Andrea Guerzoni - Confindustria Modena

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Andrea Guerzoni - Confindustria Modena
L’intervista | Manager tra rigore e creatività
A tu per tu con Andrea Guerzoni, top manager per l’area Europa,
Medio Oriente, India e Africa del colosso della consulenza EY
Attenzione
alla rivoluzione
digitale
Da qui a cinque anni le tecnologie digitali avranno un impatto che oggi le nostre pmi
non colgono. Così rischiano di essere spazzate via da competitor che invece
stanno cavalcando questa trasformazione, che non è solo dei servizi,
ma anche di tutto il manifatturiero. Servono iniezioni massicce di managerialità
in azienda: l’organizzazione è l’equipaggiamento che permette a una struttura
di crescere in modo sostenibile e di rispondere ai cambiamenti
di Ilaria Vesentini - foto Elisabetta Baracchi
L’intervista | Manager tra rigore e creatività
I
Andrea Guerzoni,
classe 1970, è socio
e consigliere
di amministrazione
di EY, si occupa
di Corporate finance
ed è alla guida
di una squadra
di oltre seimila
persone
l segreto del successo, nella vita personale, professionale e aziendale? «Lavorare sempre per progetti,
con una chiara organizzazione». La ricetta universale di Andrea Guerzoni ha la capacità di smontare la
complessità di qualsiasi questione in pochi mattoncini
base elementari e in un percorso ordinato e graduale.
«Da Paese a Paese, da cultura a cultura, può cambiare il
modo di interpretare i trend e di concepire l’importanza
del proprio contributo o ruolo, ma i sottostanti sono simili, in ogni società, in ogni economia», spiega con la semplicità di chi è abituato a gestire le problematiche più
disparate senza mai perdere il bandolo della matassa.
Dottor Guerzoni, conferma che si respira lungo la via
Emilia l’impressione di un sistema territoriale finalmente
uscito dalla crisi e più competitivo su scala globale?
«La peculiarità di questo territorio è l’imprenditorialità
diffusa e di grande successo, lo raccontano le perfor-
mance regionali degli ultimi 20-30 anni, che scaturiscono da un Dna creativo capace di generare ricchezza ben
oltre la media. Una sorta di “dono” locale, un’alchimia
fatta di passione, dedizione al lavoro, voglia e piacere di
vivere che fortunatamente non si può esportare. Ma
questo cocktail che diventa impresa si deve oggi misurare con due fattori imprescindibili per la competitività
globale in cui l’Emilia-Romagna, come l’Italia intera,
non eccelle: organizzazione e digitalizzazione».
Siamo in tempo per recuperare i due gap?
«Servono iniezioni massicce di managerialità in azienda. L’organizzazione è l’equipaggiamento che permette
a una struttura di crescere in modo sostenibile e di rispondere a cambiamenti oggi sempre più repentini, ma
la sua importanza è nettamente sottostimata in azienda. I nostri imprenditori, pur ottimi, hanno un’attitudine a non riconoscere i propri limiti di fronte alla com-
La storia personale | Una vita tra Carpi e il mondo
n manager capace e determinato con l’attitudine alla leadership,
uno sportivo appassionato delle sfide, un cittadino del mondo ma
solidamente legato alla sua famiglia e alla sua terra. Così appare,
mentre la racconta, la figura e la vita di Andrea Guerzoni, partito come
stagista da Carpi, che allora contava 50.000 anime, e arrivato alla guida
di una squadra internazionale di 6.500 persone del colosso della consulenza EY.
Nato nel 1970 nella città dei Pio, Andrea Guerzoni non aveva certo previsto una carriera altisonante e internazionale, mentre studiava prima
al liceo scientifico cittadino e poi Economia all’Università di Modena.
Eppure oggi è Transaction advisory services leader per l’area Emeia
(Europe, Middle East, India and Africa) di EY, il network mondiale della
revisione e della consulenza, 212.000 persone e 28,7 miliardi di dollari
di fatturato globale, con oltre 700 sedi in 150 Paesi. Ma nel bagaglio che
ha sempre in mano, volando ogni settimana da Milano a Londra, da
Dubai a New Delhi, sono finiti anche il Dna imprenditoriale del distretto
carpigiano (i genitori avevano creato da zero una piccola casa di moda)
e l’attaccamento atavico per il modus vivendi della sua Emilia, dove ha
sposato la compagna di scuola, madre dei suoi due figli (6 e 9 anni),
tutti rigorosamente carpigiani per nascita e per residenza, ma con una
tata inglese.
U
GLI INIZI
«Dopo la laurea, era la metà degli anni Novanta, vedevo davanti a me
tre stradenon avendo una vocazione particolare in nulla», racconta
Guerzoni. «Potevo entrare nell’azienda di famiglia di confezioni femminili, che dopo 20 anni di attività iniziava però a declinare per effetto dell’apertura dei mercati alla concorrenza del Far East. Oppure potevo
avviarmi alla libera professione del commercialista, ma mi sono basta32 OUTLOOK - MARZO/APRILE 2016
ti un paio di giorni per capire che non era il mio mestiere. Infine,
avevo una terza possibilità: fare uno stage di tre mesi in una piccola
sede a Modena di una società di revisione che cercava giovani dinamici
per il closing dei bilanci. È quello che ho fatto». E non ha più cambiato
azienda.
È iniziata così nel 1995, quasi per caso, l’avventura di Andrea Guerzoni
in quella che allora si chiamava Ernst&Young e oggi è EY: scartabellando fatture. Una carriera fulminea. Dopo i tre mesi di stage, seguiti da
due mesi in California per perfezionare l’inglese, Andrea viene confermato e assunto a Modena, in un ufficio di venti persone.
«Un’esperienza molto formativa, lavoravo come un matto, sabati,
domeniche, notti, in contatto con tutte le più grosse aziende del territorio. Dopo tre anni chiesi e ottenni di partecipare a un programma di
scambio: un anno a Londra a occuparmi di revisione contabile per
alcune grosse aziende». Era il 1998. Un altro segno del destino. Una
sera in un pub incontra una socia della divisione Corporate finance di
EY a caccia di un italiano che la supportasse in un’acquisizione nel
Belpaese.
DAI BILANCI ALLE STRATEGIE
«La revisione contabile dopo un paio di anni non mi sembrava più così
eccitante, così l’indomani mattina», ricorda Guerzoni, «chiesi e ottenni
di essere inserito nel team per occuparmi di questo importate merger». Dal Corporate Finance Guerzoni non si è mai stancato e mai staccato. «Rimasi un altro anno a Londra. Sul finire del millennio, Londra
era il centro del mondo economico-finanziario, la piattaforma per collegare i patrimoni ai due lati dell’oceano e coagularli sull’Europa.
Vivevo con la valigia in mano, seguivo in particolare il Sud Europa,
occupandomi per lo più di acquisizioni per clienti internazionali, a capo
«La prerogativa del nostro territorio
è l’imprenditorialità diffusa e di grande successo.
È un’alchimia fatta di passione, dedizione al lavoro,
voglia e piacere di vivere che non si può esportare.
Ma oggi si deve misurare con due fattori
imprescindibili per la competitività globale
in cui l’Emilia-Romagna, come l’Italia intera,
non eccelle: organizzazione e digitalizzazione»
«Ai giovani aspiranti consulenti o imprenditori
consiglierei di avere radici salde ma di dotarsi
di un paio d’ali per scoprire il mondo. E di imparare
a ragionare sempre per progetti, in qualsiasi
sfera della vita e del lavoro. Nella scuola italiana
è una abilità che non viene insegnata,
ma è fondamentale nella vita come nel lavoro»
di un team di esperti di valutazione e di M&A. Con molti di loro
lavoro ancora oggi. E Londra la considero tutt’ora la mia seconda casa», Guerzoni parla velocissimo con una cadenza che non
tradisce certo le origini modenesi ma semmai l’uso quotidiano
dell’inglese. Ma, mentre parla, si sente l’Emilia scorrergli nel
sangue, in quella miscela di passione per il lavoro, di attaccamento ai valori tradizionali e di tenacia creativa che sono la vera
spiegazione di un successo non programmato che si riflette in
un curriculum vitae dove a brillare è l’esperienza sul campo,
non le accademie frequentate.
GLI ANNI DUEMILA
Nel 2000 Guerzoni torna in Italia con la qualifica di dirigente e
continua comunque a seguire per EY l’Europa continentale. Da Milano
si trasferisce a Roma per creare un team di professionisti in loco
capaci di garantire il miglior supporto nell’area aerospace & defence.
Nel 2005 il colosso della revisione e dell’advisory propone a Guerzoni
di diventare socio, un’offerta che arriva a uno su venti di chi riesce a
entrare nel network. Guerzoni ha 35 anni. Torna a Milano e si dedica a
rafforzare il segmento del private equity, dei financial investor, degli
hedge fund. I compiti manageriali via via prendono il posto di quelli
operativi, le responsabilità e i rischi crescono. Nel 2010 è Managing
Partner della divisione Transaction Advisory Services per Spagna,
Portogallo e Italia, triade di Paesi che allora valeva per EY 40 milioni
di euro di business e poco meno di 200 persone e che nel giro di
quattro anni Guerzoni ha raddoppiato. Corporate strategy, portfolio
strategy, entry & exit strategy sia in situazione di normalità sia di
stress aziendale diventano il suo pane quotidiano. Passano pochi anni
e, nel 2014, la casa madre gli affida il ruolo di Leader dei servizi di
Transaction Advisory dell’area Emeia: 99 Paesi da coordinare, 6.600
professionisti, 1,5 miliardi di dollari
di fatturato. «Continuo a interagire
con lo stesso numero di persone di
prima, sono solo di livello più alto e
ho imparato a delegare. La diversa
scala è rilevante soprattutto per le
differenze culturali di ogni singolo
Paese. Differenze che richiedono
anche approcci manageriali molto
diversi, ma avendo fatto quasi tutti
mestieri di coloro che ora gestisco,
per me è più facile guidarli verso gli
obiettivi secondo le esigenze e le
capacità di ognuno», così Guerzoni
minimizza le difficoltà di gestire un esercito.
LA VITA PRIVATA
Sorride con la sicurezza di chi riesce da vent’anni a mantenere in
equilibrio una vita tra aerei, famiglia, passione per i fornelli
e la montagna. «Ho un’ottima organizzazione del tempo e un’efficientissima assistente che mi permette quasi il dono dell’ubiquità»,
scherza Guerzoni. «Senza disciplina fisica e mentale non si possono
reggere certi ritmi di vita. Devo essere molto selettivo nell’uso del
tempo; può sembrare cinico, ma mi piace tentare di dedicare le ore e
le energie solo a cose che hanno coerenza con i miei obiettivi professionali e sociali. Stacco la spina solo per la mia famiglia».
Competitivo e disciplinato, Guerzoni non trasmette nulla in realtà del
calvinista. «Mi sento fortunato perché, ho ancora molti degli amici dei
tempi del liceo e un lavoro itinerante che mi insegna ogni giorno qualcosa di nuovo».
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L’intervista | Manager tra rigore e creatività
plessità quotidiana che solo competenze manageriali
specialistiche possono risolvere. A maggior ragione perché è in atto una rivoluzione digitale “disruptive” che
sta cambiando alla radice la natura stessa dei business
e lo sta facendo con una velocità mai vissuta prima nella
storia economica. L’adattamento al cambiamento da parte delle nostre aziende non sta avvenendo alla stessa velocità, è questo il vero problema».
Sta dicendo che gli imprenditori sottovalutano la portata
del digitale?
«Sto dicendo che da qui a cinque anni le tecnologie digitali avranno un impatto che oggi le nostre pmi non colgono e rischiano di essere spazzate via da competitor
che invece stanno cavalcando questa rivoluzione. Robotica, Internet of things, big data stanno trasformando
il modo di vendere e produrre non solo nei financial service e nell’IT, ma in tutto il manifatturiero, dal fashion
al farmaceutico, dal food all’edilizia. L’industria italiana
è in enorme ritardo sul digitale, ma è questo il driver su
cui investire per giocarsi la partita globale nei prossimi
cinque anni».
Perché non ci si investe?
«Perché è un investimento che crea un grosso dilemma
di finanza aziendale. L’imprenditore deve trovare il coraggio di distogliere investimenti dal core business, necessari però a mantenere i flussi di cassa correnti, per
puntarli su iniziative innovative che potrebbero garantire la sopravvivenza nel lungo periodo ma hanno un contorno oggi molto più indefinito, rischiando così di sottrarre risorse ritenute vitali per tenere in vita un business “tradizionale” a volte già però in declino irreversibile. La risposta che ne scaturisce è spesso l’inerzia, l’inerzia rende le aziende facili prede e noi rischiamo di vedere i nostri marchi e le nostre tecnologie, frutto di decenni di tradizione e know-how, comprati da competitor
esteri, che invece sono saliti subito sul treno dell’innovazione attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie e della
digitalizzazione».
Sta suonando l’allarme di fronte alle operazioni di M&A
delle multinazionali in Italia, e ancor più in Emilia?
«No e non sto dando giudizi. I capitali seguono logiche
molto razionali, vengono impegnati dove ci si aspetta il
ritorno più alto. La rivitalizzazione degli investimenti
esteri è un segnale positivo di ritrovata fiducia dell’economia dopo cinque anni di profonda incertezza. Di fatto
all’investitore poco importa che il denaro sia messo nelle mani di un imprenditore romagnolo o cinese, contano
i rendimenti. Quello che fa davvero la differenza sono le
informazioni, le conoscenze che permettono di prendere
le decisioni più consapevoli e quindi di allocare al meglio
le risorse. Un cinese che investe sulla via Emilia può
non capire quanto la catena del valore sia legata al territorio. Un emiliano-romagnolo lo sa bene, invece. C’è
un vantaggio nel tenere in mano il volante guidando su
strade che si conoscono: si può correre di più, si possono
migliorare le prestazioni, si può passare la guida alle
nuove generazioni. Non sono negativo per il fatto che i
capitali arrivino in Italia e si perda la proprietà di asset
locali, ma lo sono perché non vedo analogo interesse da
parte di chi questo territorio lo conosce e non sfrutta
l’asimmetria informativa a vantaggio suo e della sua
terra».
Le è mai capitato di essere in conflitto, tra l’amore per la
sua terra e le acquisizioni estere che come consulente EY
promuove nel Paese?
«Non necessariamente il capitale straniero impoverisce
il patrimonio di competenze locali e le trasferisce altrove,
la maggior parte delle nostre aziende sono molto interconnesse in filiere e distretti che non si possono espiantare. Un’impresa incapace di cogliere il cambiamento e
di investire in tecnologie e competenze diventa automaticamente preda di chi ha capitali e risorse manageriali,
è inevitabile. A prescindere che ci sia la mia squadra a
gestire l’operazione».
Lei muove enormi masse di capitali e ha competenze
manageriali da vendere: non ha mai avuto la tentazione di
fare il salto e diventare lei stesso imprenditore?
«In effetti la tentazione c’è spesso, mi capitano tra le ma-
«Si investe
ancora poco
in digitalizzazione
perché
l’imprenditore
deve trovare
il coraggio
di distogliere
investimenti
dal core
business,
necessari però
a mantenere
i flussi di cassa
correnti,
per puntarli
su frontiere
che non conosce
e non capisce.
La risposta
che ne scaturisce
è l’inerzia,
che rende
le aziende
facili prede,
in balia
di competitor
esteri, che invece
sono saliti
subito sul treno
della
digitalizzazione»
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L’intervista | Manager tra rigore e creatività
ni progetti bellissimi e credo che prima o poi tornerò a
fare il mestiere della mia famiglia (i genitori erano imprenditori di prima generazione nel fashion, ndr). Per
ora mi realizza aiutare le aziende a crescere ed evolversi, nel ruolo di consulente strategico. E poi in fondo sono
già imprenditore: sono socio e un consigliere di amministrazione della mia azienda, EY».
E come co-imprenditore di un colosso mondiale della consulenza quali strategie persegue?
«Ci sono tre azioni che ritengo siano le leve interdipendenti per creare un ambiente competitivo e vincente: sostenibilità, profittabilità e crescita. Non esistono crescita e profitto se non si è anche sostenibili. Ma sostenibilità non è stabilità. Un’azienda non può stare ferma, può
solo crescere (quindi trattenere e attirare talenti, capitali, innovazione) oppure decrescere. Chi si accontenta
di quanto raggiunto non è sostenibile, è solo destinato al
declino. D’altro canto anche la sostenibilità intesa come
corporate social responsability (Csr) non è una scelta
bensì un fattore competitivo di successo che un imprenditore non può non considerare. Un’azienda che sta sul mercato non può non fare proprie le istanze che emergono
dalla domanda. E oggi i “millennial”, chiedono di essere
parte integrante di un mondo che migliori le condizioni
sociali di tutti».
Anche sul tema responsabilità sociale di impresa l’Italia è
in ritardo, come sul digitale.
«È un problema di managerializzazione e di iniezione di
nuove competenze all’interno delle nostre pmi, per lo
più familiari. Ma la mia non è una critica al capitalismo
familiare, che è ancora un modello vincente, perché consente di preservare e trasmettere con continuità storia,
valori, Dna ed anche emozioni dietro al prodotto: una
capacità di storytelling che il mercato percepisce e apprezza. In più il capitalismo familiare consente piani di
lungo termine, a dispetto delle public company, sacrificando il profitto di oggi in nome del profitto di domani e
preservando la coesione tra territorio e business».
È davvero scoccata l’epoca del capitalismo sociale?
«Ritengo che qualsiasi attività d’impresa abbia l’interesse, oggi più che mai, a rendere il proprio ecosistema il
più possibile benevolo verso il business. E credo che questo circolo virtuoso sia più probabile funzioni se l’azienda resta anche in mano all’imprenditore del territorio
piuttosto che solo a manager giramondo. L’ambiente sociale e fisico in cui si vive e lavora è alla base del benessere delle persone. E l’accumulo di capitale non ha rilevanza se non si traduce in piacere di vivere. In fondo, è
questo il segreto dell’Emilia-Romagna».
Quindi meglio le imprese padronali che le imprese in mano ai manager?
«Affatto. La separazione tra proprietà e management è
cruciale per la sopravvivenza dell’impresa. Ma è altrettanto vero che non necessariamente un manager esterno è un ottimo manager e un membro della famiglia uno
pessimo. È fondamentale un giudizio lucido da parte
degli azionisti e dei vertici aziendali sulle competenze di
chi li circonda, lucidità che non sempre si avverte».
Cosa direbbe a giovani aspiranti consulenti o imprenditori?
«Di avere radici salde ma di dotarsi di un paio d’ali per scoprire il mondo e capire le nuove tecnologie (il che non significa passare la giornata sui social media). E di imparare a
ragionare sempre per progetto, in qualsiasi sfera della vita
e del lavoro. Nella scuola italiana è una abilità che non
viene insegnata, ma riuscire a risolvere un problema sulla
base di un progetto significa dotarsi di una vera e propria
metodologia che consente di individuarne gli aspetti critici, valutare le opzioni disponibili, condividere con chiarezza le possibili soluzioni, recuperare le competenze necessarie e muoversi poi in squadra per risolverlo: sono questi
tutti “soft skill” che possono e dovrebbero costituire insegnamenti di base, come l'inglese o la matematica, e che
contraddistinguono i migliori profili di cui il mercato di
domani ha più bisogno. Servono queste competenze, più
che titoli di studio altisonanti, di fronte alla crescente complessità della globalizzazione».
«All’investitore
poco importa
che il denaro
sia messo
nelle mani
di un imprenditore
romagnolo
o cinese, contano
i rendimenti.
A fare
la differenza sono
le informazioni,
che permettono
di prendere
le decisioni
più consapevoli,
allocando
al meglio
le risorse.
C’è un vantaggio
nel tenere
in mano il volante
guidando
su strade
che si conoscono:
si può correre
di più, si possono
migliorare
le prestazioni,
si può passare
la guida
alle nuove
generazioni»
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