L`arbitrato di equità
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L`arbitrato di equità
FIORENZO FESTI L’arbitrato di equità (*) Sommario: 1. La natura del giudizio arbitrale di equità ed il rapporto con il giudizio di diritto. – 2. Le diverse tesi sul giudizio arbitrale di equità. – 3. L’impugnazione del lodo di equità per violazione di regole fondamentali dell’ordinamento. – 4. L’interpretazione del patto compromissorio. 1. – Secondo l’art. 822, dettato per l’arbitrato nazionale, e l’art. 834, comma 1°, c.p.c., in tema di arbitrato internazionale, i compromettenti possono scegliere se dirimere la lite attraverso l’applicazione del diritto statuale (1) oppure mediante un giudizio di equità. La legge non chiarisce in cosa consista l’arbitrato di equità: l’unica norma che fornisce qualche indicazione è l’art. 829, comma 2°, c.p.c., il quale esclude, in tale ipotesi, l’impugnabilità del lodo per inosservanza di regole di diritto, equiparando, sotto questo specifico profilo, la decisione emessa dagli arbitri autorizzati a riferirsi all’equità ed il responso dichiarato dai compromettenti non impugnabile. È diffusa l’idea che il giudizio equitativo rappresenti un miglioramento rispetto al giudizio di diritto (2), in quanto consentirebbe di porre rimedio ad ipotesi in cui la rigida applicazione delle norme codificate porterebbe a conseguenze inique. Al di là della sua genericità – poiché si dovrebbe preliminarmente affrontare l’irrisolta questione dei concetti di « giusto » ed « ingiusto » (3) –, la tesi poteva essere condivisa senza riserve in un’epoca (4) (*) Il presente articolo riproduce, con alcune modifiche, il contributo destinato all’opera Arbitrato, ADR, Conciliazione, edita da Zanichelli, di prossima pubblicazione. (1) Secondo il diritto italiano, se si tratta di arbitrato nazionale, o in base al diritto di un qualsiasi Stato, nell’ipotesi di arbitrato internazionale. (2) Cfr. Sidgwick, I metodi dell’etica, trad. it. di Mori, Milano, 1995, p. 314. (3) Per un approccio alla discussa questione del significato della nozione di giustizia e del rapporto tra la giustizia ed il diritto cfr., oltre all’opera di Sidgwick menzionata nella precedente nota, Del Vecchio, voce Giustizia, in Noviss. dig. it., VII, Torino, 1961, p. 1112 ss.; Opocher, voce Giustizia (filosofia), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 557 ss.; Perelman, La giustizia, trad. it. a cura di Ribet, Torino, 1991, passim; Hart, Il concetto di diritto, trad. it. di Cattaneo, III ed., Torino, 1965, p. 185. Cfr. anche l’antologia a cura di Maffettone e Veca, L’idea di giustizia da Platone a Rawls, Roma-Bari, 1998. (4) Cfr. Broggini, L’equità nell’arbitrato commerciale internazionale, in Riv. trim. dir.e proc. civ., 1994, p. 1125 ss. 142 CONTRATTO E IMPRESA nella quale – in esasperata osservanza del principio della separazione dei poteri dello Stato – il giudice avrebbe dovuto limitarsi a svolgere la funzione di mero esecutore della volontà del legislatore (5). Nel sistema italiano attuale, invece, in cui è nozione istituzionale che il « legislatore » dell’art. 12 Preleggi rappresenti la « personificazione di un principio di razionalità » (6), tale da autorizzare l’interprete ad adottare tutti i canoni ermeneutici comunemente riconosciuti (storico, sistematico, teleologico, di efficienza economica, ecc.), il giudice ha senz’altro maggiori possibilità di modellare le norme scritte sul concreto caso da decidere (7). Anche in presenza di regole con fattispecie astratta particolarmente rigida, il giudice può ovviare – senza infrangere formalmente la supremazia del potere legislativo – con l’utilizzo delle numerose clausole generali (8) presenti nel codice (buona fede, ingiustizia del danno, ecc.) (9). In un ordinamento composito e così evoluto – sotto il profilo dell’interpretazione giuridica – come il nostro, risulta, pertanto, difficile poter condividere l’opinione secondo cui il giudice o l’arbitro tenuti a seguire le norme di diritto sarebbero costretti ad emettere decisioni ingiuste in particolari casi dei quali il legislatore non si sarebbe avveduto al momento della formulazione della legge (10). (5) Com’è noto, questa concezione del giudice ha condotto in Francia all’istituzione del référé legislatif, in forza del quale « i tribunali non possono statuire per via di disposizioni regolamentari, ma debbono rivolgersi al corpo legislativo ogni qualvolta ritengano necessario interpretare una legge o farne una nuova » (art. 12, l. 16-24 agosto 1790 sulla organizzazione giudiziaria). (6) Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, XV ed., Milano, 2003, p. 10. (7) Cfr. Broggini, L’equità nell’arbitrato commerciale internazionale, cit., p. 1143; Nasi, voce Equità (giudizio di), in Enc. dir., XV, Milano, 1996, pp. 145-146. (8) Mediante « l’uso crescente della tecnica delle clausole generali, sia come tecnica (non casistica) di definizione della fattispecie normativa, sia come tecnica di integrazione o correzione giudiziale della legge, il giudice viene rinviato a standards sociali di valutazione o di comportamento che deve tradurre e concretizzare in un criterio di valutazione adeguato alle peculiarità del caso »: Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, p. 6. Cfr. anche Salv. Romano, voce Equità (dir. priv.), in Enc. dir., XV, Milano, 1966, pp. 90-91; Alpa, L’arte di giudicare, Roma-Bari, 1996, p. 168. Analoga portata appaiono rivestire i principi – anche non scritti – individuati da Dworkin, ne I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, p. 79 ss. (trad. it. di Oriana, dell’opera Taking Rights Seriously, Cambridge-Mass., 1977). (9) Per un elenco v. Trimarchi, op. cit., p. 13. (10) Cfr. Tenella Sillani, Arbitrato di equità, ne L’arbitrato. Profili sostanziali, a cura di Alpa, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da Bigiavi, Torino, 1999, I, p. 334 ss., la quale rileva come molte delle soluzioni d’equità proposte dagli interpreti come differenti da quelle rinvenibili da un giudice di diritto integrino « decisioni che accolgono risultati più o meno consolidati a livello teorico, anche se non recepiti o comunque non ancora diffusi nella giurisprudenza ». SAGGI 143 Ciò premesso, occorre, però, precisare che l’abbandono della concezione positivistica del diritto ed il riconoscimento al giudice di potere creativo non può condurre a vanificare integralmente l’opera del legislatore. Lo stesso movimento del « diritto libero » dei primi del ’900 non ha comportato una completa svalutazione della fonte legislativa, ma ha solo consentito di pervenire alla consapevolezza che l’ordinamento giuridico è composto anche da altre fonti, quali orientamenti giurisprudenziali, opinioni dei dottori, abitudini comportamentali dei consociati, etc. (11). Rimane, quindi, doveroso riconoscere alle regole di produzione legislativa una posizione di preminenza rispetto agli altri « formanti » (12), a meno di non voler « minare » il metodo democratico rappresentativo (artt. 1 e 49 Cost.) (13). La conclusione derivante dalla premessa e dalla successiva precisazione è che, mentre il giudice di diritto deve argomentare riconoscendo importanza fondamentale alle norme positive e può, per questa via, giungere ad una soluzione equilibrata, utilizzando, ad esempio, il meccanismo « compensativo » del risarcimento danni (14), viceversa, l’arbitro di equità, non essendo tenuto a rendere formale omaggio alle regole scritte – sempre che non si tratti di norme di applicazione necessaria (15) –, può adottare ragionamenti diversi e pervenire a risultati differenti. Va, pertanto, condivisa l’osservazione di quella dottrina la quale, constatato che « l’interprete è sempre vincolato al testo e non può attribuire ad esso un significato incompatibile con la sua struttura linguistica », individua nell’arbitrato di equità l’ambito in cui è possibile elaborare nuove soluzioni non ottenibili nemmeno con « tecniche interpretative avanzate » (16). L’osservazione dovrebbe, però, essere circoscritta sotto diversi profili. Innanzitutto, la possibilità per l’arbitro di equità di trovare soluzioni differenti rispetto all’arbitro di diritto esprime solo una « tendenza ». I confini (11) Cfr. Bobbio, Teoria generale del diritto, Torino, 1993, p. 42. (12) Sul concetto di « formante » v. l’omonima voce di Sacco, in Digesto, IV ed., Disc. Privatistiche, sez. civ., VIII, Torino, 2004, p. 438 ss. (13) Ciò non significa che l’interprete non possa proporre una soluzione contraria ad una specifica norma, ma implica che tale soluzione sia fondata su altri principi di legge e sia, quindi, il risultato della soluzione di una presupposta antinomia. (14) Cfr. Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., I, 1997, p. 18. (15) V. infra par. 3. (16) Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, p. 841. L’a. fa gli esempi dell’estensione del danno non patrimoniale anche al di là del limite posto dall’art. 2059 c.c. oppure del superamento del rigoroso formalismo di cui all’art. 1219, comma 1°, c.c. 144 CONTRATTO E IMPRESA dell’interpretazione giuridica che non infranga il principio della supremazia legislativa sono estremamente vaghi ed inoltre mutano continuamente con l’evoluzione giuridica, politica, sociale ed economica, sicché appare arduo individuare con sicurezza, in questo preciso momento storico, soluzioni concrete raggiungibili con l’equità che siano inibite secondo diritto. In secondo luogo, la potenziale « diversità » della soluzione equitativa è astratta, non verificabile sul piano empirico (17) e rappresenta sostanzialmente una constatazione analoga alla possibile divergenza fra le decisioni che potrebbero rendere due differenti giudici di diritto chiamati ipoteticamente a risolvere la stessa lite. Anche per queste ragioni, non pare corretto affermare che il lodo redatto dall’arbitro di equità sia – o debba essere – più « giusto » rispetto al responso che potrebbe astrattamente rilasciare un arbitro di diritto. La constatazione che l’arbitro di equità può giungere alla sua decisione con maggiore libertà, avendo facoltà (18) di trascurare il formante legi- (17) Occorrerebbe, infatti, che gli stessi soggetti fossero investiti del compito di dirimere un’identica questione prima con un giudizio di diritto, poi mediante un giudizio di equità. (18) Secondo l’opinione dominante, il giudizio d’equità è caratterizzato dalla facoltà per gli arbitri di disattendere le regole di diritto, ma non dall’obbligo: cfr. Amar, Dei giudizi arbitrali, II ed., Torino, 1879, p. 246 ss.; Calamandrei, Diritto ed equità nell’arbitrato, in Studi sul processo civile, III, Padova, 1934, pp. 69-70; Tenella Sillani, op. cit., pp. 327-328; Furno, Appunti in tema di arbitramento e di arbitrato, nota a Cass., 7 dicembre 1950, in Riv. dir. proc., pp. 170-171; Galgano, Diritto ed equità nel giudizio arbitrale, in questa rivista, 1991, p. 467; E.F. Ricci, Note sul giudizio d’equità, in Riv. dir. proc., 1993, p. 398 ss. Nell’ipotesi in cui gli arbitri d’equità applichino le regole di diritto, la maggioranza degli interpreti ritiene non necessaria la menzione nel lodo che, a parere degli arbitri, la decisione di diritto sia conforme ad equità. L’unico caso di impugnabilità del lodo si avrebbe qualora emergesse dalla motivazione che gli arbitri, errando circa i poteri loro attribuiti dalla convenzione arbitrale, fossero convinti di dover giudicare secondo diritto (si pensi all’uso di brocardi del tipo dura lex sed lex, riferiti a norme di applicazione non necessaria). Cfr. Cass., sez. un., 15 giugno 1991, n. 6794, in Nuova giur. civ. comm., 1992, I, p. 554 ss., con nota di Rota, Il giudizio di equità tra conciliatore e giudice di pace; Cass., 12 aprile 1988, n. 2879, in Giust. civ., 1988, I, p. 2945 ss., con nota critica di Basilico, Riflessioni sulla motivazione del lodo arbitrale di equità, secondo la quale, premesso che gli arbitri d’equità non hanno l’onere di motivare circa la conformità ad equità del diritto applicato, gli arbitri stessi incorrono in eccesso di potere, con conseguente nullità della sentenza arbitrale (art. 829, comma 1°, n. 4, c.p.c.), giudicando secondo diritto, nei casi in cui: emerga una « aprioristica rinuncia degli arbitri a giudicare secondo equità »; oppure risulti « un loro diniego ad applicare l’equità nonostante la riconosciuta difformità tra l’equità stessa e il diritto »; o, infine, si possa ricavare implicitamente che gli arbitri hanno scartato una soluzione equitativa confliggente con quella dettata dal diritto; Trib. Milano, 21 febbraio 1991, in Giust. civ., 1991, I, p. 2462 ss., secondo cui gli arbitri (irrituali) d’equità possono decidere secondo le norme di diritto « reputando- SAGGI 145 slativo, lascia aperto il quesito circa l’individuazione del criterio cui lo stesso arbitro potrebbe ispirarsi. 2. – Prima di esaminare le tesi maggiormente diffuse sul criterio ispiratore del giudizio di equità, vanno analizzati due orientamenti che godono di consenso minoritario ma significativo: quello imperniato sulla convinzione che il giudizio di equità possa condurre ad un responso più « clemente » o « moderato » rispetto al giudizio di diritto (19), nonché quello seguito da coloro i quali intravedono nell’autorizzazione di cui all’art. 822 c.p.c. l’attribuzione agli arbitri del potere di imporre una transazione ai litiganti (20). La prima convinzione potrebbe forse essere giustificata con riferimento ad un giudizio penale, in cui il giudice irroga, in nome dello Stato, una pena al cittadino, ma non pare poter trovare collocazione nel giudizio civile, caratterizzato dalla presenza di (almeno) due privati in reciproca contrapposizione. In questa situazione, l’eventuale riduzione della condanna di una delle parti, dovuta a ragioni compassionevoli, provocherebbe una immotivata compressione delle ragioni della controparte. Il secondo indirizzo appare, invece, smentito non solo dall’osservazione che, sul piano dell’interpretazione della volontà delle parti, queste generalmente « non vogliono una transazione, cioè un superamento della lite attraverso reciproche concessioni imposte dall’arbitro, ma una ‘decisione’ della lite; con altre parole vogliono conoscere chi ha torto e chi ha ragione con le relative conseguenze sui loro rapporti » (21), le all’evidenza corrispondenti alla soluzione equitativa della controversia »; Cass., 25 maggio 1981, n. 3414, in Giust. civ., 1981, I, p. 2600 ss.; Cass., 28 settembre 1954, n. 3144, in Foro it., 1955, I, p. 334 ss. e in Riv. dir. proc., 1955, II, p. 173 ss., con nota di Carnelutti, Appunti sull’arbitrato d’equità; App. Milano, 25 maggio 1954, in Rep. Giust. civ., 1955, voce Compromesso e arbitrato, n. 120; Satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, (1931) rist. 1969, p. 95, nota 27; Nasi, voce Equità (giudizio di), cit., p. 115 ss.; in senso parzialmente contrario v. Cass., 5 marzo 1992, n. 2650, in Giust. civ., 1993, I, p. 2789 ss. Si osservi che, secondo l’opinione maggioritaria, la valutazione dei fatti in un giudizio di equità dovrebbe comunque essere condotta attraverso una prima qualificazione degli stessi in termini di diritto positivo: cfr. Vaccarella, Il difensore ed il giudizio di equità, in Giust. civ., 1992, II, pp. 467-468; Tenella Sillani, Arbitrato di equità, cit., p. 328 ss. (dove è possibile rinvenire ulteriori riferimenti). (19) Cfr. Frosini, L’equità nella teoria generale del diritto, in Aa.Vv., L’equità, Milano, 1975, p. 15, il quale accosta il giudizio in esame al potere di grazia del sovrano « in omaggio alle ragioni di equità spesso invocate: lo spirito di clemenza, la convenienza politica, la giustizia intuitiva ». (20) In tema cfr. l’analisi critica di Galgano, Diritto ed equità nei giudizi arbitrali, ne L’arbitrato. Profili sostanziali, cit., p. 376 ss. (21) Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, cit., p. 837. 146 CONTRATTO E IMPRESA ma dalla stessa legge. L’art. 829 c.p.c., nella parte in cui, trattando di motivi di impugnativa comuni al lodo di equità, definisce il procedimento arbitrale come un « giudizio » (v. art. 829, comma 1°, nn. 2 e 7), impone agli arbitri di accogliere o respingere le domande dei litiganti sulla base dell’accertamento dei fatti e della valutazione (giuridica o equitativa) degli stessi, mentre – com’è noto – la transazione consiste in reciproche concessioni delle parti da « intendersi in relazione alle posizioni da esse assunte nella lite (posizione di pretesa; posizione di contestazione), e non in relazione alla situazione giuridica preesistente quale effettivamente è » (22). Le tesi circa la natura del giudizio di equità che trovano i maggiori consensi in dottrina sono sostanzialmente riconducibili a tre. Per la prima, cd. soggettiva, l’arbitro d’equità decide seguendo i dettami della propria coscienza in ordine allo specifico caso concreto, applicando, cioè, il personale senso di giustizia (23). Per la seconda, cd. oggettiva, l’arbitro d’equità applica regole diffuse nella comunità e, perciò, preesistenti al sorgere della controversia (24). A queste si è affiancata un’opinione, definibile come « riduzionista », in forza della quale il giudice d’equità dovrebbe attenersi al diritto positivo, affinandolo e plasmandolo – quando occorra – sul caso da decidere (25). La versione soggettiva viene criticata perché consente una pronuncia (22) Santoro-Passarelli, La transazione, II ed., Napoli, 1975, p. 14. Va rilevato per inciso che il deferimento al terzo del potere di transigere è lecito solo qualora avvenga a controversia già insorta, mentre non risulta ammissibile con riferimento a controversie future e non identificate. Il nostro ordinamento (arg. ex artt. 1229 e 2698 c.c.), infatti, nega validità ai patti con i quali, senza voler coscientemente disporre del diritto sostanziale, si rinunci anticipatamente a far valere tale diritto a mezzo di un regolare giudizio (pubblico o privato), qualora la controparte non dovesse in futuro rispettarlo: Festi, La clausola compromissoria, Milano, 2001, p. 87 ss. (23) In questo senso v. De Marini, Il giudizio di equità nel processo civile, Padova, 1957, p. 166 ss. e p. 187; Frosini, L’equità nella teoria generale del diritto, cit., p. 3 ss.; Nasi, voce Equità (giudizio di), cit., p. 110; Briguglio, Arbitrato rituale ed equità, in Riv. arbitrato, 1996, p. 276 ss. (24) Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, cit., p. 838 ss.; Galgano, Diritto ed equità nel giudizio arbitrale, in questa rivista, 1991, p. 461 ss.; cfr. anche G.B. Ferri, Decisione negoziale e giudizio privato, in Riv. dir. comm., 1997, I, p. 26, nota 112; Varano, voce Equità. I) Teoria generale, in Enc. giur., XII, Roma, 1989, p. 10. Ulteriori riferimenti si possono rinvenire in Tenella Sillani, Arbitrato di equità, cit., p. 323 ss.; Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, in Studi sul processo civile, Padova, 1930, II, p. 1 ss.; Tucci, L’equità del codice civile e l’arbitrato di equità, in questa rivista, 1998, p. 469 ss. (25) Broggini, L’equità nell’arbitrato commerciale internazionale, cit., p. 1136. SAGGI 147 arbitraria (26) e « improvvisata » (27). Essa, peraltro, potrebbe essere ritenuta contra legem se si condivide l’opinione che ritiene operante anche per gli arbitri di equità il dovere di esporre « le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione » di cui all’art. 118, comma 2°, disp. att. c.p.c. (28). Quest’obbligo, infatti, risulterebbe aggirato qualora si consentisse agli arbitri di motivare il lodo con espressioni inconsistenti che facciano mero riferimento alla coscienza dei giudicanti (29). L’obiezione potrebbe, tuttavia, essere superata, qualora gli arbitri, pur decidendo sulla base delle proprie personali convinzioni, abbiano l’accortezza di far precedere il dispositivo dalla previa declamazione della regola (o delle regole) da applicarsi, formulata argomentando a ritroso dal dispositivo stesso (30). La diffidenza nei confronti di « una giustizia sommaria e intuitiva » (31) (26) Cfr. Gambaro, Alcuni problemi in tema di diritto e giustizia nella tradizione giuridica occidentale, in Diritto giustizia e interpretazione, a cura di Derrida e Vattino, Roma-Bari, 1998., pp. 71-72: « sotto il profilo storico, è da osservare come il tentativo di sciogliere la regula juris dal suo sistema per plasmarla sul caso della vita da decidere, è stato sperimentato più e più volte, lungo tutto il corso della giurisprudenza europea e sempre con esiti quanto mai infelici. Trattandosi quindi non di un progetto, bensì di un modello sperimentato esso non può essere riproposto senza farsi carico di indicare i modi con cui evitare la matrice di quei disastri, ossia le variazioni del metro dell’equità secondo la misura del piede di colui che giudica secondo equità ». Cfr. anche Kaufmann, Rechtsphilosophie, München, 1997, p. 160 (riportato da Marino, Decisione, equità, Risikogesellschaft. Appunti dalla Rechtsphilosophie di Arthur Kaufmann, in Critica dir., 2004, pp. 310-311), il quale, dal presupposto secondo cui la caratteristica primaria della giustizia è considerare situazioni (reputate) uguali in modo paritario, conclude nel senso che trattare isolatamente un singolo fatto non sia equità ma arbitrio. (27) Benatti, op. cit., p. 838. (28) Cfr. Galgano, Diritto ed equità nei giudizi arbitrali, ne L’arbitrato. Profili sostanziali, cit., pp. 375-376. Sull’obbligo di motivazione del lodo di equità v. riferimenti infra nota 58. (29) Nell’ambito della tesi cd. soggettiva la motivazione si risolverebbe in espressioni di stile del tipo « è giusto che . . . », « è equo che . . . ». Rileva al riguardo Calamandrei, Diritto ed equità nell’arbitrato, cit., p. 74, che nell’ambito dell’arbitrato d’equità « per poter verificare se un giudice abbia sufficientemente motivato, bisogna per prima cosa sapere quali sono le fonti da cui egli ha tratto le regole da applicare al caso: senza di che manca il termine di confronto per poter controllare se la motivazione è sufficiente o no ». (30) Ad esempio, qualora l’arbitro fosse convinto, nel concreto caso sottoposto al suo esame, di dover assecondare la richiesta di revisione del contenuto del contratto formulata da una parte, potrebbe affermare l’esistenza di una regola di equità, in forza della quale il rapporto contrattuale deve essere adeguato in presenza di una determinata situazione di fatto, descritta con termini generali, ma tale da ricomprendere anche quella oggetto di giudizio. (31) Broggini, L’equità nell’arbitrato commerciale internazionale, cit., p. 1135. In propo- 148 CONTRATTO E IMPRESA costituisce uno dei passaggi di quella indagine storica e comparativa che conclude per la « integrazione immanente dell’equità nel diritto » (32) e nega, quindi, che l’arbitrato di equità rappresenti una « alternativa » all’arbitrato di diritto (33). La tesi riduzionista comporta, però, problemi di coordinamento con il tenore legislativo, perché l’uso della disgiuntiva « o » nel capoverso dell’art. 829 c.p.c. sembra presupporre una differenza tra decisione secondo equità e lodo [di diritto (34)] non impugnabile. Analogamente, il primo comma dell’art. 834 c.p.c. prevede – con una espressione similare all’art. 829 – una distinzione tra l’ipotesi in cui le parti abbiano stabilito le norme da applicarsi al merito della controversia e quella nella quale sia stato conferito agli arbitri il potere di pronunciarsi secondo equità. Logica conseguenza dell’opinione in esame è che, anche nel giudizio di equità tra appartenenti a diversi Stati, gli arbitri devono individuare una legge statuale applicabile (35). Ma tale conclusione pare collidere con l’idea che la stipula, tra due contraenti di diversa nazionalità, di un patto compromissorio per arbitrato di equità, possa significare volontà di risolvere le controversie in modo « giuridicamente neutrale » ispirandosi a principi e regole diversi da quelli applicati dai giudici dell’uno o dell’altro Stato (36). sito, cfr. la diversa opinione di E.F. Ricci, op. cit., p. 387 ss., il quale propone di temperare la « iniquità di partenza » dell’arbitrato di equità dovuta alla « mancanza di un sistema di regole riconoscibili a priori » (p. 394), imponendo all’arbitro di equità l’obbligo di manifestare ai litiganti « in via preliminare alla difesa delle parti sul merito » le regole astratte potenzialmente applicabili alla controversia (p. 395). (32) Broggini, L’equità nell’arbitrato commerciale internazionale, cit., p. 1136. (33) Broggini, L’equità nell’arbitrato commerciale internazionale, cit., p. 1133, contesta l’opinione secondo cui « equità significherebbe quindi disapplicazione (anche se solo parziale) del diritto ». (34) In realtà il secondo comma dell’art. 829 non specifica che il « lodo non impugnabile » debba essere emesso secondo diritto. Lo si ricava dal disposto dell’art. 822 c.p.c., il quale prevede come effetto naturale del patto compromissorio l’arbitrato secondo diritto e dall’interpretazione corrente che non individua nel riferimento alla « non impugnabilità » una di quelle espressioni « qualsiasi » da cui argomentare l’intenzione delle parti di rimettersi ad un giudizio equitativo. Sull’interpretazione della clausola compromissoria d’equità v. infra par. 4. (35) Broggini, L’equità nell’arbitrato commerciale internazionale, cit., p. 1150, il quale precisa che l’obbligo degli arbitri di adottare l’ordinamento di una determinata Nazione sussisterà « almeno fintantoché l’arbitro delle controversie commerciali internazionali non possa far ricorso ad un diritto commerciale ‘comune’». (36) In tema cfr. Bonell, voce Lex mercatoria, in Digesto, IV ed., Disc. priv., sez. comm., IX, Torino, 1993, p. 15; Bernardini, L’arbitrato commerciale internazionale, Milano, 2000, p. 196. SAGGI 149 L’orientamento maggiormente diffuso nella moderna dottrina pare essere quello cd. oggettivo. Anche questo indirizzo appare ispirato dall’esigenza di sottoporre a controllo l’operato degli arbitri di equità, ma, diversamente dall’indirizzo riduzionista, individua le preesistenti regole di equità prescindendo dal legame con l’ordinamento codificato di un determinato Paese. La tesi oggettiva, inizialmente consistente in riferimenti di carattere vago a regole tratte dalla « cultura economica e sociale del tempo » (37), è stata successivamente approfondita, giungendo al riconoscimento di principi che sono alla base di tutti gli ordinamenti evoluti. In questo ambito, si sono identificati i principali criteri formanti l’equità: « – nel principio di buona fede – negli usi onesti del commercio – nel principio di ragionevolezza – nel principio di efficienza » (38). Alla possibile critica per cui tali precetti sono pur sempre espressi in termini generali (39), così da rendere difficoltoso al giudice dell’impugnazione eventualmente adito dal soccombente sottoporre a controllo, con un minimo grado di effettività, la concreta soluzione trovata dagli arbitri, e alla conseguente constatazione che la loro individuazione non riduce in modo sensibile i margini di « soggettività » della decisione arbitrale (40) si può replicare che questi criteri: a) hanno ispirato numerose norme di diritto positivo dei diversi ordinamenti, sia di diritto continentale sia di common law; b) sono stati oggetto di studio da parte degli autori di tutti i Paesi cd. occidentali; c) hanno dato luogo ad una vasta opera di concretizzazione da parte dei giudici delle diverse Nazioni. (37) Galgano, Diritto ed equità nei giudizi arbitrali, ne L’arbitrato. Profili sostanziali, cit., p. 380 (v. anche p. 379 per riferimenti alle analoghe concezioni di Calamandrei, Liebman e Carnelutti). (38) Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, cit., p. 840. (39) La ammissibilità – in linea di principio – di un sistema giuridico composto (solo) da clausole generali non può certo essere contestata. Si ricordi, in proposito, la proposta di riforma in questa direzione del diritto privato italiano che Rodotà aveva formulato, negli anni ’60 del precedente secolo, al fine di consentire l’adeguamento continuo e coerente della disciplina positiva ad « una realtà dal dinamismo crescente e, quindi, irriducibile alla tipizzazione di ipotesi già definite » (Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1967, I, p. 96). (40) Per un rilievo analogo riferito ai principi generali componenti la lex mercatoria (che in parte coincidono con i formanti l’ordinamento di equità individuati da Benatti) v. Bonell, Un « codice » internazionale del diritto dei contratti. I principi UNIDROIT dei contratti commerciali internazionali, Milano, 1995, p. 168 ss. Sul rapporto tra lex mercatoria ed equità v. Broggini, L’equità nell’arbitrato commerciale internazionale, cit., p. 1151 ss. 150 CONTRATTO E IMPRESA Il principio di buona fede, oltre ad aver avuto applicazione in numerose norme codicistiche, come, ad esempio, le previsioni dei cd. doveri di protezione nel nostro c.c. [artt. 1586, comma 1°; 1663; 1686, commi 1° e 2°; etc. (41)] –, è stato concretizzato in Germania, ed in altri sistemi culturalmente collegati a quello tedesco (42), mediante il raggruppamento di casi tipici sub specie divieto di venire contra factum proprium. Le ipotesi maggiormente rilevanti di questa attività di specificazione sono rappresentati da: i) la Verwirkung, vale a dire la preclusione dall’esercizio del diritto in capo a chi, con la propria inerzia, abbia ingenerato nella controparte l’aspettativa che il diritto stesso non sarebbe più stato esercitato; ii) l’ipotesi, opposta alla precedente, della replicatio doli all’exceptio temporis, consistente nella possibilità riconosciuta al creditore di neutralizzare l’eccezione di prescrizione o di decadenza adducendo che il comportamento del debitore aveva suscitato il legittimo affidamento del creditore stesso circa la non necessità di compiere un formale atto interruttivo o di esercitare il diritto; iii) la preclusione dell’azione di nullità del contratto per difetto di forma ad substantiam in capo a colui che abbia maliziosamente indotto la controparte a credere nel mancato esercizio dell’azione stessa (43). Anche il generale obbligo di adeguarsi agli usi onesti del commercio, richiamato dall’art. 10 bis della Convenzione d’unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, ha dato luogo, in Italia, all’individuazione di casi sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 2598, comma 3°, c.c., quali, ad esempio, la cd. concorrenza parassitaria consistente nella « imitazione di tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente, l’adozione più o meno immediata di ogni sua iniziativa, seppure non realizzi una confusione di attività e di prodotti » (44) e, in Germania, al richiamo ai Verkehrssitte contenuto nei §§ 157 e 242 BGB. (41) L’elenco completo si trova in Benatti, voce Doveri di protezione, in Digesto, IV ed., Disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 222. (42) Nella Confederazione elvetica, anche in forza del contenuto dell’art. 2 ZGB, che richiama sia la buona fede sia il divieto di abuso del diritto, si sono sviluppati orientamenti analoghi a quelli emersi in Germania. Per queste notizie v. Tercier, L’abus de droit en droit privé suisse, in Aa.Vv., L’abuso di diritto, in Inchieste di diritto comparato, a cura di Rotondi, 7, Padova, 1979, p. 459 ss.; Ranieri, voce Eccezione di dolo generale, in Digesto, IV ed., Disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 320; ivi anche accenni alla situazione austriaca e a quella olandese. (43) In argomento v. Ranieri, Rinuncia tacita e Verwirkung, Padova, 1971, p. 1 ss.; Id., Exceptio temporis e replicatio doli nel diritto dell’Europa continentale, in Riv. dir. civ., 1971, I, p. 262; Id., voce Eccezione di dolo generale, in Digesto, IV ed., Disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 316. (44) Cass., 17 aprile 1962, n. 752, in Rep. Giur. it., 1962, voce Concorrenza, n. 43, c. 768. In tema cfr. Ghidini, La c.d. concorrenza parassitaria, in Riv. dir. civ., 1964, I, p. 621. SAGGI 151 Il principio di ragionevolezza, invece, riveste grande importanza nell’ambito dell’interpretazione giuridica dei sistemi di common law. In quella sede, il criterio svolge, ad esempio, la funzione di determinare la rilevanza dell’affidamento circa il mantenimento di promesse serie oppure rappresenta lo strumento per consentire ai giudici di espellere dal contratto clausole indesiderate o di ritenere impliciti determinati patti (45). Anche nel diritto italiano, peraltro, la regola di ragionevolezza riveste un ruolo fondamentale, costituendo, innanzitutto, un limite per il legislatore ordinario attraverso il controllo di legittimità riferito all’art. 3 Cost. (46) e, inoltre, un criterio ermeneutico nelle più svariate materie: in tema di interpretazione del contratto (47), di contratto di lavoro subordinato (48), di contratto di assicurazione (49), ecc. Analogamente l’efficienza, quale regola-base della analisi economica del diritto (50), rappresenta la ratio ispiratrice di norme e decisioni giurisprudenziali nel diritto angloamericano. Il criterio, certamente compatibile con il sistema di civil law (51), pur con i dovuti limiti (52), ha ricevuto nel nostro Paese – fra l’altro – applicazione in tema di responsabilità civi(45) Cfr. i leading cases riportati da Baker, Dalla santità del contratto alle ragionevoli aspettative, trad. it. a cura di Fusaro, in questa rivista, 1986, p. 682 ss. In tema v. anche Alpa, Contratto e common law, Padova, 1987, p. 96 ss. Sotto un diverso profilo v. anche il concetto di « causa ragionevole » introdotto da Grozio nella sua opera sulla teoria generale del diritto olandese (per riferimenti e per una approfondita analisi del tema v. Gorla, Il contratto, I, Milano, 1954, p. 48 ss.). (46) Cfr. per tutte Corte cost., 1° giugno 2004, n. 163, in Banche dati Juris data – giurisprudenza. Cfr. anche Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., I, 1997, p. 4. (47) Cfr. Cass., 20 gennaio 1983, n. 539, in Banche dati Juris data – giurisprudenza. (48) Cfr. per tutte Cass., 17 agosto 2004, n. 16050, in Banche dati Juris data – giurisprudenza. (49) Cfr. Cass., 5 febbraio 2004, n. 2195, in Banche dati Juris data – giurisprudenza. (50) La letteratura è amplissima. Per un approccio cfr. l’estratto tradotto in italiano del noto Economic Analysis of Law (Chicago, 1977) di Posner (Posner, L’economia e il giurista, trad. it. di Alpa, in Aa.Vv., Analisi economica del diritto privato, Milano, 1998, p. 48 ss.). (51) Cfr. Gambaro, L’analisi economica del diritto nel contesto della tradizione giuridica occidentale, in Aa.Vv., Analisi economica del diritto privato, cit., p. 453 ss. (52) Cfr. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 102, il quale, premesso che « l’ordinamento giuridico deve conciliare tre valori fondamentali: economicità, giustizia sociale e libertà individuale », sottolinea come la conseguente esigenza per il giudice di trovare modelli di argomentazione tali da mediare tra i diversi valori anatagonisti « in guisa da assicurare al risultato il consenso sociale più ampio », implichi « l’irriducibilità metodologica dell’analisi giuridica all’analisi economica ». (53) Il riferimento a Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, è d’obbligo. 152 CONTRATTO E IMPRESA le (53), responsabilità contrattuale (54) e di altre fonti di obbligazioni (55). Sotto un diverso profilo, si osserva, sempre nell’ottica oggettiva, che, se l’arbitro di equità deve applicare regole pre-poste, allora le decisioni da questi emesse potrebbero rappresentare « precedenti », suscettibili di essere utilizzati per definire casi futuri (56). In conclusione, a differenza della tesi soggettiva, le altre due impostazioni (riduzionista ed oggettiva) permettono di sottoporre a controllo il lodo di equità. La verifica, tuttavia, non pare poter consistere nell’ammettere l’impugnazione per nullità nell’ipotesi di violazione di norme di diritto, nell’ambito della tesi riduzionista, ovvero nell’ipotesi di deroga alle regole applicative dei criteri di buona fede, usi onesti, ragionevolezza ed efficienza, anche enunciate in massime ricavabili da precedenti arbitrati di equità, nell’ambito della tesi oggettiva. È la disposizione del secondo comma dell’art. 829, infatti, ad escludere espressamente rilievo alla violazione di norme di diritto positivo e a non introdurre motivi alternativi di impugnazione del lodo (57). Il tipo di controllo esercitabile concerne la contraddittorietà della motivazione (arg. ex art. 829, comma 1°, n. 4, c.p.c.) (58) e, cioè, la coerenza interna della stessa. La scelta della tesi ridu(54) Trimarchi, Sul significato economico dei criteri di responsabilità contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1970, p. 512 ss. (55) Villa, Contratto illecito ed irripetibilità della prestazione. Una analisi economica, in Quadrimestre, 1992, p. 19 ss. (56) Cfr. Galgano, Diritto ed equità nei giudizi arbitrali, cit., p. 380; Borghesi, in Aa.Vv., Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2001, sub art. 822, p. 444. (57) Da segnalare in senso contrario la tesi di Bove, Decisione secondo equità e ricorso in Cassazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1997, p. 93 ss., secondo cui la decisione di equità sarebbe censurabile per « violazione o falsa applicazione » delle regole oggettive d’equità, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. (58) È dominante l’opinione che la decisione d’equità debba, al pari di quella resa secondo diritto, essere motivata, in quanto l’art. 829 n. 5, nel richiamare l’art. 823, comma 2°, n. 3, non prevede alcuna eccezione per il lodo d’equità: cfr. Galgano, Diritto ed equità nel giudizio arbitrale, cit., p. 470; Broggini, Arbitrato di equità. L’equità nell’arbitrato del commercio internazionale, ne L’arbitrato. Profili sostanziali, a cura di Alpa, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da Bigiavi, Torino, 1999, I, p. 401; E.F. Ricci, Note sul giudizio d’equità, cit., pp. 406-407; Tucci, L’equità del codice civile e l’arbitrato di equità, cit., p. 506 ss.; Briguglio, Arbitrato rituale ed equità, cit., p. 276; Borghesi, in Aa.Vv., Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2001, sub art. 822, p. 458 ss.; Cass., 22 febbraio 1993, n. 2177, in Giur. it., 1994, I, 1, p. 472 ss. Per ulteriori riferimenti cfr. Tenella Sillani, op. cit., p. 339 ss. Ovviamente, a meno di non voler svuotare di contenuto la regola, la motivazione, oltre ad essere presente, dovrà essere logica e non contenere contraddizioni (arg. ex art. 829 n. 4 c.p.c.): cfr. Fazzalari, voce Arbitrato (teoria generale e diritto processuale civile), in Digesto, IV ed. Disc. priv. Sez. civ., I, Torino, 1987, p. 403; Berlinguer, Ius dicere nell’arbitrato: note comparative sulla motivazione del lodo, nota a Cass., 17 luglio 1999, n. 7588 (in Riv. SAGGI 153 zionista, ad esempio, comporta il dovere di riportare l’indicazione della norma di diritto nazionale applicata e le ragioni del suo eventuale « adeguamento » (59). L’opzione oggettiva, invece, costringe all’individuazione delle regole preesistenti da utilizzare ed obbliga l’arbitro a conclusioni logicamente consequenziali alle regole stesse. Infine, l’indirizzo oggettivo presenta, rispetto all’opinione riduzionista, la caratteristica di fornire una risposta all’esigenza, sempre più sentita nella recente epoca di globalizzazione degli scambi, di risolvere le liti mediante un giudizio non « provinciale », fondato su regole comunemente accettate. 3. – È opinione unanime che la regola di cui all’art. 829, comma 2°, dell’inimpugnabilità del lodo equitativo per violazione di regole di diritto, non possa estendersi a determinate regole fondamentali del nostro ordinamento. Gli interpreti si dividono, invece, sull’esatta individuazione di queste regole. Secondo l’impostazione prevalente, i precetti non disapplicabili dall’arbitro di equità si identificano nelle norme e nei principi di ordine pubblico interno (60). Per altra dottrina, gli arbitri d’equità incontrano il arbitrato, 2000, p. 285 ss.), Cour de Cassation, 7 gennaio 1999, e U.S. Court of appeals, First circuit, 2 novembre 1999, in Riv. arbitrato, 2000, p. 307 ss.; contro: Punzi, voce Arbitrato. I) Arbitrato rituale e irrituale, Enc. giur., II, Roma, 1989, p. 30, il quale fa leva sulla differenza di espressione tra il n. 4 dell’art. 829 ed il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. per concludere che la contraddittorietà tra i motivi o tra i motivi ed il dispositivo non rappresentano una causa di nullità del lodo. Sull’obbligo di motivazione e sul contenuto della motivazione stessa v. Nasi, op. cit., p. 107 ss. e, in particolare, pp. 130-131. (59) V. supra nel testo. (60) Galgano, Diritto ed equità nel giudizio arbitrale, cit., p. 469; G. Bernini, L’arbitrato, Bologna, 1992, p. 137; Briguglio, Arbitrato rituale ed equità, cit., p. 276; Sala, Il notaio e l’arbitrato, in Atti del XVIII Congresso nazionale del notariato (Calabria, 1970), Catanzaro, s.d., p. 78; E.F. Ricci, Note sul giudizio di equità, cit., p. 390. In giurisprudenza cfr. App. Palermo, 4 dicembre 1995, in Riv. arbitrato, 1996, p. 521 ss., con nota parzialmente contraria di Grossi, Inappellabilità del lodo, violazione di norme imperative e « patto commissorio » (con motivazione criticabile, la sentenza ha escluso che il divieto del patto commissorio faccia parte di questi principi); App. Roma, 25 febbraio 1943, in Foro it., 1943, I, c. 601 ss., con nota di Andrioli, L’ultimo comma dell’art. 829 c.p.c. e una lacuna che non c’è [in motivazione si riporta l’iter dei lavori preparatori del vecchio (cioè, prima della riforma del 1994) ultimo comma dell’art. 829 c.p.c., dando conto della ragione per cui non s’è ritenuto necessario esplicitare in tale norma che il lodo d’equità è comunque nullo se gli arbitri abbiano violato, nel giudicare, norme imperative di ordine pubblico o i principi generali dell’ordinamento giuridico dello stato]; Cass., 4 maggio 1994, n. 4330, in Riv. arbitrato, 1994, p. 499 ss. con nota di Luiso, L’impugnazione del lodo equitativo per violazione di norme inderogabili (l’autore colloca correttamente il vizio nell’ambito del comma 2° dell’art. 829 c.p.c.; su quest’ul- 154 CONTRATTO E IMPRESA solo limite dell’ordine pubblico internazionale (61). Ancora diversa è la tesi di chi distingue tra le regole di ordine pubblico che « esprimono i valori cardine dell’ordinamento » e quelle che rappresentano l’« espressione di indirizzi politici contingenti », ritenendo che solo le prime possano costituire un limite per l’arbitro di equità (62). In quest’ottica, si conclude per la possibilità di derogare in parte alle regole sulla prescrizione e decadenza oppure alla nullità per inosservanza delle prescrizioni di forma (63), giungendo, nella sostanza, a soluzioni analoghe a quelle elaborate dai giudici tedeschi in applicazione del § 242 BGB (64). Appare, tuttavia, preferibile concludere nel senso che gli arbitri d’equità non possano disapplicare tutte le norme imperative esistenti nel nostro ordinamento (65). La legittimità del ricorso all’arbitrato nel nostro ordinamento e lo spazio accordato all’autonomia privata in tale ambito si fondano proprio sul presupposto che, attraverso la conclusione dell’accordo compromissorio ed il conseguente lodo reso ad esito del processo arbitrale, le parti non realizzino disposizioni o rinunce a diritti in violazione di norme inderogabili e che sia, inoltre, consentito ai privati di ricorrere al giudice nell’ipotesi in cui l’arbitro avesse con il lodo avallato la violazione di una norma imperativa, ritenendo, ad esempio, valido un contratto nullo (66). Se fosse, quindi, consentito agli arbitri di equità disattendere – senza rimedio – norme inderogabili, la clausola arbitrale potrebbe configurare un negozio in potenziale frode alla legge (art. 1344 c.c.). Ciò, però non significa che gli arbitri (67) non possano pervenire ad ap- timo punto v., in senso conf., Fazzalari, in Briguglio, Fazzalari, Marengo, La nuova disciplina dell’arbitrato, Commentario, Milano, 1994, sub art. 829, p. 213); App. Roma, 24 gennaio 1991, in Quad. giur. imp., 1991, 3, p. 66 ss.; Cass., 29 luglio 1964, n. 2161, in Foro pad., 1965, I, p. 976 ss.; Cass., 31 luglio 1952, n. 2445, in Mass. Foro it., 1952, cc. 572-573; Cass., 24 gennaio 1951, n. 210, in Giur. it., 1951, I, 1, p. 793 ss.; Cass., 10 agosto 1946, n. 1184, in Dir. fall., 1947, II, p. 39 ss., con nota di Andrioli, Arbitrato e ordine pubblico economico; Audiencia Barcelona, Secciòn XV, 18 marzo 1991, in Riv. arbitrato, 1992, p. 325 ss., con nota di Criscuolo, Arbitrato d’equità e norme inderogabili. (61) Cfr. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, II ed., Roma, 1941, p. 575. (62) Benatti, in Commentario al codice civile, a cura di Cendon, Torino, 1991, sub art. 1175, p. 7. (63) Benatti, op. ult. cit., p. 8. (64) V. supra par. 2. (65) Cfr. Rubino-Sammartano, Il diritto dell’arbitrato, IV ed., Padova, 2005, p. 558; ivi anche per riferimenti alla questione se l’arbitro di equità abbia comunque l’obbligo di applicare tutte le regole processuali, oppure solo quelle inderogabili (quali, ad esempio, il principio del contradditorio). (66) Cfr. Festi, La clausola compromissoria, Milano, 2001, p. 133 ss. (67) A decisioni del genere potrebbe giungere non solo l’arbitro di equità, ma anche SAGGI 155 plicare soluzioni similari a quelle elaborate dalla giurisprudenza germanica (68). Per quanto concerne la Verwirkung, ad esempio, l’imperatività della disciplina della prescrizione espressa nell’art. 2936 c.c. non impedisce di precludere l’esercizio del diritto a colui che, con il proprio comportamento inerte e in determinate circostanze, abbia ingenerato nella controparte l’affidamento che il diritto stesso non sarebbe stato esercitato, individuando nell’inerzia circostanziata una rinuncia tacita (69). Non sembra possa assumere rilievo – nel senso della introduzione di un limite ulteriore per gli arbitri di equità – la recente sentenza della Corte costituzionale n. 206 del 6 luglio 2004 (70), la quale ha dichiarato l’ille- l’arbitro o il giudice di diritto. Sul piano pratico, è, tuttavia, maggiormente probabile che siano l’arbitro di equità oppure il giudice (ordinario) di diritto a ricorrere a argomentazioni innovative, perché l’arbitro di diritto preferisce risolvere il caso mediante il richiamo di regole certe e orientamenti consolidati. Ciò, in quanto l’arbitro, quale privato cittadino non protetto dall’appartenenza ad un « ordine autonomo e indipendente » (art. 104, comma 1°, Cost.) e non interessato da una legislazione di particolare tutela (v. l. 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità del giudice), ha maggior timore, rispetto al magistrato, di essere chiamato a rispondere per errori nella decisione. (68) Cfr. Tenella Sillani, op. cit., pp. 336-337, la quale, a proposito degli istituti – elaborati dalla giurisprudenza tedesca – della Verwirkung e della replicatio doli, evidenzia: « è significativo che tali soluzioni, imposte dall’equità, siano offerte da giudici non direttamente investiti di poteri equitativi, ma che decidono sulla base delle sole norme di legge e, in particolare, in applicazione del principio di buona fede (§ 242 BGB) ». (69) L’analisi comparata degli ordinamenti europei ha rilevato come negli ordinamenti francese ed italiano i giudici ricorrano alla figura della « rinuncia tacita » per raggiungere lo stesso scopo, di « paralizzare l’esercizio di un diritto quando avvenga slealmente in dispregio dell’altrui affidamento », perseguito dalle corti tedesche mediante utilizzo delle categorie dell’abuso del diritto (Rechtsmissbrauch) e del dovere di buona fede di cui al § 242 BGB, attraverso il corollario per cui nemo potest venire contra factum proprium e tramite lo strumento dell’exceptio doli generalis. La stessa dottrina ha evidenziato che anche la giurisprudenza germanica di fine ’800 faceva leva sull’idea di rinuncia tacita per paralizzare l’esercizio di un’azione dopo il decorso di un periodo di tolleranza tale da aver suscitato nel controinteressato la aspettativa che il diritto non sarebbe più stato esercitato e che, in seguito, aveva abbandonato tale idea a favore dei rimedi suindicati. Il riferimento è agli studi di Ranieri, Rinuncia tacita e Verwirkung, cit., p. 2 ss. Cfr. anche Tedeschi, L’acquiescenza del creditore alla prestazione inesatta, in Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, II, Torino, 1960, pp. 1588-1589. (70) Pubblicata in Rass. dir. civ., 2004, p. 1143 ss., con nota di Perlingieri, Equità e ordinamento giuridico; in Giur. cost., 2004, p. 2235 ss., con nota di Guastini, Equità e legalità; in Giust. civ., 2004, I, p. 2537 ss., con nota di Giordano, Giudice di pace e giudizio di equità necessario: un effettivo ritorno al passato?; in Corriere giur., 2005, p. 497 ss., con nota di Zanuttigh, Lo scandalo dell’equità “a canone inverso”. Cfr. anche i commenti di Asprella, Il giudizio di equità necessario, in Nuove leggi civ. comm., 2004, p. 1181 ss. e di Finocchiaro, Il 156 CONTRATTO E IMPRESA gittimità costituzionale dell’art. 113, comma 2°, c.p.c. « nella parte in cui non prevede che il giudice di pace debba osservare i principi informatori della materia ». A parte la genericità della nozione di « principi informatori della materia » – nozione che potrebbe coincidere con il concetto di « norme imperative » (71) –, la riconduzione del giudizio di equità nei « binari » delle regole positive dell’ordinamento italiano viene operata dai giudici costituzionali su due presupposti, entrambi non ricorrenti nell’arbitrato: la obbligatorietà del giudizio equitativo previsto dal capoverso dell’art. 113, in collegamento con l’art. 24 Cost., nonché l’inquadramento del giudice di pace nel sistema della giustizia ordinaria, in rapporto con l’art. 101, comma 2°, Cost. Sotto un diverso profilo, la decisione, proponendosi espressamente l’intento di porre rimedio ad un’equità intesa come giudizio « di tipo intuitivo », « extragiuridico » e connotato dal rischio per il giudicante di uno « sconfinamento nell’arbitrio, attraverso una contrapposizione con le proprie categorie soggettive di equità e ragionevolezza » (72), dà per presupposto l’accoglimento incontrastato della tesi soggettiva. Essa non tiene conto né dell’esistenza dell’opinione riduzionista, nel cui ambito il confine dei principi informatori della materia risulterebbe superfluo, né della diffusione dell’orientamento oggettivo, i cui limiti coincidono con quegli stessi principi-base (comuni anche al nostro ordinamento) sui quali è fondato. 4. – In base all’art. 822, la volontà dei compromettenti di attribuire agli arbitri il compito di decidere secondo equità può essere desunta da « qualsiasi espressione » (73). La formulazione della norma rappresenta il recepimento dell’opinione giurisprudenziale che si era formata nel vigore dell’art. 20 del codice di procedura del 1865 (74). Secondo i giudici dell’epoca non era necessario giudizio di equità nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in questa rivista, 2005, p. 103 ss. Dedicato al problema esaminato nella sentenza della Corte costituzionale è pure il contributo di Calvo, Giurisdizione di equità e gerarchie assiologiche, in questa rivista, 2005, p. 118 ss. (71) In questo senso sembra essere Perlingieri, Equità e ordinamento giuridico, cit., p. 1151. (72) Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206, cit. (73) Sotto il vigore del cod. del 1865 si discuteva se fosse ammissibile una clausola compromissoria equitativa in considerazione del fatto che l’art. 20 parlava solo del compromesso e sul rilievo della maggior pericolosità della clausola (Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, V ed., Torino, 1902, I, pp. 697-698). Oggi la liceità della clausola arbitrale d’equità è pacifica, vista la portata generale dell’art. 822 e considerato l’argomento a contrario ricavabile dall’art. 808, comma 2°, seconda parte. (74) « Gli arbitri decidono secondo le regole di diritto, se il compromesso non li abbia autorizzati a decidere come amichevoli compositori ». SAGGI 157 che i compromettenti utilizzassero la formula legislativa « amichevoli compositori » per concludere che si fosse in presenza di un arbitrato d’equità, ma era sufficiente il ricorso a qualunque espressione da cui risultasse l’intento degli stessi di rimettersi al prudente arbitrio del giudice, come, ad esempio, il conferimento agli arbitri dell’autorizzazione a decidere «pro (o de, o ex) bono et aequo » (75). La giurisprudenza non si spingeva, tuttavia, fino ad esprimere un favor interpretativo per il giudizio d’equità: in alcune sentenze si aveva anzi cura di precisare come l’art. 20 imponesse, nel dubbio, di propendere per un arbitrato di diritto (76). La trasposizione nell’attuale codice di procedura dell’atteggiamento della giurisprudenza è stata, perciò, infelice. Ne è derivata, infatti, una previsione dal significato contraddittorio: essa, per un verso, specifica che l’obbligo per gli arbitri di giudicare secondo diritto rappresenta l’effetto naturale di una convenzione arbitrale di tenore semplice, per un altro verso, suggerisce di dare la preferenza, in sede interpretativa, all’arbitrato d’equità, in presenza di un patto compromissorio contenente espressioni aggiuntive. Su di un piano di politica legislativa può, invero, discutersi sull’opportunità di favorire un giudizio privato sottoposto ad un controllo meno penetrante da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria rispetto al giudizio arbitrale di diritto (77). Lo sfavore nei confronti di un giudizio arbitrale difficilmente impugnabile davanti al giudice ordinario costituisce forse la ragione che ha condotto ad interpretare restrittivamente l’art. 822 (78). Le espressioni che (75) App. Lucca, 8 marzo 1875; Cass. Firenze, 7 giugno 1875; App. Torino, 23 aprile 1869; richiamate da Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, cit., I, p. 697, nota 2; v. anche Amar, Dei giudizi arbitrali, cit., p. 248. (76) App. Milano, 20 aprile 1874; App. Torino, 12 dicembre 1893, richiamate da Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, cit., I, p. 697, nota 2. (77) Cfr. Briguglio, Arbitrato rituale ed equità, in Riv. arbitrato, 1996, p. 268. L’arbitrato, in effetti, può rappresentare uno strumento affidabile per risolvere le controversie solo qualora i contendenti possano preservare i mezzi per impugnare la decisione arbitrale davanti al giudice ordinario. Una certa diffidenza nei confronti del giudizio equitativo si riscontra, ad esempio, negli Stati Uniti, in cui si può rinunciare preventivamente all’appellabilità del lodo solo qualora la clausola arbitrale non sia inclusa in un contratto standard: Atiyah, An introduction to the law of contract, New York, 1981, p. 241. Nel nostro ordinamento vi sono indici contrastanti: oltre all’art. 822, anche l’art. 47, comma 3°, del d. lgs. 17 marzo 1995, n. 175 esprime una preferenza per il giudizio d’equità (la norma prevede, infatti, il giudizio d’equità come effetto naturale della scelta dell’arbitrato operata dalla società di assicurazione e dall’assicurato); di ispirazione opposta è l’art. 808, comma 2°, parte seconda, c.p.c., nonché l’art. 36 d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5. In tema v. Tenella Sillani, op. cit., p. 314 ss. (78) Parte della dottrina ne propone una lettura sostanzialmente « abrogativa »: secondo 158 CONTRATTO E IMPRESA sono state ritenute dalla giurisprudenza idonee a rivelare la predilezione dei compromettenti per il giudizio di equità consistono, per l’appunto, solo in quelle facenti riferimento al sostantivo « equità » od ai suoi derivati, nonché nell’attribuzione agli arbitri della qualifica di « amichevoli compositori » (79). Quanto alle formule contenenti il richiamo esplicito all’« equità » o agli attributi « equo » o « equitativo », nessun dubbio si può porre circa la loro idoneità ad integrare la fattispecie prevista all’art. 822 (80). Analoga conclusione vale per le locuzioni in cui i suddetti termini siano associati ad altre parole come accade quando gli arbitri vengano autorizzati a decidere « secondo diritto ed equità » (81) oppure quando le parti conferiscano ad essi il potere di risolvere la lite «pro bono et aequo » (82). Perplessità, invece, solleva l’opinione maggioritaria in ordine all’espressione « amichevoli compositori », opinione che si richiama all’art. 20 c.p.c. del 1865 (83), il quale utilizzava la locuzione come sinonimo di « giudici d’equità » (84). Biamonti, voce Arbitrato. c) Diritto processuale civile, in Enc. dir., II, Milano, 1958, p. 922, la « qualunque espressione » con cui le parti autorizzino gli arbitri a pronunciare secondo equità deve essere « formulata in termini tali da non potersi prestare a dubbi o ad equivoci. Trattasi infatti di una facoltà che, essendo in contrasto col canone essenziale che domina e regola i poteri del giudice ordinario consacrati nell’art. 113 c.p.c., deve essere espressa in termini chiari e di sicuro significato ». (79) Nel senso che la definizione dell’arbitro quale amichevole compositore valga a ritenere che gli sia stato conferito il potere di decidere secondo equità v. App. Napoli, 13 giugno 1955, in Rep. Giust. civ., 1955, voce Compromesso e arbitrato, n. 117; App. Brescia, 4 maggio 1955, in Rep. Giust. civ., 1955, voce Compromesso e arbitrato, n. 118; Furno, Appunti in tema di arbitramento e di arbitrato, nota a Cass., 7 dicembre 1950, in Riv. dir. proc., 1951, II, pp. 170-171; Biamonti, « Arbitrato. c) Diritto processuale civile », cit., p. 922, nota 136; Schizzerotto, Arbitrato improprio e arbitraggio, Milano, 1967, p. 239 ss.; Tenella Sillani, Arbitrato di equità, cit., p. 317 ss. (ivi altri riferimenti). (80) Tenella Sillani, op. ult. cit., p. 317. (81) Sono ritenute espressioni analoghe a quella riportata nel testo l’autorizzazione a decidere « anche secondo equità » (Tenella Sillani, op. loc. ultt. citt.) oppure la seguente: « gli arbitri giudicheranno secondo diritto; tuttavia, ove l’applicazione del diritto conduca a conseguenze inique, gli arbitri potranno giudicare secondo equità » (Galgano, Diritto ed equità nel giudizio arbitrale, cit., p. 466; cfr. anche G. Bernini, L’arbitrato, cit., p. 140). (82) Questa espressione « richiama i caratteri tipici dell’arbitrato nell’antico diritto romano, per antonomasia considerato giudizio ex aequo et bono, e si rifà alla terminologia ricorrente soprattutto nei paesi anglo-americani »: Tenella Sillani, op. ult. cit., p. 318; cfr. anche Broggini, Aspetti storici e comparativistici, in Aa.Vv., L’equità, Milano, 1975, p. 17 ss.; G. Bernini, L’arbitrato, cit., p. 134 ss. (83) V. supra nota 74. (84) Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, IV ed., Milano, SAGGI 159 Se il criterio primario cui fare riferimento per interpretare la convenzione arbitrale è rappresentato dalla comune intenzione delle parti (art. 1362, comma 1°, c.c.) (85), ci si può, infatti, chiedere se, con questa espressione, i compromettenti – i quali normalmente non sono giurisperiti – abbiano voluto effettivamente richiamare la norma del codice ottocentesco o se abbiano piuttosto inteso conferire agli arbitri (anche) il compito di tentare una conciliazione (86), favorendo, per l’appunto, una soluzione « amichevole » della vertenza. È anche possibile che la definizione degli arbitri come amichevoli compositori rappresenti una formula di « stile » tralatizia e, perciò, priva di valore semantico giuridicamente rilevante (87). Essa potrebbe derivare da 1923, III, p. 158 ss.; Codovilla, Del compromesso e del giudizio arbitrale, Torino, 1899, pp. 401402; Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, cit., I, p. 696; Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, cit., p. 5 ss. (per altri riferimenti v. p. 20, nota 23); Borsari, Il codice italiano di proc. civile annotato, III ed., Napoli-Roma, 1872, I, sub art. 20, p. 64; cfr. Satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, (1931) rist. 1969, pp. 82-83; cfr. anche Relazione alla Maestà del Re Imperatore del Ministro Guardasigilli (Grandi), presentata nell’udienza del 28 ottobre 1940-XVIII per l’approvazione del testo del codice di procedura civile, in Nuovo codice di procedura civile, a cura di Scarella, Torino, 1940, p. 11. V. anche l’art. 1474 code de procédure civile, in base al quale « l’arbitre tranche le litige conformément aux règles de droit, à moins que, dans la convention d’arbitrage, les parties ne lui aient conféré mission de statuer comme amiable compositeur ». Per la giurisprudenza francese, però, gli arbitri amichevoli compositori non sono tenuti a giudicare solo secondo equità, ma possono decidere anche secondo diritto: cfr. App. Paris, 28 novembre 1996, in Revue de l’arbitrage, 1997, p. 380 ss., con nota di Loquin; Cour de Cassation, 29 novembre 1995, in Revue de l’arbitrage, 1996, p. 234 ss., con nota di Loquin. (85) V., a specifico proposito dell’alternativa tra diritto ed equità, Tenella Sillani, op. ult. cit., p. 317. Sull’interpretazione della clausola compromissoria in generale v. Festi, op. cit., p. 301 ss. (86) Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, I, Padova, 1936, pp. 176-177. Rileva David, L’arbitrage dans le commerce international, Paris, 1982, p. 112 che, storicamente, l’amichevole compositore era all’origine un conciliatore munito del potere di imporre una soluzione, e che solo successivamente è divenuto un arbitro. Secondo Cass., 3 dicembre 1987, n. 8983, in Rep. Giust. civ., 1987, voce Compromesso e arbitrato, n. 46, pubbl. in Banche dati Juris data – Sentenze Cassazione civile, una clausola che nomini un soggetto « quale arbitro amichevole compositore di eventuali contestazioni » ma che contenga altresì la previsione che « in caso di mancato accordo si seguirà la via legale » va interpretata nel senso che le parti abbiano inteso deferire al terzo il compito di esperire solo un tentativo di conciliazione con la conseguenza che, ove tale tentativo fallisca, la competenza è del giudice ordinario. (87) Sulle « clausole di stile » in generale v. Messineo, voce Contratto (dir. priv.), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, p. 820 ss.; Bianca, Il contratto, in Diritto civile, II ed., Milano, 2000, III, pp. 316-317. Da ultimo cfr. Sicchiero, La clausola contrattuale, Padova, 2003, p. 277 ss. (ivi altri riferimenti). 160 CONTRATTO E IMPRESA una antica convinzione che si è rivelata errata nel corso della storia, ma che, ciò nonostante, risulta tutt’ora diffusa fino a suggestionare anche il moderno legislatore (88). Com’è noto, nel diritto intermedio, a causa dell’inefficienza delle istituzioni preposte alla soluzione processuale delle liti e del conseguente disordine sociale (89), si era diffusa l’idea che l’arbitrato (non solo se introdotto da compromesso ma) (90) anche se previsto in una clausola compromissoria o imposto ex lege fosse uno strumento di composizione delle controversie amichevole e pacifico (91), così da consigliarne l’obbligatorietà nelle cause fra parenti e in materia commerciale (92). In questo ambito, e considerato che gli arbitri venivano usualmente scelti – o, nel caso dell’arbitrato obbligatorio fra parenti, « dovevano » essere scelti – tra parenti o amici (93), la locuzione « amichevole compositore » veniva utilizzata come sinonimo di arbitro tout court. È noto, altresì, come quest’equivoco sia stato in seguito superato, attraverso la constatazione che (88) V. art. 2, comma 1°, lett. i, d.m. 4 giugno 1997, n. 256, in cui l’arbitrato rituale viene individuato come una forma di « componimento amichevole » delle liti. (89) « Le luttuose ed interminabili discordie nelle quali andò a perdersi la indipendenza dei Comuni nostri; le profonde divisioni di parte fra i cittadini; gli odi di famiglia cresciuti e fomentati anche fra parenti prossimi; le vendette e gli eccidi che ne seguivano, non fermaronsi soltanto nel campo della politica, ma coinvolsero tutti gli interessi della vita civile ordinaria l’uno all’altro servendo di pretesto e di occasione. Due cittadini fra i quali fosse insorta una lite qualsiasi, e per questo addivenuti nemici, per quanto fosse leggera e privatissima la causa, venivano subito al predarsi la roba, al farsi giustizia fra se stessi anziché intendersi e compromettersi in persone dabbene e oneste. In tale condizione di cose, non si pensò di meglio che costringere i cittadini a compromettere in arbitri le loro querele: e siccome le più acute e pericolose erano quelle che nascevano in seno alle famiglie, così principalmente ai congiunti di sangue, fu fatto questo obbligo di compromettere pro bono pacis »: Rivalta, riportato da Lessona, voce Arbitramento, in Enc. giur. it., I, 3, Milano, 1893, p. 566. (90) La pattuizione di un compromesso e, cioè, la circostanza che, a lite già sorta, le parti si accordino almeno sul punto di devolvere la controversia stessa ad arbitri rappresenta effettivamente un indice di minore asprezza della contesa. Non altrettanto si può dire, ovviamente, con riguardo al patto compromissorio per controversie future o all’arbitrato obbligatorio. (91) « L’amichevole compositore è la transazione, è la concordia, è il ramo d’ulivo fra nuovi e per lo più fra antichi rancori »: Borsari, op. loc. ult. cit. (92) V. l’art. 566 della consuetudine di Bretagna, secondo il quale le liti tra coeredi dovevano essere decise da arbitri scelti tra i parenti «pour amiablement acorder de leur partage, si faire se peut, sans forme de procès »; per questa notizia e per ulteriori riferimenti storici v. Lessona, « Arbitramento », cit., p. 565 ss.; cfr. anche Alpa, Appunti sull’esperienza francese, in Nuova giur. civ. comm. Casi scelti in tema di arbitrato nel diritto italiano e comparato, a cura di Alpa e Galletto, Padova, 1994, p. 421 ss. (93) Cfr. Lessona, « Arbitramento », cit., p. 566 ss. SAGGI 161 l’arbitrato – in particolare quando origini da convenzione arbitrale anteriore al sorgere della lite (clausola compromissoria) o qualora sia previsto per legge – è caratterizzato da conflittualità analoga a quella di un processo istituzionale (94), e come tale osservazione abbia condotto nell’età moderna ad un atteggiamento di diffidenza nei confronti non solo dell’arbitrato obbligatorio (95), ma anche dell’istituto arbitrale nel suo complesso (96). In conclusione, il richiamo al « componimento amichevole » potrebbe integrare un consapevole richiamo all’equità, oppure potrebbe rappresentare l’auspicio ad una soluzione conciliativa della futura lite o, infine, potrebbe costituire il frutto – giuridicamente irrilevante – dell’antico fraintendimento. In assenza di altri indici espressivi che possano far propendere nell’un senso o nell’altro (97), sembra preferibile concludere per la prima alternativa, considerato il pur criticabile favor che emerge dalla norma interpretativa speciale codificata nell’art. 822. Certamente, la locuzione « amichevoli compositori » non può – nonostante alcune opinioni in tal senso (98) – essere indicativa di un arbitrato ir- (94) Anzi può essere fonte di un maggiore disordine sociale se, nel caso dell’arbitrato obbligatorio, gli arbitri non forniscano – così come avveniva in particolare nei secoli XVI e XVII – adeguate garanzie di competenza e di imparzialità. V. al riguardo la feroce critica che la dottrina francese dell’epoca rivolgeva all’arbitrato imposto: « l’istituzione dell’arbitrato domestico, questa istituzione che ci ricordava la giurisdizione patriarcale, la semplicità, e, come si vantava, la pietà dei primi tempi, divenne fra noi per le discordie politiche, la più funesta delle novità che tuttodì si vedevano nascere. Litigare gratuitamente fu allettamento; far da giudice e da parte scambievolmente, un traffico: le cause moltiplicaronsi senza fine; irruppero le male arti; le cavillazioni, i raggiri non ebbero più freno, il furor dei litigi s’impadronì degli animi, ed in tutti i luoghi della Francia si combatteva giudizialmente, come se essa fosse addivenuta un’arena di litiganti; non si aveva villaggio, non famiglia che non avesse il suo tribunale di azione, i suoi causidici, le sue parti. Le sedute si tenevano ordinariamente nei caffè e nelle bettole, ivi facevano i loro contratti il giudice, la parte attrice e la convenuta; alle sentenze di questi tribunali tenevano dietro odi più profondi, rancori, inimicizie e vendette terribili » (Nouveau-Denisarts, riportato da Lessona, « Arbitramento », cit., p. 567). (95) V. le numerose sentenze con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle leggi che imponevano il ricorso all’arbitrato riportate in Festi, op. cit., p. 7, nota 18. (96) Cfr. Alpa, Appunti sull’esperienza francese, cit., pp. 424-425. (97) Cfr. Cass., 3 dicembre 1987, n. 8983, pubbl. in Banche dati Juris data –Sentenze Cassazione civile. (98) Cass., 21 maggio 1955, n. 1510, in Rep. Giust. civ., 1955, voce Compromesso e arbitrato, n. 23; Cass., 7 dicembre 1950, cit., con nota critica di Furno, Appunti in tema di arbitramento e di arbitrato; nel senso che la definizione dell’arbitro come « amichevole compositore », unitamente alla previsione di inappellabilità della decisione, siano incompatibili con l’arbitrato rituale v. Trib. Como, 2 marzo 1987, ne Le società, 1987, p. 826 ss. con nota di Protettì; nello stesso senso v. Rubino-Sammartano, Il diritto dell’arbitrato (interno), Pa- 162 CONTRATTO E IMPRESA rituale, non essendo questo caratterizzato da minore conflittualità rispetto all’arbitrato rituale. Decisamente da respingere è anche la convinzione che tale formula possa significare l’attribuzione all’arbitro del potere di imporre una transazione ai litiganti (99). A parte l’osservazione, di carattere pratico, per cui l’accoglimento di una tesi siffatta condurrebbe alla declaratoria di illiceità di tutte le clausole compromissorie contenenti l’inciso in questione (100), occorre considerare che la transazione imposta da un terzo non può – differentemente da quella raggiunta dalle parti – essere qualificata come una composizione « amichevole ». Una soluzione che prescinda dall’accertamento delle rispettive ragioni e dei rispettivi torti ed in cui si costringano le parti ad effettuarsi reciproche concessioni, senza criterio e senza possibilità di controllo alcuno, rischia, infatti, di lasciare i litiganti in una situazione di contrapposizione ancor più aspra rispetto a quella in cui si troverebbero a seguito di un regolare arbitrato (101). dova, 1991, p. 56. Contro e, cioè, nel senso del testo: Cass., 5 settembre 1992, n. 10240, in Foro it., 1992, I, c. 3298 ss.; Cass., 7 febbraio 1968, n. 404, in Giust. civ., 1968, I, p. 596 ss.; Cass., 14 aprile 1992, n. 4528, in Riv. arb., 1992, p. 711 (solo mass.), pubbl. in Banche dati Juris data –Sentenze Cassazione civile; Cass., sez. un., 7 ottobre 1969, n. 3195, in Foro it., 1969, I, c. 3061 ss.; Tenella Sillani, Arbitrato di equità, cit., p. 319 ss.; G. Bernini, L’arbitrato, cit., p. 67; Schizzerotto, Arbitrato improprio e arbitraggio, cit., p. 239 ss.; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, I, p. 90 ss.; cfr. anche Silingardi, Il compromesso in arbitri nelle società di capitali, Milano, 1979, p. 34 ss.; Cass., 4 ottobre 1994, n. 8075, in Riv. arbitrato, 1995, p. 285 (solo mass.); Cass., 19 ottobre 1954, n. 3869, in Giust. civ., 1954, pp. 2570-2571. (99) Questa convinzione si ritrova in Mancini, Pisanelli e Scialoja, Commentario del codice di procedura civile per gli Stati sardi, Torino, 1858, V, 2, p. 228; Lessona, « Arbitramento », cit., p. 570; Borsari, op. loc. ultt. citt.; cfr. anche Tucci, L’equità del codice civile e l’arbitrato di equità, cit., pp. 500-501; Rubino-Sammartano, Il diritto dell’arbitrato (interno), cit., p. 56; Biamonti, « Arbitrato. c) Diritto processuale civile », cit., p. 922, nota 136; Cass., 7 dicembre 1950, cit. In senso contrario v. Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, cit., p. 837. (100) V. supra nota 22. (101) Cfr. Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, cit., pp. 11-12: « a soddisfare l’interesse al mantenimento della pace sociale a scapito dell’interesse all’attuazione del diritto mira anche lo Stato moderno, quando si intromette in un litigio per mezzo del conciliatore, il quale non si cura di accertare quale dei due litiganti abbia ragione, ma solo si adopra a comporre la controversia, magari a vantaggio della parte che, a rigor di legge, avrebbe torto. Onde si potrebbe esser tratti, per risolvere l’apparente enigma delle giurisdizioni speciali con poteri di amichevoli compositori che giudicano in nome dello Stato senza applicare il diritto, a vedere in essi un organo affine al conciliatore, con una sola differenza essenziale da questo: che le giurisdizioni speciali con poteri di amichevoli compositori, invece di agire sulla volontà delle parti per indurle a rinunziare a una decisio- SAGGI 163 Altre espressioni che, in virtù della previsione interpretativa di favore (art. 822), potrebbero teoricamente indicare un giudizio equitativo non vengono, invece, prese in considerazione. La richiesta agli arbitri di emettere un « giusto giudizio », che, se si accogliesse la diffusa – quanto generica – concezione dell’equità come un miglioramento del diritto scritto (102), potrebbe essere inquadrata nell’art. 822, viene ritenuta irrilevante, stante l’indeterminatezza del concetto di « giustizia » e la riferibilità dello stesso (anche) al giudizio di diritto (103). Ad analoga sorte viene generalmente destinata la autorizzazione agli arbitri a giudicare « secondo gli usi » (104). Questa formula, però, potrebbe essere intesa come un rinvio all’equità qualora la si interpretasse nel senso dell’attribuzione agli arbitri della facoltà di applicare anche gli usi praeter legem e contra legem (105) e nell’ipotesi in cui si condividesse, nell’ambito della tesi oggettiva, l’identificazione dell’equità con « quella regola giuridica che si trae dal comune sentire nello stato di evoluzione della società civile o della minore comunità di cui è espressione l’organo arbitrale » (106). ne prettamente giuridica delle loro pretese in conflitto, dovrebbero, per far più presto, sovrapporsi alla volontà delle parti ed imporre ad esse una specie di ‘conciliazione obbligatoria’, la quale non mirasse ad accertare la ragione o il torto, ma soltanto a dividere il male a metà senza andar tanto per la sottile, con una specie di disinvoltura salomonica, fatta apposta per rimandare a casa tutt’e due i litiganti contenti e gabbati »; l’autore accosta tale giudizio alla vermittelnde Entscheidung o ai iudicia rusticorum del diritto comune e, cioè, alle « sentenze di quei giudici poco scrupolosi che, per sottrarsi alla fatica di una lunga istruttoria, risolvevano le querele dei litiganti secondo il buon senso contadinesco, senza scervellarsi dietro la sottile ragione giuridica ». Sulla differenza tra determinazione transattiva e giudizio d’equità, v. fra gli altri Galgano, Diritto ed equità nel giudizio arbitrale, cit., p. 471 ss. (102) Cfr. supra par. 1. (103) Tenella Sillani, Arbitrato di equità, cit., p. 323; Briguglio, in Dell’arbitrato. Estratto dal codice di procedura civile commentato, a cura di Vaccarella e Verde, Torino, 1997, sub art. 822, p. 116; lodo Verona, 29 giugno 1990, in Riv. arbitrato, 1991, p. 854 (solo mass.). (104) Tenella Sillani, op. loc. ult. cit.; cfr. Cass., 29 luglio 1963, n. 2127, in Rep. Giust. civ., 1963, voce Compromesso e arbitrato, n. 89, p. 542: « giudicare secondo gli usi, cioè secondo norme oggettive generalizzate, le quali valgono se richiamate dalla legge, non è giudicare secondo equità, cioè, secondo criteri non normativi. Per conseguenza, il richiamo alle norme di uso, fatto dalle parti in clausola compromissoria, nella designazione dei poteri degli arbitri, non può da solo interpretarsi come autorizzazione agli arbitri di decidere secondo equità »; contro: Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1959, IV, 2, p. 305. (105) Attribuzione ammissibile purché gli usi non contrastino con i principi fondamentali dell’ordinamento: v. supra par. 3. (106) Cecchella, L’arbitrato, in Giur. sist. dir. proc. civ., diretta da Proto Pisani, Torino, 1991, pp. 174-175. 164 CONTRATTO E IMPRESA È evidente, infatti, che se in un determinato contesto sociale la generalità dei partecipanti si comporta ripetutamente in un certo modo, nonostante la legge preveda diversamente, tale condotta risponde al « comune sentire ». Priva di fondamento sembra, invece, l’opinione per la quale l’autorizzazione a giudicare secondo equità dovrebbe desumersi dalla natura delle questioni sottoposte agli arbitri (107), in quanto tutte le controversie sono suscettibili di una soluzione secondo diritto (arg. ex art. 112 c.p.c.) e, qualora la norma di legge applicabile alla fattispecie concreta dovesse richiamare l’equità (v. artt. 1226; 1384; 1526, comma 1°, c.c.; ecc.), si rimarrebbe pur sempre nell’ambito di un giudizio di diritto. In definitiva non è il criterio di giudizio – secondo diritto o secondo equità – a dipendere dal tipo di lite, ma è la soluzione della lite a dipendere dal criterio di giudizio (108). Sulla base del dato letterale consistente nella disgiuntiva « o » contenuta nell’ultima proposizione del comma 2° dell’art. 829 c.p.c., viene altresì ritenuta non equivalente all’autorizzazione a giudicare secondo equità la previsione di « inappellabilità » o di « non impugnabilità » del lodo (109). (107) Per questa opinione v. Biamonti, « Arbitrato. c) Diritto processuale civile », cit., p. 922, nota 136; Cass., 31 luglio 1952, n. 2445, in Mass. Foro it., 1952, cc. 572-573, secondo cui il potere degli arbitri di decidere secondo equità andrebbe desunto sia dalla qualifica di arbitrato amichevole contenuta nella clausola compromissoria sia dalla natura delle questioni sottoposte agli arbitri, suscettibili di una soluzione equitativa, anziché di puro diritto (nella specie: determinazione del canone locatizio); cfr. anche App. Milano, 18 novembre 1955, in Giust. civ., 1956, I, p. 146 ss. (108) Del resto, nel caso di clausola compromissoria le parti non conoscono nemmeno, al momento della stipula, le liti che insorgeranno tra loro. (109) In tema cfr. Tenella Sillani, Arbitrato di equità, cit., p. 322; Briguglio, Arbitrato rituale ed equità, cit., p. 269; Cass., 14 luglio 1997, n. 6356, in Mass. Giust. civ., 1997, p. 1188; Cass., 6 dicembre 1988, n. 6638 e lodo Palermo, 14 dicembre 1990, in Nuova giur. civ. comm. Casi scelti in tema di arbitrato nel diritto italiano e comparato, a cura di Alpa e Galletto, Padova, 1994, p. 374 ss., con nota di Martini [in base a tali decisioni, la definizione di inappellabilità della decisione, contenuta nella clausola compromissoria, non comporta l’autorizzazione agli arbitri a pronunciare secondo equità, con la conseguenza che, se gli arbitri si ritengono, erroneamente, investiti del potere di decidere secondo equità, la decisione da loro così resa è viziata da errore in procedendo per inosservanza dei limiti del compromesso (art. 829, comma 1°, n. 4, c.p.c.) e tale vizio può essere denunciato con l’impugnazione di nullità anche se il lodo sia stato dichiarato non impugnabile]; App. Palermo, 4 dicembre 1995, cit. In senso contrario v. Redenti, voce Compromesso (diritto processuale civile), in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959, p. 804; Biamonti, « Arbitrato. c) Diritto processuale civile », cit., p. 922, nota 136. Ancora diversa è la posizione di Carnacini, voce Arbitrato rituale, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, p. 903 e Punzi, « Arbitrato. I) Arbitrato rituale e irrituale », cit., p. 21, secondo i quali, nel caso in cui le parti abbiano dichiarato il lodo non SAGGI 165 Non condivisibile, infine, risulta pure la tesi secondo cui la conclusione di una convenzione per arbitrato irrituale dovrebbe far presumere la volontà delle parti di conferire agli arbitri poteri equitativi (110). Essa rappresenta, infatti, il derivato di un duplice equivoco: che l’arbitrato libero debba consistere in una transazione imposta dagli arbitri (111) e che il giudizio d’equità equivalga nella sostanza ad una composizione transattiva della lite (112). impugnabile, sarebbe consentito agli arbitri di scegliere se decidere secondo diritto o secondo equità. Cfr., infine, la decisione di App. Roma, 2 aprile 1991, in Riv. arbitrato, 1992, p. 275 ss., con nota di Frisina, Sulla rinuncia preventiva all’impugnazione del lodo arbitrale, secondo la quale l’espressione, contenuta nella clausola arbitrale, con cui « le parti si impegnano a dare spontanea ed immediata esecuzione al lodo, dal giorno del suo deposito » non indica la volontà di rinunciare all’appellabilità del lodo. (110) Per l’idea che l’arbitrato irrituale debba essere necessariamente d’equità v. già Scialoja, Gli arbitrati liberi, in Riv. dir. comm., 1922, I, p. 522, il quale motiva l’opinione con il rilievo che la decisione di controversie mediante l’applicazione delle norme del diritto sarebbe impedita a giudici privati che decidano senza le forme imposte e senza il riconoscimento della legge; cfr. anche Biamonti, « Arbitrato. c) Diritto processuale civile », cit., p. 943 ss.; Trib. Milano, 21 febbraio 1991, in Giust. civ., 1991, I, p. 2462 ss., secondo cui l’assenza di vincoli di giudizio da parte dei compromettenti ad arbitri irrituali, fa presumere la volontà di aver voluto un arbitrato irrituale d’equità. In senso critico v. Tenella Sillani, Arbitrato di equità, cit., p. 320. (111) Per la confutazione di questa tesi v. Festi, op. cit., p. 87 ss. (112) V. supra par. 2.