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RIMMEL narrativa italiana 18 direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione e comunicazione: Gabriele Dadati grafica e interni: Studio Grafico Ceccherini, Milano utili consigli: Giulio Mozzi ISBN 978-88-98451-00-5 Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Copyright © 2014 Novecento media s.r.l. via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano www.laurana.it - [email protected] Fausto Vitaliano Lorenzo Segreto LAURANA EDITORE A Palmiro e Pino, miei fratelli. “The best lack all conviction, while the worst are full of passionate intensity”. W.B. Yeats, The second coming “Alle persone migliori manca ogni convincimento. Ai malvagi più intensa è la passione”. “‘Tempo matto!’, disse un vecchietto accanto a lui. O’Keefe grugnì assentendo. “‘Da bambino ho visto piovere da una parte della strada e il fulmine cadere sopra una casa; dalla nostra parte, non una goccia; e sì che mio padre avrebbe dato chissà cosa per un po’ d’acqua su un’aiuola di pomodori che aveva piantato da poco’”. John Dos Passos, Manhattan Transfer (traduzione di Alessandra Scalero) “Cause I am whatever you say I am. If I wasn’t, then why would I say I am?” Eminem, The way I am Prima di andare, dice il vecchio, vorrei raccontare il mio primo ricordo. Non sa esattamente a chi si stia rivolgendo. E, tuttavia, qualcuno gli risponde. Fa’ pure, sente dire da una voce alle sue spalle. Non abbiamo tanto tempo. Ho nascosto la bambina sotto il cappotto, dice il vecchio. Il fascista minacciava di sventrarla con la baionetta se non mi fossi allontanato. La madre, gli dico. E intanto gli nascondo la bambina alla vista. Lasciate andare la madre. Il fascista fa segno di no. Lei non c’entra, insisto. Lasciatela andare. Vattene via, dice il fascista guardando altrove. Prendete me, piuttosto. Vattene via. Prendete me, ripeto. Cerco di farmi coraggio. Imploro il fascista, lo blandisco. Vi do quello che volete, gli dico. Cosa avevi da dargli? Niente, non avevo più niente. La guerra mi aveva portato via tutto. Tutto. Va’ avanti, dice la voce alle spalle del vecchio. Non ti 9 distrarre. Non divagare. A un certo punto arriva il tedesco. Was ist passiert? Il fascista glielo spiega e mi indica. Il nazista rimane ad ascoltare in silenzio, poi fa un breve cenno con la testa – gli fa così, alza appena il mento. Intorno, il tempo aveva smesso di scorrere e il cielo stava a guardare. Anzi, arretrava per dare a vedere che lui non voleva avere niente a che fare. Lo spazio intorno aveva un colore solo. Grigio più chiaro, grigio più scuro. Il mulino pareva la casa di una strega. Vattene via, mi dice il fascista. Parla più sottovoce, adesso. Dammi retta, vattene via. Questi non sono come noi. Quello che dicono lo fanno. Si vede che mi vuole convincere, mi vuole spiegare che non c’è più niente da fare. Metti in salvo la bambina e vattene. Il tuo dovere l’hai fatto. Ti hanno dato la bambina. Accontentati. Tanto la madre non la salvi. Lei è la mia donna, dico al fascista. Ci dobbiamo sposare. Il fascista scrolla la testa come si fa davanti agli idioti o ai muli che non vogliono saperne di riprendere la marcia. Poi volta il vecchio Carcano 38 dalla parte del calcio e me lo affonda nel costato, per fortuna dal lato dove non tengo la bambina, che rimane illesa. Mi rimetto in piedi. Il fianco mi fa male, sputo sangue, ho la vista annebbiata. Prendete me, gli rantolo. A te non ti vogliamo, urla un altro fascista da lontano. Parla con l’accento che non è di queste parti. Viene da fuori, tutti vengono da fuori. Lo vuoi capire che non ti vogliamo? Va’ fuori dai coglioni. Comunista. La donna che amo mi guarda e non dice più niente, non c’è più niente da dire, lei l’ha capito prima di me, prima di 10 tutti. Fa’ come ti hanno detto, mi dice senza una parola. Metti in salvo la nostra bambina, dice senza parlare. Falla crescere, fa’ che si possa sposare e diventare madre. Promettimi che tutto questo accadrà. Te lo prometto che tutto questo accadrà, le rispondo. E poi non posso fare altro che scappare verso il bosco, aspettandomi – sperando – che le pallottole raggiungano anche me. Ma nessuno mi spara contro. Hai finito?, dice la voce alle sue spalle. Sì, ho finito. È questo il tuo primo ricordo? Questo è il mio primo ricordo. E poi? Che succede dopo? Quando il ragno decide di costruire la ragnatela che sarà la sua casa deve affrontare il più grande dei problemi: generare il primo filo. Fatto ciò, il resto avverrà di conseguenza. È il primo filo che conta, gli dovrà uscire dalla pancia dritto e robusto così da sorreggere il disegno complessivo. Il ragno lo genera e lo affida al vento, lo lancia e spera nella buona sorte. Non sempre ci riesce, ma spesso sì. E quando il filo è teso tra due appigli il ragno lo percorre dicendo tra sé: questa ragnatela era solo una possibilità e adesso è diventata vera perché io ho voluto che lo diventasse. Ho dormito una notte e un giorno e poi, quando il sole sta di nuovo tramontando, mi sveglio. Mi sveglia la bambina, il cui pianto è diventato un lamento basso e continuo, il pigolio di un uccellino prossimo a morire di fame e di fred11 do. All’inizio nemmeno mi ricordo chi sia, di chi è figlia, come mai me la sono portata appresso. Mi ci vogliono cinque minuti (l’uccellino continua a lamentarsi), mi sciacquo la faccia nell’acqua putrida di uno stagno, poi rispondo a una domanda che nessuno mi ha posto e finalmente dico chi sono. Io sono Tito Profeta, dico. Lo urlo. Io sono Tito Profeta. Mi sentite? Questo è il mio nome. Mi chiamo Tito Profeta, in montagna mi chiamavano Omero. Ho lasciato la brigata perché volevano farmi ammazzare un ragazzo di diciassette anni. Ho conosciuto Livia, la donna che amavo. I fascisti me l’hanno ammazzata. Io sono rimasto vivo, mio malgrado. Tutto ciò che sarà d’ora in avanti è conseguenza di ciò che è stato oggi. Prima di oggi, io non sono esistito. Il ragno decide che il filo è robusto abbastanza e comincia a percorrerlo. Possiamo andare, adesso. Dove andiamo?, domanda il vecchio. Lo vedrai. Oppure, no. Non lo vedrai ma lo capirai. Perché oggi? E perché non oggi?, gli ribatte la voce (che lui riconosce, altroché se la riconosce). Voglio dire, perché proprio oggi? Ci sono giorni che la storia cambia, risponde l’altro. Solo che noi non lo sappiamo né lo capiamo, ce ne accorgiamo a cose fatte, a volte quando è troppo tardi. Perché proprio oggi? Perché oggi puoi finalmente chiedere perdono. Non fare quella faccia. Dovresti ringraziare, altro che fare quella faccia. Oggi mi è capitata una cosa, dice il vecchio, mentre 12 l’ombra gli si avvicina veloce, emettendo un rumore basso, come fa l’onda di maremoto un momento prima di sollevarsi e distruggere. Mi sono guardato allo specchio e non ho visto nessuno. Cammina, lo esorta la voce. Non c’è tempo da perdere. Arriva l’ombra e un istante dopo è come se niente fosse. 13 1-8 gennaio 2000 I Quello che posso dire su Lorenzo Segreto è questo: arrivò a Milano la prima volta nell’autunno del 1988, nemmeno vent’anni, per studiare e laurearsi in qualcosa che ha a che vedere con la banale vicenda del denaro. Ci ritornò dieci anni dopo, a rivoluzione conclusa e restaurazione avvenuta. Nessuno ricordava quello che era stato, a nessuno interessava. Cominciava un’altra storia. Alle spalle, Lorenzo Segreto si lasciava un paese chiamato Corte destinato all’estinzione e una famiglia già estinta – padre mai conosciuto; madre alcolista e cirrotica, successivamente demente e infine internata; fratello zoppo da una gamba dall’età di dieci anni, successivamente picchiatore fascista e quindi pregiudicato. Il barone Vincenzo Cotto di Leocata gli aveva messo gli occhi addosso prima ancora che Lorenzo si laureasse, durante il primo stage non retribuito offertogli da un’associata del Gruppo Rossetti Westrade, di cui il Barone era consigliere anziano. Nel corso del tirocinio Lorenzo aveva messo a punto un modello di investimento chiamato Fondo Etico che alienava hedge funds sporchi a vantaggio di collocamenti nel campo sociale e della ricerca ambientale con capitale flottante collegato a una rete di microcredito per la piccola e media industria. Sulla carta, il rendimento del suo 17 fondo era superiore di un quarto rispetto all’aggressivo modello speculativo proposto da un collega suo coetaneo, e venne acquistato dall’ufficio finanziario di una multinazionale del tabacco. “Sei bravo assai, ragazzo”, gli disse il barone di Leocata. “È di picciriddi come te che questa città scassata tiene bisogno. Adesso tutti vogliono diventare iene che si cibano di cadaveri. E invece il futuro è ancora dei leoni, che almeno sanno quando minchia cacciare e quando riposarsi”. Leocata gli lasciò detto di chiamarlo: lui stava dentro cinque consigli di amministrazione, compreso quello dell’università, e aveva fondato una quantità di società che un posto glielo trovava dall’oggi a domattina. Lorenzo Segreto preferì partire per Londra, assunto come account da una merchant bank gestita dall’Anticristo. Laggiù imparò suo malgrado una quantità di cose utili ad avere un buon rapporto con il prossimo. Imparò il churning e lo stock bashing; apprese i segreti del ramping e dopo due settimane anche il pump and dump non ebbe per lui più segreti. Comprese gli schemi e assimilò i nuovi strumenti. Nasceva un mondo nuovo basato su una scommessa: di qui a poco tutto potrebbe andare molto male, molto peggio. Anzi: andrà certamente in malora. Noi siamo qui affinché ciò accada. Faremo di tutto per creare un deserto e dalla desolazione che ne sarà, faremo grandi guadagni. We don’t need goods, dicevano. Money is enough. Money is really enough. Arrivato a un passo dal trascorrere i diecimila anni a seguire sotto forma di pidocchio della merda decise di andarsene. That’s ok, Lorenzo, gli disse l’Anticristo, che nella sua incarnazione rivestiva i panni dell’amministratore delegato. Gli mostrava un disprezzo che non si curò di nascondere. That means you’re gonna go back home. 18 Lorenzo Segreto ottenne una valigetta contenente la quantità di denaro che si guadagna in cinque anni di onesto lavoro ma non tornò a casa. Non aveva una casa, in un certo senso non l’aveva mai avuta. Trascorse quaranta mesi in viaggio in Europa, fece lavori che a raccontarli nemmeno ci si crede, abitò case, tende e perfino barconi galleggianti (lungo il Reno, a cavallo tra Francia e Germania), assunse identità inventate di sana pianta. Spese quasi tutto quello che aveva guadagnato, sospettando che non se lo fosse davvero meritato. Finché si rese conto che scappare può significare due cose opposte: allontanarsi dalla partenza o avvicinarsi alla destinazione. Perdere qualcosa e trovare qualcos’altro. Si accorse di non avere una destinazione, di non averla mai avuta, e decise di darsela. Scelse Milano perché quella città era stata davvero pacificata: le due forze che la governavano, Madonna e Serpente, avevano finalmente trovato un terreno di intesa, un tavolo su cui siglare l’armistizio e garantirsi reciproca impunità. Era qui che avrebbe trovato ciò che cercava. Qualsiasi cosa fosse. In Crediback cercano una figura, gli disse Vincenzo Cotto di Leocata dopo convenevoli di cui nessuno sentiva necessità. Non si vedevano da un pezzo, ma nessuno aveva dimenticato nessuno e così semplicemente ripresero da dove si erano interrotti. Non si può dire che quella è la società che ho fondato io, aggiunse il Barone. E si tratta di un lavoro della minchia, ben al di sotto delle tue possibilità. Ma da qualche parte dovrai pure rincominciare. La mission originaria della Crediback, così come era stata pensata da Leocata a metà degli anni Settanta, era ottenere la restituzione dei prestiti concessi dalla casa madre, Banca Rossetti, e che per un motivo o per l’altro fossero rimasti ine19 vasi. Quando Rossetti venne assorbita da Private Western Banking, Crediback diventò SpA e passò sotto il controllo di Biancamaria Navel, detta Bianca o più semplicemente BIENNE, quarantaquattrenne figlia di Arnaldo, colui il quale nel 1981 aveva ideato, progettato e realizzato l’accorpamento di sedici sportelli bancari sotto un’unica insegna vendendo poi il tutto a un keiretsu giapponese e realizzando una plusvalenza senza precedenti prima di finire in galera. “Potete dire che sono interessato, professore?”, disse Lorenzo senza nemmeno pensarci. “A quella zoccola non gli devi dire che ti ho mandato io”, si raccomandò Vincenzo Cotto di Leocata. “Siamo intesi?” “Quale zoccola?” “Stacci attento e digli il meno possibile. Meno lei sa di te e meglio stai tu”. La Crediback SpA si occupava ancora di recupero crediti ma aveva allargato il raggio di azione al di fuori del gruppo: adesso offriva i propri servizi a tutti – privati, finanziarie e banche con problemi di insoluti. Azienda non enorme ma florida, una ventina di impiegati, fatturato intorno ai quindici milioni di dollari, bilanci in lieve attivo. La sede stava dove doveva stare: quartiere degli affari, a quattro passi da questo e a due da quell’altro, al civico 13 di una breve via in porfido, curvilinea che pareva una parentesi tra una strada e un’altra. L’edificio contava otto piani fuori terra e risaliva a un’epoca in cui tutta la città parlava del miracolo accaduto in una chiesa lì vicino: un tale, uno squilibrato scappato dal manicomio, aveva pugnalato l’immagine dipinta del Bambin Gesù e quella aveva preso a sanguinare. Il quadro era ancora lì, lo squarcio della pugnalata ancora visibile. 20 Al primo piano c’era una banca, al secondo un’agenzia di PR, al terzo un atelier e così via. Sesto, settimo, e ottavo piano, oltre a cantine e sotterranei, erano proprietà della Crediback. Dentro, moquette e vetrate, luce diffusa sulle sfumature dell’azzurro davano l’impressione di trovarsi dentro una clinica svizzera dove si va per farsi fare il suicidio assistito. “Come ha sentito della posizione disponibile?”, gli domandò Bianca Navel. Si trovavano nell’ufficio delle HR, al sesto. Lorenzo rispose citando due o tre nomi a caso (uno inventato). Addusse la casualità, voci sentite qui e lì, qualcuno che aveva sentito qualcun altro. Mescolò le carte e gettò un po’ di fumo negli occhi. Poi consegnò il curriculum e Bianca Navel lasciò cadere. “Sta bene con la barba”, gli disse senza alzare la testa. Leggeva e valutava. “Grazie”, rispose Lorenzo Segreto. “Forse la dovrebbe tagliare”. “Ci penserò”. “Sa che cosa facciamo qui?”, disse poi, guardandolo come se volesse saperlo da lui. “Recuperate crediti”. “E che idea si è fatto?” “Della vostra performance? Che potete solo migliorare”. “E perché non lo abbiamo già fatto?” “Credo che abbiate un problema religioso”. “Vuole spiegarsi meglio?” “Il fatto”, spiegò Lorenzo, che come d’abitudine si era preparato a dovere, studiando bilanci e consuntivi per tutta una notte, “è che la Crediback è un’azienda cattolica”. Bianca Navel ebbe un vago scarto con la testa, come se avesse improvvisamente avvertito un odore sgradevole. 21 “Fate di tutto per accusare il debitore”, continuò Lorenzo. “Lo fate sentire in colpa e volete che si penta. Esigete il pentimento, ottenuto il quale il debitore sparisce. E perché sparisce? Sparisce perché è convinto che il suo dovere di cristiano l’abbia compiuto. Si è pentito. Adesso può andare in paradiso”. Tirò fuori i grafici sui quali aveva lavorato. “Costi e perdite si equivalgono. Il vostro margine è quasi nullo, la curva è impercettibilmente gobba e la percentuale di recupero è a malapena in doppia cifra”. Mise via le carte. “Gli albanesi che lavorano per gli strozzini funzionano meglio”. Biancamaria Navel, detta Bianca o più semplicemente BIENNE, si alzò e si mise seduta sul bordo della scrivania accavallando le gambe, a mezzo metro da Lorenzo Segreto che se ne stava seduto su una Arne Jacobsen rossa e aveva davanti una bottiglietta da 125 cl di Evian e un ballon da vino con un sottobicchiere bianco in pizzo di carta. L’aspetto della donna toglieva qualsiasi ipotesi di malizia: brutta, Bianca non era brutta. Bella, ancora meno. Sensuale, nemmeno parlarne. “E invece?”, gli disse mostrando un sorriso da sorella maggiore. “Che cosa dovremmo diventare secondo lei? Musulmani? Buddisti?” “Protestanti”, rispose Lorenzo. “Pentirsi non basta. Dopo confessione e pentimento occorre la penitenza. Rimettere il debito. Restituire. Altrimenti, non vale”. “Lei è credente?” “Non mi sono mai deciso”. “Come definirebbe il suo obiettivo?” “Vorrei capire perché sono venuto al mondo”, rispose Lorenzo preso alla sprovvista. “Interessante. E che altro?” “Probabilmente, guadagnare molti soldi”. 22 “Su questo punto possiamo fare qualcosa”, disse Bianca Navel. Il modus operandi che Lorenzo Segreto illustrò a Bianca Navel – una decina di pagine scritte e un Powerpoint – si rivelò ben più morbido, oltre che efficace, di quello finora usato in Crediback. Sul debitore non sarebbero state esercitate minacce né gli sarebbero stati chiesti sacrifici o umiliazioni o atti di contrizione. Più semplicemente, doveva essere messo nelle condizioni di restituire. Era quella la mission di una società di recupero crediti: recuperare il credito. Pertanto, tassi ragionevoli, mora contenuta, tempi concordati – né troppo laschi ma nemmeno irragionevolmente compressi. Occorreva capire le persone, certo (in questo, Lorenzo si dimostrò bravo, come se non avesse fatto altro in vita sua che comprendere i torti altrui e porvi rimedio), ma non era necessario consolarle, occorreva rispetto ma non compassione, sostegno ma non empatia. Lo scopo era salvare il debitore e, con ciò, recuperare i soldi. “Che cosa le occorre?”, domandò Bianca Navel. Era chiaro che il posto era di Lorenzo, se lui lo avesse voluto. “Informazioni”, rispose lui. “Dati patrimoniali e bancari. Il perimetro, la situazione reale. Evitare le astrazioni, ragionare su ciò che esiste anziché su quello che ci piacerebbe. Il resto verrà di conseguenza”. “Vale a dire?” “Risolvere il puzzle”, disse Lorenzo, evasivo. “Partire dalla prima tessera e mettere insieme i pezzi”. “Sta improvvisando?” “Funzionerà”. BIENNE rimase in silenzio qualche secondo. “Fra tre settimane le farò sapere”, disse poi, prima di congedarlo. Lorenzo Segreto rimase vagamente sorpreso. 23 “Il tempo di mettere insieme le informazioni e redigere il contratto”, spiegò la Navel. “Quali informazioni?” “Possiamo darci del tu? Ma sì. Diamoci del tu, Lorenzo. Faremo prima”. “A fare cosa?” “È stato un piacere”, disse Bianca Navel indicandogli la porta oltre la quale era già pronto il candidato successivo, al quale le mani sudavano e che, pertanto, non aveva nemmeno una minima chance. Per quelle tre settimane di interregno la Crediback assegnò a Lorenzo Segreto in forma di comodato d’uso gratuito e temporaneo un appartamento grande quanto un campo da hockey e ugualmente freddo. Lorenzo non ne aveva bisogno: aveva già in affitto un due locali e tre finestre che davano sul Naviglio, anche se dal secondo piano, al riparo da un sempre possibile maremoto. Ma Bianca Navel insistette: “Se non ti va di starci”, gli disse, “nessuno ti obbliga. Ma se comincerai, come spero, a lavorare qui – a Lorenzo sembrò un ultimatum più che un’offerta – “temo che dovrai lasciare il tuo bilocalino. E guiderai un’auto aziendale. Sono le regole. Non le ho fatte io, quando sono arrivata c’erano già”. Tre settimane dopo, quella diventò casa sua. E per un breve periodo, anche di Adriana. L’appartamento contava cinque locali all’ultimo di un palazzo di sei piani che chiamavano Ca’ Brutta situato esattamente a cavallo del Terminatore Urbano, la linea spezzata che divide il centro della città dal resto. Quando tornava alla Ca’ Brutta, dodici ore dopo esserne uscito, la prima cosa che Lorenzo faceva era accendere le luci e poi la musica. Ritrovava tutto come l’aveva lasciato. 24 Delle cinque stanze, solo la cucina era arredata – molto ben arredata, anche se non per merito suo (c’era già quando la casa gli era stata assegnata): una Poggenpohl in acciaio cromato e wengè congolese laccato rosso, con elettrodomestici e alcune componenti ancora incellofanate. La camera da letto consisteva in un letto matrimoniale Leggett & Platt, un maxi-tv Sony, due lunghi stand appendiabiti, uno occupato solo dalle sue giacche, e un paio di rastrelliere per scarpe, biancheria e minutaglie. C’era anche roba buttata per terra – vestiti di Adriana, tra le cui esigenze non era contemplato l’ordine. Il bagno padronale faceva quello che poteva e l’altro si limitava a una dichiarazione di intenti. L’appartamento era sempre pulito, sempre in ordine, nel frigo c’era sempre da mangiare e da bere. Ci pensava la signora Romeu che per ordine e su mandato della Crediback si presentava tre volte la settimana – lunedì, mercoledì e venerdì, tre ore al giorno, impegno francamente eccessivo – per controllare cosa c’era da fare (ben poco: il letto, spolverare, raccattare oggetti; non esisteva nemmeno una pianta da innaffiare). La spesa era extra, Lorenzo lasciava i soldi sul tavolo della cucina e la signora Romeu gli faceva trovare il cibo – poca roba surgelata; più che altro, piatti pronti e contenitori in polimeri da scaldare al microonde. Lorenzo Segreto mangiava fuori casa troppe volte e, a meno che non fosse inevitabile, di sera preferiva stare lontano dai ristoranti della città. Oltre alle vivande, trovava scontrino e resto. Mai mancata una lira, mai una cresta. Quando Lorenzo Segreto rincasava sperava di trovare Adriana. A volte sentiva che lei c’era. Altre volte (la maggior parte) no. Chissà stasera, pensava tutte le volte, digitando il codice d’ingresso e attendendo la luce verde che gli diceva Bentornato a casa, Lorenzo. 25 II In camera da letto, guarda che disordine!, pensò entrando e rimanendo sulla porta, attonito come davanti a una strage familiare. Qualunque marito a questo punto direbbe qualcosa, aggiunse severo. Lorenzo e Adriana non erano sposati, mai fatto neppure in tempo a parlarne, ma non voleva dire. La loro era un’unione di fatto certificata dai vestiti di lei gettati per terra. Perché non metti a posto almeno la tua roba?, le domandò, più che altro per vedere se stasera lei c’era. Quella casa era talmente grande e vuota che si faceva prima a voce che di persona. Nessuna risposta. Ci riprovò, a voce alta perché lei lo sentisse, perché non potesse fingere di non averlo sentito. Adri, dico a te, perché non metti a posto, una buona volta? Cosa penserà di te signora che-viene-di-Romania? Te lo dico io. Penserà che sei una donnaccia e io un uomo senza spina dorsale. Silenzio. Solo i rumori di fondo provenienti da oltre la finestra semichiusa, il rombo lontano dell’autostrada, i freni aerodinamici di un aereo in discesa. Per un momento temette che lei se ne fosse andata di nuovo e stavolta per sempre. Decise di provocarla. 27 Dovresti approfittare delle lunghe giornate in cui non fai niente se non annoiarti, segregata dentro un appartamento senza mobili, disse come se parlasse solo nell’interesse di lei. Chi ti dice che mi annoio?, gli rispose finalmente la voce di Adriana dall’altra parte della casa (forse si era nascosta nel ripostiglio, o nel guardaroba, nell’altro bagno, quello cieco, anche se, in questo caso, si sarebbe sentito il fruscio discreto dell’aspiratore perimetrale). Cosa ti fa pensare che io sia segregata? Che ne sai di cosa faccio durante il giorno? Difatti non lo so. Ecco, bravo. Lo vedi? Quindi, non ti annoi?, disse lui aprendo l’anta inferiore del colossale frigorifero Gorenje alla caccia di qualcosa di fresco e di giustamente alcolico (una Corona andrà benissimo). Cambia musica, disse Adriana. Ascolti sempre le stesse lagne. Amore di qua e amore di là. Lascia stare la musica, finse di ammonirla Lorenzo, ma con il cuore che gli batteva forte. Lascia stare la mia musica. Si avviò verso il B&O e aumentò un poco il volume per mostrare che faceva sul serio. Potresti mettere a posto almeno la tua roba, ecco cosa dicevo. Compra un armadio e metterò a posto. L’armadio l’ho comprato, disse Lorenzo. Sto aspettando che tu mi dica dove sistemarlo. E il divano? E tutto il resto? E Adriana come per magia non disse più niente, le domande che la costringevano a prendere una posizione venivano regolarmente eluse. Lorenzo lo sapeva, la provocava di proposito, per metterla alle corde. Poi non gli parlò più e lui capì che anche stavolta aveva vinto lei. La sentiva camminare da un punto all’altro della enorme 28 e desolata casa. Doveva essere scalza, indosso una camicia di lui, come la scena di un film di cui non ricordava il titolo. I passi di lei riempivano il vuoto contenuto dalle pareti candide che a volte disegnavano eleganti curve e altre volte si incastravano in angoli perpendicolari con il soffitto jugendstil. Il resto dell’arredamento si trovava in uno di quei magazzini dove si tiene in custodia la roba che non serve più o che non serve ancora o che non è mai servita né mai servirà. Alberghi per le cose, li chiamano. Ospizi per le cose. Tutti i mobili erano lì, compresi alcuni elettrodomestici, accessori, soprammobili, chincaglierie. Li avevano comprati insieme, in un giorno interamente dedicato ai mercatoni dell’arredamento. Erano stati consegnati a domicilio ma mai aperti e pertanto finiti nello storage ancora imballati dentro scatole di cartone, avvolti nel cellophane, e lì erano rimasti. Dormivano, in attesa di conoscere la destinazione definitiva, la casa dove lui e Adriana sarebbero tornati a vivere davvero, e stavolta per sempre. La canzone che stava ascoltando diceva: “Nessun amore è più splendido e più disperato di quello dell’oceano, che non smette di cercare di baciare la riva, nonostante lei continui a rifiutarlo”. Quello che posso dire su Lorenzo Segreto è che la cosa che più gli piaceva di quella casa erano le case di fronte. A volte si metteva a guardare le facciate, le luci che si accendevano illuminando vite e abitudini. Non sapeva che cosa fosse la normalità, non l’aveva mai conosciuta, non sapeva l’effetto che faceva, non sapeva nemmeno se gli sarebbe piaciuta. Nessuno lo aveva mai invitato a sperimentarla, anche solo per poco, per farsi un’idea. Osservava la normalità altrui e pensava che, vista da questa distanza, non era niente male. 29 Mi era capitato a volte di scorgere la sua sagoma disegnata nel rettangolo della finestra, lì in alto, al sesto piano. In quelle occasioni – certe serate umide che questa città sa rendere così protettive – mi trasformavo in un passante che alza lo sguardo e incrocia per un istante quello dell’uomo che guarda verso il basso. Vedevo un uomo ancora in abito da lavoro, la cravatta allentata e il collo della camicia slacciato. Una lattina di birra stretta in una mano, un ritratto di composta solitudine e provvisorietà illuminato in bianco da una lampada alogena da cinquecento candele. Dava l’idea di essere arrivato da poco in città e di non averne ancora del tutto compreso forma e dimensioni. Se questo fosse davvero accaduto – e non è accaduto – gli avrei fatto segno di scendere – Sì, amico, dico a te. Saremmo andati a bere qualcosa, ci saremmo raccontati qualcosa di noi. E poi lo avrei salutato mentre lui saliva sul taxi. Gli avrei detto arrivederci e poi di non preoccuparsi, perché sarebbe andato tutto bene. Come gli aveva detto suo fratello, dodici anni fa. “Andrà tutto bene. Tu devi solo andartene da questo buco di culo”. Lo aveva accompagnato alla stazione. Lorenzo aveva diciannove anni, Valter quasi ventisette. “E tornarci solo quando necessario. E se non è necessario, non tornare. Tanto non ne vale la pena”. “E i soldi?” “E i soldi non ti devi preoccupare. Tu devi pensare a studiare. Non devi diventare come me”. “E la mamma?” “La mamma cosa?” “Che cosa dice?” “Non dice niente. Che cosa deve dire?” 30 “Ho paura”, aveva detto Lorenzo salendo in carrozza. “Non c’è niente da aver paura”, aveva risposto Valter senza enfasi. Non lo stava incoraggiando, gli stava semplicemente spiegando come stavano le cose. “La paura non esiste”. Lo guardò allontanarsi zoppicando lungo la banchina. La percorse tutta, metro a metro, senza voltarsi nemmeno una volta. Quello che posso dire su Lorenzo Segreto è che, a parte i pochi colleghi, il barone Vincenzo Cotto di Leocata e Adriana, in città non conosce praticamente nessuno. Non frequenta palestre né cineforum, amicizie basate sulle affinità elettive non ne sono nate. E di ginnastiche, comunque, non ha bisogno, tanto meno di jogging: possiede un invidiabile metabolismo che lo ha portato a ingrassare di due chili scarsi negli ultimi dieci anni. Sfoggia, senza ostentare, muscoli piatti e lunghi, l’ossatura del ballerino e dieci decimi da entrambi gli occhi. Escluso un antico intervento, a quanto pare di appendicectomia, non ha subito operazioni chirurgiche. L’unico fastidio di cui ha sofferto è una inspiegabile alterazione della percezione che lo convinceva di vedere cose – ombre, persone – e di sentire suoni e voci. Disturbi allucinatori transitori, per i quali aveva chiesto un paio di consulti che, pur non avendogli fornito spiegazioni o diagnosi, lo avevano tranquillizzato rispetto a ipotesi di malattie mentali. Non c’era pericolo che diventasse come sua madre, insomma. E nemmeno come suo fratello, se è per questo. E com’è diventato, suo fratello? Zoppo. E fascista. Lorenzo non diventerà fascista e cammina dritto e spedito. E, comunque, è da un pezzo che non ha più allucinazioni. Parlavamo degli amici. Quello che posso dire è che non ne ha, ecco tutto. Ci sarebbe Shéng Whou, ma quello non 31