La Pratica Analitica - rivista annuale

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La Pratica Analitica - rivista annuale
La Pratica Analitica
Rivista
del Centro
Italiano
di Psicologia
Analitica
Istituto
di Milano
V
la biblioteca di
VIVARIUM
La Pratica Analitica - rivista annuale - nuova serie n. 8/2011-2012
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RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA, a cura di S. Di Lorenzo, L. Vanzulli
I MODI DEL PENSARE, a cura di G. Cavallari, S. Chiesa, G. Kaufman
INFANZIA E ADOLESCENZA, a cura di R. Andreoli, M. Ceccarelli
RECENSIONI, a cura della redazione
G. Kaufman
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ISBN 978-88-95601-07-6
© 2010 La biblioteca di Vivarium
Milano, via Caprera 4
Sommario
Ricordo di Basilio Reale
Maria Beatrice Masella
Sabato 2 agosto 1980
Basilio Reale
La relazione analitica fra sole e luna
I MODI DEL PENSARE
Bruno Meroni
Dum anima est, spes est
Elisabetta Baldisserotto
Speranza e Nostalgia
Nicolò Doveri
La ripetizione e le sue metamorfosi:
la speranza come strumento della psicologia analitica
Letizia Oddo
La speranza è l’ultima a morire
RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA
Katia Rossetti
Il busto di ferro:
la funzione pre-generatrice della supervisione
Susanna Chiesa
Il tema della speranza nel contesto della supervisione
Augusto Gentili
Aspetti fenomenologici della speranza
tra esperienza ossessiva ed esperienza schizofrenica
INFANZIA E ADOLESCENZA
Ilaria Puglisi
Tenere in mente la speranza
Davide Baldan
Riflessioni in forma di testimonianza
di alcune possibili declinazioni, aporie o derive
delle speranze nella richiesta adottiva
Giorgio Cavallari
La valutazione dei potenziali genitori adottivi:
fantasma o realtà?
Maria Beatrice Masella
Speranza
Recensioni
Autori
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Ci ha lasciati il caro amico e collega Basilio Reale, poeta e psicoanalista, fondatore e ideatore della “Pratica
Analitica”. L’età e, purtroppo, la malattia ci avevano
privato da tempo della sua compagnia, della sua ironia e della sua verve polemica e forse i più giovani colleghi del Cipa non hanno avuto la ventura di conoscerlo. Vogliamo ricordarlo come esponente quasi
esemplare di un modo di essere analisti, uomini di
cultura, cittadini impegnati nel mondo e sempre tutte
queste cose insieme che era e ancora dovrebbe essere —
così crediamo — il taglio tipico dello junghismo e di
cui non vorremmo si perdesse la traccia. Gli siamo
grati per quanto generosamente ci ha sempre dato di
sé, per la finezza della sua arte e infine per questa rivista che ancora vive e che cercheremo, nella sua memoria, di rendere sempre migliore. Lo ricordiamo riproponendo, su queste pagine, uno dei suoi primi
contributi alla “Pratica”, un piccolo lascito di un’intelligenza raffinata e di un modo, ormai storico, di
scrivere e pensare da analisti junghiani.
Grazie Basilio.
Ma al suo passo
si illumina la notte,
svapora la nube d’afa
che preme sopra gli occhi.
Come un respiro
Nel vento sento
La sua presenza gentile. (*)
(*) Da Basilio Reale, L’esistenza amorosa,
Vanni Scheiwiller, Milano 1989.
Basilio
Reale
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È il mattino pieno di tempesta
nel cuore dell’estate
Pablo Neruda
Sabato
2 agosto 1980
Maria Beatrice Masella
Sono le sette del mattino e già fa caldo. Bologna in agosto è un forno, eppure a me
piace anche così. Un grande amore, questa
città, che non si consuma facilmente. Da
quando sono tornata, poi, non faccio altro che riscoprirla. I rossi al tramonto, il rumore dei passi sotto i
portici, la pienezza della gente. E io mi sento di nuovo al mio posto, in mezzo agli altri e insieme.
Stamattina è un giorno importante, mi sono alzata di buon’ora, per fare ogni cosa con calma. Oggi
parte Luisa. Ma non va dietro l’angolo, e non tornerà così presto. Va via con Simon, lo segue fino a casa
sua, nelle terre liberate di El Salvador, inferno e paradiso del Centro America. Sono felice per lei che ha
deciso di partire e sono felice per me che rimango.
Finalmente metto qualche radice. È successo subito
dopo la laurea, in giugno. Il mio professore mi ha
chiesto di rimanere in Istituto per una ricerca che durerà due anni, a partire da subito. Così quest’estate
niente vacanze, solo i sotterranei di via Irnerio, ma
sono il posto più fresco della città e c’è silenzio, e io
non avevo nessuna intenzione di muovermi da qui.
Faccio colazione in un bar latteria sotto casa, in via
del Pratello. Sfoglio i giornali, qui ci sono “Il Carlino”
e “L’Unità” appoggiati sullo stesso bancone, non hanno voglia di farsi la guerra, stamane. L’afa di agosto
fiacca gli slanci e invita ad una tregua. Accetto volentieri questo senso di quiete. Alla fine mi decido a mettermi in movimento, pedalando lentamente verso il
centro, vestita leggera.
I banchetti del mercato della Montagnola sono
appena stati montati, qualcuno sta ancora finendo di
esporre la merce. Mi fermo dagli hippy. Li chiamo
così, quelli che vendono perline in fogge diverse:
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Maria Beatrice Masella
anelli, orecchini, collane. Per Luisa voglio un paio di
orecchini, le stanno così bene. Osservo con calma.
Non ho fretta stamattina. Ne guardo molti, li prendo
in mano, li tocco, ne saggio la consistenza. Voglio che
durino, che non siano troppo fragili, voglio che pensi a me tutte le volte che li indosserà. D’argento vanno benissimo, ma un argento pieno, solido. E poi devono parlare d’azzurro, il colore del cielo e del mare,
il colore dei suoi occhi. Quando sto per abbandonare il campo, scoraggiata, li vedo: due turchesi grossi
come delle gocce, dentro un’unica conchiglia che li
accoglie facendoli risplendere. Il suo futuro sarà così, come l’orizzonte. Li compro soddisfatta e mi avvio
verso l’Istituto di Fisica, ho ancora un paio d’ore a
disposizione per lavorare.
Luisa arriva da Roma dove è stata per sistemare i
suoi documenti. Abbiamo appuntamento alle 10,30
in stazione, perché verso mezzogiorno ha un altro
treno per Milano; lì l’aspetta Simon per prendere insieme l’aereo nel pomeriggio. Avremo un’ora tutta
per noi per ritrovarci, farci le ultime confidenze.
Oggi è una giornata speciale, stringo gli orecchini
nella mano e pedalo più forte.
Osservo e trascrivo dati. Trascrivo e osservo fenomeni. Non è un lavoro da grandi scienziati ma a me
sta bene. Il tempo vola e il pensiero pure. Non mi annoio mai negli scantinati di Fisica, così li chiamo io i
laboratori. Guardo l’orologio: sono già le 10.20 ma in
bicicletta ci metto davvero pochi minuti ad arrivare
in stazione, e voglio completare un’operazione. Ancora cinque minuti me li posso prendere. Luisa è una
ritardataria nata, lei mi ha parlato delle dieci e mezza tanto per arrotondare, ma sono sicura che il suo
treno potrebbe arrivare alle 10.20 come alle 10.40. In
tutti i modi pedalando in fretta ci metto anche meno
di cinque minuti. Scrivo l’ultimo dato, è fatta. Controllo l’ora: 10.25. Mentre spengo la luce e mi avvio
verso le scale per riemergere dal buio dei sotterranei,
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avverto un piccolo risucchio all’altezza del cuore: sto
arrivando Luisa, aspettami. Esco di corsa dal portone
e mi immergo nella luce abbagliante della mattina.
Pedalo fortissimo, una mano stretta a pugno per
tenere gli orecchini.
Percorro via Irnerio in un lampo attraversando gli
incroci sul rosso. Il 2 agosto non c’è troppo traffico e
io ho fretta, non mi investiranno proprio oggi, mi dico, con un sorriso sulle labbra di chi pregusta un piacere della vita e pensa che nulla di diverso possa succedere.
All’angolo con via Indipendenza mi tocca inchiodare. Accidenti, c’è un vigile all’incrocio. Sta parlando in una ricetrasmittente. Si sente il gracchiare della risposta. Il vigile fa di sì con la testa, ricevuto. Si
mette davanti a via Indipendenza, in direzione dei
viali, e non fa passare nessuno. Fa segno di andare
dritto, verso Via dei Mille. Ehi, ma sei matto, io devo
andare in stazione! Arriva Luisa, anzi forse è già arrivata, e non posso fare tardi. Così svicolo sotto al portico e mi lancio alla rincorsa del tempo. Arriva il sibilo di una sirena in lontananza, poi un altro. Non mi
preoccupo. Sto andando dalla mia amica. È un appuntamento importante.
Svolto sui viali, un fumo scuro e acre mi investe,
non faccio a tempo a farmi domande che sono di
fronte alla stazione.
Barcollo.
Fumo, polvere, silenzio, nero.
Grida, pianti, macerie, nero.
Gli ululati delle sirene che si avvicinano, ora li
sento.
Cerco di mettere a fuoco qualcosa. La stazione,
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Maria Beatrice Masella
manca tutta la parte sinistra, non c’è più. Mi appare
come un grande uccello con un’ala spezzata. Un’aquila ferita, crollata al suolo. Non potrà più volare, il
cielo le è caduto addosso.
C’è un silenzio irreale perché il traffico si è fermato. Si è fermata la vita. Tutto procede a rallentatore. Dentro al silenzio alcune persone urlano, chiamano soccorsi. “Qui, qui, presto, venite qui…” Ma bisogna scavalcare sassi, la pensilina dell’autobus distrutta, le macchine dei tassisti in mezzo alla strada
schiacciate dai detriti. Arrivano i vigili del fuoco, fanno qualcosa con dei nastri, cosa stanno facendo? Una
signora accanto a me piange con le mani davanti alla
bocca. Vorrei dirle qualche parola che la consoli ma
non capisco ancora cosa stia succedendo... Una bomba, dice un ragazzo accanto a me. Hanno fatto scoppiare una bomba, ripete un vecchietto. Vedrete che è
così. Sono i fascisti, ritornano sempre.
Scintille infuocate mi esplodono nel cervello. Io
devo andare da Luisa, Luisa è lì. Lascio cadere la mia
nuova bicicletta bianca sul terreno e incomincio a
correre. Mi dirigo verso destra per sfuggire ai poliziotti che respingono la gente che si avvicina. Ecco cosa stanno facendo, stanno transennando la zona. Riesco a passare. Entro nell’atrio della stazione. Rallento
la corsa, il terreno è pieno di vetri, sono saltate tutte
le biglietterie. Anche se è giorno sembra buio. Il terrore sulla faccia della gente è ghiaccio e fuoco insieme. Qualcuno scappa in preda al panico, altri cercano i loro cari, quelli che fino a pochi minuti erano in
viaggio con loro, fratelli, sorelle, amici. Sento una
donna che urla un nome, lo urla a un dio che non c’è
più. Un infermiere le si avvicina, la porta fuori. Io
avanzo, esco sul primo binario. C’è un treno fermo,
poco più in là le carrozze sono state investite dallo
scoppio, sventrate. Sangue sul terreno e sui binari.
Non voglio guardare. Fermo un signore con la divisa
da ferroviere e gli chiedo se quello è il treno che arriva da Roma. Non mi risponde, sembra impietrito. Mi
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attacco al suo braccio, alla sua divisa, e incomincio a
urlare, è il treno che arriva da Roma, sì o no? No, fa
con la testa. Viene da Ancona, riesce a dire con un soffio di voce. Lo lascio e scappo via, fuori da lì, via lontano, via, via, in un altro posto, in un altro mondo, via
da quell’inferno, via, via, il più lontano possibile.
...
Ormai spero soltanto che Luisa abbia perso il treno, o abbia deciso di partire più tardi. Salgo le scale
di casa affannata, forse ha lasciato un messaggio in
segreteria.
Giro le chiavi ed entro in cucina, ma prima che
possa andare al telefono il cuore incomincia a battere più forte. Le chiavi di casa di Luisa sono appoggiate sul tavolo insieme al suo foulard. Corro in camera e la trovo lì, rincantucciata sotto il soppalco in
mezzo alle valigie. Ha gli occhi rossi, ha pianto.
“Luisa, cosa ci fai qui?”
“Sono arrivata prima, verso le dieci, e sono venuta
a casa perché volevo farti una sorpresa. Anche perché ho deciso di non partire più, e non volevo stare
in stazione a vedere i treni che se ne andavano senza
di me. Ma tu non arrivavi mai…”
“Allora non sai niente di quello che è successo?”
“No… cosa?”
Scivolo accanto a lei e l’abbraccio. Ora ti racconto
Luisa, Luisa amica mia, sei viva, ti posso ancora toccare, vieni qui che ti voglio sentire… ti voglio bene.
Ma prima ti devo dare questi. Apro la mano sudata e
sporca. Gli orecchini sono ancora lì. A furia di tenerli stretti mi hanno ferito la pelle, me ne accorgo solo
ora. Due gocce turchesi di speranza, un pezzetto di
mare e un pezzetto di cielo su cui trattenere lo sguardo quando tutto sembra perduto. E ci stringiamo su
quelle gocce dure di futuro, striate di sangue.
da: Compagni di futuro
di Maria Beatrice Masella
Giraldi Editore, Bologna, 2006
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Dum anima est, spes est.
Finché c’e soffio vitale, c’è speranza.
(Cicerone, Ad Attico).
Dum anima est,
spes est
La prima volta che sono stato indotto a
riflettere sulla natura della speranza è
stato alla scuola media, nel confronto
con il latino: spero, promitto, iuro — reggono l’infinito futuro. Ripensando oggi a
questa regoletta, posso scorgervi lo
spunto per una implicazione molto vasta. La speranza non solo rimanda semplicemente al
futuro, rimanda anche al futuro infinito. Una dimensione, quella dell’infinito, che trova dimora nei
grandi territori della religione, dell’arte in ogni sua
forma, della speculazione filosofica.
Limitandoci a un accenno alla religione, nella Torà, dalla lettura sapienziale in poi, Dio stesso è detto
speranza e fiducia. Nelle tre virtù teologali, la speranza viene dopo la fede e prima della carità. Nel pensiero di San Paolo, la speranza ha un posto di grande
rilievo: Spe salvi facti sumus (Nella speranza noi siamo
salvati. Lettera ai Romani).
Relativamente alla potenza trasformatrice della
speranza, così presente nella poesia, nella letteratura, nelle arti figurative, come pure nel pensiero filosofico, è inevitabile il rimando alle intense e struggenti pagine che, in ambito fenomenologico, Eugenio Borgna ha dedicato all’attesa e alla speranza, dove la speranza può diventare elemento costitutivo
perfino dell’esperienza malinconica (E. Borgna,
L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005. Relativamente alla speranza secondo la prospettiva junghiana, si veda il capitolo “La speranza nella malinconia” in: G. Moretti, Un clown sul divano, Moretti &
Vitali, Bergamo 1998).
La modalità che può proteggere dall’arresto del
tempo creato dalla depressione è quella dello spazio
temporale visitato dalla speranza. Il contrario di spe-
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rare è disperare. Trovo esaustiva la voce Speranza dell’ottocentesco dizionario di italiano di Nicolò Tommaseo: “Sentimento piacevole che sorge nell’animo per l’idea di un cambiamento futuro, più o meno lontano, in bene”. Verità, questa, che evidenzia come la speranza sia
la risposta a uno stato di carenza, di sofferenza, di timore; andando alle radici, di paura.
La paura, madre di tutte le emozioni (Joseph LeDoux, Il cervello emotivo, Baldini & Castoldi, Torino
1998), è la condizione umana, sempre insorgente, a
cui si oppone l’ottimismo indifferenziato, altra costante della condizione umana. L’ottimismo, reattivo
alla paura, cerca di mantenere la confortevole presunzione di uno stato futuro di cose garantito e protetto. L’ottimismo, possiamo dire, è biologico, è intrinseco allo slancio vitale, alla dynamis, che ha come
compagni di viaggio le difese dell’Io. La rimozione,
in particolare, costituisce l’antidoto intrapsichico all’incombente presenza della paura.
Come il coraggio va distinto dalla temerarietà, così la speranza può venire distinta dal comune ottimismo. Possiamo considerare la speranza come l’aspetto differenziato dell’ottimismo: rispetto a questo, implica una percezione del rischio di fallimento molto
più avvertita, più riflessiva, più consapevole e sofferta. “Speranza di vita” è il termine che in demografia
designa la previsione di durata della vita media che,
a seconda delle categorie considerate, può fornire
dati drammatici. Una prova della speranza come
aspetto differenziato dell’ottimismo la troviamo nell’adagio Deo concedente, con cui si suole realisticamente accompagnare la formulazione di un progetto
(troviamo l’adagio anche negli scritti di Jung). In
questo augurio possiamo ravvisare la speranza che la
carità divina protegga l’avverarsi del progetto.
Relativamente alle virtù teologali, sulle quali poggia la dottrina delle cose divine, vediamo che possono dare spunti di riflessione anche in chi si addentra
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Dum anima est, spes est
nel meta-territorio dei contenuti inconsci. Ogni inizio di analisi implica, oltre alla irrinunciabile speranza in un esito produttivo, un atto di fede. Sia da parte dell’analista, che non ha certezze su quanto potrà
essere risolutivo il suo lavoro, sia da parte dell’analizzando, che si mette nelle mani di un sapere spesso
oggetto di periodiche confutazioni, come si vedono
apparire sui mezzi di larga informazione. Un atto di
fede di gran lunga maggiore rispetto a quello richiesto dalle discipline strettamente mediche.
Il “patto” analitico prevede che l’analista, una volta accettato di iniziare una analisi, non la abbandoni,
anche se questa vedrà emergere le più forti e rischiose difficoltà. Tenere duro, non di-sperare in una positiva evoluzione rispetto al perdurare della inscalfibilità del complesso richiede, né più né meno, un atto di
fede e di speranza. “Le nostre attitudini ad attendere
e ad aspettare, a sperare contro ogni speranza, sono
forse decisive nel salvare ogni umano destino” (E.
Borgna, op. cit., pag. 16). La speranza dell’analista
può venire recepita e condivisa solo se non smette di
riaffiorare anche nelle fasi più drammatiche. La fedesperanza è sorretta nell’analista tanto dalla avvertita
validità dell’episteme che ha fatto sua, quanto dall’affidabilità del proprio procedere euristico che, per altro, continuamente cerca di affinare. Va da sé che arrivare a sentire propria una episteme, in particolare
quella junghiana, richiede tempi lunghi.
La fede dell’analista non può non essere esposta
al dubbio, guai se lo fosse o lo diventasse. Il relativismo del sapere psicologico, come Jung ha chiarito,
espone costantemente l’analista all’assenza di certezze. Solo la speranza può offrire il viatico che alimenta la fede nella validità del processo, il sentimento
che i nodi che soffocano l’analizzando (e l’analista)
possano allentarsi e consentire il ritorno del soffio vitale. Appare evidente che fede e speranza sono intimamente connesse. Possiamo dire che la speranza è
l’aspetto proiettivo della fede: il sostegno a non ar-
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rendersi al fatalismo, il lievito di ogni processo operativo di trasformazione. È la ésperance da intendere,
secondo Borgna, come tempo d’attesa creativa e trasformativa, diversa dalle speranze usuali, dalle “speranze intramondane” che alleviano le fatiche di ogni
giorno (E. Borgna, op. cit.).
Edgar Morin, nelle ultime righe della autobiografia della sua lunga vita, constata di aver resistito prima al nazismo, poi allo stalinismo e, in genere, di
aver voluto resistere a quel che d’impietoso c’è nella
politica e nei rapporti fra gli esseri umani. “All’origine di tutti questi atti di resistenza, oggi scorgo una resistenza più profonda, primordiale: la resistenza alla
crudeltà del mondo. La prosecuzione del disperato
sforzo cosmico, che negli uomini assume la forma di
una resistenza alla crudeltà del mondo: ecco, forse è
proprio questo che potrei chiamare speranza” (E.
Morin, I miei demoni, pag. 255, Meltemi, Roma 1999).
Václav Havel estremizza la speranza portandola a
poggiare sulla certezza di senso: “ La speranza non è
l’ottimismo, non è la convinzione che qualcosa andrà
bene, ma la certezza che qualcosa abbia senso, indipendentemente da quale sarà l’esito” (V. Havel, citato in: Caryle Hirshberg, Unerwartete Genesung, Droemer Knaur, 1995). (Mia traduzione.)
Il senso del Sé nell’accezione formulata da Jung,
ma anche altri suoi concetti come quello di mysterium
coniunctionis, di funzione trascendente hanno fatto dire
ai critici, fra le altre cose, che la psicologia di Jung ha
il sapore di verità fideistiche, rivelate. È l’appunto di
“religiosità”, di misticismo, istanze ritenute improprie per una disciplina laica come dovrebbe essere la
psicologia, che sin dagli inizi ha accompagnato la psicologia analitica. A parte la non rispondenza al vero
di queste critiche, va tuttavia riconosciuto che l’analista junghiano, agli esordi, deve fare appello a una
dose di speranza nel buon esito del suo apprendistato in misura maggiore rispetto ai neofiti di altre scuo-
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le di pensiero. Queste ultime, meno orientate verso
la complessità simbolica dell’inconscio, più frequentate da nessi causali più specifici, indicano un modus
operandi più circoscritto, offrono un apprendimento
clinico di più riscontrabile e rapida assimilazione. È
un aspetto che ha un peso determinante in chi prende distanza dalla scuola junghiana, dopo l’iniziale
adesione.
Abbiamo conosciuto, noi stessi neofiti, l’impazienza di sentirci efficaci e l’oggettiva urgenza di esserlo,
urgenza tanto più avvertita da chi esercita in strutture pubbliche, come pure da chi deve trasmettere ai
collaboratori metodiche di agevole applicazione.
Tuttavia, non cedere all’invasività dei tempi abbreviati, banco di prova di ogni percorso analitico autenticamente incisivo, è il passaggio obbligato che distingue l’analisi che abbia come interlocutore ideale il Sé
junghianamente inteso.
Il Sé di Jung, sappiamo, è diverso dal Sé di Kohut,
di Winnicott o di altri esploratori della psiche e, comparato a quelli, ha molta meno evidenza nelle citazioni della letteratura analitica. Tutti i ricercatori del
Sé, in realtà, hanno lavorato su una entità che Jung
per primo ha concettualizzato. L’oscuramento subito
da Jung è stato tale sin dall’inizio: Elizabeth Urban ha
riportato la testimonianza di Fordham, di quando
era studente di medicina a Cambridge alla fine degli
anni Venti: allora il termine Sé non veniva impiegato
perché ritenuto non abbastanza scientifico (E. Urban, “The ‘self’ in analytical psychology: the function
of the ‘central archetype’ within Fordham’s model”,
The Journal of Analitycal Psichology, Vol. 53, n. 3, June
2008). Secondo Fordham la formulazione del Sé data da Jung, all’inizio degli anni Venti, è stata la prima
a proporre un metodo in grado di consentire una osservazione e una esperienza sistematiche del Sé. Solo
alla metà del ventesimo secolo psicoanalisti come Federn, Winnicott, Hartmann, Kohut, Scott, Klein e
Bion hanno iniziato a occuparsi del Sé, descrivendo-
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ne spesso la psicologia, sia che abbiano citato o meno
il termine. Non molto dopo — è sempre il pensiero di
Fordham riportato dalla Urban — anche gli scienziati
si sono occupati del Sé, quando lo sviluppo della
brain science portò la neurologia verso la ricerca filosofica del tema mente-cervello. Popper, un filosofo, e
Eccles, un neurologo, nel 1977 scrissero un libro dal
titolo Il Sé e il suo cervello. Anticipava Il sé sinaptico, di
Damasio) Si può dire che nel corso del ventesimo secolo c’è stata una convergenza sulla necessità di trovare un termine che ad un tempo esprimesse l’unità
dell’uomo e nello stesso tempo si riferisse alla soggettività del singolo individuo.
Operazione complessa, quella compiuta da Jung,
presto criticata nello stesso ambito junghiano. L’approccio onnicomprensivo dell’esposizione junghiana, con le sue impervietà concettuali ed espositive,
ha subito creato problemi a molti, soprattutto ai tipi
in cui la funzione pensiero era particolarmente esigente. Per esempio li ha creati, correttamente, a
Fordham. È sua opinione che Jung incorra in una
contraddizione quando usa il Sé tanto per la totalità
della personalità come per indicare un archetipo. A
rigor di logica, come può il Sé essere contemporaneamente la totalità e il centro, ossia una parte della
totalità? Secondo Fordham l’imprecisione è dovuta ai
due modi di pensare di Jung — diretto e indiretto —
che lo inducono a ritenere che mito e teoria siano
analoghi. Basandosi sul pensiero diretto, Jung giunge
alla definizione del Sé come equivalente alla totalità
del soggetto, con riferimento tanto all’Io come all’inconscio. Seguendo il pensiero indiretto, Jung descrive il Sé come un archetipo o, più precisamente,
come espressioni archetipiche dell’immaginario simbolico e delle metafore riferite alla totalità dell’individuo. La critica di Fordham è che Jung ha intrecciato mito e modello. Riconosce che poter formulare
teorie sul mito offre un vantaggio incontestabile ne-
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Dum anima est, spes est
gli studi scientifici, tuttavia rileva che i due modi
principali con cui Jung si riferisce al Sé non sono
compatibili fra loro, visto che i fenomeni archetipici
che si riferiscono al Sé come totalità sono, all’interno
di un sistema teoretico, solo una parte dell’intero Sé.
Da qui la domanda di prima: come può il Sé essere
contemporaneamente totalità e centro, ossia parte
della totalità?
La soluzione proposta da Fordham è quella di riferire il Sé da un lato a un concetto di interezza psicosomatica della personalità, dall’altro di trovare una
diversa definizione per indicare il prodursi dell’immaginario e delle esperienze soggettive della totalità,
aspetto che Jung ascrive al Sé quando usa il termine
per riferirsi a un archetipo. Per non chiamarlo confusivamente “archetipo del Sé”, Fordham suggerisce “archetipo centrale”. Termine ripreso da John Perry, che
lo impiegò per definire particolari processi integrativi
che non necessariamente facevano parte dell’individuazione, come quei processi compensatori degli stati dell’Io evidenti nella schizofrenia (vedi E. Urban,
“The ‘self’ in analytical psychology…”, op. cit.).
Ho indugiato su questa antinomia che, come altre
contestate al pensiero junghiano, ha reso difficile la
permanenza nel suo ambito a molte persone, per evidenziare come spingersi molto in là nel metafisico
esponga per lo meno al rischio di aporie. Una delle
ipotesi che Jung aveva considerato per dare un nome
alle sue formulazioni era chiamarle “psicologia complessa”: evidentemente si rendeva conto delle difficoltà che il suo pensiero faceva sorgere. Ne aveva ben
ragione: se per Freud il rimosso era l’istinto, per lui
era il trascendente. Il suo modo di pensare, diretto e
indiretto, la sua ambizione di considerare il dicibile e
l’indicibile è ancor oggi l’aspetto che tanto allontana
come attira chi si accosta alla sua psicologia, ignorando quindi l’ammonimento di Wittgenstein per
cui “su ciò di cui non si deve parlare, si deve tacere”.
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Chi continua ad esserne attratto, chi pensa come
Jung che “se di una cosa non si sa che cos’è, sapere
che cosa non è implica già una maggior conoscenza”
(C. G. Jung, Aion, ricerche sul simbolismo del Sé, pag.
254, Opere, Vol. 9/2, Boringhieri, Torino 1982) a mio
avviso fa parte di quella categoria di persone che avverte la dimensione del trascendente, la potenza del
mito, la sfida del non dicibile come imprescindibili
dalla complessità e profondità della psiche; persone
che non rinunciano a pensare che si possa scorgere
l’assoluto nel quotidiano. In questo senso sono convinto che Jung manterrà una sua attualità, che anche
in futuro non verrà considerato un pensatore superato. Ovviamente possiamo dire delle società analitiche quello che Ernest Renan dice della natura delle
nazioni: una nazione è il plebiscito quotidiano dei
suoi membri (citato in Zygmunt Bauman, Vite di Corsa - Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, pag. 23, il
Mulino, Bologna 2009) Ma quale che possa essere la
futura configurazione delle società junghiane, ritengo, junghianamente, che la spinta al trascendente sia
una istanza intrapsichica, una non peribile dimensione universale presente in tutta la storia dell’umanità,
la si voglia chiamare archetipo o con un altro nome.
Secondo Tertulliano l’anima è naturaliter cristiana;
secondo Jung è naturaliter religiosa. Tuttavia l’essenza
religiosa dell’anima di Jung è diversa da quella di
Tertulliano. La sua accezione di religiosità va dalle
più alte forme dello spirito a quelle osservate dagli
antropologi nelle culture primitive, nelle quali magico e psichico sono un tutt’uno. Il demoniaco di Jung
è poco riconducibile all’esegesi cristiana; lo testimoniano il grande fallo o la chiesa subissata da cateratte
di sterco che hanno dato il via alla sua sofferta ricerca di verità psichica. Restando nello psichico vediamo che l’anima di Jung, oltre essere la mediatrice fra
gli oggetti interni e la realtà oggettiva, è anche portatrice di istanze remote, addirittura arcaiche, del tut-
33
Dum anima est, spes est
to estranee al pensiero moderno. La nozione di participation mystique, di Lévy Bruhl, è stata ripresa e sviluppata da Jung per chiarire come nell’anima sopravvivano aspetti culturalmente remotissimi, totalmente prelogici. Per quanto possa risultare scomodo,
avverte Jung, bisogna accettare di convivere con l’irrazionale.
Convivere, renderlo produttivo, non bonificarlo,
come avrebbe voluto Freud. Condizione, questa, che
per certi individui è difficile metabolizzare. Dopo l’iniziale emozione e attrazione suscitate dall’incontro
con Jung, molti analisti, mossi dall’esigenza di una
ermeneutica più declinabile verso la dimensione
della concretezza, verso una più esplicita relazione
con la cosa stessa (pragma), hanno col tempo affievolito (non sempre avvertitamente) la nozione del trascendente, del concetto di creatività dell’anima, del
riferimento al simbolismo numinoso degli archetipi… tutti aspetti da cui erano stati conquistati all’inizio del loro percorso.
In armonia con la nozione dell’eterno ritorno nelle umane vicende, qualcosa del genere sembra essere
accaduto anche ai seguaci del pensiero filosofico di
Platone. Ne ho trovato una efficace raffigurazione
nell’apologo dell’aerostato di Carlo Michelstaedter, filosofo e scrittore goriziano, tragicamente scomparso a
ventitre anni. (1910) Ritiene che l’avvento della retorica — che considera l’essenza del pensiero occidentale — risalga a un “parricidio”, quello compiuto da Aristotele nei confronti di Platone. Nella fantasia di Michelstaedter, Platone inventa una macchina volante,
un mekànema che consente di abbandonare il peso del
mondo e innalzarsi verso l’Assoluto. Maestro e discepoli volano negli alti spazi del cielo ma non raggiungono l’Assoluto: fra la contemplazione delle cose che
a esso preludono, l’astrazione dell’essere e del tempo,
e il richiamo della terra, la nostalgia della concreta
operosità delle cose del mondo, restano a metà stra-
I modi del pensare
34
I modi del pensare
Bruno Meroni
da. Fra loro c’è un discepolo, Aristotele, più pratico e
scaltro degli altri, che risolve il problema riportandoli nel mondo della concretezza: tradisce il maestro facendo scendere il mekànema e restituendo a tutti la
gioia di avere la terra sicura sotto i piedi. Da allora in
poi la tensione all’intelligibile metafisico del mondo
platonico, propria di chi ha compreso la tragicità della finitezza, è stata elusa e soppiantata dalla rettorica,
ossia dall’arte della parola (C. Michelstaedter, La persuasione e la retorica, Adelphi, Milano 1995). (Relativamente al nostro tema, possiamo ricordare la massima
di Aristotele: la speranza è un sogno a occhi aperti).
Ovviamente le prospettive di Platone e di Aristotele, per quanto diverse, sono altrettanto valide. Come l’universo è acentrico, così anche la psiche: ogni
punto potrebbe essere il centro del mondo. Lo testimoniano le diverse forme di verità che hanno arricchito l’evoluzione della coscienza con prospettive
continuamente rinnovate. Remo Bodei ci riporta a
una vis veri come prodotta dall’esistenza di un istinto
di verità, che spinge gli uomini alla sua ricerca (R.
Bodei, La vita delle cose, anticorpi Laterza, Roma-Bari
2009). È la stessa spinta alla verità che, quando si produce in analisi, la rende una esperienza significativa
per il resto della vita.
Isaiah Berlin, commentando l’unico frammento
rimasto di una poesia di Archiloco — “la volpe sa molte verità, il riccio ne sa una grande” — divide pensatori e scrittori in due categorie, volpi e ricci. Aristotele
è volpe, Platone riccio (I. Berlin, Il riccio e la volpe,
Adelphi, Milano 1986) È chiaro che una categoria
non può vantare una superiorità rispetto all’altra. Ricordiamo che nell’affresco di Raffaello, La scuola di
Atene, mentre Platone è raffigurato con la mano destra che indica il cielo e la sinistra che tiene il Timeo,
Aristotele con una mano fa un gesto verso la terra e
con l’altra regge l’Etica nicomachea (Stanza della segnatura, Palazzi vaticani, Roma).
Sentirsi, come dice Michelstaedter, con la terra
35
Dum anima est, spes est
sotto i piedi, avvertire la stanchezza dell’infinito e
portarlo al finito: mi sembra che qualcosa di simile
sia accaduto anche a non pochi analisti nelle fila dei
post-junghiani. Il richiamo di una logicità più semantica, improntata da una causalità più esplicita e
oggettivabile ha fatto sì che, nelle società junghiane
di ogni parte del mondo, molti prendessero distanza
dalla elusività concettuale dell’anima, del Sé, del corpus junghiano in genere. Già nel 1985 Andrew Samuels aveva individuato tre versanti in cui era defluita l’eredità di Jung: classica, clinico evolutiva, archetipica (A. Samuels, Jung and the post-junghians, Routledge & Kegan Paul, London 1985). Attualmente, i
versanti classico e archetipico sembrano, almeno in
Italia, non fare molto per portare avanti il percorso
iniziato da Jung, mentre la ricerca su quello clinico
evolutivo si è sempre più avvalsa di apporti di altre
scuole. Il limite dell’eclettismo, però, è che non stimola la spinta alla ricerca, come, per altro, non la stimola officiare ripetitivamente una eredità acquisita.
La recente pubblicazione del Liber Novus di Jung
(Il libro rosso di Jung, Bollati Boringhieri, Torino
2010), con l’abbagliante testimonianza della sua
esplorazione dell’inconscio, ci induce a fare il punto
della misura di quanto in noi possa ancora palpitare
il messaggio originario della nostra scuola, di quanta
distanza ci separi dalla nozione di potenza generatrice
dell’archetipo o quanto poca ci mantenga vicini.
“Più niente di Dioniso?” fu il grido che, nell’antica Grecia, irruppe fra i partecipanti di una cerimonia che avrebbe dovuto invocare il dio ma nella quale, diversamente dalle origini, venivano evocati solo
altri dei o eroi entrati nel mito. Il grido denunciava
quanto l’adesione dei fedeli, e la potenza della liturgia, si fossero allontanate dall’antico trasporto che
rendeva vivi lo spirito di Dioniso e la sua passione (S.
D’Amico, Storia del teatro drammatico, Garzanti, Milano 1950).
Non ho idea di sino a qual punto un grido analo-
I modi del pensare
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I modi del pensare
Bruno Meroni
go (“Più niente di Jung”?) potrebbe risuonare in tante stanze junghiane e della misura in cui all’interesse
per il mito, ossia per una verità perseguibile attraverso vissuti emozionali, sia subentrata l’esigenza del logos, ossia dalla incontrovertibilità della ragione.
Ovviamente cercare di riproporre l’esperienza
dell’inconscio compiuta da Jung — un mondo nel
mondo — è impensabile: ciò che, con parole sue, chiamiamo “realtà dell’anima” presume un disporsi all’interiorità assolutamente soggettivo. Jung ha esplorato un territorio molto vasto, e un analista ci si potrebbe smarrire se volesse annetterselo alla sua stregua. L’anima di Jung, ispiratrice e guida della sua
grandiosa costruzione, era unicamente sua.
La grandiosa costruzione, tuttavia, è ospitale, e offre diverse possibilità di alloggio. Chi ha continuato a
sentir vivo dentro sé il richiamo junghiano, chi non
ha potuto fare a meno di dedicare — a volte con adesione altre con distanza — la sua ricerca a cosa per lui
è irrinunciabile di tanta eredità, può attingere nel
suo lavoro a una scelta di strumenti che non l’hanno
mai abbandonato. La fede continuamente confermata nella validità della traccia junghiana, il sostegno
che elargisce alla speranza nella funzione trascendente, al suo attivarsi in benefiche svolte evolutive, gli
consentono di portare avanti negli anni il confronto
quotidiano con il lavoro analitico.
L’appunto che viene spesso rivolto alla psicologia
analitica è l’evasività procedurale, la scarsa definibilità in termini di ricaduta clinica, l’assenza di un’empiria riscontrabile attraverso passaggi facilmente oggettivabili. Se vogliamo, il tema di cui ci occupiamo, la
speranza, non rimanda a categorie di oggettivo affidamento. In realtà, quando si opera nel territorio dello psichico, anche la non prescrittività ha dei vantaggi: circostanziare un processo analitico orientandolo
secondo uno schema predittivo può risultare rassicurante ma non cogliere “il progetto uomo”, per dirla in
37
Dum anima est, spes est
termini fenomenologici. L’approccio junghiano sembra irrinunciabile nel riconoscere, per esempio, un
problema religioso e nel poterci dialogare.
Come ha notato Giovanni Moretti, nelle psicologie del profondo di derivazione naturalistica, “(…) ci
si accorge che oltre a colpa e angoscia depressiva (…) in
tutte compaiono termini come distruttività, ostilità,
ecc. Ma, pur tra sorprendenti rilievi umani e clinici,
non ne emerge uno che appartenga alla categoria
della speranza. Quasi tutti parlano — questo sì — con
sfumature talora diverse di amore e di attesa di amore
ma sempre per definirne l’inevitabile fallimento, l’insaziabilità cannibalica, il suo suicidale accompagnarsi a una preponderante ostilità che alla fine si volge
contro se stessi. In tutti gli autori si scopre, insomma,
un confuso coesistere di bisogno d’amore e di morte” (G. Moretti, op. cit., pag. 74).
A proposito della genericità rimproverata a Jung,
Hillman rileva: “ Tra i grandi psicologi soltanto Jung
si rifiutò di classificare la gente in gruppi secondo le
loro sofferenze. È stato accusato di incapacità a formulare una teoria sistematica della nevrosi, dell’eziologia, del trattamento. Si tratta veramente di incapacità? Forse è la sua virtù quella di aver, solo, riconosciuto l’enorme inadeguatezza di mere soluzioni
esteriori” (J. Hillman, Il suicidio e l’anima, pag. 33,
Astrolabio-Ubaldini Ed., Roma 1972).
Detto questo, possiamo tornare alla verità che anche la trasmissione agli adepti del come rendere operativa la psicologia junghiana, senza scadere nell’improvvisazione fideistica, risulta molto più complessa
di quella delle altre scuole. Jung parla di principi primi che non possono che essere — come Hillman dice
a proposito dell’anima — deliberatamente ambigui.
Quando si pone l’accento, nella navigazione analitica, più sulla bussola che sulle mappe, tutto risulta meno circostanziabile, meno incisivo. Non c’è niente di
più ostinato dei fatti, dice il gatto Ippopotamo di Mi-
I modi del pensare
38
I modi del pensare
Bruno Meroni
chail Bulgakov, e il pensiero di Jung è decisamente
meno fattuale di quello di Freud (M. Bulgakov, Il
Maestro e Margherita, Adelphi, Milano 2007). È ovvio
che il suggerimento di coltivare e accrescere anche il
proprio corredo umanistico frequentando l’universalità della grande prosa e poesia — suggerimento valido per chiunque voglia diventare analista — lo è in
particolare per l’allievo analista junghiano, che nell’atemporalità dei grandi classici può trovare riscontro alla validità delle ipotesi teoriche che apprende.
Ogni analista deve confrontarsi, caso per caso, con
un costante lavoro di ricerca. Un impegno continuo
di affinamento e verifica che va, di pari passo, con il
lavoro su sé stessi; fatto che, a un certo punto, lo porta a sentire l’episteme, esperita e maturata attraverso
il suo personale percorso, alla stregua di una verità
prodotta da lui stesso: Musatti diceva che ogni analista si considera un caposcuola. Potrebbe essere una
testimonianza di come fede e speranza permeino la
pratica analitica.
Per quelli che — come asseriva Mircea Eliade — ritengono che il mito può essere degradato ma non distrutto, quelli che non hanno smesso di sentire il proprio Heimat in territorio junghiano, gli strumenti con
cui e su cui lavorare hanno continuato a mostrarsi
proficui, anche confrontandoli alla luce del contesto
del tempo e della propria sensibilità. Se consideriamo
i temi attuali della ricerca nelle diverse scuole di pensiero analitico, è evidente che il Leitmotiv centrale è risvegliare la creatività psichica dell’analizzando, ossia
risvegliarne la creatività dell’anima. È ciò che Jung ha
per primo indicato, è il “fare anima” amplificato da
Hillman: secondo le sue parole, “l’esperienza è il solo
e unico nutrimento dell’anima” ( J. Hillman, Il suicidio e l’anima, pag. 17, Astrolabio-Ubaldini, op. cit.).
La speranza è un sentimento di indubbio appannaggio dell’anima. Lo dice con parole suggestive
Emily Dickinson: La ‘Speranza’ è quella cosa piumata /
Che si viene a posare sull’anima / Canta melodie senza pa-
39
Dum anima est, spes est
role / E non smette mai. (…) “Hope” is the thing with feathers/ That perches in the soul, And sings the tune without the
words/And never stops — at all (E. Dickinson, Silenzi, n.
254, pag. 32, Feltrinelli, Milano 1996).
Le tematiche riconducibili alla speranza sono fra
le più rintracciabili nelle lisi di sogni che rivelano l’attivarsi positivo di energia psichica. Non è sempre immediato rendersene conto, ma si può dire che molto
spesso una rappresentazione onirica con la vicenda
che termina in modo positivo, evochi il sentimento
della speranza. È ravvisabile anche nel sogno che segue, fatto da un uomo sui quarantacinque anni, in
un momento di cruciale difficoltà della sua esistenza:
la separazione chiesta dalla moglie si aggiungeva al
forte rischio di perdita del posto di lavoro.
“Sono in presenza di una veggente dotata di poteri molto forti. È strana: un occhio è di colore scuro,
l’altro è chiaro. Devo (ho dovuto?) porle la domanda: ‘Chi vincerà il campionato?’ Sento che la risposta
ha una importanza decisiva per me. Sono molto
preoccupato, perché dal suo volto non traspare la minima reazione, capisco che non partecipa al mio problema, le sono indifferente. Resta impassibile ma, a
un certo punto, si anima, gli occhi sono diventati tutti due azzurri, mi guarda, si accorge di me. Il volto le
si rischiara, mi sorride”.
Oltre constatare l’importanza esistenziale che può
rivestire una squadra di calcio, al punto che la speranza di conseguire la vittoria finale può costellare la
fiducia nelle proprie capacità di riuscita, viene in
mente lo sguardo di Atena, la glaucopide, la dea che
ispirava il corretto pensare per uscire dalle situazioni
difficili. All’opposto, gli occhi di colore diverso della
veggente nella prima parte del sogno, rimandano al
tema delle anomalie fisiche e morfologiche in persone o animali che, nelle fiabe, rivelano una presenza
malefica (M.-L. von Franz, L’ombra e il male nella fiaba,
Bollati Boringhieri, Torino 1995).
I modi del pensare
40
I modi del pensare
Bruno Meroni
Elpìs, nella Grecia antica, era la dea della speranza. Il mito narra che, un giorno, Pandora (Che ha tutti i doni) aveva commesso, per curiosità, l’imprudenza di sollevare il coperchio di un orcio che avrebbe
dovuto custodire ben chiuso. Ne uscirono tutti i mali
possibili, che subito si sparsero sulla terra. Solo la speranza rimase sul fondo del recipiente. Una tarda variante del mito riferisce che nell’orcio erano racchiusi i doni divini; una volta liberati tornarono in
Olimpo e non scesero mai più sulla terra, tranne la
speranza che rimase sul fondo. Nella prima versione
è ravvisabile il tratto fortemente negativo che connotava la speranza nella Grecia antica. Entità illusoria e
ingannevole, era collocata in compagnia dei mali; infatti distoglieva lo sguardo dalla visione pessimistica
della vita che, per i Greci, era ritenuta la sola valida.
Nelle religioni monoteiste la speranza assume
connotati prevalentemente positivi, tuttavia il lato ingannevole è puntualmente rilevato in moltissime
massime e proverbi. Per esempio, La speranza è buona
come prima colazione, ma è una pessima cena.”(Francesco
Bacone). O il proverbio italiano: Nel paese della speranza non s’ingrassa. O quello tedesco: Chi si mette in
viaggio con la speranza, ha come cocchiere la povertà(…)
Il sostantivo tedesco Hoffnung (speranza) deriva dal
tedesco medievale hopfen, saltare, salterellare per l’inquietudine dell’attesa. Il verbo inglese to hope, (sperare) viene dalla stessa radice; to hop, riferito a una
persona, indica saltare su un piede.
L’aspetto ingannevole della speranza è anche il tema di un grande romanzo di Charles Dickens, Great
Expectetions).
Nell’antica Roma Elpìs assunse una accezione positiva, divenne Spes, Speranza. Le furono dedicati molti
templi, nei quali era raffigurata come una giovanetta
graziosa che con una mano teneva un lembo della veste, con l’altra un fiore appena sbocciato. La massima
Dum anima est spes est implica che l’anima è il principio che alimenta la speranza. Se l’anima diventa mu-
41
Dum anima est, spes est
ta ammutolisce anche la speranza, situazione, questa,
peculiare della depressione. Eugenio Montale esprime così il silenzio dell’anima e l’annientamento depressivo: “Il viaggio finisce qui / nelle cure meschine che dividono / l’anima che non sa più dare un grido.” (“Ossi di
seppia-Casa sul mare”, in: E. Montale, Tutte le Poesie, I
Meridiani Mondadori, Milano 1984).
I modi del pensare
43
I modi del pensare
Vicissitudini della speranza: un “caso” letterario
Speranza
e Nostalgia
“Noi pensiamo che, quando siamo spinti fuori dal solito sentiero, tutto sia finito
per noi; invece è soltanto lì che incomincia
Elisabetta Baldisserotto
il nuovo, il bene. Finché c’è vita c’è anche
felicità”. A parlare è Pierre, uno dei personaggi principali di Guerra e Pace.1 Pierre Bezuchov non nasce speranzoso, lo diventa. Il
suo è un lungo apprendistato che lo matura e lo trasforma: inizialmente goffo e sensibile, poi
1. L. Tolstoj (1869), Guerra e Pace, tr. it. di Enridisilluso, poi disperato, attraverso una serie di tentachetta Carafa d’Andria,
tivi ed errori approda ad una visione fiduciosa della
vol.II, Einaudi, Torino
vita. In particolare, il lungo periodo di prigionia, in
1990, p.1309.
cui ha subito enormi privazioni e sofferenze, si rivela,
sorprendentemente per lui, un’esperienza di rinnovamento. Figlio illegittimo ed erede di un principe
russo, si era lasciato corrompere dai valori mondani
dell’alta società dell’epoca e aveva sposato una donna bella e vanitosa che lo tradiva. Separatosi da lei
aveva cercato risposte ai dilemmi esistenziali nelle
confraternite massoniche, senza riuscire a trovarle.
Veniva quindi fatto prigioniero di guerra con l’ingiusta accusa di essere uno degli incendiari di Mosca.
Condannato a morte, viene graziato dopo aver assistito alla fucilazione dei suoi compagni. Il trauma
subìto produce in lui una completa eclissi della speranza, così descritta da Tolstoj:
“Dal momento in cui Pierre aveva assistito a quell’orribile
massacro, commesso da gente che non voleva compierlo, pareva che nella sua anima fosse stata strappata via a un tratto
la molla che sorreggeva e animava tutto, e che ogni cosa crollasse in un mucchio di assurdo sudiciume. In lui, benché non
se ne rendesse conto, era venuta meno la fede nell’ordine
universale, nell’umanità, nella sua anima e in Dio. (...) sentiva che non la sua colpa era la cagione che il mondo ai suoi
occhi precipitasse e rimanessero soltanto delle rovine prive di
senso. Sentiva che non era in suo potere tornare ad aver fede
nella vita”.2
2. Ibidem, pp.1131-2.
44
I modi del pensare
Elisabetta Baldisserotto
3. Ibidem, p. 1138.
Pierre capisce che ha bisogno di un intervento
esterno per poter recuperare la speranza e questo gli
si presenta sotto le sembianze di un ometto, dal forte
odore di sudore, dai gesti rotondi, simpatico, che empatizza con lui chiedendogli: “Avete visto molte miserie, signore? Eh?”. Quella voce melodiosa, piena di
affetto e di semplicità, che lo soprannomina “falchetto”, produce il disgelo, strappa Pierre dal pozzo di
disumanità e insensatezza in cui è caduto e dalla ripetizione incessante delle immagini traumatiche.
L’ometto è Platòn Karatàjev, un contadino arruolato
a forza come soldato, dall’eloquio intessuto di proverbi russi e saggezza popolare, profondamente umano, caldo e al tempo stesso concreto. Caratteristica di
Platòn è quella di tenere le braccia “come se si preparasse sempre ad abbracciar qualche cosa” e anche
nei suoi discorsi è implicita l’idea di rotondità o di totalità, perché: “Spesso diceva una cosa perfettamente
opposta a quella che aveva detta prima, ma l’una e
l’altra erano giuste”.3 Egli ritiene, inoltre, che la sua
vita non abbia senso, in quanto vita isolata, ma lo possieda solo come particella di un tutto. La sua è una
religiosità poetica, che si esprime in deliziose preghiere come: “Signore, fammi dormire come un sasso e fammi svegliare come una pagnottella”. Platòn è
in grado di cogliere nei fatti più semplici della vita un
carattere di solenne bellezza ed egli stesso è un tipo
comune, che viene preso bonariamente in giro dai
suoi compagni e spedito a far commissioni, ma per
Pierre “rimase sempre, come gli era apparso la prima
notte, l’incomprensibile, rotonda ed esterna personificazione dello spirito di semplicità e verità”.4 A partire da quest’incontro inizia per Pierre una diversa
valutazione delle cose: comincia ad apprezzare in primo luogo la propria robusta costituzione e la buona
salute di cui fino a quel momento non aveva avuto coscienza; scopre che alcune sue qualità, che nel bel
mondo lo mettevano in imbarazzo: la distrazione, la
semplicità e l’indifferenza per le comodità, sono in
4. Ibidem.
45
Speranza e Nostalgia
quel luogo e in quelle circostanze altamente utili e
valorizzate; sperimenta la libertà interiore, pur vivendo tra mille restrizioni e disagi; comprende la necessità delle difese della mente di fronte all’orrore e
l’importanza di riuscire a produrre una qualche forma di benessere psicologico anche nelle circostanze
più avverse. In particolare, durante la lunga marcia
insieme alle truppe francesi in ritirata, prende coscienza di “tutta la forza di vitalità dell’uomo” e anche di una “forza salvatrice” della mente umana che,
“simile a una valvola di sicurezza in una caldaia, che
fa uscire l’eccesso del vapore appena la sua pressione
oltrepassa una data misura”,5 consiste nello spostare
l’attenzione dalla realtà attuale e concreta per trovare riparo in pensieri che offrano consolazione:
“Quanto più difficile si faceva la sua posizione, quanto più terribile era il futuro, tanto più gli venivano lieti e rasserenanti pensieri, ricordi e immagini, che erano indipendenti dalla situazione nella quale si trovava”.6 Per resistere al pericolo di precipitare di nuovo
nella disperazione, alla vista della crudeltà e brutalità dell’esercito nemico, Pierre si appella alla “forza
della vita”, che consiste nell’astrarsi dal presente, o
per lo meno nel distanziarsene emotivamente, per
poter continuare a vivere.
Conosciamo tutti molto bene questi rifugi della
mente: troppa realtà è insopportabile, troppo dolore
fa impazzire, emozioni troppo violente sono traumatiche; per tollerare l’esistenza — con le sue tragedie —
abbiamo bisogno di sentimenti — come la nostalgia e
la speranza — che ci distolgano dal presente, riconducendoci a un passato idealizzato o a un futuro prefigurato come migliore. Non solo, abbiamo anche bisogno di intravedere un senso, una dimensione spirituale in quello che ci accade, una sorta di “disegno”
— per alcuni divino, per altri inconscio — che finalizzi
la sofferenza alla nostra trasformazione. Illusioni?
Necessari meccanismi di difesa? O capacità innate
che si acuiscono e si sviluppano in particolari mo-
I modi del pensare
5. Ibidem, p.1240.
6. Ibidem, p. 1241.
46
I modi del pensare
7. Ibidem.
8. Ibidem, p.1243.
Elisabetta Baldisserotto
menti di crisi?
Pierre continua la sua marcia, con i piedi nudi,
scorticati e coperti di piaghe. Non pensa ai suoi compagni di prigionia che, troppo deboli per camminare,
vengono fucilati a decine. Non guarda i cadaveri, ai lati della strada fangosa e sdrucciolevole, in diversi gradi di decomposizione. Non pensa nemmeno a se stesso. Conta i suoi passi, a tre per tre, e gli sembra di non
pensare a nulla: “ma l’anima sua pensava, in una lontana profondità, a qualcosa di grave e di consolante”.7
A cosa pensa l’anima di Pierre? Essa ritorna con
gioia al significato profondo di una storia, raccontatagli la sera prima dal saggio amico Platòn, che parla
di perdono e accettazione del proprio destino. Il misterioso significato di quella storia e l’attitudine infervorata e piena di soddisfazione di Platòn nel narrarla, hanno il potere di rasserenare Pierre, nonostante l’inferno che sta attraversando. L’effetto benefico che la personalità di Karatàjev ha su di lui, infatti, è quello di conferirgli quella calma e quella soddisfazione di sé alle quali invano e lungamente aveva
aspirato in precedenza. La storia narratagli è quella
di un vecchio mercante condannato a torto dell’omicidio di un collega. In carcere viene fortuitamente a
conoscere il vero assassino, che gli chiede perdono
(ottenendolo subito) e confessa tutto alle autorità. Si
mette in moto, con una certa lentezza, la burocrazia.
Finalmente arriva l’ordine dello zar di rilasciare il
vecchietto e dargli una ricompensa. Si mettono a cercarlo. La mascella inferiore di Platòn trema, nel raccontare: “— Ma Dio gli aveva già perdonato: era morto. Così è, falchetto, — conchiuse Karatàjev e guardò
a lungo davanti a sé, sorridendo in silenzio”.8
Paradossi della speranza
Il “caso” letterario di Pierre Bezuchov illustra come la speranza vada e venga, si perda e si recuperi,
come a volte, per trattenerla, si renda necessaria la ri-
47
Speranza e Nostalgia
mozione, come ciò che la fa smarrire e la converte in
disperazione sia l’esperienza della disumanità, come
ciò che ce la restituisce sia il contatto con il calore
umano. Come, inoltre, poter riandare con la mente a
un passato, recente o remoto, che ci sia di sostegno,
a relazioni arricchenti, ovvero a oggetti positivi introiettati, sia una grande risorsa, spendibile in circostanze difficili. Come, infine, proiettare nel futuro —
grazie a un’inedita comprensione delle cose, a un’emozione illuminante — una nuova immagine di se
stessi, allarghi l’orizzonte e lo riempia di promesse.
“Nell’avvenire ci sono molte cose, molte”,9 è la convinzione di Pierre.
Erich Fromm sottolinea che la principale condizione, affinché sia possibile nutrire speranza, è la capacità di affrontare i cambiamenti. Dal momento che
la vita stessa, nella sua qualità dinamica, tende a rompere e superare lo status quo, l’aspettativa di poter stare tranquilli e di non alterare le situazioni conosciute, è illusoria. Ogni momento della nostra vita è decisivo e modifica il corso degli eventi, in meglio o in
peggio. Il tempo presente non è il tempo della stabilità, ma è il tempo della gestazione del nuovo. Sperare, quindi, significa essere pronti ad accogliere ciò
che non è ancora nato. Come la tigre rannicchiata
salta solo quando è il momento, così la speranza, dice Fromm, “non è passiva attesa né irrealistica forzatura di circostanze che non possono avverarsi”,10 ma
si configura come un sentimento paradossale: a differenza, infatti, dell’illusione vera e propria, prevalentemente passiva, che coincide col pensare che le cose si mettano al meglio da sole, senza sforzo da parte
nostra, la speranza implica l’attività, ma un’attività
trattenuta, preparatoria, che intuisce le possibilità e
valuta le conseguenze, un’attesa attiva, una prontezza
al balzo. Un istinto, la definisce Hillman: “l’istinto del
domani”.11 In quanto istinto la speranza è espressione dello spirito di sopravvivenza, sintonia con la natura e il flusso del tempo. È una sorta di “fiuto per il
I modi del pensare
9. Ibidem, p.1309.
10. E. Fromm (1968), La
rivoluzione della speranza,
Etas Kompass, Milano
1969.
11. J. Hillman (1965/97),
Il suicidio e l’anima, Adelphi, Milano 2010.
48
I modi del pensare
12. C. W. Socarides
(1977), “La disillusione:
il desiderio di restare deluso”, in AA.VV., Vuoto e
disillusione, Bollati Boringhieri, Torino 1993,
pp.91-92.
Elisabetta Baldisserotto
cambiamento”, che coglie il dinamismo intrinseco alla vita e allo spirito umano.
Tuttavia nei momenti di crisi il vissuto è di distruzione del nostro mondo conosciuto e l’unico desiderio è quello del ritorno alla normalità, ovvero del ripristino dello stato precedente. Si rende necessario
un lungo processo di lutto per adattarsi alla nuova
condizione, perché, per poter accettare il cambiamento, bisogna rinunciare al passato, alla nostra vita
“com’era”. Ma è proprio nei momenti difficili che il
dolore per ciò che è andato perduto si fa acuto, e la
nostalgia ci sommerge. E allora illusione si aggiunge
a illusione, dato che alla speranza di ottenere una
quota ulteriore della vita già vissuta, si aggiunge la
nostalgia di un passato che nel ricordo diventa assente da ambivalenza, dolore e conflitti. Illusioni temporaneamente necessarie, “sane”, secondo Socarides,
infatti: “L’uomo non può vivere senza illusioni; per
poter sopravvivere deve restare ben attaccato ai suoi
sogni ad occhi aperti, pur sapendo che essi sono sogni ad occhi aperti”.12 Illusioni che impediscono la
caduta nella depressione, però destinate, prima o
poi, ad essere deluse.
Ulteriore paradosso della speranza, quindi, è non
essere separabile da un nucleo di illusione e dover
passare attraverso il processo della delusione per poter rinnovarsi.
Funzione terapeutica della delusione
13. J. Hillman, op. cit., p.
238.
Nel setting analitico si attiva la speranza, insieme a
molte illusioni. Come dice Hillman, l’analista sa che
“la speranza che il paziente manifesta è essa stessa parte integrante della patologia. (...) Pertanto l’analista non
può certo sperare che il paziente ritorni alla condizione da cui erano nati sia i sintomi sia la speranza di
liberarsene”.13 Il ritorno al passato non è né possibile
né auspicabile, poiché la malattia ha avuto origine
proprio da una precedente situazione patogena, di
49
Speranza e Nostalgia
cui è sia conseguenza sia tentativo di superamento.
Non a caso durante i primi colloqui si prendono in
esame le aspettative del paziente circa il trattamento,
per valutarne le realistiche possibilità di soddisfazione. Un primo impatto con la delusione si verifica già
in tale contesto: alcune richieste del paziente, infatti,
tendono a gratificare le parti più regressive di sé, trascurando le risorse adulte; altre sottendono un’idealizzazione del ruolo dell’analista, su cui si vorrebbe
scaricare ogni responsabilità terapeutica. Infrangere
queste illusioni significa, secondo Cremerius,14 restituire al paziente il principio della speranza. Ovvero fargli capire che non ha perso la capacità di aiutarsi, anche se così può sembrare e insieme offrirgli la possibilità di avere fiducia in se stesso e di trovare la propria strada. Solo in questo modo è possibile che si accenda la speranza, nel momento il cui il paziente,
pur deluso, si sente riconsegnare le proprie competenze e le proprie responsabilità.
Analogamente, nella fase finale della terapia, il paziente attraversa un periodo di delusione, in cui si accorge che ciò che aveva sperato di ottenere dall’analisi non si è verificato, ma è accaduto qualcos’altro:
non è diventato come voleva essere, tuttavia ha scoperto com’è veramente. Anche nella fase intermedia
del trattamento, quella dell’elaborazione della dinamica del transfert/controtransfert, la delusione svolge un ruolo importante, nel favorire i processi di separazione e differenziazione tra paziente e analista.
Dice Jung:
“La delusione, in quanto shock subito dal sentimento, non è
solo fonte di amarezza, ma è anche il più potente incentivo
alla differenziazione affettiva. (... essa può) costituire un impulso (...) verso una modificazione e un adattamento del sentimento, e con ciò verso una più alta evoluzione. Tale evoluzione culmina nella saggezza allorché al sentimento si associano la riflessione e la conoscenza intellettuale. La saggezza
non è mai violenta: là dove essa domina, nessuna delle due facoltà opera violenza sull’altra”.15
I modi del pensare
14. J. Cremerius (1982),
Seminari di Psicoterapia, Il
Ruolo Terapeutico, Milano.
15. C. G. Jung (1955-56),
Mysterium coniunctionis, in
Opere, vol. 14, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p.
237.
50
I modi del pensare
16. H. F. Searls (1962),
“Disprezzo, disillusione e
adorazione nella psicoterapia della schizofrenia”,
in AA.VV., Vuoto e disillusione, Bollati Boringhieri,
Torino 1993.
17. C. W. Socarides, op.
cit., p.105.
Elisabetta Baldisserotto
In quanto analisti, dobbiamo sempre rinunciare
alle nostre aspettative sui pazienti; spesso il nostro entusiasmo viene smorzato, spesso la fatica e l’impegno
sembrano cadere nel vuoto. Secondo Searls,16 la reciproca delusione di paziente e analista svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo di sentimenti di affetto e di accettazione in quanto esseri umani in rapporto tra loro. Peraltro risolvere la delusione porta
alla capacità di nutrire le speranze più appassionate.
Ma la risoluzione della delusione è un processo, simile a quello del lutto, che deve giungere a compimento perché si sviluppi un senso profondo della
continuità tra passato e presente, indispensabile per
potersi prefigurare uno stato di cose futuro desiderabile. Continuità che è data dalla fusione, in una totalità globale, degli aspetti positivi e negativi del terapeuta e/o del paziente, che sono anche aspetti vecchi
e nuovi di entrambi, in quanto percepiti in tempi differenti.
Il rischio è quello della disillusione, ovvero, secondo la definizione di Socarides, quello di permanere nello stato di delusione:
“La disillusione viene utilizzata a scopi difensivi dalle persone
che non possono permettersi di cullare speranze perché sono incapaci di tollerare la frustrazione. Essa permette di difendersi contro il lutto: davanti a una perdita, la persona resta disillusa anziché sperimentare l’affetto della depressione,
molto più acutamente doloroso. La disillusione consente di
mantenere un legame con l’oggetto d’amore perduto; come
la vendicatività, anch’essa permette di restare attaccati all’antico, al passato. In essa è presente un’adesione al ricordo di
qualche aspettativa passata, immediatamente affiancata dalla
sua demolizione”.17
La soluzione della disillusione, o delusione patologica, consiste nella rinuncia agli oggetti e nel loro
reinvestimento, come suggerito da Freud in relazione al lavoro del lutto. Se questo non avviene “la vita
resta un’esperienza imperfetta, e una dopo l’altra tutte le porte che conducono a un futuro creativo si
51
Speranza e Nostalgia
chiudono, si sprangano e, col tempo, scompaiono”.18
I modi del pensare
18. Ibidem, p.115.
Nostalgia: speranza che guarda al passato
Secondo Jack Kleiner 19 l’essenza della nostalgia
consiste nel far ritorno a un passato idealizzato, ovvero alla perfezione di un passato immaginario. La condizione ideale desiderata è caratterizzata dalla semplicità e dalla bellezza, in breve, dalla libertà dal conflitto.
Nello stesso tempo però la funzione positiva della
nostalgia è la spinta attiva a tenersi in contatto con le
proprie radici. Non solo: gran parte del lavoro analitico è dedicato a una rivisitazione del passato biografico, non tanto per indulgere nel rimpianto né per
fuggire nell’avversione, ma perché il paziente possa
trarre sostegno e nutrimento dalla propria storia. Riconoscere valore e dignità al passato significa amare
la propria vita, considerarla un patrimonio, una ricchezza. La vecchiaia, che si sostenta prevalentemente
di ricordi, ha bisogno di un “buon” passato, cioè di
un passato elaborato e metabolizzato, da potersi raccontare per trasmettere alle generazioni successive
un bagaglio di emozioni e di esperienze.
Ma, a volte, “i bei tempi” della nostalgia inducono
la svalutazione e l’incomprensione dell’attualità. La
felicità diventa soltanto retrospettiva, oppure proiettata in un futuro sempre di là da venire.
Per Jankélévitch20 la nostalgia è una reazione all’irreversibile: è la provvisorietà della nostra esistenza
sulla terra che fa sì che i momenti vissuti siano unici,
irripetibili e mai abbastanza; è in quanto irrecuperabile che la dolcezza materna diventa il paradiso perduto ed è in quanto per sempre inaccessibile che la
nostra infanzia ci sembra felice. La nostra fame di vita, la vita che non ci basta mai e a cui non sappiamo
rinunciare, come prolunga il futuro all’infinito, così
nega che il passato sia il tempo in cui non ci siamo
più. Il presente, in quanto scontato, è difficilissimo
19. J. Kleiner (1977),
“Nostalgia”, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, Bollati
Boringhieri, Torino 1993.
20.
V.
Jankélévitch
(1974), “La Nostalgia”, in
A. Prete (1992), a cura di,
Nostalgia. Storia di un sentimento, Cortina, Milano.
52
I modi del pensare
21. Ibidem, pp.158-159.
22. Ibidem, p.175.
23. A. Prete (1998), La Nostalgia, Intervista a Rai Educational (25 novembre
1998): www. emsf.rai.it.
Elisabetta Baldisserotto
da apprezzare: “Si capisce — dice Jankélévitch — perché il presente non abbia ‘incanto’: il presente non
ha bisogno che si ritorni a esso, è già là, a portata di
mano, è l’universo che ci circonda, il mondo della
praxis seria, è l’attualità e la banalità quotidiane”.21
L’incanto si rifugia di preferenza nel regno delle cose che non sono più (o ancora). Il presente non è allusivo dell’Altrove, mentre lo sono il passato e il futuro. “La speranza di un passato a venire e il ritorno
a un futuro già avvenuto sono due forme paradossalmente reciproche di una medesima nostalgia”.22 In
questo senso speranza e nostalgia hanno in comune
il desiderio per l’ulteriorità e l’ansia dovuta all’inafferrabilità del tempo; inoltre si confrontano entrambe con l’inevitabile delusione che le contrasta e le alimenta. Non sono tuttavia sovrapponibili, anzi, relativamente alle dimensioni temporali cui rimandano,
risultano opposte e da un punto di vista emotivo vengono sperimentate come sentimenti di segno contrario: laddove infatti la nostalgia è sentimento malinconico e doloroso, la speranza è imparentata con la
gioia, anche se solo prefigurata.
Prete23 distingue due forme di nostalgia: una chiusa e una aperta. La prima è di tipo regressivo, si oppone alla novità e impedisce di guardare avanti.
Comporta il rischio di coltivare un rapporto immaginario con un luogo e un tempo che non esistono più.
La seconda invece, accettando l’irrimediabilità del
dolore, lo trasforma in linguaggio, in comunicazione: è questa la nostalgia dell’arte e della letteratura,
un desiderio di vago e di indefinito, un senso di mancanza, come lo spleen tardo-romantico. Nel migliore
dei casi la nostalgia aperta è capace di alimentare la
creatività e di convertirsi in progetto. Analogamente
si può parlare di due tipi di speranza, una illusoria,
“maniacale”, l’altra più fattiva, che opera a favore del
cambiamento.
53
Speranza e Nostalgia
I modi del pensare
Nulla di terribile?
In quelle famose tre settimane di marcia Pierre
aveva imparato un’altra verità confortante:
“aveva imparato che al mondo non c’è nulla di terribile. Aveva imparato che, come non c’è nessuna situazione nella quale
l’uomo possa essere pienamente felice e libero, così non c’è
nessuna situazione nella quale debba essere infelice e privo di
libertà. Aveva imparato che c’è un limite alla sofferenza e un
limite alla libertà e che questo limite è molto prossimo...”.24
Ricordandosi della sua vita passata fatta di agi e di
ricchezza, Pierre comprende che allora non era meno infelice di quanto lo sia adesso, sebbene la sua
condizione esteriore sia molto peggiorata. Quando
calzava i suoi scarpini da ballo troppo stretti, soffriva
esattamente come ora che cammina con i piedi nudi
e coperti di piaghe. Quando ha sposato la sua prima
moglie e gli è sembrata una libera scelta, in realtà
non era più libero di adesso, costretto a dormire
chiuso in una stalla e sorvegliato a vista. Emozioni positive e negative ci accompagnano in qualunque situazione e si limitano a vicenda, compensandosi l’una con l’altra, poiché: “(...) una piena, assoluta tristezza è altrettanto impossibile come una piena, assoluta gioia”.25 Pierre, tuttavia, com’è naturale, si rifiuta in un primo momento di accettare la morte di Platòn. È un po’ di tempo che Karatàjev sta male, ma più
lui si indebolisce, più Bezuchov cerca di stargli lontano. Un giorno lo vede, nel suo cappotto striminzito,
appoggiato contro una betulla insieme al cagnolino
che lo segue dappertutto.
“Karatàjev guardava Pierre coi suoi buoni occhi tondi, ora velati di una lacrima, e si vedeva che lo chiamava a sé per dirgli
qualche cosa. Ma Pierre aveva troppa paura per sé. Egli fece
mostra di non accorgersi di quello sguardo e si allontanò in
fretta. Quando i prigionieri si rimisero in marcia, Pierre guardò indietro, Karatàjev era seduto sul margine della strada,
presso la betulla, e due francesi dicevano qualcosa, curvi su di
lui. Pierre non guardava più. Zoppicando, andava per la stra-
24. L. Tolstoj, op.cit.,
p.1240.
25. Ibidem, p. 1259.
54
I modi del pensare
26. Ibidem, p. 1245.
27. C. G. Jung (1929), I
problemi della psicoterapia
moderna in Opere, vol. 16,
Bollati Boringhieri, Torino 1993, p.79.
Elisabetta Baldisserotto
da in salita. Indietro, al punto dov’era seduto Karatàjev, si udì
un colpo di fucile. Pierre udì benissimo quel colpo, ma nel
momento stesso che l’udiva, si ricordò di non aver finito un
certo calcolo cominciato prima del passaggio del maresciallo:
quante marce ancora rimanessero fino a Smolènsk. E si mise
a calcolare (...). Il cane si mise a ululare, indietro, nel punto
dove prima era seduto Karatàjev. — Che stupido! — pensò Pierre, — perché abbaia?”.26
Quando, ore più tardi, rivede il cagnolino da solo,
è a un passo dal capire l’accaduto, ma ancora la sua
mente lo protegge dal dolore distraendolo col ricordo di una serata d’estate trascorsa insieme a una bella polacca.
Solo mesi dopo la liberazione, una volta giunto a
Mosca, Pierre potrà raccontare con voce tremante di
quel “sempliciotto analfabeta” da cui ha imparato
tanto e della sua tragica fine.
Il nuovo dunque, per quanto sia terribile, ci insegna sempre qualcosa. Certo spaventa, richiede un
percorso di adattamento e accettazione della perdita,
ma non è la fine di tutto; anzi, il nuovo è un bene per
la psiche che ha bisogno di rinnovarsi e trasformarsi.
Consciamente o inconsciamente noi cerchiamo sempre il nuovo anche se lo temiamo. Come dice Jung:
“L’uomo può realizzarsi e trovare appagamento soltanto in ciò che ancora non ha; non può saziarsi con
ciò di cui è già sazio”.27
In linea con questo pensiero, l’analisi offre la possibilità al paziente di accedere a un punto di vista
nuovo sulla vita e sulle sue problematiche - e nuovo
vuol dire più profondo - che accresca la sua capacità
di tollerare la sofferenza e gli restituisca, prima di tutto, la speranza in se stesso.
55
Speranza e Nostalgia
I modi del pensare
Bibliografia
Cremerius J., Seminari di psicoterapia, Il Ruolo Terapeutico, Milano 1982.
Fromm E., La rivoluzione della speranza, Etas Kompass, Milano
1969.
Hillman J., Il suicidio e l’anima, Adelphi, Milano 2010.
Jankélévitch V., “La Nostalgia”, in A. Prete, a cura di, Nostalgia.
Storia di un sentimento, Cortina, Milano 1992.
Jung C. G., “Mysterium coniunctionis”, Opere, vol.14, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
Jung C. G., “I problemi della psicoterapia moderna”, Opere, vol.
16, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
Kleiner J., “Nostalgia”, in AA.VV., Solitudine e nostalgia, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
Prete A., La Nostalgia, Intervista a Rai Educational (25 novembre
1998).
Searls H.F., “Disprezzo, disillusione e adorazione nella psicoterapia della schizofrenia”, in AA.VV., Vuoto e disillusione, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
Socarides C.W., “La disillusione: il desiderio di restare deluso”, in
AA.VV., Vuoto e disillusione, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
Tolstoj L., Guerra e Pace, tr. it. di Enrichetta Carafa d’Andria, vol.
II, Einaudi, Torino 1990.
57
I modi del pensare
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce
n’è uno è quello che è già qui, quello che abitiamo
tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Italo Calvino — Le Città Invisibili
INTRODUZIONE
La ripetizione
e le sue
metamorfosi:
la speranza
come strumento
della psicologia
analitica
Il presente lavoro si articola intorno
ai concetti di “ripetizione”, intesa come
replica o ripiegamento nelle forme di un
passato personale doloroso e improduttivo, e di “speranza”, come apertura al nuovo e al
non-ancora-conscio, nel senso di liberazione e generazione di espressioni individuali autentiche e progressive.
Propongo di trattare tali concetti come una coppia di opposti che assume particolare centralità nel
processo analitico, rivelandosi in alcuni casi difficile
da gestire e da mantenere all’interno di un campo
energetico equilibrato.
Come è evidente, la ripetizione è necessaria alla vita. Su di essa riposano i ritmi biologici, i rituali sociali, la consistenza stessa dell’identità. Tuttavia, l’arresto nella riproduzione di modi e schemi già esperiti
può essere indizio di una “vita senza vita”, cioè di
un’esistenza che fatica ad avere “speranza” e a progettare il sé di domani.
L’interesse per questi argomenti deriva, in parte,
da una sensibilità personale che mi ha portato nel
tempo ad interrogarmi sulle mie reazioni di fronte alla ripetizione.
Ricordo a questo riguardo un episodio autobiografico. Dopo la laurea ho lavorato per qualche tem-
Nicolò Doveri
58
I modi del pensare
Nicolò Doveri
po in una società di consulenza: mi occupavo di selezione delle “risorse umane”. Un giorno mi capitò di
ascoltare la stessa espressione da parte di tre persone
che avevo invitato a colloquio, singolarmente: “ho
una visione a 360° dell’organizzazione”. Anche l’atteggiamento con cui ognuno pronunciò queste parole era identico. Di colpo, mi fu chiaro che questo lavoro non avrebbe potuto divenire il mio mestiere: la
ripetizione mi faceva soffrire.
Più tardi, l’analisi personale mi è stata molto utile
per comporre in forma costruttiva quelle che oggi
considero due polarità dell’adattamento o, in termini junghiani, le opposte influenze degli archetipi del
Senex e del Puer.
Successive conversazioni con i colleghi Sergio
Buccheri, Renato Cattaneo e Giorgio Tricarico mi
hanno permesso di arricchire e ordinare le idee che
andavo raccogliendo sull’argomento.
I paragrafi che seguono tentano di comporre in
una prospettiva più organica possibile spunti di riflessione - teorici e clinici - riguardanti la psicoterapia
delle forme di ripetizione di esperienze dolorose e
della perdita della speranza.
1. LA RIPETIZIONE COME DESTINO E COME POSSIBILITÀ
Il lavoro analitico è esposto di frequente all’esperienza della ripetizione e del “ritorno dell’identico”.
Ciò è vero sia per quanto riguarda i contenuti del dialogo che i modi della relazione intersoggettiva.
Molte volte, infatti, siamo partecipi di comportamenti che appaiono stereotipati e che l’analizzando
considera controproducenti e alienanti; ascoltiamo e
riascoltiamo argomentazioni già note, osserviamo gli
stessi atteggiamenti. Alla fine, le medesime lamentele e manifestazioni di sconforto: “è sempre lo stesso”;
“non cambio mai”; “non cambia mai niente”.
Analista e analizzando si trovano a condividere
59
La ripetizione e le sue metamorfosi...
sentimenti di dispiacere, di stallo e rincrescimento,
che mettono alla prova la capacità di entrambi di
muoversi al di là di un orizzonte di immobilità e mortificazione.
Essere testimoni di reiterate delusioni significa
sperimentare stati disagevoli da cui si vorrebbe uscire
e fare uscire rapidamente, con il rischio di creare illusioni e turbare equilibri soggettivi comunque significativi.
Il tema della ripetizione è stato ampiamente studiato in ambito psicoanalitico. Nello scritto Al dì là
del principio del piacere (Freud, 1920), Freud descrive
la coazione a ripetere, fenomeno in cui si osserva la tendenza del soggetto a riprodurre nel presente comportamenti critici che hanno radici nel passato e causano dolore.
Secondo Freud, la coazione a ripetere procede da
esperienze traumatiche ed è determinata da due forze distinte e di opposto significato. Da una parte rappresenterebbe un tentativo di risolvere, attraverso la
riproposizione e il controllo, l’influenza negativa
(perturbante) di esperienze traumatiche inscritte
nella memoria ma non traducibili in pensiero
(Freud, 1914). Dall’altra, sarebbe la risultante di una
spinta pulsionale distruttiva, dotata di corso autonomo, presumibilmente influenzata e potenziata dall’esperienza di vissuti traumatici.
Da un punto di vista junghiano, la coazione a ripetere potrebbe essere concepita come fenomeno
psichico in cui si verifica una scissione degli opposti
(speranza/disperazione; vita/morte; possibilità/necessità; identità/diversità) senza possibilità di ristabilire un rapporto dinamico tra le parti.
Jung ha intercettato il tema della ripetizione all’interno del più ampio capitolo della teoria dei complessi. In termini molto generali, un complesso è un
nucleo di funzionamento autonomo a forte coloritura emotiva che prende il sopravvento in particolari
condizioni costringendo il soggetto ad un comporta-
I modi del pensare
60
I modi del pensare
Nicolò Doveri
mento prefissato e poco accordato con i valori e l’immagine di sé coscienti.
Il complesso agisce come una necessità, riducendo l’autonomia e la libertà dell’Io, generando una
reazione di sconcerto e risentimento nell’individuo
che lo patisce. Jung definisce questo fenomeno “costellazione” del complesso:
“la situazione esterna provoca un processo psichico che consiste in una raccolta e un approntamento di determinati contenuti. L’espressione “si è costellati” significa che si è acquisita
una predisposizione d’attesa a partire dalla quale si reagirà in maniera perfettamente definita. La costellazione è un processo
automatico che subentra involontariamente, ed è cosa che
nessuno può impedire che si verifichi” (Jung, vol.8, p.111).
Anche per Jung, l’origine e la forza dei complessi
va ricercata in particolari eventi traumatici e nella ripetizione di esperienze “micro-traumatiche” a valenza relazionale.
In generale, nei funzionamenti di tipo coattivo riscontriamo dinamiche psicologiche afferenti alle
aree maniaco-depressive, ossessive e dissociative.
Come ci dobbiamo comportare quando la ripetizione condiziona prepotentemente l’orizzonte di vita
del paziente? Come possiamo porci di fronte ad un
meccanismo che può determinare un alienante senso di disperazione e contrasta la possibilità di fare
progetti, sentirsi progettuali? Come possiamo aiutare
le persone ad autorizzarsi nuovamente a sperare?
Pur riconoscendo l’importanza degli aspetti
anamnestici e diagnostici e dei vincoli clinici che condizionano qualsiasi intervento psicoterapeutico, vorrei proporre, in linea con l’orientamento junghiano,
un discorso sugli strumenti della speranza nella relazione analitica che allarghi la visuale e ci spinga oltre
gli orizzonti nosografici e strutturali.
L’esperienza clinica, purtroppo, non mi ha permesso di dare risposte precise alle domande precedenti. Mi ha però consentito di individuare alcuni
concetti e modi di procedere che sono apparsi utili e
61
La ripetizione e le sue metamorfosi...
mi hanno sostenuto durante il trattamento di persone “ferme nella ripetizione”.
Li ripropongo qui in forma di criteri programmatici, in certo modo articolabili all’interno di un processo relazionale che si compie nell’analisi.
a) Tenere duro
Il lavoro analitico richiede di tollerare la ripetizione, accettarla come un dato incontrovertibile che
può caratterizzare fasi prolungate del percorso terapeutico. Come ha insegnato Ela Frigerio:
“ogni volta che l’energia stagna, cioè si blocca e si focalizza su
un complesso, si resta dentro a quel complesso e bisogna stare
lì, non necessariamente c’è un’azione” (Frigerio, 2010).
Per l’analista, stare nell’impasse significa non sottrarsi all’evidenza dei limiti dell’altro, porsi in un rapporto dialettico con le illusioni, i desideri di fuga e
manipolazione, confrontarsi con le ferite narcisistiche prodotte dalla propria “inefficacia”.
In altri termini, sopportare con dignità e fiducia il
timore che dietro al vissuto della ripetizione di frequente si cela: “questo lavoro non serve”.
Molte persone che giungono oggi in psicoterapia
accettano la prospettiva di impegnarsi nella conoscenza di sé in maniera funzionale (strumentale) ad
un cambiamento che dovrebbe avvenire in tempi il
più possibile contenuti.
Il ripresentarsi di “comportamenti problema” viene percepito come indicatore o segnale di inefficacia
ed inefficienza, di prestazione deludente, sia per
quanto concerne sé stessi che il terapeuta.
La pratica dello “stare” — sopportare la fatica della
ripetizione, la stagnazione dell’energia, i sospetti e le
accuse di incapacità (a volte velate, a volte esplicite)
— rappresenta dunque un elemento importante: necessario ma non sufficiente.
I modi del pensare
62
I modi del pensare
Nicolò Doveri
b) Continuare a cercare
All’accettazione della riproposizione di copioni
ben conosciuti è necessario accostare un delicato lavoro di sollecitazione e generazione di nuove possibilità di conoscenza.
Il confronto con contenuti già ampiamente analizzati e sperimentati, la cui espressione da parte del
paziente non produce effetti catartici ma piuttosto
depressivi, porta l’analista a ricercare differenti formulazioni, altre associazioni, angolature non ancora
esplorate.
Sollecita, nel contempo, ad esaminare i modi
transferali e controtransferali, alla ricerca di un senso, di una comprensione dei nodi relazionali profondi che limitano il paziente.
Questa operazione di continua rilettura del materiale portato dal paziente e di riesame della relazione
serve senz’altro anche all’analista per trovare il modo
di andare avanti, uscire dalla paralisi cognitiva ed
emotiva che prova in sé, di riflesso. Per superare la
stereotipia, non abbandonare la speranza che qualcosa di buono e di nuovo possa finalmente accadere.
In questa prospettiva, è molto importante che la
psiche dell’analista sia in ascolto, si accosti al materiale portato dall’analizzando senza pregiudizi e senza predisposizioni d’attesa.
Come ha osservato Luigi Aversa in un intervento
al Congresso CIPA del 2010, la possibilità di cogliere
il nuovo dipende dalla capacità di non essere irretiti
dalle scorie del passato e di accettare la tensione
(creativa) che procede da una “domanda” che non
ha ancora una risposta. Citando William Blake, Aversa ci ricorda che: “se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all’uomo come in
effetti è, infinito” (Blake, 2000).
Continuare a cercare significa anche attendere
che le risorse dell’altro, per quanto labili e nascoste,
trovino la strada per manifestarsi e farsi riconoscere;
63
La ripetizione e le sue metamorfosi...
in altri termini, lasciare spazio ad altre tracce e termini di riferimento rispetto alle conclusioni a cui giungerebbe di norma la coscienza razionale.
In una recente pubblicazione, il collega Giorgio
Tricarico parla dell’importanza dell’apparizione dell’immagine del labirinto nel corso del lavoro analitico (Tricarico, 2009). Egli riconosce in questa costruzione della fantasia umana un simbolo del ciclo “vitamorte-rinascita” e le attribuisce una funzione archetipica essenziale: sostenere la possibilità dell’individuo di essere altro da ciò che è attualmente. Secondo l’autore, inoltre, l’esistenza e la disponibilità dell’archetipo del daidalon nella psiche del paziente sono spesso colte dall’analista attraverso il proprio inconscio, per via empatica ed intuitiva, piuttosto che
mediante uno sforzo razionale.
È anche mia opinione che questa disposizione psichica rappresenti un potenziale fattore terapeutico
capace di incidere positivamente sui processi evolutivi del paziente. Una giovane donna afflitta da un’ossessione amorosa “senza speranza”, in occasione delle festività natalizie, così mi scrisse in un biglietto di
auguri: “grazie dottore perché sento sempre il suo sostegno e la sua fiducia nel fatto che io possa riuscire
a stare bene”.
c) Aiutare a concepirsi, in movimento
Alcune persone che manifestano tenaci attaccamenti a schemi comportamentali insoddisfacenti
presentano alcuni tratti comuni per quanto concerne l’attitudine a “raccontare di sé”.
Ad un primo impatto, infatti, possono apparire individui privi di storia, o meglio, portatori di vicende
autobiografiche talmente definite e nette da poter essere riassunte esaustivamente in poche battute.
Questa percezione iniziale nella maggior parte dei
casi non è corretta A mio parere, essa è influenzata
dal fatto che i contenuti biografici sono esperiti dal
I modi del pensare
64
I modi del pensare
Nicolò Doveri
soggetto in modo statico e pietrificato. Esperienze,
vissuti, eventi del passato devono essere concepiti in
maniera invariante, come se appartenessero ad una
oggettività che può fare a meno del soggetto. Inoltre,
in maniera isolata, come se la possibilità di rimandi e
collegamenti tra le parti fosse inoperante e improduttiva. Infine, come qualcosa che è fine a sé stesso,
semanticamente saturo e circoscritto, privo di potenzialità metaforica e simbolica.
Lasciare entrare qualcun’altro nella propria storia, farlo muovere come un’ospite tra le stanze e i
corridoi della propria costruzione personale, può
rappresentare un rischio ma anche un’opportunità.
In primo luogo, il contatto con una psiche impegnata intenzionalmente ad andare oltre l’evidenza,
trascendere i significati manifesti, trasferire su piani
simbolici, può tradursi in un apprendimento che col
tempo potrà attivare o rigenerare una funzione psichica del soggetto.
In secondo luogo, esso rappresenta un lavoro di
ricostruzione dinamica della storia individuale che si
accosta al processo auto-biografico inteso come sforzo riflessivo ed ermeneutico orientato ad una progressiva ri-significazione dell’esperienza in rapporto
al sé in movimento.
Processo essenziale al corretto funzionamento del
Sé che risulta pertanto sostenuto e compensato dal
lavoro analitico.
d) Rileggere la storia individuale alla luce dei complessi
Il lavoro analitico può dunque divenire occasione
di “riscoperta” di sé, di rinascita di interesse per le
proprie origini, i trascorsi familiari, le vicende relazionali passate in quanto causa ed effetto del proprio
modo di essere nel mondo.
L’attivazione di un atteggiamento riflessivo rispetto alla propria storia individuale rende possibile portare sulla scena della coscienza alcune protagoniste
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La ripetizione e le sue metamorfosi...
inattese: le immagini complessuali.
Riconoscere all’interno della propria biografia l’azione di personalità autonome, non accordate all’Io
cosciente e animate da copioni perturbanti, consente all’analizzando di rivedere episodi della propria vita alla luce di influenze “esterne” e di individuare
“antagonisti” delle spinte al cambiamento passate e
future.
Il lavoro sui complessi, oltre a rivolgersi al piano
energetico (depotenziamento), si dirige all’ampliamento della personalità tramite l’accoglienza e il
confronto con le maschere generate da bisogni insoddisfatti e carenze sofferte. La life story si arricchisce di
un piano nuovo e inaspettato, il piano dell’inconscio.
In questo modo, il processo della memoria, riattivato
all’interno della relazione analitica come fenomeno
e competenza “soggettiva”, acquista la qualità del divenire ulteriormente un dialogo “tra sé e sé” (intrasoggettivo).
e) Fare esperienza del “qui e ora”
Per la persona che soffre di ripetizione, spesso, “la
vita è altrove”. La possibilità di un’esperienza densa e
piena di significato, dell’esserci con tutto sé stesso nel
momento in cui le cose accadono, è sostituita da
un’adesione psicologica parziale e filtrata al flusso
degli eventi relazionali. Talvolta si ha l’impressione
che la persona che abbiamo di fronte non ci sia completamente, oscilli tra l’essere nella relazione e da
qualche altra parte. In questo modo, il presente può
essere svuotato di senso e divenire luogo di assenza e
di distanza. Si percepisce una sorta di “tirannia del segno”, della parola come “lettera morta”, a scapito della possibilità avventurosa di affioramenti simbolici di
junghiana accezione.
La dimensione inter-soggettiva del dialogo analitico è soggetta a continue interruzioni e interferenze:
appena ci sembra di aver sentito qualcosa, si torna a
I modi del pensare
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I modi del pensare
Nicolò Doveri
sentire nulla, ripetutamente.
Al contrario, quando nel corso dell’analisi si creano situazioni in cui ci sentiamo - analista e analizzando - veramente reali e presenti, in “presa diretta” con
l’accadere di qualcosa che non è ancora divenuto riflessione, in cui l’emozione circola nella relazione
potenziandosi attraverso il mutuo riconoscimento
empatico, si coglie intuitivamente che qualcosa di significativo avviene.
Daniel Stern ci offre un’esauriente sistematizzazione teorica del fenomeno accennato nel libro Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana
(Stern, 2005). Secondo Stern, il “momento presente”
è una brevissima unità di esperienza relazionale (interazione) immersa nel “qui e ora” in cui
“due persone stabiliscono un contatto intersoggettivo e si determina quella reciproca interpenetrazione delle menti che
ci consente di dire: ‘Io so che tu sai che io so’ o ‘Io sento che
tu senti che io sento’. In questa ‘lettura’ dei contenuti mentali dell’altro, spesso reciproca, si fa esperienza di uno scenario mentale comune” (Stern, 2005; pag.63).
Alla luce delle conoscenze prodotte dalle neuroscienze, in particolare le ricerche di Damasio e Edelman, Stern ci mostra come il “momento presente”
possa rappresentare una via di accesso e di “ri-trascrizione” a valenza terapeutica dei ricordi immagazzinati nella memoria “implicita”, altrimenti inaccessibili per via dichiarativa:
“la nozione di contesto presente del ricordo può aiutarci a rappresentare uno dei modi in cui il momento presente può agire sul
passato. Il passato funzionale, quello che influenza il presente, può essere rimodellato nello spazio del momento presente
(...) In questa nuova prospettiva, la memoria non è considerata una sorta di biblioteca di esperienze, in cui le prime edizioni sono mantenute in forma originale e ognuna può essere
richiamata e vissuta nel presente come un ricordo fedele, ma
come una collezione di frammenti di esperienza che convergono a formare un’unica esperienza (il ricordo). Ecco come
si compie questo processo: gli eventi e le esperienze del presente contestualizzano il ricordo, selezionandolo, assemblan-
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La ripetizione e le sue metamorfosi...
dolo e organizzandolo.” (Stern, 2005; pag 163-164).
2. FUNZIONE TRASCENDENTE E FUNZIONE UTOPICA
L’assetto teorico e clinico che ho tentato di descrivere nel paragrafo precedente è profondamente
influenzato dall’ipotesi che la psiche abbia al proprio
interno una funzione specifica, finalizzata a trascendere i condizionamenti provenienti dal passato e a
produrre energia “rinnovabile”. Questa idea trova
autorevole supporto nel lavoro di due pensatori del
‘900 che hanno avuto particolare significato nella
mia formazione: C. G. Jung e E. Bloch.
Nel saggio del 1916 dal titolo La funzione trascendente, Jung (1958) postula l’esistenza di una funzione
psichica che emerge dall’unificazione di elementi
consci ed inconsci e consente all’individuo di andare
al di là di un atteggiamento consolidato che non risulta idoneo alla situazione presente.
La funzione avrebbe lo scopo di far interagire due
modalità eterogenee di elaborazione delle informazioni: il pensiero direzionato e la fantasia spontanea
e creativa. Come è noto, il primo è ordinato, sottoposto al controllo cosciente, fondato su presupposti
logici, ancorato alle verifiche empiriche. La seconda
è analogica, involontaria, combinatoria, aleatoria,
priva di termini di confronto. Secondo Jung, l’evoluzione socio-culturale dell’uomo occidentale dominata dalla tecnica e dal logos avrebbe determinato uno
squilibrio a favore del primo elemento: un’unilateralità operante a scapito di un atteggiamento olistico,
orientato alla totalità.
Ciò rappresenta un rischio per la salute psichica
poiché determina da una parte un irrigidimento (di
atteggiamenti, pensieri, modi, ecc.) dall’altra un potenziamento di contenuti inconsci che si allargano e
forzano per manifestarsi.
In termini più astratti si attiverebbero processi di
dissociazione e di accumulo energetico con effetti di
I modi del pensare
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I modi del pensare
Nicolò Doveri
irrigidimento del pensiero, perdita di tensione, interferenza.
Il processo di auto-regolazione continua che starebbe alla base del benessere e dell’adattamento si
inceppa e si giunge all’autolesionismo o alla paralisi.
Il terapeuta si pone pertanto a sostegno della funzione trascendente deficitaria e cerca di reintegrarla:
“nella prassi perciò il medico dotato di una preparazione adeguata riesce a fornire al paziente la funzione trascendente,
cioè lo aiuta a comporre coscienza e inconscio e a raggiungere in tal modo un nuovo atteggiamento” (Jung, 1958; pag.88).
Appare chiaro che la funzione compensatrice e riparatrice che viene giocata dal terapeuta risiede in
larga parte nella “relazione”. Come spiega Jung, la
“traslazione”, connotata com’è da aspetti di attaccamento, dipendenza, proiezione sul terapeuta di
aspettative di trasformazione, rappresenta un fattore
chiave della modificazione dell’atteggiamento.
Ciò che viene rivissuto è una disposizione d’attesa
che integra la percezione di un profondo stato di bisogno individuale con l’attribuzione ad un’altra persona di qualità protettive e supportive tali da attivare
la speranza di una possibilità di cambiamento.
La terapia della funzione trascendente si fonda
inoltre su un procedimento di trasformazione dei
contenuti psichici che ha come scopo l’“elaborazione
del senso”.
Ciò che Jung indica come “metodo costruttivo” è
una pratica sostenuta dalla relazione che, attraverso
l’esclusione sistematica ed intenzionale della “attenzione critica” (processo cosciente), mira ad associare,
attraverso la produzione di fantasie, stati d’animo perturbati (affetti) ad immagini a contenuto simbolico.
La trasformazione del contenuto emotivo in immagini è un processo che non va inteso come una decodifica di significato ma piuttosto come un’apertura
di senso; Jung lo definisce altrove con l’espressione
“analogia libidica” (Jung, 1928; pag. 57).
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La ripetizione e le sue metamorfosi...
Secondo Jung esso combina un effetto dinamico
(deflusso dell’energia psichica dal contenuto a tonalità emotiva) e un apprendimento (chiarificazione e
comprensione dell’affetto).
Il prodotto del lavoro psichico descritto è una rappresentazione simbolica (oppure un insieme di rappresentazioni) che contiene in sé una potenzialità
evolutiva per l’individuo.
A questo punto, affinché la possibilità si traduca in
cambiamento, è necessario che l’Io del soggetto si
ponga in termini dialettici (funzione trascendente)
con i contenuti emersi dall’inconscio.
La funzione trascendente, allora, assume la valenza di principio fondante di una concezione junghiana dell’inconscio che Trevi ha felicemente definito
“inconscio progettante” (Trevi, 1986; pag. 20).
Pertanto, essa va considerata come un potenziale
trasformatore che opera attraverso simboli “probletici” (probleticós, da pro-bállein, progettare, da cui
probolḗ, progetto):
“il simbolo junghiano altera continuamente l’equilibrio raggiunto, aprendo nuove possibilità di sintesi, progettando un
futuro che l’Io può misconoscere, rifiutare o finanche temere ma che è la ragione stessa della conservazione della personalità e della sua dinamica” (Trevi, 1986; pag. 21).
Il tema della “funzione trascendente” presenta interessanti punti di contatto con l’opera di Ernst
Bloch, pensatore marxista contemporaneo di Jung e
suo critico severo, in particolare con i concetti di
“funzione utopica” e “non-ancora-conscio”.
Nell’opera monumentale Il principio speranza, pubblicata in forma definitiva nel 1959, Bloch (1994) delinea una fenomenologia della facoltà psichica squisitamente umana di andare aldilà dell’evidenza e dell’ordine del presente.
Limitandoci riduttivamente alla dimensione psicologica, cerchiamo di ricostruire alcuni passaggi decisivi per il nostro argomento.
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I modi del pensare
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Secondo Bloch qualsiasi impulso umano trae origine da una condizione di bisogno. Mancanza, vuoto
e sofferenza solcano il corpo e la psiche, scuotono la
coscienza determinando stati emotivi che Bloch definisce “affetti adempiuti” e “affetti di attesa”.
I primi, più elementari e saturi, sono quelli il cui
“oggetto istintuale” è già dato, se non nella realtà immanente almeno nel mondo delle idee disponibili.
I secondi,
“sono invece quelli la cui intenzionalità istintuale è di ampio
raggio intellettivo, il cui oggetto istintuale non solo non è nel
campo di volta in volta individualmente accessibile, ma non è
nemmeno già bello e pronto nel mondo già disponibile, e
con ciò partecipa anche del dubbio dell’esito o dell’inizio”
(Bloch, 1994; pag.89).
In altri termini, la dinamica del bisogno, in quanto disequilibrio e spinta alla costruzione di una condizione nuova, può produrre - a livello cognitivo ed
affettivo - due orientamenti antitetici.
Il primo si riferisce al ricordo e alla riattivazione di
comportamenti già sperimentati e ritenuti efficaci,
cioè alla riproduzione di un pattern comportamentale che precedentemente ha sortito effetti apprezzabili e rassicuranti. Sul piano psichico, alla fantasia del
ritorno ad un passato connotato in termini positivi,
in cui soddisfazione, benessere, sicurezza, assenza di
tensione si delineano come affetti dominanti.
L’altro orientamento guarda al futuro e si dispiega nella dimensione del desiderio. Si riferisce, cioè, a
possibilità di risposta mai pensate ed esperite, collocate nella prospettiva creativa del non-ancora e nel
campo affettivo dell’attesa fiduciosa. È un “sognare
ad occhi aperti” ma “con i piedi per terra”.
L’affetto di attesa che Bloch tiene in maggior considerazione in ordine alle potenzialità “aurorali” e
trasformative della realtà individuale e collettiva è la
“speranza”:
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La ripetizione e le sue metamorfosi...
“la speranza è il concetto antitetico non soltanto dell’angoscia,
ma anche della memoria (...) E la sua relazione con l’angoscia,
per non dire poi con il nulla della disperazione, è condotta
con una forza talmente determinata da potersi dire: la speranza annega l’angoscia” (Bloch, 1994; pag. 133).
Alla stessa maniera di Jung nei riguardi della funzione trascendente, Bloch ritiene che la speranza, affinché si producano risultati positivi e concreti, debba essere indirizzata e condotta oltre lo status di semplice moto sentimentale, fino a divenire funzione utopica consapevole e nota (Bloch, 1994; pag. 170).
Assumere razionalmente la funzione utopica significa mobilitare la coscienza nella direzione del
non-ancora-conscio, attivando le rappresentazioni
della fantasia nella loro dimensione anticipatoria e riflessiva: non mera fantasticheria, dunque, bensì continuazione di “ciò che è già presente nelle possibilità
future del suo essere diverso e migliore” (Bloch,
1994; pag. 170).
Ad una visione passiva e a-dialettica della speranza
si sostituisce la nozione di “intelligenza della speranza” e in tal modo si giunge a rifondare empiricamente il concetto di trascendenza aldilà della “morte di
Dio” decretata da Nietszche: “così la funzione utopica è anche l’unica funzione trascendente che sia rimasta e anche l’unica che valga la pena che resti: una
funzione trascendente senza trascendenza” (Bloch,
1994; pag. 172).
Su queste posizioni teoriche l’inconscio junghiano e “blochiano”, a scapito delle polemiche e delle
distrazioni di Bloch nei confronti dell’opera di Jung,
sembrano avvicinarsi e condividere l’orizzonte di senso della “progettualità”:
“non c’è ancora alcuna psicologia dell’inconscio dell’altra faccia, dell’aurora verso l’avanti; questo inconscio è rimasto non
notato, sebbene esso rappresenti il vero e proprio spazio della
disponibilità al nuovo e alla produzione del nuovo. Il non-ancora-conscio è per la verità altrettanto pre-conscio quanto l’inconscio della rimozione e dell’oblio, anzi nel suo genere è un
I modi del pensare
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I modi del pensare
Nicolò Doveri
inconscio altrettanto difficile e capace di resistenza quanto
quello della rimozione” (Bloch, 1994; pag. 138).
3. COSTELLAZIONE DEL TRAUMA
E RISORSE DI AUTO-GUARIGIONE
Abbandonare la via della ripetizione coatta per
entrare nella dimensione della speranza è tanto più
difficile per coloro che hanno subito traumi.
Il trauma rappresenta un’esperienza limite che
comporta gravi conseguenze psicologiche per il soggetto. Si tratta, come è stato sottolineato da molti studiosi, di una ferita psichica che va aldilà delle possibilità dell’individuo di elaborarla riflessivamente e di
reintegrarla nella storia individuale e nella costruzione dell’identità.
Sul piano autobiografico, infatti, costituisce un
contenuto radicalmente alieno, dis-continuo, incommensurabile rispetto ai nuclei dell’esperienza
narrabile.
Sul piano esistenziale, rappresenta uno sconvolgimento inconcepibile che scuote l’ordine pensabile
delle cose nei suoi stessi fondamenti. L’individuo subisce una “de-soggettivazione” perché il trauma intacca nel profondo la capacità di contenere in sé e
dare senso al proprio “essere nel mondo”. In esso si
fondono una estrema sofferenza, un assurdo spaesamento, un’auto-estraneazione.
Da un punto di vista evolutivo, il trauma determina una cesura del processo di costruzione del Sé inteso come organizzatore di molteplici linee di apprendimento, integratore di contenuti eterogenei di
esperienza all’interno di una totalità dinamica.
Infine, da una angolatura psicodinamica, il trauma è responsabile di una perdita funzionale riferita
alla capacità di simbolizzare (trasformare le emozioni in immagini e pensiero), con una caduta verticale
dei contenuti inconsci nella somatizzazione e nell’agire impulsivo.
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La ripetizione e le sue metamorfosi...
La rottura prodotta dal trauma può essere posta in
analogia con la “morte”, intesa come esperienza
estrema, assolutamente irriducibile.
Tuttavia, il trauma non uccide, piuttosto costringe
l’individuo a vivere sopportando una brutale amputazione psicologica: la perdita della speranza.
Ciò che è in gioco non è soltanto la sofferenza determinata da un dolore (a volte atroce) ma anche la
possibilità di conservazione di un ordine logico ed affettivo: la persona è costretta a convivere con un sentimento di morte che non sembra elaborabile come
lutto.
Come osserva Richard F. Mollica, psichiatra statunitense che è stato a capo di molteplici progetti terapeutici rivolti a persone traumatizzate in contesti di
conflitti etnici e di vita ordinaria,
“coloro che hanno conosciuto la violenza nelle sue forme più
estreme spesso devono decidere non solo di vivere in un certo modo, ma addirittura se continuare a vivere. Anche i traumi ‘ordinari’, sebbene non altrettanto gravi, comportano
questo genere di scelta. Ci vuole coraggio per non abbandonarsi alla disperazione. L’opposto della disperazione è la speranza, e sperare significa immaginare e desiderare ancora le
cose che un tempo ci erano care e che sono andate distrutte.
I sopravvissuti e i loro terapeuti spesso danno per scontato
che questa fondamentale decisione di vivere deve essere compiuta ogni giorno” (Mollica, 2007; pag. 149).
Come è evidente, il potenziale distruttivo del trauma risulta ancora più devastante quando la vittima è
un bambino, un soggetto in fase evolutiva che non ha
ancora costituito i nuclei psichici della coesione e
della autonomia.
In questo caso, si osserva in modo drammatico e
privo di schermature, come il trauma sia il prodotto
di una combinazione paradossale di eventi esterni ed
interni di enorme intensità e lacerante incoerenza
(scissione degli opposti). Alla violenza e all’umiliazione oggettive subite dall’individuo si associano sentimenti di vergogna, colpa, paura, emarginazione
I modi del pensare
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I modi del pensare
Nicolò Doveri
che turbano il mondo interiore e indeboliscono ulteriormente l’Io.
Forse, alla base di questa ambivalenza c’è l’impossibilità della psiche, in stato di dipendenza e soggezione, di rinunciare all’altro come fattore di sicurezza e potere, sebbene sia anche identificabile come
crudele aggressore.
Alla luce delle precedenti considerazioni, si comprende come la psiche posta di fronte alla realtà del
trauma abbia la necessità di difendersi e distanziarsi:
essa genera formazioni di compromesso che hanno
nella dissociazione il loro terreno elettivo.
La dissociazione, infatti, determina l’isolamento
di contenuti interconnessi, la scissione di elementi
opposti, la rottura di legami emotivi e cognitivi tra le
parti di un tutto.
La psicoanalisi ha definito questo processo difensivo come emergere di difese “arcaiche” o “primitive”.
Kalshed, nel libro Il mondo interiore del trauma, ipotizza che le difese dissociative siano, a livello di fantasia inconscia, “personizzate come immagini demoniche archetipiche” (Kalshed, 2001; pag. 27).
Egli sostiene che la psiche traumatizzata tenderebbe ad organizzarsi secondo un modello diadico che
contrappone una personalità regressiva (indifesa, debole, ingenua) ad una personalità demonica (potente, astuta, persecutoria e protettiva ad un tempo).
Secondo Kalshed, la componente dominante della coppia avrebbe la funzione di proteggere il Sé traumatizzato dal totale annichilimento e svolgerebbe il
proprio compito aderendo ad una logica di tipo primitivo, fondata sul pensiero magico. In questo modo,
“ogni nuova opportunità della vita viene scambiata per una
pericolosa minaccia di ritraumatizzazione e viene perciò attaccata (...) Per quanto lui o lei vogliano cambiare, per quanto si ingegnino a migliorare la propria vita o i propri rapporti, qualcosa di più potente dell’Io mina continuamente ogni
progresso e distrugge ogni speranza”.
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La ripetizione e le sue metamorfosi...
In questa prospettiva, la psiche darebbe vita ad
una sorta di “sistema di autocura” a base archetipica
le cui caratteristiche principali possono esser così articolate:
— frammentazione in due componenti di segno
opposto;
— assenza di dialettica e integrazione tra gli opposti, sostituite da mutua esclusione;
— compromissione della capacità di cogliere nessi
simbolici.
A questi aspetti, sulla base delle mie osservazioni,
accosterei altri funzionamenti tipici:
— egemonia del somatico (eccitabilità, irrequietezza, attrazione, somatizzazione);
— spinta ad agire in modo irriflessivo.
Il predominio di tale funzionamento psichico
sembra determinare un’alternanza priva di punti di
contatto tra un approccio “ingenuo” alla realtà, foriero di rischi ed incaute esposizioni, e una visione
catastrofica e inibitoria, in cui ogni spinta vitale è sottoposta a repressione.
Una parte della psiche ignora letteralmente il male mentre la seconda non può concepire altro: all’interno di questa dinamica conflittuale, dunque, per il
bene non c’è spazio.
In queste condizioni, ciò che Bloch chiamava “intelligenza della speranza” viene sostituito da un sistema più arcaico basato sull’alternanza di ciò che definirei “incanto” e “disincanto”.1
La vita della persona risulta condizionata dalla ripetizione di un ciclo in cui si susseguono “speranza,
vulnerabilità, paura, vergogna e autoaggressione” e
inevitabilmente conducono al “prevedibile ripetersi
della depressione” (Kalshed, 2001, pag. 60).
Nell’esperienza clinica, è possibile osservare persone che prendono alla lettera alcuni stimoli esterni
ed interni, attribuiscono loro un valore numinoso e
trascinante, non riescono a rappresentare i bisogni
individuali che dietro di essi traspaiono, proiettano le
I modi del pensare
1. Il termine incanto appare preferibile a quello
di illusione poiché quest’ultimo, seguendo la lezione Winnicottiana, condensa significati evolutivi
(illusione creativa) decisamente più vicini al concetto di speranza che stiamo discutendo.
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I modi del pensare
Nicolò Doveri
proprie aspettative su altri scambiando di frequente
atteggiamenti seduttivi per qualità reali e promesse
attendibili, perseverano nell’auto-inganno. Fino a
quando la realtà si mostra frustrante, mortificante,
offensiva, e si giunge all’attivazione di uno scenario
interno persecutorio e desolante (disincanto).
Lucidamente, Kalshed sottolinea che questo sistema di auto-cura non va trattato come una difesa nevrotica o una barriera da smantellare, piuttosto come
una costellazione simbolica da conoscere, riconoscere e intercettare nelle sue valenze protettive e trasformative.
4. CLINICA DELLA RIPETIZIONE E DELLA SPERANZA
A questo punto, vorrei riconsiderare l’excursus
teorico compiuto alla luce di un frammento di analisi riferito ai primi due anni di lavoro di un uomo a
cui darò il nome Nereo.
Al nostro primo incontro, nel 2007, Nereo ha da
poco oltrepassato i 50 anni. È alto, ha portamento
fiero, l’aspetto nobile e composto di un soldato d’altri tempi. La sua camminata, forse anche a causa di
tale costituzione, tradisce visibilmente i segni di fratture recenti e gravi.
Anche il suo volto, terminata la fase dei saluti, abbandona in fretta un contegno dignitoso e austero e
si contrae in un’espressione di sofferenza.
Dopo brevi accenni alla sua situazione, Nereo mi
pone una domanda “terribile”, in cui sintetizza la sua
motivazione all’analisi: “devo considerare la mia vita
conclusa o posso sperare di avere ancora qualche
possibilità?”
L’uomo racconta di aver avuto pochi mesi prima
un grave incidente automobilistico: è stato investito
da un’auto riportando traumi che lo hanno costretto
ad un lungo periodo di degenza e riabilitazione.
Nella narrazione di Nereo, questo incidente non è
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La ripetizione e le sue metamorfosi...
un fatto casuale: è piuttosto la conseguenza inevitabile di un “punto morto” a cui è giunta la sua esistenza.
La sua sofferenza si concentra sull’impossibilità di
avere un rapporto affettivo costruttivo e sulla reiterazione di uno schema relazionale fondato su una lacerante ambivalenza nei confronti del femminile .
Il “complesso” che lo tiene in pugno lo porta ad
essere attratto visceralmente dal corpo femminile, a
trasformare il desiderio in una tensione psico-fisica
insostenibile, ad agire seduttivamente utilizzando le
sue qualità virili e intellettuali, a sentirsi a sua volta
usato e manipolato, a provare sentimenti di tradimento ed abbandono, confusione ed annichilimento. Infine, a nutrire odio e desiderio di vendetta nei
confronti della donna, con possibilità di agiti aggressivi. Più e più volte...
Intorno a questo pattern comportamentale si costellano somatizzazioni (cefalea) e sintomi depressivi
di significativa entità.
In rapporto alla sua infanzia, Nereo racconta di
un padre perduto precocemente, di una madre sensuale e manipolatoria, avviluppante e forse abusante,
di una separazione traumatica che lo portò, in periodo scolare, all’inserimento in un collegio maschile.
Nel corso del primo colloquio porta un sogno:
“Mi trovo in un grande edificio, con lunghi corridoi, soffitti alti e muri sudici. Sembra una caserma, un edificio militare. C’è qualche persona in giro, prevalentemente uomini;
qualcuno indossa la divisa.
Devo trovare il posto che mi è stato assegnato, il letto,
l’armadietto per i miei effetti personali. C’è un posto libero:
subito me lo prendo anche se non sono certo che si tratti proprio del mio. Getto lì la mia roba, frettolosamente.
La scena cambia. Mi trovo in una grande stanza, fredda e spoglia. Sono seduto su una sedia di metallo, completamente nudo. Di fronte a me, sedute dietro un tavolo, ci sono altre persone. Sembra una commissione. Mi osservano
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I modi del pensare
Nicolò Doveri
senza rivolgermi la parola. Provo un profondo disagio.
Nudo come sono, mi allontano alla ricerca del mio posto,
per mettermi dei vestiti. Attraverso stanze e corridoi, ma non
ricordo dove si trova, non riesco ad arrivarci. Provo imbarazzo e umiliazione.
Alla fine giungo di fronte ad una finestra, ad un piano
alto. Sotto di me c’è il mare; si gode un’ampia vista. Osservo una parata di grandi barche che procedono perfettamente allineate. Sembra una regata.”
Il sogno mi fa pensare ad una costruzione dell’identità appoggiata su strutture collettive, che occulta
carenze e solitudini travolgenti allorché il soggetto
entra nella dimensione dell’individualità e della relazione. Un collettivo caratterizzato dai significati della
“difesa” ma anche dell’ “aggressione”.
Colpisce l’esposizione del corpo privo di protezioni, il contatto “nudo” con il reale e con gli altri, l’assenza di relazione, l’accesso “somatico” all’esperienza
del dolore. Il sogno evoca l’immagine spaziale del labirinto, la confusione, la perdita di memoria e di
orientamento.
Tuttavia, l’ultima sequenza introduce una dimensione qualitativamente differente che potrebbe rappresentare una risorsa inconscia della psiche di Nereo: il mare solcato da una processione di imbarcazioni sembra rimandare alla possibilità di dare ordine al mondo interno e convogliare le forze pulsionali, seppur con certo distacco e rigidità.
L’aver intravvisto una speranza, più che gli incoraggiamenti verbali e le esortazioni ad aver fiducia,
mi sembra che abbia dato forma ad una risposta parziale alla domanda chiave di Nereo.
Il lavoro analitico, caratterizzato da un transfert
positivo nei confronti del terapeuta e dalla disponibilità di un ricco materiale onirico, si è rivolto all’elaborazione di nuclei complessuali di carattere opposto, tematicamente coerenti con le ipotesi di Kalshed:
da una parte piccoli animali indifesi, ragazzi in peri-
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La ripetizione e le sue metamorfosi...
colo, giovani donne minacciate di violenza, ecc., dall’altra cacciatori spietati, mariti violenti, gladiatori,
bande di assassini.
Nei sogni e nelle fantasie di Nereo, prende corpo,
inoltre, il rapporto con un essere femminile dotato di
fascino, potere e qualità numinose, che ha la capacità di attrarre gli uomini con l’incanto della bellezza
fisica, confonderli e annichilirli per sua crudele soddisfazione. Un’immagine che fa pensare alle sirene
del poema omerico, alla maga Circe, alla coppia Nemesi-Elena e alla tragica dinamica che le unisce. Sono manifestazioni di un’Anima tirannica, avida e sensuale, mossa da violente passioni di amore, vendetta,
morte.
Ciò che caratterizza queste produzioni inconsce è
la rappresentazione di un irretimento erotico che affonda nel dettaglio “pornografico”, nelle pure sensazioni corporee (predominio del somatico sul pensabile) e inibisce qualsiasi forma di relazione inter-personale.
Dopo circa un anno di lavoro, Nereo porta un sogno che sento collegabile al precedente:
“Sono insieme ad altre persone. È una situazione confortevole e serena; si conversa con leggerezza di argomenti
importanti.
Io esorto gli altri a considerare la presenza della bellezza
nelle cose del quotidiano, anche quelle che di solito reputiamo brutte. Penso alle canzoni di alcuni cantautori che fanno apparire poetiche situazioni di miseria, sofferenza, emarginazione.
La scena cambia. Sono in un grande spazio aperto. Una
distesa di macerie e terra smossa a perdita d’occhio. C’è
un’atmosfera di ricostruzione e si prospettano grandi trasformazioni urbanistiche. I lavori sono coordinati dai militari.
Insieme a me c’è un ragazzo giovane che sicuramente ha sofferto molto; è traumatizzato. Entrambi abbiamo una missione da compiere. Il ragazzo però non ha vestiti: insieme cerchiamo una divisa che possa andargli bene per procedere nel
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I modi del pensare
Nicolò Doveri
lavoro. Si respira un’aria positiva, non distruttiva”.
Questo sogno ha un’ambientazione drammatica
che sembra rappresentare le conseguenze di un violento trauma. Ciò che tuttavia prevale è un sentimento di resistenza (resilienza) e di spinta in avanti,
verso una trasformazione positiva.
In esso il protagonista ci appare affiancato da un
alter ego, un giovane che ha bisogno di aiuto. A questa parte (di sé) si rivolge la rinnovata capacità di riparazione e di protezione di Nereo. Il sogno, inoltre,
introduce una relazione simbolica tra l’attività di ricostruzione dell’ambiente a seguito di una sconvolgente devastazione e la trasformazione individuale.
Le operazioni sono ancora compiute sotto l’egida di
una forza collettiva che tuttavia opera al di fuori di
una dimensione bellica e distruttiva.
Nella scena iniziale, una sorta di introduzione simbolica, si assiste ad un lavoro di unificazione di opposti. Squallore e bellezza possono trovare una sintesi, magari con il rischio di lasciarsi trasportare un po’
dal sentimentalismo.
La prosecuzione dell’analisi segna una mitigazione dei sintomi e delle coazioni e il progressivo consolidamento di una relazione affettiva. Nello spazio
analitico, diminuiscono i sogni con contenuti sessuali “espliciti” e si presentano più di frequente momenti di insight e di commozione, caratterizzati, in alcuni casi, da una forte emozione reciproca.
Prende forma in maniera sempre più chiara una
figura complessuale (che insieme chiameremo il
“Giustiziere”) caratterizzata da aspetti di inflessibilità,
spietata freddezza, vendicatività. Attraverso di essa sarà possibile rileggere episodi della vita e funzionamenti ancora attuali, potendo così “oggettivare” una
dimensione critica della personalità di Nereo, differenziandola però dall’Io e avviando un processo di
dialogo intra-soggettivo.
A circa un anno e mezzo dall’inizio dell’analisi ho
81
La ripetizione e le sue metamorfosi...
fatto un sogno che mi ha colpito e riassumo brevemente:
“ho una meta da raggiungere; mi metto in cammino ma
incontro numerosi ostacoli che mi costringono a cambiare,
di volta in volta, mezzo e percorso. Mi perdo, prendo svolte
sbagliate, giro a vuoto. Alla fine giungo in un luogo di
montagna da cui contemplo, inaspettatamente, un enorme
svincolo autostradale composto dall’intreccio di moltissime
arterie, solcate da un intenso traffico”.
La visione del sogno mi sveglia in piena notte e
immediatamente provo un profondo dolore che non
mi permette di riprender sonno. In quel momento,
ho una percezione chiarissima: questo dolore non è
mio, non riguarda me. Subito dopo mi viene in mente Nereo e posso riaddormentarmi.
Oltre a confermare la solidità del contatto empatico, che illumina una sofferenza non sempre avvertita dalla mia coscienza in tutta la sua intensità, mi
sembra che il sogno indichi la possibilità di una progressione “metamorfica” e l’accesso ad un livello superiore di complessità.
In effetti, Nereo appare via via più capace di accostare ai moti impulsivi e alle reazioni psicosomatiche
spazi riflessivi, in cui può guardare sé stesso da una
certa distanza, riconoscere i bisogni che premono,
confrontare le spinte pulsionali con il progetto esistenziale che va pian piano maturando.
Dopo due anni di lavoro, Nereo porta un nuovo
sogno in cui si ripropongono i temi della nudità e
della ricerca di abiti da indossare. Sulla scena del sogno ci sembra di osservare la compresenza di “ripetizione” e di apertura al nuovo. Si ha l’impressione che
qualcosa sia successo: come se un nucleo complessuale consolidato avesse iniziato un processo di graduale trasformazione “dall’interno” e riproponesse
elementi del passato “rimontati” all’interno di un
nuovo scenario di possibilità. In questa prospettiva,
I modi del pensare
82
I modi del pensare
Nicolò Doveri
non può rimanere indifferente la tonalità cromatica
del sogno nettamente dominata dal verde, il colore
della speranza:
“Sto effettuando una visita per lavoro. Sono in un luogo che sembra un ministero, molto formale , di rappresentanza; mi trovo con altre persone. Dopo un po’, comincio ad
essere attratto da ciò che vedo fuori dalle finestre: il verde
delle piante, la luce, la natura.
Perciò trovo una via d’uscita e inizio ad esplorare l’ambiente. Ciò che vedo contrasta molto con gli arredi e le architetture burocratiche di prima: c’è un laghetto, con belle
piante e prati intorno. Man mano mi allontano e mi rendo
conto che sono a torso nudo: provo stupore e un po’ di imbarazzo. Mi addentro in un paesino, antico, molto interessante. Vorrei visitarlo ma sono a disagio per la mia nudità.
Entro in un posto che sembra un centro sociale, pieno di gente giovane. C’è un pub ma anche delle bancarelle, alcune
vendono vestiti. Un ragazzo mi offre una maglietta rosa: la
guardo, mi sembra un po’ eccessiva. Il contatto con i giovani, comunque, mi tranquillizza: sono gentili e aperti. Sul
banco, ci sono altre magliette molto belle. Alla fine ne trovo
una che mi piace e la indosso: una bella maglia verde.”.
5. CONCLUSIONI
Nelle pagine precedenti si è cercato di porre in relazione la condizione di disagio e alienazione sofferta da coloro che sono intrappolati nella “coazione a
ripetere” e il tema della “speranza”, come processo
interiore e motivo archetipico che consente di immaginare una possibilità di affrancamento dall’egemonia del passato e dalla sofferenza replicata.
L’intento di questo lavoro non è quello di tracciare conclusioni, piuttosto di evidenziare l’utilità degli
strumenti della psicologia analitica nel trattamento
di problematiche psicologiche in cui la compromissione del desiderio di vivere si collega a forme di
83
La ripetizione e le sue metamorfosi...
espressione di sé auto-limitanti e potenzialmente
dannose.
La possibilità di ridare speranza, anche in casi in
cui l’esperienza del trauma ha determinato una grave disorganizzazione del Sè, non deve essere esclusa.
Si tratta, tuttavia, di un processo molto delicato e
complesso, in cui entrano in gioco aspetti della dinamica inconscia, della relazione inter-soggettiva, della
costruzione auto-biografica, della “maturazione” delle funzioni psicologiche impegnate nel controllo degli impulsi. Un processo che va accompagnato con
molto rispetto e attesa fiduciosa, senza forzature o accelerazioni; lavorando nella dimensione delle “variazioni sul tema”.
Nel panorama scientifico attuale, concetti quali
“speranza”, “resilienza”, “pensiero positivo” hanno ricevuto notevole attenzione nell’ambito delle psicologie e delle psicoterapie cognitivo-comportamentali.2
Entro tali approcci si è proceduto allo sviluppo di
ipotesi teoriche e di declinazioni applicative (pensiero strategico, emozioni espresse, self-efficacy) che
presentano coerenza interna e qualche efficacia pratica, pur rimanendo all’interno di un paradigma
piuttosto angusto e riduttivo.
Ad esempio, così si esprime C. R. Snyder, uno dei
padri della “psicologia positiva”: “la morte psicologica si verifica quando il pensiero direzionato agli
obiettivi (goal directed) diminuisce fino allo stato vegetativo (...) Il soggetto permane in una condizione
relativamente durevole di apatia mentale verso gli obbiettivi della vita” (Snyder, 1994; pag.116, traduzione
mia).
Diversamente, la psicoanalisi attuale, pur potendo
contare su un corpus teorico molto più solido e differenziato, non appare altrettanto dedicata all’approfondimento degli argomenti discussi.
La speranza è che queste riflessioni possano contribuire ad una crescita di interesse.
I modi del pensare
2. Si vedano a tale riguardo, tra gli altri, i testi di
Cyrulnik & Malaguti,
Short & Casula, Sheldon
& King riportati in bibliografia.
84
I modi del pensare
Nicolò Doveri
Bibliografia
Blake W., Il matrimonio del cielo e dell’inferno, SE Editore, Milano,
2000.
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positiva della vita e la creazione di legami significativi, Erikson,
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Freud S. (1914) Ricordare, ripetere e rielaborare, Vol. 7, Boringhieri,
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Jung C.G., (1928), Energetica psichica, Vol. 8, Boringhieri, Torino.
Jung C.G., (1934), Considerazioni generali sulla teoria dei complessi,
Vol.8, Boringhieri, Torino.
Kalshed, D., Il mondo interiore del trauma, Moretti & Vitali, Bergamo, 2001.
Mollica, R.F., Le ferite invisibili. Storie di speranza e di guarigione in
un mondo violento, Il Saggiatore, Milano, 2007.
Sheldon, K. M., King, L., Why positive psychology is necessary,
American Psychologist, 2001, 56, p. 216-217.
Short D., Casula C., Speranza e resilienza, Angeli, Milano, 2004.
Snyder C.R., The psychology of hope, The Free Press, New York,
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Trevi M., Metafore del simbolo, Cortina, Milano, 1986.
Tricarico G., Daidalon. L’archetipo delle possibilità, Moretti & Vitali,
Bergamo, 2009.
85
I modi del pensare
Mi porto dentro un cuore, come una terra del Nord il
germe di un frutto del Sud. Cerca e cerca e non può
maturare.
Heinrich von Kleist
La speranza è la terra che permette al germe del frutto di maturare.
È il luogo psichico della potenzialità, di
ciò che è in nuce, che è in attesa che gli siano date le condizioni per provarsi, per fare
capolino e saggiare capacità e resistenza
nel confronto con la vita, nel suo bene e
nel suo male. A guidare l’analisi nella scoperta di ciò
che il paziente sa esistere, sente esistere, sta la speranza nella possibilità di capire e trasformare il mondo psichico che gli è ancora sconosciuto, superando
l’angoscia dell’ignoto e del vuoto, il terrore del male
subito e provocato. Nella sofferenza, la speranza
muove alla ricerca di aiuto, all’urlo e all’invocazione.
In analisi, dal senso della propria impotenza e perdita, dal confronto con la distruttività e la violenza, la
speranza, con il suo dar forma al divenire, prefigura
un altrove che può diventare terra promessa. Nel rapporto terapeutico la speranza fa presagire quel varco
che restituisce al senso della propria individualità la
libertà dell’autentico futuro, la possibilità di lasciarsi
cambiare dal perenne accadere della vita che si rinnova e si estingue, offrendo risorse reali nella lotta
fra l’essere e il nulla.
Le proposte di cambiamento che l’inconscio suggerisce alla coscienza, a cui, nella relazione analitica,
la speranza offre slancio, ragioni e continuità, trovano nella storia individuale e collettiva, le strutture
formali e dinamiche predisposte fin dal tempo delle
origini, pronte poi a maturare nell’originalità di ogni
invito alla vita, nel formarsi di ogni individualità.
L’uomo e il mondo sono realtà in divenire che rispondono a una spinta verso l’autorealizzazione e
proprio in questo trova fondamento l’impulso pro-
La speranza
è l’ultima
a morire
Letizia Oddo
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I modi del pensare
Letizia Oddo
pulsivo verso l’esserci , il desiderio di conoscere e di
comunicare, il bisogno di lottare e di collaborare. È
da questa risorsa che trae sostegno la valenza terapeutica attiva nella relazione analitica, il fatto, come
scrive Jung, che negli atteggiamenti di isolamento
“insulare” coi quali il nevrotico cerca di difendersi
dalla “piovra” costituita dalla sua malattia
1. C. G. Jung, “La psicologia della traslazione illustrata con l’ausilio di una
serie di immagini alchemiche” (1946), Opere, Vol.
XXVI, Boringhieri, Torino, 1981, p. 192..
“esista in qualche luogo un punto fisso, sicuro, che non debba essere precedentemente estratto dal caos”.1
La speranza può essere vissuta come quella fonte
di fiducia posta come premessa alla nostra origine, nascita, creazione, quella presenza di significati, di valori che muove all’incontro con se stessi e con gli altri,
alla rinascita, dove l’esperienza terribile del male, la
conoscenza oscena del male, a volte, non impedisce
del tutto , là dove ne siano date le possibilità in termini di umana comunanza e collaborazione, all’individualità di tornare a dire il suo nome, la sua presenza nel mondo all’insegna della sua unicità e verità.
I sintomi psicopatologici sono tentativi di soluzione dell’angoscia per questo, se nella loro valenza difensiva, alimentano i processi di scissione, là dove il
confronto con la polarità psichica dei contenuti inconsci non può essere sostenuto dalla coscienza, nella loro valenza simbolica, sono un appello alla comunicazione, sono prove di ribellione alla conformità
familiare e sociale, sono occasione di cambiamento e
scoperta. Rendere consapevole nella relazione analitica la potenzialità generativa e trasformativa attiva
nella dinamica psichica, rispondere alla chiamata
dell’inconscio, ai suoi simboli anticipatori e prospettici, rappresenta uno degli aspetti più carichi di sofferenza, di resistenza nel processo analitico. Perché
cambiare quando le difese proprie alle costruzioni
psicopatologiche offrono sicurezza e certezza? Perché cambiare, nel vuoto e nell’insignificanza del proprio essere, nella solitudine e nella violenza della sperimentata lontananza e prevaricazione? Quale è l’in-
87
La speranza è l’ultima a morire
I modi del pensare
ganno di una speranza che non salva come l’illusione, che ci consegna al tempo dei nostri limiti, alle risorse fragili delle nostre effettive capacità, al confronto difficile e sofferto con la nostra insicurezza e
precarietà, senza le fughe esaltanti dello sconfinato
dominio allucinatorio del godimento onnipotente,
senza il controllo coattivo del potere della dipendenza ? La potenzialità del nuovo è misteriosa: la speranza indica una possibilità che il credere di qualcuno in
noi e di noi in noi stessi ci offre, ma bisogna che questo credere sia sostenuto e rinnovato nel confronto
con il nostro male, bisogna esporsi alla sofferenza del
negativo, come durante il processo analitico, dove la
distruttività vissuta nella relazione di transfert, può
dare la misura di ciò che è umanamente sostenibile,
senza impazzire.
La speranza è quel sentimento fatto di consapevolezza e di esperienza che si nutre di ‘abbastanza’, di
quel tanto che basta per crescere e cambiare, per vivere e morire, sostenuti e confortati dal senso della
propria e dell’altrui umanità e dunque dalla rinuncia
all’incondizionato e all’infinito, dalla perdita del potere di voler decidere nei termini del tutto e del nulla. Hannah Arendt, dopo aver ipotizzato che gran
parte dell’attuale esaltazione della violenza sia provocata dalla profonda frustrazione della facoltà di agire
nel mondo moderno, in un’acuta analisi osserva:
“È come se fossimo vittime di un incantesimo che ci permette di fare ‘l’impossibile’ a condizione che perdiamo la capacità di fare il possibile, di realizzare cose fantasticamente
straordinarie a condizione di non essere più capaci di occuparci adeguatamente delle nostre faccende. Se il potere ha
qualcosa a che fare con il vogliamo-e-possiamo distinto dal
semplice possiamo, allora dobbiamo ammettere che il nostro
potere è diventato impotente”.2
In un mondo dominato dalla logica mistificatoria
del consumo, dove viene continuamente pubblicizzato il messaggio che “per avere basta volere” così come
“per essere basta volere”, la dimensione della speran-
2. H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma, 1996,
p. 95.
88
I modi del pensare
Letizia Oddo
za assume una valenza liberatoria, perché riconduce
nei limiti del possibile e dunque dell’effettivamente
realizzabile, la sfera del nostro desiderio e della nostra
capacità di appagamento e di realizzazione. Dalla dismisura di un volere che sempre più per esistere pretende e possiede, la speranza aiuta a presagire quella
misura che dà spessore e valore di significato alle potenzialità relative che la condizione umana offre a
ognuno di noi, nel farsi e disfarsi della storia individuale e collettiva, ad apprezzare e amare le buone sorprese della vita e, al tempo stesso, a sostenere e a contrastare, nel pensiero e nell’azione, la paura, il dolore,
le disfatte e le perdite. Come scrive Paolo Zellini nel
suo libro, Breve storia dell’infinito, non c’è nulla di più
pericoloso della perdita del limite e della misura:
3. P. Zellini, Breve storia
dell’infinito, Adelphi, Milano, 2006, p. 11.
“l’errore dell’infinito è la perdita del valore contenuto nella
relativa perfezione di ciò che è concretamente determinato e
formalmente compiuto, ed induce perciò a smarrirsi nel nulla o in un labirinto senza via d’uscita”.3
Credo che la terapia psicoanalitica sia parte del
lungo lavoro umano nella storia dove l’alternativa fra
il tutto e il nulla può risolversi nel meglio e la speranza può essere guida preziosa fra il buio dell’assoluto sconforto e il lampo dell’assoluto splendore. In
una dinamica psichica sempre più dominata dagli
imperativi del sistema di mercato dove avere è possedere ciò che è sempre a disposizione, pronto, già lì
per te, proprio per te, la dimensione della ricerca legata al dubbio, al conflitto con l’ovvio, al confronto
con la complessità, diviene impresa inutile, perdita di
tempo, per una soggettività che si riconosce riuscita
solo nell’esclusione di ogni alterità, nel godimento
immediato e nella prestazione vincente. Come scrive
Jung, con parole di ferma pacatezza:
“Il compimento e la pienezza della vita richiedono equilibrio
tra dolore e gioia; essendo il dolore sgradevole, è naturale tuttavia che si preferisca non misurare mai a quanti timori e affanni sia destinato l’uomo. Perciò si parla sempre in tono ras-
89
La speranza è l’ultima a morire
sicurante del progresso e della massima felicità possibile, senza riflettere che la felicità stessa è avvelenata e la misura del
dolore non è stata colmata. Spesso dietro le nevrosi si nasconde tutto il dolore naturale e necessario che non siamo
disposti a tollerare”.4
Opposta alla promessa di continuo progresso, crescita, possesso e consumo dei nostri tempi, nel discorso predatorio e cannibalico della psicosi collettiva
dominante, dove tu per essere devi essere sempre di
più perché l’altro non sia, contro di te, al tuo posto,
la speranza si propone con tutta la sua vacillante incertezza, come quel ponte lasciato aperto e sospeso
sul futuro, nella mancanza di controllo, di gestione,
di efficienza e rendimento, unica sua forza la verità
dell’autenticità di una umanità che si interroga e che
chiede, sollevando il problema del significato nella
storia, volgendosi all’altro, in sé e fuori di sé.
In una seduta analitica di una terapia che dura da
anni, una paziente, con voce titubante e vergognosa,
mi confessa che durante la celebrazione della Messa,
nel corso della consacrazione dell’ostia, le sorge
spontanea l’immagine della via di Mezzo del proprio
paese di sabato pomeriggio, dove ha vissuto gli unici
momenti sereni con i suoi genitori, ormai morti. Vede il paese e la gente che cammina per la via dall’alto, aggrappata al muro della Chiesa e vive un senso di
serenità e di familiarità. Riconoscere il nesso di speranza che lega il gesto che celebra l’Incarnazione di
Cristo all’unico ricordo dolce della sua infanzia, le
costa uno sforzo enorme, quasi il senso di un’umiliazione, per dover infrangere il sentimento di odio e di
rancore che ha dato forza alla sua vita, chiusa nell’autosufficienza del non chiedere e del non aver bisogno, nella sua ostinata autoesclusione, lei che da
bambina troppo spaventosamente ha sofferto per
aver amato e creduto. Dal vuoto di desideri, di piacere, di attese della sua depressione, vuoto pazientemente, metodicamente costruito e disciplinato, suo
malgrado, emerge questa immagine dalla sua mente,
I modi del pensare
4. C. G. Jung, op.cit. p. 92
90
I modi del pensare
Letizia Oddo
che la turba e la sconcerta. Nell’offerta di sé di Dio
agli uomini, nel suo farsi uomo insieme a loro, nel
suo essere “Spirito vivificante”(Paolo, Rom.8,11) nella speranza della resurrezione, riemerge in lei quel
senso di apertura all’altro, il suo essere parte del muro della chiesa, del paese, della gente che passeggia,
dei suoi genitori, nella serenità di un affidamento sicuro, nella pace della partecipazione, che l’autosufficienza onnipotente della sua depressione, il suo svuotare sé e il mondo, aveva eliminato in un rifiuto radicale di ogni forma di gioia, di condivisione, di riconciliazione.
La speranza è questa consapevole determinazione
che non vuole vincere, che sa di non poter vincere
sulla realtà storica dell’umana alienazione, povertà e
sofferenza, ma che non rinuncia a ribadire il valore
di legami e di presenze attive nella nostra sfera psichica e nel nostro agire sociale, volte alla scoperta di
quella nascita, prima nella natura poi, tante volte,
nella cultura, la nascita del bene come promessa. La
dimensione della trascendenza diviene allora riconquista continua di quell’orizzonte di consapevolezza
costituito dalla sfera dei valori, dei significati, dei diritti universali, di ciò che ci è dovuto, gli uni agli altri, dal senso costitutivo della nostra umanità.
Una giovane paziente, dal confronto con la sua
storia, il padre l’ha abbandonata e non la vuole vedere da anni dopo aver costretto lei e la sua famiglia
a lasciare la loro casa e essersi gettato in continue avventure sessuali, nel corso di una seduta psicoanalitica racconta questo sogno:
“Mi trovavo in un mobilificio, dovevo comprare mobili
per la mia casa. In quel mobilificio c’erano persone che facevano sesso folle, sfrenato, non pensavano a niente, solo al
loro piacere. Mentre passavo, li vedevo e pensavo, ma non
si vergognano? Non lo sanno che sono cose intime? È un atto importante, potrebbero nascere dei bambini. Continuavo
a girare cercando dei mobili, a un certo punto trovo una
91
La speranza è l’ultima a morire
bimba appena nata, ancora sporca, sembrava abbandonata, la pulisco, la tengo in braccio, poverina, non ti ha voluto nessuno perché nessuno sapeva che potevi arrivare…”
La paziente nel sogno si interroga, rifiuta l’orizzonte perverso di un’appropriazione consumistica
fatta di soli corpi, di esibizione, di passaggi all’atto,
senza pudore e intimità, senza vergogna. Nel sogno
da una sessualità freneticamente dissipativa, dispersa
nell’immediatezza ripetitiva, perennemente insoddisfatta e incontinente, avviene l’incontro con la bambina che è abbandonata proprio perché non è nata
da un’unione d’amore che si immerge nella vita, da
un parto che genera vita, perché non conosce quella
forza creativa che dà forma e sostanza, che è legame
spirituale e carnale con l’altro. Nel parlare del sogno
la paziente, con dolorosa intensità, ricorda che i suoi
genitori non avevano preparato per lei un nome prima della sua nascita. La ragazza del sogno, che cerca
i mobili per arredare la sua casa, pulisce la bambina,
l’abbraccia, la conosce come presenza di vita nel
mondo, come chiamata di vita al mondo. Nel sogno
è l’accoglimento della bambina rifiutata e abbandonata che esprime la spinta a esistere dell’individualità, nell’ integrazione della scissione da una sensorialità scorporata, frantumata in una sessualità indistinta, caotica, convulsa a una dimensione affettiva che
implica l’ampliamento del Sé, in una relazionalità vissuta nel riconoscimento e nell’ accudimento.
La paziente vivendo in seduta il sogno lo interpreta dicendo che quella bambina abbandonata è lei nel
suo sporco. Ha sempre pensato che gli altri potessero
provare solo repulsione e ostilità nei suoi confronti,
che se la conoscessero veramente, per come è, non sarebbero dolci con lei… Ma ora a volte pensa: se io sono capace di affetto perché non possono esserlo gli altri con me? L’abbraccio nel sogno ripara la bambina
dall’abbandono, dalla sua esposizione e inermità, il
gesto che la pulisce la immette nella ritualità delle cu-
I modi del pensare
92
I modi del pensare
Letizia Oddo
re che scandiscono il tempo in un ordine di senso e la
purifica dallo sporco di un contatto che la svaluta nell’identificazione della paziente con l’onnipotenza carica di disprezzo delle sue proiezioni persecutorie.
Nel pensiero teologico del Cristianesimo, la Speranza insieme alla Fede e alla Carità è definita una
delle tre virtù teologali. Nel pensiero del nostro tempo, l’assenza di speranza è considerata uno degli elementi fondamentali che ostacolano, a livello individuale e collettivo, il senso di una comune appartenenza al mondo, la consapevolezza di una responsabilità condivisa. Nell’attesa escatologica della resurrezione, nell’ avvento del Regno di Dio, la teologia del
Cristianesimo offre ai credenti la speranza nella giustizia eterna: “secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia ”( 2 Pietr.3,13) In una visione laica, la speranza legata alla ricerca della giustizia nella
storia, della pace nel mondo, è spinta verso una idealità che si oppone al diffuso conformismo, alla logica
del dominio e all’inevitabilità della resa al principio
della compiacenza e della convenienza. Far vivere la
domanda di giustizia della speranza è una via per riappropriarsi del senso della propria individualità, per
costruire un approccio creativo alla realtà, per evocare un orizzonte di possibilità diverse e alternative, nell’attivazione di una dimensione spirituale dove la trasformazione in se stessi passa dalla relazione con l’altro nel mondo, in uno spirito di vissuta comunanza.
Sostenere la domanda di giustizia della speranza è
fonte di inquietudine, nella contingenza della storia,
il senso della soggettività deve patire l’impotenza dell’atroce ingiustizia che lacera la realtà, assumere la
propria insufficienza come costitutiva, senza risoluzione definitiva, senza salvezza. La ricerca di giustizia
nella speranza è domanda di autenticità, contro l’inganno della mistificazione, contro il tradimento della
simulazione. Nel nostro tempo, dominato dalla logica
93
La speranza è l’ultima a morire
omologante del mercato, la soggettività tende a disperdersi in immagini precostituite di noi stessi, in una
fuoriuscita di contenuti psichici nella sfera dell’illusorio e del virtuale , in una emorragia che rende esangue il senso della propria individualità impossibilitata
a definirsi in esperienze significative di riferimento, in
relazioni affettive stabili e affidabili. Viviamo veloci e
mobili in un mondo-globo chiuso e sospeso, in una
vertigine narcisistica autoreferenziale, dove all’alienazione si risponde con l’accumulazione, alla solitudine
con l’esclusione. Forse l’esperienza analitica che si
nutre di speranza, luogo di integrazione e di realizzazione psichica, nel rischio dell’incontro con l’inconscio, con le aperture, le contaminazioni, le alterazioni
dell’essere in relazione, può divenire ambito di confronto e riflessione sulle possibilità attuali per continuare a vivere la speranza come una domanda fondamentale di verità, di giustizia e di bene che gli esseri
umani possono provare a porre come direttrice della
loro vita, nel nostro mondo comune.
I modi del pensare
95
Riflessioni di clinica junghiana
INTRODUZIONE
Il busto di ferro:
la funzione
pre-generatrice
della
supervisione
Un dialogo sulla supervisione: un’analista didatta e un’allieva raccontano storie
di allievi e di didatti, di supervisioni e di
analisi. Due generazioni si confrontano,
stratificando significati più o meno convergenti.
Mentre l’allieva oscilla nel racconto
fra la terza e la prima persona, l’analista
sottolinea lo sviluppo della condizione
triadica in supervisione. Episodi e percorsi didattici.
La speranza come capacità di poter
accogliere il nuovo e il cambiamento, la
speranza come possibilità di imparare una resistenza
a due.
Accanto ai diversi temi, l’accezione etica della speranza in supervisione viene sottesa e a tratti nominata dalle due autrici.
Lo stesso articolo qui presentato è un lavoro a quattro mani, un confronto e una relazione sperimentata
come antidoto al silenzio della mente, in un insegnamento tutto junghiano di “rapport” fra le parti.
“Allora fui costretta a chiedermi
di qual sorta di resistente sostanza
sono le corde che ci legano alla vita”
(Cassandra, C. Wolf)
LA SCELTA DEL PAZIENTE
Mi sono chiesta più volte perché decidiamo di
portare in supervisione un paziente e non un altro,
cosa e chi ci spinge a fare quella scelta. La decisione,
nel tempo che intercorre tra una telefonata e un primo appuntamento, ha visto cadere come scarti tutte
Katia Rossetti
96
Riflessioni di clinica junghiana
Katia Rossetti
le vignette cliniche e i casi atti a dimostrare una teoria, oppure una capacità, che tra l’altro appare ancora come un atto d’intuizione. E la mente, a tratti, si
ferma lì, nella vignetta che ancora si deve disegnare,
nel punto morto, dove non si sa dove si è, perché e,
soprattutto, cosa fare. Il luogo è la paziente apparentemente più lontana, quasi irraggiungibile, a contatto con la quale la mente del terapeuta si ferma. Pace
fatta con il bisogno di “far bella figura”, e non mi soffermo sulle intuibili considerazioni a riguardo, si va.
Mentre scrivo mi accorgo che, per contrasto, in parte salito dall’inconscio, il vuoto addosso di e da quella paziente porta alla memoria una dimensione propria dell’analista didatta scelta per la supervisione: “il
gioco è una cosa seria”. Inizia così l’esperienza didattica sul lavoro analitico con Maria.
La paziente, cinquantacinque anni, arriva al servizio psichiatrico territoriale a causa di una fobia specifica per i cani, sintomo insorto all’età di sette anni, diventato invalidante negli ultimi mesi a causa dell’arrivo di una nuova vicina in compagnia di un grosso cane. La richiesta dello psichiatra, dopo la visita iniziale,
è di una terapia cognitivo comportamentale incentrata sul sintomo, per una durata di massimo sei mesi.
Come sempre avviene all’interno dei servizi, si fa con
quel che si ha: una tirocinante in formazione analitica junghiana. La richiesta esplicita iniziale è di avere
la certificazione medica per poter denunciare la vicina e far fuori il cane, credo neanche troppo metaforicamente. Per mesi e mesi nessun accenno alla fobia
come problema soggettivo, ma soltanto come conseguenza del comportamento persecutorio della proprietaria del cane. La cosa certa è che, quando arriva
al Servizio, Maria è letteralmente murata in casa: non
esce se non accompagnata dal marito, che dovrà ad
ogni movimento mettere in scena un rituale di sicurezza, precendendola sempre per accertarsi dell’assenza nei paraggi di qualsiasi forma canina. E questo
vale anche per ogni affaccio alla finestre o al balcone,
97
Il busto di ferro...
perché “il cane potrebbe sempre saltare da una finestra all’altra”. Maria già dai primi colloqui si presenta
come refrattaria ad ogni intervento di tipo interpretativo/analitico, tutto è riportato automaticamente a
quella che noi definiamo realtà esterna: la vicina, il lavoro, la gestione della casa, psicologa compresa. Maria, una donna ben vestita, sobria nei modi e nei gesti,
come si conviene, quasi troppo, troverà poi una delle
sue narrazioni proprio in sede di supervisione: “qualcuno di anormalmente normale”.1
IL CANE DI TRAVERSO
A far da testimoni per lunghi mesi a quel luogo
desertico che mi aveva spinta a scegliere proprio lei,
forse per quell’istinto puntuale di sopravvivenza, sono stati i protocolli osservativi delle sedute, le ore
passate con Maria e il tempo della supervisione. Ovviamente di sogni non ce n’erano: Maria non ha mai
ricordato (tentata di dire “fatto”) un sogno in tutta la
sua vita. Si presenta così uno dei casi discussi durante la formazione all’istituto analitico: i nuovi pazienti, coloro i quali rischiano di scardinare una tecnica e
la sua ereditarietà attraverso le generazioni analitiche. Sono quelli che non sognano, non associano,
sembrano non esserci e non stare alle regole di base:
sogni, associazioni, interpretazioni. Pazienti difficili
o, mi piace pensare, pazienti per i quali la ricerca clinica ha ancora molto da scoprire.
Ora il ricordo ovattato di una serie infinita di ore
passate con Maria, il cane e la sensazione di non riuscire a capire cosa fare, una corsa ad ostacoli rimanendo fermi sul posto, senza avanzare di un passo. I
tre personaggi della storia, l’analista didatta, l’allieva
e la paziente, si presentavano scollegati fra di loro,
eppure lo sguardo delle tre non ha mai tentato altre
direzioni: una ha continuato a presentarsi a tutte le
sedute, l’altra con curiosità e pazienza a ricevere i
Riflessioni di clinica junghiana
1. C. Bollas (1987), L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma 2001, p. 143.
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Riflessioni di clinica junghiana
2. T. H. Ogden (2005),
L’arte della psicoanalisi,
Cortina, Milano 2008 p. 5.
3. A. Ferro, Tecnica e creatività, Cortina, Milano
2006.
Katia Rossetti
protocolli ed io con grande fatica ad esserci.
Nel frattempo arriva in seduta il racconto dell’episodio che Maria descrive come causa della fobia
per i cani: “Avevo sette anni, stavo andando a scuola
in bicicletta, quando, passando davanti alla casa dei
vicini in campagna, il loro cane si è lanciato contro di
me, abbaiando, con la bava alla bocca, fino a che non
è finita la catena proprio ad un passo da me, io terrorizzata e immobile sono rimasta accanto alla mia
bici che intanto era caduta a terra. Il cane era rimasto in verticale con la catena che lo teneva poco distante da me”. Così nel frattempo il cane in seduta,
protagonista assoluto, arriva all’improvviso, attacca,
occupa lo spazio, toglie il respiro, a ricordo (ripetizione) di quel primo incontro in cui il cane si lancia
verso Maria e resta in piedi fino allo strappo al collo
della catena. Il cane, unico elemento rappresentativo
emerso durante gran parte della terapia, sarà il contenitore di una soggettività escorporata dalla paziente, contenente un quantum di violenza e aggressività,
che diventerà l’oggetto/soggetto persecutorio per
eccellenza. Maria intanto e accanto a tutto ciò arriva
in seduta, si siede, elenca una serie di fatti avvenuti
durante la settimana, senza desiderio, emozioni, immagini. Il pensare operatorio,2 descrittivo, parla di
Maria che non c’è. Nel racconto dell’evento il punto
osservativo è come se sfumasse di continuo, senza essere né dentro né fuori dal racconto. Una procedura
di stallo invade lo spazio mentre a guardia rimane il
cane, pronto all’attacco ad ogni pie’ sospinto d’interpretazione (d’aria), e intanto la terapeuta, immobile, è all’angolo.
La supervisione assume così carattere d’urgenza.
Come urgente diventa l’individuare all’interno delle
sedute le narrazioni dotate di senso, i “pittogrammi
emotivi”,3 in assenza assoluta di sogni e/o immagini.
Sarà così che Maria descriverà la dinamica sottesa al
sintomo e al funzionamento mentale attivo in questa
parte della nostra storia: “Ieri sera mio marito ha in-
99
Il busto di ferro...
contrato il vicino con il cane a guinzaglio che gli ha
detto: o mi spieghi quello che sta succedendo oppure non passi, mettendo di traverso il cane lungo la
scala ad impedire il passaggio”. Era proprio quello
che stava accadendo: un cane di traverso impediva il
passaggio ed esigeva con forza e aggressività una spiegazione, una narrazione possibile a ciò che ancora
doveva accadere. Una situazione paradossale dalla
quale sembrava impossibile uscire.
Le immagini significative erano comunque rarissime e non sopperivano alla noia e al vuoto continuo
delle sedute che suonavano così: “Ora che c’è la vicina, non basta più.. devo fare in modo che la vicina allontani il cane per risolvere il problema”; “Sto sempre uguale, non cambia nulla”; “A volte ho l’impressione che non ci sia più speranza, è sempre peggio, il
cane occupa sempre più spazio, è sempre su e giù per
la scale (e sbuffa)”; “Ma poi, quando torno a casa c’è
sempre il cane, c’è sempre!”; “Questi momenti sono
belli, se non fosse che prima o poi arriva il cane...”;
“Non so cosa dire, è sempre la stessa cosa, il cane...”
Questo è il materiale che verrà presentato e, ancor
più, ripetuto in supervisione, così come verrà ripetuto il tentativo dell’analista didatta di svegliare/vedere
i luoghi e le persone della storia. L’attivazione di un
“pensiero onirico della veglia”4 assieme ad una buona
dose di pazienza, da parte dell’analista didatta hanno
permesso di poter tessere fin dall’inizio almeno la
trama principale di una storia, anche se futura e per
lungo tempo mai presente.
Mi occorre a questo punto fare una precisazione:
l’immobilismo delle sedute con Maria riguarda una
caratteristica procedurale, si presenta secondo un copione, una messa in azione durante la seduta, che
non solo invade la comunicazione di Maria, ma l’intero campo analitico e relazionale in cui la terapeuta
si trova parte attiva nella scena. Avviene ciò che alcuni autori hanno chiamato “enactment”,5 nel considerare l’analista e il paziente in una relazione reciproca,
Riflessioni di clinica junghiana
4. A. Ferro, Nella stanza
d’analisi, Cortina, Milano.
5. I. Hirsch, “Observingpartecipation,
mutual
enactement, and the new
classical model” in Contemporary Psychoanlysis,
1996, n. 3.
100
Riflessioni di clinica junghiana
Katia Rossetti
in quello che Jung ha chiamato “l’incontro tra due
mondi”, che si compenetrano e si trasformano a vicenda. Ciò che può assumere significato avviene in
seduta: le posizioni e i movimenti dei due protagonisti di quella piccola storia messa in scena sono estremamente utili a ricavare segni transferali e controtransferali.
Accanto alla scena del cane dei traverso, un nuovo racconto descriverà lo stato di Maria e della coppia analitica, l’immagine che dà il titolo al presente
lavoro: “Da piccola mi avevano messo un busto per la
scoliosi, di quelli di ferro, rigido e avevo anche le
scarpe ortopediche, ricordo che era inverno e c’era
la neve, correvo con gli altri bambini quando sono
scivolata perché anche le scarpe erano di ferro...sono
caduta e la piastra del busto ha strappato tutto il vestito”. Tutto era di ferro, freddo, durissimo, tagliente.
Non era possibile giocare con la neve, assieme agli altri, come facevano tutti i bambini. Non era possibile
correre. Era vietato piegarsi e bagnarsi con la neve.
La punizione al solo tentativo era lo strappo del vestito, magari proprio del più bello. A questo lontano
ricordo e troppo lontano tentativo, si sovrappongono
decenni di strategie di evitamento della neve e del cane. Prende forma ciò di cui ho accennato nell’apertura del presente lavoro: un clima normotico che invaderà l’intero campo analitico. Prendendo spunto
dalla descrizione di Bollas sulla patologia normotica,
ho potuto sperimentare come una patologia associata ad un paziente possa infettare l’intero clima analitico, forse anche grazie a fenomeni quali l’enactment
all’interno della stessa relazione analitica.
“Se la malattia psicotica è caratterizzata da una rottura dell’orientamento di realtà e da una perdita di contatto con il
mondo reale, allora la malattia normotica consiste in una rottura radicale della soggettività e nell’assoluta assenza dell’elemento soggettivo nella vita quotidiana. Coma la malattia psicotica è caratterizzata dal rivolgersi esclusivamente al mondo
della fantasia e dell’allucinazione, così la malattia normotica
101
Il busto di ferro...
può essere definita come il rivolgersi esclusivamente agli oggetti concreti e al comportamento convenzionale. Il normotico fugge la vita onirica, gli stati mentali soggettivi, l’immaginazione e il gioco aggressivo differenziato con gli altri (...)
Si può dire che se lo psicotico è precipitato nella profondità,
il normotico è precipitato nella superficialità (...) una biblioteca di oggetti concreti”.6
Ciò che ha reso asfittico e senza speranza il lavoro
con questa paziente è stata la ripetizione di pattern e
climi relazionali con una forte impronta normotica e
non vitale, come se il tempo non dovesse mai iniziare, in cui la stessa terapeuta ha ottenuto un ruolo attivo e partecipativo. Così avviene in supervisione: con
grande noia e fatica preparo i protocolli osservativi,
arrivo nello studio dell’analista didatta, comincio a
leggere, mono-tono, senza entusiasmi, non aggiungo
altro alla lettura della trascrizione delle sedute, se
non un vago e indefinibile senso di noia e di stanchezza. Una noia che non viene associata ad una forma di difesa da contenuti particolarmente dolorosi o
pericolosi, ma da una situazione in cui la mente della paziente quasi priva di ogni segnale vitale, blocca e
spegne la mente della stessa terapeuta. Questo è il clima che aleggia nei primi lunghi mesi di terapia.
Riflessioni di clinica junghiana
6. C. Bollas (1987), L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma 2001, p. 152.
IL CONTAGIO PSICHICO
La disponibilità all’infezione psichica nell’incontro con il paziente e dei rischi connessi (Jung, 1935),
è associata all’importanza, anche etica, della didattica nella formazione analitica, nell’accezione tutta
junghiana che
“come il medico corre il pericolo di infettarsi, così lo psicoterapeuta è esposto al rischio di infezioni psichiche, non meno
pericolose di quelle fisiche: egli rischia cioè da un lato di essere coinvolto nelle nevrosi dei suoi pazienti; dall’altro se cerca di proteggersi troppo alla loro influenza, rischia di privarsi
egli stesso della propria efficacia terapeutica. Il rischio, ma anche il successo della cura, si trova così tra Scilla e Cariddi”.7
7. C. G. Jung, vol XVI p.
22.
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Riflessioni di clinica junghiana
8. C. G. Jung, vol XVI p.
89.
Katia Rossetti
Ciò che in termini junghiani chiamiamo infezione
psichica credo abbia a che fare, oltre che con il difficile e rischioso equilibrio che cita Jung, anche con la
possibilità o ancora più probabilmente con la fatalità
con ci si trova a sentire e a sperimentare ciò che il paziente sente, ad interagire con lui nelle modalità sue
proprie, dove non c’è un inizio e una fine, una causa
e un effetto, come potremmo riconoscere nella sequenzialità spesso chiara del gioco di tranfert e controtranfert, o nell’identificazione proiettiva, ma in un
tempo azzerato, in cui l’accadimento psichico è lì,
noi siamo lì, e lo sforzo diventa necessariamente il recuperare quel tempo attraverso la memoria dell’immagine di ciò che abbiamo sperimentato, in questo
caso attraverso il prezioso strumento della supervisione. Il vedere, l’ascoltare con gli occhi, un esercizio
nato assieme all’analista didatta: ricostruire per poterla vedere la scena della seduta, cercare di lavorare,
di so-stare, con quel che c’è, anche con l’apparente
nulla, se necessario.
Consapevole, spero abbastanza, dei rischi sottesi
alle infezioni psichiche possibili, credo che, aver avuto la possiblità di infettarmi nel corso di una supervisione, abbia in qualche modo messo in sicurezza la
paziente e chi scrive, oggi sopravvissute (almeno a
questo tratto di vita) e con la possibilità di imparare
le regole del gioco e il gioco stesso. Consapevolezza
questa che ritengo necessaria non soltanto in termini puramente tecnici ma anche etici, perché prima di
tutto, come S. Chiesa scrive nel suo lavoro, utilizzando la metafora della guida, occorre essere tranquilli
che non si vada fuori strada e che la cura del paziente rimanga prioritaria. Alla mente mi tornano le diverse esortazioni etiche di Jung disseminate in quasi
tutti i suoi scritti, una più di altre: l’analista “non potrà mai portare un paziente più in là di dove è arrivato lui stesso”8 (Jung, 1943).
Il contagio diventa corporeo: durante una seduta
la terapeuta ha la sensazione fortissima di svenire.
103
Il busto di ferro...
Per poter reagire e contrastare il verificarsi di una situazione alquanto spiacevole per entrambe, deve
muoversi, scrollarsi sulla sedia, impiegare tutte le poche energie rimaste per movimenti impercettibili ma
salvifici da uno svenimento assicurato. Il corpo così
entra prepotente in seduta a dichiarare in modo inconfutabile cosa stava accadendo e come poter emergere da quel vortice: occorre trovare la forza e la modalità di attivarsi, senza correre il rischio, più volte
corso, di numerosi e puntuali agiti nei confronti di
Maria.
LA TELEFONATA
Arrivano numerose e puntuali anche le domande.
Come fare in modo che Maria possa muoversi? Come
riuscire a sperimentare insieme la piacevole sensazione sentita dopo il malore avuto: la si è scampata, ci si
sente leggeri, il sudore diventa fresco, si respira a pieni polmoni per poi riprendere senza perdere il filo.
Questa diventa la scommessa, la ricerca di una possibile azione terapeutica.
E avviene che la realtà esterna entra nella stanza
di analisi, che un accadimento esterno porti in seduta un carico di materiale a scompaginare il quadro. È così che Maria un giorno entra in seduta e
racconta di aver appena appreso che il marito ha
una grave patologia tumorale associata ad una necrosi ossea. Ancora una volta il corpo della terapeuta parla al posto della paziente, attraverso dei dolorosi crampi allo stomaco, di un sordo dolore, sordo
a Maria, la quale si preoccupa di chi potrà poi, una
volta in cui il marito non ci sarà più, accompagnarla
fuori casa. Inutile ogni tentativo di avvicinarla ai possibili aspetti emotivi che caricano l’arrivo di una tale
notizia, così come inutili saranno i miei interventi,
nel timore di un crollo della paziente, di ribadire lo
spazio analitico come possibilità, anche solo conte-
Riflessioni di clinica junghiana
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Riflessioni di clinica junghiana
Katia Rossetti
nitiva, durante tutto periodo degli accertamenti diagnostici e dell’intervento chirurgico. Avevo completamente tralasciato, memore delle classiche indicazioni analitiche sull’importanza della costanza dei
tempi e degli spazi in analisi, l’assenza totale in Maria di qualsiasi senso simbolico di uno spazio e di un
tempo pensabili. Si verifica un altro momento di stallo e mi viene suggerito dall’analista didatta un tentativo, da me colto anche con un certo sconcerto di
allieva derivato dalla formula che alcune cose in analisi non si possano fare mai: telefonare alla paziente
il giorno dell’intervento del marito per sapere com’è andata l’operazione e come sta lei. A quel contatto diretto, accolto da Maria, sola e in stato di svenimento rispetto a ciò che le stava accadendo intorno, seguirà il seguente racconto: “In ospedale, tra
tutti i parenti che venivano a trovare mio marito, ce
n’era uno soltanto che sapeva come comportarsi.
Lui arrivava, si sedeva su una sedia, in silenzio, e tu
sapevi che lui c’era, anche se non lo vedevi se avevi
bisogno lui era là.... e poi se c’era troppa folla lui
usciva, e poi rientrava da solo quando tutti gli altri
erano andati via. Era proprio una gran sicurezza per
me”. Finalmente Maria ha la possibilità di fare esperienza della terapeuta e della terapia anche nel silenzio delle parole, anche nella lontananza concreta
dalla stanza d’analisi. Qualcosa sembra potersi fare
spazio, anzi, prima ancora della possibilità di utilizzare quel luogo, qualcosa sembra essere spazio.
Nel muoversi concretamente verso la paziente, la
terapeuta si trova nel mezzo, tra la realtà esterna e
quella interna, spostando l’asse spaziale analitico verso un luogo condiviso che, nel caso di Maria, deve essere inclinato verso il mondo esterno, concreto, fattuale. Questo movimento, consapevolmente rischioso di poter far perdere alla terapeuta, ancor prima
che alla terapia, il contatto con il mondo analitico interno proprio, della paziente e della coppia analitica,
è stato qui necessario. Ed è così che la terapeuta, so-
105
Il busto di ferro...
stenuta a sua volta dalla mente e dallo spazio dell’analista didatta, si trova a raggiungere la paziente là
dove la paziente è, a colmare il vuoto che intercorre
tra l’uno e l’altro personaggio del racconto. L’inclinazione verso il mondo esterno, in modo apparentemente paradossale, nega e segna un limite, portando
la mente della terapeuta in luoghi lontani, potenzialmente glaciali. Mi chiedo ora quanti pazienti che raggiungono i nostri studi a loro volta tollerano climi e
luoghi lontani e incomprensibili, e quanti di loro ci
aspettano in quegli spazi, così estranei alle lenti analitiche più conosciute. Avviene così che l’ascolto analitico, rischiando di essere risucchiato negli spazi angusti e non vitali delle sedute con Maria, viene tenuto in vita all’interno della supervisione. “La psicoanalisi è nella sua essenza un’impresa terapeutica che
ha lo scopo di aumentare la capacità del paziente di
essere il più possibile vivo all’interno dell’intero spettro dell’esperienza umana”.9 E se lo spazio vitale non
è in seduta, allora lo si crea in supervisione, ed è così che, nel cercare di ascoltare cosa e come viene costruito altrove, ciò che permetterà la sopravvivenza
prima e la vita dopo assieme alla paziente, appare il
binomio analista didatta e allieva come spazio a due,
bidimensionale, ancor prima che tridimensionale,
come viene descritto nel lavoro di S. Chiesa.
Lavorando a questo articolo mi sono imbattuta in
un termine mutuato dalla matematica, la funzione
generativa, in cui due rette muovendosi creano uno
spazio bidimensionale, prerogativa alla costruzione
di ulteriori spazi. Credo che sia proprio ciò che è avvenuto in questa esperienza di supervisione: un esercizio a due, prima del tre, apparentemente piatto,
privo di profondità e pieghe analitiche, in un a-priori dell’esperienza soggettiva e relazionale, per avvicinarsi ai contenuti non vitali, normotici, meccanici,
che non hanno a che fare con la vita di cui parla Ogden, dove il gioco ancora deve avere inizio.
Riflessioni di clinica junghiana
9. T. H. Ogden (2005),
L’arte della psicoanalisi,
Cortina, Milano 2008 p. 9.
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Riflessioni di clinica junghiana
Katia Rossetti
IL GIARDINO DEI GATTINI
10. T. H. Ogden (2005),
L’arte della psicoanalisi, Cortina, Milano 2008 p. 67.
Ciò che non è stato vissuto da Maria all’interno
dello spettro della propria esistenza, e quindi anche
all’interno dell’esperienza terapeutica, prende la forma di un vuoto, di un luogo non ancora vissuto, disponibile però a possibili e futuri movimenti della
coppia a lavoro. Accade così ciò che, ancora, Ogden
descrive come possibile attività vitale dell’esperienza
analitica: sognare i sogni non ancora sognati.10 Maria
racconta: “Oggi ho una bella notizia, il gattino incastrato nel motore della macchina dopo diversi giorni
è riuscito ad uscire. E poi, a proposito di gatti, una
mia amica che abita in campagna ha un grande giardino e tutti i giorni si presentano tanti gattini, tutti diversi, perché sanno che lì potranno mangiare e avere
lo spazio per poter crescere (...) proprio come me”.
Maria e la sua terapeuta hanno imparato ad uscire
dall’incastro del motore, ora possono muoversi e riconoscere cosa e chi le fa mangiare e crescere. Ora
hanno il loro giardino. Ora possono fare ciò che Maria chiamerà i collegamenti, la mente della terapeuta
e quella della paziente hanno uno spazio comune dove trovarsi e lavorare insieme.
Una seduta si conclude con Maria che alzandosi
apre la porta dello studio e dice: “Questa volta la porta la apro io!” Un saluto che esprime, sorprendendo
terapeuta e analista didatta, la nascita di una mente,
pre-requisito di tutto il lavoro analitico che seguirà
l’apertura della porta. E il gioco ha inizio. Il non nato diventa non ancora nato, consentendo allo spazio
analitico di trasformarsi in una camera gestazionale
in attesa di.
Ma questa è un’altra storia.
SPERANZA COME RESISTENZA A DUE
In chiusura si aprono riflessioni e nuovi significati, si volge lo sguardo indietro e si ritrova ancora quel
107
Il busto di ferro...
movimento a ritroso che richiama una dimensione
temporale tutta particolare, forse propria dell’analisi:
la circolarità dell’esperienza analitica. La possibilità
di regredire e rimanere soltanto con la speranza che
qualcosa possa ancora accadere, che qualcosa, come
per Maria, stia già accadendo anche se fuori dalle nostre percezioni, un fenomeno carsico che noi non vediamo perché situato in zone lontane dai luoghi simbolici della psicoanalisi classica, non abituata a visitare. Prima dell’interpretazione, prima del sogno, prima dell’azione terapeutica. Richiamando il mito, la
speranza deve rimanere l’unica nell’otre di Pandora,
necessariamente vuota, pronta poi ad un nuovo ciclo.
La supervisione ha rappresentato, durante l’attraversamento di tale vuoto, una rete di sicurezza per
nuove scoperte. La retta matematica, prima ancora
di muoversi nello spazio per formare una superficie,
risulta dall’unione e dal collegamento di due punti,
il contatto tra i due appunto, l’”essere due”11 su cui
anche la coppia in analisi poggia. Mi chiedo quanto
ciò non sia legato con lo spazio analitico interno al
terapeuta; quanto questo luogo, immaginato per decenni come individuale, non sia invece duale, generato dalla coppia antica, primaria, e via via trasformata, passando anche dalla supervisione, in cui il
duale troverà nel tempo una sua sempre più duttile
struttura nel mondo interno ed esterno all’analisi. Sicuramente questa storia mi ha vista muovermi a ritroso nella formazione della mia struttura interna, a
percorrere il crearsi di quell’antica coppia e via via di
quelle coppie analitiche che hanno modellato negli
anni il mio percorso di allieva e di donna. Mi chiedo
quanto i percorsi terapeutici con i nostri pazienti permettano anche a noi nuove narrazioni possibili del
nostro essere o diventare analisti, in un gioco di differenziazioni e integrazioni di funzionamenti mentali altri da noi.
Oggi, nel pieno della mia formazione, un desiderio primo fra tutti: la consapevolezza di altre coppie
Riflessioni di clinica junghiana
11. L. Irigaray, Essere due,
Bollati Boringhieri, Torino 1994.
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Riflessioni di clinica junghiana
Katia Rossetti
possibili che non si conoscono ancora, alcune che
non conoscerò mai, uno spazio e un vuoto potenziale tra i due, forse necessari anche ai pazienti presenti e futuri, per lasciare la possibilità di imparare a giocare il proprio e l’altrui nuovo gioco, per mantenere
in vita la capacità di stupirsi in analisi, nonostante tutto. Credo che il mantenere questo desiderio dell’insaturo e dell’ancora non nato, anche quando tutto
sembra già accaduto e anche quando ci troviamo a lavorare con pazienti definiti non analizzabili, parla a
posteriori di quella capacità di resistere alle sollecitazioni disperate di menti o parti mai nate, senza nessuna apparente traccia da recuperare o da riparare.
Qui la resistenza si fa particolarmente complessa,
spingendo ad una profondità a tre, all’incrocio di diverse e possibili coppie a lavoro, cercate e trovate anche altrove.
Complice la matrice junghiana, in chiusura del lavoro, arriva un pensiero sul piano collettivo e sociale
dei temi trattati: il clima normotico, la mancanza di
spazi atti alla sollecitazione di nuove e creative soggettività, il deserto di significazione di azioni concrete e mute. Mi vengono alla mente le parole di un’altra analista didatta incontrata nella mia formazione:
l’analisi spesso si occupa su scala individuale di problemi che emergono dal piano collettivo e sociale.
Ma questa è un’altra storia ancora.
109
Riflessioni di clinica junghiana
1) TRASMISSIONE GENERAZIONALE
Il tema
della speranza
nel contesto
della
supervisione
Mi rendo conto che la resistenza provata nella stesura di questo articolo si situa nell’inevitabile lavoro di riflessione
ed elaborazione sulla mia esperienza di
analista.
In altri termini si tratta di prendere atto del trascorrere del tempo, del passare
degli anni, di ciò che è rimasto o cambiato, di fare i conti e ripensare alle prime
aspettative, all’evolversi dell’iniziale idealizzazione, a tutte le relazioni e incontri
che hanno contribuito a ciò che sono diventata oggi.
Sono riflessioni e pensieri di un tempo della vita
in cui — come scrive C. Bollas — “l’individuo vede la
sua generazione trasformata in un oggetto storico, il
passaggio da una soggettività profondamente partecipante (il Sé semplice ) all’oggettivato”.1
L’attività didattica, così come l’ incontro con ogni
candidato che chiede una supervisione, offre ogni
volta l’occasione di riflettere sulla trasformazione
delle generazioni di analisti e sulla trasmissione generazionale del sapere psicoanalitico.
Mi rivedo all’inizio della specialità in uno studio
della clinica psichiatrica, affrontare terrorizzata il primo colloquio da sola con un ricoverato affetto da una
sindrome delirante ormai cronicizzata.
Il paziente raccontava del suo essere perseguitato,
dei soprusi che doveva subire da un odioso personaggio e io non riuscivo a trattenere esclamazioni del
tipo “pazzesco! Cose da matti!…”
Uscii dal colloquio con la sensazione di essere
un’incapace, mentre il paziente mostrava di essere
pienamente soddisfatto del mio ascolto fin troppo
partecipe…Oggi direi ad un’allieva che si trovasse
nella mia situazione di allora, che quei commenti
scaturivano da un ascolto ingenuo ma autentico del-
Susanna Chiesa
1. C. Bollas, Essere un carattere, Borla ed. Roma
1995, pag 258.
110
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
l’esperienza vissuta del paziente, una modalità che
forse lo aveva fatto sentire finalmente preso in considerazione.
2) SUPERVISIONE E SPAZIO TRASFORMATIVO
2. J. Wakefield “Proiezioni di transfert in supervisione” in Supervisione, a
cura di P. Kugler, La biblioteca di Vivarium, Milano 2000.
Penso che il termine super — visione non corrisponda ad una dimensione giudicante — inevitabilmente attivata dalla situazione, oltre che dalla risonanza con il termine Superio — ma ad una visione dall’alto, superiore appunto, da parte dell’analista supervisore che garantisce al candidato uno spazio trasformativo.
Se il primo campo di relazione tra paziente e analista è centrato sui complessi elementi della cura del
paziente, il campo della supervisione comprende anche la formazione del candidato, senza tralasciare
che dal punto di vista dell’etica psicoanalitica, la cura del paziente rimane prioritaria.
La possibilità che la supervisione si configuri come spazio trasformativo è legata anche all’esistenza
di un preciso setting in cui si articola l’incontro tra il
supervisore e il candidato, un setting definito dalle
modalità di lavoro concordate tra i due soggetti, nel
più ampio contenitore dell’associazione cui aderiscono. Si confronti a questo proposito l’interessante approfondimento di Wakefield nell’articolo “Proiezioni
di tranfert in supervisione”2 dove l’Autore sottolinea
come una reale intimità in supervisione nasca dal
confronto nel rispetto dei diversi ruoli.
(Diverso è il caso di un collega che si rivolga per
una supervisione ad un analista di diversa associazione analitica, spesso con lo scopo di conoscere e confrontarsi con altre teorie, per rispondere a sollecitazioni sorte nell’attività clinica.)
Lo spazio della supervisione è un campo affollato,
un crocevia di storie: del paziente, del candidato, del
supervisore e dell’istituzione di cui il supervisore rap-
111
Il tema della speranza nel contesto della supervisione
presenta un membro delegato alla formazione dei
nuovi analisti, un punto di trasmissione di conoscenze, regole, elementi affettivi ed esperienziali.
E. Salomon, in una conferenza tenuta al Cipa
“L’etica della supervisione: prospettive archetipiche
e di sviluppo”3 riprende lo scritto di Jung sulla funzione trascendente, in cui si sottolinea come il cambiamento psichico avvenga attraverso l’emergere di
una terza posizione dall’originaria condizione di
conflitto tra opposti e approdi ad una trasformazione
che non può essere conosciuta solo dalle premesse.
Salomon applica questa condizione triadica al
campo della supervisione: “Io ritengo che la supervisione, compreso quella interna che si verifica quando
l’analista pensa ad aspetti del paziente e della relazione analitica, sia un esempio importante di “triangolazione progressiva”, in quanto consente una continua interazione con la mente di un altro in relazione ad un terzo, il paziente , che può essere pensato
perché differenziato dalla relazione diadica della
coppia paziente-analista”
Complesse e interessanti formulazioni emergono
da un articolo di A. Cwik, (Chicago) del 2006.4
L’Autore affronta il tema della supervisione considerandola come “L’arte della tintura”, facendo riferimento allo scritto di Jung sulla psicologia del
transfert.
Per Cwik obiettivo della supervisione è promuovere la più completa espressione del Sé professionale
del candidato: “Suggerisco un modello di supervisione che tiene conto del rispecchiamento del Sé professionale del candidato e dell’opportunità di insegnare attraverso una conoscenza empirica e , più importante, emozionale, esperienziale e dinamica.”
L’Autore sottolinea come il contenitore della supervisione sia un argomento complesso e propone
una rappresentazione di tre contenitori:
— il primo formato dalla coppia paziente/terapeuta,
— il secondo dal supervisore /terapeuta — che lo
Riflessioni di clinica junghiana
3. H. Salomon, L’etica della supervisione: prospettive
archetipiche e di sviluppo,
conferenza tenuta al Cipa, Milano 2007.
4. A. Cwik, Journal of
Analytical Psychology 2006 51.
112
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
contiene,
— il terzo rappresentato dall’istituzione — che contiene l’insieme formato dai primi due. Questo terzo
contenitore è più poroso e sarebbe qui che le storiche reazioni consce ed inconsce al supervisore o al
candidato da parte di altri analisti risiederebbero, come approfondirò in seguito.
Cwik sviluppa lo schema di Jung della relazione
paziente/analista illustrata nella “Psicologia del
transfert” dall’idea del terzo elemento scaturito tra i
due soggetti coinvolti, a un quarto elemento emergente dalle trasformazioni della coppia supervisore/terapeuta, fino a considerare un quinto elemento
scaturito da una coppia tra paziente / supervisore.
Per l’Autore il candidato ricrea nel campo della
supervisione dinamiche dell’analisi con il paziente e
parallelamente, ciò che accade nel campo della supervisione, si riflette nella relazione terapeuta paziente.
Tutto ciò condurrebbe ad una reazione a catena e
ad una mutua reciprocità tra tutte le parti coinvolte.
Questa dinamica sarebbe sostenuta da processi di
Identificazione Proiettiva (Gordon) visti come elementi comunicativi.
Ma l’Identificazione Proiettiva non sarebbe sufficiente a comprendere la complessità del processo e
occorre ricorrere al concetto di Mundus Imaginalis,
mondo intermedio tra il mondo cognitivo/intelletto
e il mondo sensoriale.
Il Mundus Imaginalis rappresenterebbe sia un’esperienza psichica che intersoggettiva, un’area capace di estendersi attraverso i due mondi cognitivo e di
sensazione permettendo di accedere agli indicatori
immaginali nella consapevolezza del supervisore e
del candidato, informandoli sulla natura dei rispettivi campi, supervisore/terapeuta - terapeuta/paziente. Un campo triadico con una modalità di funzionamento più sincronica che causale.
Interessante a questo proposito l’affermazione
113
Il tema della speranza nel contesto della supervisione
che ho trovato in un articolo di L. Micati : “Non sono
io che scelgo come fare la supervisione sulla base del
mio armamentario teorico-tecnico, è la situazione
che sceglie come utilizzarmi”.5
Sono questi gli spazi trasformativi della supervisione con un atteggiamento del supervisore che comprende una modalità di rêverie intesa come il lasciar
fluire pensieri più quotidiani, sentimenti, fantasie,
sogni ad occhi aperti, sensazioni fisiche.
È ciò che Jung definiva come un “abbassamento
del livello mentale”, una modalità di coscienza che
permette di accedere ai contenuti più inconsci e che
arriva talvolta a cogliere elementi predittivi sull’evoluzione della terapia.
In una supervisione la terapeuta M. espone con
chiarezza il contenuto di una seduta, mostrando di
saper contenere e comprendere il paziente.
La sua capacità mi consente di ritirarmi in uno
spazio di immaginazione, colpita da alcune parole
del paziente.
È come se potessi sognare ciò che il paziente non
sta dicendo, ma che affiora nella mia immaginazione
e che si riferisce ad un livello molto più inconscio,
con contenuti drammatici relativi a fantasie sulla relazione tra i genitori e che rimandano alla sua storia.
Comunicando la mia fantasia alla terapeuta le permetto di intravedere un piano più profondo, non ancora affrontabile, ma già presente nel paziente, che si
dipanerà nel corso della terapia.
L’anticipazione delineata dal “sogno della veglia”
del supervisore non disturba il lavoro della terapeuta
perché già sotteso nel testo del paziente, da cui la fantasia del supervisore, libero di sognare perché in presenza di un ottimo lavoro dell’analista, ha preso il via.
Problemi diversi ovviamente si pongono con candidati all’inizio, o dalla personalità troppo rigida, che
seguono l’analizzato solo ascoltando il testo manifesto e aderendo troppo agli elementi oggettivi, incapaci di insight, privi della possibilità di “sognare” il
Riflessioni di clinica junghiana
5. L. Micati, “L’esperienza della supervisione” in
Rivista di psicoanalisi 4.
2007 Borla, Roma.
114
Riflessioni di clinica junghiana
6. C. Bollas, L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma
1989.
Susanna Chiesa
paziente e di usare la terapia come spazio di trasformazione
Usando una metafora è come in un viaggio in automobile, dove il guidatore/terapeuta deve concentrarsi sulla strada, mentre il passeggero/supervisore
può cogliere visioni ben più ampie del paesaggio
Questo presuppone una “capacità” di guida del terapeuta (non possiamo guardare il paesaggio con un
guidatore col foglio rosa!) e può essere considerato
un punto di arrivo della supervisione, intesa come
percorso e non come situazione episodica.
Questa dimensione, come afferma Bollas ne L’ombra dell’oggetto,6 corrisponde ad una situazione di ricettività che permette un’evocazione da cui scaturisce non una semplice decodificazione del racconto
ma la creazione di qualcosa di nuovo.
È questo lo spazio trasformativo, sia nella relazione paziente/analista, che nella relazione supervisore/terapeuta.
Il supervisore rappresenta un terzo occhio, che
permette la visione del campo guardando anche là
dove il terapeuta, troppo preso dal processo secondario nella presentazione del materiale, non può
guardare.
Perché questo sia possibile, il supervisore deve saper attingere alla sua storia, al suo lavoro analitico, alle esperienze formative con chi lo ha aiutato a “sognare” i suoi pazienti.
3) LA SPERANZA
D. è una terapeuta colta, affettiva ed empatica, mi
ha scelto come supervisore anche per la mia formazione psichiatrica che vive come rassicurante nella
conduzione dei casi più gravi.
Lavoriamo insieme già da due anni con un buon
affiatamento, quando arriva in supervisione portando fogli con immagini che la paziente ha estratto da
115
Il tema della speranza nel contesto della supervisione
internet e le ha mostrato in seduta, senza alcun commento.
La paziente è una donna di 36 anni, borderline, in
un momento molto critico della terapia: dopo anni
di relazioni affettive disastrose, da alcuni mesi ha avviato una relazione più sana, sfociata in una convivenza, che sollecita il conflitto e la separazione da
una madre depressa, svalutante e intrusiva.
Spesso nelle supervisioni abbiamo chiamato la paziente “la pianista” per alcune evidenti similitudini
con la protagonista del film di Haneke
Il mio atteggiamento come supervisore è improntato sul contenimento delle ansie della terapeuta,
spaventata dalla gravità della paziente e dalla sua tendenza ad agiti distruttivi.
Recentemente la paziente ha attaccato la terapia e
il suo rapporto di coppia, verbalizzando il proposito
di interrompere entrambi.
D. mi porge i fogli in silenzio, replicando esattamente il gesto silenzioso della sua paziente.
Io non ho ancora messo gli occhiali e ad una prima occhiata, senza riuscire ancora a mettere a fuoco
i contorni delle immagini in bianco e nero, faccio la
fantasia che sia l’ecografia della paziente incinta.
“Aspetta un bambino?” chiedo a D.
D. mi guarda stupita.
Inforco gli occhiali e osservo le immagini: in primo piano c’è il cratere di un’esplosione e al centro
un cadavere.
La fotografia è ripetuta a diversi ingrandimenti, altre immagini mostrano particolari di corpi devastati
da esplosioni di una guerra.
Sono colpita violentemente dalla discrepanza tra
l’immagine reale e la mia “visione”.
D. è spaventata dalle immagini di morte che la paziente dice di aver scaricato da Internet come ritratto
della sua angoscia.
Nella seduta non ci sono state parole se non di
rabbia e dolore per un sentirsi andare in pezzi, bom-
Riflessioni di clinica junghiana
116
Riflessioni di clinica junghiana
7. L. Corbett, “ La supervisione e l’archetipo del
mentore” in Supervisione,
a cura di P. Kruger, La biblioteca di Vivarium, Milano 2000.
Susanna Chiesa
bardata.
Protoemozioni, paure, ansie di frammentazione
che hanno invaso la terapeuta, lasciandola attonita e
sorda, proprio come succede a chi si trovi nei pressi
di un’esplosione.
In supervisione ricostruiamo i movimenti della
paziente: l’ansia di fronte al cambiamento catastrofico, diamo parole alla paura di disintegrazione nel separarsi dalla madre, nell’immaginare una vita svincolata dal dovere di risarcirla.
(Mentre parliamo continuo ad avere in mente
un’ecografia, il ritratto non di un cadavere nel cratere di una bomba, ma di un embrione annidato nel
ventre e ricordo che un’amica mi disse di aver sognato un’esplosione atomica subito dopo aver saputo
di essere finalmente incinta.)
Insieme a D prende forma l’ipotesi che per la prima volta nella mente della paziente si configuri la
possibilità di una separazione dalla madre: la nuova
relazione, attivando il desiderio di una maternità —
ancora indicibile a sé stessa — la porterebbe a vivere
l’angoscia di un cambiamento dove sia possibile generare da una nuova coppia, una nuova vita.
La mia “svista”, generatasi nello spazio della supervisione, agisce anticipando un tema già presente
a livello inconscio nella paziente, che effettivamente
poco tempo dopo comunicherà la sua gravidanza
Nell’immediato permette alla terapeuta di non rimanere sepolta dall’esplosione ma di contenerne
l’angoscia e la distruttività, di reggere l’attesa dell’evoluzione e di avere fiducia nello sviluppo del processo terapeutico, aprendo la mente alla speranza
che al cambiamento catastrofico possa seguire l’inizio di un nuovo mondo.
L. Corbett nell’articolo “La supervisione e l’archetipo del mentore” sottolinea come sia importante
“essere aperti alle operazioni del Sé non solo in terapia, ma anche in supervisione”7 e riconoscere l’importanza della sincronicità nella supervisione.
117
Il tema della speranza nel contesto della supervisione
Possiamo aprire le porte alla speranza se siamo in
grado di sostare in una posizione che accoglie l’emergere del nuovo.
Penso sia fondamentale nella supervisione sapersi
muovere tra elementi opposti. Prendo ad esempio
l’elemento diagnostico: se chiedo al candidato di
avanzare un’ipotesi diagnostica, non è per chiudere
il paziente in una gabbia, ma per avere un punto di
partenza nel viaggio che si intraprende. È sempre un
momento interessante quando durante il cammino,
talvolta in un periodo di stanchezza, ci voltiamo e
constatiamo le differenze dall’inizio, registrando
quanta strada è stata comunque percorsa.
LA SUPERVISIONE NELLA FORMAZIONE
Come Jung sottolineava, siamo tutti immersi nello
spirito del tempo e questo oggi significa molte cose
di cui il supervisore deve sempre tenere conto: il
cambiamento della patologia, il prevalere tra i pazienti di strutture narcisistiche che mettono a dura
prova anche gli analisti più esperti con dinamiche di
svalutazione, il dilagare del vuoto.
Il terapeuta, specie se all’inizio, si trova a fare i
conti innanzitutto con le proprie ferite narcisistiche,
con la capacità di tenuta davanti agli attacchi paralizzanti del paziente.
“Porto questo paziente in supervisione perché
con lui/lei non riesco a pensare a niente, provo solo
noia, un senso di vuoto e di impotenza che mi paralizza… penso che se al mio posto ci fosse un analista
esperto tutto sarebbe diverso…”
Lavorare in supervisione con questi temi significa
innanzitutto conoscere chi sono nella maggior parte
i candidati di oggi: adulti con minori prospettive di
lavoro, spesso appesantiti dalle difficoltà economiche, costretti a impieghi sottopagati e senza certezze,
immersi in un tempo che calpesta ogni etica.
Riflessioni di clinica junghiana
118
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
Se è fondamentale come il candidato ha potuto
elaborare le proprie tematiche narcisistiche nella sua
analisi, come ha sostenuto i passaggi dai processi di
idealizzazione dell’ associazione di cui fa parte, fino
all’accettazione della realtà, compito del supervisore,
specie con i candidati più giovani, diviene allora sostenere la speranza, insegnare l’amore per il “mestiere di analista” che dovrebbe comprendere umiltà e
non superbia, senso del limite e non onnipotenza, e
soprattutto una passione per la ricerca.
Nel corso delle supervisioni è fondamentale mostrare come la noia, l’assenza di pensieri, possano essere il risultato di dinamiche che attraversano anche
l’analista più esperto, lavorare sui vissuti controtransferali in modo da animare la stanza d’analisi, scaldarla e renderla viva.
I candidati spesso si colpevolizzano quando in seduta con il paziente sono attraversati da altri pensieri, da ricordi o rimandi alla loro vita. Il senso di colpa impedisce spesso di chiedersi perché proprio in
quel momento della seduta emerga quella fantasia,
quel ricordo o pensiero, perché se si era in piena forma fino a poco prima, subentri ora uno stato di disagio, anche fisico.
Spesso mi sono trovata a chiedere al candidato di
approfondire l’emergere di queste perturbazioni, di
accoglierle e seguirle invece di censurarle.
In una seduta di supervisione una giovane analista, madre di due bambini piccoli, mi dice di avere
un ricordo frammentario di una parte della seduta
con la paziente perché si è distratta.
Le chiedo a cosa pensasse e mi risponde di essersi
trovata a ricordare e fantasticare su un momento di
gioco con i suoi figli, nell’intimità della loro stanza.
Ciò che ripensandoci la colpisce molto è l’intensità delle sensazioni, come se davvero fosse con i bambini, in un’atmosfera famigliare, calda e protetta.
Ricostruendo la seduta, si rende conto di come il
ricordo avesse occupato la sua mente mentre la pa-
119
Il tema della speranza nel contesto della supervisione
ziente parlava delle vacanze in montagna presso la famiglia della zia, una donna con cui aveva un rapporto caldo e affettuoso che compensava in parte il gelo
delle relazioni famigliari.
Diventa allora evidente nello spazio della supervisione come le immagini che avevano “distratto” l’analista fossero strettamente legate al contesto analitico.
Questo esempio mostra come l’ascolto dei movimenti controtransferali, le immagini e fantasie che
abitano la mente dell’analista al lavoro con il paziente, costituiscano un momento centrale dell’analisi.
Molti anni fa vedevo un paziente che era la mia disperazione. Arrivava, si sedeva e dopo i primi convenevoli, si chiudeva in un silenzio letargico, le palpebre
abbassate, mormorava qualche parola di risposta ai
miei tentativi di mantenere la relazione per poi tornare a chiudersi nel suo guscio. Disperata ne parlai in
supervisione, sfogando la mia delusione e impotenza.
L’analista supervisore mi ascoltò e dopo aver pensato a lungo mi chiese cosa io facessi durante quelle
interminabili sedute. Mi resi conto che un mio gesto
tipico era agitare una scatola di fiammiferi, producendo un rumore secco e continuo anche se lieve. Il
supervisore lo definì “scacciare gli spiriti” e da questa
immagine presero vita osservazioni, ipotesi e possibilità che col tempo introdussero davvero dei cambiamenti nella terapia del paziente.
Ricordo con profonda gratitudine molte osservazioni dei miei supervisori, che mi hanno permesso,
senza mai essere giudicanti, di trovare la mia modalità di analista, che mi hanno insegnato a trasformare
la bidimensionalità di storie già narrate e conosciute
in nuove configurazioni tridimensionali, aperte al
cambiamento.
Oggi come supervisore spesso ripenso alle mie
esperienze come candidata, alla paura di sbagliare e
di non aver studiato abbastanza, al confronto con un
Superio rigido e giudicante che coartava il sentire, rivedo il percorso dall’acquisizione della tecnica alla ri-
Riflessioni di clinica junghiana
120
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
cerca di uno stile personale.
Chi va in supervisione porta sempre con sé una
speranza: di diventare un bravo analista, di imparare,
di essere aiutato, di trovare risposte da offrire ai pazienti…
Talvolta i candidati, come K. Rossetti scrive nel
suo articolo, cercano nella supervisione uno spazio
dove qualcuno insegni loro a giocare perché “il gioco è una cosa seria…”., vogliono imparare il “so-stare” con quello che c’è in uno spazio pregenerativo
aperto alla speranza che qualcosa accada, che dal
vuoto affiori il nuovo.
Nella supervisione posso cercare il contenimento
e la condivisione dell’ansia, per esempio davanti al tema del suicidio. Stipuliamo polizze assicurative per
tutelarci sul piano della realtà, ma non possiamo evitare in nessun modo il pericolo del suicidio che alcuni pazienti portano con sé.
La supervisione diventa allora l’ambito in cui poterne parlare fino ad accettarne il rischio.
Ricordo lo sgomento che provai quando un paziente mi disse di aver comprato una robusta corda
che teneva sotto il letto. In supervisione riversai tutta
la mia ansia e l’analista mi aiutò a reggere il peso della responsabilità, a non fuggire dalla situazione, accettando anche l’idea che ciò potesse accadere.
Il paziente, anni dopo la fine della terapia, mentre
tenevo in braccio il suo bimbo di pochi mesi che era
venuto a farmi conoscere, riparlò di quei momenti e
mi disse “È proprio vero che si comincia a vivere
quando si accetta di poter morire”
RAPPORTO SUPERVISIONE E SOCIETÀ ANALITICA
Come Cwik nell’articolo precedentemente citato
sottolinea, l’Istituzione a cui supervisore e candidato
appartengono, rappresenta un terzo contenitore che
121
Il tema della speranza nel contesto della supervisione
comprende gli altri due contenitori della supervisione e della terapia.
In queste aree possono verificarsi diversi movimenti e tensioni che è bene considerare perchè possono crearsi alleanze-contro tra i vari membri dell’associazione: candidato, analista del candidato e
supervisori.
A mio parere problematiche irrisolte, soprattutto
nell’area narcisistica, possono configurare movimenti
di svalutazione /idealizzazione che incidono pesantemente sia nella formazione del candidato che nelle
relazioni dell’associazione. È chiaro che il confronto
aperto, anche se talvolta aspro è una delle maggiori
possibilità di cura di queste situazioni, spesso trasmesse dagli stessi passaggi generazionali degli analisti.
È evidente che il supervisore si trova ad osservare
la mente del candidato al lavoro potendo trarre considerazioni sulle modalità del suo funzionamento
mentale, ma posizioni di sfiducia nei colleghi che
hanno avuto in terapia il candidato, possono creare
“sconfinamenti” del supervisore nell’area analitica
del candidato invece di limitarsi a segnalargli aree
personali irrisolte.
Nello stesso modo il supervisore o l’analista possono attaccare con l’allievo l’attività didattica e gli organi preposti, configurando al posto di critiche aperte e
possibilità di confronto, assetti mentali di aggressività
e falsità, agiti che minano la possibilità di un buon
funzionamento dell’istituzione e dei suoi membri, situazioni che Bion definirebbe all’insegna di —K (Knowledge) e —L (Love), rischiando di alimentare un “falso Sé” nella formazione del candidato, intrappolandolo in alleanze perverse e non permettendo lo sviluppo di un autentico Sé professionale.
IL SUPERVISORE E IL PASSARE DEL TEMPO
“Una vocazione di topo di biblioteca che prima
Riflessioni di clinica junghiana
122
Riflessioni di clinica junghiana
8. F. Camon, Il mestiere di
scrittore, Garzanti, Milano
1973.
Susanna Chiesa
non avevo mai potuto seguire…adesso ha preso il sopravvento con mia piena soddisfazione, devo dire.
Non che sia diminuito il mio interesse per quello che
succede, ma non sento più la spinta ad esserci in mezzo in prima persona. È soprattutto per via del fatto che
non sono più giovane, si capisce”.8 Così scrive I. Calvino nel ’66, ha solo quarantatre anni, ma il lutto per la
morte di Vittorini lo ha colpito profondamente.
Ho letto queste righe a settembre, un mese che mi
è sempre parso strano, portatore di fine e inizio nello stesso tempo: la luce violenta dell’estate si smorza
lasciando il posto ad una luminosità più tersa e fredda. Sentivo le parole di Calvino appartenermi, descrivere bene la stanchezza di attività forzata, il bisogno di un tempo per raccogliere i pensieri, ascoltarli
risuonare, cambiare.
Il passare del tempo si riflette inevitabilmente nella vita professionale, aumenta il bisogno di introversione, di approfondire ciò che più ho imparato ad
amare con meno disponibilità a cercare diverse strade per cui vedo altri entusiasmarsi.
Tra i grandi amori mai abbandonati più di ogni altro il romanzo: il piacere di immergersi nella lettura
senza interferenze esterne, o il cinema, grande immaginario del mio tempo.
Giovedì sera ricevo in studio una giovane donna
per un colloquio di ammissione alla scuola.
È l’ultima visita della giornata e sono ovviamente
stanca. Guardo I, viene da molto lontano, ma sembra
fresca e riposata. L’ascolto raccontare di sé, del suo
lavoro e della scelta della scuola, del suo voler comunque difendere i suoi spazi privati, la sua recente
maternità…
È un incontro piacevole che mi lascia un senso di
benessere ma anche un po’ di malinconia perché
non posso ignorare i punti di contatto tra lei e me:
venticinque anni fa anch’io…
Proviamo invidia talvolta per i nostri allievi, per la
123
Il tema della speranza nel contesto della supervisione
loro energia e giovinezza? È un’ipotesi che non va mai
trascurata perché se si è molto parlato dell’invidia dei
figli troppo poco si è pensato all’invidia dei genitori e
quando questa s’insinua, mistificata dal potere, corrode e attacca ciò che incontra sul suo cammino.
Come molti che hanno scelto questo mestiere, conosco bene il bisogno di riparazione sotteso alla scelta della nostra professione, ma il passare degli anni e
gli inevitabili lutti che essi portano, impone e permette sempre più un confronto con i propri oggetti
interni.
Nella mia attività di analista ho imparato a dialogare con il “mio supervisore interno” la cui voce è fatta di tante presenze che hanno contribuito alla mia
formazione, dai primi supervisori, ai colleghi e pazienti. Sappiamo che nel nostro lavoro la formazione
non può mai avere fine, e se cambiano le modalità
non viene meno il bisogno di confrontarsi con chi abbiamo scelto come compagni di viaggio, siano essi
persone reali o testi di autori che amiamo.
Tra questi il prezioso libro di Nina Coltart, Come
sopravvivere da psicoterapeuta,9 che non ha disdegnato
di raccontare anche i piccoli accorgimenti quotidiani
per “sopravvivere piacevolmente”.
È a lei che ho pensato nel decidere di trasferire e
arredare lo studio nella mia abitazione, nel scegliere
una stanza raccolta, calda dove non mancano mai fiori freschi per allietare lo sguardo.
Tra i maestri incontrati nella vita mi accompagna
sempre l’intelligenza, la sensibilità e l’ironia di Lilia
D’Alfonso:10 spesso entravo nel suo studio stanca e
confusa e ne uscivo portando con me l’entusiasmo e
la curiosità per le ipotesi discusse, la speranza di nuove possibilità.
Col trascorrere del tempo penso sempre più che
ciò che di meglio un supervisore può trasmettere all’allievo non sono solo elementi di tecnica ma la capacità di essere curiosi, di non dare mai nulla per
scontato — anche un quadro organico — la possibilità
Riflessioni di clinica junghiana
9. N. Coltart, Come sopravvivere da psicoterapeuta,
Utet, Torino 1998.
10. Dr.ssa Lilia D’Alfonso
membro del consiglio Direttivo SPP. Milano.
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Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
di osservare e sentire davvero, di scoprire ogni volta
il proprio paziente e di aprire la mente alla speranza
del cambiamento.
Bibliografia
C. Bollas, L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma 1989.
C. Bollas, Essere un carattere, Borla ed. Roma 1995 pag 258.
F. Camon, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973.
N. Coltart, Come sopravvivere da psicoterapeuta, Utet, Torino 1998.
L. Corbett, “La supervisione e l’archetipo del mentore” in Supervisione, a cura di P. Kruger, La biblioteca di Vivarium, Milano
2000.
A. Cwik, Journal of Analytical psychology 2006 - 51.
L. Micati, “L’esperienza della supervisione”, in Rivista di psicoanalisi 4. 2007, Borla, Roma.
H. Salomon, L’etica della supervisione: prospettive archetipiche e di sviluppo, conferenza tenuta al Cipa, Milano 2007.
J. Wakefield, “Proiezioni di transfert in supervisione”, in Supervisione, a cura di P. Kugler, La biblioteca di Vivarium, Milano
2000.
125
Riflessioni di clinica junghiana
“La speranza è la sostanza della nostra vita, il suo fondo ultimo, grazie a essa siamo figli dei nostri sogni, di
ciò che non vediamo e non possiamo verificare...”
Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima.
INTRODUZIONE
Aspetti
fenomenologici
della speranza
tra esperienza
ossessiva
ed esperienza
schizofrenica
Il dizionario della Lingua Italiana G. Devoto — G. C. Oli definisce la speranza come
“ attesa fiduciosa, più o meno giustificata,
di un evento gradito o favorevole”,1 questa
è la sua prima definizione, poi subito dopo
ne dà una seconda: “aspirazione illusoria a
un vago avvenire di bene e felicità”.
Si comprende da qui come la speranza
sia un termine che si presta “alle significazioni più diverse e più ampie, a seconda delle implicazioni concettuali e delle risonanze
affettive più o meno profonde che questa parola evoca nei diversi contesti in cui può venire usata”.2
La speranza comunque si costituisce come caratteristica dell’esistenza storica dell’uomo e nella sua
storicità è un fenomeno specificatamente umano.
In questo mio contributo l’ambito di ricerca riguardo alla speranza fa riferimento a due esperienze
psicopatologiche: l’esperienza ossessiva,la più psiconevrotica delle nevrosi e l’esperienza schizofrenica,
la più psicotica delle psicosi, con un punto di passaggio tra le due: ossessione che esita in schizofrenia,
schizofrenia che “risana” in ossessione.
Dopo aver descritto come si declina la speranza
sul piano fenomenologico, nel suo orizzonte temporale e all’interno di queste due patologie, confronterò le stesse in merito alla relazione terapeutica e “all’affacciarsi della speranza” per come è comunemente intesa.
Augusto Gentili
1. G. Devoto, G.C. Oli, Dizionario della Lingua Italiana, Ed. Le Monnier (FI).
2. B. Callieri, L. Frighi,
“Aspetti fenomenologici
e clinici della speranza”,
Riv. Sper. di Freniatria, 92,
7, 1968 , p. 7.
126
Riflessioni di clinica junghiana
Augusto Gentili
ASPETTI FENOMENOLOGICI DELLA SPERANZA
3. Ibidem, p. 21.
Distinguiamo quattro aspetti fenomenologici della speranza:3
1. l’aspetto trascendente
2. l’aspetto mondano
3. l’aspetto personale
4. l’aspetto vitale
4. Penso, al riguardo, alla
vicenda commovente dei
monaci di Tibhirine in
Algeria e alla loro vocazione di: “oscuri testimoni della speranza”.
1. l’aspetto trascendente (o teologico): inquadra
la speranza nell’ambito dei valori trascendenti e coglie in essa la tensione verso il raggiungimento del
Bene Supremo, dell’Assoluto. È la speranza trascendente nel significato intransitivo di ciò che sono, della mia Salvezza, del mio rapporto con l’Aldilà4 inteso
come sostantivo.
2. L’aspetto mondano: è la speranza “secolarizzata”, è la tensione verso l’ottenimento dei beni mondani: la salute psichica o fisica, la carriera professionale, la relazione con gli altri ecc.
È la speranza nel significato transitivo di “oltrepassare”, di ciò che si può avere nel rapporto con l’aldilà inteso come avverbio.
3. L’aspetto personale: fa riferimento alla speranza sul piano dell’intersoggettività e degli affetti (amicizia, amore, fraternità ecc.). È la speranza ancorata
su di un piano antropologico di coesistenza.
4. L’aspetto vitale: è la speranza correlata alla condizione bio-psichica di base. È in rapporto ai bisogni
fondamentali dell’uomo e all’esigenza del loro soddisfacimento (cibo, casa, lavoro ecc.).
Nella nevrosi ossessiva, come cercherò di descrivere nelle pagine che seguono, si modificano soprattutto gli ultimi tre aspetti della speranza: “mondano,
personale e vitale”; nella psicosi schizofrenica si trasformano tutte e quattro le suddette declinazioni fenomenologiche.
127
Aspetti fenomenologici della speranza...
Riflessioni di clinica junghiana
SPERANZA E TEMPORALITÀ
La speranza, come attesa “fiduciosa o illusoria”, ci
rinvia comunque alla temporalità che è il “cardine”
di ogni speranza. Nel Battistero di San Giovanni, a
Firenze, nelle formelle della Porta Sud di Lorenzo
Ghiberti, la speranza è raffigurata da un angelo con
le mani protese in avanti, quasi ad abbracciare il futuro…
S. Agostino, a proposito del tempo, scrive nelle
Confessioni:5 “che cos’è dunque il tempo! Se nessuno mi interroga lo so: se volessi spiegarlo a chi mi interroga non lo so”. Aggiunge poi: “più che il passato,
il presente e il futuro sarebbe esatto dire che i tempi
sono: presente del passato, presente del presente e
presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo umano: il presente del passato è la memoria, il presente del presente
è la visione, il presente del futuro l’attesa”.
Che cos’è dunque il tempo. C’è un tempo esterno, quello delle lancette dell’orologio, del calendario; un tempo interno, nostro, quello vissuto; e soprattutto c’è un tempo, quello a cui si riferiscono le
indagini fenomenologiche di Minkowski6 e che trovano le loro radici nella filosofia bergsoniana, che
possiamo definire “assoluto”, perché trascorre al di là
di ogni scansione geometrica convenzionale (come
l’orologio, il calendario) e di ogni nostro stato d’animo: è il tempo dell’esistenza, inteso come “durata pura”. Questa durata, intraducibile esattamente nel linguaggio dei concetti, è pura successione dinamica,
compenetrazione e protensione tra il passato, il presente e il futuro in un “continuum” non riducibile ed
assimilabile al modello fisico-matematico.
H. Bergson ha spesso ripetuto che tutta la sua filosofia trae origine dall’intuizione della “durata”.7 Minkowski riprende questo tema e vede nel concetto di
“durata” un fenomeno radicale della condizione umana e nella sua dis-articolazione un elemento struttu-
5. S. Agostino, Confessioni,
libro XI, Einaudi, Torino,
2000, p. 431.
6. E. Minkowski, Trattato
di psicopatogia, Feltrinelli,
Milano, 1973.
7. M. Merleau-Ponty, Divenire in Bergson, Il Saggiatore, Milano, 1967.
128
Riflessioni di clinica junghiana
8. G. Marcel, cit. di B.
Callieri, L. Frighi, Op.
Cit. p. 9.
Augusto Gentili
rale della psicopatologia soprattutto schizofrenica.
La temporalizzazione è dunque al centro della
realtà umana, nella sua interezza e quando si disancora anche la nostra speranza, intesa come dispiegamento, uscita da sé verso le cose e ritorno su se stessi, si trasforma e si modifica, si sradica trasformando
il tempo in tempo perduto o eterno presente e comunque mai tempo rinnovato. La speranza si pone
infatti come “memoria del futuro”, come un continuo “porsi” in prospettiva dell’accadere, in un’apertura che ha “un carattere profetico”8 e che coincide
con la nostra stessa esistenzialità.
LA SPERANZA NELL’ESPERIENZA OSSESSIVA
9. C. L. Cazzullo, Psichiatria, Minarelli Ed., Roma,
1993.
La nevrosi ossessiva, è un disturbo che ha come
genesi un conflitto collocato nella storia infantile e
pre-adolescenziale del paziente e che presenta un
meccanismo di difesa profondo, complesso e in genere ben strutturato.9
Il termine ossessione deriva dal latino “obsidere”
che significa letteralmente “assediare, occupare,
bloccare”. L’ossessione è dunque un evento intrusivo, non desiderato che provoca ansietà e disagio.
La nevrosi ossessiva può essere anche compulsiva,
dal latino “compellere” cioè “spingere, costringere,
obbligare”.
Queste espressioni, l’ossessione e la compulsione,
indicano la caratteristica di pensieri e di atti che occupano la mente, si impongono alla volontà del soggetto in modo tenace e resistente ed interferiscono
con la sua libertà e le sue capacità funzionali.
In chi è affetto da nevrosi ossessiva il conflitto intrapsichico, caratterizzato da forze pulsionali rimosse
e difese dell’io, provoca un accumulo di energie sul
punto di fissazione che può essere l’idea ossessiva o
l’azione coatta che assediano anche la speranza, bloccata da una temporalizzazione immanente a circuito
129
Aspetti fenomenologici della speranza...
chiuso.
Nella nevrosi ossessiva le cose occupano lo psichico in un andirivieni che non permette “l’uscita da sé
verso le cose”, provocando una mancanza di vitalità,
seppur velata da una ostinazione e sorvegliata da
pensieri e parole che costituiscono una sorta di armatura-prigione.
L’ossessivo è costretto a mettere tra parentesi, suo
malgrado, ogni ovvietà dell’oggetto che gli appare
neutralizzandone attraverso pensieri, azioni, rituali
ogni sua presunta, sospetta pericolosità.
In questa difesa dall’angoscia e isolamento dall’affetto, l’orizzonte temporale si restringe, la speranza
riduce il suo ambito “vitale” e “personale”e diventa
contigua all’ansia come sentimento di attesa penoso,
spiacevole. L’una (l’ansia) si nutre dell’altra ( la speranza), in una coesistenza che via via consuma la speranza nel suo distendersi temporale che non è più
tempo nuovo, dispiegamento verso il futuro ma ripetizione caricaturale e scongiurante del “tutto può accadere” e del “non accadere nulla”.
L’ossessivo — scrive Van Gebsattel — è quel malato
in cui l’inibizione del divenire si traduce in una minaccia di destrutturazione delle forme vitali.10
L’ossessivo “non può sostare indisturbato presso le
cose”,11 respinge ciò che l’attira, si abbandona a ciò
che teme. Le sue ruminazioni, tra un forzarsi e un
trattenersi, sono riconducibili a una condizione di
profonda insicurezza ontologica, relativa all’incrinarsi dell’unità dell’essere-nel-mondo; il mondo manca
di familiarità, i significati mancano di stabilità, rimandano a significanti ambivalenti che sollecitano
attraverso pensieri, parole e comportamenti, refoli ritualizzati di speranza.
È una speranza però “incarcerata” che non attiva
una protensione verso il futuro ma che trattiene sulla soglia ogni decisione, purificata, in tal modo, da
ogni possibile contaminazione.
Tutto ciò limita profondamente la sua libertà, in-
Riflessioni di clinica junghiana
10. Citazione di G. Stanghellini, A. Ballerini, Ossessione e Rivelazione, Bollati Boringhieri, Torino,
1992 , p.74.
11. Ibidem, p. 58.
130
Riflessioni di clinica junghiana
Augusto Gentili
tesa come “la scelta di me stesso”, infatti, nell’ossessivo, l’incapacità di uscire da sequenze ripetitive di
pensiero e comportamento, le sue iterazioni costituiscono il paradigma di contrapposizione tra speranza
e pericolo dell’imprevisto.
L’“io non sono ancora”, come apertura, come possibilità, si trasforma in “io sono ancora” come atto che
si ripete e si chiude, chiudendosi così alla speranza
nel suo significato mondano, personale e vitale.
Nell’esperienza ossessiva è la vita a soffrire la non
vita.
LA SPERANZA NELL’ESPERIENZA SCHIZOFRENICA
Il concetto di schizofrenia, si sa, deve a Bleuler nel
1911 la sua piena formulazione, la parola deriva dal
greco schizein = scindere, dividere ed esprime in modo chiaro il nucleo patogenetico di tale malattia:
frammentazione, destrutturazione, dissociazione,
disorganizzazione della mente.
In questo mio contributo farò però riferimento soprattutto alla fenomenologia della coscienza delirante che spesso caratterizza tale affezione ed in particolare a quella fase del “trema” (dal greco “tremo” = ho
paura ), termine preso a prestito dal linguaggio teatrale, che sta a significare quello stato di tensione psichica e di timor panico che coglie l’attore prima di
andare in scena. L’espressione tedesca è “Lampenfieber” che letteralmente significa “febbre da luci”. Esso
riassume metaforicamente e letteralmente due cose:
“essere nella luce” ed essere “febbricitanti”, vale a dire quel preludio al delirio che già Jaspers aveva definito “stato d’animo delirante”.
Nella fase del “trema”, il paziente vive in una stagnante diffidenza: è vigile e attento al mondo per coglierne ed interpretarne i segni che “ rivelino”...legittimando così i suoi sospetti; qui non c’è speranza,
non c’è oltrepassamento, attesa fiduciosa, protensio-
131
Aspetti fenomenologici della speranza...
ne verso il futuro ma chiusura, arresto di ogni fluire
temporale.
Mentre l’esperienza ossessiva si arresta sulle soglie
della depersonalizzazione e della derealizzazione
senza risvegliare e/o rivelare una nuova visione del
mondo o una nuova identità, la rivelazione delirante
realizza una radicale metamorfosi dell’io e del mondo.12 L’ovvietà (ciò che si incontra “ob-viam”, ob = davanti) che ci consente la libertà sulla scena del mondo, nello schizofrenico si perde, si trasforma in messaggi, presagi, annunci, minacce. Se l’ossessivo mantiene il processo del dubitare nella sua dimensione
esternalizzata, il paziente psicotico ha un’introiezione più profonda, disorganizzante del dubbio e diventa contemporaneamente il soggetto e l’oggetto
del dubbio o, peggio ancora, la qualità dell’oggetto
emerge in modo marcato, rendendosi autonoma e
prevalendo sul soggetto che rimane confinato in
un’unica, radicale visione del mondo, perdendo così
l’esperienza mondana della speranza.
Per altro verso occorre considerare che tra ossessione e delirio vi potrebbe essere un continuum fenomenologico-dinamico. Minkowski postula l’esistenza di un disturbo generatore comune di sintomi
minori di tipo ossessivo e sintomi deliranti, costituito
dalla perdita del sentimento di intimità dell’io, attraverso il quale ci sentiamo “padroni di noi stessi”.13
Secondo Kretschmer il rapporto tra idea ossessiva
e idea delirante è dimensionale: “si tratta semplicemente di una differenza di gradi”.14
Di fatto, una specifica modalità percettiva di tipo
ossessivo, caratterizzata dal sentirsi costretto ad attribuire a un oggetto un determinato significato: il fenomeno — definito dallo psichiatra P. Matussek —“della consapevolezza simbolica”, non è facilmente distinguibile e separabile dal concetto di “ nozione delirante evocata da una percezione”15 in cui una determinata occasione percettiva attualizza, fa venire in
mente un certo pensiero. Ad esempio una mia pa-
Riflessioni di clinica junghiana
12. G. Stanghellini, A.Ballerini, Op. cit., p.17.
13. Cit. da G. Stanghellini, A. Ballerini, Op.cit , p.
48.
14. Ibidem, p. 27.
15. Ibidem, p. 19.
132
Riflessioni di clinica junghiana
Augusto Gentili
ziente si sente“costretta” a leggere in oggetti di particolare forma e consistenza (es. un sasso, una foglia,
una pozzanghera d’acqua) segni positivi o negativi
per la giornata.
Questo bisogno egodistonico che la paziente ha di
collegarsi a una percezione evidenzia come vi possa
essere un oscillare tra il mondo dell’ossessivo e il
mondo della conferma deliroide.
All’ossessione di attribuire significati agli oggetti,
alle situazioni, può accompagnarsi poi il vissuto ossessivo-sensitivo del sentirsi guardati, scrutati e su
questa base ossessioni interpretative e sensitività possono essere considerate alla stregua di stadi base prepsicotici, contigui alla rivelazione delirante, alle esperienze di passività e all’autoriferimto. D’altra parte
constatiamo, con una certa frequenza, che lo schizofrenico, quando sta clinicamente meglio, diventa ossessivo e spesso l’ossessivo, quando clinicamente si
aggrava, “lambisce” la rivelazione delirante. Ed anche
la speranza, in queste fenomeniche di passaggio deliranti-ossessive e ossessive-deliranti si modifica, si confonde, si snatura…
Lo schizofrenico, come l’ossessivo, è costretto a
mettere fra parentesi ogni ovvietà (ob-viam) dell’oggetto che ha di fronte; la differenza è che nella “rivelazione delirante” le intenzioni di significato non sono distoniche rispetto al mondo del soggetto. In questo “rovesciamento“ anche la speranza si trasforma:
l’incontro con il mondo psicotico è l’incontro con
uno sperare (o un disperare) delirante che coinvolge
tutte le quattro categorie fenomenologiche della speranza riportate all’inizio di questo lavoro. Gli aspetti
trascendenti, mondano, personale e vitale vengono
radicalmente trasformati da questo rovesciamento
cognitivo-percettivo. I pazienti schizofrenici sono immersi in un “mondo proprio” (ìdios kosmòs) e non
in un “mondo comune” (koinòs kosmòs) per cui
spesso la loro speranza è priva di quelle prospettive a
noi comprensibili e/o riportabili ad ambiti coesisten-
133
Aspetti fenomenologici della speranza...
tivi, fino ad essere sostituita da sentimenti incrollabili di certezza (nel bene e/o nel male) in quanto l’esistenza, per loro, si disancora dal tempo esterno e si
coagula in un “eterno presente” al di là del fluire del
tempo, del proiettarsi nel futuro cui la speranza appartiene: “il tempo non passa mai, si è fermato, sento il campanile che suona a mezzogiorno e mi dico
(…) è ancora mezzogiorno...”. Così percepisce il
tempo vissuto un mio paziente, in un divenire bloccato, senza alcuna speranza per sé e senza alcun progetto esistenziale.
SPERANZA E RELAZIONE TERAPEUTICA
“Quando la speranza vacilla e si ferma, quando incespica e si confonde, allora siamo già in una crisi persistente, mentre la speranza
vaga perduta e gli uomini non si capiscono tra loro riguardo a ciò
che sperano e non comprendono neppure se stessi”.
Maria Zambrano, Op. Cit.
Premessa
Cercherò di sottolineare degli aspetti generali che
riguardano la relazione terapeutica nell’esperienza
ossessiva e schizofrenica, pur consapevole dei limiti e
della parzialità di riflessioni che si astraggono dalla
realtà del singolo, dalla sua storia personale. Ogni relazione terapeutica in quanto tale, ha una sua unicità
(il nome e cognome del paziente) un suo modo di essere, una sua specificità correlata anche alla equazione personale di chi cura (il nome e cognome del terapeuta).
Dall’altra parte, pur con tutte le obiezioni di cui
sopra, alcune caratteristiche comuni della relazione
terapeutica si possono cogliere in senso descrittivo.
Cosa può fare il terapeuta?
Innanzitutto incarnare la speranza: se “davvero” il
Riflessioni di clinica junghiana
134
Riflessioni di clinica junghiana
16. J. Jacobi, La psicologia
C. G. Jung, Boringhieri,
Torino, 1976, p. 91.
17. G. Maffei, I linguaggi
della Psiche, La biblioteca
di Vivarium, Milano,
2007, p. 100.
18. Ibidem, p. 101.
19. H. Khout, Narcisismo e
Analisi del Sé, Boringhieri,
Torino, 1994, p. 45 e seg.
Augusto Gentili
terapeuta spera per quel paziente, se la sua speranza
per lui è autentica, non generica e impersonale.
Attraverso la speranza del terapeuta il paziente
può (potrebbe) prendere consapevolezza della propria mancanza di vitalità e ri-proporre uno spazio vitale, dapprima all’interno della relazione terapeutica, come un aprirsi a un possibile tempo nuovo. La
cura consiste nell’influire l’uno sull’altro: l’incontro
di due personalità è come lo miscela di due differenti corpi chimici.16
La speranza nella relazione terapeutica
con il paziente ossessivo
Scrive G. Maffei: “egli (l’ossessivo) tenta di condurre il potere interpretante al servizio della tematica ossessiva” per questo il terapeuta non dovrebbe essere “completamente coeso con il mondo ossessivo...” ma poter rivelare “un al di là”17 (speranze mondane). Aggiunge poi che le parole del terapeuta dovrebbero avere delle “sfumature affettive perché il
paziente possa percepirsi non come soggetto la cui
affettività è congelata”18 ma sentirsi lui stesso (il paziente) come presenza affettiva.
Il terapeuta può incarnare la speranza se, oltre
che sperare autenticamente, e dare alle sue parole
“sfumature affettive” si lascia anche idealizzare dal
paziente ossessivo. Infatti, a mio parere, solo una traslazione idealizzante, nell’accezione di H. Kohut,19
può favorire quel passaggio da “io ideale” più arcaico
e prevaricante a un “ideale dell’io” che pur trasmettendo mete e valori lascia più spazio, più apertura e
libertà e come tale è meno assediante e coattivo dell’io ideale.
L’ossessivo infatti, si dibatte tra narcisismo e scelta
oggettuale: vorrebbe ma non può, farebbe ma ha
paura, in un andirivieni logorante tra purezza e contaminazione, tra sacro e profano, tra affermazione e
negazione, alla ricerca di una perfezione incontami-
135
Aspetti fenomenologici della speranza...
nata che, sul piano clinico, soprattutto nell’ossessione da contaminazione, lo avvicina a volte ad un nucleo di vulnerabilità schizofrenica con una riduzione
della distanza fra sé e oggetto. In questa retropulsione l’oggetto contaminato sale, viene “risucchiato”e la
perfezione si trasforma in disgusto e putrefazione.
L’idealizzazione del terapeuta, la sua successiva e
graduale contaminazione (“l’interiorizzazione trasmutante” di Khout) possono aiutare il paziente a lasciarsi contaminare dalla vita facendo sì che la speranza entri ontologicamente in lui, come ha ben sottolineato dopo circa un anno di terapia un mio paziente: “mi sento un po’ più libero dalle idee coatte e
un po’ meno estraneo all’uomo”.
Un metodo di lavoro che ho sperimentato essere
terapeuticamente utile con il paziente ossessivo è poi
quello della “immaginazione attiva”. Questo tecnica ,
da utilizzare solo quando la relazione e consolidata ,
aiuta il paziente “a lasciar accadere”, liberando energie dall’inconscio e con esse “nuove terre” da esplorare permettendo una distensione e una protensione
dell’io. L’immaginazione attiva è “creazione attiva, finalizzata.... le immagini hanno una propria vita autonoma ...”20 e aiutano il paziente a sottrarsi dall’assedio
delle sue idee coatte. Inoltre il materiale prodotto con
l’immaginazione attiva è ricco di valori di sentimento
e sappiamo di quanto l’ossessivo ne abbia bisogno.
Riflessioni di clinica junghiana
20. C. G. Jung, “Fondamenti della Psicologia
Analitica”, quinta conferenza , in Opere, vol.15,
Boringhieri,
Torino,
1991, p. 176.
La speranza nella relazione terapeutica
con il paziente schizofrenico.
“Ogni psicoterapeuta non ha soltanto il suo metodo: è egli stesso quel metodo. (...) In psicoterapia il
grande fattore di guarigione è la personalità del terapeuta”.21 Con il paziente schizofrenico il terapeuta,
attraverso la ricerca di una possibile continuità delle
sedute, della loro scansione temporale e soprattutto
tramite la sua disponibilità empatica, la sua capacità
di identificarsi e differenziarsi dal paziente, dovrebbe
21. C. G. Jung, Pratica della psicoterapia, Opere, Vol.
16, Boringhieri, Torino,
1981, p. 98.
136
Riflessioni di clinica junghiana
22. G. Benedetti, Alienazione e Personazione nella
Psicoterapia dei Disturbi
Mentali, Enaudi, Torino,
1986, p. 74.
23. Ibidem, p.137.
24. Ibidem, p. 12.
Augusto Gentili
favorire il raccogliere dentro di sé di quelle valenze
di riferimento che prima giacevano sparse “come una
specie di polvere maligna su tutte le cose circostanti”.22 Se questo incontro alchemico funziona le cose
potrebbero essere “ripulite” dalla patina psicotica e il
paziente potrebbe riaprirsi al mondo comune e risperare anziché disperare nel suo mondo proprio.
“Se è vero che schizofrenia è frammentazione di
realtà, allora è anche vero che noi non possiamo stare accanto allo schizofrenico che in una realtà frammentata, accettando questa nell’atto della psicoterapia come l’unica realtà a nostra disposizione”.23 E solo partendo da questo “frammento di realtà”si può
sperare di “sollevare la speranza” nel nostro paziente.
Qual è la differenza tra l’apertura alla speranza
nella relazione terapeutica con il paziente ossessivo e
la rinascita della speranza nella relazione con il paziente psicotico?
Con il paziente ossessivo il terapeuta funziona da
catalizzatore nel senso che, attraverso soprattutto l’idealizzazione e l’immaginazione attiva gli oggetti diventano meno assedianti, meno intrusivi, meno intrisi dal proprio significato (è utile sottolineare che nell’ossessivo il significato non è inerente all’oggetto in
sé ma evocato all’interno del soggetto). Attraverso
uno sguardo all’inconscio che relativizza le sue ruminazioni il paziente può distanziarsi dalle cose, dis-tendere il suo io e sperimentare l’attesa sperante di progettarsi e prospettarsi nel futuro.
Al paziente psicotico invece il terapeuta offre
“un’esistenza a prestito“,24 assumendo su di sé l’identità del paziente, unificandola con la propria e differenziandosene.
È una “penetrazione reciproca” che mette il terapeuta di fronte alla dura prova di “sopportare” (nel
senso etimologico del termine: “portare dentro di
sé”) il paziente, standogli accanto, stando nel sintomo senza parole aristoteliche.
In questa identificazione reciproca, “la linfa del
137
Aspetti fenomenologici della speranza...
paziente si depura perché intrisa della linfa psichica
del suo terapeuta”25 e attraverso questa “dialisi” anche gli oggetti si svuotano (si potrebbero svuotare)
del loro sinistro significato (nello schizofrenico, a differenza dell’ossessivo, i significati sono inerenti all’oggetto in sé) e il paziente può/potrebbe di nuovo
percepire la speranza vitale di una specifica qualità e
possibilità della sua umana esistenza.
Riflessioni di clinica junghiana
25. Ibidem, p. 177.
CONCLUSIONI
La speranza ha, probabilmente, una radice etimologica comune a spazio.26
Ciò significa che sperare è protendersi, tendersi in
avanti, dare “tempo—spazializzato” alla nostra esistenza. È uno spazio che ci libera dall’immanenza in cui
rinchiudiamo la nostra vita ordinaria, per oltrepassarla in una attesa fiduciosa....Questa è la speranza
“nomotetica” che riguarda l’uomo nella sua “sufficiente normalità”. Nella nevrosi ossessiva non c’è
questo “tendersi in avanti”, le idee e i comportamenti non lasciano infatti spazio alla dis-tensione, alla
pro-tensione dell’io.
Nell’ossessivo le cose occupano lo psichico sì da
non esserci spazio per una uscita da sé verso le cose,
per una apertura, per la possibilità dell’attesa fiduciosa. La speranza si riduce a pensiero e/o gesto magico, in una rigida ripetizione “a circuito chiuso”.
Nella psicosi schizofrenica le cose non occupano
lo psichico, ma è lo psichico a cosificarsi, così da essere radicalmente trasformato, disorganizzato, scomposto.
Il tempo inteso come “durata”che permette la costruzione dell’orizzonte temporale si disperde, disarticolando la compenetrazione dinamica tra passato,
presente e futuro.
Lo spazio si destruttura diventando “incredibile”
esperienza umana al di sopra o al di sotto delle uma-
26. AA.VV., Dizionario etimologico, Ed. Rusconi,
Trento, 2005.
138
Riflessioni di clinica junghiana
27. Ibidem.
Augusto Gentili
ne cose: cosmico, siderale, abissale...
In tale condizione psicologica la comune speranza si frantuma, cancellata dal rovesciamento mondano (anastrofe).
Nell’antica Roma, “Spes” era una divinità a cui i
Romani dedicavano templi; sorella del Sonno e della
Morte, veniva di solito rappresentata come una giovane donna in piedi che alza con una mano la sua veste e tiene un fiore nell’altra. Talora era coronata di
fiori, con papaveri e spighe nella mano sinistra e con
la destra appoggiata a una colonna o a un’àncora.27
Piace pensare che nella esperienza ossessiva il terapeuta “è” la colonna a cui appoggiare la mano della speranza per allargare (dare spazio) e pro-tendere
(dare profondità temporale) il suo sguardo mentre
in quella schizofrenica il terapeuta “è” l’àncora che
tiene ancorata la speranza perché non sprofondi in
un abisso senza ritorno.
E solo con la speranza infatti che il sonno e la
morte diventano”psichicamente” vivi: senza di lei il
sonno non ha sogni e la morte è “solo e nient’altro”
che morte.
139
Infanzia e adolescenza
“la creatività(…) appartiene al fatto di essere vivi
(…) appartiene alla maniera che ha l’individuo di
incontrarsi con la realtà esterna.
(Winnicott, 1971)
Tenere in mente
la speranza
Ogni bambino è portatore di una sua storia reale e di un vissuto proiettivo familiare, che fa parte del suo bagaglio transgenerazionale e che pone le basi per la vita.
I bambini possono essere tali se qualcuno dà loro la possibilità di crescere, se
ad accompagnarli in questo percorso è
presente un processo costante di rêverie e
di cura, tale da garantire la nascita e la
crescita di una mente capace di pensare e
di vivere.
Non sempre lo sviluppo di un piccolo
avviene in modo così lineare, a volte possono subentrare degli eventi traumatici che provocano ferite di
diversa entità, fisiche o mentali; cure sufficientemente buone possono lasciare solo cicatrici. Segni che lasceranno un ricordo, talvolta doloroso, ma capace di
dimostrare come la vita sia possibile da vivere, come
a volte sia necessario giocarsela fino all’ultimo respiro, perché questo dà un senso al bambino.
Pensare di poter giocare, parlare, stare insieme e,
soprattutto, di non essere soli nel percorso di guarigione e di trasformazione, fornisce la speranza di
una riuscita, dà la possibilità alla mente di un piccolo paziente e dei suoi familiari di riuscire a tenere in
mente come il lavoro fatto insieme abbia un senso,
anche di fronte al dolore per la perdita di uno stato
di equilibrio o di benessere.
Nelle situazioni cliniche, in cui più mi sono avvicinata alla violenza del dolore, mi sono accorta che l’unico modo per dare qualche sollievo al paziente, avvolto e lasciato nella sua solitudine, è la condivisione
partecipe ed affettuosa di quel momento.
Contenere il bambino o l’adolescente può essere
rappresentato con l’uso delle parole, attraverso il
Una possibilità
di lavoro terapeutico
con bambini
e con i loro genitori
Ilaria Puglisi
140
Infanzia e adolescenza
1. Ambulatorio di Psicologia, Responsabile Dr.ssa
Dorella Scarponi - Unità
Operativa Pediatria Prof.
Pession.
Ilaria Puglisi
contatto corporeo o, semplicemente, nel silenzio della presenza.
Il lavoro psicologico con pazienti che appartengono all’età evolutiva — infanzia, latenza, preadolescenza e adolescenza — ci pone di fronte ad una rielaborazione continua degli elementi in gioco. Ogni bambino ha le sue attitudini comportamentali e le relative modalità di funzionamento del proprio Sé, alle
quali il setting, interno ed esterno del terapeuta, si
applica.
Gli aspetti legati alla sofferenza psicologica e a
quella psichica con cui mi confronto quotidianamente dal punto di vista professionale sono molto diversi tra loro: lo studio privato, uno spazio personale
pensato per ricevere domande di aiuto e fornire trattamenti psicoterapeutici adeguato per accogliere piccoli e grandi; l’ambiente pediatrico ospedaliero, essere a contatto con bambini affetti da patologie oncologiche e la possibilità, all’interno dell’Ambulatorio di Psicologia,1 di fornire assistenza e supporto psicologico al paziente e alla sua famiglia nelle diverse
fasi che caratterizzano l’iter terapeutico.
Ambiti molto diversi di “cura”, che si accomunano, perché ci si occupa di sofferenza di una persona
a più livelli, la figura della psicoterapeuta supporta e
rinforza l’immagine della possibilità verso la guarigione. Anche nei casi in cui, la prognosi legata alla
patologia del paziente, organica o mentale, risulterà
essere infausta o impossibile da risolvere, l’unico elemento che sembra poter dare un senso agli eventi
che stanno accadendo, è il continuare ad esserci sia
per il paziente che “desidera essere visto”, che per i
genitori, che di fronte all’idea intollerabile della
“perdita” del figlio, spesso, si difendono scindendo
ciò che è il piccolo dalla sua malattia, concentrandosi solo su quest’ultima.
Il rischio reale è quello di lasciare soli i bambini e
i ragazzi ad affrontare qualcosa di incomprensibile e
innominabile, la paura di rimanere con pensieri do-
141
Tenere in mente la speranza
lorosi privi di una mente che li possa contenere, digerire e trasformare.
La modalità personale, che ho maturato nel mio
percorso di crescita professionale e personale, è quella di accompagnare i genitori a pensare, giorno per
giorno, ai bisogni emotivi del figlio reale che si trovano di fronte. “Siamo qui, ora, giochiamocela!”.
Mi vengono alla mente diversi esempi clinici, che
mantengono come filo conduttore il tema della speranza, appartenenti ad ambiti di cura estremamente
differenti.
MARTINA - 3 ANNI
Quando mi arriva la telefonata da parte della
mamma di Martina avverto subito un senso di urgenza e di esasperazione nelle sue parole, stesse sensazioni che proverò al primo incontro in presenza di
entrambi i genitori.
Il problema che portano è la difficoltà della loro
secondogenita ad alimentarsi, secondo i loro criteri,
sufficientemente. Ascolto il loro racconto, molto intenso e ricco di dettagli rispetto a quello che la loro
bimba mangia e relativo a tutti gli specialisti a cui si
sono rivolti alla ricerca di un “difetto” organico della
piccola.
Avverto la sensazione di essere fagocitata e travolta dalle parole, come se tutto quello che viene detto
da questi genitori non desse spazio ad un “terzo” di
poter pensare ed esprimersi. La mamma racconta di
come sia stata per lei una missione stremante quella
di tenere in vita la figlia trovando ogni strategia adattiva pur di farle mangiare quanto lei pensasse fosse
necessario per essere in buona salute, arrivando a nutrirla con il biberon mentre la piccola dorme.
Alla fine di questo primo denso, ma significativo
incontro, la signora mi rivolge una domanda che
Infanzia e adolescenza
142
Infanzia e adolescenza
Ilaria Puglisi
aprirà una serie di riflessioni che saranno la base del
nostro lavoro insieme: il dubbio che la attanaglia, caricandola di sensi di colpa e della percezione di essere impotente, è “c’è per mia figlia una speranza? Dottoressa, può fare qualcosa per aiutarci?”.
Rimango in ascolto di ciò che viene detto e di
quello che emerge in me a livello interno.
Mi sento sollecitata, a livello controtransferale, da
questo interrogativo che mi pone la mamma di Martina, che avverto carico di un infantile timore e di solitudine, e allo stesso tempo sento la mia mente satura di elementi frammentati emersi durante il colloquio.
L’unico pensiero che mi sento di poter esprimere
è che se siamo insieme, in quel momento, forse anche lei e il marito credono che ci possa essere una soluzione a quello che fino ad ora è stato vissuto come
un incubo, possiamo comprendere il significato di
questa insofferenza. Abbiamo posto le basi di un possibile lavoro da costruire insieme. Rimando a loro l’idea che qualcosa,nel qui ed ora, è già stato fatto.
MATTIA - 5 ANNI
Conosco Mattia e la sua mamma in ospedale, il
piccolo è ammalato da quando ha 3 anni, ha un tumore resistente ai farmaci chemioterapici.
Arriva al nostro centro di cura per effettuare una
nuova strategia terapeutica. Il resto della famiglia, padre e sorella maggiore, è rimasto nella loro città di
origine, per dare continuità al lavoro e alla scuola, li
raggiungeranno in occasione di alcune festività e
quando, dopo alcuni mesi di ricovero e di terapie farmacologiche, la situazione clinica di Mattia diventerà
critica, il piccolo rimarrà per alcune settimane al limite tra la vita e la morte.
In questo periodo di tempo gli incontri saranno
principalmente in presenza della madre, che sfrutte-
143
Tenere in mente la speranza
rà il nostro spazio per poter riprendere il filo, per
mettere insieme le idee, laddove la capacità della
mente perde la sua funzione bloccata dal dolore.
La signora esprime rabbia per quello che sta accadendo al suo bambino, che come un “bravo soldatino”
ha sempre eseguito gli ordini imposti affinché fosse
possibile la guarigione. “Non è giusto che questo stia accadendo a lui, preferirei esserci io al suo posto, non ha mai
avuto la possibilità di vivere una vita da bambino. E adesso che senso ha tutto questo? Continuare a vivere senza la
consapevolezza di farlo? Io sono stata sempre una persona
fedele e credente, ora non riesco neanche più a trovare sollievo nella preghiera. Anche con Dio sono arrabbiata, perché
non è possibile che i bambini debbano soffrire per delle malattie che non hanno senso, non si sa il motivo per il quale
vengono e possono togliere la vita. Soffro nell’incapacità di
non riuscire a fare la madre, non posso aiutare il mio bambino in nessun modo perché tanto lui morirà”.
Queste parole porteranno ad una svolta decisiva al
lavoro che porterò avanti con questa mamma.
Parole che risuoneranno in me, inizialmente, come elementi indigeribili, sia per i contenuti che per
le emozioni carichi di rabbia e tristezza, con la sensazione reale che la signora avesse ritirato l’investimento emotivo nei confronti del figlio, per lei era possibile prendersene cura solo attraverso la cura del corpo.; in seguito, l’attività di mediazione del controtransfert, mi ha aiutato a svolgere un contenimento
ed un supporto alle angosce di morte.
Trasformare il mio senso di saturazione mentale
in elementi pensabili, e comprendere, come il dolore e il senso di impotenza avessero bloccato nella signora la capacità di essere una madre-contenitore,
capace di nutrire un pensiero di speranza, sia per se
stessa nelle sue competenze materne che per il suo
bambino, ancora vivo e bisognoso di un atteggiamento affettuoso di vicinanza, ha favorito all’interno
della relazione terapeutica, la possibilità di un nuovo
incontro nella coppia madre-bambino.
Infanzia e adolescenza
144
Infanzia e adolescenza
Ilaria Puglisi
Esserci anche nei momenti in cui le parole non
servono o non avrebbero alcun peso, ha permesso a
questa mamma di poter stare, coccolare, giocare e
pensare insieme a suo figlio, nutrendo l’idea che, in
quel preciso momento, quello fosse “il senso” della sua
vita e del suo bambino. Essere-con il paziente, in una
relazione autentica valorizza e permette di umanizzare l’esperienza di dolore che si sta condividendo.
Credo che questo atteggiamento di contenimento, fisico e mentale, sia stato fonte di speranza e di
forza per Mattia che non era più solo, ma era riuscito a ritrovare una madre sufficientemente capace ed
adeguata.
Penso che, in ogni ambito di cura, il nostro essere
psicoterapeuti debba confrontarsi con la possibilità
di ritrovare il senso laddove tutto sembra perduto,
nel momento in cui l’esperienza viene vissuta.
Il bambino e i suoi genitori, che incontro nei diversi contesti in cui lavoro, formano una coppia che
necessita di essere accolta, pensata, supportata e contenuta nei suoi aspetti caratterizzati da fragilità, bisogni primari e aspetti di dolore.
L’esperienza di questi casi mi porta a pensare che
ciò che chiamiamo nella psicologia del profondo con
il termine “alfizzare” può, in una prospettiva più filosofica, essere definito con il termine speranza. La capacità di una madre-terapeuta di saper tollerare, contenere e digerire dei frammenti dolorosi proposti dal
proprio figlio-paziente può garantire a quest’ultimo
e a se stessa la possibilità di farcela.
Quindi, poter fornire uno spazio, fisico e mentale,
capace di poter tenere in mente una storia con i suoi
tempi, un prima e la possibilità di un dopo, i suoi vissuti, di vita e di morte, aiuta la famiglia e il mio esserci come terapeuta a sperimentare e a trasformare
le emozioni e i bisogni di quel momento.
L’elemento terzo, che viene introdotto come presenza capace di fornire un campo protetto ed una
145
Tenere in mente la speranza
mente-contenitore, comincia a rappresentarsi nella
mente del paziente come un terreno su cui poter
porre fiducia e la speranza di un cambiamento.
A volte la sensazione che provo è che nulla sia sufficiente per alleviare la sofferenza legata all’impossibilità di separarsi e di crescere di un bambino o alle
angosce di morte di un genitore.
Il senso di impotenza può bloccare la capacità di
pensare, questo è quello che spesso avviene nella nostra mente quando ci accostiamo a pensieri troppo
dolorosi: le angosce relative al tema, reale o immaginario, di poter perdere il proprio figlio impedisce alla mente dei genitori la capacità di digerire le paure
del figlio.
Mi appare fondamentale, allora, la funzione di
mediazione che ha il controtransfert: ciò che i pazienti non riescono a sperimentare e capire che rimane in frammenti, deve attraversare la sensibilità e
la mente del terapeuta, per poter raggiungere la pensabilità.
Il timore di entrambi, credo si possa così modulare e trasformare in fiducia, nel combattere contro
l’angoscia di morte verso un senso di speranza e di vicinanza.
Credo di aver maturato l’idea, dopo un attento
ascolto di cosa risuona in me a contatto con la sofferenza, che solo accettando i propri limiti (il genitore
che non è riuscito a proteggere il figlio dalla morte e
il clinico che non è riuscito a “guarire” il paziente dalla malattia) si possa arrivare insieme a pensare al senso della realtà.
Il bisogno più importante dei bambini e dei loro
familiari è quello di sentirsi accolti e contenuti durante i tortuosi percorsi della vita che evocano in loro molte paure, a volte astratte e a volte reali.
Ogni paziente porta con se la sua storia personale
e di malattia, talvolta si possono prevedere quali sono
le difficoltà che il bambino dovrà affrontare lungo il
Infanzia e adolescenza
146
Infanzia e adolescenza
Ilaria Puglisi
percorso psicoterapeutico, a volte si improvvisa in base al bisogno e al problema del momento semplice o
complesso che sia, l’importante è esserci, sostenendo
il pensiero e la possibilità della speranza.
La mia presenza assume una valenza contenitiva,
sia a livello mentale e a volte anche a livello fisico,
che cerca di non saturare l’espressione del paziente,
ma di accogliere il dolore e la fatica che questo porta con sé.
Il poter vivere empaticamente questa esperienza
come terapeuta nel proprio Sé, permette di dimostrare al bambino che si può sopravvivere, perché
non è solo e questo aggiunge valore a quel preciso
momento di incontro.
Pensare insieme a loro che è possibile separarsi,
ma che esiste la possibilità di ritrovarsi, anche nei
pensieri, mi sembra un modo per umanizzare e per
rendere più tollerabile le esperienze dei pazienti che
ci troviamo di fronte.
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Infanzia e adolescenza
149
Infanzia e adolescenza
La Sig.ra si scostò dal marito, ammutolito alla
sua sinistra, allontanò e ruotò leggermente la sedia verso destra, contrasse il busto, prese fiato e,
con vivo disgusto nell’espressione del volto e con
voce alterata, esplose ed espulse, poco meno che
gridando, la sua verità: “Ci serve un bambino!
Perché in due…siamo SOLO una coppia!”.
Riflessioni
in forma
di testimonianza
di alcune possibili
declinazioni,
aporie o derive
delle speranze
nella richiesta
adottiva
Ho pensato di partire da questa incisiva sintesi esplicativa, ascoltata anni fa
e poi risentita ripetutamente, che mi
pare emblematica e rappresentativa di
vissuti più volte incontrati, uditi, raccolti, custoditi, espressi in forme lievemente diverse e linguisticamente peculiari, durante 9 anni di attività in
qualità di Giudice Onorario (G.O.) di
Tribunale per i Minorenni (TM) della
Regione Emilia-Romagna, delegato a
valutare circa 2500 coppie, le più disparate e variegate, candidatesi all’adozione nazionale e/o internazionale,
ed in seguito a vigilare sull’anno di “affidamento preadottivo”, nonché a monitorare i casi di “ricorso in
Corte d’Appello” e di “fallimento adottivo” (disruption e dissolution).
L’ambito della genitorialità, segnatamente adottiva, è notoriamente vasto ed inesauribile, complesso e
complicato, sfaccettato ed articolato: impossibile da
sintetizzare esaustivamente nell’angusto spazio di alcune pagine senza recare un grave torto riduttivistico
e generalizzante al rispetto dovuto agli uomini ed alle donne che su questo cammino si inerpicano. Pertanto pur riferendomi in particolare alla parte della
casistica, maggioritaria e più rappresentativa, che vede un uomo ed una donna alla ricerca del primo figlio, rivolgendosi prevalentemente all’ambito internazionale1 e frequentemente con alle spalle esperienze fallimentari di procreazione medicalmente as-
Davide Baldan
1. “Un’altra conferma
dell’ultimo monitoraggio
[dimostra che] quasi 9
coppie su 10 (86,8%) tra
quelle che hanno richiesto l’autorizzazione all’ingresso di uno o più minori stranieri nel 2009 non
hanno figli naturali” (CAI
— Comunicare Ascoltare
Informare — Notiziario
della Commissione per le
adozioni internazionali,
Istituto degli innocenti,
Firenze anno 6/2009 numero 3, p. 4).
150
Infanzia e adolescenza
2. “Negli anni 70-80 (…)
le coppie che incontravamo allora non presentavano in generale la sofferenza di anni di ricerca di
procreazione fallita di un
figlio biologico. (…) Le
ripercussioni della PMA
su questa forma di adozione costituisce uno dei
cambiamenti più significativi degli ultimi anni”
(J. Galli, “Come è cambiata l’adozione internazionale nell’ultimo decennio”, Quaderni di informazione su tematiche socio-educative — Provincia di Bologna, Assessorato alla sanità e servizi sociali, Dicembre 2008, pp. 19 e 25).
Davide Baldan
sistita (PMA),2 cercherò comunque di soffermarmi
maggiormente su aspetti, tematiche, vissuti trasversalmente presenti, aggreganti ed in comune nell’ampia gamma di casi che mi si son presentati.
Come nell’incipit, spesso proporrò le parole realmente pronunciate dalle coppie che me le hanno affidate in colloquio: non tanto per stigmatizzarle o assurgerle a generalizzazione prototipica, stante la ovvia
decontestualizzazione che semmai le avvicina a short
cliniche o a slogan; bensì nel tentativo di restituire la
freschezza ed immediatezza con le quali si può incontrare ciò che la mente dei coniugi riesce a simbolizzare, sintetizzare e comunicare dei propri vissuti complessi, durante un colloquio orientato all’ascolto della ampia gamma di emozioni elicitabili, dei pensieri e
delle motivazioni consce ed inconsce, delle speranze,
aspettative, immagini e qualificazioni del progetto
adottivo. Va detto, per amor di chiarezza, che il setting
istituzionale cui faccio riferimento non coincide evidentemente con un setting psicoterapeutico, analitico,
privatistico. Vale a dire che ho tratto le esperienze dalle quali derivo quanto sto riflessivamente proponendo da situazioni concrete che vedono: due diversi
GG.OO. (nel mio caso, generalmente una coppia di
psicoterapeuti di differente orientamento analitico),
possibilmente di sesso diverso e compresenti al colloquio con la coppia, in un ambito protetto e non disturbato/nte; nessuna limitazione di orario/durata
(mediamente fra 90 e 120 min, con pause); le possibilità sia di riconvocare la coppia per un secondo colloquio, così come i Servizi per un chiarimento, sia di
avvalersi della richiesta di “supplemento di istruttoria”, entro il quale fare eventualmente ricorso a strumenti (per es., test psico-diagnostici) ed operazioni
(esperienze concrete con bambini, consulenze consultoriali, psichiatriche, psicoterapeutiche brevi, ecc.)
ritenute utili a chiarire ulteriormente o a fornire elementi di valutazione da poter condividere col PM e
nel momento decisionale della Camera di Consiglio
151
Riflessioni in forma di testimonianza...
per l’emissione del decreto. Il setting interno, le modalità di conduzione del colloquio, il vertice osservativo e di ascolto, la partecipazione empatica attenta ai
discorsi dell’Io ma anche dell’Inconscio, ritengo possano dirsi a pieno titolo clinici e analiticamente orientati pur diversamente che in un setting esterno psicoterapeutico in senso stretto.
La peculiarità del colloquio in TM è rappresentata da un momento ri-assuntivo, nel senso che assume
nuovamente l’intero iter istruttorio come raccontato
dalla coppia per riascoltarlo alla luce delle operazioni emotivo-cognitive ed integrative che i coniugi hanno saputo svolgere nel tempo e col proprio dinamismo psichico, elaborando il loro progetto adottivo,
relato alle risorse e competenze potenziali che essi si
riconoscono o credono di poter esprimere adottando un bambino: quindi, anche fase di ulteriore verifica diagnostica e generatrice di ipotesi prognostiche
atte almeno a qualificare ed allertare circa le criticità,
le complessualità, gli elementi a vario titolo sfavorevoli al progetto adottivo prefigurato per scongiurarne il successivo fallimento.
Il colloquio in TM consente di entrare in contatto
vivo e diretto con ampie varietà e gradazioni di emozioni, in parte risultato dell’iter istruttorio con i Servizi, ossia portate in dote dalla coppia e riversate nel
campo interattivo a quattro (coppia e due GG.OO.),
ed in parte generate dall’incontro e dal “fantasma valutativo”: ineludibile ma pur calmierabile con un’accoglienza rispettosa e cercando instancabilmente
un’alleanza di lavoro su finalità dichiarate di franca
volontà di ascolto e di comprensione. È piuttosto frequente infatti, nella mia esperienza, che delineando
subito ed accuratamente la cornice/setting dell’incontro e le sue finalità conoscitive, ribadendole implicitamente con comportamenti coerenti, anche
coppie inizialmente agitate o spaventate o arrabbiate, riescano ad accomodarsi ed acclimatarsi, risultando agevolate nell’espressione di quanto possono met-
Infanzia e adolescenza
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Infanzia e adolescenza
Davide Baldan
tere in comune e/o ulteriormente esplorare, specificare, comprendere; congedandosi infine in modo
nettamente più rilassato e talvolta dichiaratamente
soddisfatto e grato. Impegnarsi perché ciò posso realizzarsi al più presto, consente nel proseguo di elicitare pur contenendole le oscillazioni della “temperatura emotivo-cognitiva” del campo: che possono essere più o meno frequenti, repentine o progressive,
esperite fra gli estremi di un linguaggio asciutto, prosciugato, minimalista, algido, fattuale e freddissimo,
oppure di un linguaggio intriso, grondante, saturo,
coinvolto, emotivo e caldissimo: entrambi suscettibili
di “ustionare”, quando i registri espressivi consci o inconsci (per es., per identificazione proiettiva) si situano o insistono sulle polarizzazioni estreme, scissionali e proiettive (per es., più spesso relativamente
agli Operatori dei Servizi “cattivissimi, pregiudiziali, incapaci, da denunciare”, ecc.; e dopo il colloquio in TM,
ovviamente, altrettanto dicasi per i GG.OO.).
Di almeno alcuni degli aspetti finora accennati,
mi pare importante offrire testimonianza, quali criticità sulle quali riflettere, ossia ambiti di doveroso impegno per la teoria e la prassi dello specifico junghiano; dato che mi pare di poter legittimamente sostenere che tale approccio, in particolare ma non solo per quanto attiene alla acuta sensibilità circa le formazioni complessuali della psiche, alla dissociabilità
della stessa ed al percorso individuativo, abbia molto
da potere offrire, da dire e da dare fin da oggi, purché mantenga aperta ed alimentata la dimensione
della transitorietà dubitativa, la ricerca clinica inesausta, la riflessione sulla propria epistemologia in
dialettica aperta col collettivo, la contemporaneità, le
ricche e variegate soggettività di chi se ne avvale.
Richiesta è la forma in cui appare e si declina semanticamente e pubblicamente un bisogno in forma
di domanda, agendo esplicitamente la necessità di
poter condividerlo con qualcuno che se ne faccia ca-
153
Riflessioni in forma di testimonianza...
rico, rendendolo insieme discorso che aiuti a risolvere, a sciogliere un nodo inatteso, un blocco, una durezza fonte di fatica e di sofferenza, che anela a risposte e a mutamenti sostanziali. Nella mia esperienza, talvolta la primaria forma linguistica della richiesta
(sovente “di poter avere un bambino”, più raramente di
“poter essere genitori”) permane immutata durante
tutti i passaggi e i tempi lunghi dell’iter adottivo, ma
più spesso con toni che col passare del tempo l’avvicinano o si trasmutano nel crescente risentimento e
nella ansiosa e protestataria rivendicazione di un diritto ad avere un figlio;3 altre volte assume le più sfumate connotazioni semantiche della dichiarata disponibilità, o dell’apertura, spesso dell’accoglienza: possibili e auspicabili conquiste individuali, frutto di un lavor(i)o e prognosticamente favorevoli quando qualificano lo stabile possesso di un capitale psichico esistente e utilizzabile, in forma di accessibilità, sensibilità, ricettività, flessibilità; ma anche, non va sottovalutato, parole d’ordine dell’epoca, replicate dal collettivo e dall’odierna cultura imperante del politicallycorrect e dell’oblatività, frequentemente connotate sul
piano ideologico-religioso.
Inespressa o dichiarata che sia, la speranza permea
e connota l’intero ambito adottivo. Naturalmente,
mi pare di poter dire, con il suo opposto: la dis-perazione,4 enantiodromicamente sempre potenzialmente presente ed affiorante; non tanto o non solo
come assenza o perdita di speranza, bensì come precipuo stato emotivo e della mente, ossia come un
contro-discorso ed un agente, variamente operanti
durante il trascorrere del tempo, di necessità protratto e sollecitante.
Nel titolo ho però preferito il termine speranze, al
plurale, sia perché ho potuto verificare che nel corso
del tempo, e dell’iter adottivo e del ciclo di vita della
coppia, muta la qualità e la forma del (saper) sperare, in quanto attitudine e capacità da esercitare ma
anche da preservare ed alimentare; sia per evidenzia-
Infanzia e adolescenza
3. “L’accettazione della
realtà è in alcune occasioni qualcosa di più: accettiamo la realtà, alcune
realtà, perché chiediamo
loro qualcosa. C’è una
realtà imposta che Ortega
ha chiamato la “controvolontà”. (…) Se domandiamo e chiediamo per ottenere, è a causa della nostra insufficienza” (M.
Zambrano (1991), Verso
un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore,
Milano 1996, p. 89).
4. Cfr. P.P. Portinaro, Il
principio di disperazione.
Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri,
Torino 2003.
154
Infanzia e adolescenza
Davide Baldan
re l’incidenza corale del collettivo sovrapersonale,
prossimo/famigliare o periferico/sociale, comunque
ineludibile e polisemica. Molto concretamente, fatti
due conti rispetto alla casistica indicata, 2500 coppie
significano 5000 persone e 10.000 genitori potenziali
nonni/e (non a caso, lo Stato li chiama in causa chiedendo loro una “dichiarazione di assenso” al progetto adottivo dei figli): dunque almeno e al minimo
15.000 persone coinvolte in modo diretto, non considerando gli eventuali figli già presenti in famiglia,
fratelli, sorelle, parenti prossimi, amici ed altri significativi. Attraverso queste coppie di coniugi hanno
parlato numerose persone, ognuna con le proprie
immagini complessuali inconsce, le richieste, le rivendicazioni, le ambivalenze, le ombre, i bisogni, le
angosce e, appunto, le differenti speranze…o disperazioni (a titolo di esempio, recentemente una coppia ha scritto in un questionario apposito: “il motivo di
questo atto è per completare la nostra vita di coppia e le nostre famiglie…Tutti abbiamo bisogno di un bambino”).
Dunque, speranza come uno dei vertici osservativi fra i molti possibili e generalmente compresenti in
una visione multi-focale; ma anche speranza come
vettore del tempo e della volontà, come movente originario e motore che alimenta e sostiene l’investimento emotivo ed il suo dispendio sul lungo percorso di vita.
Ma la speranza è la primitiva precondizione che
porta ad agire o, piuttosto, è un luogo di fatto da raggiungere e da conquistare a partire dalla disperante
presa d’atto dell’impossibilità procreativa? Da dove
trae origine la speranza? Quale è il suo orizzonte?
“Fiducia nel futuro anche dopo insuccessi o vane aspettative, che dal
punto di vista psicologico funziona da difesa dalle conseguenze patologiche delle frustrazioni. (…)Dal punto di vista comportamentale
[la] speranza basata su opportunità di soddisfazione (…) stimola i
meccanismi necessari ai fini di una desiderata realizzazione [, mentre] dal punto di vista fenomenologico, la speranza è, insieme all’attività, l’attesa e il desiderio, una delle modalità con cui il soggetto si
dà il futuro” (Galimberti U., 1992).
155
Riflessioni in forma di testimonianza...
Ed allora, quale durata, estensione, respiro5 ha
questo futuro? Quale il rapporto col presente ed il
passato; e come si orienta la freccia del tempo psichico, verso cosa tende, quando scocca e qual è la sua
gittata e durata?
“Nella speranza, io vivo il divenire nella stessa direzione dell’attesa,
cioè nella direzione avvenire-presente e non nella direzione presenteavvenire. Quando spero, (…) vedo l’avvenire venire verso di me”
(Minkowski E., 1971).
Un avvenire che effettivamente ha-da-venire, tutto
un procedere e fermarsi, muoversi ed attendere,
spezzare e ritessere: perché il tempo dell’adozione è
costituito da tanti e differenziati periodi, con tappe
procedurali, scansioni, intervalli e riprese quali
/quantitativamente differenti che diversamente e
continuamente ri-modulano e ri-orientano i contenuti ed i dinamismi psichici, in una dimensione esistenziale sospesa e contemporaneamente allertata,
disarmonica; purtroppo e il più delle volte, a sentire
i protagonisti, e c’è da crederci, più prossima alla metrica di una sgradevole cacofonia che della piacevole
e rasserenante eufonia. L’effetto prospettico potrebbe essere quello di un “moto apparente” che, nel vissuto dei coniugi invece, si connota di frequente come
un continuo presente puntiforme che, pur frustrando,
promette e proietta nel futuro una successiva possibilità di potere piuttosto che un potere reale, agente, attuale ed anche infuturato (self-agency e self-efficacy).
Una sorta di continua epochizzazione che a furia di
mettere fra parentesi ricorda una addizione algebrica apparentemente infinita e ad esito altamente incerto e quindi ambivalentemente anche temuto, al
posto di una addizione lineare con risultato presunto
sperabilmente e passabilmente positivo. Invece di
una trama, ossia di un intreccio coerente ed ordinato delle vicende che si dipanano da quel tessuto temporale che è l’attesa, le coppie lamentano e patiscono molto spesso un ordito liso, sfibrato o strappato
Infanzia e adolescenza
5. “Se dunque angustia significò radicalmente «respiro ostacolato, strozzato», cosa potè etimologicamente significare la sua
antitesi spes? Nient’altro,
secondo me, che «respiro
libero»” (G. Capone, “La
speranza e l’angoscia”,
Rivista di Studi Utopici, n.1
aprile 2006).
156
Infanzia e adolescenza
6. “È significativo sottolineare come i due verbi
che in italiano esprimono
l’attesa abbiano il primo
[aspettare, dal latino expectare, guardare] una
connotazione più passiva
e il secondo [attendere,
da ad-tendere, tendere
verso, prestare attenzione
a qualche cosa] una connotazione più attiva. (…)
Negli interventi delle
coppie sembra essere largamente prevalente la
prima delle due dimensioni” (O. Greco, “Le
coppie adottive e i tempi
dell’attesa nel monitoraggio dei principali forum
web. Un’ulteriore ipotesi
di lettura”, pp. 124 e 135.
In: “La qualità dell’attesa
nell’adozione internazionale. Significati, percorsi,
servizi”, Aprile 2010, op.
cit.).
7. “La speranza che vuole
cancellare il tempo e
quella che si tramuta in
angoscia di abbracciarlo
nella sua dispersione di
istanti passati uno dopo
l’altro. (…) Agonia della
speranza che non sempre
sa ciò che chiede. A volte
non sappiamo cos’è che
in noi chiede di realizzarsi. (…) La speranza non
trova la propria strada e
ritorna indietro distruggendo e annichilendo”
(M. Zambrano (1991),
op. cit., pp. 92 e 97).
Davide Baldan
già nel suo primo costituirsi6. Ed allora, paiono più
comprensibili certi esagerati e deturpanti rammendi,
che prendono la forma della maniacalizzazione della
coppia, quale baluardo difensivo ad angosce irrapresentabili, pertanto impensabili e così minacciosamente destrutturanti da sospingere verso acting-out,
anziché consentire azioni coerentemente conseguenti ad un pensiero generato da vissuti pienamente assunti e simbolizzati; così come, per converso, certe lacerazioni difficilmente recuperabili, che assumono i
connotati di una profonda dimensione depressiva o
melanconica, con angosce così disperanti che sequestrano e bloccano il procedere: palesando entrambe
uno stato di crisi che non potendo essere evolutiva e
costruttiva, mostra il volto regressivo e/o distruttivo
di una speranza che viene s-fid(uci)ata, talvolta dagli
stessi protagonisti, in forme che paiono essere francamente autosabotanti7.
Si diceva, per comodità e consuetudine, il tempo
dell’adozione, verificando che si tratta di tanti differenti momenti, fasi, periodi che nell’insieme costruiscono il paesaggio spazio-temporale entro il quale deve svolgersi di necessità il percorso adottivo.
Il tempo della coppia che si trova attonita davanti
alla difficoltà procreativa, spesso idiopatica, inspiegabile ed incomprensibile, sovente contiene i tempi
“singolari”, separati e diversi, oltre che dissincroni,
dei quali ogni coniuge necessita per l’autoelaborazione, prima che possa e riesca pienamente a dire all’altro/a la propria sofferenza, la sorpresa e lo smarrimento, ed intraprendere insieme il lavoro del lutto,
se e quando è possibile; oppure procedere all’actingout dell’immediata e non medi(t)ata volontà adottiva (talvolta con agiti francamente socio-patici) sentita come “ripiego”, “alternativa”, “seconda possibilità” e
comunque “diritto”: spesso contemporanea all’attivazione di percorsi di PMA e/o nell’attesa che si verifichi prima o poi, seppur in seconda battuta, una gravidanza ancora agognata. In questi casi di percorsi si-
157
Riflessioni in forma di testimonianza...
multaneamente attivati, ho ascoltato spesso i coniugi
proporre la distinzione, motivante la non reciproca
influenza e l’insensatezza di compiere una scelta
esclusiva, tra “gravidanza adottiva della coppia” e “gravidanza naturale della donna”, che naturalmente non
condividono lo stesso ordine logico, né simbolico;
oppure, non saper discriminare tra il desiderio di
un’esperienza corporea di gravidanza (“avere la pancia”, “partorire e mettere al mondo”), di avere un bambino, di esercitare una funzione genitoriale (“fare il papà e la mamma”).
Pur in minoranza, non rarissimi sono i casi nei
quali le coppie scelgono di non effettuare accertamenti medici che definiscano con chiarezza la situazione di impedimento, talvolta perché vi è una effettiva serenità ed una volontà di “non accanimento”, più
spesso per il rischio pre-sentito di una forte destabilizzazione dell’unione coniugale con l’attivazione del
fantasma della colpevolizzazione (“non abbiamo voluto
sapere di chi era la colpa”, “abbiamo preferito dirci che la
colpa era di metà ciascuno”)8 e dell’abbandono da parte di chi non presenta ostacoli alla procreatività (per
alcuni/e ciò è stata effettivamente causa di separazione o rottura del rapporto con il/la partner precedente, magari sancita dalla sacra rota, che spesso in
seguito ha generato figli).
I racconti dei coniugi riguardanti i momenti successivi alla presa d’atto della difficoltà procreativa,
con o senza indagini diagnostiche, delineano le costanti emotive dell’invidia (“piangevo ogni volta che vedevo una donna incinta e la invidiavo”), della rabbia
(“c’è gente che può fare figli e poi li butta via: mi fanno rabbia perché non se lo meritano!”), del senso d’ingiustizia
(“cosa ho fatto di male?”, “perché proprio a me che vorrei
tanto un bambino?”), della chiusura sociale (“stavamo
in casa e ci negavamo perché non sopportavamo più le domande degli altri…come se fossimo colpevoli di non volere
abbastanza un bambino!”), dello smarrimento (“non capivo più niente, non sapevo cosa volevo…io che fin da pic-
Infanzia e adolescenza
8. “C’è stato un lungo periodo in cui poi del bambino non si è parlato più.
Ci giravamo intorno
guardinghi, come fosse
disteso da qualche parte
nella casa, invisibile e fetale, e dovessimo fare attenzione a non inciamparci. (…) Anche quando parlavamo era come
se ce l’avessimo sempre
davanti, quel bambino
che non c’era, come se si
mettesse tra di noi e per
parlarci dovessimo sporgerci alla sua destra e alla
sua sinistra come si fa sull’autobus. E quando non
parlavamo ci guardavamo
appendendoci l’uno agli
occhi dell’altra, colpevoli
e recriminatori al tempo
stesso” (A. Bajani (2010),
Ogni promessa, Einaudi,
Torino, pp. 7-8.
158
Infanzia e adolescenza
Davide Baldan
cola sognavo una famiglia con figli e davo per scontato che
l’avrei avuta”): un’insieme cangiante di emozioni forti e rovinose, all’insegna di un vissuto di “inferiorizzazione”, che sequestrano ed inchiodano ad un nuovo dato di realtà, suscettibile di cambiare e stravolgere lo scenario cognitivo e la scenografia immaginifica
fino a quel momento presupposti come certi ed ovvi.
In questo momento esistenziale pare giocarsi la prima reale possibilità di avvio o di procrastinazione del
lavoro del lutto, declinato come lenta interiorizzazione e riconciliazione che cambia l’autopercezione e la
progettualità, ponendo la propria visione esistenziale
in una diversa tensione dialettica tra bisogno e possibilità, desiderio e realizzabilità.
Uno dei percorsi che frequentemente intraprende la speranza rinnovata dei coniugi, a partire dall’ovvietà procreativa invece negata, è quello del ricorso
alla PMA: i cui tempi si interpongono e procrastinano il momento della dichiarazione di disponibilità
adottiva, con ricadute che peggiorano e diminuiscono le probabilità di successiva realizzazione del desiderio adottivo, specie se diversi anni sono impiegati
in questo percorso con conseguente invecchiamento
dei coniugi ed un differente investimento affettivocognitivo.
Sulla stessa linea, nominandoli ma tralasciando gli
approfondimenti in merito, ricordo i numerosi studi
che registrano il fenomeno trans-nazionale di coppie
che hanno sperimentato una gravidanza entro breve
tempo dall’arrivo del bambino adottato (spesso nei
12 mesi successivi). Oppure, che danno atto di coppie che non utilizzano il decreto tanto agognato ed
infine ottenuto (alcune stime parlano del 25-30%),
perché o non danno mandato ad un Ente (decadenza del decreto), o rifiutano una/più proposte di abbinamento con successiva remissione del mandato da
parte dell’Ente, o ritirano dopo qualche anno la propria disponibilità adottiva: una parte delle quali richiederà un ulteriore decreto a distanza di anni, ov-
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Riflessioni in forma di testimonianza...
vero in età nettamente più avanzate, con molte meno
possibilità realistiche di adottare, e spesso quando i
genitori sono molto anziani o deceduti, ossia con una
rete famigliare alquanto impoverita, più limite che risorsa, meno interessata alla genia.
Nella mia esperienza, confortata da dati della ricerca, la maggior parte delle coppie si assesta su 2-3
tentativi di PMA o comunque entro i 4-5 ma ho conosciuto anche casi che sono arrivati a 15-20 in tempi compresi fra i 3 e gli 8 anni, in diverse regioni o
stati stranieri. In questi ultimi casi, estremi ma non
rarissimi, si palesa la grande difficoltà della coppia a
decidere un limite e quando arrestarsi: ovvero a scendere a patti con quella agitazione maniacale controreattiva o isterica che prende la mano e si traduce in
consistenti coazioni comportamentali ed ossessioni
cognitive che, non trovando il proprio freno, in certe circostanze abbisognano di blocchi esterni, eterodiretti o contesto-dipendenti, quali patologie somatopsichiche9 o complicazioni sanitarie importanti, che
impongano cautelativamente e sanciscano la conclusione dei tentativi di fecondazione artificiale.
La quasi totalità delle coppie, in seguito, critica la
propria scelta di ricorrere alla PMA, parlando di “ambiente inumano”, “coppie come polli in batteria”, “procedure invasive, artificiali” o del “malessere per aver lasciato
parti di sé chiuse da qualche parte, al freddo”, ma riconoscendo anche la “necessità di togliersi uno scrupolo” o “di
non lasciare nulla di intentato, per non rimpiangerlo in seguito”. Queste coppie, che talvolta danno l’impressione di aver compiuto una precipitosa corsa in avanti
verso il fare, appena saputo della difficoltà procreativa, ossia più un agito che un pensato, si presentano ai
Servizi e al TM con vissuti molto dolorosi, dovuti sia
al tempo trascorso e successivamente sentito come
perduto ed aggravante il “bisogno di genitorialità”, che
alle frustrazioni plurime patite in seguito agli esiti negativi delle “mancate gravidanze” (in alcune situazioni
non parrebbe improprio parlare di “trauma cumula-
Infanzia e adolescenza
9. “Gli affetti possono facilmente aggirare gli strati preconsci del funzionamento mentale. Così possiamo concepire che in simili circostanze affettive
la psiche non invii alcun
segnale d’angoscia e si limiti a trasmettere un segnale somatopsichico primitivo che viene immediatamente tradotto in
evento somatico. (…) La
psiche in disperata difficoltà si esprime solo in
modo arcaico, non simbolico, attraverso il disfunzionamento somatico.
(…) Così le malattie psicosomatiche (…) possono rappresentare, paradossalmente, una lotta
per la sopravvivenza psichica” (J. McDougall
(1990), Teatri del corpo. Un
approccio psicoanalitico ai
disturbi psicosomatici, Raffaello Cortina, Milano,
pp.174-176).
160
Infanzia e adolescenza
10. “Talvolta, mentre Soraya dormiva accanto a
me, mi capitava di ascoltare il cigolio della porta
mossa dal vento e il canto
dei grilli in giardino. Avevo la sensazione di percepire il vuoto del suo utero, come se fosse una cosa
viva. Si era insinuato nel
nostro matrimonio, nelle
nostre risate, nel nostro
amore. E la sera tardi, nell’oscurità della nostra
stanza, sentivo quel vuoto
uscire da Soraya e frapporsi tra lei e me. Dormire tra noi. Come un neonato”
(K.
Hosseini
(2004), Il cacciatore di aquiloni, PIEMME, p. 201).
11. “E però noi facevamo
l’amore e un figlio non
voleva saperne di arrivare. Era il nostro Noi che
ogni mese cadeva per terra e si spaccava in due, e
a furia di incollarlo poi
non si è aggiustato più.
(…) Ogni volta che la
sentivo aprire il cassetto
in cui teneva gli assorbenti in bagno, sapevo
che l’avrei vista uscire
mordendosi le labbra. Mi
si sarebbe seduta accanto, e per ore non avrebbe
detto niente. Poi la sera
mi avrebbe cercato furiosa dentro il letto. Così
avevamo preso a fare l’amore in modo scomposto, lei che mi si avventava contro, i piedi che le si
stringevano di rabbia, gli
occhi socchiusi di furore.
Poi restavamo lì, ognuno
nella sua parte di letto a
respirare con gli occhi
aperti, ognuno con un
Davide Baldan
tivo” e del rinvenimento di fenomeni psicotici transitori e rapidamente reversibili)10, quando non francamente traumatici al limite del P-T.S.D (per es., gravidanze, anche plurigemellari, esitate in aborti). Inoltre, anche la necessità di “riprendersi” dopo l’esperienza di PMA (“una devastazione!” per taluni) aggiunge altro tempo di decantazione a quello necessario per le procedure mediche, allungando ulteriormente lo scacco della coppia prima che possa permettersi di “sognare ancora”. Quando è possibile parlarne, i coniugi svelano spesso che la techné procreativa ha avuto ripercussioni importanti sulla loro intimità, ovvero ha prodotto o esacerbato una sorta di
cortocircuito disgiuntivo fra i paradigmi della genitalità-riproduttività e della genitalità-sessualità, con
quest’ultima che subisce uno stallo di senso, e perciò
richiede di essere ripensata, riconquistata e vissuta in
modo diverso, durante e dopo la PMA. Distorsione
del senso e perdita della genuinità nell’atto sessuale
spesso ma non sempre vengono recuperati, con le
difficoltà diacroniche insite nella ricerca di un nuovo
equilibrio “good enough” tra gli ismi di un troppotanto e di un troppo-poco, di un eccesso ingombrante e di un difetto svuotante, di un fare-per-ottenere e
di un vivere-per-goderne.
Altre volte la modificazione che permane dopo la
PMA inerisce la sessualità che, da giustificata come lecita e necessitata dalla progettualità riproduttiva, viene in seguito percepita come abusiva e degradata a
genitalità peccaminosa, colpevole. In altri casi si assiste allo slittamento che dalla tecnicizzazione della
sessualità compulsivamente asservita nei tempi e nei
modi alla (mono)finalità procreativa, si tramuta in
seguito in una forma di insensatezza dell’incontro intimo e del piacere, fino al rifiuto di un atto che, in
quanto e sempre non-procreativo, esattamente come
per il ciclo mestruale11 che ogni mese ribadisce e rimette in circolo il desiderio frustrato, nuovamente rivissuto e confermato, genera finanche fastidio, rab-
161
Riflessioni in forma di testimonianza...
bia e repulsione/fuga ai limiti del fobico (“il ciclo mestruale mensile era ogni volta un evento frustrante e luttuoso che flagellava il nostro comune desiderio” ha ben sintetizzato una Sig.ra).
Nel proseguo, arriva il tempo dell’avvicinamento
ai Servizi e dell’acquisizione di notizie sull’iter adottivo, frequentemente con l’ausilio delle risorse rintracciabili in internet, con i suoi echi collettivi, i fantasmi e le virtualità, non così raramente più o meno
deliranti non solo in senso lato; che più spesso è attivamente agito da entrambi i coniugi, ma talvolta da
uno solo, per poi riportare nell’alveo della coppia informazioni e proposte che possano sollecitare o rianimare anche l’altro/a, riattivando e ridirigendo le
speranze.
Ed ancora, il tempo dell’istruttoria con i Servizi e
la sua conclusione presso il TM, con la raccolta e qualificazione della tipologia di disponibilità adottiva nazionale e/o con la valutazione di idoneità, finalizzata
all’emissione in forma collegiale (Camera di Consiglio composta da Giudici Togati e GG.OO.) di un Decreto che consenta o neghi la possibilità attuale (la
domanda è ripetibile) di adozione internazionale.
Ed infine, ma si tratta in verità di un ulteriore inizio in un diverso contesto, il tempo del mandato ad
un Ente preposto all’adozione internazionale…e dell’attesa di una proposta di abbinamento…e dell’incontro con l’adottando nel suo paese di provenienza,
seguito dal ritorno nella patria dei coniugi…e della
vigilanza post-adozione…fino alla presa d’atto finale
da parte del TM e dell’Ufficio Anagrafe….dove i
puntini di sospensione vogliono sottolineare proprio
gli intervalli, le pause, le interruzioni, il penzolare in
più arresti temporanei cui la coppia è sottoposta.
Come si può vedere, molti più pre e quasi nessun
post: come se sul “prima” dell’adozione concreta ci si
potesse e dovesse necessariamente e prevalentemente concentrare e sforzare, anche con l’impiego massivo di risorse che il pubblico deve mettere a disposi-
Infanzia e adolescenza
dolore che tanto era solo
suo, che non poteva essere l’altro a consolare” (A.
Bajani (2010), op. cit., pp.
5-6).
162
Infanzia e adolescenza
Davide Baldan
zione (“di interessi collettivi o sostanzialmente solo privati?”, come ho sentito chiedersi qualche addetto ai lavori). Mentre sul “dopo” dell’adozione avvenuta,
stante la fattualità dell’essere stati legalmente resi famiglia, il raggiungimento dell’obiettivo imponesse
un dato tacito che non abbisogna di un discorso ancora aperto e in divenire, tanto è ieraticamente ovvio
da risultare apparentemente banale o ripetitiva e ridondante qualunque ulteriore specificazione ed approfondimento, da parte di un logos che voglia porsi dialetticamente e costruttivamente sul lungo periodo, anziché vedersi frenato ed esaurito dalla concretezza del fatto adottivo. Non stupisce, pertanto, che il
vissuto ingenerato in alcune coppie-di-coniugi fattesi
coppie-di-genitori assuma il senso di essere stati abbandonati dal pubblico o di risultare in-differenti e
non più interessanti in quanto famiglia adottiva;
mentre colgono e lamentano intensamente l’assenza
o la rarefazione di ulteriori possibilità di aiuto e sostegno post-adozione che non si limiti al previsto anno di affido pre-adottivo, finalizzato ad un sancire
che assume le connotazioni di un terminare, di una
sorta di fatto prescelto che obbliga a non (poter) più
ritornare ad interrogarsi, a pensare, a sentire, a crescere con l’ausilio del servizio pubblico. Curioso effetto di una speranza che rischia di esaurirsi proprio
quando il cammino in comune dei membri della
neo-famiglia richiederebbe, semmai ed a mio avviso,
un surplus di attenzione ed investimento collettivo e
statale. Vale a dire che, se la speranza è aspirazione
(ad-spiro), prospettiva (pro-spicio), progettazione (proiecto), oltre che presentificazione dell’avvenire potenziale che viene incontro, non risulta subito evidente
perché tutti questi elementi costitutivi e strutturanti,
ovvero di fatto qualificanti e perciò perduranti, dovrebbero essere valutati, assistiti, curati e sostenuti solo “a tempo determinato”.
In altri casi, ho osservato che l’effetto tacitante di
una adozione realizzata (“conclusa”, si dice spesso,
163
Riflessioni in forma di testimonianza...
sintomaticamente), volontariamente ed autoprotettivamente portava la coppia ad un ripiegamento, ad
un rinchiudersi nell’alveo del privato famigliare, talvolta in un vero e proprio claustrum, che si sottraeva
intenzionalmente a qualunque discorso pubblico;
che altrimenti sarebbe stato vissuto come rischio,
cioè come una intrusione persecutoria12 che avrebbe
potuto svelare insufficienze, disagi, bisogni, e che agitava il fantasma del “fallimento adottivo” e della sottrazione del/i bambino/i. Quando tale vissuto è pervasivo, induce i coniugi all’arroccamento difensivo,
all’inabissamento di qualunque possibilità di chiedere aiuto anche in occasioni di non allarme ma di semplice fatica o transitoria empasse col figlio adottivo,
di fronte al rischio cioè di una parola, di una richiesta che, se si dichiara, segnala, marca, bolla ed è suscettibile di giudizio negativo, ovvero di sancire e decretare l’incapacità dei genitori e il fallimento dell’esperienza adottiva. In tale contesto, non è raro che si
instauri una possibile collusione fra il pubblico ed il
privato, che porta al costrutto, fallace, secondo il quale una coppia che non chiede, che non si auto-segnala, indica che va tutto bene: per cui, interessarsene rischierebbe l’intromissione se non addirittura l’alterazione
di un equilibrio sistemico o persino l’elicitazione e riattualizzazione di conflitti irrisolti. Costrutto che mi
pare ben si articoli con l’idea imperante del successo
adottivo misurabile con il grado di integrazione raggiunto dal bambino adottato, specialmente e quasi
esclusivamente con i suoi buoni risultati in ambito
scolastico13, secondo una logica assimilatoria (“lui si
deve integrare a noi”, “noi dobbiamo integrarlo nella nostra
società, perché adesso è figlio nostro a casa nostra”), piuttosto che di inclusione rispettosa dell’alterità intrinseca del minore e valorizzante la diversità in quanto
ricchezza.
A tal proposito, quando si cerca di far parlare il
proprio discorso alla parola “integrazione”, così spesso
spesa dalle coppie con un tangibile senso d’urgenza,
Infanzia e adolescenza
12. “La norma è così legata a una sorta di circolazione, di distribuzione
dello sguardo: è normale
ciò che non attira lo
sguardo, ciò che si può
pubblicare sotto la dicitura “niente da segnalare”.
(…) Uno sguardo che
tenta di vedere al di là di
ciò che l’altro dà a vedere
e di ciò che la cultura ritiene possa essere visto infrange i limiti del “corretto”, diventa osceno o abusivo” (Benasayag M.,
Schmit G. (2003), L’epoca
delle passioni tristi, LaFeltrinelli, Milano 2004, pp.
72-73).
13. L’insistenza dei genitori sulle performance
scolastiche è stata più volte segnalata fra i fattori
prognostici negativi ossia
predittivi del fallimento
adottivo, specie tardivo.
Vedi, fra gli altri, M.
Berry (1992), op.cit.
164
Infanzia e adolescenza
14. Si parla più propriamente di “transition to
adoptive parenthood” proprio per sottolineare al
contempo sia la costitutiva dimensione processuale, temporale, sia gli elementi di rischio insiti in
ogni transizione familiare, particolarmente accentuati dai fattori di imprevedibilità che questa
comporta, nonché dal
fatto che l’adozione affondi le sue radici in una
doppia mancanza: di maternità/paternità e di discendenza da parte della
coppia, di una famiglia
per il bambino.
15. “Dalle parole dei genitori in attesa appare come l’aspirazione delle
coppie sia quella di assimilarsi nel più breve tempo possibile alle famiglie
biologiche, mettendo finalmente e una volta per
tutte tra parentesi i controlli, le pastoie e le difficoltà di una genitorialità
sentita come diversa e
troppo complessa (…)
mettendo chiaramente in
luce la differenza tra procreazione e generatività”
(O. Greco, “Le coppie
adottive e i tempi dell’attesa nel monitoraggio dei
principali forum web.
Un’ulteriore ipotesi di
lettura”, p. 131. In: “La
qualità dell’attesa nell’adozione internazionale.
Significati, percorsi, servizi”, Aprile 2010, op. cit.).
Davide Baldan
essa di frequente svela fantasie ed aspettative di acquiescenza mimetica da parte del bambino adottato,
fondata su differenti percezioni stereotipe di genere
e/o di etnia, veri e propri clichés che come dei relè
fanno scattare catene associative costellanti le proprie
complessualità (per es., bambina indiana = pacifica,
remissiva, accettante, riconoscente, disponibile ad
aiutare la mamma in casa; bambino latino-americano
= allegro, caldo, solare, con un forte senso della famiglia, fisico e sportivo che giocherà col papà), potendo
prodursi talvolta in un cortocircuito che spegne e getta nel buio un sano esame di realtà circa la provenienza concreta dell’Altro, rendendolo in fantasia medesimo, più altro-simile che altro-alter. In tali frangenti, la fantasia dell’integrazione del bambino pare porsi come specchio del bisogno di mantenere integro ed
integrato lo status quo della coppia come tale e della
famiglia in quanto cellula sociale stereotipatamente
intesa; in antitesi al cambiamento, alla ristrutturazione, al reciproco riadattamento:14 per cui l’accento cade più frequentemente sull’integrazione assimilatoria15 intesa come inserimento e sommatoria col preesistente piuttosto che come completamento vicendevole e nuova costruzione sintetica.
Fra i due estremi sopra accennati, delle coppie
che vorrebbero ricevere maggiori attenzioni nel postadozione e di quelle che desiderano essere dimenticate già al concludersi del pre-adozione, mi pare si situi la verità non detta e, a mio parere, socialmente
denegante, della specificità a tempo indeterminato
della genitorialità adottiva: per cui, invece, dopo l’adozione una famiglia adottiva diviene, e viene trattata nella maggior parte dei casi, “come se” fosse “uguale a tutte le altre”, con una sorta di patente di famigliarità socialmente resa (o pretesa) pseudo-biologica
(l’espressione connotativa e implicitamente valutativa in positivo, “come una qualunque altra famiglia normale”, mi pare una sintesi efficace che meriterebbe di
essere decostruita e scavata in profondità).
165
Riflessioni in forma di testimonianza...
Un ulteriore possibile simmetria, quasi un terreno
preparatorio ai precedenti estremi, la si può riscontrare in quanto le coppie spesso raccontano successivamente dei diversi tempi dell’iter adottivo, dichiarando che i discorsi dei vari momenti pre sono stati avvertiti utili in termini pedagogici, in quanto segnalano, problematizzano, ma soprattutto informano ed
educano (per es., “abbiamo imparato come si dovrebbe gestire bene il bambino”, “abbiamo ascoltato i possibili rischi e
siamo più consapevoli”, “ora conosciamo le procedure e sappiamo cosa dobbiamo fare”); ma anche che il discorso sul
momento post è, invece ed immaginativamente, vuoto, afono, ai limiti dell’indicibile tabuizzato (per es.,
“un bambino è un bambino…ha la forma di un bambino
qualunque”,“non riusciamo ad immaginare nessun bambino che arriverà”, “non vogliamo immaginare per non illuderci e poi rimanerci male”, “quando le cose accadranno,
qualcosa faremo”, “poi, essendo noi i genitori, sapremo per
forza, è ovvio, cosa è giusto per nostro figlio”), oltreché teorizzato come inopportuno talvolta anche dai Servizi16.
A tal proposito, mi pare interessante e coordinata la
notazione che spesso, a fronte di una incapacità dichiarata dei coniugi di immaginare e descrivere un
bambino ipotetico desiderato (rarissima è stata nella
mia esperienza l’ammissione che lo abbiano sognato), gli stessi manifestino una forte aspirazione, a prima vista inspiegabile agli stessi e/o sentita come “istintiva”, ad adottare una coppia di fratelli (adozione
multipla contemporanea) e segnatamente di sesso diverso (“non sappiamo perché ma è così: non riusciamo a immaginare un bambino solo ma sentiamo che devono essere
due”): quasi una ricerca del “doppio-doppio”, di una
plurima addizione monosessuale che potenzi l’identità di ciascun singolo in un vincolo di puerocentrismo
narcisistico (“un maschio per il papà e una femmina per la
mamma”, “uno per ciascuno”, “due coppie genitore-bambino…in equilibrio”), atto a riparare e consolidare un’immagine di sé deteriorata o manchevole ed a (ri)avviare di fatto (e col fatto di aver adottato) un percorso
Infanzia e adolescenza
16. “Se siamo nel pre-adozione non è opportuno
parlare del post-adozione, perché inserisce, anticipa degli eventi che la famiglia può vivere semplicemente in modo persecutorio” (Paradiso L., Fare adozione. Materiali e testimonianze per l’innovazione,
op. cit.).
166
Infanzia e adolescenza
17. La stretta relazione
esistente tra relazione genitoriale e relazione di
coppia ha ricevuto crescente attenzione ed è
ampiamente dimostrata
da numerosi contributi
empirici: una review della
letteratura è presentata
in J. Grych, “Marital relationship and parenting”.
In: M.H. Bornstein,
Handbook of parenting, Vol.
4, Erlbaum, London
2002, pp. 203-225.
“Il processo che regola
questa connessione tra
genitorialità e coniugalità
ha ricevuto diverse interpretazioni, dall’ipotesi
spillover, secondo la quale
la qualità della relazione
coniugale si <<riversa>>
sulla relazione genitoriale, alla common factor hypotesis che individua l’esistenza di fattori comuni
alle due relazioni, che risiedono nei tratti di personalità e/o negli stili relazionali, infine l’ipotesi
compensatoria, secondo
cui l’insoddisfazione nella relazione di coppia
porterebbe a un sovrainvestimento nella relazione genitoriale”. (E. Scabini, G. Rossi (a cura di),
“Le parole della famiglia”, Studi interdisciplinari sulla famiglia, n°21,
nota 24, pag. 124)
Davide Baldan
evolutivo esangue o bloccato: una sorta di sublimato
che cambia stato saltando repentinamente un passaggio intermedio, del quale non rimarrà traccia esperienziale fruibile nel futuro, con ciò ponendosi come
deficit a-priori anziché costituirsi come arricchimento
e bagaglio successivamente utilizzabile e con-divisibile
da tutti i diversi attori.
A tale eventualità, mi è parso accedessero coattivamente e con maggiore frequenza quelle coppie
nelle quali la sofferenza panica di essere (“solo”) in
due, cioè senza prole, e poi di restare tali nel futuro,
in alcuni casi svelava un “mancato svincolo genitoriale”, tale per cui la forma della coniugalità pareva contenere essenzialmente due figli non ancora individuati come adulti psicologicamente autonomi dai rispettivi genitori17. In tali situazioni ed in un contesto
sovrapersonale/collettivo che vede e valorizza unilateralmente il fare come una panacea, ovvero come la
soluzione che rende in-significante e non necessario
l’essere, il pensiero autoriflessivo e meta-cognitivo
(Fonagy P., Target M., 2001), lo psichico ed i suoi
tempi (o, peggio, che mono-significa in modo dato e
fisso), forte poteva essere la tentazione di bypassare il
prerequisito dello svincolo genitoriale e dell’autonomizzazione psichica, per approdare direttamente al
tre: che a questo punto solo un terzo, inteso qui come esterno ed estraneo, tratto da fuori e non generato all’interno della diade, poteva di fatto rendere
possibile (“il terzo è colui che genera il noi” ha significativamente sintetizzato una coppia); mantenendo però in sospeso e in essere l’empasse, non affrontata né
in prima persona, né come coppia. Ma rendere concreto, attraverso la messa in scena di effetti apparentemente conseguenti un assetto psichico non realmente conquistato, né solidamente sedimentato in
una identità ed autoconsapevolezza salde, sposta sul
bambino la responsabilità ed aspettativa di (dover)
essere egli il vero ed indispensabile donatore di senso: “grazie a lui/lei, ora siamo di fatto diventati una fami-
167
Riflessioni in forma di testimonianza...
glia”, raccontano diverse coppie adottive, che fan
pensare al potere magico atteso da un “bambino divino” che, solo e da solo, può realizzare la magia di
miracolare la coppia. Mi pare ne consegua anche
che, a fronte di una profonda ed irrisolta incertezza
edipica circa la propria riproduttività e autolegittimata genitorialità, talvolta decisamente tabuizzate in
un assetto psico-sessuale di tipo pre-genitale (vedi anche il fenomeno delle “coppie bianche”, in aumento
percentuale secondo recenti osservazioni), il ricorso
a quella sorta di altro e precedente terzo pubblico, rappresentato al di fuori della coppia dallo Stato che decide, di marca superegoica, pare raccontare e rappresentare una ricerca inconscia di una sorta di “patente di (buon) genitore potenziale”, che renda palese e sancisca, col concreto nero su bianco del decreto di idoneità emesso dal TM, una sorta di possibilità procreativa alternativa e non genitale, al momento
sospesa ma riconosciuta ed oggettivabile; ed anche
un giudizio di valore implicito (decreto di idoneità).
Al di la del particolare caso specifico appena citato, più in generale le osservazioni cliniche ripetute
indicano una forte continuità tra attaccamento infantile ed adulto; nonché fra l’esistenza di elaborazioni simboliche sul bambino nei futuri genitori e
l’esito positivo dell’incontro e del successivo sviluppo
della relazione genitoriale.
A questo proposito, ripercorrendo con le coppie i
diversi momenti dell’iter istruttorio, quando ci si informa circa il vissuto scaturito dal fatto che generalmente è stato chiesto dai Servizi di raccontare ciascuno la propria storia individuale, quasi tutte ricordano lo spiazzamento e lo stupore generato da una
richiesta inattesa ed alla quale, almeno inizialmente,
non hanno saputo attribuire sensatezza. In seguito,
una parte minore delle coppie riesce a conservarne
un ricordo positivo e, spesso, di piacevole riscoperta
di ciascuno (“mi è piaciuto dover raccontare tutta la mia
storia: non mi era mai successo ed è stata una bella espe-
Infanzia e adolescenza
168
Infanzia e adolescenza
Davide Baldan
rienza che mi ha arricchito”) e persino di scoperta dell’uno/a rispetto all’altro/a (“ci siamo accorti, chissà
perché, che certe cose non ce le eravamo mai raccontate, pur
in tanti anni”), attribuendovi anche un senso non solo biografico-informativo, bensì di recupero delle
proprie vicissitudini infantili in quanto connessione e
bagaglio utile nell’incontrare, farsi appresso e porsi
in contatto profondo e non-verbale con il bambino
adottivo, i suoi bisogni, la sua storia, ecc.: dove la raggiungibilità e la fruizione del bambino nell’adulto si pone come ponte per raggiungere empaticamente il
bambino adottato con la propria capacità di rêverie.
La parte maggioritaria delle coppie, invece e nella
mia esperienza, riporta ancora quell’originaria sensazione di straniamento davanti ad una richiesta che
continua a rimanere o inspiegabile e muta come una
bizzarria, o razionalizzabile in termini valutativi (“probabilmente i Servizi dovevano farlo per avere delle prove sulla nostra idoneità”, “forse volevano le prove della nostra motivazione”, “chissà che cosa volevano scoprire di noi, nel nostro passato!”), oppure fonte di fastidio per quanto
esperito come indebita “intrusione nel proprio intimo”.
In tutti i casi, mi colpisce sempre la scarsa abitudine
alla narratività, ad una riflessione globale sulla propria vicenda esistenziale, ad un contatto niente affatto ovvio, né facilmente (f)elicitabile col Sé e le sue
espressioni attraverso le diverse stagioni della vita.
Quando si verifica, invece, la valorizzazione operata
successivamente e spesso il senso di piacere scaturito
dal sentirsi (ri)arricchiti dalla memorazione del Sé, mi
pare indichino, fra le altre, una necessità che pur
non autopercepita come bisogno proprio, né tantomeno come risorsa preziosa, ciò nonostante poteva
essere riconosciuta e vissuta pienamente e beneficamente se l’occasione relazionale di una richiesta la
rendeva possibile, se qualcuno se ne mostrava genuinamente interessato e capace di restituirne il senso
del valore.
Sempre per quanto attiene al bambino immagina-
169
Riflessioni in forma di testimonianza...
to e pensato dalla coppia che intende adottare all’estero, nella mia esperienza abitualmente le coppie
percepiscono scarse differenze o comunque di piccolissimo conto fra adozione nazionale ed internazionale: la seconda essendo vissuta più spesso come una
opportunità ulteriore e probabilisticamente più rassicurante (“qui i bambini non li date, mentre all’estero ci sono più bambini e quindi più probabilità”) o come un percorso ad esito garantito (non da ultimo “perché si paga un Ente che così è motivato a trovarti il bambino!”).
Non stupisce allora riscontrare non raramente uno
scarso o nullo interesse culturale, linguistico, geografico, storico, artistico per il paese di provenienza del
bambino, al qui posto si rinvengono piuttosto clichés
da turisti, trasognanti pregiudizi positivi di facilitazione (es., “sono persone solari e calde…simili a noi”, “è come
un bambino meridionale nostro: un simpatico scugnizzo”,
“saremo facilitati perché già ci assomigliamo come atteggiamenti e valori”), grande ignoranza sull’infanzia e sulle
normali tappe evolutive (col grande rimosso sociale
costituito dall’adolescenza/te), limitata attenzione
agli aspetti percettivi e cinestesici dell’accoglienza e
dell’abitare insieme (es., profumi, frutta, cibi, abiti,
condizioni climatiche. Vedi: Galli J., Viero F., 1993),
ossia a quel patrimonio di memorie corporee pre-verbali che il minore non lascerà certo nel proprio paese d’origine ma porterà inscritte nel proprio essere.
In alcuni casi, in incremento nei miei 9 anni di lavoro in TM, vengono espressi franchi pregiudizi religiosi ed etnici, con conseguente giudizio svalutante
(“accetteremmo un bambino di diversa religione purché non
provi ad imporci la sua, che ci ripugna! Semmai gli insegneremo la nostra, perché ci teniamo a trasmettergli i nostri
valori, che sono migliori”, “gli faremo vedere che, dato che
non siamo Rom come lui, noi non rubiamo!”), proiezione
(“accetteremmo il bambino ma basta che non sia un integralista e col lavaggio del cervello! Lui, perché certo noi non
siamo così!”), negazione (“tanto, così come gli cambieremo
il nome, lo battezzeremo subito, perché deve adeguarsi a do-
Infanzia e adolescenza
170
Infanzia e adolescenza
18. “La via che conduce
all’inconscio del paziente
è creata in maniera non
lineare da sorprese cumulative. Aggiungerei anche che la via regia della
sorpresa non è meno sorprendente se la partecipazione dell’inconscio
dell’analista stesso favorisce la sua costruzione, nonostante la convinzione
di essere semplicemente
un osservatore” (Bromberg P.M. (2006), Destare
il sognatore. Percorsi clinici,
Raffaello Cortina, Milano
2009, p. 80).
Davide Baldan
ve viviamo noi e alle nostre tradizioni…Noi non siamo razzisti: lo facciamo per lui, perché si integri bene”…ignorando il delitto di ipostasia ed i rischi gravi ai quali espone), diniego (“tanto, venendo in Italia, cosa vuoi che ricordi delle sue abitudini, che qui non vanno bene e poi non
servono a niente!”), ecc. Analogamente vengono
espressi rifiuti a farsi carico e promotori della differenza etnico-somatica, tramutati in gesto oblativo, come quando alcune coppie spiegano, quasi sempre
negli stessi termini tautologici: “noi non avremmo problemi se lui fosse nero…ma siccome lui potrebbe averne con
la società, che non è pronta come noi…allora non lo adotteremmo…per il suo bene, perché non soffra”. Ed anche, si
assiste spesso ad una ricerca/pretesa spasmodica di
“garanzie sanitarie” sul minore, al di la del minimo legittimo, senza cioè aver compiuto un adeguato esame
di realtà circa la fascia d’età prescelta del minore
(per es., “lo vogliamo di un anno di età ma che sia garantito che non è autistico e che non ci darà sorprese nel futuro”), la povertà di mezzi delle diverse macro-aree
geografiche mete di adozione, l’epidemiologia nota
dei paesi d’origine presso i quali intendono idealmente recarsi (relativamente alle parassitosi, alle patologie infettive, neurologiche, dismetaboliche, endocrine, alle sindromi teratogena, feto-alcolica, ecc.),
dai quali non si può oggettivamente pretendere lo
stesso standard di welfare socio-sanitario europeo.
Nell’insieme, quindi, compaiono sovente importanti scotomi dissociativi o sottovalutazioni che, se affrontate con una confrontazione pur empatica e semplicemente interrogativa, dialogante, generano stati
stuporosi nella coppia, tolgono la parola, bloccano il
pensiero, fanno annaspare la mente al cospetto della
sorpresa18: l’immaginario autoriferito si infrange e la
realtà, a volte ammessa come “pensata per la prima volta”, produce uno stato emotivo tellurico di choc; oppure, generano risposte rabbiose, infastidite, rigide,
boriose (“a noi andrà bene!”, “noi non siamo come gli altri: eviteremo i rischi”, “gli faremo degli esami di nascosto, a
171
Riflessioni in forma di testimonianza...
nostre spese, se no non lo prendiamo!”) o prognosticamente favorenti il fallimento adottivo (“se poi viene
fuori qualcosa che l’Ente non ci aveva detto, avremo ragione di restituire il bambino e di chiedere indietro i soldi”).
Più spesso è stato proprio dalle persone con marcate premesse euro-centriche e talvolta francamente
supponenti, che ho sentito autonomamente spiegare
con forza ed insistenza le modalità educative che esse immaginavano di dover riproporre acriticamente
come valide ed efficaci, proprio perché repliche di
quanto ritenevano di aver vissuto ed idealizzato come
“normale, giusto, tradizionale”. Anche quando, ma dovrei dire proprio perché, le loro storie individuali testimoniavano di vicende famigliari affatto deficitarie
o deprivanti o traumatiche, inelaborate e sostenute
dall’oblio della propria infanzia (Miller A., 1990) se
non da una identificazione con l’aggressore, le loro
affermazioni riproponevano la peggior “pedagogia
nera” dell’altro ieri, pre-montessoriana, muscolare,
punitiva, impietosa…senza batter ciglio (e con extrasistoli dolorose per me).
Coloro che manifestavano più insistenza, rigidità e
determinazione sulla “necessità delle regole ferree”, la “disciplina, fin da subito”, la “intolleranza alle deviazioni da
quel che è giusto”, spesso mostravano in tempi brevi
una notevole iper-sensibilità per (il ritorno del)l’irrisolto e scarsa tolleranza per il discostarsi della “soluzione-bambino” dal risultato atteso e preteso. Al punto che l’alterità irriducibile del bambino poteva essere facilmente intesa come minaccia al proprio progetto di soluzione della sofferenza e dell’angoscia di
coppia: quasi una provocazione (“sarebbe un ingrato!”), una sfida (“ci manca solo che non si integri a noi!”),
comunque una minaccia alla fantas(ticher)ia stabilizzante, tacitante, pacificante il lutto subìto e inelaborato, bensì solo convertito (se non pervertito, nel
senso di deviato, cambiato. Cfr. con Chasseguet-Smirgel J., 1985) in un “equivalente simbolico” (Cfr. con
H. Segal, 1975, che l’ha equiparato a un meccanismo
Infanzia e adolescenza
172
Infanzia e adolescenza
19. In particolare, come
rilevato da molte ricerche, “l’adolescenza del figlio adottivo si costituisce
come un momento critico anche per percorsi iniziati molti anni prima
con bambini adottati piccolissimi: si può ipotizzare che le difficoltà di relazione all’interno del sistema familiare fossero già
presenti prima della fase
adolescenziale, ma che
non sia stato loro attribuito il giusto significato
perché
magari
mascherate da sintomi psicosomatici, da difficoltà scolastiche o sintomatologie
depressive, troppo spesso
interpretate come accondiscendenza o “ buon carattere” del bambino che,
senza creare problemi,
aderisce ovvero si appiattisce alle richieste dei genitori e dei suoi contesti
di vita comunitaria”
(Lombardi R., “La famiglia adottiva al banco di
prova dell’adolescenza,
specchio che amplifica e
confonde”. In : Percorsi
problematici dell’adozione
internazionale,
op.cit.,
pag. 78).
20. Nel testo di Galli J.,
Viero F., Fallimenti adottivi. Prevenzione e riparazione; Armando Roma 2001,
si racconta di come spesso le famiglie adottive
consegnino agli operatori, assieme al bambino
adottato e poi rifiutato,
gli oggetti e gli abiti dello
stesso in sacchi di plastica
per la spazzatura.
21. “La rappresentazione
del bambino prima del-
Davide Baldan
psicotico) che dovrebbe assumere le connotazioni di
un figlio reso forzosamente simile a sé, quasi pseudobiologico e solo se così, allora realmente riparatore.
Per converso, infatti, i coniugi spesso sostengono che
un bambino buono, accondiscendente, ubbidiente,
simile a loro nei comportamenti, nel modo di pensare e nei valori, testimoni e si faccia prova vivente dei
buoni genitori che ha avuto e, ancor più, che “quello
è proprio il bravo figlio di quei bravi genitori”, di loro…anche quando quel che si è trasmesso e prodotto è un
falso-Sé...
Mi pare di poter rintracciare nel connubio fra eccesso di aspettative preordinate ed autoriferite e difetto di immagini-del e pensieri-sul bambino reale, i
precursori di future possibili dinamiche scissionali intra-famigliari: che in caso di non piena e precisa realizzazione del progetto e del risultato attesi, facilmente provocheranno una dislocazione polarizzata
del tutto-buono nei coniugi e del tutto-cattivo nel bambino, in un circolo vizioso che, senza aiuti tempestivi
dall’esterno, in troppi casi potrà portare alla rinuncia
ed alla restituzione del bambino e/o a modalità autoespulsive e rifiutanti da parte dello stesso19. Di fatto, il meccanismo di difesa arcaico della scissione impedisce lo sviluppo del difficile processo di integrazione, ed il fallimento delle capacità genitoriali può
sommarsi con l’utilizzo da parte del figlio di meccanismi di difesa come l’identificazione proiettiva, quale modalità tesa a disfarsi del dolore e della rabbia.
Troppe storie raccontano e mettono in guardia dal
fatto che, quando la mente degli adulti non è in grado di sopportare tali proiezioni soprattutto a valenza
aggressiva, le restituisce al “mittente figlio” sotto forma di punizioni, castighi corporali, minacce, ricatti
affettivi, ecc., instaurando un circolo proiettivo negativo ed una escalation simmetrica, tali per cui tutti si
depauperano delle proprie risorse: il che è presente
come una terribile costante nei fallimenti adottivi20.
Le ricerche ci dicono, e nei colloqui in TM si può
173
Riflessioni in forma di testimonianza...
esperire chiaramente se ben si ascolta, che ciò che
più caratterizza queste famiglie disfunzionali è proprio l’irreperibilità nella coppia di uno spazio mentale tanto per l’altro che per la relazione: che si evidenzia sottoforma di impossibilità ad utilizzare uno
spazio/tempo per la simbolizzazione e per la verbalizzazione21, traducendosi invece nell’incapacità di
costruirsi come esseri-in-relazioni che cambiano; ovvero rimanendo imbrigliate e congelate nell’esperienza di estraneità e di non riconoscimento come
fondamenta sulle quali viene a costruirsi, di necessità
e coattivamente, ogni successiva relazione.
In tali casi, fortunatamente minoritari ma di grande impatto pragmatico ed emotivo ineludibili, mi è
parso che anche richieste/attese sociali acriticamente interiorizzate e non individuate, potessero informare di sé una visione normalizzante (nel senso di
“iper-normale” o “normotica”, come la intende C.
Bollas, 1987) assolutamente rigida e scevra da dubbi
o sfumature; nelle intenzioni dei coniugi da replicare adesivamente tal quale. Diversamente in altri casi,
le pretese del collettivo, famigliare ed allargato, esplicitate o implicite, venivano invece puntualmente còlte e profondamente sofferte dai coniugi, sommandosi alle persecutorietà singole o multiple: della propria
alterata immagine corporea e delle aspettative realisticamente immaginabili sul futuro proprio, della
coppia; ma anche della gen(ealog)ia e discendenza
impossibili, in particolare da parte dei figli unici; ed
alla definizione mediatica di coloro che non procreano, visti come “binari morti” o persone che non si
vogliono assumere la responsabilità di una famiglia;
nonché spesso delle eventuali procedure tecniche di
PMA, con il loro gravame e il più frequente effetto
sfinente e svuotante.
Coordinatamente, quasi tutte le coppie parlano,
con termini contemporanei e mediaticamente pervasivi, di “trasmissione dei valori”, come necessità imprescindibile di realizzarla col figlio, se non come fine
Infanzia e adolescenza
l’incontro (generalmente
immagini mitiche, ma
non per questo potenzialmente rischiose) e la possibilità di dare loro legittimità
verbalizzandole,
creano lo spazio psichico
per l’incontro con il bambino reale. Al contrario la
difficoltà a pensare e verbalizzare tale rappresentazione può essere la spia
di un’assenza di spazio
mentale per il bambino
che si tradurrà in una
sensazione di “vuoto”, “di
non incontro”, di “incontro sbagliato”, di “non appartenenza” (Ibidem, p.
80).
174
Infanzia e adolescenza
22. La verità essenziale è
l’ignoto che mi abita e
ogni mattina mi colpisce
con un pugno. (Carlos
Drummond de Andrade,
poesia “Corpo”. In: Sentimento del mondo, Einaudi,
Torino 1987).
23. “Da un pezzo, sotto
l’impulso della psicoanalisi, che stabiliva che nessuno potesse sfuggire a
un destino inscritto nell’inconscio, i partigiani
della trasparenza raccomandavano ai genitori
adottivi di dire la verità.
Ma gli avversari di questo
principio
rifiutavano
qualsiasi riferimento a
una metafisica della vera
origine, sottolineando
che un’esistenza si costruisce nel presente e
che nessuno è obbligato a
obbedire alla legge di un
presunto “ritorno del rimosso”. Di fatto, ognuno
dei due campi difendeva
una concezione diversa
della famiglia. I primi privilegiavano le virtù di
un’etica della verità derivata dalla tragedia greca
alla quale il gesto freudiano aveva dato il cambio,
mentre i secondi professavano una sorta di utilitarismo
postmoderno
fondato sulla preoccupazione di una costruzione
identitaria” (Roudinesco
E. (2002), La famiglia in
disordine, Melteni editore,
Roma, 2006, p. 164).
Davide Baldan
primario e quasi esclusivo, in una sorta di passaggio
del testimone trans-generazionale. Mi è sempre parso importante tentare di cogliere la mobilità psichica
e la dialettica possibile fra soluzioni pur parziali, nella doppia accezione di limitate e di parte. Ossia esplorare e differenziare quando la volontà di trasmissione
di un lascito, eredità, bagaglio è espressione di un
Eros vitale, fiducioso nel mondo, nel futuro ed aperto alla differenza, al mutamento e al divenire, oppure quando assume i connotati di un esorcismo nei
confronti di un vissuto Thanatos non significabile, atterrente, annichilente; quanto presente fosse l’apertura alla vita e per la vita o la chiusura alla morte e la
protezione dall’angoscia del futuro; quali le forme
del pro-getto o del re-gresso, della volontà di azione
assertiva o dell’agito contro-fobico.
Il concentrarsi dei coniugi sulla trasmissione di
proprie “cose, valori, storie, tradizioni” è spesso monodirezionale ed unilaterale, nel senso che in prima
battuta oscura ed eclissa il portato della storia del
bambino, il suo bagaglio identitario che, di necessità,
dovrà trovare o potrà non ottenere posto anche nella famiglia adottiva. È davvero difficile quasi per tutti
poter pensare che il passato del bambino possa essere (almeno anche) un valore, qualcosa da accogliere
e preservare come dote; persino quando le informazioni bio-psico-sociali sono scarne e dubbie22, ovvero
proprio quando una “verità narrabile” è ancor più
necessaria, al di la di una cronistoria oggettivata e documentata. Infatti, rispetto alla “narrazione delle origini” del-e-al bambino adottato in tenera età, sulla
qui importanza quasi tutti concordano in prima battuta, replicando la frequente insistenza dei Servizi su
questo tema, se invitati a dire la loro spessissimo i coniugi esprimono scetticismo o critica o aperta opposizione23, generalmente facendo appello alla diffusissima idea del “bambino tabula rasa”, all’aspettativa di
“bambini piccoli, poveri, orfani, che han bisogno solo di
amore e di dimenticare” ed all’intenzione di “spiegare il
175
Riflessioni in forma di testimonianza...
passato al bambino, tutto in una volta, quando sarà grande e potrà capire”.
Date queste premesse, di frequente riscontro, come da tempo segnalato da più parti, mi pare che spesso si apra uno spazio concreto per malintesi pericolosi ed equivoci rovinosi, stante la necessità di mantenersi in equilibrio muovendosi lungo il crinale di una
“doppia tentazione”: quella della verità del desiderio e
del bisogno della coppia e quella del desiderio e bisogno di
verità del minore. L’oggettiva difficoltà di conciliare le
differenziate verità affettive e storiche di tutti, relate
alle diverse risorse e competenze di ciascuno, se non
adeguatamente sostenuta e perseguita nel tempo con
una progressione incrementale congruente della narrazione delle origini, può far precipitare in un circolo
vizioso che: da una malintesa delicatezza che induce
all’allusione (accennare velatamente a qualcuno o a
qualcosa che non si vuole dichiarare espressamente;
riferirsi in modo non esplicito a qualcuno o a qualcosa), consegna ad una collusione entro la coppia (rendere il figlio pseudo-biologico) e col desiderio del
bambino (accondiscendere i genitori), ad una
dila(ta)zione del tempo del rimandare ed assecondare, fino al costituirsi dell’illusione (suscitare in qualcuno speranze vane o opinioni erronee prive di fondamento) ed all’esito finale della preclusione (impedire,
vietare il passaggio, l’accesso a qualcuno; fare in modo di rendere impossibile qualcosa a se stessi; bloccare, ostacolare, sbarrare, vietare)24.
La difficoltà di ricucire in una trama narrabile i fili diversi degli accadimenti storici, dei fatti incerti e
degli aspetti ignoti può portare a dilemmi (per es.,
“se sappiamo poco, forse è più onesto non inventare nulla e
tacere…perché altrimenti dovremmo dire una bugia a nostro
figlio…Cosa è peggio?”), i cui tentativi di soluzione richiedono certo creatività, capacità di immaginare,
sensibilità, réverie, attitudine alla simbolizzazione ed
alla narrazione. Per quanto attiene a questi aspetti ed
in specifico alle origini immaginate dai coniugi, ho
Infanzia e adolescenza
24. Ricordo ancora due
coniugi segnalati dai Servizi perché dopo circa un
anno che avevano adottato una bambina cinese di
oltre 3 anni, continuavano a sostenevano caparbiamente, stupitamente e
nervosamente: “non è necessario dirle che non è nata
da noi perché lei non si è accorta della differenza…e infatti non ci chiede niente. Ci
guarda con i suoi grandi occhi e sta zitta: probabilmente
crede che siamo i suoi genitori, perché non vede niente di
strano, come noi…altrimenti
lo direbbe!”.
176
Infanzia e adolescenza
25. Miliotti A.G., Ghigliano C. (2003), Mamma di
pancia, mamma di cuore,
Editoriale Scienza, Trieste.
Davide Baldan
potuto ripetutamente constatare che nella stragrande maggioranza dei casi risultava impensabile perché
in-esistente in fantasia la figura del padre naturale
del bambino adottabile. Ma mentre per le donne,
sforzandosi di formulare ipotesi sui motivi dell’abbandono era fantasticabile la figura di un uomo “farabutto, traditore, menzognero, approfittatore” o talvolta
“stupratore che ha ingannato ed abbandonato la madre del
bambino” (“probabilmente povera” o “sola e abbandonata”
o “con troppi figli”), per gli uomini tale agente necessario continuava a rimanere in-concepibile, ossia non
poteva nascere nella loro fantasia, segnalando un
blocco emotivo-cognitivo così radicale da far legittimamente pensare ad un interdetto, a meccanismi di
difesa arcaici, potenti e radicali come il diniego o la
forclusione. Specularmente, esplorando i vissuti differenziali dei coniugi durante i diversi tentativi di
PMA, le donne tendevano a sottolineare il “noi” di
quell’impegno medico-tecnologico, spesso con un tono protettivo e volutamente valorizzante il partner,
ed in special modo se l’infertilità era ad egli esclusivamente attribuibile; mentre gli uomini rimarcavano
le paure per i rischi sanitari corsi dalle partner come
uniche vere protagoniste, ammettendo di essersi sentiti molto limitatamente utili, ossia più e quasi solo
come donatori di gameti che non come persone. A
tal proposito, spesso mi sono interrogato sul motivo
della “doppia madre” e sulla variante della “doppia
discendenza”, afferenti all’idea della seconda nascita
ovvero della rinascita, dei quali parla Jung
(Jung,C.G., 1936*, pp. 45-46). Vengono in mente,
pensando alle più pervasive narrazioni collettive, anche le immagini mediatiche contemporanee della
“mamma di pancia” (biologica) e della “mamma di cuore” (adottiva), spessissimo usate e veicolate dai Servizi, nonché da molte madri adottive che su queste costruiscono fiabe per spiegare al bambino le sue origini25. Oppure il titolo di una recente serie televisiva di
docu-fiction sull’adozione internazionale, cioè
177
Riflessioni in forma di testimonianza...
“mamma ha preso l’aereo”, dove accanto ad una accent(u)azione che pare sconfinare in una mistica della maternità immacolata o partogenetica, si assiste all’eclissi nominale o al non-sense del maschile, forse
registrato confusamente anche dall’uomo della coppia; che mi pare la dica lunga sulla percezione collettiva del rapporto fra identità di genere e genitorialità, nonché sui bisogni e sui valori differenziali attribuiti ai due sessi. Al punto da poter accogliere riflessivamente la provocatoria e scomoda domanda:
“In queste condizioni, il padre è condannato a non
essere più che una funzione simbolica? (…) Assistiamo alla nascita di un’onnipotenza del “materno” che
verrà ad annientare definitivamente l’antico potere
del maschile e del “paterno” a favore di una società
comunitarista minacciata da due grandi spettri: il culto di sé e la clonazione?”26 (Cfr. col concetto di fantasma-non-fantasma dell’onnipotenza e dell’autogenerazione
sviluppato da P-C. Racamier, 1992, 1995).
Strettamente correlato alla questione delle origini, molto forte e presente è il fantasma, o meglio lo
spettro, del rifiuto dei genitori adottivi da parte del
bambino adottato. Ma cosa fantasticano come forma
di rifiuto queste coppie? Spesso e volentieri la non
immediatezza dell’attaccamento (“ci aspettiamo un
bambino che ci scelga ed apra le braccia appena ci vede”),
ed anche azioni e comportamenti da parte di un
bambino che magari chiede semplicemente altro di
quanto offerto dai coniugi come il meglio che si possa-e-debba volere (“anche un semplice <<no>> mi ferirebbe o ci farebbe sentire incapaci”)27. Nelle fantasie di molte coppie tali comuni accadimenti sono già sufficienti e suscettibile di incrinare e far precipitare l’idillio
atteso (“sarebbe il peggior incubo per noi!”), pregustato
in fantasia, spesso preteso e necessitato, di un incontro che fin da subito, come un colpo di fulmine amoroso (“al primo sguardo” o “come quando ci si innamora”)28, si (im)ponga come totalmente sanante il passato (non poche coppie dichiarano che diranno al fi-
Infanzia e adolescenza
26. Roudinesco E. Ibidem,
p. 11.
27. “Pensai a come un atto opaco ne generi altri
di sempre più marcata
opacità, e allora il problema è interrompere la catena. (…) Un bambino
non vuole mai soltanto
quello che chiede, anzi
una richiesta soddisfatta
gli rende ancora più insopportabile la mancanza
non confessata” (Ferrante E. (2006), La figlia oscura, Edizioni e/o, p. 127).
28. “La coppia adottiva è
chiamata a scegliere (o
ad accettare) di essere
madre e padre di quel
bambino, e allo stesso
modo è necessario che il
bambino scelga (o accetti) di essere figlio proprio
di quei genitori. La fantasia rassicurante a cui le
coppie si affidano è,
quindi, quella di una
“magica” corrispondenza
tra il sogno e l’oggettività.
(…) Nell’immaginario
condiviso della famiglia,
l’incontro con il figlio
adottato assume ad atto
di magica riparazione alla
ferita narcisistica dell’abbandono per il bambino,
da una parte, e della capacità procreativa per i
genitori dall’altra. E questo senso di “magico incontro” tende anche a
persistere nel tempo come uno dei collanti della
relazione. (…) Questa dinamica è drammaticamente assente, invece, in
moltissime delle storie di
ragazzi “restituiti”. In
molti racconti il ragazzo è
convinto -o ricorda- di es-
178
Infanzia e adolescenza
sere stato adottato dalla
coppia a seguito di una
“seconda scelta” rispetto
ad un precedente abbinamento con un altro minore dimostratosi poi irrealizzabile; oppure ricorda
che tra i vari adulti e bambini presenti all’incontro
loro “erano gli unici rimasti (“gli avanzi”) dopo
che tutti gli altri si erano
riconosciuti come genitori e figli”; oppure ancora l’idea di essere una
scelta di ripiego viene sintetizzata nel ricordo di un
paio di scarpe regalate al
momento dell’incontro
di misura molto più piccola del necessario (Lombardi R., “La famiglia al
“banco di prova” dell’adolescenza, specchio che
amplifica e confonde”.
In: Percorsi problematici dell’adozione internazionale.
Indagine nazionale sul fenomeno della restituzione di
minori adottati da altri paesi, op. cit., pp. 78-79).
Davide Baldan
glio: “ora hai noi, quindi il tuo passato non conta più: non
ci pensare”), collocando la pietra angolare della nuova “famiglia di fatto” e fissando come in un’istantanea un rapporto di accettazione bi-direzionale immediato, incondizionato, stabile, costante: un dato di
fatto a priori, una necessità fondativa anziché un processo evolutivo, ossia una conquista nel tempo, un
approdo che richiede impegno, pazienza, speranza,
insomma durata, revérie, coraggio, tenacia. Nella migliore delle ipotesi, al termine dell’anno di affido
pre-adottivo, quando previsto, ho verificato che una
buona parte dei neo-genitori riuscivano ad ammettere, soprattutto se espressamente invitati a soffermarvisi, e comunque quasi sempre con rammarico o imbarazzo autocritico per le loro credenze precedenti,
che il bambino li aveva differenziati ed accettati in
tempi diversi, a distanza di settimane o mesi dal primo incontro, con gesti, parole, disegni, ecc.; ed anche che solo allora essi avevano potuto cògliere una
data “azione parlante” come inizio di una circolarità
famigliare in cui ciascuno poteva davvero sentirsi riconosciuto, validato nel tempo della vita quotidiana
e non da prima, da due diversi Stati e dalla Legge.
Ed anche la “dimensione riparativa” spesso si modifica e precisa nel tempo vissuto quotidianamente,
passando da una iniziale e ardua percezione confusamente semantica, generica e quantitativa (“l’amore
cura tutto” e “abbiamo tanto amore da dare, che certo basterà”), che si declina in una onesta difficoltà a pensare ai “modi” della corrispondenza, della relazione
vicendevole, al come porgere, proporre, essere in relazione, ecc., per farsi faticosa realtà di ascolto, osservazione, empatia, sforzo, nella costruzione dell’idioma affettivo precipuo di ogni nuova famiglia (reciprocamente) adottiva attraverso l’apprendimento impegnativo della “sufficientemente buona” (alfa)betizzazione emotivo-cognitiva originata-dal e calata-nel vissuto del momento-per-momento di ogni giorno.
Adottare un bambino può costituirsi come un at-
179
Riflessioni in forma di testimonianza...
to doppiamente riparativo che si colloca alla fine di
un lungo e faticoso processo di elaborazione del lutto. Tuttavia un atto ripartivo dovrebbe essere accompagnato dall’assunzione di una “preoccupazione materna primaria” (Cfr. con “falsa riparazione” o processo pseudo-riparativo, secondo D. W. Winnicott,
1948) (Cfr. con classica distinzione tra riparazione vera, riparazione ossessiva e riparazione maniacale,
proposta da R.D. Hinshelwood, 1989). La sola riparazione che non scaturisce dal piacere e dal desiderio
(evolutivamente successivo all’esperienza dell’invidia), bensì dalla preoccupazione e dalla colpa, comporterà un alto livello di ansia, fantasie persecutorie,
mancanza di piacere, che insieme possono pervenire
a effetti paradossali e tragici: invece di saper riparare,
questa “riparazione che non ripara” promette di poter arrivare a danneggiare.
In alcune di quelle dolorose e/o bloccate o agitate situazioni esistenziali, individuali e di coppia, che
ho fin qui tratteggiato, ho potuto però sperimentare
che quando il terzo pubblico, lo Stato con i suoi Servizi
ed il TM con i suoi GG.OO. che colloquiano con i coniugi, accettano di patire con la coppia non intendendo fornire patenti consolatorie, ovvero vanno oltre la necessità di valutare-e-decretare per accedere
ad una sincera volontà empatica di avvicinamento,
comprensione ed accompagnamento, pur per infine
assumersi responsabilmente il peso di una decisione,
quest’insieme offre molte più probabilità di rendere
infine patente ma tollerabile quella sofferenza, e con
essa l’accostamento a (anziché la fuga da) un esame
di realtà più sereno: e così facendo, rende possibile il
costituirsi della speranza e talvolta di vere e proprie
sublimazioni efficaci. Di quella speranza che è capace di rimanere di fronte alla paura ed alla preoccupazione, lasciandosi lambire ma non sconfiggere,
conservando e proteggendo il desiderio e il pregustato piacere dell’incontro con l’Altro: tutti insieme,
dinamiche emotive complesse e variegate che mi
Infanzia e adolescenza
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Infanzia e adolescenza
Davide Baldan
paiono basilari per un processo relazionale realmente e promettentemente riparativo.
Per quanto attiene alla pur genuina volontà di lavoro clinico nel contesto del TM e delle sue necessarie procedure, quel che mi pare potrebbe essere un
rischio ineludibile è di non curare a sufficienza nel
tempo, ed infine esautorare, quella “pulsione epistemofilica” che dovrebbe idealmente informare di sé
(almeno) qualunque professione voglia dirsi “di aiuto” all’essere umano alienato e perciò attualmente
sofferente.
Predisporsi ed accostarsi ad ogni nuovo colloquio
con curiosità rispettosa e speranzosa per quanto di
ignoto può prodursi (Cfr. con l’“impensato” di cui parla J. Derrida), ovvero senza cadere nel senso della serialità procedurale e/o dell’efficientismo quantitativo, dando/si il tempo perché si possa realizzare comprensione e non la messa-in-scena di un pseudo-incontro, credo che richieda attitudine, formazione,
aggiornamento ma anche “manutenzione” e sollecitudine impegnate. Mi pare cioè che anche nell’ambito dell’adozione così come degli orientamenti psico-dinamici potenzialmente più fecondi, vi siano rischi che possono verificarsi con tanta maggiore facilità e onere, quanto più un atteggiamento non coltivato e non alimentato anche dal dubbio, si declina in
una tecnica pericolosamente vicina alla dottrina, con il
non augurabile pericolo di scivolare da un “incontro
promesso” e intrinsecamente possibile, ad un “incontro negato” e deludentemente ri-trovato.
In altri termini, la speranza mi appare giocare un
ruolo determinante, meritando perciò molta attenzione, anche in quell’agire che in qualunque contesto e finanche solo latatamente voglia porsi come
perlomeno potenzialmente terapeutico.
Solo quando la speranza, anche ma non soltanto
nell’ambito adottivo, appunto, si declina nelle forme
dell’attenzione premurosa e continuativa, del sorreggere, alimentare, serbare, coltivare, nutrire, mante-
181
Riflessioni in forma di testimonianza...
nere desta e vigile, tenendola coraggiosamente in
tensione costruttiva con il suo antonimo, ovvero la
rassegnazione, si può inscriverla senza soluzione di
continuità in una tessitura temporale ed emotiva coerente e creativa, viva, pronta ad accogliere quella vita che si vuole adottare: un bambino non in-forme, né
autoreferenziale, né propaggine narcisistica, bensì
realmente quell’Altro che è e che deve potere essere,
quella ricchezza che ha da poter esprimere nella collettività e nel mondo che sapremo consegnargli.
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Riflessioni in forma di testimonianza...
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Infanzia e adolescenza
184
Infanzia e adolescenza
Davide Baldan
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185
Infanzia e adolescenza
La valutazione
dei potenziali
genitori
adottivi:
fantasma
o realtà?
L’approccio del dott. Baldan rivela, da
parte del collega, una indiscutibile attenzione psicologica e un rispetto per gli
aspiranti genitori adottivi che esprime
uno stile riflessivo ed empatico di rapporto con questi ultimi, visti come soggetti
che tentano, pur fra inevitabili ambiguità
e ambivalenze, di sperare attivamente di
potere essere padri e madri. Dalla lettura
dell’articolo emerge altresì come nell’esperienza del collega tale speranza possa
essere in concreto accolta dagli operatori
che svolgono il compito della selezione,
non spenta o ostacolata, ma semmai aiutata a maturare in una dimensione più
matura e realistica, e meno idealizzata. La
sensibilità verso i potenziali genitori, anche se ci si trova in un contesto giuridico,
appare di stampo clinico.
Dal lavoro di Baldan si evince come l’intenzione
dei selettori sia quella di evitare sia una troppo collusiva adesione e complicità con la “speranza” di chi
chiede di diventare genitore adottivo, sia un atteggiamento troppo oggettivante di giudizio su tale speranza. Proprio sul ruolo di “giudizio”, di valutazione
che i GG.OO. sono chiamati a svolgere, all’interno
delle procedure di adozione, vorrei proporre una riflessione, che spero possa divenire possibile punto di
partenza di un dibattito.
Baldan scrive in primo luogo sulla possibilità che i
Giudici Onorari destinati al compito della selezione,
nella sua esperienza spesso rappresentati da una coppia uomo-donna, possano esorcizzare il fantasma valutativo: tale fantasma valutativo sarebbe infatti
“ineludibile ma pur calmierabile con un’accoglienza rispettosa
e cercando instancabilmente un’alleanza di lavoro su finalità
dichiarate di franca volontà di ascolto e di comprensione. È
piuttosto frequente infatti, nella mia esperienza, che delineando subito ed accuratamente la cornice/setting dell’incontro e
Breve riflessione
sul testo di Baldan
Giorgio Cavallari
186
Infanzia e adolescenza
Giorgio Cavallarii
le sue finalità conoscitive, ribadendole implicitamente con
comportamenti coerenti, anche coppie inizialmente agitate o
spaventate o arrabbiate, riescano ad accomodarsi ed acclimatarsi, risultando agevolate nell’espressione di quanto possono
mettere in comune e/o ulteriormente esplorare, specificare,
comprendere; congedandosi infine in modo nettamente più
rilassato e talvolta dichiaratamente soddisfatto e grato”.
Non metto assolutamente in dubbio che questo
sia accaduto nell’esperienza dell’autore e di altri Giudici Onorari, ma ritengo che il punto su cui focalizzare l’attenzione sia un altro: il momento valutativo nella procedura di adozione non è un fantasma, ma è un fatto concreto, una realtà. Tale è, e come tale deve essere
considerato. Il genitore naturale può divenire tale
senza sottoporsi ad alcun accertamento, e diventandolo si assume il compito, inteso come diritto e dovere, di provvedere ai figli. Tale ruolo può essergli
tolto solo per provata incapacità: la Costituzione della Repubblica Italiana infatti all’articolo 30 afferma
che “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”.
Il genitore adottivo, invece, deve essere sottoposto
a valutazione. Nulla da eccepire fino a qui: il Tribunale dei minori, garante dei diritti di questi ultimi, ha
il diritto di accertare se e come i bambini destinati all’adozione incontreranno un contesto genitoriale
adeguato, dal punto di vista ambientale, psicologico,
socio-economico. Quasi sempre i bambini che vanno
in adozione provengono da situazioni di estremo dolore, deprivazione, sofferenza; spesso hanno storie alle spalle costellate di traumi, traumi che colpiscono i
punti più vulnerabili di un Sé in evoluzione: abbandoni spesso ripetuti, trascuratezza dei bisogni fisici e
psichici anche più elementari, violenze, abusi, mancato rispecchiamento, situazioni in cui la disperazione è stata ampiamente alimentata, e la speranza violentemente colpita. È ben comprensibile la preoccupazione dei Giudici Onorari finalizzata a fare in modo che il luogo dove questi approderanno sia un luo-
187
La valutazione dei potenziali genitori adottivi: fantasma o realtà?
go adeguato, “sufficientemente buono”, parafrasando
Winnicott, un luogo che rappresenti un salto di qualità positivo rispetto a quello di provenienza. Ma come
valutare se la coppia di aspiranti genitori adottivi è in
grado di dare luogo a tale milieu? Personalmente ritengo, in modo laico e assolutamente disposto a lasciarmi convincere del contrario da chi possieda adeguate argomentazioni, che il giudizio dovrebbe mirare solo a escludere eventuali incapacità, e non ad accertare la presenza di adeguate capacità, posizione
che mi sembra invece di cogliere nel testo di Baldan.
Ciò che a mio parere i Giudici Onorari dovrebbero accertare è la assenza di infermità mentali così rilevanti da compromettere, agendo sulla dimensione
noetica, affettiva e comportamentale della vita psichica la motivazione a diventare genitore adottivo e
la concreta possibilità di svolgere, con la relativa stabilità e coerenza che questo richiede, un ruolo educativo. Dovrebbero altresì accertare la assenza di disturbi di personalità così rilevanti da compromettere,
in modo però clinicamente significativo, l’accesso a
relazioni di sufficiente mutualità ed empatia, la regolazione degli affetti, il controllo degli impulsi, e la
possibilità di mentalizzare. In altre parole si dovrebbero escludere quelle situazioni dove la possibilità di
contenere-contenersi, regolare-regolarsi, pensarepensarsi è patologicamente alterata, in modo da generare tratti stabili, rilevanti di disfunzionamento
della personalità che necessariamente devono indurre a segnalare la incompatibilità con il ruolo genitoriale. In altre parole si dovrebbe accertare la presenza, o meno, di una condizione di privatio di determinati requisiti. Requisiti che definiscono la esistenza,
in coloro che chiedono la adozione, non del germe
di una genitorialità ideale, ma di una paternità e maternità semplicemente umanamente possibili.
Propongo, come detto, queste brevi righe come
possibile apertura di un dibattito sul tema.
Infanzia e adolescenza
189
Fa freddo stanotte, molto freddo. Una lama sottile che penetra nelle ossa e non ti
lascia dormire. Dove sono nata non c’era
Maria
l’inverno e non sapevo cosa fosse il freddo.
Ora lo so, ho dovuto imparare anche questo. Voi che dormite in case riscaldate sotto
coperte di lana non conoscete questo
ghiaccio che ti afferra le spalle e non ti fa
più sentire i piedi. Io lo conosco.
Stanotte, in questa baracca, non si vedono le stelle. Eppure c’è qualcosa di buono in una notte come
questa. C’è un ragazzo accanto a me che dorme e mi
tiene la mano. Ha detto che mi vuole aiutare a realizzare il mio sogno. Perché io ho anche un sogno
che mi fa compagnia e non lo lascio scappare. Ci siamo capiti attraverso un francese arrangiato con questo ragazzo, anche se parla un’altra lingua perché viene da lontano, viene dall’est, non conosco il nome
del suo paese. Ma ci siamo capiti soprattutto con lo
sguardo. All’inizio ho pensato che volesse il mio corpo, come gli altri, e invece mi ha portata qui, per passare la notte con un tetto sulla testa, e ha detto che
domani mi spiegherà come fare a portare avanti il
mio sogno. Gli ho creduto.
Sono venuta in Italia per questo e per sfuggire alla schiavitù. Sapete cos’è la schiavitù? Forse lo sapete
ma non la conoscete. Io l’ho conosciuta, quella che ti
possiede e che ti strazia l’anima, quella che non ti fa
respirare, quella che ti paralizza i pensieri, quella che
ti spappola la carne in tante ferite aperte che non rimarginano più. Hai solo ferite, ti senti ardere di dolore, hai perso il passato e non vedi il futuro, vivi solo in un orribile presente. Non sei più tu perché non
sei nessuno. Eppure io ho conservato un sogno.
Come ho fatto non lo so. Credo che sia stato merito di mia madre, perché anche io ho avuto una madre tanto tempo fa, esattamente come voi. Lei ha nutrito me e i miei sogni. Ricordo pochissimo e in modo vago ma mi sforzo di non perdere quel ricordo.
Speranza
Beatrice Masella
190
Maria Beatrice Masella
Mi portava legata su una spalla mentre lavorava la terra, faceva da mangiare, trasportava l’acqua, e io ricordo quel dondolio che cullava me e i miei sogni.
Dovevo essere piccolissima, perché quando penso a
me in piedi che cammino sono già da un’altra parte,
con un’altra famiglia, e poi c’è stata la guerra, spari,
grida, sangue, corpi fatti a pezzi, una guerra che non
finiva più, fino a quando una notte sono stata presa e
venduta come schiava. All’inizio non capivo cosa fossi diventata e cosa volevano da me, ma si fa in fretta
ad ubbidire quando c’è in ballo la sopravvivenza. Mi
sono sempre chiesta perché abbia voluto comunque
sopravvivere e non mi sia fatta uccidere subito, in una
volta sola e per sempre. Sarebbe stato di sicuro meno
straziante, invece a dispetto di tutto si insinua sotto
la pelle una speranza che ti fa andare avanti stringendo forte i denti, la speranza di fuggire. Così di
quel periodo non ho ricordi se non un rombo nelle
orecchie che non mi lasciava mai e un pensiero fisso
nella testa: fuggire. E un sogno che mi sono nascosta
bene in fondo all’anima cosicché nessuno potesse
scovarlo.
Sta per arrivare l’alba, non so che ore siano, non
possiedo un orologio, ma ho sempre annusato l’aria
e imparato a conoscere la natura, con i suoi ritmi cadenzati e i suoi annunci imprevisti. Un leggero chiarore, un cambio di guardia fra uccelli notturni e uccelli mattutini, un abbassamento della temperatura:
sta per nascere una nuova giornata.
Poi d’improvviso un rumore sordo che arriva su di
noi. Lampi di luci ci investono. Cosa succede? Ci alziamo da quei materassi umidi buttati sul terreno un
po’ intontiti. Il ragazzo dell’est mi prende per mano
e mi trascina fuori. Voci che si rincorrono in lingue
che non conosco. Cosa succede ancora?
Due grandi ruspe avanzano nel fango con fragore
di ferraglia e motore, mentre una voce da un altoparlante ordina di uscire fuori dalle baracche e consegnarsi agli agenti in divisa.
191
Speranza
Il ragazzo dell’est mi guarda perplesso e con poche parole dice che sì, conviene andare da loro, potranno aiutarci ad avere una casa e forse un lavoro.
Ce li ho i documenti? Mi chiede. No che non ce li ho,
secondo voi una schiava ha nome, cognome e passaporto? Non possiedo nulla, neppure so quando sono
nata e come mi chiamo veramente. Ma questo vuol
dire che non ho diritto di vivere? È strano come questo diritto all’esistenza te lo possano levare un’infinità di volte, proprio perché non l’hai mai avuto.
Le ruspe con le loro braccia gelide incominciano
a stritolare quelle capanne fatte di niente. Rumore di
oggetti fracassati e sentimenti distrutti. Sento il pianto di un bambino. Non possiamo rimanere, siamo
abusivi, dicono. Ma di che cosa abuso io, a cui non è
mai stato concesso nulla, a cui tutto è stato strappato
via? Forse abuso della vostra vita, forse della vostra pazienza, quando chiedo anch’io una vita? C’è un posto
per me fra le vostre case?
Io non mi fido delle divise. Forse sotto ci sono uomini buoni ma le divise sono sempre pericolose. Mia
madre è stata uccisa da un uomo in divisa, non so
neppure di quale esercito.
Guardo negli occhi il ragazzo dell’est che mi vuole aiutare a realizzare il sogno, la tentazione di credergli è grande. Dura qualche secondo eterno, poi
con uno strattone secco mi libero dalla sua presa e incomincio a correre nella boscaglia lungo il fiume.
Ho imparato a scappare lontano dal pericolo senza sapere per dove. Ho imparato a fuggire. Sono una
fuggiasca, senza nome, senza patria, senza amore.
Corro, corro via da quel ragazzo e dalle ruspe e dalle divise. Ancora una volta. Lo conosco già il rumore
dei miei passi soli che affondano nella terra. Lo conosco e mi fa compagnia.
Corro, corro e porto via il mio sogno. Lontano
dalle ruspe, lontano da voi che non volete conoscermi né riconoscermi. Corro e piano piano mi tranquillizzo. Corro e mi dico che anche questa passerà,
192
Maria Beatrice Masella
che troverò un altro posto dove stare, che è già successo tante volte, che conosco questo fuggire e non
mi fa più paura. Corro e non tremo più. Il mio sogno è ancora qui, lo sento palpitare, e questo è l’importante. Rallento il passo, respiro. Nessuno mi segue, a nessuno importa dove vado e come faccio a
procurarmi il cibo. Nessuno vuole sapere di me, nessuno vuole ascoltare la mia storia.
E invece un giorno ce la farò, il mio sogno diventerà realtà: imparerò a leggere e a scrivere in una lingua qualsiasi e vi racconterò la mia esistenza. A lungo, senza pause e senza stancarmi, ricominciando
sempre dall’inizio perché la mia storia è quella di milioni di persone che non possono raccontare, io racconterò per me e per loro, tutte le storie una ad una,
fino a quando quelle parole non riusciranno a far tremare voi, di dolore e di vergogna.
E il mio sogno si farà speranza.
8/01/2006,
Maria Beatrice Masella
193
Recensioni
Il testo di Joseph Camcontributo di Jung su tale
Joseph Cambray
bray, attuale presidente
tema alla luce dei nuovi
della IAAP, l’associazione
modelli di mente, e dei
mondiale degli analisti
mutamenti avvenuti nella
junghiani, tocca un tema
ricerca scientifica..”.
fra i più complessi e affaIl volume, breve (111
scinanti nell’ambito della
pagine) ma estremamenpsicologia analitica e nelte ricco dal punto di vista
l’ambito della rilettura
contenutistico, si articola
contemporanea dell’opesu cinque capitoli.
ra di Jung: la sincronicità.
Il primo e dedicato
Texas A & M,
Cambray è un clinico
dall’autore alla descrizione
College Station 2009
esperto e attento all’evostorica del concetto di sinluzione della tecnica psicoanalitica, e a
cronicità, come si è venuto a costruire nelciò che si può concretamente fare per
la mente di Jung in stretta relazione con i
aiutare i pazienti nella stanza di consulcampi di studio che il fondatore della psitazione. Allo stesso tempo è un analista
cologia analitica esplorava nel corso della
interessato al confronto con ciò che si
suo cammino intellettuale. Cambray ci fa
muove, dal punto di vista culturale, sonotare come proprio nella “costruziociale e scientifico, nel mondo a cui pane”del concetto di sincronicità lo Jung cliziente e analista giocoforza appartengonico, quello che cioè tutti i giorni inconno. Per lui gettare lo sguardo al di fuori
trava i suoi pazienti e annotava i fatti
della stanza di analisi non è solo l’e(compresi quelli insoliti e inspiegabili in
spressione di una mente curiosa, ma antermini di causa ed effetto) dialogava inche un dovere etico per comprendere
teriormente con lo Jung ricercatore, promeglio ciò che accade nel setting.
tagonista di una indagine che seppe conScrive infatti nella introduzione del tenettere insieme, in modo originale e creasto che stiamo presentando: “..lo slancio
tivo, nozioni tratte da almeno tre ambiti:
verso la scrittura di questo libro sorge dal
lo studio junghiano del sogno, e del suo
lavoro clinico. L’esplorazione analitica
rapporto con l’inconscio non solo persopossiede la potenzialità per attivare, enernale ma anche collettivo; la attenzione
gizzare, e focalizzare i processi inconsci,
per la filosofia orientale, in particolare
che spesso conducono verso esperienze
per il taoismo; ed infine il suo interesse
che sono percepite come straordinarie
per i rapporti fra psicologia del profondo
dalla prospettiva della coscienza egoica.
e fisica relativistica e quantistica: nel conNel momento in cui io iniziai a notare
cetto di sincronicità si trova il distillato del
l’aggregarsi di tali processi di attivazione
lungo e articolato dialogo intellettuale
intorno a certi temi toccati dal processo
che Jung intrattenne con il fisico Pauli.
analitico, e attorno a certe situazioni cliIl secondo capitolo discute il rapporto
niche, in un modo che presentava analofra il concetto junghiano di sincronicità e
gie con ciò che Jung prese in esame quanquello che possiamo definire la visione
do formulò il suo concetto di sincroniciscientifica della teoria del campo. La teotà, io sentii la necessità di riesaminare il
ria (o meglio sarebbe dire le teorie) del
Synchronicity
Nature and
psyche in an
interconnected
universe
194
Recensioni
campo muovono da un assunto fondamentale: è sostanzialmente impossibile
studiare un evento senza considerare la
sua connessione con ciò che lo circonda:
ciò che esiste (compresi gli esseri umani
con la loro psiche) esiste immerso in un
“campo”, che influenza e viene influenzato
dai singoli soggetti che lo costituiscono. Il
concetto di campo è oggi ampiamente
usato nella psicoanalisi di tradizione freudiana, basti pensare alle concezioni dei
Baranger o, nel nostro paese, di Ferro.
L’indagine di Cambray, connettendolo alla nozione di sincronicità, ne fornisce una
lettura originalmente junghiana che merita di essere conosciuta e studiata.
Il terzo capitolo discute il concetto di
sincronicità in rapporto a tre temi focali
della epistemologia contemporanea, e
quindi anche dell’epistemologia psicoanalitica: il concetto di complessità, quello
di processo emergente, e quello di simmetria.
Concetti difficili, trattati però con una
chiarezza espositiva che è uno dei maggiori meriti della scrittura di Cambray.
Indurremmo il lettore in inganno, peraltro, se non precisassimo che le riflessioni
teoriche proposte, pur nel loro rigore
metodologico, non sconfinano mai in un
dominio di pura riflessione filosofica, ma
rimangono sempre ancorate all’esperienza clinica, all’esemplificazione dei
concetti utilizzando materiale proveniente dal lavoro analitico. In tal modo anche
le riflessioni più articolate e complesse
non perdono mai di quella vitalità e di
quella capacità di coinvolgimento emotivo che pertiene alle suggestioni provenienti dalla autenticità umana e quotidiana dell’attività clinica.
Ad un concetto chiave per ogni clinico torna infatti, significativamente, il capitolo quarto, dal titolo estremamente si-
gnificativo: Empatia e campo analitico. In
tale ambito una riflessione di ampio respiro sul concetto junghiano di sincronicità, che incrocia ambiti del sapere umano che vanno dalla filosofia antica alle
neuroscienze, affronta coraggiosamente
il mistero di come gli esseri umani, nella
radicalità del loro essere, appunto, “umani”, possano comprendersi a livello profondo, legando dimensione cognitiva e
dimensione affettiva, esperienza individuale e esperienza collettiva.
Il capitolo quinto, dal titolo Sincronicità culturali, getta lo sguardo al di là delle
mura della stanza di analisi, e oltre gli
eventi sincronici che avvengono in tale
ambito profondo ma intimo, e applica il
concetto junghiano di sincronicità, cioè
di connessione significativa che opera al
di là dei limiti della semplice connessione
di causa — effetto, a ciò che avviene nella
dimensione macrosociale, nel divenire
del genere umano attraverso la storia.
Uscito nel 2009, alle soglie del cinquantesimo anniversario della morte di
Jung, il libro di Cambray riflette sul concetto di sincronicità e nel fare ciò tocca
alcuni dei concetti più controversi ed insieme attuali e drammaticamente fecondi del pensiero junghiano: il concetto di
psicoide, la relazione fra corpo e mente,
il rapporto fra ciò che definiamo psiche, e
studiamo nell’ambito della psicologia,
della psicoanalisi e delle scienze umane,
e ciò che definiamo natura, oggetto di
studio delle scienze naturali.
È un testo denso, colto, ma allo stesso
tempo sintetico e agile, ricco di suggestioni per ripensare il proprio lavoro clinico,
e utilizzabile per tornare a discutere su alcuni nodi focali dell’identità junghiana
intesa come approccio alla conoscenza.
Giorgio Cavallari
195
Recensioni
Il volume di Gaetano Bepersino in ciò che del paClaudio Bartocci
nedetti rappresenta una
ziente appare più lonta(a cura di)
lettura attualissima e stino, più anormale, più
molante per chiunque si
alienato. Il malato di
muova nell’ambito della
mente di Benedetti non
riflessione teorica e della
cessa mai di essere una
pratica clinica nel campo
persona umana: i suoi
della psicologia del prosintomi, i suoi deliri, i
fondo, per chi lavora cosuoi comportamenti bizme psicoanalista, e per
zarri e inspiegabili non
chi lavora come psichiasono mai totalmente intra, privatamente e nei
comprensibili, a patto
Franco Angeli
servizi, facendo dell’apche chi si pone davanti a
Milano 2010
proccio psicodinamico
lui come essere umano
un punto di riferimento
che svolge la professione
del proprio operare.
di chi “cura” la sofferenza mentale sapGaetano Benedetti, psichiatra e psipia andare a cercare tale cifra personale,
coanalista, ha dedicato per svariati deanche quando questa potrebbe sembracenni il suo impegno al trattamento psire totalmente persa nella “alienazione”
coanalitico dei disturbi mentali gravi,
provocata dalla malattia psichica.
delle psicosi, dei quadri borderline, e in
L’“accanto” di Benedetti non è solo
particolare della schizofrenia. Su tali teumanamente sollecito, ma anche scientimi ha lavorato, ha studiato, ha insegnaficamente rigoroso: cresciuto nella tradito, e il libro che andiamo presentando
zione psicoanalitica freudiana, l’autore
rappresenta una sintesi del suo contribusa utilizzare l’interpretazione del sogno,
to. Il titolo del volume, una vita “accanla lettura del transfert e del controtranto” alla sofferenza mentale rappresenta
sfert, la concezione psicoanalitica della
lo “stile”, umano prima ancora che scienmente in un modo originale e mirato altifico e tecnico, del suo modo di porsi
la comprensione di ogni singolo paziennella relazione terapeutica con i malati
te: leggendo il libro si coglie bene come
di mente gravi. Un modo rispettoso, preanche la teoria possa stare “accanto” alla
sente ma non invadente, attivo ma non
pratica psicoanalitica ispirandola, orgasoggiogante, interpersonale ma rispettonizzandola, contenendola ma mai forso dei confini e del mistero di ogni indizandola dentro schemi precostituiti.
vidualità e soggettività umana, compresa
Pur conoscendo bene gli autori della
quella del malato psicotico.
tradizione psicoanalitica americana, e in
L’“accanto” di Benedetti sintetizza un
particolare coloro che si sono occupati
modo di stare con il paziente che si sotdei casi gravi, delle psicosi, del narcisitrae alla tentazione distanziante, oggettismo, degli stati borderline, Benedetti divamente di una psichiatria solo descrittimostra nel suo testo di appartenere in
va, per cui la finalità della cura non è
pieno alla tradizione culturale europea,
semplicemente ridurre i sintomi ma ane non solo a quella psicoanalitica.
che trovare il “senso” che si nasconde
Si coglie il debito culturale con
Gaetano
Benedetti: una
vita accanto
alla sofferenza
mentale
196
Recensioni
Freud e con la tradizione freudiana, si
coglie altresì anche il legame con la psichiatria fenomenologica, mentre la attenzione posta al ruolo vitale del simbolo e del processo di simbolizzazione nella vita psichica sana e nel lavoro clinico
con tutti i pazienti, e in particolare con
quelli gravi, fanno pensare ad una attenzione certamente non superficiale per la
concezione junghiana di simbolo, e anche per la suggestione fornita da autori
come Cassirer, che pur estraneo alla psicoanalisi definì l’essere umano come
animal simbolicum.
Si coglie nel modo in cui Benedetti si
accosta al mondo psicotico quella passione per l’interpretazione, per il disvelamento, per l’atteggiamento ermeneutico
che fu e rimane una delle lezioni più preziose lasciate da Freud.
Si individua anche l’attenzione per il
disturbo mentale inteso come modo di
“essere nel mondo”, per quanto disarmonico e carico di sofferenza, che ritroviamo nella psichiatria fenomenologica
in particolare di lingua tedesca, e un peculiare modo di “ascoltare” il paziente fa
riscoprire nelle pagine di Benedetti le
suggestioni di Binswanger e di Jaspers.
Il pensiero di Benedetti nacque nel
secondo dopoguerra grazie al confronto
quotidiano con i malati psicotici, così come il pensiero di Jung nacque in circostanze analoghe, agli inizi del secolo,
nella clinica psichiatrica diretta da Bleuler, nel lavoro intenso e coinvolgente
con gli schizofrenici. Per entrambi il lavoro con i pazienti psicotici rivelò l’esistenza delle potenzialità distruttive e disgregatrici presenti nella mente umana,
ma anche le possibilità ricostruttive che
l’uso della tessitura simbolica attraverso
il lavoro sul sogno, sulle produzioni non
oniriche come i disegni e le narrazioni,
e in certi casi anche sui sintomi deliranti permettono.
Il volume, curato da Claudia Bartocci,
è scritto in maniera originale e suggestiva,
nasce dalla lunga esperienza di supervisione e di gruppi di lavoro clinico guidati
nel corso di numerosi anni da Benedetti,
ed è diverso nella sua struttura da buona
parte della saggistica psicoanalitica.
Si articola in cinque capitoli, ognuno
dedicato ad un tema clinico: 1) l’Isteria
(introduzione di G. Medri) 2) la sindrome borderline (introduzione di L. D’Alfonso) 3) La schizofrenia (introduzione
di C. Elia) 4) Narcisismo e psicosomatica, il corpo specchio (introduzione di
P.M. Furlan) 5) Libido e agredo. Depressione, mania e nevrosi ossessiva (introduzione di C. Elia). Vi è inoltre la introduzione generale di M. Conci e la postfazione di M. Peciccia.
In ogni capitolo il lettore trova i commenti del Professor Benedetti a casi clinici portati da alcuni dei numerosi analisti che si sono formati con lui: in ogni caso si mischiano, creativamente, la complessa concretezza del materiale clinico,
gli spunti di amplificazione teorico-clinica forniti da Benedetti stesso, e dialoghi
appassionati fra il conduttore e i partecipanti. Ne emerge un sapere psicoanalitico vivo, aperto, che non chiude il discorso con risposte definitive ma apre a nuovi spunti di ricerca e di riflessione.
Giorgio Cavallari
197
Recensioni
Adriana Zarri teologa,
eremita dal 1975, attiva
presenza nel mondo ha
concluso la sua vita nel
novembre 2010 a novantuno anni.
Adriana Zarri
nei colori di una rosa o
nella meraviglia dell’acqua.
Un libro che parla di
come fermarsi e ascoltare
la vita.
La scelta di una vita da
“Il sole ha la sua ora
eremita non appare alieper sorgere
nazione dal mondo degli
Einaudi
e la sua ora per spariuomini, che anzi sono
Torino 2001
re…”
sempre con lei nella men“va tutto bene così.
te, nelle visite e nell’imGli uomini
pegno culturale, ma possibilità di ascolchiudono le finestre e dormono.
tare il flusso del tempo, l’alternarsi delle
Io pure dormirò.”
stagioni, di condividere giorno dopo
giorno la compagnia di piante e animali,
Così possiamo leggere in questa bella
senza mai rinunciare alla grazia di un fioraccolta dei suoi scritti pubblicata da Eire o di un dono.
naudi, dove la prima parte è costituita
Le sue parole risuonano nell’azione
dalla riedizione di Erba della mia erba del
frenetica del nostro vivere, come l’eco
1981.
del rumore del mare o la vista delle monIl testo si apre con la lettera del settagne, lontane all’orizzonte, in una giortembre 1975 dove l’Autrice comunica la
nata di vento in città.
sua scelta di vivere da eremita nella caAttraverso le sua voce il velo di noia e
scina detta del Molinasso.
indifferenza per l’abitudine del quotidia“L’eremita non è un misantropo
no si lacera e lascia intravedere il nuovo
inavvicinabile…è semplicemente uno
nell’antico.
che sceglie di vivere da solo perché nella
“…E dovevo fare mezzo secolo di strasolitudine ha il suo momento privilegiato
da per scoprire la ricchezza della “banad’incontro.”
lità”, per cogliere l’assonanza e il divario
Gli scritti sono raccolti sotto il nome
tra il banale e il sublime”
delle stagioni: dall’autunno fino ad un
Anche la morte ritorna così nel ciclo
nuovo autunno, in un ciclo che non si
della vita, non più nemica invincibile e
ferma ma accompagna il moto del temterribile, grande rimosso e tabù del nopo.
stro tempo, ma parte di un tutto che
Segue una seconda parte di testi procompiendosi rimanda ad una dimensiodotti negli anni e conclude il volume la
ne divina che entra senza arroganza o
terza parte scritta a Ca’ Sassino nel 2010.
giudizio, permettendo anche al laico di
È un libro da leggere poco alla volta,
interrogarsi e cercare la propria esperaccolti come per una preghiera, ma
rienza di Dio.
quel genere di preghiera che Adriana
Un libro prezioso dunque, che può
Zarri ci insegna: preghiere vive, con un
restituire e dischiudere nuovi possibili simicio sulle ginocchia, la presenza di Dio
gnificati, denso di osservazioni acuta-
Un eremo
non è
un guscio
di lumaca
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Recensioni
mente psicologiche, come quando distingue tra l’egocentrismo e “un dolce
amore di sé, un dolce capirsi, un dolce
sapersi perdonare…”
Un libro da leggere e consigliare co-
me compagno per un viaggio dentro sé
stessi, da cui si torna portando con sé un
alito di speranza.
Susanna Chiesa
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La Pratica Analitica
Davide Baldan: psicologo, psicoterapeuta, allievo del
Corso per Psicologi Analisti del CIPA.
Elisabetta Baldisserotto: psicologa, psicoterapeuta,
analista del CIPA con funzioni di training.
Giorgio Cavallari: psichiatra, psicoterapeuta, analista del CIPA con funzioni di training, docente della
Scuola di Specializzazione del CIPA.
Susanna Chiesa, psichiatra, psicoterapeuta, analista
del CIPA con funzioni di training, docente della
Scuola di Specializzazione del CIPA.
Nicolò Doveri: psicologo, psicoterapeuta, analista
del CIPA.
Augusto Gentili: psichiatra, psicoterapeuta, analista
del CIPA con funzioni di training, docente della
Scuola di Specializzazione del CIPA.
Maria Beatrice Masella: insegnante, pedagogista,
scrittrice
Bruno Meroni: psicologo, psicoterapeuta, analista
del CIPA con funzioni di training.
Letizia Oddo: psicologa, psicoterapeuta. Analista
dell’ AIPA.
Ilaria Puglisi: psicologa, psicoterapeuta psicoanalitica dell’età evolutiva e dell’adolescenza.
Katia Rossetti: psicologa, allieva della scuola di specializzazione del CIPA.
Autori
Finito di stampare nel novembre 2011
da Àncora Arti Grafiche, Milano - Italia
per conto di La biblioteca di Vivarium
via Caprera 4, Milano