delle complicità della gente
comune col nazismo. A me sembra che questa cosa sia molto intrigante, perché mette da un lato in
luce la fragilità di una società che viene terrorizzata e che quindi è disposta comunque a girare gli
occhi dall’altra parte; però dall’altro lato mette in luce anche una situazione argentina molto
complicata. Io cerco di ricordarmela con gli occhi di allora e alcuni episodi avevano molto a che
fare con il terrorismo. C’erano personaggi più o meno autorevoli, il capo della Fiat di Cordoba ad
esempio, che venivano sequestrati e uccisi.... Da un lato la Tripla A, dall’altro anche una guerra
aperta nella regione di Tucumán creavano una sensazione di instabilità e insicurezza, che spinse
senz’altro molti a considerare la dittatura di Videla come il male minore, con quell’errore di
prospettiva che si diceva prima, per cui non si prevedeva magari quello che sarebbe successo
veramente. E’ molto difficile parlare a posteriori senza rischiare di dire cose che sono sbagliate, ma
tutte le volte che si crea questa contraddizione terribile tra il bisogno d’ordine e di vita normale e le
tensioni sociali interne di un Paese, c’è una parte della popolazione che in buona fede si schiera
dalla parte dell’ordine. Questo io ho avuto la sensazione che sia accaduto in Argentina.
Daniela Padoan
Io vorrei legare questo discorso alla domanda che mi è stata fatta prima sulla dislocazione
dei campi. In Argentina c’è stata, prima del golpe, la guerriglia nel Tucumán, un focolaio di
guerriglia rurale al quale hanno partecipato in realtà poche persone, che è stato distrutto. Ci sono
stati episodi molto contenuti di lotta armata nel Paese. C’era piuttosto una resistenza nelle grandi
città, nelle scuole, nei sindacati, nelle fabbriche, tutta politica.
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La repressione si è scatenata sicuramente in tutto il Paese e c’erano questi campi di
concentramento ovunque, non solo a Buenos Aires. L’Argentina è immensa, con grandi spazi vuoti,
e Buenos Aires è una città gigantesca. A Buenos Aires c’erano moltissimi campi e questo
dell’ESMA, dal quale partivano i voli della morte, è molto impressionante perché c’è un grande
parco - io ci sono stata per girare il documentario -: vi entravano e uscivano le Ford Falcon e si vede
dove, c’era un luogo particolare che era il circolo degli ufficiali, dove c’era la struttura che
chiamavano la Capucha, dove venivano messi i prigioneri coi cappucci in testa per le torture.
Proprio di fronte, nel senso che basta attraversare il viale, c’è una fila di case molto belle, di fine
‘800, di media borghesia ricca, con i gerani alle finestre; e quando sono uscita col responsabile
dell’ESMA, per un attimo mi sono guardata intorno stupita e mi sono chiesta: “Ma c’erano già
allora? Queste strade, queste case, queste macchine che passavano...?”. E lui mi ha detto:
“Immagino cosa sta pensando. Lo penso anche io tutti i giorni che esco di qui”.
Era impossibile che le persone non sapessero. Ma il problema è che tu sei così attanagliato
dal terrore, perché noi siamo qui, uno di noi dice una cosa e il giorno dopo non c’è più. Non ne
sappiamo nulla, però sappiamo che non c’è più. Poco per volta si sta non solo attenti a non dire più
quella cosa, ma anche a tenere lontano chi potrebbe dire quella cosa. Questo crea una complicità col
potere, un’omertà terribile, da cui nasce il discorso della rimozione. La rimozione è anche
conseguenza di un altro atteggiamento perverso, e molto intelligente dal suo punto di vista, della
giunta, che ha cercato di estendere il più possibile le complicità. Per esempio, i militari che
volavano dall’ESMA nei voli della morte non erano sempre gli stessi: venivano presi in tutto il
Paese a rotazione, perché tutti si sporcassero le mani, così loro dicevano. E tutti fossero tenuti al
silenzio, perché erano colpevoli.
Il secondo figlio di Hebe è stato rapito e sequestrato da un cugino che faceva parte di una
squadra. Lo si è saputo dopo quattro o cinque anni. Hebe mi ha detto che, fino a sei mesi fa, quando
è morta la sua mamma, lei continuava ad andarla a trovare a La Plata, che è una città vicina a
Buenos Aires, e stava male perché in casa sua c’era questo signore, che era il figlio della sorella, e
la mamma di Hebe non voleva ammettere questa cosa. Hebe se lo ritrovava a bere il mate, la cosa
che loro bevono, e dev’essere stato terrificante. Non ne hanno mai parlato, ovviamente, perché
come si fa a parlare di una cosa così?
Quando tu hai insegnanti che hanno denunciato degli studenti, quando hai un caporeparto
che ha denunciato dei sindacalisti o degli operai, quando tutto è stato così sottile e pervasivo che le
persone, pur potendo provare a dirsi che non erano colpevoli perché non hanno agito direttamente,
in realtà non ci riescono fino in fondo, è come quando durante il nazismo e il fascismo si
denunciavano gli ebrei. La gente non ha inventato le camere a gas, non le ha azionate, ma ha fatto in
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modo che un anello scattasse, che una deportazione avvenisse... Il discorso che fanno spesso i
sopravvissuti della Shoà mette in causa fino ai responsabili dei passaggi a livello: dicono che, se
tutti questi treni della deportazione non avessero potuto andare sui binari d’Europa fino in quei
luoghi, forse sarebbe cambiato qualche cosa.
Quindi più una società è coinvolta e più il livello di coscienza, di rifiuto della soglia che ti
fanno attraversare è basso, più probabilmente ti trovi di fronte a qualcosa che non puoi far altro che
rimuovere per lungo tempo: fino a che ritorna fuori poderosamente come sta succedendo adesso.
Un’ultima cosa, brevissima, la volevo dire a proposito del tema della memoria, molto
interessante. Effettivamente, le madri hanno un modo non retorico di pensare alla memoria, proprio
perché pensano che i figli continuino a vivere in quello che loro fanno, e dicono che la memoria è
viva: anzi, con queste immagini di maternità che usano sempre, loro parlano di “memoria fertile”.
Dicono: “La memoria dei musei, dei mausolei, dei monumenti è memoria statica; la memoria che
rimette in circolo quello che i nostri figli volevano è memoria fertile”. Per esempio: i figli lottavano
nei barrios, nelle bidonvilles, perché non ci fossero bambini di strada; adesso le madri hanno vinto
due premi importanti, hanno avuto in Italia del denaro e questo denaro lo stanno usando per una
scuola per bambini di strada. Dicono: “Questo è il modo in cui noi facciamo la memoria, questa è la
nostra memoria”.
Alessandra Peretti
Trovo che si tratti comunque di persone straordinarie, come si vede anche nel libro di
Daniela in cui dicono delle cose veramente fantastiche. Vi voglio leggere solamente un episodio
che è anche divertente, ma che fa capire come sono queste donne. Parla Hebe, come al solito, e
racconta che andò al carcere di La Plata, nel periodo in cui cercava di sapere dov’erano stati portati
i figli:
“un militare mi si parò davanti alla porta, cosa vuole? ho un figlio scomparso gli dico, e so
che qui ci sono trecento persone. Come si chiama? mi fa lui. Glielo dico, e mi risponde che lì non
c’è. Senti, gli faccio, se tu avessi la testa così buona da ricordarti il nome di tutti quelli che sono
prigionieri qui dentro, non ti lascerebbero di guardia alla porta. Mi ha fissato con un odio
incredibile e mi ha detto, se anche tuo figlio fosse qui, tu non entreresti”.
Una persona in questo stato che si precipita a cercare il figlio davanti al carcere ed è capace
di una battuta così, è una persona straordinaria. Loro dicono: “Noi eravamo donne di cucina, è
l’occasione che ci ha fatto diventare quelle che siamo”. Questo sicuramente è vero, ma c’è
dell’altro. Hebe ha questa grinta che avete vista anche voi, ma ce ne sono altre che dicono cose
altrettanto forti. Veramente penso che sia una cosa affascinante conoscerle.
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L’ora è tarda, ma immagino che molte di voi vorranno vedere la seconda parte
dell’intervista.
Seconda parte dell’intervista a Hebe de Bonafini
D. Il mundial è stato utilizzato come copertura da parte del regime?
R. Il mundial, che fu nel ’78, come tutti i mondiali di calcio nei paesi del terzo mondo fu
usato per coprire l’orrore. Il mundial alla dittatura servì per far sapere al mondo che andava tutto
bene, che non c’erano scomparsi, anche se prima e durante il mundial ci fu una quantità enorme di
sequestri. Ma il mondiale servì anche per farci conoscere dal mondo. La TV è un potente mezzo e
gli olandesi, siccome era giovedì, invece di riprendere l’inaugurazione del mondiale vennero in
piazza a filmare la marcia delle madres. E fu la prima volta che l’immagine delle madres girò il
mondo, così il mondo poteva conoscerci, poteva sapere che c’era un gruppo di donne che urlava
disperatamente in piazza: “Noi vogliamo i nostri figli, ci dicano dove sono”. Così quel mondiale
che avevano preparato per mostrare al mondo che in Argentina non succedeva niente è servito
anche per farci conoscere dal mondo. E c’era anche il lavoro di tutti gli esiliati in Europa a
dimostrare che cosa succedeva realmente in Argentina. Non era vero che andava tutto bene e che la
dittatura era così buona, pulita, come tante persone pensavano. C’erano tanti paesi che vendevano
armi al governo militare, lo approvavano e appoggiavano e facevano silenzio su quello che
succedeva, perché gli serviva e perché c’erano contratti commerciali in mezzo.
D. All’inizio, quando cercavate i vostri figli, avete chiesto aiuto alla Chiesa, mi pare in
particolare a monsignor Grasselli.
R. Ovviamente, quando succedeva tutto questo, ognuno andava a vedere un sacerdote
amico. Nella chiesa Stella Maris, che è la chiesa della Scuola della Marina, c’era un sacerdote che si
chiamava Grasselli, che apparentemente sapeva dov’erano gli scomparsi: allora noi siamo andate lì
e lui, invece di dirci che cosa succedeva, ci estorceva informazioni. Era informatore diretto della
dittatura e della Marina. Noi lo abbiamo denunciato, ma tuttora continua ad essere in libertà, perché
è appoggiato dalla Chiesa. Tuttora la Chiesa non ha voluto condannare tanti sacerdoti che hanno
partecipato direttamente, e anche monsignor Grasselli. Per entrare lì ci facevano una perquisizione.
Era una cosa impressionante, noi non ce ne rendevamo conto per la frenesia di trovare i nostri figli.
Un giorno Grasselli ha detto a una madre che suo figlio era morto sotto tortura. Allora noi abbiamo
scritto una lettera al papa chiedendo come mai sapesse questa cosa. Il papa non ci ha mai risposto, e
neanche Grasselli. E oggi monsignor Grasselli è il confessore della scuola di Nostra Signora della
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Misericordia, una scuola di élite molto grande di Buenos Aires, dove fa anche il professore. Ecco
cosa fa questo assassino, questo torturatore perverso, tuttora sostenuto dalla Chiesa.
D. Nonostante il dolore per la scomparsa di ciascun singolo figlio, a un certo punto
avete teorizzato la socializzazione della maternità.
R. Certo come si possa sopportare questa cosa terribile che è la scomparsa di un figlio non si
può spiegare. Non me lo spiego nemmeno io. Noi madres non ce lo spieghiamo ancora. Col tempo
abbiamo cominciato a vedere che prima sparivano i nostri compagni, dopo c’erano madri che
morivano, famiglie che non volevano denunciare la scomparsa del proprio figlio. Allora abbiamo
deciso di socializzare la maternità, farci madri di tutti: lasciare la foto del figlio, il nome del figlio in
casa, e non portarlo né sul fazzoletto né sul petto. Volevamo che tutti quelli che non avevano
familiari che li rivendicassero fossero rivendicati da noi; così man mano, lentamente, non tutte allo
stesso tempo, siamo diventate madri dei trentamila. Abbracciando la loro causa, che era la causa
della libertà, della vita del loro popolo, abbiamo alzato la nostra bandiera. I nostri figli non li hanno
portati via perché erano medici o avvocati o lavoratori o studenti. Li hanno portati via perché erano
rivoluzionari. Allora noi siamo madri di tutti, rivendichiamo tutti, amiamo tutti, difendiamo tutti.
D. Che rapporto c’è nella vostra lotta tra azione legale e azione politica?
R. Noi madres non abbiamo abbandonato la legalità o la lotta legale o la giustizia. Succede
che l’azione legale deve essere accompagnata da un impegno politico, che la denuncia legale deve
avere molto più di politico che di giuridico. Noi non sapevamo che è un habeas corpus, o Amnesty,
o l’ONU. Quando abbiamo visto cosa succedeva e abbiamo cominciato a denunciarlo, abbiamo
capito che non serve a niente. Che l’ONU arriva sempre tardi a tutto. La sola denuncia scritta non
serve. E da allora abbiamo più fiducia nella mobilitazione, negli incontri, nelle assemblee, nella
forza che uno mette nella denuncia e combiniamo il legale con il politico. Il politico c’entra con la
scelta che noi abbiamo fatto di non abbandonare un solo giovedì la piazza. Da 22 anni noi tutti i
giovedì marciamo in piazza e tutte le denunce che facciamo nel mondo c’entrano con la politica, e
con quello che succede adesso, non solo quello che è successo prima: noi uniamo tutto. Non è
facile, ma si può.
D. Non accettare di dichiarare morti i vostri figli comporta anche una forma di lotta
giuridica?
R. La scomparsa forzata di persone è un delitto permanente, un delitto di lesa umanità che
non va in prescrizione, invece il crimine sì. Così noi madres non accettiamo la morte dei nostri figli,
per poterli cercare sempre, mentre i governi sono molto interessati a farci accettare la morte dei
nostri figli. Se accettiamo il crimine, c’è la scadenza dei termini.
D. Quali appoggi avete avuto dai governi internazionali?
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R. I governi internazionali all’epoca della dittatura sono stati molto complici. Noi abbiamo
avuto la fortuna di venire in Italia nel ’78 ed essere ricevute da Sandro Pertini, un uomo incredibile,
intelligente, che amava la libertà, e fu l’unico presidente in quel momento che ripudiò la dittatura
militare e appoggiò la lotta delle madres. Molte volte ancora lo abbiamo visto fino a che lui è
morto, e sempre ci ha ricevuto. Ma molti altri governi, anche se ci ricevevano, avevano un po’ di
complicità con la dittatura. Abbiamo ricevuto sempre aiuto dai popoli, però. I popoli sono stati
capaci di aiutarci, come le donne olandesi che sono state le prime e che hanno formato un gruppo di
solidarietà, e poi tutti i gruppi di appoggio che ci sono in tutto il mondo. Oggi abbiamo venti gruppi
di appoggio in tutto il mondo, che sono quelli che organizzano i nostri viaggi, le nostre interviste, e
che ci danno forza per andare avanti. In ogni paese ci sono migliaia di persone che ci aiutano.
Siamo seguite da molti popoli che hanno sofferto prima di noi guerre, torture, persecuzioni, e che
hanno capito rapidamente la nostra lotta e continuano ancora oggi ad appoggiarci. E’ molto
importante, indispensabile, perché noi madres ci sosteniamo con la solidarietà in tutti i sensi,
politicamente, economicamente, eticamente.
D. Prima ha detto che all’inizio avete affrontato la dittatura pensando di non fare
politica. Quando avete capito che si trattava di una forte azione politica?
R. All’inizio dicevamo: “Noi non facciamo politica, non vogliamo saperne”, ma non
sapevamo che affrontare la dittatura era fare politica. Prima non volevamo riconoscere questa cosa,
perché era così sporca la politica, e poi invece ci siamo convinte che la politica non è sporca. Sono
gli uomini che corrompono la politica. E abbiamo cominciato a riconoscere che stavamo facendo
politica con etica, con amore, con sentimento, senza volere niente per noi, ma tutto per gli altri.
Sono passati parecchi anni e adesso siamo sempre più convinte che siamo un’organizzazione
politica: senza partito, ma molto politica.
D. Prima diceva che avete ripreso l’azione politica dei vostri figli. In che modo?
R. Noi abbiamo cominciato a conoscere l’azione politica dei nostri figli. Non posso parlare
per tutte le madres, per ognuna è stato diverso, con più o meno partecipazione; però quando ci
mettevamo insieme a parlare, quando parliamo ancora oggi, tutte diciamo lo stesso, tutte siamo
passate per le stesse cose. Come non ce ne siamo rese conto prima? Prima non abbiamo visto questo
e quello, e ora ricostruiamo l’amore per la politica dei nostri figli e sentiamo che anche noi stiamo
facendo una strada rivoluzionaria, senza essercelo proposto, senza leggere libri. La gente pensa che
noi abbiamo letto il marxismo, il trotzkismo, il maoismo; no no, noi non sappiamo niente di tutto
questo. Abbiamo letto altre cose, più semplici, magari leggiamo nel libro della vita, per la strada,
con la gente, con i nostri compagni, e interpretiamo la lotta dei nostri figli partendo dalle cose
piccole, non dalle cose filosofiche. Per questo noi alziamo le loro stesse bandiere. Per questo noi li
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amiamo così tanto. Li amiamo come figli e come compagni. Quello che ci è successo è unico nel
mondo: essere compagne nella lotta dei propri figli rivoluzionari quando loro non ci sono più. E’
difficile, però è molto bello... Quando hanno portato via i miei figli mi sono sentita vecchia di mille
anni, ma adesso mi sembra di avere vent’anni meno di quella volta lì; non so perché, ma mi succede
questo, e credo che sia la lezione del nostro cammino. Penso che sia questo.
D. Nel vostro cammino politico siete diventate internazionaliste?
R. E’ un’altra cosa che abbiamo fatto senza renderci conto. Noi non abbiamo mai voluto il
nazionalismo perché alle volte somiglia troppo al fascismo. E’ molto pericoloso. Uno ama il suo
popolo, la sua gente, ma io vorrei che non ci fossero le frontiere: di qua è mio, di là è tuo. E per la
prima volta siamo andate a Cuba e per la prima volta abbiamo sentito la forza di quel popolo, e poi
siamo andate in tutti i paesi dove c’era conflitto. Siamo state in Palestina, in Perù quando hanno
occupato l’ambasciata giapponese, siamo state in Cile, in Ecuador, in Bolivia, in Paraguay, in
Venezuela, nei Paesi Baschi, in quasi tutti i posti dove ci sono conflitti. Nelle Asturie siamo scese
nelle miniere per vedere come vivevano i minatori. Questo è l’internazionalismo delle madres,
questa comprensione. Adesso siamo state a Belgrado, a fare gli scudi umani sul ponte. Noi abbiamo
capito che c’è da mettere il corpo e così siamo diventate internazionaliste, mettendo il nostro corpo,
percorrendo il mondo, accompagnando, aiutando. Siamo state con il movimento dei Sem Terra del
Brasile, un movimento bellissimo, incredibile, libero, forte. Siamo state assieme a Marcos nella
selva, in quella selva che ha tanto mistero, tanto dolore e tanta morte, ed è tanto dimenticata.
Abbiamo conosciuto un uomo fantastico, realista, che ama quello che fa, che si sente solo. Molte
volte si sente solo. E siamo state con i comandanti zapatisti, abbiamo partecipato agli incontri che
hanno fatto. Diventare internazionaliste ci ha fatto imparare tante cose, perché uno impara sempre, a
tutte le ore, a tutti i momenti, per vedere che cosa possiamo fare, che cosa in più possiamo fare.
Quando siamo arrivate in un carcere della Bolivia in mezzo alle montagne, dove le madri non
possono vedere i detenuti, dove buttano il mangiare per un buco, come se fossero animali, abbiamo
visto che i repressori e i governi si somigliano tanto. Fujimori e Menem, Menem e Fujimori. Sono
fatti della stessa pasta. C’è il capitalismo degli Stati Uniti che li appoggia e li sostiene, perché gli
serve. Nel mio paese stanno costruendo più carceri che scuole. Hanno fatto una quantità enorme di
carceri, vuole dire che vogliono arrestarci tutti. Vuole dire che vogliono farci diventare sempre più
ignoranti, perché non ci sono progetti per l’educazione, ma miliardi per fare carceri. Allora è molto
facile capire che cosa vogliono fare con noi. Per questo c’è da lottare tutti i giorni, perché il nemico
non si riposa.
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D. Qual è il suo giudizio sull’attuale democrazia argentina?
R. I governi si chiamano democratici perché il mondo si è abituato che democrazia è votare.
C’è il parlamento, c’è democrazia. Il parlamento è una pozzanghera di acqua fetida, e il governo
Menem è un governo di mafiosi che gestiscono il gioco, la prostituzione, che trafficano armi e che
sono sottomessi agli Stati Uniti, al Fondo Monetario Internazionale. C’è da capire che la
democrazia è quando tutti abbiamo lavoro e libertà, casa, salute e educazione. La democrazia non è
solo votare, almeno nel nostro paese, perché i governi assomigliano tanto alle dittature; allora
quando uno vota gli dà la possibilità di rubare per quattro anni ancora, di truffare per quattro anni
ancora, di dire bugie per quattro anni ancora. Scegliere in realtà non è votare, perché noi dobbiamo
votare un candidato che non abbiamo scelto, almeno così succede da noi. Un giorno vedi una faccia
sul muro: “Vota il tale”. Ma chi è questo qua? Io non l’ho mai visto. E poco dopo è in una lista
elettorale e già devo andarlo a votare. E perché? Io non lo voglio. Non so chi è. La gente è molto
confusa. Democrazia non è votare. Democrazia sono tante cose insieme, ma soprattutto è libertà. E’
non vedere migliaia di bambini che vivono, mangiano e muoiono nelle strade di Buenos Aires, e
prima questo non succedeva. Questa piaga della droga è imposta dagli stessi Stati Uniti, che è il
paese che più traffica droga, perché vuole che i giovani non abbiano progetti, quegli stessi giovani
che la società emargina, che la società espelle dal sistema. La sola cosa che gli danno è birra da bere
e droga. Un giovane drogato non sarà mai un rivoluzionario, non disturberà mai. Allora gli serve
tanto che la droga si spanda, aumenti, la mettono alla portata di tutti. Nel mio paese, i bambini si
drogano perché hanno fame e quando consumano droga la fame passa. Noi siamo molto addolorate
per questo e non sappiamo cosa fare. Cosa possiamo fare con così tanti bambini, espulsi dal
sistema, obbligati a prostituirsi? Poco tempo fa un uomo di una provincia molto povera ha parlato in
piazza. Aveva cinquant’anni, pareva che ne avesse novanta, era senza lavoro e piangendo ci ha
detto: “Sapete, madres, nelle nostre case quelli che portano il denaro sono i bambini, perché si
devono prostituire, vendere i loro corpi per portare da mangiare a casa, perché la mia donna e io
abbiamo più di quarant’anni e non riusciamo a trovare lavoro”. Uno deve vergognarsi di questa cosa
quando la ascolta, perché dall’altra parte ascolta i miliardi che si spendono per le guerre, per i
missili, per le armi, per comprare un giocatore di calcio. E’ terribile, è un mondo molto perverso.
D. Che significato hanno avuto le leggi del “Punto finale” e dell’“Obbedienza dovuta”?
R. Durante la dittatura ovviamente non c’era giustizia, governavano i dittatori. Ma dopo
nemmeno, perché c’è stata una complicità tra dirigenza politica e dittatura, e anche se il governo di
Alfonsín, il primo governo democratico, promise di condannare (Jaroslavsky, un uomo del governo,
disse queste parole: “Le condanne saranno così forti che sembreranno vendette”), nonostante questo
non ci sono state condanne, perché gli stessi radicali hanno fatto due leggi: dell’Obbedienza dovuta
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e del Punto finale. Obbedienza dovuta significa che colui che aveva ricevuto l’ordine di ammazzare,
torturare, rubare, fucilare, violentare, siccome aveva ricevuto un ordine non doveva andare in
carcere. E il Punto finale era chiudere con tutti i processi, non si può più condannare nessuno.
Mentre tutti chiedevano che venissero condannati gli assassini, una giudice molto amica di
Massera, dell’assassino Massera, disse: “Cominciamo a fare un processo per il sequestro dei
bambini”. Sono stati presentati degli esposti e alcuni militari sono agli arresti domiciliari per il
sequestro di tre bambini, quando in realtà hanno distrutto tre generazioni. Migliaia di famiglie sono
rimaste abbandonate a se stesse dopo il sequestro dei figli: abbandonate non economicamente, ma
dal punto di vista affettivo. Siamo stati privati di questo piccolo progetto di vita che avevamo con i
figli, la nostra famiglia. E loro hanno distrutto tutto questo.
D. Il regime argentino ha approntato un potente apparato di repressione: prima
parlava di più di trecento campi di concentramento. Che cosa sono stati questi campi di
concentramento e in particolare l’ESMA?
R. I campi di concentramento in Argentina avevano diverse forme. C’erano campi di
concentramento in commissariato, c’erano quelli piccoli, di settanta, ottanta persone, e c’erano i
campi di concentramento dentro l’esercito, dentro la Marina. La Scuola di Meccanica della Marina
fu il campo di concentramento più grande. C’erano anche cinquemila persone in condizioni
tremende. Li torturavano per giorni e giorni. Quando arrivavano donne incinte i sequestratori
prendevano i loro figli. Da lì uscivano i voli della morte. Questa idea dei voli della morte fu un’idea
della Marina Militare: prima l’esercito li gettava nel Rio de la Plata in un posto che si chiamava
Punta dell’Indio, ma i corpi ricomparivano rapidamente. Poi hanno deciso di buttarli a mare, con i
piedi in un blocco di cemento a presa rapida.
I campi di concentramento in Argentina erano una cosa sconosciuta. Li conoscevamo per il
tema del nazismo, con gli ebrei, ma non pensavamo che venissero fatte ai nostri figli le stesse
torture. Noi non raccontiamo le torture che hanno subito i nostri figli perché sentiamo che così li
torniamo a violare, è una cosa troppo intima. Posso dirvi che i nazisti e i nazisti argentini hanno
fatto le stesse cose. Anzi, qualcuna di più raffinata, perché gli Stati Uniti hanno raffinato la forma
delle torture. Quando noi madres abbiamo cominciato a sentire non volevamo crederci. Addirittura
portavano per divertimento dei giovani a delle feste della polizia, della marina, dell’esercito, dove
erano torturati, violentati. Erano così criminali, così torturatori. E questo fu la Scuola della
Meccanica della Marina.
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