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Newsletter
della Veneranda Biblioteca Ambrosiana
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« [...] tutto quello che c’è di divino
nella sfera celeste potrà
riconciliarsi e cooperare con noi [...] »
[Costantino Augusto e Licinio Augusto
Milano, 313 d.C.]
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Newsletter della Veneranda Biblioteca Ambrosiana
Direttore responsabile Franco Buzzi, Prefetto
Curatore Fabio Trazza, Giornalista
Con la collaborazione del Collegio dei Dottori
[email protected]
3
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
La breve citazione in copertina:
« [...] tutto quello che c’è di divino nella sfera celeste
potrà riconciliarsi e cooperare con noi [...] »
è tratta dalla lettera del 313 d.C. di Licinio Augusto al Governatore della Bitinia, riferita da
due fonti storiche, una in latino [Lattanzio, DMP 48] l’altra in greco [Eusebio, St. Eccl. 10,5]
ed è qui riportata nella traduzione italiana fattane comparativamente da M. Spinelli nel 1905.
La lettera dispositiva è comunemente nota come Editto di Milano.
_____________________________________________________
L’immagine in copertina — ingrandita rispetto all’originale,
ma le sue dimensioni reali sono di seguito indicate —
riproduce il francobollo emesso dalle Poste Italiane e dedicato
alla Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
con un apposito comunicato, che qui si riporta:
“
Poste Italiane comunica l’emissione, per il giorno 21 settembre 2009,
di un francobollo appartenente alla serie tematica
“Il patrimonio artistico e culturale italiano”
dedicato alla Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana di Milano,
nel IV centenario dell’apertura, nel valore di € 1,40.
Il francobollo è stampato
dall’Officina Carte Valori dell’Istituto Poligrafico
e Zecca dello Stato S.p.A.,
in calcografia, su carta fluorescente, non filigranata;
formato carta: mm 48 x 40;
formato stampa: mm 44 x 36;
dentellatura: 13¼ x 13;
colore: uno;
tiratura: quattro milioni di esemplari;
foglio: venticinque esemplari, valore “€ 35,00”.
La vignetta raffigura a sinistra
una facciata del palazzo sede della Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana di Milano
e a destra un particolare del dipinto
Ritratto di dama [*], ivi conservato.
Completano il francobollo le leggende
“BIBLIOTECA PINACOTECA ACCADEMIA AMBROSIANA”
e “MILANO”, la scritta “ITALIA” e il valore “€ 1,40”.
Bozzettista e incisore: Antonio Ciaburro.
A commento dell’emissione verrà posto in vendita il bollettino illustrativo
con articolo a firma di Mons. Franco Buzzi,
Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano.
”
* Tale ritratto è espressamente citato nell’Atto di Donazione
del Fondatore dell’Ambrosiana:
“Ritratto di una Duchessa di Milano..., di mano di Leonardo”
(Card. Federico Borromeo, Atto di Donazione 1618)
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Sommario
Premessa del Curatore____________________________________p. 7
1. Il Convegno____________________________________________” 9
2. L’apertura________ __________________________________” 10
3. Cornice del Convegno_______________________ _________” 11
4. La mostra diffusa__________________________ _________” 12
5. Le due grandi mostre:
A. Milano ________________________________ ________” 18
B. Roma __________________________________________” 19
6. Elena _______________________________________________” 20
7. Saluto del Cardinale _________________________________” 22
8. I temi del Convegno ___________________________________” 25
L’Editto di Milano
Ricadute ed effetti dell’Editto
Approcci specialistici
9. Lectio a 2 Voci_____________________________________” 126
1 il Cardinale Angelo Scola
2 il Patriarca Bartolomeo I
10. La Celebrazione ecumenica__________________________” 146
11. Appunto bibliografico:
libri, incisioni, manoscritti, medaglie e monete : _________” 152
5
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
su Costantino in Ambrosiana___________________________” 73
Fine IV secolo d.C. bronzo Celije, Celije Regional Museum © Tormaz Lauko
«Chrismon»
Il Chrismon, cristogramma, risulta dall’incrocio delle due lettere iniziali greche
di Cristo, χ ρ. Fu scelto da Costantino come simbolico signum crucis in sostituzione della croce, segno infamante della crocifissione degli ultimi della società,
dei non cittadini romani e degli schiavi. Emblema della svolta costantiniana,
sostituì gli antichi simboli imperiali sulle insegne e gli scudi, sui monumenti
civili e religiosi. Raffigurato sulle monete ebbe circolazione capillare, fino a
divenire tema di raffinatissimi preziosi monili in oro o di oggetti d’uso comune.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Premessa
La Newsletter dell’Ambrosiana del maggio 2013 riassume le iniziative svolte dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano nelle celebrazioni a più voci del XVII° Centenario dell’Editto di Milano. Il ruolo dell’Ambrosiana è stato quello di cogliere la portata di quell’evento e codificarlo in
sede scientifica alla luce dei dati e delle ricerche sin qui condotte.
La Newsletter, però, non ha compiti scientifici. Si limita ad informare sui passi che si fanno per realizzare un risultato, in questo caso non solo
scientifici, ma con ricadute essenziali per la comunità tutta, per i risvolti sociali e politici, religiosi e culturali. Per offrire il contributo di studio e di raccordo tra le università, i consigli, gli enti coinvolti, la Veneranda Biblioteca
ha finalizzato a questo evento l’attività scientifica di cinque delle sette classi
di studio che costituiscono l’Accademia Ambrosiana. La documentazione
che qui si raccoglie costituisce un semplice strumento divulgativo, disponibile solo in rete internet, quindi rivolto ad un pubblico potenzialmente sterminato e culturalmente eterogeneo. Con la divulgazione e con il supporto
scientifico l’Ambrosiana farà focalizzare meglio le ragioni che hanno spinto
il Cardinale di Milano, Angelo Scola, a definire l’Editto di Milano Initium
libertatis, l’inizio della libertà. Molti organi di stampa si sono interrogati su
questa affermazione. Qualcuno ha immaginato fosse utile commentare il
più rapidamente possibile questa definizione. Ma non sempre le decisioni
più rapide si rivelano le più sagge. E anche su questo il Lettore della Newsletter troverà sommaria informazione.
Il rapporto che si vive nella società tra politica e religione dovrebbe
edificare la pace, ma è un rapporto ancora incandescente in ogni parte del
mondo, dalle persecuzioni aperte e disumane in Oriente, alle limitazioni
anche subdole in Occidente. In ogni luogo c’è bisogno di riflessioni responsabili per diminuire il grado di fragilità che la coscienza religiosa patisce. E
non si tratta solo di luoghi geografici. Il luogo della coscienza individuale
e quello del potere statale sono i luoghi concreti in cui precipita o si esalta
il bisogno umano di ricercare la verità. Questa Newsletter ha la pretesa di
preparare il terreno alla considerazione che alcuni elementi di libertà andrebbero rivisitati. Ad esempio, e per gli stati: non si può procedere alla depenalizzazione, anche se graduale, di quei reati, che, connessi alla religione, offendono la civiltà di una determinata comunità, ma non hanno come
corrispettivo una sanzione solo civile, sconfinando nella sanzione penale,
fino alla morte del corpo? Altro esempio, e per i singoli: non si potrebbe
aver coscienza che qualche capanna di una setta o di un gruppo ateo, ha
costitutivamente una diversità radicale con un edificio sacro e un tempio e,
che se lo stato ne compie l’equiparazione, produce un paradosso violento,
sino alla morte dell’anima? Semplici interrogativi, per suscitare l’attenzione
e la curiosità alla lettura.
Il Curatore
7
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
zio finale, era perDal «chrismon»
fettamente noto
alla «croce».
all’esperienza dei
In seguito alle semcontemporanei,
plificazioni stilistiignoto
restava
che elaborate sul
quello del «chri“segno costantiniasmon». Secondo la
no”, il Chrismon si
tradizione, a Coesplicita compiustantino, che ossertamente e, anche
vava il cielo prima
in ragione dell’acdella battaglia di
quisita dignità e
Ponte Milvio, era
piena cittadinanza
apparso nel cielo
dei cristiani nella
quel segno. Dopo
società,
l’essenla battaglia e la
zialità del signum
vittoria quel segno
crucis si svela provenne dipinto sugressivamente e
gli scudi dell’eserassurge a piena
cito. Così il «caetestimonianza releste signum Dei»,
ligiosa manifestadi cui aveva dato
bile pubblicamennotizia lo scrittore
te. La derivazione
latino Lattanzio,
della «croce» dal
diveniva da allo«chrismon» è evira il simbolo non
dente se si osserva
della vittoria di
il braccio verticale
un capo militare
della croce, che
cristiano contro
conserva la curvauno pagano, ma
tura della lettera
Croce con α ω — IV-VI secolo
della vittoria del
ρ, presente nel
«chrismon», forma- Aquileia, bronzo, Wien Kunsthistorisches Museum Dio cristiano sulla
morte, del princito dall’incrocio delle due lettere iniziali greche di Cristo, pio sulla fine, α e ω - Eusebio di Cesaχ e ρ appunto. Si compie un processo rea ne descriverà nella Vita di Costanche, da una parte, lascia sullo sfondo la tino la genesi calligrafica come disegno
connotazione della crocifissione come stellato. Un disegno però che, più che
segno infamante della pena capitale a un sogno, appare legato allo sviluppo
riservata agli ultimi nella società, schia- di un simbolo solare o astrale, particovi e non cittadini romani, e dall’altra larmente invalso nella società romana
consente il superamento dei precedenti del III secolo e assunto dal simbolo
simboli usati nella clandestinità, rico- astrale del Sol Invictus, divinità militare
noscibili solo dai cristiani, irriconosci- e a cui era particolarmente votato Cobili dagli altri, come la colomba, ma, stanzo, padre di Costantino, e Costansoprattutto, il pesce, che nella versione tino stesso prima della sua conversione.
greca del nome —ιχθυς— contiene tut- Come un «chrismon», apparso in cielo,
te le iniziali di un’intera espressione: dal cielo aveva rimandato alla «croce»,
“Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. piantata nella terra, così questa, ora,
Mentre nell’età romana il simbolo della rimandava dalla terra al cielo, quel
«croce», come mezzo e luogo di suppli- cielo che aveva ispirato Costantino.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
1. Convegno
“ Costantino a Milano
L’editto e la sua storia — 313–2013 ”
8-11 maggio 2013 Milano
patrocinato da:
— Pontificio Comitato di Scienze Storiche
— Ministero per i Beni e le Attività culturali
— Arcidiocesi di Milano
— Biblioteca Apostolica Vaticana
— Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
— AICC Associazione Italiana Cultura Classica Delegazione di Milano
— IULM Libera Università di Lingue e Comunicazione
e si è articolato in quattro giornate.
Nella prima giornata, mercoledì 8 maggio 2013, svoltasi in Università
Cattolica, Aula Pio XI, Largo Gemelli, 1, è stato affrontato il tema
L’Editto di Milano
Nella seconda giornata, giovedì 9 maggio 2013, svoltasi nell’Università
degli Studi di Milano, Sala Napoleonica - Palazzo Greppi, Via S. Antonio, 12, il tema affrontato è stato
Ricadute ed effetti dell’Editto
Nella terza e quarta giornata, venerdì 10 e sabato 11 maggio 2013, in
Biblioteca Ambrosiana, Sala delle Accademie, Piazza Pio XI, 2, sono
stati operati tutti i più opportuni
Approcci specialistici
Nel corso del Convegno è stato anche possibile accostarsi ai luoghi in
Milano che più da vicino hanno segnato, o custodiscono, la memoria
della storia rievocata in quelle giornate di studio.
Così nel corso della prima giornata è stato visitato il Civico Museo Archeologico, nel corso della seconda la basilica di S. Nazaro e la chiesa di
S. Antonio, nel corso della terza il teatro e il foro romano.
Un contributo decisivo alle quattro giornate è stato offerto dalle sette
Classi di Studi che compongono l’Accademia Ambrosiana, presieduta dal
Prefetto dell’Ambrosiana, Mons. Prof. Franco Buzzi, e la cui istituzione
consolida ed accresce il rigore scientifico e la valenza culturale di tutta
l’Ambrosiana, Pinacoteca e Biblioteca.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
2. L’apertura
Il Convegno è stata la conclusione scientifica di una vasta e diffusa
preparazione culturale, che ha interessato Milano e Roma, con due specifiche mostre a Milano e a Roma, coinvolgenti pubblico e autorità civili.
Ma il Convegno di Milano è stato anche il più solido sostegno accademico perché le autorità religiose sperimentassero un nuovo fermo
passo di avvicinamento tra Roma e Costantinopoli.
L’apertura, infatti, augurale e inaugurale, è stata tenuta dal
Cardinale di Milano Angelo Scola e la chiusura ideale, quale atto conclusivo, è stata sancita proprio da una Lectio magistralis a due voci nella
Sala delle Cariatidi in Palazzo Reale a Milano il 15 maggio 2013 tra il
Patriarca di Costantinopoli e l’Arcivescovo di Milano e celebrata il 16
maggio 2013 con la Celebrazione Ecumenica della Parola in Sant’Ambrogio dall’Arcivescovo di Milano e dal Patriarca di Costantinopoli.
Non è dato oggi sapere quanto le Autorità Civili sapranno cogliere da questa esperienza di studio, di incontro e di pubblica manifestazione, per consolidare le tutele della libertà religiosa di tutti, le cui
basi giuridiche risiedono proprio nelle disposizioni del 313 emanate
dall’imperatore Costantino e dal suo omologo in Oriente Licinio.
In questo senso le quattro giornate sono state
uno studio intenso al cuore della libertà.
Infatti, in ogni epoca e in qualsiasi parte del mondo, quando la libertà
religiosa, individuale e collettiva, privata e pubblica, viene intaccata o
compromessa, allora diviene molto concreta la propensione politica a
non tutelare e a ridurre tante altre libertà. E questa è anche l’esperienza
odierna dei popoli, in Europa e nel mondo.
Quel che invece oggi è dato sapere e conoscere è che le Autorità
Religiose hanno saputo compiere la loro esperienza di studio, di incontro e di pubblica manifestazione, per progettare e realizzare strade
sicure al necessario e salutare cammino ecumenico dell’umanità.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
3. Cornice del Convegno
Prima per la prepazione delle mostre, poi per tutta la loro durata
sono fiorite varie iniziative didattiche, per motivare docenti e studenti
di ogni città a confluire nei luoghi della mostra, Milano e Roma. Percorsi calibrati per gradi, dalle primarie alle secondarie, fino ad addentrarsi
nella selva delle sculture in Duomo, alla ricerca di ritratti, immagini,
allegorie, riferentesi ad Elena e Costantino e rintracciare origini e modalità del radicamento del cristianesimo a Milano. Da qui le visite a
San Giovanni in Conca, San Nazaro, San Lorenzo e Sant’Eustorgio. Le
Università hanno promosso approfondimenti, dai sostegni bibliografici
alla diretta osservazione delle fonti documentali. Al centro la Milano
imperiale, i ruoli di Elena e di Costantino, la genesi e gli effetti della tolleranza introdotta dall’editto sulle pratiche religiose e nella vita sociale.
Laboratori interattivi hanno permesso ai partecipanti di misurarsi con
la costruzione del “chrismon”, magari utilizzando le stesse iniziali del
proprio nome, oppure di lavorare al conio, su piccole lamine metalliche, di monete riecheggianti i temi costantiniani. Proposto anche uno
“scrigno”, da cui estrarre i documenti sugli eventi evocati dal 313 d.C.,
ma anche le leggende fiorite nei secoli per nutrire il ricordo di Costantino, esaltandolo, e a cui oggi è necessario accostarsi per la conoscenza
non solo dei nuclei storici, che ogni leggenda racchiude, ma anche delle
aspirazioni che gli autori e le società che le hanno espresse nutrivano.
Qui una delle più affascinanti opere generate proprio da quelle leggende:
Piero della Francesca (1412-1492), Ritrovamento delle tre croci e verifica della croce,
(1458-1466), affresco, cm. 356 x 747, Basilica di San Francesco, Arezzo
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
4. La mostra diffusa
Milano fu scelta come sede imperiale per la posizione, la storia,
le idee qui circolanti. Molti sono ancora i luoghi che rimandano alla
funzione svolta da Costantino per l’ampliamento della libertà religiosa.
La stessa memoria delle reliquie della croce ritrovate da Elena e il culto
connesso in tutti i secoli successivi con il ciclo delle sue storie e le statue
dedicatele dalla città, le stesse statue di Costantino all’esterno del Duomo, tutti i riferimenti preziosi presenti in altre chiese, tutto costituisce
una presenza diffusa, su cui il dibattito delle idee cerca di far luce. Un
dibattito aperto dal Cardinale di Milano con il suo discorso alla città
nei primi vespri della solennità dell’ordinazione di sant’Ambrogio, vescovo e dottore della chiesa, il 6 dicembre 2012:
« L’editto di Milano: initium libertatis »
1. Il XVII centenario dell’Editto di Milano
«L’Editto di Milano del 313 ha un significato epocale perché segna
l’initium libertatis dell’uomo moderno». Quest’affermazione di un illustre cultore del diritto romano, il compianto Gabrio Lombardi, permette
di evidenziare come i provvedimenti, a firma dei due Augusti Costantino
e Licinio, determinarono non solo la fine progressiva delle persecuzioni
contro i cristiani ma, soprattutto, l’atto di nascita della libertà religiosa.
In un certo senso, con l’Editto di Milano emergono per la prima volta nella
12
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
storia le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e “laicità
dello Stato”. Sono due aspetti decisivi per la buona organizzazione della
società politica.
Un’interessante conferma di questo dato si può trovare in due significativi
insegnamenti di sant’Ambrogio. Da una parte l’arcivescovo non esitò mai a
richiamare i cristiani ad essere leali nei confronti dell’autorità civile, la quale, a sua volta - ecco il secondo insegnamento - doveva garantire ai cittadini
libertà sul piano personale e sociale. Veniva così riconosciuto l’orizzonte del
bene pubblico a cui sono chiamati a concorrere cittadini e autorità.
Non si può tuttavia negare che l’Editto di Milano sia stato una sorta di “inizio mancato”. Gli avvenimenti che seguirono, infatti, aprirono una storia
lunga e travagliata.
La storica, indebita commistione tra il potere politico e la religione può
rappresentare un’utile chiave di lettura delle diverse fasi attraversate dalla
storia della pratica della libertà religiosa.
La situazione cambiò profondamente con la promulgazione della dichiarazione Dignitatis humanae. Quali sono le novità fondamentali dell’insegnamento conciliare? Il Concilio, alla luce della retta ragione confermata
e illuminata dalla divina rivelazione, ha affermato che l’uomo ha diritto a
non essere costretto ad agire contro la sua coscienza e a non essere impedito
ad agire in conformità con essa.
In questo modo, con la dichiarazione conciliare venne superata la dottrina
classica della tolleranza per riconoscere che «la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa», e che tale diritto «perdura anche in coloro che
non soddisfano l’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa» (DH
2). A dire di Nikolaus Lobkowicz, già rettore della Università di Monaco di
Baviera e presidente dell’Università cattolica di Eichstätt, «la straordinaria
qualità della dichiarazione Dignitatis humanae consiste nell’aver trasferito
il tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della
persona umana. Se l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche
quando sbaglia. Chiaramente non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è
un diritto rispetto ad altre persone, alla comunità e allo Stato» .
[...]
[...]
[...]
5. L’anniversario dell’Editto, opportunità per Milano
La città di Milano e le terre lombarde sono e saranno sempre più abitate
da tanti nuovi italiani (immigrati di prima, seconda e terza generazione).
Saranno chiamate a fare i conti con il processo storico (sottolineo processo
storico e non progetto sincretistico) di meticciato di civiltà e di culture, a
mostrare la capacità di rispettare la libertà di tutti, di edificare il corpo
ecclesiale e un buon tessuto sociale trasmettendo fede e memoria.
Le nostre terre sono e saranno obbligate a confrontarsi con lo sviluppo di
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
una società civile dai contorni molto più variegati e a rischio di sempre
maggior frammentazione per la presenza di interessi corporativi, i cui centri
effettivi di potere sono e saranno sempre più dis-locati “altrove”, in Europa
e nel mondo; poteri, mai neutri, che vedranno sempre più accresciuta la
loro capacità di presentarsi come attori sociali e gruppi di pressione.
La celebrazione dell’anniversario dell’Editto di Milano cade in un momento storico in cui la Chiesa ambrosiana, insieme a tutte le Chiese del nostro
paese, è chiamata ad un’opera di trasformazione della propria presenza
nella società plurale. Superati i decenni della contestazione che annunciavano la fine di ogni forma pubblica del cattolicesimo (negli anni ’70 anche
a Milano molti pensavano così), i cristiani possono testimoniare l’importanza e l’utilità della dimensione pubblica della fede. Il cattolicesimo popolare
ambrosiano - che non è privo di profonde fragilità sia nell’assunzione del
pensiero di Cristo che nella pratica sacramentale e del senso cristiano della
vita - si mostra tuttavia capace di risorse innovative per il vivere sociale,
inimmaginabili nelle previsioni di qualche decennio fa. Il concreto tessuto
ambrosiano di vita cristiana, forse in modo culturalmente minoritario, sta
infatti cercando nuove forme per mantenersi capillarmente radicato nell’esteso territorio della diocesi. Lo fa attraverso reti di solidarietà, di accoglienza, di costruzione di risposte ai bisogni fondamentali, di gestione del
legame sociale, di educazione alla fede e alla cultura, che va dall’annuncio
esplicito della bellezza, della bontà e della verità dell’evento di Gesù Cristo
presente nella comunità, fino alla proposta di tutte le sue umanissime implicazioni antropologiche, sociali e di rapporto con il creato.
[...] » .
[...]
[...]
Il dibattito aperto dal Cardinale con il discorso alla città si è
subito animato con interventi, precisazioni, distinguo, che hanno contribuito a focalizzare tanti frammenti di tutta una mostra diffusa sull’Editto di Costantino. Tra i primi richiami alla realtà storica, anche
per sottolineare la dimensione scientifica entro cui si sarebbe svolto il
convegno, è stato un Dottore della Biblioteca Ambrosiana, Marco Navoni, con un articolo sul portale della Chiesa di Milano (10 dicembre 2012) :
« L’ultima grande persecuzione contro i cristiani nell’antica Roma
pagana porta il nome dell’imperatore Diocleziano, ma fu in realtà suscitata
da Galerio, suo collega nell’impero: era il 303, una data che nella Chiesa
antica verrà ricordata a lungo come l’inizio della cosiddetta «epoca dei
martiri». Sembrerà un paradosso, ma fu proprio lo stesso Galerio che il 30
aprile 311, a Nicomedia, con un editto di tolleranza, pose fine alla persecuzione contro i cristiani e restituì a loro i beni confiscati in precedenza.
Questa iniziale apertura nei confronti del cristianesimo verrà confermata
in maniera ufficiale e definitiva di lì a due anni, nel 313, con l’accordo tra
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
i due imperatori Licinio e Costantino, proprio a Milano, che a quel tempo
era sede della residenza imperiale: è quello che comunemente viene definito
l’Editto di Milano, [...]. Purtroppo non possediamo il testo originale di tale
Editto (o accordo), ma il riassunto che di esso ci hanno lasciato gli autori
antichi è sufficientemente preciso.
Ci viene detto innanzitutto che i due imperatori si accordarono di concedere anche ai cristiani, come a tutti gli altri cittadini dell’impero, la libertà di seguire la loro religione, nella convinzione che quella che noi oggi
chiameremmo «questione religiosa» (il testo dell’Editto parla letteralmente
di «questioni concernenti il culto della Divinità») ha un riferimento esplicito e una ricaduta pratica sul bene comune della società. Il concetto viene
poi ribadito una seconda volta al negativo, nel senso che i due imperatori
presero la «salutare decisione» di non vietare a nessuno la libera facoltà
di aderire, sia alla fede dei cristiani (che fino a qualche anno prima erano
stati oggetto di esplicita persecuzione), sia a quella religione che ciascuno
ritenga più adatta a se stesso. È interessante che venga usato l’aggettivo
«salutare»: anche in questo caso si voleva esplicitare che i reggitori dello
Stato intervenivano in tal senso su una questione di carattere religioso nella
convinzione che ciò avrebbe avuto un riflesso «positivo» (per l’appunto:
salutare) sullo Stato stesso.
Gli storici hanno discusso a lungo e a lungo discuteranno sulle motivazioni
che portarono Costantino e Licinio a prendere questa decisione: se si tratta
di semplice tolleranza, condita da un po’ di opportunismo, nei confronti di
qualsivoglia religione, fino ad arrivare a un atteggiamento di «indifferentismo», o se davvero il 313 può essere considerato l’inizio di una «svolta» [...] .
Intanto, ai fini della nostra, di storia, va registrato che la storia
s’interseca sempre con l’attualità e incontri e convegni avrebbero animato da subito gli eventi appena trascorsi e animeranno i prossimi:
— una mostra divulgativa itinerante in tutta la Diocesi milanese, per
spiegare l’Editto e il suo significato ancora oggi;
— la ripresa in tutti i Centri culturali del Discorso del Cardinale alla
città, per svolgerne ogni possibile implicazione e giungere ad ottobre a
interrogare, in un grande evento europeo, i testimoni del dialogo tra le
religioni su come la libertà religiosa permette la costruzione del futuro
della società;
— la firma della Carta Milano 2013 lanciata dal Forum delle religioni, gruppo autogestito in cui sono rappresentati cristianesimo, ebraismo, islam, induismo e buddismo;
— l’incontro ecumenico tra il Patriarca Bartolomeo e il cardinale Scola per una lezione ecumenica sull’attualità dell’Editto;
— la presentazione dell’Enciclopedia Costantiniana, edita da Treccani;
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
— il Convegno 8–11 maggio su «Costantino a Milano, l’Editto e la sua
•
storia» della Biblioteca Ambrosiana in collaborazione con le Università
Cattolica e Statale;
— il suggerimento della Diocesi alle Autorità Civili [Comune, Provin•
cia, Regione] per far incontrare tra loro le città che hanno avuto rapporti
istituzionali con l’imperatore Costantino [Gerusalemme, Istambul, Milano, Nis, Roma, Treviri, York];
— l’iniziativa ecumenica a Nis, città natale di Costantino, in Serbia il
23 giugno, dove ancora rimangono aperte le ferite tra serbi e croati, risalenti agli eccidi del regime ustasha nella Seconda Guerra mondiale;
— un confronto aperto sulla politica e il rapporto di Costantino con
il mondo ebraico, con il contributo documentato e ragionato di mons.
Fumagalli, voce autorevole dell’ecumenismo e Vice Prefetto dell’Ambrosiana, sede del più meditato confronto su, e tra, autori e studiosi
ebrei, cristiani, musulmani, per la riscoperta comune di comuni “nuovi
classici per il III Millennio”;
— “il grande alfabeto dell’umanità”, mostra ricercatissima sulla
Bibbia, che, della Bibbia, riunisce in Ambrosiana, dal 26 Marzo al 30
Giugno 2013, gli esemplari più belli al mondo e le interpretazioni più
suggestive di Marc Chagall, anche con incontri pubblici di approfondimento sul “grande alfabeto”, dono ebraico al mondo;
— una mostra in San Sepolcro dei dipinti di Georgios Oikonomoy sulla fede di Costantino: un cammino che interroga.
— “Costantino il Grande alle radici dell’Europa”, convegno Internazionale di Studio del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, in occasione del 1700mo anniversario della Battaglia di Ponte Milvio e della
conversione di Costantino, presso la Città del Vaticano-Roma, 18-21
aprile 2012.
Risulta evidente come il Convegno di Milano su «Costantino a Milano, l’Editto e la sua storia» risulti incastonato in un processo di iniziative, che, partendo dal Discorso alla città, mira a verificare, oggi, un’idea
antica: quanto le religioni possano giovare all’insieme delle società che le
hanno espresse e continuano a esprimerle e viverle. E di questo processo il
Convegno ambisce ad essere il supporto scientifico. Dall’esame degli Atti
del Convegno — appena saranno disponibili — potranno aversi elementi utili a
stemperare qualcuna delle ragioni alla base delle prese di posizione di
intellettuali che apparentemente disquisiscono sul ruolo della religione
nella società, ma in realtà preferirebbero osservarne i resti nelle teche di
qualche mostra, quale oggetto di studio e di ammirazione, e non vederla
animarsi per sospingere l’umanità verso un’inesauribile ricerca di verità.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Al Discorso alla città, “Initium libertatis”, di annuncio dell’anno costantiniano sono seguiti commenti, che non è possibile qui ripercorrere, né dettagliatamente, né
esaustivamente. Ci si limita perciò a dei brevi cenni sui più rilevanti, per dare almeno la
sensazione del clima del dibattito diffuso che si è sviluppato sui media che si autoproclamano baluardo di tolleranza. Su “La Stampa” Gian Enrico Rusconi con l’articolo “Caro
Scola, la laicità dello Stato non è nichilismo” subito sentenzia che “è deplorevole che la
laicità dello Stato sia identificata tout court con una idea di secolarizzazione che sconfina di
fatto con il nichilismo”. Per il “Corriere della Sera”, in prima pagina “Scola contro la laicità
dello Stato”, ma, continuando a pag. 20, lo stesso articolo di Paolo Foschini è rititolato:
“Il cardinal Scola e la laicità: No a uno Stato senza Dio”. Su “la Repubblica”, cronaca di
Ida Dazzi: “Lo Stato laico minaccia la libertà religiosa”; intervista al sindaco Pisapia: “Nessun credo va privilegiato, rivendico l’autonomia della politica”; commento di Vito Mancuso:
“Scola, lo Stato laico e la libertà religiosa”: “La storia insegna che si dà libertà religiosa solo
nella misura in cui lo Stato non si lega a nessuna religione particolare, solo se si pone di fronte
ai suoi cittadini con l’intenzione di rispettare tutti, minoranze comprese, solo se pratica quella
forma di neutralità così esplicitamente criticata dal cardinal Scola nel suo discorso di ieri”. Su
“l’Unità” “La laicità del cardinale Scola tra diritto e morale”, 10 dicembre, è chiosata così
da Nicola Colajanni: “il dibattito sulla laicità [...] risulta intriso da una visione in fondo
pessimistica sul contrasto tra cultura secolarista e fenomeno religioso, che certamente non
rende i tanti contatti provocati dal camminare insieme”; [identificare il diritto alla libertà
religiosa con il dovere di ricercare la verità] “significa confondere due sistemi normativi, il
diritto e la morale, con la conseguenza o di retrocedere il diritto positivo a diritto morale
o di innalzare l’obbligo morale ad obbligo giuridico”. Per “L’Huffington Post” a firma
Massimo Faggioli, 7 dicembre, “Il cardinale Scola tra il Medioevo e l’America”: Scola vorrebbe un neo-americanismo con uno Stato aconfessionale che promuova una “laicità
positiva” non neutrale rispetto al fatto religioso. Modello in crisi negli Usa: la “religione civile” risulta di scarso valore e incidenza e, comunque, modello inapplicabile in Italia. Su
“Il Fatto quotidiano” Furio Colombo, 9 dicembre, “I ‘cattolicisti’: quando la fede serve al
potere” si cimenta col neologismo ‘cattolicista’ per accusare quanti, “cardinali e no, usano
la religione e la fede come strumento per governare”. Anche la Chiesa evangelica valdese,
sul proprio sito, con Paolo Naso: “La guerra fredda del cardinale Scola”, pare allarmarsi:
“l’obiettivo polemico dei vertici cattolici era il relativismo, da Milano è partito uno strale
anche contro la ‘neutralità’ [...] la Chiesa ambrosiana rivendica una sua anomala idea
di laicità, distinta e distante da quella del pensiero liberale tradizionale [...] fondata proprio sulla neutralità dello Stato riguardo alle questioni religiose”. Liquidatorio Roberto
Escobar, “Scola di laicità”, sull’on-line de “Il mulino”: La libertà – quella religiosa, e non
solo, – all’Occidente è stata data non dalla Chiesa, ma dai suoi avversari, o se si preferisce
dai movimenti politici e culturali comunemente detti laici”. Roberto Beretta, giornalista
su “Avvenire” e altri giornali cattolici, il 9 dicembre, tenta una difesa: “Scola ha ragione
(nell’esigere che lo Stato “apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa
portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune [...] . È il difetto della
democrazia quantitativa: destra o sinistra, il sistema perpetua se stesso con l’esclusione
delle posizioni «di coscienza», le quali sono spesso le uniche da cui potremmo aspettarci una vera attenzione al bene comune e non agli interessi, alle lobbies, alle caste”.
Chissà se uno stuolo così acuto di giornalisti sfoglierà anche le
risultanze del Convegno dei più insigni studiosi dell’età costantiniana e
con quelle vorrà misurarsi. Noi intanto, prima di darne ampio resoconto, da una mostra così diffusa ritorniamo un momento a Palazzo Reale
e rientriamo brevemente nel Colosseo, passando per l’Arco di Costantino, per ammirare i segni della bellezza e per ricordarci che, nel dibattere sulle altrui opinioni, non si dovrebbe prescindere né da un essenziale
ancoraggio documentale né da un minimo di mediazione accademica.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
5. Le due grandi mostre
A. Milano
Nel Palazzo Reale dal 25 ottobre 2012 al 24 marzo 2013 è stata
allestita una Mostra celebrativa dell’anniversario dell’emanazione dell’Editto di Costantino a Milano nel 313 d.C.. È stata progettata e ideata
dal Museo Diocesano di Milano, promossa e prodotta dal Comune di
Milano con la collaborazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma,
dell’Arcidiocesi di Milano e dell’Università degli Studi di Milano, è stata
patrocinata dal Presidente della Repubblica Italiana e dalla Segreteria
di Stato del Vaticano. Documentata l’importanza di Milano nel IV secolo e il suo ruolo per l’unificazione dell’Europa e l’innalzamento del
livello culturale e artistico di tutto l’Impero nell’età di Costantino. Presentati anche molti risultati inediti degli ultimi scavi effettuati a Milano.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Articolata in sei sezioni, ha mostrato gli aspetti più significativi
1. di Milano capitale imperiale dal 286 d.C.; 2. del passaggio dalle persecuzioni contro i Cristiani alla vittoria di Costantino; 3. dei simboli di
fede, il Chrismon; 4. del tempo della tolleranza, dalla persistenza del
paganesimo alla ricerca del dio unico; 5. dei protagonisti nell’età di
Costantino: esercito, chiesa, corte; 6. di Elena imperatrice e santa.
B. Roma
La Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma
ospita al Colosseo, dal 11 aprile al 15 settembre 2013, la mostra “Costantino 313 d. C.”, reduce da quella a Palazzo Reale di Milano, ma arricchita da una sezione interamente dedicata a Roma. Si chiude infatti
con la sezione dedicata ai monumenti costantiniani di Roma: le residenze, le terme, le basiliche, i mausolei e le straordinarie decorazioni.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
6. Elena
FL HELENA AVGVSTA
Elena, madre di Costantino rappresenta una delle figure femminili più straordinarie della storia. Di Elena ci parlano gli
scrittori cristiani a lei vicini come Eusebio di
Cesarea e Ambrogio che la descrive come il
modello della donna cristiana, virtuosa e umile davanti a Dio sia nella vita modesta della
sua gioventù, che nella gloria di imperatrice.
All’origine delle scelte e delle decisioni
dell’imperatore romano Costantino, di operare una nuova translatio imperii, non geografica, ma culturale, verso le nuove terre della libertà
religiosa per tutti
« [...] tutto quello che c’è di divino
nella sfera celeste potrà
riconciliarsi e cooperare con noi [...] »
vi è la figura e il ruolo di sua madre, Elena. Un suo contemporaneo, lo
scrittore greco Eusebio di Cesarea (265 - 340 circa), ne ha esaltato la permanenza in Palestina alla ricerca dell’origine più autentica dell’esperienza cristiana e
l’impulso dato al figlio, l’imperatore Costantino, a costruire grandi basiliche
perché il culto fosse
realmente garantito
e libero.
Solo alla moglie di
Giulio Cesare Ottaviano
Augusto,
primo
imperatore
romano, il senato
romano tributò il titolo che ad Elena fu
riservato: Augusta.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Un appellativo che nel suo etimo —da augēre—
indica la funzione di accrescere gli spazi di libertà, di benessere.
Si deve alla testimonianza della grande
guida religiosa di Milano, Ambrogio (340 – 397),
la venerazione che nei secoli, e senza divisione
tra Occidente ed Oriente, le venne tributata: santa. Santa, perché seppe ritrovare la vera croce
nel suo pellegrinaggio in Terra Santa.
SECVRITAS REIPVBLICE
Ma anche nella sua epoca fu celebrata
oltre misura: le fu dedicato, per ritrarla, il rifacimento del volto di una
scultura del secolo precedente, dell’età degli Antonini, dedicata alla fecondità dell’amore, ad Afrodite. La divinità cui nel suo De rerum natura
Lucrezio dedica l’invocazione per il suo stesso poema: Alma Venus. E
anche alma contiene, nel suo etimo, il significato di nutrire, ălĕre, sostenere, far crescere, allevare. La santità, cioè l’esemplarità, di Elena
fu quella, riconosciuta da subito, di aver saputo accrescere e nutrire la
libertà religiosa. Un’impresa suggellata dagli atti istituzionali del figlio
Costantino.
Anche il ritratto di Elena entra perciò in queste giornate di celebrazione del 313 d.C., fisicamente mosso dalle sale dei Musei Capitolini
in Roma, ma proveniente idealmente dalle sale della corte imperiale,
per mostrarsi oggi
in mezzo al pubblico, come in un gioco
di specchi e rimandi pensierosi per le
movimentate piazze
della nostra società,
divenendo elemento di ammirazione
nelle mostre di Milano e Roma e di
studio nelle giornate delle università
statale e cattolica
di Milano e della
Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
7. Saluto del Cardinale
Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano
mercoledì, 8 maggio 2013
Università Cattolica
Aula Pio XI – Largo Gemelli, 1
Milano
Magnifico Rettore,
Eccellenza Reverendissima,
Illustrissimi Presidi,
Chiarissimi Professori,
Cari Studenti,
con piacere ho accettato l’invito a rivolgere una parola di apertura in occasione della prima seduta del Convegno Costantino a Milano.
L’Editto e la sua storia (313-2013), promosso dalla Biblioteca Ambrosiana, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dall’Università degli
Studi di Milano.
Dico con piacere perché diverse sono le ragioni che, fin dal primo momento, mi hanno fatto apprezzare l’iniziativa.
Innanzitutto il fatto che si tratti di un Convegno scientifico promosso da tre istituzioni culturali di prim’ordine nella storia e nel presente della nostra città: la Biblioteca Ambrosiana, espressione istituzionale della cura che la Chiesa ha sempre avuto nel favorire lo sviluppo
dei saperi e delle arti; l’Università Cattolica, nata dall’impegno libero
e appassionato di un gruppo di cattolici come luogo di elaborazione
del sapere a beneficio non solo dei cattolici italiani e l’Università degli
Studi di Milano, polo di grande rilevanza in ambito accademico. Mi
sembra che l’iniziativa che ci vede convenuti manifesti il “bene pratico
dell’essere insieme” e le possibilità di lavoro comune in ambito accademico e culturale sempre più necessari alla vita pubblica della nostra
città e della nostra nazione.
In secondo luogo, il Convegno affronta lo studio particolareggiato del cosiddetto “Editto di Milano” (forse come gli storici insegnano
sarebbe meglio parlare di “Accordo di Milano”), le sue conseguenze storiche e la sua rilettura nelle diverse tradizioni europee. Basta scorrere il
ricco programma di queste tre giornate per farsi un’idea della complessità insita nell’argomento.
Infine, il mio interesse per questo Convegno nasce anche dal
fatto che ho voluto porre all’attenzione di tutta la società milanese, e recentemente anche al grande pubblico attraverso un breve saggio, il tema
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
della “libertà religiosa”, emblema e culmine della libertà di coscienza,
come uno dei principali argomenti, se non il primo, che mi sembra
richiedere seria riflessione e rinnovata pratica nelle nostre odierne società occidentali.
In occasione del Discorso alla Città, la vigilia di Sant’Ambrogio,
ero partito dalla considerazione che non si possa negare all’Editto di
Milano un qualche significato epocale, in quanto inizio di quella che,
col tempo, avremmo potuto denominare “libertà religiosa”. Pur tenendo
in debita considerazione le diverse riletture storiche che hanno sopravvalutato di volta in volta, o sottovalutato, il peso dell’Editto, mi sembra
che si possa continuare ad affermare, ovviamente nel quadro della specifica e ben delimitata teologia politica di quel momento storico, che
con l’Editto di Milano emergono per la prima volta le due dimensioni
che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e, in maniera indiretta, quella
che secoli dopo verrà chiamata “laicità dello Stato”. Sono due aspetti
decisivi per la buona organizzazione della società politica.
Tuttavia, come ben sappiamo, l’Editto fu una sorta di “inizio
mancato”. Basti pensare alla svolta di Teodosio. Tuttavia il tema della
libertà religiosa e della laicità dello Stato hanno continuato a pesare
lungo la storia ed è assai significativo che ai giorni nostri tale travaglio,
nonostante i non pochi guadagni, è lungi dall’essere concluso. Parlare
oggi di libertà religiosa significa infatti affrontare un’emergenza sempre
più globale: guardando verso Oriente il problema si pone non di rado in
termini di vera e propria persecuzione violenta su base religiosa di tutti
coloro che professano una fede diversa da quella “ufficiale”, ma anche
in Occidente non mancano limitazioni, talora non di poco conto, della
libertà religiosa.
Nei Paesi in cui domina ancora la religione di Stato, dove ancora non si è scoperto il valore di una “sana laicità”, tutelare la libertà
religiosa significherà primariamente incoraggiare il pluralismo religioso
e l’apertura a tutte le espressioni religiose, per esempio eliminando le legislazioni che puniscono anche penalmente la blasfemia. In Occidente,
invece, è urgente superare la latente diffidenza verso il fenomeno religioso insita nell’ambiguità di alcune concezioni della laicità che generano un clima non certo favorevole ad una autentica libertà religiosa.
Al dato di una fragile pratica della libertà religiosa si aggiunge
la necessità di riconoscere che si tratta di un tema assai complesso, e che
laddove si parli della natura e dei “limiti” di tale libertà, nonché della
sua coesistenza con l’imprescindibile dovere della persona di cercare la
verità, come fa la Dignitatis humanae, si mettono in campo una serie
di fattori il cui equilibrio non è mai dato una volta per sempre. Il tema
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
della “libertà religiosa”, sulla cui bontà sembrerebbe facile, a prima
vista, trovare vasto consenso, possiede in realtà un contenuto tutt’altro
che ovvio e si impiglia in un nodo in cui s’intrecciano gravi problemi.
Taluni potremmo definirli “classici”. Citerò: a) il rapporto tra verità
oggettiva e coscienza individuale, b) la coordinazione tra comunità religiose e potere statale e c), dal punto di vista teologico cristiano, la
questione dell’interpretazione dell’universalità della salvezza in Cristo
di fronte alla pluralità delle religioni e delle visioni etiche “sostantive”.
Queste decisive questioni si ripresentano oggi con varianti assai cruciali.
Penso: a) al rapporto tra ricerca religiosa personale e la sua espressione
comunitaria; b) al potere dell’autorità pubblica legittimamente costituita di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è; c) al rapporto religioni/sette; d) all’acuto problema della libertà di conversione;
e) all’equilibrio tra libertà religiosa e pace sociale. Tutti temi che hanno
assunto una particolare configurazione nelle società plurali.
Toccherà al Convegno filosofico-teologico che il Comitato diocesano per la celebrazione dell’anno costantiniano ha progettato per il
prossimo autunno affrontarli di petto. È tuttavia decisivo che alla base
di quel lavoro sia posto quello della rigorosa ricostruzione storica che
voi vi apprestate a compiere. Esso, anche solo guardando al programma
e ai relatori, si presenta unitariamente ben articolato.
L’augurio per il vostro Convegno è che lo studio rigoroso dell’Editto, della sua recezione e delle sue differenti interpretazioni possa
illuminare la pratica della libertà religiosa che costituisce una vera e
propria cartina di tornasole del grado di civiltà di una società.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
8.
I temi del Convegno
Costantino a Milano
L’ Editto e la sua Storia
( 313 - 2013 )
8 -11 Maggio 2013 Milano
I vari temi hanno avuto il più approfondito esame all’interno delle quattro giornate, in cui si è articolato il Convegno, diviso in tre sessioni :
L’Editto di Milano
(8 maggio, in Università Cattolica,
Aula Pio XI, Largo Gemelli, 1)
Ricadute ed effetti dell’Editto (9 maggio, nell’Università degli
Studi, Sala Napoleonica di Palazzo
Greppi, via S.Antonio,12)
Approcci specialistici.
(10 e 11 maggio, in Biblioteca
Ambrosiana, Sala delle Accademie,
Piazza Pio XI, 2)
I Protagonisti
della prima Sessione, L’Editto di Milano,
sono stati i professori Noel Lenski, Carlo Maria Mazzucchi,
Arnaldo Marcone, G. Zecchini, B. Stolte, V.M. Minale;
della seconda Sessione, Ricadute ed effetti dell’Editto,
I. Tantillo, M. Caltabiano, R. Cacitti, L.F. Pizzolato, F. Braschi,
I. Gualandri, P.F. Moretti, A. Rossi, G. Pelizzari, C. Alzati;
della terza Sessione, Approcci specialistici,
P. Chiesa, L. Rossi, M. Petoletti, R. Marti, A. Dell’Asta,
S. Bellomo, G. Frasso, M. Regoliosi, F. Zuliani, A. Rocca,
A. Bentoglio, P. Vismara, A. Džurova, V. Zhivov, E. Bressan,
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
N. Lenski,
Il valore
dell'Editto
di Milano
Il giusto punto di partenza per la valutazione più approfondita
possibile oggi della rivoluzione costantiniana non poteva che essere affidato a Noel Lenski, esponente della fioritura contemporanea degli studi
costantiniani negli Stati Uniti. N. Lenski, dell’Università di Princeton
dal 1995, è presidente del Dipartimento di Classics, in Colorado, che
studia tutte le epoche della storia romana ed è specializzato nella tarda
antichità. I suoi libri, Valente e l’Impero del IV secolo (California 2002),
e The Cambridge Companion all’età di Costantino (ed., Cambridge 2006),
insieme agli oltre trenta articoli e recensioni sulle questioni legate alla
storia politica, militare, sociale e giuridica del mondo romano, lo hanno
portato ad essere naturalmente uno dei tre curatori di Costantino prima
e dopo Costantino (ediz. italiana e inglese, Edipuglia, 2012). L’opera
propedeutica all’apertura del Convegno di Milano. Infatti nel testo Costantino prima e dopo Costantino sono raccolte le relazioni presentate all’Università degli Studi di Perugia e nel Palazzo Comunale di Spello - di
fronte al Rescritto di Costantino - tra il 27 e il 30 aprile 2011 nel 1700°
anniversario dell’Editto dell’imperatore Galerio, poiché il 311 d.C. è
stato effettivamente l’anno spartiacque che ha inaugurato la politica
costantiniana, che ha avuto quindi il suo sbocco naturale nell’Editto
di Milano dell’anno successivo. Ne è emerso un ritratto complesso di
Costantino, inquadrato da due panoramiche di Lellia Cracco Ruggini e
di Andrea Giardina e presentato in più di trenta contributi, raggruppati
in tre grandi sezioni che coprono i preludi di Costantino, l’apice del suo
potere e la sua influenza fino al mondo moderno.
C. M.
Mazzucchi,
L'Editto
di Milano
e il testo
di Eusebio e
di Lattanzio
Se Lenski ha potuto distintamente tratteggiare il valore dell’Editto, Carlo Maria Mazzucchi ha fornito ogni dettaglio circa le fonti
primarie che documentano il testo dell’Editto, sviluppando un’analisi
filologica dei testi, greco e latino, che Eusebio di Cesarea [265—340] e
Lattanzio [210 ca.—303/317 ca.] ci hanno fatto pervenire. È singolare
notare come il Mazzucchi, per sostenere l’analisi dei testi e della traduzione, abbia costruito delle tavole di raffronto, giustapponendo i testi in
colonne, per poterne seguire le concordanze semantiche. Singolare, perché questo fu proprio il metodo usato dallo stesso Eusebio di Cesarea
nel suo raffonto sul testo del Vangeli. Del resto era del tutto prevedibile
ed atteso che Carlo Maria Mazzucchi, espertissimo proprio in nuove ricerche sui manoscritti greci dell’Ambrosiana, svolgesse una relazione magistrale e testuale.
Si è incaricato invece Arnaldo Marcone di fare il punto storiografico sulle analisi del dato storico dell’Editto di Milano. Marcone indica
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
come iniziale tappa degli studi costantiniani moderni in Italia il 1892, A. Marcone,
anno in cui lo storico Amedeo Crivellucci [1850–1914] vi introduce i ri- L'Editto
sultati di Otto Seeck [1850–1921], Die Anfänge Constantins des Großen di Milano:
[pubbl. in: Deutsche Zeitschrift für Geschichtswissenschaft 7 (1892), S. 41–107 u. 189–281]. dato storico e
rielaborazione
L’articolo di Crivellucci uscì in Studi Storici, aprendo già in esposizione storiografica
in italiano con le conclusioni formulate in Germania:
L’anno 313 Costantino con l’Editto di Milano accordò ai cristiani nell’Impero Romano tolleranza legale. Così tutti abbiamo imparato sui
banchi di scuola. Eppure in tutto questo non vi è una parola di vero, poiché
tolleranza legale ottennero i cristiani non nel 313 ma nel 311. Autore di
tale atto non fu Costantino, ma Galerio e un Editto di Milano, il quale si
occupasse della questione cristiana, non vi è mai stato. Un documento cui
suole darsi questo nome ci fu per vero conservato testualmente, ma esso prima di tutto non è un editto, in secondo luogo non fu promulgato a Milano,
in terzo luogo non fu promulgato da Costantino, infine, esso non concede a
tutto l’Impero la tolleranza legale che i cristiani già da un pezzo godevano
ed è nel suo contenuto di una importanza assai limitata.
Un giudizio così lapidario fu il risultato dell’assunzione della
versione di Lattanzio, conservata nella forma della lettera affissa dal
collega di Costantino, Licinio, a Nicomedia il 13 giugno del 313, con
cui si riconosceva ai cristiani di Bitinia di Oriente, quanto quelli di Occidente godevano già, mentre in quella conservata da Eusebio lo stesso
testo, con qualche modifica, viene pubblicato poco dopo a Cesarea. In
entrambi i casi si fa riferimento all’accordo raggiunto nelle trattative
fra Costantino e Licinio a Milano, nel febbraio del 313, e all’estensione
alle Provincie dello sconfitto Massimino dei risultati di tale accordo. È
comprensibile quindi che Crivellucci d’ora innanzi critichi chiunque
continui a parlare, come lo storico francese Gaston Boissier, di Editto di
Milano, invece di Rescritto di Nicomedia. Tale polemica è comprensibile
per la forte contrapposizione presente in Italia all’indomani del compimento del Risorgimento tra laici e cattolici. Ma non mancarono figure
equilibrate, che giunsero ad interpretazioni peculiari dell’Editto, come
quella del sindaco di Milano, di parte liberale: il poligrafo Gaetano Negri, in un libro del 1901. Egli interpreta l’Editto come una concessione
della piena libertà di culto perché, spezzato ogni legame tra lo stato e
una religione particolare, ciò che premeva davvero allo stato e all’Imperatore non era che i sudditi pregassero un determinato dio, ma soltanto
che pregassero. Addirittura, secondo Negri:
“Il decreto di Costantino è nel suo principio l’ispiratore primo degli
atti più razionali che siano mai usciti dal potere legislativo. Anzi, si può dire
che la legislazione di tutti i tempi e di tutti i popoli non è mai andata più in là”.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Tuttavia, per Negri, Costantino tradì lo spirito dell’Editto, perché alla fine al cristianesimo fu dato quel valore di religione di stato
che ebbe la sua sanzione con Teodosio. Al di là della polemica resta
il fatto che il Crivellucci sia stato in Italia un precoce interprete della
tendenza storiografica che riconosce attendibilità all’Eusebio nella Historia ecclesiatica, mentre presuppone una propensione da parte sua ad
adulterare i documenti nella Vita Costantini. Si apriva così la polemica
nei confronti dei negatori dell’attendibilità dei documenti riportati da
Eusebio nella Vita. Ma, per Casamassa sono i documenti ad imbarazzare quanti vorrebbero presentare la figura dell’Imperatore Costantino in
una luce nuova, originale, che contrasta nella maniera più stridente con
quella che emana dai documenti di Eusebio e di altri storici ecclesiastici. La questione finì con l’essere riassorbita all’interno delle polemiche
tra cattolici e laici e l’essere proiettata nel nostro paese con l’agitarsi
di un anticlericalismo, che il ’900 ereditò e di cui ci si servì nei primi
decenni per farne acritico strumento di lotta politica. Anche violenta.
Nella ricostruzione di Marcone, la cosa risulta particolarmente evidente
esaminando gli studi del giubileo dell’Editto, quello del 1913. Il clima
non era quello più idoneo per una pacata riconsiderazione storica della
questione. Basterebbe scorrere gli interventi raccolti nelle Letture Costantiniane, promosse dal Consiglio Superiore e dal Comitato Romano
per i festeggiamenti commemorativi del XVI, centenario della proclamazione della pace della Chiesa [vedi: Rivista Internazionale di Scienze Sociali e
Discipline Ausiliarie, vol. 63, Fasc. 252 (31 Dicembre 1913), pp 541-546]. L’Editto era
associato all’idea di tolleranza religiosa di cui Costantino veniva identificato come campione. Una prospettiva, questa, che prescinde dal dato
storico fattuale. Anche la voce Costantino nel Dizionario Epigrafico non
si discosta da questa lettura, fatta non per la ricotruzione coerente e
veritiera dei documenti, ma per una ragione estranea agli studi storici:
assecondare gli indirizzi politici contingenti nella definizione dei rapporti chiesa–stato. E la storiografia italiana della prima metà del ‘900
rimase inchiodata a una tale lettura. Invece la storiografia anglosassone
approfondiva le sue analisi e giungeva alla conclusione che nel febbraio
313 l’incontro di Milano tra Costantino e Licinio, oltre al matrimonio
di quest’ultimo con la sorellastra di Costantino, produsse un accordo
per una politica di piena libertà religiosa e la chiesa cristiana, o meglio
ciascuna chiesa cristiana, fu riconosciuta come persona legale. Quest’accordo fu alla base di un Rescritto che fu messo in pratica da Licinio
al suo ritorno in Oriente. Questo Rescritto è il testo che si indica generalmente come Editto di Milano. Altri avanzamenti furono proposti
dalla storiografia francese e uno strumento utile a ripercorrere in modo
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
sistematico tutta la bibliografia su questo evento storico fu un saggio del
1967, contenuto nella Revue des études bizantines.
Una ripresa significativa degli studi in Italia si ebbe con la pubblicazione di una monografia di Salvatore Calderone, Costantino e il cattolicesimo, nel 1962, ristampato da il Mulino nel 2001. Calderone esalta
la lettura di Eusebio da Cesarea e sostiene un’interpretazione originale
dell’opera di Costantino e del significato della sua conversione. Secondo Calderone già un mese dopo la battaglia di Ponte Milvio, Costantino
diede l’avvio alla realizzazione del suo programma politico–religioso,
avendo idee già ben chiare sulla cattolicità della chiesa. Mentre Licinio
avrebbe voluto aprire ad una libertà religiosa assoluta per tutti i cristiani, Costantino pensava sin dall’inizio a concessioni solo per alcuni
gruppi di cristiani, quelli che potessero rientrare in una cattolicità accettabile dalla funzione universale imperiale e degna di un nuovo impero
romano cristiano. La posizione di Calderone ha alimentato l’interesse
degli studi negli ultimi due decenni sul tema della tolleranza religiosa
nel mondo antico e specificamente in età costantiniana. Recentemente
lo storico Zecchini ha però messo in guardia dall’applicare il concetto
di tolleranza al mondo antico. In effetti la sua applicazione è problematica, trattandosi di un concetto ricollegabile ad epoche molto più
tarde, come l’Illuminismo, e alle specifiche elaborazioni del pensiero
occidentale, così diverso dalle concezioni statuali della res publica romana. Piuttosto, proprio dal testo dell’altra fonte, Lattanzio, andrebbe
riscoperto lo scopo della sua opera testimoniale, le Divinae istitutiones:
lo scopo era privare le autorità romane delle giustificazioni, filosofica e
legale, per perseguitare i cristiani.
Oggi, comunque, è la storiografia tedesca a ripristinare la preminenza del 313 sul 311, anno della tolleranza di Galerio. Sulla stessa scia
si muoverebbe anche quella italiana, se è vero, con Valerio Neri, che non
bisogna solo tener conto delle analisi della storiografia moderna e contemporanea: bisogna prima o poi fare i conti direttamente anche con la
striografia antica e tener conto delle relative implicazioni. Ad esempio,
il libro IX di Eusebio rappresenta un cambiamento fondamentale di
prospettiva storica che identifica ormai come momento decisivo nella
storia della chiesa dell’Impero romano, non più l’editto di tolleranza
di Galerio nel 311, ma il successo dei due imperatori teophileis contro la coppia di sovrani illegittimi Massenzio e Massimino, vale a dire
l’anno 313. Il libro IX presuppone cioè un cambiamento di prospettiva
fondamentale in Eusebio, che, perciò, sposta nell’anno del successo di
Costantino e Licinio il vero momento di svolta fondamentale.
In conclusione Arnaldo Marcone, che per l’avvio della sua ricostruzione storiografica era partito dal saggio di Otto Seeck, ritorna
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
proprio su quel saggio nella riproposizione che ne ha fatto Timothy Barnes [Constantine and Eusebius, Cambridge, MA Harvard University Press,
1981], liquidando la questione con una formulazione molto netta:
— i due imperatori incontrandosi a Milano, concordarono, probabilmente senza nessun atto pubblico, di estendere al resto dell’Impero la libertà di culto e la restituzione della proprietà confiscata nel 303,
di cui già profittavano i cristiani dell’Occidente, ma non in Oriente.
Barnes in sostanza prende di mira quella tradizione storiografica, profondamente radicata, di usare il termine di Editto di Milano ancora con tante cautele ormai del tutto ingiustificate che di fatto ripudiano
il concetto stesso di Editto di Milano.
Resta da sottolineare che il dibattito storiografico, così esaustivamente ripreso da Marcone, non si esaurisce nella ricostruzione del
passato, ma ha una ricaduta vitale nell’orientamento da assumere oggi
nel confronto tra i movimenti delle popolazioni e gli atteggiamenti che
assumono gli stati e le religioni, come è parso abbiano voluto dimostrare sia il Convegno di Perugia e nel Palazzo Comunale di Spello del
2011, già citati, sia quello di Graz in Austria sempre dell’aprile del 2011
in coincidenza con l’anniversario dell’Editto di tolleranza di Galerio,
che merita comunque di essere considerato il vero momento di svolta,
premessa delle scelte decisive immediatamente successive. È innegabile
che l’Editto di Galerio determinò il quadro politico e normativo rispetto al quale si definì la svolta costantiniana, ma, specie il dibattito nel
Convegno in Austria [ora, nel 2013, pubblicato dalla Universität Innsbruck: Jürgen
Nautz, Kristina Stöckl, Roman Siebenrock (Hg.), Öffentliche Religionen in Österreich, Politikverständnis und zivilgesellschaftliches Engagement] avrebbe dimostrato la sua
positiva ricaduta sul dialogo interreligioso d’oggi con ebrei e soprattutto
con mussulmani, letto in controluce rispetto alle prime dichiarazioni di
tolleranza reciproche pagane e cristiane all’inizio del IV secolo.
Il giudizio conclusivo di Marcone è netto:
se il termine di Editto di Milano può prestarsi ad equivoci almeno sul piano strettamente storico-giuridico, forse lo è soprattutto per
quelle implicazioni a vasto raggio sulla tolleranza religiosa che l’Editto,
in qualsiasi forma sia stato emanato, probabilmente non poteva presupporre. È per altro da ribadire l’importanza dell’incontro di Milano
per il futuro dell’Impero, per il suo assetto organizzativo istituzionale
e per il ruolo che in essa vi avrebbe trovato la chiesa cristiana. Milano
era già stata la sede di importanti incontri tra i tetrarchi [i due Augusti e i due Cesari] nel riorganizzato impero di Diocleziano. Nella città
nel gennaio del 291 si erano incontrati i due Augusti, Diocleziano e
Massimiano. Ora, nel 313, l’intesa apparentemente solida, sancita tra
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Costantino e Licinio, doveva essere percepita come un nuovo momento
di partenza per un Impero ormai organizzato e diviso in due parti e
in cui la parte orientale acquisiva un’identità propria, sancita, di li a
poco, dall’istituzione di una nuova capitale, Costantinopoli, concepita
non per soppiantare Roma, ma come sua duplicazione ed emanazione
per l’Oriente. Se si vuole rispettare la realtà storica possiamo usare un
minimo di cautela nel parlare di Editto di Milano, ma, comunque sia,
gli accordi di Milano, tra Costantino e Licinio non furono per questo
meno importanti e resta non meno vero che una vulgata storiografica è
essa stessa un dato storico, quanto meno lo diventa e con questo si devono poi alla fine fare i conti.
Subito dopo l’Editto di Milano del 313, nell’agosto del 314, fu
convocato un Concilio ad Arles. Il suo studio si rivela quindi estremamente promettente per comprendere anche l’evento che lo ha preceduto. Se ne è incaricato Giuseppe Zecchini, grande studioso del pensiero
politico romano e anche di Costantino il Grande. Secondo Zecchini, il
Concilio, tenuto ad Arles nell’agosto 314, presenta non poche questioni di rilevante interesse.
Prima di seguire la disamina delle questioni presentate dal professor
Zecchini, e per meglio seguirle, si apre qui una breve nota storico-esplicativa
del Curatore.
L’importanza dell’esame del Concilio di Arles risulta evidente, se si considera che fu il tentativo più alto e più concordato tra autorità civili e autorità religiosa per ottenere una duratura pace sociale e religiosa, arginando,
sedando e reintegrando i seguaci del donatismo, un vasto movimento scismatico che squassava la chiesa africana, e non solo, a cominciare dal sec.
IV. Durante la violenta persecuzione di Diocleziano [303], tanti furono i cristiani che scelsero di immolarsi, facendosi trucidare dalle armi romani. Una
vera e propria era di martirio collettivo, che aprì un fossato profondissimo
tra chi considerava quell’eredità di sacrificio solo uno zelo eccessivo e chi
invece un esempio fulgido per la ricerca di una purezza di vita individuale
e collettiva. Una lotta, dottrinale e fisica, asperrima, tra chi, i donatisti, volevano imporre una Chiesa modellata come una società di santi, puri e perfetti, e quanti avversavano questa volontà fanatica di modellare la società
e, chiedendo moderazione, consideravano essenziale la massima prudenza
in ogni giudizio morale e il più scrupoloso rispetto per ogni pur travagliato,
e sempre insondabile, percorso di vita verso la perfettibilità, più che verso
un’irraggiungibile perfezione di vita. Lo scontro era violento e prolungato.
La divisione aperta sulla dottrina si faceva eresia. La ricerca ossessiva di
novità disciplinari e liturgiche si faceva scisma. Cristiani contro cristiani. Si
giungeva a dissacrare gli stessi edifici religiosi per riconsacrarli con nuovi
riti. Persino il superamento di un peccato individuale richiedeva il rito di
un nuovo battesimo pubblico. La ferita si approfondiva ed ampliava. Epicentro Cartagine. Durò fino all’espansione islamica, che rapidamente fagocitò l’intera costa africana, incorporando ogni dissidio, ogni violenza, ogni
aspirazione. In quell’antico crogiuolo era nato, cresciuto e fiorito lo spirito
G. Zecchini,
Costantino
e il Concilio
di Arles
Nota
del
Curatore
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
religioso e filosofico del grande Agostino. Da quel crogiuolo era arrivato il
segnale a Costantino di credere che un Concilio, in zona neutrale, nella Gallia, ad Arles, avrebbe potuto portare alla riconciliazione e avrebbe potuto
misurare sul campo l’efficacia della recente libertà religiosa garantita anche
per tutti, anche per i cristiani.
G. Zecchini,
Costantino
e il Concilio
di Arles
Una prima questione è il carattere del Concilio stesso. Se si eccettua il ben più limitato Sinodo romano dell’ottobre 313, esso è il
primo Concilio posteriore all’Editto di Milano e alla conferma di una
libertà religiosa del tutto nuova per i cristiani. È inoltre un Concilio a
composizione esclusivamente occidentale, ma di ampiezza senza precedenti. In che misura potrebbe considerarsi, almeno nelle intenzioni dei
suoi promotori, ecumenico?
Una seconda questione è data dai contenuti dei canoni conciliari a noi fortunatamente noti con un discreto margine di certezza,
infatti i primi 22 canoni sono certamente autentici e solo i canoni 24
e 29 devono ritenersi spuri. Da questo punto di vista il confronto con
il precedente Concilio di Elvira del 302 è significativo, giacché tra gli
81 canoni attribuiti a quest’ultimo assai difficile distinguere il testo
autentico dalle eventuali interpolazioni successive. È noto che i canoni
riguardano la disciplina ecclesiastica, ma alcuni riflettono anche i rapporti con le istituzioni imperiali, ormai avviate ad essere poste su basi
diverse.
Una terza questione, che qui ci riguarda più da presso, è il ruolo di Costantino riguardo alla ideazione, alla convocazione, allo svolgimento del Concilio e soprattutto riguardo alle sue attese che egli si
aspettava dal Concilio stesso. L’indagine su tale ruolo non può prescindere da considerazioni preliminari sulla documentazione disponibile.
Tale documentazione non comprende nessuna fonte storiografica, ma è
sostituita soltanto da quattro lettere:
— la prima è una lettera di Costantino al vescovo di Siracusa, Cresto,
che ci è trasmessa dalla Storia Ecclesiastica di Eusebio e che contiene
alcune notizie sulla convocazione, organizzazione e scopo del Concilio;
— la seconda è la lettera di Costantino al vicario d’Africa, Elafio, conservataci in appendice all’opera Contro i Donatisti e dal contenuto analogo alla precedente;
— la terza è la lettera con cui i Padri conciliari informarono il vescovo
di Roma, Silvestro, sulle misure approvate durante il Concilio; la quarta
è una lettera di Costantino ai Padri conciliari dopo la fine del Concilio
stesso;
— com’è noto la quarta epistola è la più significativa perché in essa Costantino si esprime riguardo alla propria fede religiosa, alla capacità che
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
ha Dio di leggere nel cuore degli uomini, alla propria attesa del Giudizio
di Dio su di sé, ed infine il rapporto tra Imperatore e vescovi che devono
ricordarsi di pregare per lui affinché Dio ne abbia misericordia. Essa
è di autenticità ancora oggi contestata, soprattutto da studiosi tedeschi
che ne attribuiscono il testo a un rielaboratore di estrazione clericale. I
dubbi nascono dall’evidente influsso di Lattanzio sui contenuti dottrinali della lettera che mal si concilia con una cronologia tarda sia della
stesura del De divinis istitutionibus, sia dalla presenza di Lattanzio come
precettore dei figli di Costantino, di intellettuale capace d’influenzare
l’Imperatore stesso. L’innalzamento della composizione dell’opera tra
il 310 e il 313 e del soggiorno lontano di Lattanzio già dal 310, hanno però, a giudizio di Zecchini, risolto persuasivamente la questione
e permettono di attribuire la lettera, nella sua totalità, a Costantino
come peraltro è ammesso da tutti i più recenti biografi dell’Imperatore,
soprattutto americani, ma non solo, anche italiani e tedeschi. Più in
generale, i dubbi sulla paternità costantiniana della lettera sono paralleli a quelli sulla paternità costantiniana dell’Oratio sanctorum, oggi del
tutto caduti. In entrambi i casi la diffidenza era figlia di un pregiudizio:
che Costantino fosse un politico rozzo e spregiudicato, incapace di una
personale e anche appassionata ricerca sui contenuti della religione da
lui appena scelta o per taluni addirittura non ancora scelta. Se invece si
situano gli inizi di un avvicinamento di Costantino al cristianesimo già
nel 311 in Gallia e se si tiene conto dell’influsso di Lattanzio e di alcuni
vescovi gallo-romani, allora il livello di consapevolezza raggiunto nella
lettera del 314, non dovrebbe più stupire.
La mancanza di una fonte storiografica costringe lo studioso
moderno a un’opera ex novo di contestualizzazione dei documenti suddetti, solo in parte supplita da alcuni dati contenuti nella lettera a Cresto e in parte riprodotti nella lettera ad Elafio.
Scrivendo a Cresto, Costantino collega il Sinodo di Arles a quello che lui aveva convocato a Roma nell’ottobre 313, alla presenza del
vescovo di Roma, di alcuni vescovi gallici e ovviamente delle due controparti africane per risolvere la controversia donatista, o meglio, decidere sulla correttezza della elezione di Ceciliano a vescovo di Cartagine.
L’imperatore riconosce che la decisione di quel Sinodo non aveva posto fine alla controversia, ormai degenerata in conflitti personali e che
dunque egli riteneva di dover sottoporre di nuovo la questione ad un
numero più grande di vescovi. Perciò aveva ordinato a parecchi presuli
di varia provenienza, di riunirsi ad Arles, alle calende di agosto. Dopo
aver avvertito Cresto che gli concedeva il privilegio di viaggiare con due
presbiteri e tre servi a spese del cursus publicus, Costantino ribadiva la
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
sua speranza nella saggezza del nuovo sinodo, che portasse finalmente
a una definitiva composizione della vicenda e riportasse nella chiesa,
seppur tardivamente, una fraterna concordia.
Risulta evidente che è C. a promuovere il Concilio, egli vi impegna la sua autorità, la sua capacità di dare ordini e mette a disposizione il servizio pubblico di trasporto che equivale a uno stanziamento
finanziario direttamente proporzionale al numero dei partecipanti. La
sua preoccupazione esclusiva è quella di porre fine alla controversia donatista e di riportare la pace nella chiesa. Nessuna altra intenzione può
essergli attribuita, per questo egli ritiene che i vescovi giudici debbano
essere quanti più possibile e in ogni caso ben più dei membri del Sinodo
romano del 313. Proprio il Sinodo romano è lo sfondo o il punto da cui
bisogna partire. Come si evince da un’altra lettera di Costantino conservata sempre da Eusebio, la lettera è rivolta a Milziade vescovo di Roma
e a un, non meglio noto, Marco. L’Imperatore aveva inteso sottoporre
la questione donatista al giudizio del vescovo di Roma, Milziade, e di tre
vescovi gallo-romani. Si trattava di tre ecclesiastici, provenienti da quella parte dell’Impero che Costantino controllava già da qualche anno,
con ogni probabilità a lui già noti e ritenuti degni della sua fiducia. Milziade però, aveva cambiato le carte in tavola facendo affluire a Roma
altri 15 vescovi italici e assicurandosi così un’ampia maggioranza. Su
questo dovettero insistere i Donatisti per contestare il verdetto e su questo trovarono in Costantino un ascoltatore benevolo, perché egli stesso
si era sentito, se non proprio ingannato, almeno scavalcato da Milziade.
Allora si capisce:
1. — la collocazione del nuovo Sinodo nell’area corrispondente
al dominio di C. stesso, prima del 312 e alla futura prefettura delle
Gallie;
2. — la scelta di Arles, invece di Lione, perché forse ad Arles Costantino stesso era stato proclamato Augusto il 25 dicembre del 307 e
soprattutto perché la presidenza poteva essere affidata, quasi come naturale conseguenza, al vescovo di quella città, Marino, di cui appunto
Costantino si fidava;
3. — l’altrettanto conseguente maggioranza di partecipanti che,
data la vicinanza alla sede conciliare, fu sempre gallo-romana: ad Arles
risultano rappresentate 44 chiese di cui 16 galliche, solo 10 italiche e
presenti 32 vescovi di cui 12 gallici, mentre gli altri sono sparsi, d’altra
parte l’assenza del nuovo vescovo di Roma, Silvestro —nel frattempo
Milziade era morto—, che inviò, a sostituirlo, due presbiteri e due diaconi, ha un po’ l’aria di una risentita protesta, per la sfiducia mostrata
da Costantino verso il suo predecessore.
34
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Riaprendo la questione dopo neanche un anno, l’Imperatore
rivelava di ritenere la decisione del Sinodo di Roma, per lo meno, rivedibile o comunque bisognosa di un’ulteriore sanzione. Per altro il
confronto numerico tra i due sinodi, di Roma e di Arles, ci fa comprendere meglio di ogni altra considerazione come Costantino intendeva
il carattere del Concilio stesso. A Roma su 19 vescovi, solo 4 erano di
scelta imperiale, gli altri 15 erano invece stati di scelta del vescovo di
Roma, 3 erano gallo-romani e 16 erano italici. Si trattava quindi di una
media assemblea di vescovi del tutto sproporzionata, sbilanciata nella
sua composizione e non certo corrispondente alle scelte iniziali di Costantino, che prevedevano una giuria di 4 presuli —una giuria non un
sinodo. Il sinodo, occorre ribadirlo, si era trasformato per iniziativa di
Milziade e come tale appariva prevalentemente italico, così come per
esempio il precedente di Elvira, era stato iberico, poiché i suoi partecipanti, 19 vescovi e 26 presbiteri, erano tutti provenienti dalla Spagna.
D’altra parte i Donatisti avevano insistito sul loro diritto di appellarsi
all’Imperatore e quindi sul diritto di quest’ultimo di porsi come istanza
superiore rispetto al Sinodo.
Ora da un lato Costantino respinge vigorosamente, nella sua lettera ai vescovi riuniti ad Arles, questo ruolo che i Donatisti volevano
imporre —egli stesso è in attesa del giudizio di Dio, che sulla terra è
rappresentato dal giudizio dei vescovi e non può certo sostituirlo, quindi—, dall’altro lato egli rivendica a sé, in quanto Imperatore, il ruolo
preliminare di promotore di Concilio. I Sinodi anteriori, promossi da
ecclesiastici, erano stati tutti limitati e parziali e anche solo per questo
motivo, suscettibili di riserve, di ricorsi in appello, come avevan fatto i
Donatisti, invece un Concilio, il più numeroso possibile, poteva a buon
diritto rappresentare l’insieme dei vescovi e quindi della Chiesa e le sue
decisioni diventavano così inoppugnabili. Di conseguenza era necessario che l’Imperatore si assumesse il compito di rendere possibile tale
Concilio, sollecitando i vescovi e mettendo a loro disposizione il Cursus
publicus, le risorse economiche, per facilitarne gli spostamenti.
L’esito dell’iniziativa fu un Concilio rappresentativo di ben 44
chiese con una solida maggioranza gallo-romana, con presenze africane,
iberiche, britanniche, italiche e persino illiriche. Tutta la pars occidentis fu ad Arles, tutte le chiese che Costantino poteva raggiungere, perchè
erano ormai sotto il suo governo. L’assenza della pars orientis dipese dal
fatto che la controllava Licinio, cioè da un fattore politico. Se dunque
da un punto di vista ecclesiastico, per così dire tecnico, non si può parlare di Concilio ecumenico, da un punto di vista profano Costantino
intese convocare la riunione di vescovi la più ampia possibile, quindi
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
di fatto, la più ecumenica. Nelle sue intenzioni il Concilio di Arles può
dirsi allora ecumenico e costituisce l’immediato precedente e modello
del Concilio di Nicea.
L’ulteriore questione, se Costantino abbia presenziato ai lavori
del Concilio oppure no, è importante non per giudicare il suo carattere,
ma per conoscere come lo interpretò. La maggior parte degli studiosi
moderni opta per la presenza dell’Imperatore, di cui però non c’è traccia sicura nelle fonti antiche. Può darsi che Costantino sia passato per
Arles dirigendosi verso il Reno, dove già si trovava il 29 ottobre e magari
che abbia inaugurato il Concilio, però la lettera da lui scritta ai Padri
conciliari sembra implicare una rispettosa lontananza e la volontà di
non ingerirsi. Ancor più a Nicea Costantino doveva essere presente, perché non c’era una personalità a lui nota, cui lasciare la direzione dei
lavori. Ad Arles, Marino era il suo uomo di fiducia in possesso di una
solida maggioranza e dunque non c’era bisogno di controllare direttamente la situazione. Infine, lo stesso contenuto dei Canoni di Arles,
sembra prescindere dalla presenza del sovrano.
Il Concilio di Arles, com’è noto, confermò il giudizio del Sinodo
di Roma riguardo alla contesa fra Ceciliano di Cartagine e i Donatisti,
colse però l’occasione per occuparsi di molti altri argomenti concernenti
la data della Pasqua, la disciplina ecclesiastica, i sacramenti, la conversione dei malati e il reintegro degli scomunicati nella comunità ecclesiale, la morale sessuale, il prestito a usura da parte di membri del clero,
le false lettere di raccomandazione e la falsa testimonianza. Molti di
questi temi erano stati trattati ad Elvira e Arles si limitò a confermarli.
Tra le novità si segnalano, invece, i Canoni 3 e 7, il primo senza alcuna
corrispondenza ad Elvira, il secondo contenente un importante cambiamento rispetto al canone 56 di Elvira. Nel canone 3 si è soliti vedere una
manifestazione della volontà di venire incontro alle attese, alle esigenze
dell’Impero e di compiacere Costantino. Di fronte al nuovo stato, ormai
cristiano nel suo rappresentante supremo, i vescovi avrebbero voluto
chiarire che non c’era alcun impedimento per il cristiano a svolgere
il servizio militare, ma lasciava aperta la possibilità dell’obiezione di
coscienza in caso di guerra.
Giuseppe Zecchini, a questo punto, propone di esaminare il contenuto del canone 3. Molto breve, affronta un caso particolare e tace
su problemi generali che evidentemente non avevano bisogno di essere
regolati, perché su di essi c’era un accordo unanime. Si parla solo di
coloro che abbandonano il servizio militare e disertano in tempo di
pace, non è perciò lecito inferire alcuna disposizione che riguardi il servizio militare in genere o il servizio militare in tempo di guerra, quando
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
esercitare il mestiere di soldato poteva ovviamente implicare l’uso della
violenza sino all’uccisione del nemico. Zecchini crede che la liceità del
servizio militare non fosse oggetto di discussione. Però sotto comandanti pagani, che imponevano ai soldati l’obbligo di assistere ai sacrifici
agli dei, poteva esserci incompatibilità fra cristianesimo e milizia, altrimenti il problema non si sarebbe posto. I dubbi sulla liceità di uccidere
in guerra affiorano già in pensatori del IV sec. Si tratta di pensatori
orientali, in particolare Basilio, ma è da dimostrare che fossero oggetto
di riflessione ad Arles; oppure di Ambrogio, di due generazioni dopo.
Ma resta da dimostrare che ad Arles i vescovi occidentali, lì riuniti, la
pensassero diversamente, ma nulla di tutto ciò trapela dal canone, il cui
scopo è molto più preciso e determinato. Il canone esclude dalla comunità ecclesiale i desertores in tempo di pace, cioè coloro che si davano
alla macchia, alimentando il banditismo. Il fenomeno dei desertores era
una piaga sociale che affliggeva tutto l’occidente, ma in particolare le
Gallie, almeno dai tempi di Commodo. Un fenomeno a metà tra la protesta sociale e la semplice criminalità, abbastanza frequente e diffusa
nell’inquieto occidente tardo antico, che si alimentava naturalmente
dei disertori dall’esercito. In quest’epoca i militari erano pur sempre
mercenari, abili a maneggiare le armi, desiderosi di arricchirsi, inclini
al saccheggio, per i quali il passaggio dallo stato di militari a quello di
banditi era un salto di qualità neppure eccessivo. Allora la decisione dei
vescovi di escluderli dalla comunità ecclesiale non è che la meccanica
conseguenza del loro autoescludersi dalla comunità civile. Vagabondi
e banditi sono trattati, si noti, alla stessa stregua degli aurighi e degli
attori dei canoni 4 e 5, cioè di categorie di uomini dediti ad attività ritenute immorali e dannose per la società e quindi esclusi a communione
fidelium.
Dall’esame di tutti gli altri canoni, in particolare il 7 e l’8, si
evince che si è entrati in una nuova era per i cristiani e per la loro
presenza nella società civile. I vescovi incoraggiavano, seppur indirettamente, la carriera civile dei cristiani e la loro partecipazione alla gestione dell’Impero. Non bisogna però cadere nella tentazione di leggere
tra le righe dei canoni quello che non c’è scritto e di trarre conclusioni
di ampia portata che andrebbero ben al di là delle intenzioni dei Padri
conciliari. Zecchini crede che a questi ultimi stesse a cuore essenzialmente la disciplina sacramentale: bisognava stabilire se un funzionario
pubblico fosse nelle condizioni di accostarsi all’eucarestia e chi dovesse
deciderlo. Proprio questo è allora il punto fondamentale. Solo il vescovo
nella cui giurisdizione agiva il funzionario, aveva il compito di sorvegliarlo e quindi d’intervenire per eventualmente negargli l’eucarestia.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Perciò il vescovo era tenuto ad emettere un giudizio di buono o cattivo
comportamento del funzionario. Naturalmente tale giudizio riguardava
il comportamento del funzionario in quanto cristiano, non come pubblico ufficiale, ma in concreto la distinzione non era così ovvia e facile.
Il funzionario veniva a dipendere dal vescovo che si trovava in uno stato
di soggezione psicologica e di subordinazione davanti a lui. Poteva non
sentirsi libero di assumere decisioni e provvedimenti non graditi al vescovo in questione. La conseguenza più immediata e visibile del canone
7 di Arles, di mera disciplina sacramentale, è che l’autorità religiosa
cristiana è portata a interferire nell’attività governativa e che i vescovi
cristiani a differenza dei sacerdoti pagani, possono condizionare il comportamento dei funzionari imperiali, almeno per certi aspetti. Risulta
quindi chiara la superiorità dei vescovi sui funzionari, che ormai non
rispondono solo all’Imperatore, ma anche al vescovo.
Ultima questione. Il ruolo di Costantino. Si è visto che egli lo ideò,
convocò, ed organizzò, ma che con ogni probabilità non vi assistette. Abbiamo inoltre la sua Lettera ai padri conciliari con cui egli salutò la fine
dei lavori. Questo scritto, al di là delle pure interessanti manifestazioni
della propria fede, ruota intorno al problema donatista e alle modalità
con cui Costantino volle assicurare che le decisioni del Concilio sarebbero state attuate. Gli importa stabilire l’unità e la concordia nella chiesa
e quindi nell’Impero. In questa prospettiva la decisione di Arles ribadiva, grazie al numero dei vescovi lì convenuti e alla loro unanimità, che
i Donatisti erano i cattivi, i perturbatori della religione, pazzi e malvagi
servi del demonio. Di conseguenza l’Imperatore sapeva ora come agire e
contro chi agire con la sua autorità e se necessario anche con la forza.
Arles piacque a Costantino, perché faceva chiarezza e semplificava il suo compito di sovrano, gli forniva la base giuridica per risolvere
lo spinoso problema sorto in una diocesi importante come l’Africa, appena pervenuta sotto il suo controllo.
Da notare che nella Lettera non c’è alcun accenno ai canoni fissati dal Concilio e ai loro contenuti. Egli parla solo della questione donatista. Se il canone 3 fosse stato stabilito per fare un favore a Costantino e promuovere il servizio militare dei cristiani sotto le sue insegne, o
se viceversa, avesse lasciato spazio all’obiezione di coscienza in tempo
di guerra, come giustificare questa assoluta mancanza di reazione da
parte di Costantino, il suo indifferente silenzio? A Zecchini sembra
quindi chiaro che la lettera è la controprova dell’interpretazione del
canone proposta sopra, secondo cui esso concerne specificatamente i
desertores, non il servizio miliare in genere.
Per quanto riguarda i canoni 7 e 8, dove si delinea la subordina-
38
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
zione del funzionario al vescovo, oltre che all’Imperatore, è impressione
di Zecchinni che i padri conciliari avessero steso il testo nella consapevolezza che Costantino non ne sarebbe stato urtato. Non bisogna incorrere nell’anacronistico errore di attribuire al 314 la successiva sensibilità di tempi in cui l’interferenza e lo scontro tra i due poteri religioso
e profano avrebbero manifestato tutta la loro pericolosità. Nel 314 si è
alla “luna di miele” fra il nuovo Impero cristiano e la Chiesa. E poi, di
funzionari cristiani, sottoponibili al controllo del vescovo, ce n’erano
ancora pochi. Inoltre Costantino si apprestava a conferire ai vescovi
i poteri giuridici tra il 313 e il 316, e quello giudiziario tra il 318 e il
321, che li avrebbe resi quasi una magistratura parallela, e nutriva una
profonda fiducia nel ruolo del clero cristiano, che affiancasse quello dei
funzionari civili nella gestione dell’Impero. Perciò che un vescovo controllasse il comportamento di un funzionario cristiano e lo giudicasse
consono o meno alla sua fede, poteva essere letto come un aiuto, non
come una visione d’interferenza.
La reazione di Costantino al Concilio di Arles dimostra che egli
era, in quel momento, concentrato sulla questione donatista. Non si
aspettava nulla dai vescovi in tema né di servizio militare, né di servizio
civile e tanto meno esercitò pressioni perché si prendessero provvedimenti miranti a una maggiore collaborazione fra Impero e Chiesa, in un
momento in cui la Chiesa veniva vista dall’Imperatore come un’alleata
e ancor più come una surrogatrice di “servizio” che l’Impero faticava a
fornire. Non c’era spazio per alcun timore che la Chiesa potesse ergersi
a rivale o a concorrente dell’Impero. Ciò certo sarebbe accaduto, di lì a
poco, con i passaggi dallo stato curiale a quello ecclesiastico e i lasciti
di interi patrimoni alla chiesa provocarono negli Imperatori cristiani
legittime preoccupazioni soprattutto riguardo la stabilità del ceto dei
curiali, cioè dei ceti dirigenti cittadini. Zecchini tuttavia non crede si
possa rimproverare ai Padri conciliari di Arles, o a Costantino, di non
aver intuito le conseguenze profane, di medio e lungo periodo, derivanti
da canoni adottati per rispondere a ben determinati problemi religiosi
sorti in quel momento. Era allora molto più urgente per Costantino
affermare il proprio diritto-dovere di convocare un Concilio, piuttosto
che tutelare l’autonomia dei suoi funzionari dal controllo dell’autorità
vescovile.
Naturalmente l’indagine sui testi, in particolare su quelli di
ordine giuridico, ha comportato anche una riflessione di merito sullo
stesso vocabolario dell’Editto di Milano, di cui si è occupato il prof. B.
Stolte, interrogandosi sulla natura delle lingue del diritto. Data l’estrema specializzazione dell’argomento, per una sua puntuale conoscenza,
39
B. Stolte,
Due lingue
del diritto?
Osservazioni
sul vocabolario dell’Editto di Milano.
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
si rimanda alla pubblicazione degli Atti del Convegno. Pure, qualche
nota pare opportuna.
La questione giuridica non era se le parole dell’Imperatore, in
qualunque forma enunciate, fossero leggi o meno, bensì quale fosse la
loro portata. Così, ad esempio, nel VI sec., nel Codex Iustinianus [raccolta
di leggi imperiali in dodici libri, compilata su incarico dell’imperatore Giustiniano da
dieci giuristi, tra cui Triboniano e Teofilo, e pubblicata nel 529. Con essa Giustiniano
si propose l’unificazione legislativa dell’Impero. Insieme al Digesto, alle Istituzioni e
alle Novelle, il codice compone il Corpus iuris civilis, l’opera che raccoglie i testi fondamentali del diritto romano], figura ancora una costituzione di Teodosio
e Valentiniano del 426 che stabilisce quando una legge abbia validità
universale o quando, invece, sia applicabile al solo caso singolo particolare. Accanto ai criteri di ordine formale, ne vengono anche formulati di
ordine contenutistico e Stolte ha l’impressione che il dibattito riguardo
all’Editto di Milano sia viziato dal fatto che i due ordini di criteri non
sono stati distinti in maniera adeguata.
Ponendo i testi di Lattanzio ed Eusebio a confronto, questo problema appare avere inizio già dalla fonte e non è azzardato affermare
che Eusebio prediliga la variatio letteraria alla precisione giuridica. Sotto il profilo formale saremmo dinanzi ad un’epistula, non a un testo
giuridico, così come ha dimostrato Stolte. E quel che vale nel caso di
Eusebio, vale probabilmente per Lattanzio che dice, lui stesso, di non
essere mai stato un avvocato. C’è chi riconosce espressioni giuridiche nel
lavoro di Lattanzio, ma questo vale solo per poter assumere che, dove
Lattanzio ha semplicemente trascritto tutti i documenti ufficiali a sua
disposizione e non aveva motivo di interpolare ciò che tornava a vantaggio dell’intendimento del suo lavoro, egli sia una fonte affidabile per il
testo originale latino e con ciò per la terminologia giuridica di quei testi.
Stolte è convinto che gli abitanti dell’Impero romano, come Lattanzio
e Eusebio, fossero interessati agli effetti di quei provvedimenti che tramandavano, ma non si curassero eccessivamente della natura giuridica
di questi. In questo senso, per loro, è senza meno esistito un Editto di
Milano, giacché non a tutti sarà sfuggito che all’origine dei testi che
comparivano nei capoluoghi di provincia, vi era l’incontro a Milano dei
due personaggi più potenti dell’Impero. E questo doveva avere valore
giuridico di per sé. Teniamo presente, ricorda Stolte, che la differenza
tra diritto formale e diritto materiale appartiene ancora oggi al linguaggio
criptico dei giuristi. Ciò non toglie che anche nelle due versioni del nostro testo c’erano senza dubbio alcune questioni che meritano la nostra
attenzione. A volte è necessario decidere se lo stesso vocabolo è usato
nella sua accezione comune, generica o, invece, in quella specialistica
40
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
giuridica. E Stolte qui ha costruito gli esempi, mettendo a confronto
il testo di Eusebio con quello di Lattanzio. E infine si chiede: due lingue del diritto? E lascia la risposta sfumata. Tutta una serie di segnali
indicano che accanto al latino, la formulazione greca si era affermata
come seconda lingua del diritto dell’Impero. Tuttavia non è dato trovare linguaggio giuridico nella traduzione di Eusebio. Eusebio è piuttosto
un rappresentante dell’intellighenzia non giuridica greco-loquente, più
che un esperto nel comprendere i proclami latini e tradurne la portata. Questo potrebbe valere anche per Lattanzio. Ma, per Stolte, noi
possiamo parlare di due lingue del diritto: quella degli specialisti della
Cancelleria imperiale e quella dell’uomo di cultura, ma non giurista.
Quella forma di bilinguismo esisteva, naturalmente, allo stesso modo
tra la popolazione di lingua latina. Osserviamo dunque il bilinguismo
su due livelli, quello del latino e del greco, quello del giurista e del profano. E il cosiddetto Editto di Milano ci offre una bella istantanea di
questo bilinguismo all’inizio del IV secolo.
Ritornando alla iniziale commistione tra clero e funzionari civili, non poteva sfuggire in questo Convegno l’analisi dello studio fondamentale di Gibbon. Basterebbe una citazione a convincerci dell’importanza di accostarsi alla sua opera The History of the Decline and Fall of
the Roman Empire, A. Strahn and T. Cadell, London, 1776-1789 [peraltro
disponibile in trad. italiana di G. Frizzi, Storia della decadenza e caduta dell’Impero
romano, Einaudi, Torino, 1967, da cui, qui, viene ripresa la citazione da p. 1327]:
“l’inseparabile connessione degli affari civili ed ecclesiastici mi ha costretto
e confortato a riferire i progressi, le persecuzioni, lo stabilimento, le divisioni, il trionfo definitivo e la graduale corruzione del cristianesimo. Ma ho
differito di proposito l’esame di due avvenimenti religiosi, interessanti per
lo studio della natura umana e importanti per la decadenza e caduta dell’impero romano: I) l’istituzione della vita monastica e, II), la conversione
dei barbari settentrionali”.
Se ne è incaricato Valerio Massimo Minale, riconosciuto esperto
dell’opera del Gibbon, che ha sviluppato alcune riflessioni sul cap. XX
della ‘History of decline and fall The Roman Empire’.
Nella ricostruzione della figura di Costantino e della sua opera
Gibbon intravede, nell’avvento e nell’affermazione del cristianesimo,
l’autentico elemento di cambiamento di traiettoria della vicenda dell’Impero romano. L’Editto di tolleranza verso i cristiani, promulgato a
Milano, nel 313, dall’Imperatore insieme al collega Licinio, occupa una
posizione assolutamente centrale, ma Gibbon rimane prigioniero delle
categorie storiografiche degli storici di cui si serve e in particolare degli
41
V. M. Minale,
Gibbon su
Costantino.
Alcune
riflessioni
sul cap. XX
della ‘History
of decline
and fall
The Roman
Empire’.
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
storici classici, Lattanzio ed Eusebio e anche di una certa storiografia
protestante. Ovviamente, non poteva conoscere tutto il dibattito moderno sull’Editto. L’History di Gibbon, comunque, è una miniera d’informazione e di spunti e all’interno di questa miniera l’Editto di Costantino è addirittura una vena aurifera, il punto centrale e di partenza
per le considerazioni sul cristianesimo e l’Impero romano e sul mondo
bizantino che proprio da Costantino parte. Il XX cap., e in parte il XXI,
della History con la descrizione dell’avvenimento e le relative considerazioni rappresentano una chiave di lettura davvero imprescindibile.
Entrambi rappresentano anche un formidabile momento di emersione
delle convinzioni religiose dell’illuminista inglese, sospeso tra un aristocratico ateismo e la fede protestante, professata in gioventù.
Nel capolavoro la parte dedicata all’epoca costantiniana è suddivisa in maniera piuttosto curiosa, perché non segue la cronologia. Nella prima parte vi è la narrazione dello sfacelo dell’ordine tetrarchico,
con un interessante inciso sulla legislazione del nuovo sovrano; due sezioni dedicate alla storia del cristianesimo, una sulla chiesa primitiva
e l’altra sull’evoluzione delle persecuzioni; la digressione riguardo la
fondazione di Costantinopoli contiene, insieme con lo studio sull’apparato amministrativo dell’Impero, sospeso tra l’ipertrofia di una burocrazia pletorica e l’indulgenza sempre maggiore alla maestà imperiale,
qualche considerazione sulla storia del diritto; nell’ulteriore racconto
trovano spazio l’ultima fase del regno di Costantino, quindi la guerra
contro i Goti, la guerra contro i Persiani, la successione violenta tra i
figli, senza dimenticare la descrizione della personalità attraverso un
ritratto in chiaro-scuro con un paragone a Eliogabalo e infine la crudele
morte del figlio. Sono tutti topoi storiografici che Gibbon utilizza, fino al
resoconto della conversione e all’emanazione dell’Editto di tolleranza e
quindi le lunghe controversie dello scisma donatista.
Valerio Massimo Minale ha inteso soffermarsi sul racconto della
fondazione di Costantinopoli. Costantino è legato alla sua città e Gibbon considera tale fondazione come lo spostamento del baricentro dell’Impero ad oriente e come l’inizio di una nuova storia, non solamente
del cristianesimo, ma anche di una nuova città. Si tratta di una linea
storiografica illuministica continua sino ad oggi. Basta pensare che il
più diffuso manuale di storia bizantina fa iniziare la storia bizantina
dalla fondazione di Costantinopoli, considerando Costantino il primo
imperatore bizantino. Circa la conversione e il battesimo di Costantino
Gibbon propende a sottolineare una certa ambiguità del personaggio,
fondandosi su due leggi, quella istitutiva della festività della domenica e quella sulla possibilità concessa di consultare entro certi limiti gli
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Auspici. Due nature che convivono, dal punto di vista della storia del
diritto, nello stesso personaggio.
Rivolgendosi all’Editto. Minale riporta le parole del Gibbon:
l’Editto fu accolto come una legge generale e fondamentale del mondo
romano; la saggezza imperiale ordinò la reintegrazione di tutti i diritti
civili e religiosi dei quali i cristiani erano stati così ingiustamente privati; fu stabilito che i luoghi di culto e i beni patrimoniali confiscati dovessero essere restituiti alla Chiesa senza contestazioni, senza indugi e
senza spese. — Quest’ultimo severo comando andrebbe però accompagnato
dalla graziosa promessa che se alcuno dei possessori ne avesse sborsato un
giusto e adeguato prezzo, ne sarebbe stato indennizzato dal tesoro imperiale. — I salutari regolamenti che riguardavano la futura tranquillità dei
fedeli sono fondati sul principio di un’ampia e uguale tolleranza e tale
uguaglianza dev’essere stata dalla nuova setta come una vantaggiosa e
onorevole distinzione. I due imperatori proclamano al mondo di aver
concesso la libera, assoluta, facoltà ai cristiani e a tutti gli altri di seguire la religione che ognuno crede di preferire, ma aveva dato il suo cuore
a quella ritenuta più adatta al proprio uso. È chiaro che Gibbon segue
il testo di Lattanzio e di Eusebio. Però in una delle sue note Gibbon ci
dice che lui ha seguito anche considerazioni di tipo storiografico desunte dalla storia ecclesiastica protestante.
Gibbon è molto analitico, perché affronta, seppur in modo conciso, ogni punto della prescrizione normativa. L’Editto appare in tre
luoghi del XX cap. della History, luoghi utili all’inquadramento storico e ideologico, quando Gibbon lo pone in relazione con la conquista
dell’Italia e la successiva sconfitta di Licinio. Dobbiamo calarci nella
mente di Gibbon. Egli segue categorie storiografiche superate, quando
crede l’Editto come la scaturigine dell’attività missionaria che avrebbe
propagato il cristianesimo per ogni dove e, infine, quando lo considera
l’iniziatore della formazione delle proprietà ecclesiastiche e delle loro
rendite. La storia laica viene separata da quella ecclesiastica ed invece Stato e Chiesa convivevano a cavallo delle due stesse realtà, perché
Gibbon sembra più interessato a rivolgersi alla religione cristiana e ai
suoi sviluppi nella società romana. Gibbon affronta i problemi sempre
incentrando l’attenzione sulla figura di Costantino:
— dalla dottrina di matrice paolina, secondo cui ogni potere costituito
discenderebbe da un’origine divina, alla celeberrima visione che fu insieme sogno e segno nel cielo;
— dalla riflessione sulla conversione, se sincera o meno, all’incontro tra
antiche e nuova cultura, anche in riferimento al famoso acrostico contenuto negli oracoli sibillini;
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
— dall’ attività missionaria del sovrano, il quale viene definito per questo motivo apostolos, alla divisione tra potere spirituale e potere temporale;
— dall’istituto vescovile, con l’elezione popolare e l’ordinazione del clero, sino al patrimonio, alla predicazione e ai privilegi delle assemblee
legislative.
Tutto questo corrisponde ad un preciso intento di Gibbon, per
descrivere Costantino e l’ordinamento che la conversione crea. Ma
l’Editto appare pure nel XXI capitolo con cui si chiude anche la vicenda
costantiniana. L’atto normativo di Costantino e Licinio viene definito
in modo significativo come la Magna Carta della Tolleranza. Gibbon tuttavia passa subito a criticare profondamente l’epilogo dell’esperienza
costantiniana che, come sappiamo, fu all’insegna della più feroce intransigenza religiosa. Ecco allora che sorgono i problemi e una visione
altamente chiaroscurale di Gibbon nei confronti di Costantino:
“La chiesa, riconoscente a un principe che ne favorì la passione e
ne promosse gli interessi, ha consacrato con le sue lodi la memoria di Costantino. Egli le diede sicurezza, ricchezza, onori e soddisfazione e considerò la difesa della fede ortodossa come il più sacro e importante dovere di
un magistrato civile. L’Editto di Milano, la Magna Carta della Tolleranza
aveva confermato a ogni individuo del mondo romano il privilegio di scegliere e professare una propria religione, ma quest’inestimabile privilegio fu
ben presto violato .
L’illuminista inglese continua evocando l’Editto emanato contro le sette degli eretici. Le misure emanate, una volta conquistata la
parte orientale, dopo il 324, sono il divieto di riunione e la confisca
dei beni, nell’intento di ottenere la dispersione dei soggetti ostinati.
Quindi, a un tempo, Costantino è rappresentato come personaggio della
tolleranza e insieme dell’ intolleranza religiosa, perché ossessionato dall’unità dell’Impero, anticipando quello che sarà, sempre per Gibbon, il
personaggio di Teodosio, che emanerà un atto di supremazia, e quindi
di grande intolleranza,
La sottolineatura dell’intolleranza era funzionale per il Gibbon
all’evocazione del clima di violenza in tema di religione. L’occasione
gli veniva dai monaci mendicanti legati al partito donatista che seminavano il terrore nelle campagne africane. Gibbon paragonava simili
personaggi invasati, ma eroici nelle loro scelte definitive e tragiche ai
protestanti francesi che condussero l’ultima resistenza armata ai tempi
di Luigi XIV, il quale il 18 ottobre 1685, emanando l’Editto di Fontainebleau, pose nel nulla l’Editto di Nantes. Agli occhi di Gibbon l’Editto
di Fontainebleau potrebbe ricordare l’atto di supremazia di Tessalo-
4
44
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
nica del 380. Con questo flusso di rapporti, Gibbon concludeva il suo
racconto con la controversia trinitaria, mostrando di considerare assai
negativamente entrambe le parti in lotta tra di loro, colpevoli per motivi
religiosi di aver dissanguato l’Impero. E subito di seguito invoca invece
l’esempio della tolleranza del paganesimo che mai sarebbe giunto a
simili enormità, inserendosi così in una polemica a lui contemporanea,
animata anche dal Montesquieu sulla legislazione costantiniana che
avrebbe soppresso del tutto il culto pagano, una delle cause principali
della decadenza di Roma.
Questa lettura illuministica degli eventi da parte di Gibbon segue un approccio tipico del pensiero riformato, così come appare nel
capitolo XXV con il discorso sui primi cristiani. Le cinque cause che
starebbero alla base della diffusione della nuova religione furono:
— lo zelo derivante dalle origini ebraiche, anche se mitigato;
— la speranza nella vita eterna, quindi la concezione dell’immortalità e
dell’eternità dell’anima;
— la fama quasi mitica dei poteri taumaturgici in capo ad apostoli e
discepoli;
— la mediazione per la rigida e incorruttibile condotta di vita; e infine
— la forza di una comunità autonoma.
Cadendo sotto l’osservazione di uno storico protestante di formazione razionalista, tutte queste cause subiscono ognuna un colpo
demolitorio. Fu l’eresia dello gnosticismo che costrinse i primi cristiani
ad elaborare una dottrina precisa, per potersi distinguere dagli gnostici
stessi. Sul materialismo degli antichi, a cui fungeva da specchio l’empirismo dei moderni, quindi degli inglesi, lo sguardo non poteva essere
che scettico. Sulla fine dei miracoli, provocatoriamente veniva evocata
la conversione di Costantino, in quanto, per i protestanti del tempo,
Costantino si converte e finisce la chiesa dei miracoli, non si possono
più compiere i miracoli. Sul fatto, infine, che la virtù proveniva dall’accumulo di esperienze di travaglio, come sul valore letterale, senza intermediazione, della Bibbia, la lezione di Lutero appariva risolutiva. La
stessa descrizione dello sviluppo della chiesa era palesemente orientata
a vederla come organismo umano della storia, connotata da una parte
da una capacità di penetrazione indiscriminata, al di là di ceti economici, classi sociali, frontiere geografiche, e dall’altra da un indebolimento
della visione conciliare, un accumulo di potere nelle mani dei vescovi,
successori degli apostoli e padroni dell’arma della scomunica.
Il tono fortemente polemico e critico del Gibbon ha a lungo condizionato il dialogo con il mondo protestante. Ancora oggi si discute del
tema della sincerità o meno della conversione di Costantino.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
In sostanza, sostiene Valerio Massimo Minale, il Gibbon, costruendo un periodo molto affascinante nella sua entrinseca ambiguità,
giudica Costantino tanto pressato dalla brama della gloria terrena da
arrivare a provare un sincero afflato spirituale per una divinità che lo
avrebbe designato come supremo vincitore nella storia. Lungi dall’apparire semplicemente come una estrema avanguardia di una fazione in
guerra con un’altra, per il conseguimento del potere, in un contesto di
mero scontro religioso, Costantino avrebbe emanato l’Editto di Tolleranza, o sarebbe addivenuto alla decisioni degli Accordi di Tolleranza con
Licinio, non tanto per cercare il punto d’incontro che avesse stabilito
uno status quo, quanto piuttosto perché seppe scorgere nel cristianesimo un formidabile instrumentum regni che avrebbe donato all’Impero
romano, stanco e disfatto al termine dell’esperienza tetrarchica, altri
secoli di vita, inaugurando la storia del mondo bizantino. Solo in ciò,
secondo la lettura illuministica venata di protestantesimo del Gibbon,
consisterebbe la grandezza di Costantino e l’importanza del punto di
vista della storiografia dell’Editto di Milano, di cui si celebra ancora la
pluricentenaria ricorrenza.
I. Tantillo,
Costantino
nell’epigrafia
africana
Avendo constatato che il primo vero banco di prova per valutare
l’efficacia delle nuove disposizioni sulla libertà religiosa era costituito
dalla tormentata situazione sulla costa africana del Mediterraneo, diventava naturale interrogarsi sul lascito africano dell’epoca costantiniana.
Un lascito sostanzialmente epigrafico. E solo un maestro come Ignazio
Tantillo, perfetto conoscitore della trasformazione di tutto il ‘paesaggio
epigrafico’ nelle città dell’Africa romana, con speciale riferimento a Leptis
Magna (Tripolitania), poteva offrire al Convegno un contributo nel merito delle tracce di Costantino emerse nell’epigrafia africana. I Lettori
potranno facilmente intuire che la più opportuna e migliore ricostruzione della sua testimonianza di studi epigrafici potrà venirci direttamente
dalla pubblicazione degli Atti del Convegno.
M. Caltabiano,
Giuliano
l’Apostata e
Costantino:
rottura o
continuità?
Un altro banco di prova per valutare la durata e la tenuta delle
nuove disposizioni costantiniane sulla libertà religiosa è costituito dall’esame delle tormentate vicende che seguirono la morte di Costantino.
Ne è stata incaricata Matilde Caltabiano, una studiosa che già da tempo
aveva potuto scorrere l’Epistolario di Giuliano imperatore, costruendone
un saggio storico e traducendolo con note e testo in appendice, per M.
D’Auria editore. Anche per la comparazione con Costantino, fatta da
Caltabiano, rimandiamo necessariamente agli Atti del Convegno.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Per usare un’espressione di Remo Cacitti, tutta l’età costantiniana dovrebbe essere intesa come un’officina, l’officina della teologia
politica. Proprio a Cacitti è stato affidato il compito di ripercorrere la
sacralizzazione imperiale, un processo che trova in Eusebio di Cesarea e
nella sua opera il vero forgiatore. Cacitti ha portato tutti a comprendere
il senso di una nuova apologia, sintetizzata nella celebre espressione
“In hoc signo” e a ripercorrere gli snodi del passaggio dalla teologia della storia a una politica teologica. Centrale, e critica, nella sua riflessione
è l’analisi della conversione: dal cristianesimo alla Chiesa imperiale.
Remo Cacitti ha inteso presentare la figura e la teologia del vescovo di Cesarea, Eusebio, testimone e principale esponente della corte
ecclesiastica costantiniana; nello specifico, ha preso in considerazione
le ragioni e la profonda discontinuità che caratterizzarono il pensiero
di questo Autore rispetto alle diverse tradizioni cristiane a lui precedenti. Grazie alla sua opera, infatti, l’inedito sodalizio inaugurato da
Costantino tra corte ed episcopato ottenne una propria giustificazione
“ideale”, tesa a riscattare il ruolo dell’Impero nell’economia della teologia cristiana, ma sfociata effettivamente in una perdita radicale dello
slancio escatologico dei primi tre secoli e in un sostanziale asservimento
di buona parte dell’episcopato al trono.
Molto utili si sono rivelate le sue indicazioni bibliografiche per
studiosi e studenti. Lo saranno anche per i Lettori che scorrono queste
pagine:
— “Bibbia di Gerusalemme”, EDB
— Edizione critica del Nuovo Testamento (preferibilmente ed. c.d.
“Nestle-Aland”).
— W. Weren, Finestre su Gesù, Torino, Claudiana
— C. Moreschini - E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica
greca e latina-1: Da Paolo all’età costantiniana, Brescia, Morcelliana
— Eusebio di Cesarea, Elogio di Costantino, a cura di M. Amerise,
Novara, Paoline
— Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, a cura di L. Franco,
Milano, Rizzoli
— V. NERI, Medius Princeps. Storia e immagine di Costantino,
Bologna, Clueb
— H. Weder, Metafore del Regno, Flero (BS), Paideia
— E. Percivaldi, Fu vero editto? Costantino e il cristianesimo,
Milano, Ancora
Libro X della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea
nell’edizione Roma, Città Nuova
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R. Cacitti,
L’officina
della teologia
politica.
I materiali
escatologici
per la forgiatura dell’ideale imperiale
nell’opera
di Eusebio
di Cesarea
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Nota
del
Curatore
L.F. Pizzolato,
Dall’Editto
di Milano
all’Impero
cristiano:
Ambrogio
nel regime
della
dissimulatio.
Spesso si è portati ad idealizzare alcune epoche della storia e a ritenere
i giudizi, maturati in quel clima, come assoluti, degni di esistere e resistere
anche al di fuori del contesto che li ha determinati. È il rischio che corre anche il giudizio illuministico che attribuisce a Costantino la furbizia di aver
usato il cristianesimo come formidabile instrumentum regni per tonificare un
Impero romano stanco e disfatto e proiettarlo indefinitamente per altri secoli di vita. Un giudizio che corrispondeva più ad un proprio convincimento
ideologico che non alla complessa realtà storica dell’evento che si voleva giudicare. Un giudizio che, anche se sotto forme diverse, persiste ancora in molti settori della cultura anche scientifica. Uno dei meriti di questo Convegno,
che stiamo sommariamente presentando — anche per colmare un naturale
vuoto informativo in attesa della pubblicazione degli Atti, che consentiranno a
tutti gli interessati di tirare con ragione le proprie somme —, è proprio quello di
compiere ogni tentativo oggi possibile per ricostruire, senza paraventi ideologici, le dinamiche più persistenti che hanno circondato quel primo evento
cruciale che ha fatto apparire la libertà religiosa come nuova forma entro
la quale ottenere uno svolgimento politico più alto e dignitoso per l’organizzazione sociale. E tra i tentativi più riusciti e fruttuosi è senza dubbio il
recupero di una dinamica essenziale, che potremmo anche considerare vera
e propria categoria storica, e non solo per il mondo antico, la dissimulatio.
Con la consueta profondità che contraddistingue l’analisi storica di Luigi
Franco Pizzolato, questa categoria viene colta nel suo svolgersi e declinarsi
proprio in prossimità di quell’evento che questo Convegno celebra.
Lo storico della letteratura cristiana antica Luigi Franco Pizzolato, per meglio far comprendere la funzione della dissimulatio e la sua
permanente presenza nel mondo imperiale romano, sin dal suo generarsi dall’età repubblicana, dopo le lunghe guerre civili e sino all’assestamento attuato da Ottaviano Augusto [63 a.C.–14 d.C.] e dal suo successore Tiberio [42 a.C.–37 d.C. – governò dal 14 al 37 d.C.], evoca la figura
di un’antica collega, maestra di tanti studiosi presenti al Convegno,
Marta Sordi, per ricordare che tra Tiberio soprattutto e Simmaco [340
d.C. ca.–402/403 d.C., il più grande oratore del suo tempo, considerato il padre della
filologia] la dissimulatio fu un atteggiamento ritenuto virtuoso. Fu anche
grazie all’uso della dissimulatio che Tiberio potè conservare immutata
la sua autorità di principe e mantenere formalmente salda la legalità
repubblicana. Anche in fatto di disciplina militare il suo comportamento era equidistante, dice il grande storico Tacito [certo non tenero con chi
aveva trasformato la repubblica in principato], equidistante: medium, tra
un’assai più frequente plurima dissimulatio e una qualche repressione.
Medesima equidistanza, ma in politica religiosa, attribuiva lo storico
Ammiano Marcellino [330 d.C. ca.–dopo il 397 d.C.] all’imperatore Valentiniano I [321 d.C.– 375, imperatore dal 364]. E fu Simmaco a chiamare questa
riconosciuta equidistanza, appunto, dissimulatio.
La religione tradizionale e l’Editto di Milano, che non ne scalfiva la logica, garantivano, secondo Simmaco, la conservazione di tutte
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
le singole religioni, perché preservavano i luoghi simbolici deputati e
questi significavano nel loro insieme l’unità del divino. Tra questi figurava l’Altare della Vittoria — [un’ara, altare, antichissima, che i Romani avevano
sottratto ai Tarantini dopo la vittoria conseguita su Pirro nel 272 a.C., posta nella Curia
Iulia, voluta da Ottaviano Augusto per celebrare la fine delle guerre civili, dedicata alla
memoria di Cesare e utilizzata per i sacrifici e per il giuramento dei senatori], quel-
l’altare contiene in sé la concordia di tutti. A quell’altare mette capo la
lealtà dei singoli. Esso è simbolo non di una religione, ma dell’insieme
religioso di ciò che tutti adorano, come dice Simmaco, che supera e assorbe le religioni chiamate sette. È insomma segno della religione della
tradizione che si avvale di vari culti. Simbolo. Al culto di questo modello
religioso unificante si deve prestare onore almeno con la dissimulatio,
cioè fingendo di non appartenere a una particolare setta e collocandosi
nell’atmosfera omnicomprensiva del divino. Del resto, era stato proprio
Quinto Aurelio Simmaco nella sua Relatio de ara Victoriae a sostenere
che « Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento.
Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo
ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può
seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande. ». Ma la
polemica sull’esistenza di quell’altare era divampata, quando i senatori
cristiani, ormai numerosi, non intendevano comportarsi come i senatori
pagani, che giuravano su quell’ara. I poli alti della polemica furono proprio Simmaco e il cristianissimo Ambrogio [Treviri 339/340–Milano 397].
L’atteggiamento religioso di Simmaco non rispondeva al canone del sincretismo, perché il suo senso religioso non era costruito con
pezzi di varie religioni. La sua era una religione olistica, cioè universo
divino che crea le religioni, le sparge nel mondo e le contiene, riepiloga
tutte come sue diverse possibilità. Dice Simmaco: « è la mente divina che
distribuisce alle città i culti protettivi diversi. ». Su questo sfondo prende il
sopravvento in Simmaco lo spirito romano che non ha alcuna mira neoplatonica di reditus, ritorno, al divino e che al posto dell’universo di simboli intellegibili del platonismo, pone una serie di riti e di fatti religiosi
a valenza civile più che filosofico-ideale. Si può pensare che Simmaco
abbia rappresentato la sua visione religiosa proprio tenendo presente la
lettera dell’Editto di Milano, anche se con qualche restrizione mentale
avversa agli sviluppi che aveva avuto in età post-costantiniana. Quando
Simmaco permetteva a ciascuno, anche ai cristiani, la facoltà di seguire la religione —ma Pizzolato preferisce tradurre meglio: il culto— che
ciascuno avesse voluto in ossequio alla divinità presente in sede celeste
e alla summa divinitas. Nell’Editto, infatti, si parla sempre di un divino
unico, inteso come culti, sicché esso concede non tanto di onorare in
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
particolare la divinità in cui ciascuno crede, ma di onorare il divino come
ciascuno crede. Non i divini, ma il divino. Si tratterebbe insomma di
una libertà di culti, all’interno di un mondo interreligioso, misterioso,
che non può raggiungere il divino per varie strade indifferentemente,
secondo il relativismo politeistico, ma nel senso che una sola strada non
consente di arrivare al divino: bisogna praticarle tutte e tutte rispettarle.
Questo è chiamato olismo religioso, il tutto degli strumenti parziali di
accesso a un divino la cui complessità è altrimenti impossibile attingere
e resta, per così dire, mutila. In tal senso essa caratterizza la spiritualità
della così detta reazione pagana del tempo, così icasticamente espressa
nell’epitaffio dove una sposa romana dice al marito « Tu sei testimone
della mia iniziazione a tutti i misteri ».
Simmaco può invocare la tradizionale condizione di libertà di
culto, estesa poi al cristianesimo e, prendendo atto del mutato credo
religioso degli imperatori regnanti, chiede il mantenimento di quell’atteggiamento attraverso la dissimulatio, che tenga insieme adesione
personale al nuovo culto e rispetto per il culto tradizionale dello stato,
secondo un regime che prenda atto dell’evoluzione religiosa degli imperatori, ma che non smentisca quello che era stato lo spirito, se non la
lettera dell’Editto di Milano. Possiamo in sostanza dire che tra Milano
e Tessalonica sotto gli imperatori cristiani sia invalso il regime della
dissimulatio. Sulla dissimulatio grava comunque, insiste, la condanna
originaria che l’etica generale rivolge a questo atteggiamento. Il termine dissimulatio, anche nel secolo IV, in ispecie negli autori cristiani,
ha quasi sempre valore negativo, perché ricade sotto la categoria della
menzogna, la fictio. Ma essa, la fictio, era stata nobilitata già in parte
dalla concezione retorica della simulatio, tipica della eironeia socratica
—dal greco “eironeia”, ironia, letteralmente “dissimulazione”, “finzione”, svalutazione
eccessiva, reale o simulata, del proprio sapere. Socrate ne fa l’inizio del suo metodo:
interroga, finge di non sapere e, di domanda in domanda, svela la contraddizione dell’interlocutore. Da qui, poi, la maieutica socratica e la dialettica, socratica e platonica—,
e dal senso ciceroniano di urbanità, di paziente tolleranza. E negli storici
politici, per di più pagani, come Ammiano Marcellino, la dissimulatio ha
un valore neutro di tecnica interna alla real-politik. Essa è presente anche negli atti dell’imperatore Giuliano, portato ad esempio di moderazione proprio perché a volte fingeva di non essere toccato dall’illegalità,
per non essere costretto a punirla severamente. Può esser facile, quindi,
il passaggio al significato di tolleranza, che però in Simmaco comporta
la necessità per il principe di estraniarsi dal proprio convincimento personale per far vivere qualche valore oggettivo che rischierebbe di essere
smarrito o espulso dal panorama del religioso che invece l’Editto di
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Milano con nitidezza preservava.
Ambrogio è con Ammiano l’utilizzatore forse più frequente del
termine dissimulatio nel IV secolo, quasi che esso toccasse un suo nervo
scoperto. Per lui è una finzione che contrasta oggettivamente col disegno
di verità che è Dio, il quale non ha lasciato nulla di dissimulato, cioè
qualcosa che celasse la sua consapevolezza. Ma anche il fare verità soggiace al giudizio del discernimento etico, in forza del quale non sempre
la dissimulatio è atto contrario alla verità. Ambrogio adduce varie circostanze al proposito. La dissimulatio è uno dei mezzi con cui la verità,
senza negare sé stessa, si nasconde parzialmente o temporaneamente,
perché altrimenti non sarebbe storicamente capita. Questa è addirittura, dice Ambrogio, una consuetudo della scrittura, che Dio finga di
non conoscere qualcosa che sa, in questi casi essa diventa, testualmente,
quell’absurdum, quel credo quia absurdum, che stimola l’interpretazione più profonda della scrittura e che colloca quell’apparente negatività
dentro un progetto che ne modifica il significato. La dissimulatio diventa
una finzione pedagogica, quasi come quella socratica che è stimolo al
miglioramento e alla comprensione. La dissimulatio non è però compatibile solo col regime dell’Antico Testamento, sarebbe facile. La si ritrova anche nell’orizzonte cristico, se è vero che Gesù stesso ha preferito
dissimulare, cioè fingere di non avere il diritto di disporre di qualcosa,
piuttosto che rifiutare ai suoi discepoli un atteggiamento di carità, come
gli richiedevano. L’esempio che Ambrogio porta è quello degli apostoli
che gli chiedono « Chi sarà che porrai alla sinistra, e chi alla destra nel
Regno ? ». Risposta: « È dato al Padre mio conoscerlo, io no lo so ». Finge
di non conoscerlo, perché vuole che loro si comportino secondo carità.
Quindi: si dissimula una verità per tutelare meglio il valore che essa
protegge, cioé una verità più comprensiva.
Ambrogio, però, per storia personale e per rigore logico e spirituale non può accettare l’interpretazione che dall’Editto di Milano
traeva la rigida coerenza di Simmaco, cioè la necessaria pluralità di
culti, in quanto esigita dall’unico insondabile mistero che li conteneva tutti singolarmente. Se la religione pagana nella sua indefinitezza
teologica può essere soddisfatta dalla varietà libera di culti che come
nuvole di frecce sono lanciate in varie direzioni, il culto cristiano invece
è misurato da una fede e non può accettare direzioni estranee, perché
conosce il bersaglio. La fede, con i suoi contenuti, non la religio era del
resto centrata esplicitamente nelle scelte [contestate dall’illuminismo sino ad
oggi] di Teodosio. Ma, sottolinea Pizzolato, è vano pretendere che, a quel
tempo, il discorso fosse impostato sulla dignità della coscienza che sola
dirimerebbe in radice la questione.
51
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Ambrogio continuò sempre a pensare che la dissimulatio fosse un
ingrediente del lealismo. Ma l’Ambrogio che aveva redatto il De officis
si accosta al principio che anche dissimulare è peccato, specie se si è in
causis dei, dove non è più permesso dissimulare, né tacere. Ambrogio in
virtù della sua formazione politica romana, per la sua spiccata spiritualità, è più di un testimone, spesso tormentato, dei passaggi dal clima
del’Editto a quello della religione di stato. Per primo prese di petto il
rapporto così moderno tra libertà e verità, senza eluderlo, come faceva
la mentalità pagana corrente che, sulla scorta dello spirito dell’Editto
di Milano e poi della religiosità filosofica, declinava la libertà religiosa
secondo le disimpegnate strade del sincretismo o dell’indifferentismo.
Era inevitabile però, sottolinea Pizzolato, che, con il progredire della
cristianizzazione dell’Impero, ormai alla causa dei fossero ricondotti
tanti ambiti, soprattutto la politica religiosa, impedendo perfino quella
distinzione fondamentale tra Cesare e Dio, il cui indebolimento sarà
ragione non ultima di derive clericali dell’Occidente cristiano. Certo
non era ancora chiaro il legame tra diritti delle coscienze e diritti del
divino. Questo si affaccerà molti secoli più tardi. Forse non prima del
giusnaturalismo moderno.
Francesco
Braschi,
Costantino
in Ambrogio:
Appunti di
contenuto e
di metodo
dalla lettura
dei testi.
Della visione che Ambrogio ha di Costantino si è occupato Francesco Braschi, Dottore dell’Ambrosiana, conoscitore approfondito dell’opera di Ambrogio.
Il fatto che l’Editto di Milano potesse risultare una presenza
scomoda data la prospettiva d’incipiente cristianità che si andava delineando, la presenza di Costantino nel De obitu Theodosii di Ambrogio,
riveste un ruolo ben più importante di quello che potrebbe far pensare
la brevità della menzione che di lui viene fatta. Il nome e la figura di Costantino compaiono nel De obitu Theodosii al paragrafo 40, nel contesto
della descrizione dell’arrivo di Teodosio, là dove Ambrogio tratteggia,
cristianizzandolo, quello che nello schema consueto della Laudatio funebris imperiale, era il momento dell’accessĭo del sovrano defunto al mondo sovra celeste. Nella formulazione ambrosiana dopo che Teodosio ha
già sostenuto, prima di arrivare all’incontro con i suoi sodali, una sorta
di giudizio–interrogazione, nel quale vengono tratteggiati la confessione
della dīlectĭo nei confronti del suo Signore e Dio e il conseguente amore
del suo prossimo [vuoi parenti, vuoi amici], egli ha finalmente accesso al
luogo in cui vi sono lux perpetua e tranquillitas diuturna, per ottenere i
frutti della divina remuneratio.
[Lungo la disamina del De obitu Theodosii, Braschi cita, a questo punto, il
passo A, paragrafo 32 del De obitu, nella versione del De obitu consegnata
agli studiosi convenuti. E così per ogni altra citazione successiva. La natura
52
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
divulgativa di questa pubblicazione non consente, però, una lettura dei rimandi
puntuali operata dal Braschi. Per questa caratteristica scientifica si rimanda
agli Atti del Convegno di prossima pubblicazione].
Proprio in questo luogo, dove si effonde una lux perpetua e la
tranquillitas diuturna stabilmente dimora, avviene l’incontro di Teodosio con Costantino. Un incontro che Ambrogio descrive in un passo di
particolare rilevanza sia in sé, per la struttura letteraria, che per la nostra riflessione. Se guardiamo all’economia generale dell’orazione questo incontro si colloca in apertura di un’ampia sezione che Ambrogio
dedica alla narrazione dell’Inventio crucis, del ritrovamento della Croce
da parte di Elena e al suo significato. L’appartenenza di tale sezione
all’impianto originario del De obitu Theodosii è stata sovente contestata,
tuttavia, basandosi su motivazioni di coerenza interna dell’opera, per
Braschi, al seguito dei più recenti studi, pare necessario assumere che
l’Inventio crucis sia parte del tutto essenziale del De obitu Theodosii e
perciò non avrebbe potuto esservi aggiunta successivamente. Del resto
il tema centrale dell’orazione era l’Ereditas fidei e la storia del ritrovamento della croce si adattava benissimo ad esso. Anche altri studiosi,
seguendo l’insegnamento di Marta Sordi, che in numerosi suoi studi ha
messo in evidenza l’unità testuale del De obitu Theodosii e il suo valore
per la comprensione del pensiero teologico, politico ambrosiano, giungono alla medesima conclusione.
Nei cap. 39 e 40, Braschi fa notare in primo luogo la complessità
compositiva operata da Ambrogio, che intreccia due tipi di strutture:
una costruzione concentrica del brano per l’incontro di Teodosio con
la moglie Facilla e un’altra struttura dedicata all’incontro prima con
Graziano, poi di Costantino con Teodosio. Proprio in questo luogo avviene l’incontro di Teodosio con Costantino. Un incontro che Ambrogio
colloca dopo l’incontro con Graziano, predecessore di Teodosio, ucciso
tragicamente, cristiano convinto, amico di Ambrogio, con i figli morti in
tenera età, con la moglie, con il padre ucciso perché caduto in disgrazia.
L’ordine degli incontri è interessante per due serie di considerazioni.
Da un lato perché vediamo messa al centro la cerchia familiare di Teodosio, dall’altro perché, ai due estremi, troviamo la menzione dell’incontro con due persone con le quali sussistono legami non di sangue,
bensì di colleganza. Fermiamoci sui legami familiari. Al centro troviamo la menzione della moglie fideli anima deo della quale si sottolinea
unicamente la fede mentre prima e dopo, ai due estremi, troviamo la
menzione dei figli e del padre accomunati dalla sottolineatura negativa
della perdita ingiusta o prematura. Ai due estremi del brano, i paragrafi
dedicati a Graziano e Costantino mostrano un’ampiezza di sviluppo
che li differenzia da quelli centrali e nello stesso tempo rivelano un’im-
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
pressionante affinità di struttura. Infine l’enunciato. Scrive Ambrogio
che Teodosio: « ora si sente veramente re, poiché non si separa da Costantino. E sebbene a costui la grazia del battesimo abbia rimesso tutti i
peccati solo in punto di morte, tuttavia, siccome fu il primo imperatore
a credere e lasciò dopo di sé ai suoi successori l’eredità della fede, ottenne un posto degno dell’insigne suo merito ».
Ciascuno dei due brani si conclude con una citazione vetero
testamentaria: nel primo caso il Salmo 36 e nel secondo Zaccaria 14.20,
che funge da chiave interpretativa e da realizzata anticipazione del senso di quanto accaduto. Ora questi due temi costituiscono in effetti, l’anticipazione di quanto segue nell’Orazione funebre.
Con l’ultima frase del cap. 41 si fa menzione dell’esito del chiodo della croce di Cristo forgiato nel freno del cavallo imperiale e questo,
per Braschi, funge da aggancio con la sezione successiva dedicata alla
narrazione dell’Inventio crucis. Ma al termine di questa narrazione, cap.
51, 52, ritroviamo un passo nel quale ricompaiono Graziano e Teodosio, posti in posizione preminente rispetto agli altri principes e viene nuovamente messa in luce da Ambrogio proprio la loro comunione
nella pratica della fede. Si forma, dunque, durante questa menzione,
una sorta di cerniera sul limitare della sezione relativa alla leggenda
dell’Inventio crucis, che appare esattamente parallela a quanto avviene
nel cap. 41 relativamente a Costantino ed Elena e tutto si combina con
una inclusione della stessa sezione nel segno del rapporto tra Graziano
e Teodosio. Possiamo quindi riconoscere nella struttura letteraria e nei
contenuti dei cap. 39 e 40 una ulteriore conferma della piena coerenza
della sezione dedicata all’Inventio crucis con quanto la precede e la segue. Questa conferma tuttavia non riguarda solamente l’aspetto formale, ma deve estendersi anche all’individuazione dei temi fondamentali
dell’orazione.
A questo punto Francesco Braschi richiama espressamente
quanto Marta Sordi scriveva nel 1993, affermando: « Il significato di
tutto l’escursus ambrosiano è la redenzione dell’Impero e degli imperatori,
il chiodo trasformato in corona diventa il chiodo dell’Impero romano che
regge l’intero mondo e non insolentia ma pietas. ». Pur condividendo
pienamente il giudizio di Marta Sordi, Braschi ritiene tuttavia che si
possa compiere un passo ulteriore nella comprensione di questo testo
e conseguentemente del significato della figura di Costantino, nel pensiero del vescovo milanese. Fa quindi notare che i temi dell’Ereditas
fidei e della Redemptio non sono presenti anche all’interno della sezione
sulla Inventio crucis unicamente in connessione alla tematica del potere
imperiale, ma si estendono ad un ambito più ampio e capace di com-
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
prendere tutta l’esistenza umana in una prospettiva, che non tralascia
gli affetti familiari, fino a trovare il suo punto di approdo e compimento
nei motivi dell’Imitatio Christi. Braschi documenta queste affermazioni
richiamando i riferimenti testuali nei cap. 39 e 40, 49 [con la menzione
non solo della redenzione degli imperatori, ma anche del pieno riconoscimento della potenza salvifica della croce]. In questo passo la seconda
resurrezione di Cristo —intendendo con questa ardita espressione il fatto
che nella vita dei Cristiani si riproponga la vita stessa di Cristo, rinvenibile
in una rinnovata umanità ad imitazione della Sua — viene chiaramente identificata con il dispiegarsi della potenza della sua resurrezione,
non soltanto nella vicenda degli imperatori, ma tout court nella vicenda dei cristiani. In sintesi, afferma Braschi, i termini della fede e della
redenzione vengono declinati da Ambrogio nelle orazioni funebri per
gli imperatori, sempre seguendo un duplice registro, tanto istituzionale
quanto affettivo. Ambrogio non si limita mai a fredde considerazioni
di tipo istituzionale, politico o moralistico, connota sempre la salvezza
di una tonalità sinceramente affettiva. Ciò avviene tanto per Teodosio,
quanto per Costantino ed Elena, poiché è l’ansia di una madre per la
sorte del figlio, prima ancora della sorte dell’Impero romano, ad essere
indicata da Ambrogio quale causa prossima della ricerca delle reliquie
della passione, come si può leggere ai cap. 41, 42, nei quali anche l’utilizzo del termine stabularia, “locandiera”, per definire Elena, permette
ad Ambrogio di paragonare il suo operato a quello del buon samaritano, icona di Cristo preoccupato della salvezza non solo dell’Impero
romano bensì di tutta l’umanità, simboleggiata nel ferito lasciato al
margine della strada. È Ambrogio stesso a compromettersi e coinvolgersi in questa visione soteriologica. Gli imperatori sono allora immersi
a pieno in un processo di redenzione che è il rinnovamento completo
dell’umanità e questo spiega anche l’insistenza, nel De obitu Theodosii,
sulla completa ridefinizione delle quattro virtù imperiali che dai tempi
di Augusto connotavano la figura dell’Imperatore romano. Un processo,
questo, del rinnovamento dell’umanità che nella visione di Ambrogio
ha la sua condizione di possibilità nel riconoscimento della corretta
figura di Cristo. Ambrogio afferma chiaramente questo principio in una
famosissima pagina del De Fide, libro II, cap. 13 paragrafi dal 108 al
119. Non è un caso che proprio al cap. 49 del De obitu Theodosii si trovi,
nell’ambito della reprimenda contro i giudei che vedevano con disdoro
la scoperta della croce, la menzione di fotiniani e di ariani.
Francesco Braschi apre a questo punto un’altra finestra: la costruzione di Ambrogio di un vivace dialogo tra i rappresentati delle varie eresie cristologiche e Cristo stesso. L’imperfezione della conoscenza
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
della figura di Cristo da parte loro viene continuamente rimandata all’esito di un’impossibile salvezza e dunque l’ortodossia nella fede viene
vista innanzi tutto dal punto di vista soteriologico, come la necessaria
conoscenza che sola permette il dispiegarsi della potenza salvifica di
Cristo nei confronti di chi lo invoca. Questa menzione dei fotiniani e degli ariani indica che anche il De obitu Theodosii si muove lungo la linea
di confermare la possibilità che la fede di Teodosio sia veicolo di una
corretta comprensione della figura di Cristo. Ecco che, al fondamentale
motivo dell’Ereditas fidei per i sovrani e della redemptio del potere —ricondotto grazie alla croce di Cristo dalla libidine alla ragione— Braschi ne
affianca un altro altrettanto pervasivo, ovvero quello della costruzione
di una umanità rinnovata nella seminazione a Cristo.
Questo pone, ad avviso di Braschi, un problema fondamentale
da approfondire: il riferimento al giudizio sulla figura di Costantino e una
corretta ermeneutica dei testi ambrosiani. La visione di Ambrogio relativamente alla fede chiaramente cristocentrica e alla inclusione in essa,
perno della sua azione pastorale, della teologia politica, nella quale la
figura dell’Imperatore non può essere guardata staccandola dal proprio destino personale e dunque mantenendo la chiave soteriologica di
lettura. La prospettiva soteriologica si rivela la chiave fondamentale di
lettura e mette in parallelo Costantino e Cristo. Non è una cosa strana,
perché è la stessa prospettiva che Ambrogio propone a tutti i cristiani,
quando afferma che ogni anima, che accoglie Cristo, concepisce e genera in sé il Verbo. Questo il giudizio finale su Costantino, che a Braschi
sembra emergere dal De obitu Theodosii, ben più ampio di un solo
giudizio dettato da una volontà di preminenza nell’ambito politico.
Si tratta di una prospettiva appena abbozzata da approfondire,
tenendo fermo il significato metodologico della fede di Ambrogio come
criterio ermeneutico da assumere per una corretta interpretazione della sua posizione anche in campo teologico-politico. Non è un caso che
proprio nel De obitu Theodosii si trovi un passo, paragr. 36, nel quale
Ambrogio stesso, in chiave autobiografica, descrive quale sia la preoccupazione di un vescovo per la salvezza del suo gregge. Ed è del tutto significativo, che in questa preoccupazione pro omnibus sia inserito
Teodosio. Non è insomma da escludere che in Costantino la fede possa
essere stato realmente un motore ideale, ma dagli effetti assai concreti
per la sua vicenda di uomo e di reggitore dell’Impero.
Molto suggestiva, infine, la conclusione di Braschi, con la citazione di uno storico francese di scuola marxista, Paul Veyne, applicabile —con i dovuti aggiustamenti— anche allo stesso Ambrogio: « Non
si può continuare ad avere una visione così limitata di Costantino. Questo
principe cristiano di eccezionale statura aveva concepito un vasto progetto,
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
in cui non mancavano né devozione né potere: dare vita a un vasto insieme
totalmente cristiano e che fosse, per questo, uno solo sul piano politico e religioso; questo ideale millenario dell’impero cristiano farà ancora sognare
ai tempi di Dante. Costantino l’ha realizzato deliberatamente, mosso dalla
devozione e non per interesse o distrattamente” [Paul Veyne, Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394), Garzanti, 2010, p. 81].
Francesco Braschi sottoscrive del tutto questa opinione, che riscatta Costantino (e, conseguentemente, Ambrogio) da letture troppo
anguste ancora troppo diffuse. E aggiunge: « Si può essere o meno d’accordo con la concezione politico-religiosa di Costantino o con quella di Ambrogio. Ma penso sia importante e necessario riconoscere che una lettura
metodologicamente corretta dell’agire di simili uomini —capaci di segnare
profondamente la loro storia— debba essere disponibile a riconoscere loro
un animo e un cuore capaci di lasciarsi muovere a mete ideali con più generosità e realismo di quanto capita sovente a noi stessi. ».
Successivamente un approfondito tratteggio della nascita di
un’epoca cristiana è stato inserito da Isabella Gualandri, già libera docente in Filologia greco-latina nel 1971, una studiosa che ha sempre
studiato la politica, la cultura e la religione nell’impero romano (secoli
IV–VI) tra oriente e occidente. Su questo omonimo argomento, insieme
a Fabrizio Conca e Giuseppe Lozza, sarà negli Atti del II Convegno dell’Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli, M. D’Auria, 1993.
Ordinaria di filologia classica nel Dipartimento di Scienze dell’Antichità nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi
di Milano, è stata Direttore dell’Istituto di Filologia Classica della stessa Università Statale nel periodo 1983-1985 e e 1990-1996. Aveva già
affrontato la Letteratura cristiana e pagana proprio relativamente a Gli
aspetti dell’impero romano cristiano da Costantino a Giustiniano. Esperta
dell’interazione fra cultura pagana e cultura cristiana fra IV e V sec.
d.C., ha studiato Ambrogio, Simmaco, Ammiano Marcellino, Claudiano, Prudenzio, Avieno, Draconzio, e aspetti generali della letteratura
dell’epoca, restando una guida indiscussa per le generazioni che si sono
formate alla sua scuola. Per il suo dotto intervento si rimanda agli Atti
ufficiali del Convegno.
I. Gualandri,
La nascita
di un’epoca
cristiana.
Paola Francesca Moretti prende le mosse da una una stele fu- P.F. Moretti,
neraria frammentaria, conservata nella città di Autun, l’antica Augu- Le “Laudes
stodunum, proveniente dal cimitero di Saint Pierre, nella quale si sono Domini”
conservati i piedi di due figure ormai irriconoscibili e un testo anch’esso
frammentario: la dedica di un marito alla moglie defunta, piissima e
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
castissima. Due sposi cristiani originari della regione degli Edui, presumibilmente Augustodunum o la regione circostante, e morti in momenti
diversi e alla morte del marito sepolti insieme, forse proprio in questo
cimitero da cui proviene questa stele. Un’immagine, questa, del tutto
pertinente con l’esame di un testo, le Laudes Domini, primo vero testo
di poesia cristiana, come sostiene il Bardi nel suo studio del ’33- ’34,
se si prescinde da un’altra opera, di Commodiano, però, di incerta datazione. Il testo negli ultimi anni ha conosciuto una discreta fortuna.
Ora è anche disponibile in italiano con introduzione, testo, traduzione
e commento a cura di Aniello Salzano, Laudes Domini (poemetto di un
anonimo del IV sec), per i tipi dell’Arte Tipografica, Napoli, 2001.
Il suo titolo è Laudes domini cum miraculo qui accidit in eduico,
quindi un miracolo che accadde nella regione degli Edui.
Breve riassunto del testo. 148 esametri di buona fattura, metricamente corretti. Potrebbe trattarsi di un poeta allievo delle celebri scuole
di retorica di Augustodunum, capitale degli Edui. Il carme è costituito
da tre parti di lunghezza piuttosto ineguale. La prima parte contiene
il racconto del miracolo. La seconda è una parte innica a Cristo. Nella
terza parte è chiamato in causa Costantino.
La prima parte abbraccia i primi 31 versi. In esordio la domanda fondamentale a cui il testo intende rispondere: Chi si lamenta che sia
data tardiva ricompensa della virtù, chi si lamenta che le promesse di Dio
procedano con passo lento, chi misura l’urna del Giudice eterno con una
misura umana e ritiene troppo lento ciò di cui i secoli sono debitori ? La
nobile gloria di un fatto grandioso testimonia come si avvicini velocemente
il giorno che dia la ricompensa ai meriti. Un esordio trionfante. Poi la
narrazione del miracolo: Là dove quasi stagnante l’Arar lento dispiega a
fatica il suo corso che a lungo resta pigro, là dove nasce la stirpe degli Edui
fratelli a Remo, là io ricordo un’unione coniugale di somma pietà e fede e
la legge divina accresceva il merito dell’amore e il desiderio comune a entrambi di precedere l’altro nella morte e di affidare al pio dolore dell’altro
la cura del sepolcro. Per primo il decreto divino scelse la moglie. Allora
l’uomo desolato ordina che dopo la morte si scavino con ampia aperture
rocce che diventino ospitali per le membra, affinché coloro i quali da vivi
un solo letto aveva accolto secondo il comando di Dio un comune tumulo
li consoli e accolga ciascuno al suo giungere unendoli con un patto eterno.
La sposa presaga comprese il desiderio del marito e conquistò un grande
miracolo per quei tempi casti, infatti, mentre le braccia vengono congiunte
alle membra defunte e vincoli ripetuti stringono le mani al tronco, affinché
non accada che essendo separate quelle membra da cui sono stati compiuti
i compiti della vita si verifichi scomposto movimento, in questo momento
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
allora, prodigioso a dirsi, nel tempo in cui la sua vita è compiuta e il marito
è da unire alla compagna nella sede prevista, dopo che per la morte del
marito si è riaperta la porta della morte e una luce sgradita ha scoperto l’orrenda dimora, la donna è sorpresa mentre tende la mano sinistra invitando
il compagno con un gesto di vivo amore.
Questa la narrazione del miracolo. Poi, fino al verso 142 un
lungo inno a Cristo che viene chiamato in causa con una serie di interrogative: quale autore di questo miracolo e artefice di questa temporanea
resurrezione della sposa. Una prima parte fino al verso 85, descrive l’operato di Cristo nella creazione affianco del Padre, poi i versi 86–88 con il
topos delle mille lingue segnano funzionalmente il passaggio a un altro
tema. I versi successivi, fino al 142, toccano l’incarnazione di Cristo, i
suoi insegnamenti e miracoli; in particolare la resurrezione di Lazzaro,
la resurrezione di Cristo, la sua discesa agli Inferi, l’Ascensione, il Giudizio finale. Il tutto in un numero piuttosto contenuto di esametri. L’ultima parte, vv. 143–148, una preghiera rivolta a Cristo per Costantino:
Ma tu, ora, Cristo quel Costantino che è signore per meriti, padre per pietà,
clemente nell’esercitare il comando, maestro della legge nel vivere, equo
per i suoi provvedimenti che la legge da Te stabilita sancì, quel Costantino
possa tu farlo vincitore e lieto. Migliore di questo frutto nulla tu desti alle
terre, né darai. Possano i suoi discendenti eguagliare il padre.
Per la datazione di questo carme si è detto molto, ma Paola F.
Moretti, riassumendo ogni ipotesi, opta per un tempo antecedente la
definitiva sconfitta di Licinio, perché ci si augura un Costantino victor,
quindi prima del 323–324 e sicuramente anche prima del 326, che è la
data in cui Costantino elimina il figlio Crispo, perché chiamarlo proprio pietatis parens dopo la morte del figlio, sarebbe stato un po’ imbarazzante.
La struttura argomentativa del carme, composito, è molto organica e intessuta da fili tematici tutti costantiniani in senso lato:
— elogio degli Edui, popolazione che nel 311 si stringe in legame con
Costantino durante la sua visita ad Augustudunum con la fioritura della leggenda che qui il vescovo, Rettcio, aveva insegnato a Costantino i
fondamenti della fede cristiana;
— morale matrimoniale, benché in sé tema non specificamente cristiano,
perché l’elogio dell’unicità del matrimonio è anche romano, pagano, è
però tema consono all’età costantiniana ed esegetico dello spunto narrativo con cui il carme si apre.
— parallelismo Cristo–Costantino: Dio–dominus, Costantino–dominus,
entrambi padri pietosi e maestri di vita; da qui la sacralizzazione della
figura imperiale, niente di più costantiniano.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Il testo nel suo complesso resta però piuttosto sfuggente circa il
genere di appartenenza e di destinazione: la liturgia? la corte? e letto a
chi ? Una studiosa ha ipotizzato che il destinatario implicito del carme
sia proprio Costantino, ma le Laudes Domini appaiono più in generale
come il tentativo del cristianesimo di appropriarsi e di adattare ai propri
scopi, ai propri propositi, l’eredità letteraria e retorica del passato pagano. Non sono mancati studi per provare il rapporto con Lucrezio, con
Virgilio e soprattutto con Ovidio. Ipotesi quest’ultima particolarmente
cara a Paola F. Moretti. Qui, infatti, trovano corpo e l’appropriazione
e l’adattamento. In questa direzione andrebbero le immagini del lento
corso dell’Arar e del popolo degli Edui fratelli di Remo. Il lento Arar, il
fiume e la fraternitas fra Edui e romani sono due topoi letterari attestati
in Giulio Cesare e nei panegirici latini, ove si arriva a sottolineare l’orgoglio patriottico gallico, fratello, però, dei romani. Anche all’interno
del miracolo ci sono molti elementi che richiamano a un sostrato culturale gallico: per esempio il fatto che la moglie saluti il marito sollevando
la mano sinistra.
In più, il miracolo di quei due sposi assomiglia molto da vicino
a una storia raccontata nel cap. 74 del De gloria confessorum di Gregorio
di Tours [538 ca.–594], attribuita da Gregorio alla vicenda biografica di
Reticio, il vescovo prima ricordato. Secondo questa storia, Reticio, prima di essere vescovo, era un giovane nobile e colto di Augustodunum.
Aveva sposato una donna, con cui viveva castamente le nozze. La moglie
morì prima di lui, dopo avergli chiesto che lui poi si facesse seppellire
con lei al momento della morte. Dopo la morte della moglie Reticio fu
eletto vescovo. Giunto al termine della sua vita, preparato il feretro per
essere deposto nella tomba, il feretro risultò inamovibile: non fu cioè
possibile per i cittadini trasportarlo dove pensavano loro, in un posto
diverso dal sepolcro della moglie. Il feretro resisteva immobile. Alla fine,
un anziano che aveva presenziato alla morte della moglie e ricordava,
fa presente che quel feretro doveva essere sepolto insieme a quello della
moglie. Allora finalmente il feretro si mosse. Quando il corpo del marito
raggiunse il sepolcro, il marito si svegliò temporaneamente, salutò la
moglie e si riaddormentò. Con lei fu sepolto.
Altro elemento ricorrente: nel De gloria confessorum di Gregorio
di Tours ci sono altre due storie che ricordano questa stessa vicenda.
1. — La prima, ambientata a Clermont-Ferrand al tempo del vescovo Nepoziano, sarebbe accaduta intorno agli anni 80 del IV sec.. Il protagonista si chiama Iuniuriosus, senatore della città. I due sposi sono nobili
e ricchi. Vivono le nozze castamente. Quando lei muore lui le rivolge un
discorso funebre nel quale rivela a tutti che i due hanno vissuto le noz-
60
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
ze castamente. A quel punto lei si sveglia e, sorridendo, lo rimprovera
amabilmente dicendogli: « Ma perché hai svelato a tutti questo che era un
nostro segreto? » e si riaddormenta. Lui muore poco dopo e anche allora
accadde un miracolo. I due che erano stati sepolti a breve distanza, eppure, presto, i due sepolcri miracolosamente vennero ritrovati riuniti.
Questa storia dei due amanti è raccontata da Gregorio una volta nella
Historia Francorum e un’altra volta nel De gloria confessorum.
2. — Nella seconda storia, sempre raccontata nel De gloria confessorum, è
il marito a premorire alla moglie. Dopo un anno muore anche la sposa
e, all’arrivo di lei nella tomba, lui si risveglia e la abbraccia con la mano
destra
Si tratta di quattro storie dalle indubbie affinità, che raccontano di sposi casti ricongiunti dopo la morte. È parso dunque fondato a
Paola Francesca Moretti ipotizzare la cristianizzazione di una leggenda
gallica, molto diffusa localmente e per la quale le Laudes Domini segnano solo l’inclusione nella tradizione cristiana. Controprova: se nel De
gloria confessorum appaiono molti elementi narrativi di origine gallica,
presenti sono anche tanti tratti linguistici gallici, come le molte glosse
galliche conservate da Gregorio. Una di queste glosse è il nome del cimitero dove Reticio e altri vescovi sono stati sepolti, e del cimitero di St.
Pierre.
Paola Francesca Moretti ritorna dunque alla citazione di quella
stele funeraria frammentaria iniziale, per ribadire il carattere dominante della cristianizzazione inclusiva testimoniata dalle Laudes e propone
di proseguire gli studi in rapporto anche al processo di scardinamento
dei generi tradizionali con il De mortibus di Lattanzio in un’area culturale e geografica dell’Impero, in cui fu determinante la presenza e il
ruolo di Costantino.
Con l’intervento di Aldo Rossi, ...ἐν τῇ καθολικῇ ἐκκλησίᾳ, ᾖ
Καικιλιανὸς ἐφέστηκεν (Eusebius, H.E. 10, 7, 2): le ripercussioni africane
dell’opzione cattolica di Costantino, le coordinate spazio temporali ci
fanno ritornare in Africa, nelle provincie dell’Africa romana, a seguito
dei provvedimenti presi da Costantino in materia di politica religiosa
nelle immediate vicinanze della vittoria di Ponte Milvio.
Dopo il 28 ottobre del 312 e prima del 15 aprile del 313.
Se il terminus post quem è di immediata evidenza, in quell’inverno che fa da ponte tra il 312 e il 313, è da quella data che Costantino
diventa Signore anche delle Provincie d’Africa prima governate da Massenzio.
Il terminus ante quem, il 15 aprile del 313, è determinato dalla
61
A. Rossi,
... ἐν τῇ
καθολικῇ
ἐκκλησίᾳ, ᾖ
Καικιλιανὸς
ἐφέστηκεν
(Eusebius,
H.E. 10, 7, 2):
le ripercussioni africane
dell’opzione
cattolica di
Costantino
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Relatio Anullini, con cui il nuovo Proconsole d’Africa, nominato da Costantino per attuare la nuova politica religiosa, riferisce all’Imperatore
le conseguenze delle applicazioni di questi suoi primi provvedimenti e
allega a questo suo rapporto la cosiddetta Supplica dei vescovi Donatisti,
che chiedono di ripensare i termini di questa politica.
Le comunità cristiane d’Africa avevano subìto con particolare
durezza le persecuzioni dioclezianee, avevano già sperimentato tensioni
laceranti. Il frutto avvelenato ne è la contemporanea consacrazione di
due vescovi concorrenti sulla cattedra più importante, per storia e per
prestigio, dell’intera Africa, cioè la cattedra di Cartagine.
Non siamo in grado di ricostruire quanto questo scisma interno
alla Chiesa di Cartagine potesse aver proiettato i suoi laceranti effetti
all’interno delle comunità nel resto dell’Africa. Né può essere ricostruita
quale fosse la cognizione della situazione sul terreno che potessero averne l’amministrazione di Massenzio o la Cancelleria di Costantino alla
vigilia di Ponte Milvio. Rossi fa questa distinzione perché nel momento
in cui Costantino decide di prendere in mano la situazione africana,
e questo momento è precedente all’invio di Anullino come Proconsole
in Africa, dimostra di avere già elaborato un suo progetto di politica
religiosa africana. Ma noi non sappiamo cosa Costantino sapesse della
situazione africana.
Nei provvedimenti di Costantino di quell’inverno fra il 312 e il
313 ci sono tracce che ci permettono una prima approssimativa risposta. In primo luogo le tensioni interne alla Chiesa cartaginese sono conosciute da Costantino, che vi fa esplicito riferimento. In secondo luogo
le istruzioni di Costantino sono indirizzate al Proconsole Anullino, la
cui autorità si estende su Cartagine e sulla Provincia proconsolare, ma
anche al vice-prefetto del Pretorio per l’Africa, la cui autorità si estende
su tutte le altre provincie africane. Le tensioni, quindi, si erano propagate lontano da Cartagine.
L’oggetto dei primi provvedimenti imperiali in materia di cristianesimo riguardano la concessione di donativi o benefici ai vescovi
africani con la precisa e chiaramente delineata volontà di limitarne il
godimento soltanto a quei vescovi che fossero chiaramente riconducibili a una Chiesa che l’Imperatore, a più riprese, definisce esplicitamente
‘cattolica’ e il cui paradigma viene individuato, non nella semplice comunione con uno dei due contendenti sulla cattedra cartaginese, Ceciliano, ma nella sottomissione a lui. Si noti che un destinatario di uno di
questi provvedimenti non sta nella comunione con Ceciliano. Rossi ha
tratto da una frase di Costantino, conservata in traduzione greca da
Eusebio, il titolo della sua relazione: la Chiesa cattolica che è sottoposta
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
a Ceciliano o di cui Ceciliano è capo. Altri provvedimenti di Costantino
utilizzano definizioni simili. Le istruzioni contenute in una di queste
lettere erano state impartite al Proconsole e al Prefetto del Pretorio in
presenza dell’Imperatore prima della partenza per l’Africa. Anullino
era stato nominato alla vigilia di Ponte Milvio, Praefectus urbis da parte
di Massenzio, conserva questa carica fino al 28 di novembre del 312. La
sua entrata come Proconsole di Cartagine è posteriore a questa data, la
fine di novembre, tempo in cui la navigazione per l’Africa è già normalmente interrotta. Lo troviamo sulla scena quando scrive la sua relazione il 15 aprile del 313; l’arco di tempo nel quale può avere ricevuto le
istruzioni va dalla fine del novembre del 312 al 18/19 gennaio del 313,
ultima data di permanenza di Costantino a Roma.
Le modalità d’intervento sono dunque decise da Costantino prima dell’arrivo in Africa dei suoi funzionari a Cartagine, sede d’inizio
dello scisma. Nel momento in cui il proconsole Anullino prende possesso della propria sede, sono già in carica due vescovi contendenti, Ceciliano, con cui si schiereranno la Chiesa di Roma e le chiese transmarine
—la Chiesa in comunione con lui in Africa prenderà la denominazione
di ‘cattolica’— e Maggiorino, rapidamente sostituito da Donato il Grande, che diverrà l’eponimo della Chiesa che a lui fa riferimento, la chiesa donatista.
Le gerarchie religiose di Cartagine sono irrimediabilmente separate. Due comunità concorrenti esprimono le proprie strutture organizzative, con le proprie cattedre episcopali e le proprie basiliche. Le lettere di Costantino dimostrano che egli fosse chiaramente a conoscenza
non solo del conflitto intra-ecclesiale africano, ma anche dell’esistenza
ormai assestata di due gerarchie concorrenti.
La lettura gerarchizzante della realtà ecclesiale africana nella
particolare situazione di quell’anno corrispondeva non solo al progetto
costantiniano, ma anche a una tendenza presente nelle chiese d’Africa.
Prima di questa fase le informazioni che abbiamo risalgono al mondo
che ruota attorno a Cipriano di Cartagine alla metà del III secolo e con
una felice immagine la chiesa africana è stata definita una federazione
di chiese con a capo, per prestigio ma non per autorità, per autorevolezza ma non per autorità, il primate di Cartagine. Da qui a fare
del primate di Cartagine, come fa Costantino, il capo a cui i sottoposti
devono dare asseverazione di fedeltà, il passo è decisamente forte. La
conferma più esplicita di questa interpretazione è offerta dalla risposta
di Anullino del 15 aprile del 313, nella quale il proconsole, dopo aver
riunito Ceciliano e i vescovi a lui sottoposti, ottiene da loro formale assicurazione del rapporto di comunione mantenuto con Ceciliano stesso.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Asseverazione inserita nei verbali della riunione, che Anullino trasmetterà all’Imperatore. Nella sua relazione Anullino inserisce anche altre
informazioni. Pochi giorni dopo, accompagnati da gran moltitudine,
si sarebbero presentati al suo cospetto alcuni individui che egli non
specifica ulteriormente. Li chiama quidam. Dai documenti allegati alla
relazione, però, risultano essere vescovi della parte di Donato. Chiedono che una serie di documenti siano inoltrati all’Imperatore. Anullino
non qualifica questi soggetti, ma la supplica, che viene allegata a questo
documento —e che a noi è trasmessa da Agostino— specifica quale fosse
il problema sul campo e per quale motivo ci si rivolga all’Imperatore.
Vengono richiesti judices terzi, dalla Gallia, perché, in Africa, inter
nos sono in corso dei contenziosi legali. In termini giudiziari si contesta a Ceciliano la titolarità della basilica episcopale e tutto ciò che ne
consegue. All’inizio del IV secolo e nel corso di tutto il IV secolo era in
atto una sorta di macchina di costruzione identitaria: chi possiede la
basilica è il vescovo titolare. Questo spiega gli assalti alle basiliche, che,
in quel secolo, si verificano sia nella Milano ambrosiana sia nella Roma
damasiana, sia nell’Alessandria atanasiana. Ora, il fatto che i vescovi
presentino questa richiesta specificando le contentiones dimostra che
queste contese sono diffuse in Africa e investono l’autorità cittadina
con una serie di azioni legali intentate di fronte alle autorità municipali
sparse in diverse città dell’Africa. Quello che Rossi fa notare, di specifico, è che la richiesta di una condanna o di una comunione è funzionale al dibattito interno delle chiese africane, ma non è una richiesta
d’intervento dall’esterno. Il salto di qualità nel conflitto fu imposto dall’iniziativa imperiale: l’aver individuato in Ceciliano il referente esclusivo per gli affari ecclesiastici in Africa, comportò conseguenze forse
impreviste, ma in primo luogo il meccanismo dei donativi e la pressione
delle autorità compattarono attorno a Ceciliano una solidarietà ecclesiale di cui, forse, fino ad allora non aveva goduto. Non sarebbe stato
altrimenti necessario che fosse Anullino a chiedere la dichiarazione di
comunione di unità con Ceciliano. In secondo luogo, però, compattano
anche l’opposizione donatista che era dispersa nei rivoli dei conflitti
a livello locale. La visione cattolica di Costantino dimostra d’interpretare le gerarchie ecclesiastiche secondo il modello di quelle secolari; è
solo attraverso il filtro del riconoscimento di Ceciliano che è consentito
ai vescovi africani di accedere alle regalie e alle donazioni e esenzioni
offerte dall’Imperatore. Però l’atteggiamento di Costantino evidenzia
anche l’atteggiamento che va ben oltre la mentalità di un tradizionale
imperatore romano: non viene richiesta solo una sottomissione di carattere gerarchico, ma il riconoscimento di un rapporto di comunione. Si
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
parla di unità con un linguaggio che appartiene al linguaggio ecclesiologico. A quale titolo questo rapporto poteva interessare l’imperatore?
La richiesta, di cui Anullino si fece portavoce ed esecutore, denota in
primo luogo una conoscenza precisa di questo fondamentale elemento
di coesione della chiesa e della sua importanza, ma in secondo luogo dimostra di quale genere dovesse essere la chiesa con la quale Costantino
entrava in rapporto e, infine, dimostra anche una conoscenza abbasta
precisa del contesto ecclesiologico in Africa.
La contestazione donatista si tradusse nell’invio di prove che
avrebbero dovuto dimostrare l’usurpazione di Ceciliano sulla cattedra
cartaginese. Tutto contenuto nella supplica che richiedeva gli judices
de Gallia. La risposta di Costantino fu la nomina di una commissione
episcopale, talora detta Concilio di Roma, dell’ottobre del 313. Quindi
non una commissione di vescovi che vada a Cartagine ad esplorare i
motivi del contendere, ma un ambito che pretenda di riprendere in
esame la posizione di Ceciliano. Tutto finirà con l’assoluzione di Ceciliano, l’affermazione della comunione delle trasmarine con Ceciliano e
la condanna dei donatisti.
La scelta di Costantino risponde a un lucido disegno:
— nessuna delle dispute locali riceve l’attenzione degli arbitri da lui
nominati;
— la soluzione del problema consiste nell’individuazione di quale dei
due vertici cartaginesi è in comunione con le altre chiese trasmarine;
— ai vescovi africani dichiaratisi in comunione con Ceciliano viene riconosciuto il possesso delle basiliche.
Se nell’aprile del 313, data della Relatio di Anullino, il conflitto
si presentava ancora come una questione non solo limitata alle provincie locali, ma a contesti africani, già nell’ottobre, dopo il Concilio di
Roma, essa s’era trasformata in un problema in cui erano coinvolte le
chiese di Gallia e d’Italia. Poi avremo il Concilio di Arles del 314 e poi
le inchieste ordinate da Costantino.
In conclusione pare a Rossi poter riconoscere nel piano di Costantino i tratti di una chiesa che si fa cattolica, non solo per la sua
aderenza alla legge o per la sua espansione geografica, ma soprattutto
per la sua adesione a un modello universalistico che corrisponde al
programma di restaurazione e rinnovamento politico in corso di dispiegamento. Il modello universalistico spinge Costantino a proporre per
lo scisma africano una soluzione che risolva le crisi locali, attraverso
un processo d’inserimento e uniformazione in una unità più ampia garantita da una teologia del potere, che dispiega la propria protezione
sull’ecumene. Dunque, la chiamata in causa dell’episcopato italico e
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
gallico costituisce lo strumento pensato per operare l’universalizzazione
della soluzione, sperimentato nella crisi donatista. Con ben altra forza
e numeri verrà riproposta ad Arles e soprattutto a Nicea. Il tentativo
di universalizzazione in Africa è parzialmente fallito, perché ha avuto
una conseguenza imprevista: le dispute di carattere locale, che sino ad
allora erano dibattute davanti alle corti cittadine, assurgono a dispute
di carattere universalistico, ben colto dalle gerarchie donatiste, già nella
supplica del 313, quando venne richiesto un arbitrato complessivo, benché pur sempre di carattere civilistico, che tutte le contempli. Fu merito
dell’accelerazione imposta da Costantino se lo scisma africano, ancora
frammentato in una serie di conflitti locali, poté saldarsi in un impianto unitario capace di generare una chiesa alternativa, la cui lunga durata è, tra le altre concause, motivata proprio dalla salda organizzazione
che, sia pure in un’ottica fondamentalmente afrocentrica, rapidamente
assimila la pretesa cattolica del primo Imperatore cristiano.
G. Pellizzari,
Immagini di
Costantino.
Il nuovo
Impero
e la fine della
iconografia
paleocristiana
L’esser divenuta controversa la politica religiosa di Costantino
ha finito per compromettere la continuità delle sue raffigurazioni, tema
questo approfondito da Gabriele Pellizzari nella sua relazione: Immagini di Costantino. Il nuovo Impero e la fine dell’iconografia paleocristiana.
La storiografia lo ha abitualmente considerato una cesura nella plurimillenaria storia della Roma antica e questo ha pesato sul rapporto tra
Costantino e l’iconografia.
C’è una manualistica definizione di rinascenza costantiniana
per classificare la propensione dimostrata da Costantino I a proporsi
come restauratore del principato augusteo, la cui inclinazione a sfruttare il potere delle immagini è un fatto ben conosciuto. Anche Jonathan
Bardill, Costantino l’imperatore divino dell’età d’oro cristiana, Cambridge
University Press, 2012., pur segnalandosi come uno dei più intelligenti
lavori dedicati alla figura di Costantino, ancora si spende nel solco
della religio più ancora che della maiestas. La produzione artistica del
principato costantiniano, la sua azione e il suo manifesto sono sempre
in continuità con la manifestazione dell’ideologia del principato. Il primo imperatore cristiano con al vertice, nel cuore della capitale del suo
Impero, la propria raffigurazione in posa e in figura solare, è ben più
di un compromesso con la tradizione, se si pensa che nel suo trionfo a
Roma si rifiutò di giungere fino alla statua di Giove Ottimo Massimo.
La valutazione dell’iconografia costantiniana risente della luce
iniziale su quel principato tratteggiata da Eusebio di Cesarea. Il maestro di Pelizzari definiva Eusebio testimone tendenzioso, di conseguenza
è difficile stabilire se fu Costantino a voler raffigurare la propria reggia
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
quasi come una basilica cristiana o viceversa fu la basilica cristiana a
modellarsi come la casa del primo imperatore cristiano.
In effetti Costantino è per noi una sorta di personaggio di comodo che ci guida lungo una immaginaria cronologia delle origini cristiane. Costantino segnerebbe cioè un cambio di passo più che nella
storia dell’Impero, nella storia delle origini cristiane e la sua influenza
non può essere ricondotta solo al suo arco biografico, ma deve di necessità estendersi alla sua pervasività culturale. Il principato costantiniano
mutò la cultura cristiana anche influenzando l’arte delle comunità cristiana. Con Costantino il cristianesimo diventa un’occasione per scalare
le posizioni entro quella burocrazia tardo antica di cui l’Imperatore si
serviva. Quell’alleanza, se non conversione, che sicuramente Costantino
contrasse con le diverse comunità cristiane si dimostra immediatamente vantaggiosa per inserirsi nei ranghi della gestione dell’Impero. Ne
abbiamo una testimonianza preziosa: l’Ipogeo della Catacomba della
Via Latina, nel quartiere Appio-Latino, di cui le fonti antiche tacciono
totalmente e che fu scoperto per caso agli inizi del 1955 durante gli
scavi per le fondazioni di un nuovo palazzo. La sua scoperta fu tenuta
nascosta fino alla fine dei lavori di costruzione del palazzo sovrastante
e questo provocò danni alle pitture e alle strutture della catacomba,
causati sia da improvvisati tombaroli che dalle gettate di cemento armato. Solo a novembre di quell’anno l’ingegnere Mario Santa Maria
denunciò il ritrovamento della catacomba alla Pontificia Commissione
di Archeologia Sacra. Fu incaricato padre Antonio Ferrua di visitare gli
ambienti e si rese subito conto dell’eccezionalità della scoperta: la catacomba fu sterrata nei mesi successivi, ed i lavori si conclusero nel giugno
del 1956. L’ipogeo, di diritto privato, fu scavato per ospitare le tombe
di una o più famiglie imparentate tra loro, i cui membri non erano ancora tutti passati alla fede cristiana: questo aspetto si evince dal fatto
che la catacomba conserva molte pitture con soggetti pagani, e non solo
cristiani. La catacomba ebbe una vita breve, circa cinquant’anni, dagli
inizi del IV secolo fin verso il 350-360 d.C. Non si conoscono i nomi
delle famiglie lí sepolte. La catacomba si sviluppa su un solo livello: due
gallerie parallele tra loro, distanti circa 18 metri, attraversate perpendicolarmente da un’altra galleria, che termina con una serie di cubicoli
e cripte interessanti dal punto di vista pittorico ed architettonico. L’antico ingresso è oggi ostruito da una sovrastante e recente costruzione; si
accede all’ipogeo da un tombino posto nel marciapiede in via Latina.
Leonella De Santis riferisce l’affermazione, secondo la quale per molti
studiosi dell’arte paleocristiana questo ipogeo, per la ricchezza delle sue
decorazioni, rappresenta una vera e propria “pinacoteca del IV sec.”:
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
« Nei sotterranei l’atmosfera è magnetica, l’emozione è grande. I
colori, luminosi, avvolgono il visitatore con caldi toni rossi, bruni e violacei, con chiare pennellate gialle, ocra, arancione e vibranti tocchi azzurri,
verdi e grigi: le scene dipinte, oltre un centinaio, rimbalzano da una parete
all’altra creando un caleidoscopio variopinto e variegato… A ragion veduta viene definita dagli studiosi la “pinacoteca del IV secolo”… » (De Santis
L. - G. Biamonte, Le catacombe di Roma, Newton & Compton Editori, Roma 1997,
pp. 281-289). Le pitture ricoprono nella loro totalità le pareti dell’ipogeo,
ritraggono scene con temi pagani, che si alternano ad altre tratte dal
repertorio cristiano, sia vetero che neotestamentario. L’iconografia che
noi qui troviamo è di natura decorativa, cioè non sviluppa un progetto,
ma si limita a riempire ogni spazio, questo è segno di quell’accesso nelle
comunità cristiane di un gran numero di neofiti che fino al tempo delle
persecuzioni, sicuramente non partecipavano ad esse. Questo è un dato
di grande rilievo perché segna innanzitutto un cambio di prospettiva
interno alla comunità, non tanto ingiunto dall’esterno.
Un tema rilevante è la scomparsa della raffigurazione del Buon
Pastore nel panorama dell’arte paleocristiana. Se è vero che Costantino porta una propria iconografia e con lui s’inseriscono nuovi temi, è
anche vero che viene meno ciò che c’era prima. Se la catacomba di via
Latina ci permette di vedere il passaggio da un’iconografia codificata, a
un’iconografia che decora lo spazio in senso sontuario, allora si osserva
non tanto l’ingresso di nuovi temi, quanto l’abbandono dei precedenti.
Il Buon Pastore dell’aula sud di Aquileia rappresenta un’evoluzione peculiare della grande tradizione iconografica pre-costantiniana, perché
illustra anche una particolare declinazione sinottica di questa figura: il
Buon Pastore, quando trova la centesima pecora, se la carica sulle spalle
e, lieto, fa ritorno alla casa del padre. Qual’è la casa che nella parabola
viene sinteticamente richiamata? Il cielo: così vi dico vi sarà più gioia
nei cieli per un peccatore che si ravvede et cetera. Quest’iconografia per
quanto sovvenzionata, forse anche da Costantino, è il prodotto della
comunità e infatti rispecchia una tradizione precedente di marca sicuramente giudeo-cristiana, precedente alla rivoluzione che Costantino
portò.
Pelizzari passa poi ad illustrare un’immagine meno felice per
resa, ma molto importante: il così detto Pastore dall’abito singolare. Ancora nell’alveo del Buon Pastore, ma in abbigliamento non più bucolico, perché si avvicina a quello della tradizione imperiale. A Ravenna,
poi, si trova una delle ultime permanenze della raffigurazione del Buon
Pastore. Qui, del Buon Pastore, rimane solo la posa; l’abbigliamento è
quello imperiale: il drappo purpureo, l’abito color oro. Siamo quindi
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
arrivati al trasferimento, nel contesto paradisiaco, dell’iconografia imperiale.
Un passo ulteriore segna la fine decisiva di questa prospettiva:
la cappella di S. Andrea nel Palazzo arcivescovile, in cui del Cristo buon
pastore non resta più nulla, ma ormai solo il Cristo, non solo Imperatore, ma addirittura comandante d’armi. Si richiama qui una categoria storica innovativa: la Chiesa con Costantino trasforma se stessa
da un’entità che si difendeva ad un entità proiettata a fronteggiare il
mondo, per conquistarlo. In origine, invece, il Buon Pastore aveva la
funzione di difender un gregge, non di aggredire i ladri.
La prospettiva che l’iconografia ci fornisce è quella di un mutamento recepito al suo interno, sino in profondità. Ma l’iconografia ci
attesta anche la resistenza a questo mutamento, come può desumersi
dall’analisi di un ultimo sarcofago, proposta da Gabriele Pelizzari, dove
la corte apostolica è raffigurata nell’atto di disporsi ai lati della croce.
È un sarcofago del pieno IV secolo e riassume, già a prima vista tutti gli
stilemi dell’iconografia imperiale, ponendo un accento che dà la misura
di una resistenza e di una permanenza a questo quadro teologico e politico. Il Pelizzari insiste a far notate i volti degli apostoli, suddivisi da
stelle: dato significativo, perché dettaglio del trasferimento della corte
dalla somiglianza con la Gerusalemme terrena, a quella che invece resisteva nella coscienza delle comunità cristiane come attesa e speranza
della propria fede: la Gerusalemme celeste.
Nota
del
Curatore
Per leggere ed apprezzare i risultati che posson derivare dai lavori di questo
Convegno, pienamente disponibili, anche con ogni supporto iconografico, solo
al momento della pubblicazione degli Atti, vorrei far presente al Lettore che,
specie in riferimento all’ultima relazione appena trascorsa, di Gabriele Pelizzari, sia possibile assistere ad un passaggio della stessa impostazione storiografica.
Nel vivo della ricerca e a testimonianza di tale mutamento di prospettiva vorrei
qui ricordare che è in atto un vero e proprio superamento dei canoni illuministici sinora qui invalsi e relativi alla storia e alla critica dei beni artistici, musicali
e dello spettacolo, specie nel punto in cui le arti si intersecano e compenetrano
con le manifestazioni e con la coscienza del sacro.
“Il momento costantiniano e le forme culturali cristiane: tra continuità misterica e sviluppo rituale” è stato il tema illustrato da Cesare
Angelo Maria Alzati, ordinario nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano, dove tiene l’insegnamento di
Cultura e Istituzioni del Medioevo Europeo. Per i suoi studi sullo spazio
religioso romeno l’Università “Babeş-Bolyai” di Cluj gli ha conferito il
dottorato h.c. in Storia e lo ha nominato Direttore onorario dell’Istituto di Storia Ecclesiastica, cui afferiscono, oltre alla Facoltà di Storia e
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C. Alzati,
Il momento
costantiniano
e le forme
culturali
cristiane: tra
continuità
misterica
e sviluppo
rituale.
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Filosofia, le Facoltà Teologiche: Ortodossa, Greco-Cattolica, Riformata,
Romano-Cattolica; membro delle Classi di Studi Ambrosiani, di Studi
Borromaici e di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana, è inserito nei
Comintati Scientifici di diverse riviste, tra le quali la “Rivista di Storia e
Letteratura Religiosa” di Torino e “Transylvanian Review” del Centrul
de Studii Transilvane di Cluj. Studioso della tradizione ambrosiana,
anche nelle sue forme rituali, è membro della Congregazione del Rito
Ambrosiano e fa parte del Comitato Scientifico della Collana vaticana
“Monumenta, Studia, Instrumenta Liturgica”.
L’analisi di C. Alzati si è sviluppata in ordine al tema, ma anche
in ordine alla peculiarità delle celebrazioni costantiniane nel tempo.
L’enfasi con cui fu celebrato l’anniversario costantiniano nel
1913, dopo che Otto Seek, nel 1891, aveva autorevolmente contraddetto l’opinione che nel 313 vi fosse stata a Milano la promulgazione di un
Editto, lascia chiaramente intravvedere la dimensione ideologica che
nel contesto politico culturale del tempo la rievocazione della figura di
Costantino era venuta assumendo e il valore emblematico di cui in tale
contesto era stato caricato il discusso Editto di Milano.
Nel quadro dell’opera enciclopedica dedicata a Costantino che
Alberto Melloni ha curato per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e offerta al pubblico proprio in questo stesso mese di maggio [L’Enciclopedia
su Costantino è un lavoro di 150 autori in tre volumi, nel tentativo di ricostruire la vita
e la fortuna dell’imperatore. Si parte dalla vita familiare, per poi ripercorrere le ragioni
della sua fortuna. L’opera va avanti cercando di analizzare il senso del rapporto tra
Cristianesimo e potere, argomento oggi ancora molto attuale], Paolo Siniscalco ha
esemplarmente ripercorso, in un ampio documentato contributo, l’apparire dell’idea di Editto di Milano. e il dibattito che attorno a tale
assunto storiografico si è sviluppato.
Un secolo è trascorso dagli accesi contrasti che proprio qui a
Milano accompagnarono il centenario del 1913 costruito attorno al dibattuto Editto proposto quale modello di libertà religiosa in un’Italia
travagliata dalla questione romana e nel contesto di un’Europa che nel
1905 aveva visto in Francia l’instaurarsi della legislazione sulla laïcité.
Anche nel presente anno costantiniano l’attenzione si è focalizzata sul
disputato Editto e su come quest’ultimo sia stato nuovamente additato quale inizio del tempo della tolleranza. In realtà l’enfatizzazione
dell’anno 313, nei termini di tornante epocale della storia risulta per
molti aspetti problematica. In effetti sia l’anno 313, sia la concezione dell’autorità imperiale e la sua configurazione istituzionale, non
risultano configurabili quale svolta. Non rappresentarono una svolta
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
nemmeno in rapporto al titolo di Pontifex Maximus che Costantino e
i suoi successori continuarono a detenere fino a Graziano. Quanto poi
all’anno 313 esso non può essere considerato l’avvio della libertà di
culto per i cristiani, se fin dall’Editto di Gallieno nel 260 era stato tributato riconoscimento legale alla dimensione istituzionale della chiesa,
ratificandone gli ordinamenti gerarchici e il possesso di beni. Ma pure il
superamento della persecuzione dioclezianea non prese avvio con l’incontro milanese di Costantino e Licinio. Già in seguito all’abdicazione
di Diocleziano e Galerio nel 305, l’ascesa di Costanzo I alla dignità di
Augusto aveva segnato in Occidente la pratica conclusione delle vessazioni contro i cristiani, conclusione che poco dopo sembra aver avuto
anche precisa formalizzazione, sia nelle Gallie ad opera di Costantino,
sia a Roma per iniziativa di Massenzio. Quanto poi all’Oriente la concessione della libertà di culto ai cristiani fu l’oggetto dell’Editto deciso
a Sirmio da Galerio e da questi fatto promulgare a Nicomedia nel 311.
Un aspetto fondamentale delle disposizioni ora ricordate, è la
loro formulazione non come riflesso d’istanze espresse in ambito cristiano, ma quali iniziative prese da imperatori pagani sul fondamento
di principi e idealità, tipiche della tradizione romana. Emblematico il
riguardo all’Editto di Galerio, tutto concepito alla luce della preoccupazione romana e pagana per la salvaguardia dell’ossequio dovuto a ciò
che è divino, principio cui esplicitamente l’imperatore venne subordinando anche i propri personali orientamenti. Scrive Galerio: prima di
questo momento, in verità, noi avevamo voluto ristabilire ogni cosa in conformità alle antiche leggi e alla norma pubblica dei romani e provvedere
affinché pure i cristiani ritornassero al retto sentire, ma poiché in moltissimi
perseverarono nel loro proposito e noi abbiamo constatato che mostravano
la doverosa devozione verso gli dei, celebrandone il culto, rendevano ossequio al Dio dei cristiani, abbiamo ritenuto opportuno accordare loro prontamente la nostra indulgenza affinché di nuovo possano essere cristiani e
ricompongano le loro comunità in modo tale che il loro comportamento in
nulla sia contrario a ciò che è doveroso.
A tale proposito merita osservare come la stessa lettera di Costantino nel 324 alle popolazioni delle provincie orientali per tutelare
nei territori la continuità dei culti pagani, pur evidenziando l’orientamento monoteistico cristianamente connotato dell’Imperatore [Dio
grandissimo attraverso tuo figlio è ricordata a tutti la tua esistenza], non
ha quali argomentazioni fondative enunciazioni di matrice cristiana,
ma viene riprendendo le consuete considerazioni della tradizione ellenistica in merito alla polis, quale ordinamento istituzionale e sociale destinato a riproporre l’articolata armonia del cosmo. Questi chiari
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
indici di continuità, non annullano comunque la percezione che col
momento costantiniano, di fatto, una situazione nuova abbia iniziato
a svilupparsi nell’ecumene romana. Questo, agli occhi di Alzati, non è
una trasformazione programmaticamente perseguita, ma l’inevitabile
conseguenza comportata proprio dalla inalterata continuità della prassi istituzionale romana. Pienamente recepito il Cristianesimo nel contesto istituzionale della res publica, Costantino non poté, quale Imperatore, che integrarne le strutture ecclesiastiche nel quadro dell’Impero,
inserendole negli ordinamenti di quest’ultimo. Non fu fatta violenza
alle precedenti tradizionali forme di vita ecclesiale, ma si diede a esse
una definizione normativa nuova e destinata a stabilizzarsi nel tempo.
Si pensi all’istituto della Provincia ecclesiastica e alla regolamentazione
che in essa trovarono le consolidate modalità di espressione della collegialità episcopale. In tale contesto si istituzionalizzò pure quella provvidente cura nei confronti della Chiesa che, una volta organicamente
inserita la Chiesa stessa nella compagine dell’Impero, venne indubitabilmente a costituire una specifica responsabilità dell’autorità imperiale. Del resto già nel 272 ad Antiochia era stato oltremodo naturale, per
l’episcopato della Regione, al fine di dirimere il proprio contezioso con
il presule locale, rivolgersi all’autorità imperiale del pagano Aureliano,
rimettendo a lui l’assegnazione del luogo di culto cristiano della città.
L’espressione più alta di autorità esercitata da Costantino nei
confronti della comunità cristiana, fu indubbiamente la convocazione
a Nicea del Santo e Grande Concilio, in cui, secondo l’inequivocabile
testimonianza eusebiana, fu l’Imperatore a definire la formula dell’ortodossia trinitaria, tutt’ora professata da tutte le chiese di tradizione
apostolica. Da questa organica integrazione dell’istituzione ecclesiastica nelle strutture dell’Impero scaturì anche quella peculiare forma di
interazione tra magistratura ed episcopato. Questa novità nella continuità vissuta dalla Chiesa Cristiana nel momento costantiniano trova
una manifestazione oltremodo eloquente nell’esperienza e nella prassi
del culto. Un aspetto che ha fortemente caratterizzato l’esistenza della chiesa antica e la sua percezione e auto-percezione quale comunità
cultuale. Per la documentazione al riguardo si pensi alle fonti della
lettera a Traiano di Plinio il Giovane o alla Orazione di Marco Cornelio
Frontone, mentre quanto alle fonti intra-ecclesiali oltremodo eloquenti
risultano testi quali la descrizioni della Chiesa nell’Apologia prima del
filosofo Giustino e opere nelle quali si può trovare una vivida rappresentazione, in una certa misura idealizzata, della vita della comunità.
Siffatta percezione, in termini essenzialmente cultuali, della comunità
cristiana, ha trovato tra II e III secolo un significativo riflesso anche in
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
ambito lessicale. In Clemente Alessandrino e forse anche in Tertulliano, certamente nella lettera del Clero romano a Cipriano, nonché nella
Didascalia in area siriaca, l’edificio di culto cristiano pare designato
in greco, non meno che in latino, con la denominazione stessa della
comunità: Chiesa. Va preso atto del fatto che tale identificazione non
sia venuta meno nelle nuove condizioni giuridico-istituzionali determinate dall’inserimento delle istituzioni ecclesiastiche nell’ordinamento
imperiale, ma, anzi, proprio allora abbia assunto una diffusione generalizzata. In effetti anche nella mutata situazione la comunità ecclesiale non cessò di configurarsi come la comunità degli iniziati ai divini
misteri. Tanto che nell’Illirico il fenomeno lessicale segnalato si viene
riproponendo, seppure con dinamiche inverse come comportava la situazione del IV secolo, dalla denominazione latina dell’edificio di culto: Basilica. Tale coincidenza terminologica presuppone un’esperienza
ecclesiale concreta in cui la chiesa stessa è vissuta quale realtà sociale
e istituzionale, che si alimenta al mystherion, ossia all’azione cultuale
e alla considerazione del mystherion quale momento qualificante della
chiesa che la identifica nel contesto sociale e ne fonda la specificità istituzionale.
Se dunque Costantino dotò la Chiesa di maestosi edifici di culto, a cominciare dalla Basilica Lateranense, e questi divennero segni
destinati a marcare profondamente il paesaggio urbano e la sua monumentalità, la comunità che vi si radunava continuò ad essere una
comunità d’iniziati, il cui culto era precluso agli estranei ed era reso
loro impenetrabile attraverso la disciplina dell’arcano. La collocazione
dei penitenti in vestibulo, attestata nella De poenitentia di Tertulliano,
opera risalente alla fase cattolica del suo autore protrattasi fino al 207208, ed ancora l’esistenza del ministero dell’ostiariato per la custodia
delle porte d’accesso al luogo di culto, esistenza documentata dal vescovo Cornelio, ma altresì il dato concreto offerto dall’aula battisteriale,
forse anteriore al 256, suppongono indubbiamente già un’articolazione
dell’edificio cultuale in una pluralità di spazi ben distinti inseriti in un
insieme di significato marcatamente anagogico, la cui climax simbologica culminava nell’ambiente per il sacrificio puro della fractio panis.
Rispetto a tali testimonianze arcaiche i nuovi edifici di culto apparsi in
età costantiniana, pur nella loro monumentalità grandiosa, si presentano caratterizzati da una coerente continuità. Le modalità di fruizione
continuano a qualificarli come i luoghi dei santi misteri. Non soltanto vengono dedicati solennemente a Dio, ma risultano espressamente
strutturati al loro interno come grandi spazi mistagogici, finalizzati alla
celebrazione dei misteri e alla iniziazione ad essi dei credenti. Le loro
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
porte continuano ad essere presidiate dagli ostiari e la partecipazione
al rito resta assolutamente preclusa a chi non appartenga alla comunità c ristiana. Inoltre, come Tertulliano attestava al tempo, anche negli
edifici costantiniani, il luogo della celebrazione eucaristica continua ad
essere uno spazio interdetto, oltre che ai catecunemi, a chi tra i battezzati è tenuto ad espiare pubblicamente le proprie colpe, fino alla riammissione nell’aula. Tracce significative di tale disciplina, relativa alla
esclusione dei catecumeni, si sono conservate fino ad oggi nelle chiese
di tradizione costantinopolitana, che, al termine della sezione iniziale
della celebrazione eucaristica, incentrata sulla lettura delle scritture
apostoliche evangeliche, conservano tutt’ora l’intimazione: Catecumeni
uscite! Catecumeni uscite! e, dopo l’offertorio, prima della professione
di fede, presso tale chiesa ancora risuona il comando: Le porte! Le porte! originariamente l’ordine dato ai ministri a ciò deputati di chiudere
l’aula, perché il sacro mistero stava per compiersi in essa e qualsiasi
contatto con l’esterno doveva cessare.
Un elemento oltremodo espressivo di tale connotazione mistagogica del luogo di culto cristiano, che, attestato nel III secolo, ritroviamo marcatamente presente in età costantiniana e successivamente, è
l’orientamento degli oranti e dell’edificio. Per valutare adeguatamente
tale aspetto merita ricordare come già nella tradizione ebraica risulti
essere procedura ben radicata l’assunzione di elementi della comune
simbologia antropologica-religiosa, sottoponendone il significato a una
ridefinizione in prospettiva rigorosamente biblica. Considerazioni analoghe possono essere applicate anche alla ripresa in ambito cristiano
del differimento rituale al settore orientale della volta celeste, uso ben
radicato nelle prassi cultuali dell’antichità come ci attesta lo stesso Vitruvio. Antropologicamente connesso al ciclo quotidiano del sole e della
luce, tale elemento rituale venne riletto dai cristiani in riferimento delle
enunciate scritture e si trasformò per loro in un segno squisitamente
cristologico. Tale uso di pregare rivolti al luogo donde sorge il sole, come
si esprime l’africano Tertulliano, alla fine II secolo, è documentato negli
stessi anni ad Alessandria da Clemente che parla di preghiere fatte verso il sorgere del sole ad oriente. Quale aspetto caratterizzante la prassi
celebrativa del corpo ecclesiano, questa norma dell’orientamento trova
quest’azione nella prima metà del III secolo, nella siriaca Didascalia
apostolorum, nella quale esplicitamente si prescrive che tutti i presenti
debbano disporsi rivolti a oriente. Con gli edifici costantiniani l’uso non
venne meno, ma si continuò, riproponendosi successivamente, pur con
eccezioni contingenti, presso tutte le chiese. Nell’VIII secolo il Damasceno, nella sua grande sintesi dogmantica, compendiò con estrema effi-
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
cacia questo tratto della comune spiritualità rituale cristiana: “Quando
il Signore fu assunto in cielo —oggi è il giorno dell’Ascensione—, fu portato
verso oriente e gli apostoli, mentre così lo vedevano, si prostrarono a lui e
così nel modo in cui lo videro entrare nel cielo egli ritornerà, lo stesso Signore lo ha detto: come la folgore viene da oriente brilla fino a occidente,
così sarà la venuta del figlio dell’uomo. Essendo dunque noi in sua attesa,
ci prostriamo verso oriente. E’ questa una tradizione degli Apostoli, non
scritta. Molte cose infatti essi ci hanno trasmesso senza porle per iscritto”.
Evidente come da tale elemento rituale emergano immagini di Chiesa per nulla ripiegata sulle proprie strutture istituzionali o ingabbiata
nei propri rituali, nei propri cerimoniali, ma comunità celebrante che
escatologicamente si proietta verso colui della cui morte e resurrezione
nel misterio compie fedelmente la memoria. La percezione cultuale e
misterica della Chiesa, nonché il carattere di struttura mistagogica dei
suoi edifici di culto, non si attenuarono dunque con l’età costantiniana e con l’organico innesto del culto cristiano nel tessuto urbano delle
città. Fu nel contesto della vita cultuale, favorita dall’edificazione delle
nuove basiliche cristiane, che le tradizionali legittime orationes poterono assumere i caratteri di solenni celebrazioni ecclesiali. Con ogni
evidenza non si trattò di un’alterazione, ma di una coerente fioritura
del patrimonio pregresso che spinse Ilario di Poitiers ad affermare: Lo
sviluppo determinatosi nella Chiesa in merito all’accattivante bellezza degli
inni mattutinali e vespertini, è il più grande segno della misericordia di Dio.
La partecipazione alle officiature era percepita negli anni finali del IV
secolo come forma di pietà condivisa da ogni credente laico, non meno
che ecclesiastico, come dalle attestazioni di Agostino, di Zenone, di
Ambrogio.
Si può dunque dire che la vita cultuale cristiana, inserendosi
nei nuovi spazi ed edifici di culto, vi si adattò assai naturalmente, riproponendovi le proprie connotazioni misteriche e vi trovò le condizioni
per ulteriori ricchi e decisivi sviluppi. Sull’aspetto di tale evoluzione si
sofferma a lungo l’Alzati, per ricordare come nei culti si facesse memoria del Cristo là dove concretamente quelle azioni, nella loro effettualità
storica, si erano compiute.
Pur negli aspetti di continuità segnalati, la ricordata scansione
del vivere sociale sul ritmo cristiano messa in atto da Costantino, indubitabilmente, conferì alla res publica un discreto, ma antropologicamente decisivo orientamento cristiano. Quella scansione divenne elemento caratterizzante delle società europee e avrebbe finito per estendersi
anche oltre l’ambito strettamente cristiano, con esiti che nemmeno gli
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P. Chiesa
e L. Rossi,
Le
«Passiones»
dei martiri
milanesi:
modelli
e tradizione
agiografica.
accentuati processi di secolarizzazione sono riusciti a cancellare.
Paolo Chiesa e Laura Rossi hanno condotto un intervento a due
voci che, pur non avendo come protagonista Costantino, è ben collocato a questo punto del Convegno, perché permette di passare dal piano
storico, su cui i lavori si sono mossi fin’ora, a quello letterario sul quale
si muoveranno da qui in poi. Laura Rossi ha anticipato qui alcuni esiti
del suo lavoro, che, dopo pochi giorni, avrebbe discusso presso l’Università di Roma3, una tesi di dottorato su due di questi testi: La Passio di
Nabore e Felice e La Passio di Vittore Mauro. Per questo il titolo generale dell’intervento a due voci è Le ‘Passiones’ dei martiri milanesi: modelli
e tradizione agiografica.
L’impianto di culti martiriali specificamente milanese si deve
ad Ambrogio, che lo realizzò attraverso distinte inventiones [ritrovamenti] di due coppie di santi avvenute a una decina di anni di distanza
l’una dall’altra: Gervaso e Protaso prima, Nazaro e Celso dopo. Da
quel momento la città non sarà più sterilis martirum. Nel contesto in cui
usa l’espressione, Ambrogio vuole appunto rimarcare il capovolgimento
allora verificatosi rispetto alla situazione precedente. Ma Milano comincerà appunto a onorare martiri propri, in piccolo numero, certo, rispetto a quanti potevano vantarne altre località come Roma, Cartagine o
Alessandria, ma non meno importanti come dimostra il fatto che il loro
culto ebbe subito ampia diffusione geografica, stante l’autorevolezza
propulsiva della sede che li aveva espressi.
Molte di queste storie, per quanto diverse, presentano un singolare elemento comune nelle tracce di ambientazione africana. Secondo
la Passio, Nabore e Felice sono due soldati africani venuti nell’Italia
del nord per ragioni di servizio. Di Nazaro, La Passio specifica che è
africano e Africanus è il nome di suo padre; Vittore è chiamato Maurus,
originario della Mauritania. Ma l’elemento, forse, più sorprendente è
la presenza in tutte queste storie di un medesimo persecutore chiamato
Anolinus. È lui che tiene in prigione Gervaso e Protaso e che fa uccidere poi Nazaro e Celso. È lui il giudice che interroga e poi condanna a
morte prima Nabore e Felice e poi Vittore Mauro. Questo Anolinus è
un personaggio storico, ma non è mai stato giudice o prefetto a Milano.
Si tratta di Caius Agnus Anullinus che governava l’Africa proconsularis
nel 303–304 e in questa veste si trovò ad applicare i decreti religiosi di
Diocleziano nella regione d’Occidente, dove probabilmente i rapporti
con i cristiani erano più tesi e dove la persecuzione fu perciò più violenta. L’agiografia martiriale milanese perciò, come venne a formarsi nel
corso del V secolo, sembra fare ricorso a informazioni provenienti dall’Africa, un filone che va a integrare quello che appare il modello preva-
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
lente di tutta l’agiografia italiana dell’epoca, che è invece un modello
romano. Romane, del resto, sono in massima parte le ambientazioni
delle Passiones martirum prodotte in Italia in questo secolo.
Il martirio di Protaso, Gervaso, Nazaro, Celso, Nabore, Felice
e Vittore fu rappresentato fin dall’origine in forma di Passio narrativa.
Gli agiografi milanesi sembrano aver congiunto un modello letterario
romano, con un contesto storico e onomastico africano nella produzione dei testi che riguardavano i loro martiri. Per i martiri ambrosiani tale
fenomeno appare piuttosto visibile, ma qualcosa di simile si riscontra,
in forma più o meno marcata, anche altrove nell’Italia settentrionale
e centrale. Dal martire africano Mauro, venerato a Parenzo, il cui corpo approda sulle coste istriane, a Fermo e Rustico, venerati a Verona,
perché martiri nella città veneta, con una loro traslazione da Cartagine
a Verona. È certo africano un martire forse di nome Peregrinus, vescovo di una località poco nota dell’Africa proconsolare e reinterpretato
più tardi come vescovo martire di Ancona. Teonesto è ugualmente un
vescovo africano che giunge nella Venezia dopo un lungo e complesso
viaggio nelle varie zone di Europa. La storia di Evasio, venerato come
martire a Casale Monferrato, sarebbe il ricalco di un precedente africano. Un testo genuinamente africano e particolarmente conservativo è
quello che ha per protagonista il martire Gallonio e che è pervenuto a
noi come relitto in un passionale di Aquileia che attinge certamente a
tradizioni locali tardo antiche. E la lista potrebbe allungarsi con vicende non ancora sufficientemente studiate.
Le ragioni di questa presenza africana, fatto culturale di notevole interesse, non sono ancora indagate a fondo, ma sono probabilmente riconducibili a spostamenti di persone, in particolare ecclesiastici e,
forse, di intere comunità nel periodo successivo all’invasione vandalica.
Spostamenti del genere sono documentati verso la penisola iberica e
verso l’Italia meridionale, ma ve ne sono tracce anche verso la Gallia e
verso l’Italia centro-settentrionale. Che una simile ricerca possa essere
interessante e portare elementi di novità lo mostrano gli studi fatti per
i martiri di Aquileia, una chiesa per vari aspetti parallela a quella di
Milano. Studi condotti da un’equipe coordinata da Emanuela Colombi
che hanno portato alla pubblicazione in edizione critica delle Passiones
dei martiri del patriarcato, di cui un primo volume è già uscito, un secondo è imminente. Le sorprese saranno davvero tante.
I testi più antichi relativi a Gervasio e Protaso, a Vitale e Valeria
restano da studiare o comunque sono privi di un’edizione affidabile e
molto da indagare vi è anche sulle tradizioni più recenti, ormai pienamente medievali. Il desideratum conclusivo è che si possa avere a dispo-
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
sizione, attraverso una convergenza di ricerche diverse, uno strumento
simile, che sarebbe di grande interesse per la storia della Chiesa milanese e per la storia della letteratura agiografica in genere.
Il desideratum di Paolo Chiesa, non può che essere anche quello
di Laura Rossi, che nel triennio del dottorato di ricerca ha studiato due
Passiones milanesi e si è affacciata a questo panorama geografico peculiare e in gran parte inesplorato.
M. Petoletti,
« Ahi,
Costantino,
l’Editto di
Milano e le
enciclopedie
medievali
Marco Petoletti, nella sua relazione, Costantino, l’Editto di Milano e le enciclopedie medievali, dimostra come, pur non potendo leggere
l’Editto di Milano, né nel greco di Eusebio, né nel latino di Lattanzio
per oggettive complicazioni o di traduzione o di trasmissione testuale,
i cronisti medievali s’impegnarono a ricostruire la figura di Costantino
sulla base delle fonti a disposizione, consultate di prima mano o attraverso la mediazione di qualche altra compilazione storica. In genere è
la magnanimità del sovrano a informare il dettato di queste compilazioni. Gli enciclopedisti tendono a scegliere quelle testimonianze che
presentavano nella luce più positiva l’Imperatore, cui unanimemente
è riconosciuto il merito di aver restituito la pace ai cristiani e al mondo,
dopo anni di persecuzioni. A Costantino, direttamente o indirettamente, è attribuita la responsabilità anche di quegli Editti di tolleranza
favorevole alla religione cristiana emessi da Galerio e Massimino. Gli
spiriti più curiosi o critici non tacquero i problemi: la crudeltà degli ultimi anni del regno [di cui parla Eutropio], i continuatori, la coesistenza di
una duplice versione sul battesimo di Costantino che sarebbe scivolato
nella eresia ariana.
Anche a costo di respingere la voce solenne dei santi padri Girolamo e Ambrogio o della Historia tripartita di Cassiodoro, ora brutalmente, ora con il ricorso a qualche espediente parafilologico, è la versione
dei diffusissimi Acta Sancti Silvestri a trionfare. Qui peraltro si legge che
Costantino, dopo il battesimo, arrestò gli slanci persecutori del popolo e
del senato, di fresco convertiti al cristianesimo, seguendo il suo esempio
e pronti a scacciare coloro che persistevano negli antichi culti pagani.
Con la diffusione capillare di questa compilazione agiografica, quest’inno di tolleranza penetrò potentemente nella tradizione medievale. Attraverso questa via un’eco dell’Editto di Milano, pur sradicato da ogni conR. Marti, testualizzazione cronologica, filtrò nelle cronache latine dell’Occidente.
Costantino
il Grande
nella Slavia
ortodossa.
Roland Marti, nel presentare Costantino il Grande nella Slavia
ortodossa, inizialmente precisa che Costantino merita l’epiteto il Grande per l’insieme dei motivi emersi ed esposti nel Convegno. Nella sua
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
comunicazione si sofferma, invece, sulle diverse forme di venerazione
per Costantino che assunsero nel corso dei secoli forti differenze regionali. Ha inoltre delineato le particolarità relative all’immagine costantiniana nella Slavia ortodossa, alcune delle quali sono tipiche anche
per l’intero cristianesimo ortodosso, mentre altre hanno assunto presso
gli slavi un’impronta particolare. La Slavia tuttavia non ha una realtà
uniforme. Le differenze sono significative fra tradizioni serbe, bulgare e
slave orientali. Di questa molteplicità di aspetti ne ha presentati tre che
ritiene particolarmente istruttivi:
1. — Costantino ed Elena nella prospettiva della Chiesa ortodossa;
2. — Costantino fondatore della seconda Roma, la nuova Gerusalemme;
3. — Costantino regnante ideale.
Marti ha voluto riferirsi, giustamente, anche al volume IV della
serie Slavica Ambrosiana con l’immagine del Santo Costantino e di sua
madre e ha rinviato ai saggi contenuti in questo volume dell’Accademia
Ambrosiana.
Sul primo punto ha dimostrato come Costantino nella Slavia
ortodossa si distingua molto dal ruolo della sua immagine nella Chiesa
occidentale e solo poco da quella nell’orbis ortodoxus. È un fatto che
nella Chiesa cattolica Costantino non è un santo, come è un fatto che
nel mondo ortodosso Costantino sia, per così dire, un mezzo santo, in
quanto è santo solo e sempre insieme con sua madre Elena. Qui Marti
ha fatto un dettagliatissimo elenco di tutte le date dell’anno liturgico e
dell’anno civile, e anche delle ricorrenze turistiche, in cui sono ricordati
e celebrati San Costantino e Sant’Elena.
Sul secondo punto, Marti ha sottolineato come sia stata e sia
molto importante per la Slavia ortodossa la fondazione di Costantinopoli. In slavo la sua denominazione connota la città dello Zar, ma in
ogni regione assume un significato particolare e Marti ne ha dato ragione, con illustrazione di argomenti e di immagini. Costantinopoli poi,
in generale, raggiunse anche un valore tutto nuovo, sviluppatosi nell’ambito della teoria della translatio imperi, che riassorbì, naturalmente,
anche la translatio ecclesiae. Vista dalla prospettiva ortodossa, la prima
Roma aveva perduto il suo status di città sacra dopo il grande scisma
del 1054. La conquista e il saccheggio di Costantinopoli da parte dei latini nell’ambito della IV crociata e la fondazione dell’impero latino nel
1204 rappresentavano però la rottura psicologica finale con la Chiesa
d’Occidente. La seconda Roma, fondata da Costantino, perse la sua pretesa di essere la capitale dell’ortodossia dopo il Concilio dell’unione di
Ferrara—Firenze. [Con questo nome si designa il concilio aperto a Ferrara l’8 gennaio 1438 e che, trasferito l’anno seguente a Firenze, proclamò (6 luglio 1443) l’unione
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
fra la chiesa greca e quella latina. L’unione raggiunta dal concilio durò di fatto fino alla
presa di Costantinopoli (29 maggio 1453), e fu ufficialmente dichiarata rotta da un concilio della chiesa greca tenuto a Costantinopoli nel 1472.] La conquista da parte
degli Usmani nel 1453 fu soltanto la giusta punizione per l’apostasia.
Si aggiunsero le aspettative escatologiche nel contesto del 1492 e Mosca
fu preparata ad affrontare questo nuovo ruolo.
Circa il terzo punto: Costantino come regnante, Marti ha evidenziato come il ruolo più importante di Costantino sia stato quello di
incarnare il paradigma di regnante ideale. Una funzione, questa, che
si svolse già a Bisanzio e che si conserva anche nella Slavia romana.
Esaustive, al proposito, le prove documentali presentate ed illustrate da
Marti, che in Germania, nell’Università di Saarbrücken, conduce uno
specifico Dipartimento di Slavistica.
In conclusione del suo dotto ed acuto intervento, Marti ha sottolineato come Costantino sia un personaggio importantissimo non
solo nella Chiesa occidentale: nel mondo ortodosso le sue gesta come
imperatore romano, a parte lo spostamento della capitale, ebbero un
ruolo secondario, mentre le sue azioni nell’ambito della Chiesa sono
di grande ed ineliminabile rilevanza. Un breve, ma intenso, passaggio
con l’elogio a Costantino ed Elena, è contenuto nel discorso dell’ultimo
Patriarca della Bulgaria, prima della sua caduta in mano ottomana.
A. Dell’Asta,
Costantino
nel pensiero
filosofico
e teologico
russo di
Ottocento e
Novecento.
Oltre al piano storico, un esame su Costantino nel pensiero filosofico e teologico russo di Ottocento e Novecento, non poteva che venire da
Adriano Dell’Asta, profondo conoscitore dell’anima russa e traduttore
in italiano di fondamentali opere di Vladimir Sergeevič Solov’ëv, come
Il significato dell’amore, Introduzione e traduzione di A. Dell’Asta per
Edilibri, 2003 o Sulla bellezza. Nella natura, nell’arte, nell’uomo, trad. A.
Dell’Asta per Edilibri, 2006.
Circa il primo testo citato, pagine 144, anche in edizione eBook/
Pdf, si spendono qui alcune annotazioni allo scopo di rendere più comprensibile la sintesi che si farà dell’intervento di Dell’Asta:
— sull’autore, Vladimir S. Solov’ëv (1853-1900), può essere considerato,
secondo il giudizio di H.U. von Balthasar, accanto a Tommaso d’Aquino, come “il più grande artefice di ordine e di organizzazione nella storia
del pensiero”. Solov’ëv resta il più importante pensatore russo, sommo
teologo e precursore del simbolismo. Nel suo sistema filosofico sono già
presenti tutte le idee che saranno all’origine della rinascita spirituale
russa dell’inizio del ’900. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: La crisi della filosofia occidentale, Sulla Divinoumanità, La Russia
e la Chiesa universale, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, La
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Sofia, l’eterna Sapienza mediatrice tra Dio e il mondo, I fondamenti
spirituali della vita, Islam ed ebraismo;
— sul libro, un riferimento costante per i grandi poeti russi del ’900, da
Aleksandr Blok a Boris Pasternak, Il Significato dell’amore è una lunga
meditazione sul posto che l’amore occupa nell’ordine della creazione.
Irriducibile all’istinto o alla passione, esso è per il filosofo russo lo strumento privilegiato col quale l’uomo può spiritualizzare la materia e
riscoprire l’essenza del cosmo come luogo della manifestazione della
bellezza divina. Araldo dell’Eterno Femminino e precursore della “filosofia dell’amore” destinata al terzo millennio, Vladimir Solov’ëv pone
a fondamento della sua opera la concreta riscoperta dell’amore annunciato da Cristo e la vive e la presenta come rinnovata esperienza della
fede.
— sul curatore: Adriano Dell’Asta, docente di Lingua e letteratura russa
dell’Università Cattolica, è il curatore e traduttore delle Opere di Solov’ëv pubblicate dalla Casa di Matriona (Russia Cristiana).
Circa il secondo testo citato, Sulla bellezza, pp. 128, disponibile
anche in edizione eBook/Pdf, il processo cosmico, come processo di
realizzazione del vero e del buono nella forma concreta del bello, è
un processo estetico. Iniziato dalla natura, tale processo prosegue attraverso l’opera dell’uomo. La bellezza prodotta dall’arte, al pari di ogni
altra bellezza, non è né mera materialità né mera soggettività, ma «luce
materializzata» e «materia illuminata». L’arte ha dunque la funzione di
contribuire attraverso la bellezza alla piena realizzazione del processo
cosmico; tuttavia, tale realizzazione è più prefigurata e profeticamente
anticipata che non compiuta: luogo di intersezione tra il cielo e la terra,
il bello che ci è dato dall’arte apre la via verso la bellezza futura, simile
in questo all’altro facitore di ponti, l’amore.
Dovrebbe quindi risultare evidente dal riferimento all’opera di
Dell’Asta, perché questi, come esordio della propria relazione, utilizzi
proprio una citazione di Solov’ëv, autore cristiano, che nel 1896, in tempi quindi ben lontani da ogni revisionismo o dubbio sulla superiorità
del Cristianesimo, tracciava un confronto diretto —che lui stesso definisce naturale— tra Maometto, Costantino il Grande e Carlo Magno:
«Tutti e tre legarono la propria politica alla religione. In nome di
Dio emanarono leggi, fecero guerre; tutti e tre intesero la religione come un
principio pratico, come la base per una unificazione politico-sociale dell’umanità; tutti e tre si fecero portavoci di ben determinati ideali teocratici
e ciascuno di loro lasciò dietro di sé una certa organizzazione teocratica.
Per le loro qualità personali, tutti e tre furono uomini sinceramente religiosi,
onesti e liberi da vizi indecorosi, ma queste qualità personali non preserva-
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
rono nessuno dei tre dalla tentazione di abusare del potere illimitato che gli
era toccato in sorte. Costantino il Grande mette a morte la propria moglie, il
proprio figlio innocente. Carlo Magno fa massacrare 4.500 prigionieri sassoni. Questi delitti sono già di per sé più gravi dei delitti di Mohammad, ma
non bisogna poi dimenticare che Carlo Magno apparteneva ad un popolo
che già da trecento anni si era convertito al Cristianesimo e veniva educato
in questa religione, mentre Costantino il Grande si era lui stesso convertito
al Cristianesimo e, in più, viveva in un mondo incomparabilmente più civilizzato dell’ambiente culturale in cui viveva Mohammad. La comparazione
di quest’ultimo con i facitori politico-religiosi dell’Oriente e dell’Occidente
del mondo Cristiano, va a tutto vantaggio del profeta arabo. E se i greci
hanno canonizzato Costantino e i latini Carlo, tante più ragioni hanno i
musulmani per venerare devotamente la memoria del loro apostolo.»
Solov’ëv non aveva particolari ragioni di simpatia per l’Islam
e, anzi, era pienamente convinto della superiorità del Cristianesimo.
Paragonando qui i cristiani Costantino e Carlo Magno al musulmano
Maometto, riserva in maniera assolutamente evidente tutta la sua ammirazione per il musulmano. Altrettanto evidente, perché esplicitamente detto, è che questo giudizio non dipende da una qualche superiorità
delle qualità personali del Profeta rispetto agli altri due, in quanto tutti
e tre furono uomini sinceramente religiosi, onesti e liberi da vizi indecorosi. Tante evidenze rendono ancora più enigmatico, inquietante
questo misterioso primato di Maometto.
Ecco allora delineato il senso dell’intervento di Dell’Asta, che
mira a cercare di capire perché, pur in presenza del riconoscimento
della santità di Costantino e della superiorità della verità cristiana, il
confronto con Maometto vada a tutto vantaggio del Profeta arabo.
Dell’Asta muove dal tentativo di risolvere questo primo enigma,
ponendosi dinanzi a un problema ancora più complesso: che cosa sia
propriamente la morale e quale sia il rapporto tra il Cristianesimo e la
vita di un paese, di una nazione, di uno stato. Secondo Solov’ëv il vantaggio che l’Islam avrebbe nei confronti del mondo cristiano, ha una
spiegazione: «La vittoria dell’Islam che praticamente sradicò il Cristianesimo dall’Asia e dall’Africa fu innanzi tutto una questione di forza bruta, ma
allo stesso tempo ebbe anche una giustificazione morale. Il musulmano credendo nella sua legge etico-religiosa, che è semplice e non troppo elevata,
la osserva coscienziosamente nella vita privata e sociale, giudica gli affari
civili e penali secondo il Corano, combatte per ordine diretto del Corano,
tratta gli stranieri e i vinti sempre secondo le prescrizioni del Corano e così
via. Nella vita sociale del mondo cristiano, invece, il Vangelo non ha mai
avuto l’importanza che aveva il Corano nello stato e nella società musulma-
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
na. Insomma, avendo una religione più semplice, meno impegnativa, meno
alta, il musulmano può essere più facilmente coerente e può essere più efficace e convincente di un mondo cristiano che ha alti ideali, ma che non
è mai stato alla loro altezza e che altrettanto frequentemente rinuncia ad
applicarli alla vita quotidiana, cadendo preda di un dualismo distruttivo,
come ha dimostrato la fine dell’Impero d’Oriente. Infatti, essendosi rivelata
miseramente inadeguata alla sua elevata vocazione, essere un regno Cristiano, Bisanzio perse i motivi interiori della propria esistenza. Infatti, i compiti
correnti, normali della gestione dello stato potevano essere portati a termine, e potevano esserlo anche decisamente meglio, dal governo del sultano
turco che, essendo libero da quella contraddizione interiore, era anche più
onesto e forte. ».
Tutto sembra essere chiaro, ma per quanto la cosa possa sembrare plausibile, dobbiamo resistere alla tentazione d’individuare il criterio di giudizio di Solov’ëv, in una questione di pura coerenza, anche
se Solov’ëv utilizza questi termini spesso. I passi letti sembrano chiari
ma noi non dobbiamo dimenticare che il peso che pare venga dato qui
alla coerenza e alla osservanza di una dottrina in assoluta purezza, contrasta in maniera evidente con la concezione del mondo, con la concezione di morale e di Cristianesimo che caratterizza il pensiero e la vita
di Solov’ëv. Quando Solov’ëv dice che la fede dei bizantini, quel che fra
poco cominceremo a chiamare bizantinismo: « era soltanto l’oggetto di un
loro riconoscimento intellettuale e della loro venerazione liturgica, ma non
era più il principio motore di tutta la vita », dice qualcosa che a Dell’Asta
sembrerebbe troppo semplicistico ridurre ad una banale questione di
coerenza e di perdita di purezza spirituale o dottrinale delle origini
secondo un perfettismo che contrasta con il modo con cui Solov’ëv intende il Cristianesimo, la vita e la storia umana.
Per quanto riguarda la questione morale, Solov’ëv condivideva
pienamente l’idea che Dostojevskj aveva formulato in uno degli ultimissimi appunti prima della morte, secondo la quale la morale non può
essere ridotta alla semplice coerenza con le proprie convinzioni:
« Scusate, ma se io agisco secondo le mie convinzioni, sono forse per
questo un uomo morale? Farò saltare in aria il Palazzo d’Inverno e forse
che per questo sarò morale? La coscienza senza Dio è qualcosa di spaventoso e può ingannarci fino a commettere le cose più immorali. Non posso
considerare morale chi brucia gli eretici, perché non ammettono la vostra
tesi secondo cui la moralità è la concordanza con le proprie convinzioni
interiori? Questa è soltanto onestà,, ma non moralità. La coscienza …eh
…la coscienza del Marchese de Sade …ma questo è assurdo. L’inquisitore è
immorale già per il solo fatto che nel suo cuore, nella sua coscienza, sia po-
83
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
tuta nascere l’idea della necessità di bruciare gli uomini. Versare il sangue
non lo ritenete morale ? Ma versare il sangue in base alle proprie convinzioni, questo sì che lo ritenete morale. Consentitemi, allora, perché sarebbe
immorale versare il sangue? » . Questo è Dostoevskij, prima di morire. A
questa domanda però Dostoevskij offre una risposta. Un criterio di moralità per lui esiste. È, ad un tempo, oggettivo e universale e, dall’altro,
estremamente pratico e personale dall’altro.
Dell’Asta cita ancora Dostoevskij, ma avrebbe potuto citare intere pagine di Solov’ëv: « Non basta definire la moralità con la fedeltà alle
proprie convinzioni, bisogna anche suscitare in sé la domanda: sono vere le
mie convinzioni ? Il loro banco di prova è uno solo: Cristo ». Ecco quindi
che, sul fatto che questo criterio, radicale come un banco di prova, non
debba essere ridotto ad un semplice principio astratto e non possa servire a superare gli esami di catechismo, la lezione che Solov’ëv offre sin
dall’inizio della sua attività culturale è molto chiara.
Dell’Asta era partito da una condanna di Costantino, addirittura rispetto a Maometto, che sembrava motivata da questione di coerenza e d’inosservanza dottrinale, ed ha provato come questa impressione fosse in contrasto con la concezione di morale di Cristianesimo di
Solov’ëv. Resterebbe il problema di capire in nome di che cosa positivamente questa svalutazione venga pronunciata. E qui interviene un
altro testo di Solov’ëv, significativamente del 1896 come la biografia di
Maometto, nel quale il bersaglio non è più propriamente Costantino,
ma più correttamente —visto che non viene mai messa in discussione la
santità personale di Costantino—, il mondo che è derivato da Costantino
e che Solov’ëv, chiama bizantinismo, la riduzione cioè della religione a
un fatto compiuto, a una formula dogmatica, a una cerimonia liturgica.
La parola centrale è il fatto compiuto. In questo senso il bizantinismo è
una figura che va ben al di là del fenomeno storico e geografico al quale
Solov’ëv si riferisce, diventa una tentazione, un peccato costante nella
storia dell’umanità. Il testo di Solov’ëv è con tutta evidenza anche una
figura della Russia del suo tempo, ma in generale è la denuncia di un
Cristianesimo che cessa di essere il vero movente della vita e diventa
una formula inefficace e anche inutile, perché, se la vita è un fatto compiuto, è evidente che il Cristianesimo nulla ha da apportare, né da scoprirvi nulla di nuovo e l’uomo non ha da attendersi o da cercare alcun
perfezionamento. E l’idea di perfezionamento è un’altra idea centrale.
Nel concludere, Dell’Asta in realtà riapre la questione, perché
il criterio di giudizio si amplia a un compito di perfezionamento, concepibile sulla sequela del Cristo e rispetto ai quali tutto si rimetterebbe
in questione, scoprendo uno spazio di una fedeltà o di una incoerenza,
84
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
ma anche di una accoglienza, perché islam e bizantinismo diventano
affari interni alla storia cristiana. Affari interni dai contorni molto più
sfumati di quanto si creda e, soprattutto, mai decisi una volta per tutti,
perché, citando un altro autore russo, Dell’Asta chiude: « il mondo e
l’uomo non si ritrovano mai nel solco appositamente preparato ».
Nota
del
Curatore
Dopo la relazione di Dell’Asta si ha la suggestione di poter credere,
che, anche attraverso la mediazione culturale di Solov’ëv —spendibile anche come terreno risarcitorio di passate velleitarie egemonie—, sia possibile
procedere un po’ più speditamente e serenamente sugli accidentati percorsi e dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. E, a guardare lontano,
parrebbe che anche le figure di Costantino ed Elena, oltre ad essere capaci di animare mostre centenarie, convegni periodici, opere, spettacoli e
pubblicazioni discontinue, potrebbero tranquillamente uscirsene dai tanti
controversi dibattiti storiografici, per cimentarsi direttamente nel dibattito
infuocato della storia e riproporre un nuovo, pacificatore, initium libertatis
con la garanzia di una reale libertà, nella parità, di ogni religione e di tutti.
Saverio Bellomo, in rapporto così stretto con l’Alighieri —«L’Alighieri» è la prestigiosa rassegna dantesca fondata da Luigi Pietrobono diretta da S. Bellomo, insieme ad Andrea Battistini e Giuseppe Ledda con
tutto il comitato scientifico: Zygmunt Barański; Teodolinda Barolini; Lucia
Battaglia Ricci; Bodo Guthmüller; Emilio Pasquini; Jeffrey T. Schnapp;
Luigi Scorrano; John Scott— ha offerto una lezione sui rapporti tra il più
grande poeta cristiano e il primo imperatore cristiano, dal titolo: « Ahi,
Costantin, »: Dante e l’imperatore. Un titolo tratto dal celebre
« Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre! »
(Inferno XIX, 115-117)
Costantino per Dante: tutte le notizie che Dante ha su Costantino sono assolutamente leggendarie. Però Costantino è un personaggio
assolutamente cruciale nella concezione politica e morale di Dante ed
è allo stesso tempo un personaggio estremamente problematico. Anzitutto, per Dante, è un santo —e questo non è un collegamento con la
Chiesa ortodossa—, infatti è in Paradiso.
Dal testo n.1 che proviene dal Paradiso, siamo nel cielo di Giove e le anime disegnano nel cielo un’aquila che parla. È l’aquila della
giustizia divina. L’occhio dell’aquila quindi è proprio Costantino, una
posizione assolutamente eminente. E l’aquila dice:
L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fè mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce come il mal dedutto
85
S. Bellomo,
« Ahi,
Costantin, »:
Dante e l’imperatore.
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.
(Paradiso XX 55-60)
Il contrasto viene fuori, dunque “con le leggi e meco”, meco vuol
dire con me, con l’aquila. L’aquila rappresenta la giustizia: è lui [Costantino] che ha fatto la famosa donazione, è evidente. Ora, che sia santo è un dato, non santo ufficialmente, ma la tradizione lo presenta come
un uomo degno del Paradiso. Tuttavia, nella Monarchia Dante così si
era espresso nei suoi confronti: Non fosse mai nato questo infirmator
imperi, questo che ha distrutto l’Impero. In effetti Costantino ha distrutto l’Impero anche per un’azione improvvida: quella di aver spostato
la capitale: “si fece greco”. Nel suo famosissimo discorso l’imperatore
Giustiniano, a proposito dell’aquila imperiale, così inizia:
Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse,
cento e cent’anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;
(Paradiso VI 1-7)
Dunque, Costantino ha portato l’aquila imperiale contr’al corso
del ciel. Quasi un’azione contro natura, contro la volontà di Dio. In effetti Costantino non ha saputo leggere in questo i segni della volontà di
Dio, cosa che invece Giustiniano dice di aver fatto. Se andiamo alla fine
di questo brano, il n.3, Giustiniano continua a parlare:
[convertitosi dopo l’eresia]
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per Grazia piacque d’ispirarmi
[alto lavoro: il Corpus iuris]
l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai l’armi,
[Belisar: il generale]
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.
(Paradiso VI 22-27)
Giustiniano ha capito che il fatto che Belisario vincesse le guerre
era un segno della volontà di Dio, per indurlo a scrivere il “Corpus iuris”.
Giustiniano legge i segni della volontà di Dio, Costantino, evidentemente, no! O non li legge bene. La volontà di Dio, se vedete nel testo n. 2:
[la volontà di Dio che è invisibile]
Voluntas quidem Dei per se invisibilis est;
et invisibilia Dei “per ea que facta sunt intellecta
[cit. da S.Paolo]
conspiciuntur”; nam, occulto existente sigillo,
cera impressa de illo quamvis occulto tradit
notitiam manifestam. Nec mirum si divina
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
voluntas per signa querenda est, cum etiam
humana extra volentem non aliter quam
[la divina volontà si riconosce dai segni]
per signa cernatur.
[De monarchia II ii 8]
La divina volontà si riconosce dai segni e qui Costantino ha un
difettuccio, ma che non gli ha impedito però di diventare santo. Naturalmente, questa è la volontà di Dio, altra è la provvidenza divina (la
donazione di Costantino, nonostante tutto, ne fa parte a pieno titolo e per
Dante la donazione è stata una nuova occasione per l’uomo, occasione
mancata).
Bellomo, seguendo le citazioni, fa raccontare la storia della Chiesa per via allegorica. Siamo nel Paradiso terrestre, è appena comparsa
una processione allegorica che rappresenta la Bibbia, il Nuovo e l’Antico Testamento, c’è un carro trainato da un grifone. Tradotti rapidamente, senza entrare nei particolari: —il grifone rappresenta Cristo; — il
carro rappresenta la Chiesa; il grifone lega il carro a una pianta, meravigliosa, che rappresenta la giustizia divina; —quindi, legata la Chiesa
alla giustizia, se ne sale al cielo. Da questo punto comincia la storia
della Chiesa e, prima di tutto, ecco ciò che vede calare Dante. Dante
guarda come in un film tutta questa vicenda allegorica e la interpreta
immediatamente: —l’uccel di Giove, cioè l’aquila imperiale che s’abbatte sul carro, ferisce il carro e rompe la scorza dell’albero. Prima tappa:
qui dobbiamo pensare siano le persecuzioni contro i cristiani, l’Impero
contro la Chiesa. Seconda tappa: salta fuori una volpe, la quale tradizionalmente è interpretata come l’eresia: quindi è il momento dell’eresia e
dei vari concili. Dopo la volpe:
Poscia per indi ond’ era pria venuta,
l’aguglia vidi scender giù ne l’arca
del carro e lasciar lei di sé pennuta;
e qual esce di cuor che si rammarca,
tal voce uscì del cielo e cotal disse:
«O navicella mia, com’ mal se’ carca!».
[Purgatorio, XXXII, 124-129]
Questa è la rappresentazione della donazione di Costantino,
perché l’aguglia, che è l’aquila imperiale, lascia le sue penne, si spenna,
a favore della Chiesa? E poi si sente la voce:
«O navicella mia, com’ mal se’ carca!».
Di questa voce parla la tradizione, perché si diceva che a seguito
della donazione di Costantino, si sentì una voce dal cielo che disse:
«Hodie venenum infusum est Ecclesiae!».
Dante riecheggia proprio questo luogo comune. Quindi sicura-
87
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
mente questo ‘spennamento’ dell’aquila rimanda alla donazione. Dopo
la donazione ecco che salta fuori un drago dalla terra, che sembra aprirsi tra le ruote del carro, ne configge con la coda il fondo, ne trae a sé una
parte e con essa si allontana serpeggiando [vv. 130-133]. La restante parte del carro si ricopre delle piume lasciatevi dall’aquila e si trasforma in
un drago dalle sette teste, —drago o serpente è un po’ la stessa cosa e ci rimanda
a Satana—, che, avendo divorato il fondo al carro [carro=Chiesa e fondo=i suoi
fondamenti morali], lo ha privato di qualsiasi fondamento, basamento.
Un drago sbuca, quindi,
Quel che rimase, come da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna,
si ricoperse, e funne ricoperta
e l’una e l’altra rota e ’l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta.
[Purgatorio, XXXII, 136-141]
Dunque il carro, carico da la piuma [il bene] offerta forse con intenzion sana e benigna, si trova ricoperto di gramigna [male]; dopodiché il
carro si trasforma in un mostro; un mostro [la Chiesa degenerata], su cui sale
una puttana [la curia pontificia, evidentemente] e arriva un gigante [il re di Francia,
Filippo il Bello], che prende la puttana, se la porta via [lo schiaffo d’Anagni]
e la schiaffeggia anche [ovviamente il passaggio della sede da Roma ad Avignone].
Interessante questa visione della storia della Chiesa per quello
che subito dopo dice Beatrice commentando questa vicenda:
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.
Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l’anima prima
bramò colui che ‘l morso in sé punio.
[Purgatorio, XXXII, 55-63]
L’anima prima è Adamo che ha aspettato, bramato colui che colui che ‘l morso in sé punio, cioè Cristo, per cinquemila anni [si pensava che
l’origine del mondo e la nascita dell’uomo fosse cinquemila prima]. Dunque: or due
volte dirubata quivi [la pianta della giustizia, che è la stessa pianta che è stata dirubata comunque da Adamo, è la stessa che è or dirubata due volte]. Quel “or”, secondo
alcuni critici, esclude che in queste due volte c’entri anche Adamo, perché ora, dice, hai visto ora la pianta dirubata; ora non si rappresenta il
dirubamento, cioè la presa del frutto proibito da parte di Adamo, ma,
attenzione, or dirubata , non l’hai vista ora dirubare, ora l’hai vista che è
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
già dirubata una seconda volta. Altrimenti le volte sarebbero tre. È vero
che il tre è perfetto, ma sarebbero troppe, inflazioneremmo il paradosso
e neanche da un punto di vista retorico sarebbe bello. In realtà dobbiamo calcolare che le volte sono due, ma la prima è sicuramente quella di
Adamo. Ora, Dante, ha visto un secondo dirubamento.
La critica qui si divide, ne hanno dette di tutti i colori. Il secondo dirubamento è quello del gigante che ruba il carro dalla pianta; oppure il secondo è quello della prima aquila che rompe il carro
e rompe la scorza; oppure è del drago che rompe il fondo del carro.
No! Secondo Nardi, che ci vedeva bene, questo secondo dirubamento è la Donatio. Credo che Nardi abbia parzialmente ragione, non del
tutto, per una ragione molto chiara. Il secondo dirubamento sarebbe
la seconda aquila che lascia le penne, ma in realtà, la seconda aquila
dona, dà, non diruba, è una dazione quella dell’aquila, non un furto,
per cui dobbiamo intendere che il secondo dirubamento sono le conseguenze della Donatio, cioè il fatto che il drago-serpente, che è Satana,
torni e che induca, dunque, un secondo peccato originale: non essere
di nuovo in grado, di fronte all’albero della scienza del bene e del male,
saperne distinguere i frutti. E chi doveva indurlo se non Satana!? Ma
proprio dalla Donatio deriva questa degenerazione, del tutto. Insomma, una seconda tentazione alla quale l’uomo non ha saputo resistere.
Ma a questo punto dobbiamo chiederci qualcosa di più chiaro.
Cosa sapeva Dante della Donatio. Diciamo che tutte le notizie di Dante
provengono dagli Acta Sancti Silvestri, un testo del IV-V secolo diffuso in
mille varianti. Per arrivare alle fonti più sicuramente vicine a Dante,
dobbiamo citare la Legenda aurea di Jacopo Da Varazze, che riporta ampiamente tutta la storia di Costantino, del battesimo etc. e il Trésor del
maestro Brunetto Latini. La Legenda aurea raccontava che Costantino
era lebbroso, chiede aiuto ai suoi vari pontefici, i quali gli suggeriscono
di farsi un bel bagnetto nel sangue dei fanciulli, a quel punto prendono
un sacco di bambini per scannarli e fare il bagno nel sangue. Quando
Costantino vede le madri piangenti, dice no!, non è possibile, non me
la sento! perché Romanum Imperium de fonte nascitur pietatis, perché
l’Impero Romano nasce dal fondo della pietà e io non posso come imperatore fare questa birbonata! Bellomo cita questa frase perché Dante
stesso la cita uguale nella Monarchia. Di seguito va da Papa Silvestro,
nascostosi per paura delle persecuzioni. Papa Silvestro [saltando qualche passaggio irrilevante], lo battezza. A seguito del battesimo guarisce dalla lebbra e Costantino, tutto contento, fa delle regalie al Papa.
Nell’epoca carolingia, un po’ prima di Carlo Magno, forse ai
tempi di Pipino, ecco che s’inventa il Constitutum, cioè il documento del-
89
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
la donazione di Costantino che, dice esplicitamente: dona alla Chiesa
l’Impero d’Occidente e la dignità dell’Impero. Il contenuto del Constitutum viene inserito negli Acta e quindi Dante poteva leggere nella Legenda
Aurea, o nel Trésor, che, a seguito di questa vicenda, Costantino avrebbe
donato l’Impero d’Occidente al Papa. È interessante vedere cosa scrive
esattamente Brunetto Latini: Per innalzare il nome di Cristo dotò [doctà]
la Chiesa e gli donò tutte le dignità imperiale. [Notare che la lezione doctà
si alterna in altri manoscritti con donà, donò]. Però Dante, sicuramente, si
riferisce a questa prima versione perché, infatti, leggendo il testo dantesco:
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
[Inferno XIX 115-117]
la donazione è vista come dote. Cosa vuol dire dote? che è un bene in
usufrutto, non in possesso, che è finalizzato al mantenimento della
famiglia, quindi non è un possesso vero e proprio. In effetti Dante nella
Monarchia deve affrontare il tema della Donatio, perché era un elemento fortissimo a favore dei papisti, di coloro che sostenevano la supremazia della Chiesa sull’Impero. Dante smonta il principio della Donatio,
non già dicendo che il testo è falso, ma sostenendo che l’imperatore non
poteva cedere l’Impero, perché il suo compito era quello di mantenerlo
unito e quindi avrebbe mancato alla sua funzione di Imperatore. D’altra parte il Papa non poteva accettare questa donazione, perché alla
Chiesa è impedito di possedere, come recita esplicitamente il Vangelo
di Matteo. Quindi né l’uno poteva riceve, né l’altro poteva dare. L’imperatore poteva solo dare in patrocinium alla Chiesa l’Impero d’Occidente, sempre rimanendo invariato il potere imperiale. Il Papa poteva
accettare non tam quam possessio, sed quam tam fructus, pro pauperibus.
Dunque solo l’usufrutto di questo bene veniva dato dall’Imperatore. La
finalità: per i poveri. Dunque, in quanto dote, era stata un’ottima intenzione quella di Costantino.
Ma poteva Dante ricavare queste affermazioni dal Constitutum,
dal documento falso che era stato fatto saggiamente da un abilissimo falsario? Se andiamo a vedere il testo, diciamo che dal documento Dante
non poteva ricavare una cosa del genere, perché il documento dice chiaro che l’Imperatore cede principatus potestatem, la potestà imperiale. E
ancora. Più avanti dice: potestatem et gloriae dignitatem atque vigorem et
honorificentiam imperialem. Cioè, non c’è dubbio, il falsario non era un
fesso…. È indiscutibilmente la cessione dell’Impero, sia come territorio,
sia come potere imperiale. E allora, Costantino che cos’è? È un incompetente, se ha fatto un testo di questo genere, perché avrebbe mancato
alla sua principale funzione imperiale che era, tra l’altro, quella di fare
90
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
e di conoscere le leggi. Allora non le conosceva? È possibile? Sarebbe
stato messo Costantino, quanto meno, tra i negligenti in Purgatorio,
ma non certo nell’occhio dell’aquila in Paradiso. Ergo, Dante non conosce il documento, tanto è vero che quando parla della Donatio, parla di:
Dicunt aliqui quod Costantino etc.. Conosce il contenuto del documento,
forse, anche dal Decretum Graziani, perché c’erano delle chiose a margine che alludevano al documento e ancora dalla pubblicistica papale
che si riferiva al documento, ma nessuno lo riportava letteralmente.
Dunque l’intenzione di Costantino era una buona intenzione,
era quella di sovvenire e di difendere, e d’altra parte Costantino aveva
difeso la Chiesa dalle persecuzioni. È però curioso come la figura di
Costantino abbia delle implicazioni molto forti con la Translatio Imperi, cioè con la fondazione del nuovo Impero Occidentale. Partendo da
Carlo Magno e dal Sacro Romano Impero, si crea, anche qui, un bel
problema. Infatti, il collegamento Costantino-Carlo Magno è un collegamento già in re, nelle cose. Il Constitutum è un falso fatto proprio in
quel periodo, proprio per poter dare licenza al Papa di nominare un
imperatore: Carlo Magno. Ma poteva Dante accettare il fatto che un
imperatore fosse stato nominato e traesse il suo diritto dalla nomina
del Papa? No! La sua posizione era quella della massima divisione
dei due poteri. Infatti in un brano del De monarchia dopo la disamina
della Donatio, c’è la Translatio. Dice Dante: ai tempi di Carlo Magno,
Adriano Papa [in realtà era Leone III] si dice che avesse nominato appunto
Carlo Magno imperatore, benché Michele imperasse a Costantinopoli
[non era Michele, era Irene]. L’importante è che Dante sostiene che in
quella occasione si compì un illecito, perché il Papa non aveva il diritto
di nominare l’imperatore e conclude: usurpatio enim iuris non facit ius,
l’usurpatione di un diritto non fa un diritto. Dunque: Carlo Magno è
stato nominato al di là del diritto dal Papa.
Ohibò! Ma da Carlo Magno provengono tutti gli imperatori successivi, anche se poi le cose cambiano e diventa Sacro Romano Impero
Germanico, però è da lì che vengono. E, allora, Carlo Magno da dove
ha preso questo potere? Il fatto che non sia stato nominato di diritto
non vuol dire che non sia un imperatore. La parte imperiale diceva che
Carlo Magno fu acclamato dal popolo: vox populi, vox dei. Dante non ne
parla, ma ci dice qualcosa in più.
Abbiamo visto che la storia dell’aquila è cominciata con Costantino, poi torna indietro, ma tutto il discorso di Giustiniano, cominciato
da Costantino, va a finire con Carlo Magno:
E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
91
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
[Paradiso, VI, 94-96]
Qua finisce la storia dell’aquila.
Dante, cioè, crea una continuità assoluta tra Costantino e Carlo
Magno. Perché ?
Carlo Magno, in effetti, era stato salutato dal Papa Adriano come
Novus Costantinus, indicando un collegamento anche ideologico tra questi due imperi. Per Dante, Costantino ha avuto dunque la funzione di
defensor della ecclesia, una funzione inaugurata proprio da Costantino,
primo imperatore che va in soccorso alla Chiesa e che inaugura una
tipica funzione imperiale. Cioè il fatto stesso che Carlo Magno abbia
soccorso è un segno della volontà di Dio, un segno della volontà di Dio
che Carlo Magno aveva il diritto di essere imperatore e non per nomina
papale.
“Che fiducia nel diretto intervento di Dio!”, esclama Bellomo.
In effetti, Dante crede che Dio intervenga continuamente nelle
cose umane… ma proprio continuamente… ad horas. E, per prova, Bellomo invita a guardare il testo n. 11 che aveva predisposto, nel quale
risulta evidente che Dante pensa che gli elettori del Re di Gemania —colui che veniva eletto prima Re di Germania per poi scendere in Italia e farsi
nominare imperatore— non sono da dire “elettori”, ma “denuntiatores Divinae Providentiae”, perché è la volontà di Dio che si pratica in quella
elezione.
Ma Bellomo dubita che così si possa pensare degli elettori odierni!
Giuseppe Frasso, grande filologo e storico della letteratura italiana, ha presentato al Convegno i suoi Appunti sulla leggenda dell’invenzione della croce. Appunti nati da quando, nel vivo della sua attività
filologica, s’imbatte in alcune piccole edizioni dedicate alla leggenda
dell’invenzione [ritrovamento] della Croce. Tutti libretti pubblicati sotto il motto « Il più bel fior ne coglie », cioè sotto il motto dell’Accademia
della Crusca. Stabilito nella seduta del 14 marzo 1590 quel motto adatta un emistichio del Petrarca «e ’l più bel fior ne colse», Canz. LXXIII,
36, e lo sovrappone nello stemma alla figura del buratto, con allusione
ai compiti dell’Accademia di vagliare e proporre nella lingua italiana
la parte più pura. Sotto quel motto nascevano quei libretti. Frasso non
poteva non raccoglierli.
Con l’acribìa tipica del filologo, Frasso passa in rassegna tutte
le edizioni di quella leggenda e, alla fine, tutti i partecipanti al Convegno possono constatare che il nucleo di quella leggenda, come quello di
tante altre simili, è antichissimo. A formare le basi di queste narrazioni
92
G. Frasso,
Appunti sulla
leggenda dell’invenzione
della Croce.
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
hanno contribuito tante storie sacre intrecciate a tante altre profane,
le quali, subito erano “entrate in grazia del pubblico”. “Al primo loro
apparire avevano già, al momento in cui l’arte tipografica si diffuse,
conquistato un luogo importante nel repertorio giullaresco e crescendo di fama, man mano che erano maggiormente divulgate, trovarono
uditori e lettori non nel ’500 e ’600 soltanto, ma nel ’700 altresì e perfino nell’ ’800.” Insomma, la leggenda della Croce, che ha origini tanto
remote, giunge così come veniva pubblicata dal cartaro e stampatore
bolognese all’insegna della Colomba nel 1814 e poi a Prato nel 1860
presso Contrucci e a Firenze nel 1891 presso Salani nella Collezione di
librettini illustrati. Una collezione ricca di orazioni e fatti religiosi che ha
bene rappresentato quella letteratura muricciolaia, venduta sui muriccioli, come la chiamava Alessandro d’Ancona, che ci trasmette gli ultimi
avanzi delle eredità che le antiche generazioni ci hanno tramandato.
Trascorrendo, invece, dai muriccioli alle muraglie, erette dall’umanesimo per metterci al riparo dall’ignoranza e dalla falsità, ecco
l’opera di Lorenzo Valla, che esemplarmente può essere assunta come
spartiacque tra un uso della parola per il potere e la sua cura per la
ricerca della verità. La presentazione di una delle opere criticamente
e ideologicamente più famose dell’età Umanistica, il De falso credita et
ementita Constantini donatione declamatio di Lorenzo Valla [Intorno alla
donazione di Costantino falsamente ritenuta vera e inventata in modo menzognero] è
stata affidata a Mariangela Regoliosi, che con grande competenza ha
spiegato ogni passagio di questo testo così famoso —noto soprattutto per
l’acribia filologica mediante la quale dimostra la falsità di un altro testo
famosissimo, la così detta Donazione di Costantino— e significativo per
la teologia della Chiesa che racchiude.
Il contributo di Mariangela Regoliosi s’intitola Lorenzo Valla e
la Chiesa ‘costantiniana’. La sua competenza specifica sull’umanesimo
in generale e sul Valla in particolare è testimoniata dal suo ruolo di
Ordinario di Filologia medievale e umanistica presso il dipartimento di
Italianistica dell’Università di Firenze, dalle collaborazioni con le più
prestigiose accademie e dalla lunga serie di studi e pubblicazioni proprio su Lorenzo Valla. — Qui, e solo esemplificativamente, se ne ricordano alcune: La riforma della lingua e della logica [Atti del convegno del
comitato nazionale 6º centenario della nascita di Lorenzo Valla (Ediz.
naz. opere Lorenzo Valla. Strumenti) A cura di M. Regoliosi, Polistampa, 2010]; Lorenzo Valla e l’umanesimo toscano: Traversari, Bruni e Marsuppini. [Atti del
Convegno del Comitato Nazionale 6° centenario della nascita di Lorenzo Valla (2007) (Ediz. naz. opere Lorenzo Valla. Strumenti) a cura di M. Regoliosi,
93
M. Regoliosi,
Lorenzo Valla
e la chiesa
costantiniana.
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Polistampa, 2009]; Pubblicare il Valla [Ediz. naz. opere Lorenzo Valla. Strumenti. A
cura di: M. Regoliosi, Polistampa, 2008]; Antidotum in Facium di Lorenzo Valla [Antenore, 2000]; Epistole di Lorenzo Valla [Antenore, 1984]; Che cos’è il
Classicismo [Bulzoni, 1998]; Neoclassicismo linguistico [Bulzoni, 1998].
Regoliosi, in apertura, ha fatto riferimento allo scenario in cui si
situa l’opera del Valla. Siamo in un periodo di consolidamento del potere temporale del papato, in Roma, dopo la crisi avignonese e fiorisce
una fitta letteratura che tende ad esaltare la magnificenza del papato,
la nuova Roma cristiana erede, a un livello superiore, della Roma imperiale pagana. In questo contesto i documenti giuridici e la tradizione
ecclesiale favorevole al potere politico della Chiesa romana riacquistano vigore ed efficacia e tra questi anche e soprattutto il Constitutum Constantini ratificante la donazione che l’Imperatore Costantino, guarito
miracolosamente dalla lebbra da Papa Silvestro, avrebbe fatto al Papa
di tutti i territori dell’Occidente, trasferendo poi la sede dell’Impero in
Oriente.
Circa la storia del Constitutum Regoliosi ha ricordato che nel
’400 il Constitutum Constantini fu oggetto, e lungo tutto il Medioevo, di
strenua difesa da parte curiale e di contestazione da parte imperiale.
Permaneva come fattore di accesa contraddizione: validissimo per taluni, scomodo e ostico per altri. Per Papa Eugenio IV era il puntello per
sostenere la pretesa di condizionare la vita politica del Regno di Napoli,
considerato ‘legittimamente’ feudo della Chiesa e quindi di sceglierne
il re, favorendo il più fedele Renato d’Angiò e contrastando, anche militarmente, Alfonso d’Aragona che vi aspirava invece per motivi ereditari.
In questo contesto storico nasce il De falso credita et ementita Constantini
donatione declamatio di Lorenzo Valla.
Nel 1440 viene affidato a Lorenzo Valla, storico di punta della
corte di Alfonso il Magnanimo, il compito di scardinare le rivendicazioni curiali, denunciando limiti e difetti della Donazione, liberando
così la casa aragonese dalla sudditanza papale. Da una committenza
politica contingente ha origine un libro rivoluzionario, di grande rilievo
storico e teologico. Regoliosi, citando vari contributi d’analisi su questo
libro, e in particolare quello del Camporeale, ricorda come tutti abbiano messo l’accento su un elemento peculiare:
l’originalissima critica storico-filologica del documento pseudo costantiniano non avrebbe senso separata dalle specifica teologia della Chiesa che la sostiene e che traspare in ogni settore del testo valliano.
Senso, finalità e struttura argomentativa adottata sono dichiarati dallo stesso Valla. La sua è una Oratio, un’orazione cui ha dedicato una cura retorica elevatissima ispirata alla tradizione di Aristotele,
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Cicerone e Quintiliano. Addirittura cita il passo di Quintiliano, che più
lo ha ispirato: Nei documenti scritti – dice Quintialiano – si trova un’intenzione criminosa di chi li ha sottoscritti o l’ignoranza da parte degli stessi
sottoscriventi. Le prove argomentative, le probationes, che mettono in discussione il documento stesso, possono essere tratte dall’oggetto stesso della
causa, se per caso quanto è contenuto nella scrittura è incredibile che sia
stato compiuto, oppure, ulteriormente, se colui contro il quale la scrittura
è stata sottoscritta o uno dei sottoscriventi era assente o già deceduto, se le
circostanze di tempo non comportano tale scrittura, se fatti precedenti o
successivi contrastano con le scritture, spesso anche il solo esame diretto,
ne fa cogliere la falsità. Questo il modello. Su tale base, Valla costruisce
due tipi di argomentazioni rispondenti alle due indicazioni proposte da
Quintiliano: —svelare le contraddizioni interne al Constitutum Constantini, con un’analisi capillare che ne evidenzi incongruenze linguistiche,
stilistiche, fenomenologiche, storico-documentarie e logiche rispetto al
periodo in cui sarebbe collocata la sua stesura, il IV secolo di Costantino. Questo il tipo di critica che ha reso giustamente famoso il Valla, per
il rigore e la novità d’impostazione e per il modo assolutamente stringente che lo ha condotto a dimostrare la falsità del documento.
Ma anche l’altro tipo d’intervento che caratterizza tutta la pima
parte della sua opera, non è, per il Valla, meno, rilevante. Valla cala
tutta la materia, motivazioni e fonti, nella forma giuridico-canonistica
o logico-sillogistica della trattatistica medioevale di parte imperiale. Regoliosi è convinta che il Valla sia giunto a questa geniale operazione filologica sperimentale, avendo in mente tutta la lunga catena di giuristi
di parte imperiale, ma soprattutto il Dante della Monarchia. Costruisce
una sorta di teatro filologico: fa recitare ai soggetti storici implicati nel
presunto atto di donazione, principe detentore del potere civile, figli
dell’Imperatore Costantino, senato, popolo di Roma e destinatario della
donazione [Papa Silvestro], una serie di orazioni fittizie dalle quali e
nelle quali risulti appunto l’impossibilità, l’incredibilità, l’inverosimiglianza storica dell’atto. Un testo apparentemente solo erudito si carica
di forza accusatoria e demolitrice del temporalismo della Chiesa reale,
mettendo in contrapposizione la logica del potere umano e la logica di
Dio. I meccanismi retorici messi in atto sono tutti di straordinaria abilità e tutti meriterebbero di esseri presi ad esempio dell’analisi contestuale, degli svelamenti, delle incongruenze interne alla pagina, per poi
far lievitare, su tutta la meticolosa piattaforma dei termini e delle loro
relazioni, la vera posta in gioco: la visione della Chiesa reale e di quella
ideale auspicata da Valla.
Valla non attacca la Chiesa storica dell’epoca di Costantino. Tra
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
le righe emerge chiaramente che egli conosce quelle vicende. Le sue
fonti sono Eutropio ed Eusebio. Valla segnala di sapere le vicende che
portarono e mantennero al potere Costantino, la situazione del paganesimo nel IV secolo e la sua avversione al Cristianesimo, il trasferimento
a Bisanzio divenuta Costantinopoli, così come affiora un cenno alla
tolleranza verso il Cristianesimo, un cenno molto vago, privo di riferimenti all’editto del 313. Valla però non discute questi specifici elementi
storici. La sua critica mira a costruire la difesa dell’autonomia politica
di Alfonso d’Aragona rispetto al Papa. Punta tutto su due testi: la cosiddetta Leggenda di Papa Silvestro o Acta Silvestri, diffusissimo testo
agiografico della seconda metà del IV secolo, se non degli inizi del V;
e il Constitutum Constantini, che dalla Leggenda è anticipato, ma che si
articola e formalizza solo successivamente ed è poi in parte sintetizzato
e ridotto nel Decretum di Graziano, non però nella versione originale
di Graziano della Concordia discordantium canonum. Valla produce la
comparazione dei testi, ne rispetta le varianti e ne sottolinea le lacune
rispetto al testo completo.
La critica moderna non ha ancora risolto il problema dell’origine del Costitutum Constantini, la cui prima apparizione risale ad un
codice scritto agli inizi del IX secolo presso l’Abbazia di St. Denis. Chi,
dove, perché, può avere inventato un falso così palesemente maldestro?
Il chi, forse, non si saprà mai. Circa il luogo e il perché le ipotesi sono
due a seconda che prevalga uno dei due cui prodest: o alla Chiesa di
Roma, che nei secoli travagliati della lontananza-vicinanza dell’Impero
di Bisanzio e della calata dei Longobardi poteva crearsi un’autonomia
territoriale; oppure ai Carolingi, che, legittimando l’Impero della Chiesa, ne ricevevano in cambio la Translatio Imperii da Bisanzio. La cosa
che effettualmente avvenne fu questa. Ma la trascrizione del primo testimone sopravvissuto in Francia a St. Denis, chiesa cara ai re franchi, non
è del tutto risolutiva, per optare per un’origine francese, franca, perché
sappiamo che anche Papa Stefano II soggiornò a St. Denis nel 754.
Nell’incertezza, comunque, il Valla denuncia apertamente la connivenza tra re franchi e papato, operata da Papa Stefano II in favore di Re
Pipino e dei suoi figli, nel 754, e poi confermata nell’817 tra Lodovico
Pio e Papa Pasquale I con un documento che il Valla sottopone a critica subito dopo la contestazione della Donazione, per concludere: «Sono
sicuro che questa menzogna è venuta fuori da qualcuno dei papi.». Ma se
l’origine è nella Chiesa, per il Valla ne deriva un gravissimo crimine,
una gravissima empietas. In questo senso la critica del Valla s’indirizza
alla Chiesa costantiniana, perché la chiesa gli appare filtrata attraverso
la Leggenda di Papa Silvestro, che il Valla conosce essere per lo meno
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
antecedente al V secolo, e quindi riflettente effettivamente i tempi costantiniani, e attraverso il suo clone più tardo il Constitutum Constantini.
Attraverso questo specchio o filtro La Chiesa appare corrotta, plagiata
e condizionata dal potere politico imperiale. Ha abbandonato la sua
vocazione messianica e ha sposato progressivamente ideologia e prassi
temporalistica. Attraverso le denunce, gli attacchi e le prospettive positive emerge l’immagine della vera Chiesa, che Valla contrappone alla
Chiesa negativa.
Il messaggio cristiano presenta una indiscutibile novità e specificità, anzi, un’opposizione alla logica del mondo, perché è Cristo il fondamento della Chiesa, Lui la pietra angolare e nessun altro, nemmeno
il Papa, ne può essere fondamento. Anzi, il Papa, se vuole essere veramente, non solo formalmente, vicarius Christi, deve rivestire la Persona
Christi. Modellarsi sul modello di Cristo. Il Papa è dunque il Buon Pastore, che svolge nei confronti delle sue pecore una funzione di amorosa
protezione e non di comando, né di giudizio, né, tanto meno, come storicamente si è verificato, di brutale fiscalità. E la Chiesa deve essere inanzitutto libera. Uno degli elementi di scandalo della falsa Donazione è la
pretesa del potere politico di dettare legge alla Chiesa, invischiandola
in una protezione utile ma soffocante, secondo un’ottica cesaro-papista
che appartiene, più che a Costantino, ai suoi successori e che il Constitutum Constantini riflette e fotografa. Libertà politica della Chiesa e libertà
nella Chiesa nel nome della originale libertà dell’essere umano, quindi
di tutti gli uomini, di tutti i tempi, di tutti i popoli e nel nome del loro
diritto all’autodecisione. Su questo aspetto, della libertà umana come
elemento costitutivo dell’uomo, le parole del Valla si fanno stupende ed
ancorate alla storia originaria della Chiesa, nella quale anche tra Paolo
e Pietro il principio di autorità non disconosceva il riconoscimento della libertà di parola e di critica, quando sostenuta da retta coscienza, e
basata sulla veritas onestamente ricostruita e proposta come conquista
dal valore sacrale. Poiché, ripete Valla insistentemente, la verità viene
da Dio. Autorità e tradizione della Chiesa non sono dunque in tutto esenti da errori. Come Pietro è stato giustamente ripreso su alcune
questione di dottrina o di morale da Paolo, perché queste riconosciute
reprensibili, così anche potranno essere giustamente sottoposte a critica
false credenze della tradizione, sia pur portate avanti in buona fede
nella convinzione di proteggere il popolo di Dio. Soprattutto potranno
e dovranno essere sottoposte a critica, con libera contestazione, quelle
verità che, presentate come tali e come tali difese per secoli dalla somma
autorità curiale, risultino inficiabili da prove circostanziate ed evidenti,
tratte alla luce da competenti. Anche laici. E Valla sta parlando di sé.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
F. Zuliani,
Costantino
nell’Europa
luterana
del ’500.
La recezione di Costantino nell’Europa centrale, lacerata dalle discordie e dalle guerre di religione è stata studiata e presentata al
Convegno da F. Zuliani con il titolo Costantino nell’Europa luterana del
‘500. Più che l’imperatore Costantino fu la Declamatio di Valla ad avere
una cosiderevole fortuna tipografica nel mondo germanico.
La prima edizione di cui si abbia notizia è del 1506 ad opera di
Johannes Grüninger di Strasburgo, con una ristampa nel 1520 ad opera
di Iacopo Giunta. Curata da Ulrich von Hutten è l’edizione del ’18, erroneamente considerata la princeps e stampata a Basilea dal tipografo
Andrea Cratander e ristampata nel ’19. Un’altra ristampa avvenne a
Colonia ad opera di Ortwin Graes. Poi arrivò l’opera omnia del Valla
e qui la Declamatio, con il titolo « Contra donationis quae Constantini
dicitur privilegium ut falso creditum declamatio » apparve a Basilea nel
1540, concordante con l’edizione di von Hutten. Ancora Basilea nel
1566 con una raccolta di testi curata da Simon Schard. Poi l’edizione di
Simon Schard nel 1609 e l’edizione di Leyda nel 1620. Infine la prima
edizione critica moderna basata su vari codici è l’edizione teubneriana
di Lipsia 1928, curata da Walter Schwahn, preceduta nel 1896 da uno
studio dello stesso Schwahn sul Valla: « Lorenzo Valla. Ein Beitrag zur
Geschichte des Humanismus ».
Una traduzione in tedesco non datata, ma sicuramente apparsa
in Germania nel 1526, di fatto fu il monumento dell’anticattolicesimo
con l’esplicito accostamento del Papa all’Anticristo, raccogliendo quindi l’identificazione proposta da Lutero. Le ragioni per un utilizzo dell’opera da parte del partito protestante in formazione sono facilmente
individuabili. Valla offriva uno straordinario esempio di abuso papistico ed era un colpo sferrato non da un contemporaneo, quindi tacciabile di partigianeria, ma un vetus di chiara fama e prestigio. L’opera
di Valla, in area tedesca, specie presso quelli che avevano studiato in
Italia, godeva della considerazione massima. Era un testimone di verità,
un maestro dell’umanesimo, un’autorità filologica indiscutibile.
Ma la frattura tra mondo latino e mondo germanico era ormai
insanabile. Erano falliti i colloqui cattolico-luterani di Ratisbona del
1541. I cattolici riconoscevano anche la giustezza dell’idea luterana della salvezza per grazia, ma alla fine fu l’evoluzione del movimento di
Riforma a prevalere, facendosi portatore di un modello di Chiesa che
s’intendeva realizzare e che non poteva più essere ricondotta semplicemente a una richiesta di riforma degli abusi del papato, né tanto meno
alla polemica anticlericale, anti romana e anti papale, già tipica del
tardo Medioevo tedesco.
Nel 1556, con un’edizione a Basilea fu fatto il tentativo di ria-
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
prire gli studi su Costantino Magno. Il testo redatto da un professore
di Heidelberg non solo era stampato in territorio di lingua tedesca e
nella città elvetica più prossima alle posizioni luterane, ma chiariva
la propria intenzione d’inserirsi nei dibattiti presenti in Germania. Il
testo è una delle più importanti opere d’ispirazione irenica del ’500,
espressione di una via media, che auspicava la concordia tra le diverse
confessioni cristiane europee e una reciproca tolleranza e invocava la
proclamazione di un Concilio che potesse sanare lo scontro europeo.
L’opera riscosse apprezzamento in campo protestante tra i calvinisti e
poi tra i filippisti [i simpatizzanti di Melantone], ma non fra i luterani indisponibili al compromesso teologico sia con calvinisti e filippisti e che
erano direttamente passati dall’ideazione alla stesura di una propria
Historia Ecclesiae Christi o Centurie di Magdeburgo o Secoli di Magdeburgo, pubblicata la prima volta dal 1559 al 1574. Ispiratore dei “Centuriatori” Matthias Flacius e successivamente il vescovo luterano della
Pomerania Johannes Wigand. Editore dell’opera l’umanista di Basilea
Johannes Oporinus. Ma, spesso, presso il popolo, più di un’opera critica
immensa, può un piccolo libretto come i Libri di prodigi, che Melantone, Lutero e gli umanisti scrivono normalmente in tedesco e nel quale
spiegano l’avvento della Riforma attraverso prodigi che avvengono sulla
terra al momento della morte di Cristo. In questi testi Costantino non
compare se non negli anni ’50. Solo in uno viene citata la Donatio. Viene considerata vera e dunque dev’esserci un miracolo: sui muri di Roma
appare una scritta: “Il veleno è oggi entrato nella Chiesa”. Costantino,
per i lettori di questa letteratura popolare, poteva esser visto solo con
ostilità.
Quello che colpisce quando si analizzino i dati raccolti non è
tanto la conoscenza e l’impiego di Costantino da parte dei luterani tedeschi, che è da ritenersi pacifico per mere ragioni storiografiche, quanto
piuttosto la poco rilevanza che la figura dell’Imperatore ebbe per questi.
Qualora si guardino i documenti fondativi del luteranesimo, anche politico, si nota che neppure una singola volta l’Imperatore viene citato. Il
fatto colpisce, ma non è sorprendente. La Germania cinquecentesca fu
presto luogo di scontro teologico e polemico e di confessionalizzazione
politica, ma anzitutto teologico-storiografica. L’identità luterana tedesca, quindi, sebbene per molti versi originale e fondante, fu comunque
caratterizzata da una costrizione a confrontarsi con un altro, in primis,
il mondo cattolico, che, invece, non conobbero alcune periferie luterane. Il mondo luterano propriamente detto, fu infatti ben più vasto della
Germania stessa, comprese ampie parti dell’Europa orientale, dall’Ungheria alla Polonia, passando dalla Moravia all’alta Slovenia e quindi
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
A. Rocca,
Le riforme
religiose in
Inghilterra e
Costantino.
all’area baltica e soprattutto alla Scandinavia. Sarà necessario allargare
lo sguardo anche a questi territori. L’allargamento dell’analisi a simili
periferie, ci farebbe incontrare La cronaca del regno di Danimarca di
Hvitfeld [Arrild o Araldo]. Ffu il testo più importante di una storiografia
ricca e ingiustamente poco conosciuta fuori dalla Scandinavia stessa.
Proprio all’inizio del primo libro, il sovrano Cristiano III, che nel 1535
introdusse la Riforma nel paese, sorprendentemente, è paragonato a
Costantino. Diverso il caso della Germania del ’500: La Germania non
conosce nessun Costantino che riuscì a riconvertirsi alla vera fede e che
può essere identificato come primo Imperatore cristiano. Al contrario,
saranno i cattolici ad impadronirsi presto della figura dell’Imperatore,
grazie all’analogia: Costantino, in quanto Imperatore, doveva essere intollerante dell’eresia e strenuo difensore della Chiesa romana ufficialmente riconosciuta. Un modello già espresso in una celebre lettera di
Paolo III inviata a Carlo V nel 1544. A metà ’600 gli Asburgo d’Austria
faranno di Costantino il ‘progenitore’ della dinastia.
Diverso il caso dell’Inghilterra. Se ne è occupato Alberto Rocca,
Dottore dell’Ambrosiana, con il suo intervento Le riforme religiose in
Inghilterra e Costantino.
Il 25 luglio, data molto importante e significativa per Costantino,
del 1998, l’arcivescovo di Canterbury Coggan inaugurò la statua di Costantino, collocata all’esterno dell’ingresso meridionale della Cattedrale
di York. Opera di Philip Jackson, patrocinata dallo York Civic Trust,
il bronzo è accompagnato da questa iscrizione: « Vicino a questo luogo
Costantino il Grande fu proclamato Imperatore romano nel 306. Il suo riconoscimento delle libertà civili dei suoi sudditi cristiani, la sua conversione
alla FEDE [scritto maiuscolo] stabilì le fondamenta religiose del Cristianesimo
occidentale. ». Raffigurato seduto, il Generale sostiene con la sinistra la
sua spada spezzata, ormai trasformata in croce e, a totale addomesticamento della belligerante figura, ci induce la scritta: «Constantine, by
this signs conquer. », che è la traduzione inglese del motto latino « in Hoc
signo vinces ». Questo conquer viene sempre usato in inglese per tradurre
vinces; è molto britannico come concetto. Se questo monumento con
l’espresso riferimento a Costantino, come garante della libertà religiosa
dei cristiani e primo Imperatore cristiano fondatore dell’Occidente cristiano, non manca di sorprendere chi sia solo un poco avvezzo al cinico
materialismo razionalistico britannico, proprio detto monumento, aiuta però a ricordare che, non solo nella Chiesa d’Inghilterra, Costantino
non fu mai dimenticato, ma fu un fondamentale punto di riferimento.
L’intervento di Rocca desidera mettere in evidenza in che misu-
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
ra Costantino fornì un modello preciso per la definizione della “nuova”
immagine del sovrano, che si venne formando nel corso del regno di
Enrico VIII e come, di questo riferimento, vennero evidenziati aspetti
sensibilmente differenti nel corso dei diversi regni successivi allo Scisma
del 1534.
Ben note sono le vicende dello Scisma enriciano, tuttavia Rocca
ritiene utile ricordare che nei lunghi anni che trascorsero dal primo
manifesto, il desiderio di Enrico di divorziare da Caterina d’Aragona,
sino all’Atto di supremazia, la riflessione su come risolvere la questione
del re come si vociferava a corte, “The King’s Great Matter”, si sviluppò lentamente e comportò la maturazione della concezione del Regno
d’Inghilterra come Impero, non senza il concorso di alcuni elementi
teologici, tipicamente riformati. L’atto scismatico voluto da Enrico maturò nella mente del re e dei suoi stretti collaboratori, a seguito della
mancata disposizione da parte di Roma di concedere la Dichiarazione di
nullità del matrimonio del sovrano con Caterina d’Aragona, già vedova
del fratello Enrico Arturo. Ovviamente non era pensabile che la separazione dalla Chiesa romana ideata da Enrico e dai suoi consiglieri con
le sue numerose conseguenze, religiose, legali, politiche ed economiche
non suscitasse gravi difficoltà anche dal punto di vista del consenso
in seno allo stesso regno inglese. Ecco allora la necessità di supportare il percorso, che avrebbe condotto alla rottura definitiva con la sede
petrina, con giustificazioni di carattere storico, scritturistico, teologico
elaborate —ma potremmo dire, confezionate—, da un gruppo di studiosi
e prelati nominati da Thomas Cranmer, arcivescovo di Canterbury, e
diffuse capillarmente dall’acuta abilità di Thomas Cromwell.
La massiccia azione propagandistica mirava a convincere il regno e l’Europa che l’Atto di supremazia non conferiva al re nulla che
non fosse già di sua competenza, essendo il riconoscimento la riscoperta di quello che da sempre era stata una delle prerogative del re
d’Inghilterra. Una chiara presentazione di questo concetto si trova nel
De vera obedientia oratio di Stephen Gardiner, vescovo di Winchester,
pubblicato nel 1535. Il lancio dell’azione propagandistica, fu meticolosamente preparato e con ricerche storiche e archivistiche coordinate
dall’arcivescovo Cranmer, lavoro che fu raccolto in un testo manoscritto
destinato al re e con una circolazione limitata alla corte, conosciuto
come « Collectanea satis copiosa ex sacris scriptis et authoribus catholicis
de regia et eclesiastica potestate ». La raccolta, del 1520, conservata alla
British Library con segnatura Ms. Cotton Cleopatra E VI, e recante annotazioni autografe del monarca stesso, il quale disegnava delle deliziose
manine, là dove gli interessava, costituisce la fonte di gran parte dei
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
riferimenti storici, patristici, scritturistici concernenti l’autorità regia e
il rapporto del clero con la corona, utilizzati da molti autori enriciani,
ricorrenti poi anche nell’apologetica elisabettiana. La silloge fu redatta
sotto la direzione di Thomas Cranmer con grande apporto di Edward
Foxe segretario del cardinale Wolsey dal 1527 e completata nel 1530.
Rocca ricorda qui che fu l’ecclesiastico Cranmer che suggerì ad Enrico
VIII di richiedere alle maggiori università europee del tempo l’opinione
circa la possibilità di divorziare da Caterina d’Aragona.
Nell’intenzione dei suoi redattori i Collectanea volevano fornire elementi inconfutabili che potessero giustificare una soluzione della
King’s matter senza un ricorso esterno al regno, cioè senza ricorrere a
Roma e a questo scopo veniva di fatto a porre le basi fondamentali per
le dottrine dell’Impero e della supremazia regia. Detto con disarmante
semplicità, questo manoscritto provava che i re d’Inghilterra non avevano superiori di sorta sulla terra, fossero temporali o spirituali. L’acribia dei redattori riuscì a convincere il sovrano che da sempre il monarca inglese godeva di autorità imperiale, in virtù della quale era anche
Head of the Church and God, titolo che era stato usurpato dal vescovo
di Roma. Tale autorità gli consentiva finalmente di porre fine al matrimonio con Caterina d’Aragona. Come ha brillantemente sottolineato
John Gay, in un suo scritto: la giurisdizione imperiale inglese veniva
così presentata, dai Collectanea, come una verità teologica e come tale
non poteva essere ignorata nemmeno dal vescovo di Roma.
Non è stato di poco interesse quanto ha fatto rilevare Alberto
Rocca circa tre passi riportati in diverse sezioni dei Collectanea, che fanno esplicito riferimento all’Imperatore Costantino. Seguendo l’ordine
di presentazione nella silloge, troviamo:
— un passo della Historia tripartita, la cui introduzione fu scritta da
Cassiodoro;
— una citazione dagli Ozi imperiali di Gervasio di Tilbury, riportata in
due sezioni diverse e con delle varianti degne di nota;
— e una citazione della Lettera di Ottone vescovo di Frisinga all’Imperatore Federico tratta dalla Chronica, la cui versione, meravigliosa, noi
custodiamo qui in Ambrosiana.
La prima citazione è tratta dal libro III, capitolo VII della Historia tripartita e ci fa ascoltare le parole di rimprovero di Costantino,
rivolte ai vescovi divisi da questioni teologiche, in una lettera, nella
quale l’Imperatore appare come la prima auctoritas e l’ultimo punto di
riferimento anche per le dispute di carattere religioso-teologico.
In secondo luogo, dagli Ozi imperiali di Gervasio di Tilbury,
giurista e monaco vissuto tral XI e il XII, per due volte in due sezioni
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
diverse dei Collectanea, al foglio 61 verso e al foglio 94 verso, è riportato
il medesimo passo, che ricorda come Costantino abbia affidato a Silvestro la parte Occidentale dell’Impero, facendo però capitale dell’Impero quella Orientale con tuttavia un’essenziale sottolineatura: sola sede
mutata non dignitate. Interessante notare come lo stesso brano sia più
lungo nella seconda citazione per la presenza di questa aggiunta: « Deus
auctor imperii et imperator auctor papalis triumphi. Pontifex animarum
caput est post Christum, imperator corporum dominus post Deum. ». Come
tutti avremo notato, gli estensori della nostra silloge non si preoccupano del fatto che il testo di Gervasio consideri autentico l’episodio della
Donazione. Questo è uno dei grandi elementi interessanti, ambigui, di
questo momento del regno enriciano: da una parte si fa questa silloge e
si citano dei testi che danno per scontata la Donazione di Costantino, nel
contempo lo stesso governo fa pubblicare nel ’34 la versione inglese di
Lorenzo Valla. Interessantissima ambiguità.
In terzo luogo la terza citazione, citazione dalla Chronica di Ottone di Frisinga, viene introdotta da un titolo ben evidenziato —[le Collectanea sono interessanti, anche perché usano diverse grafie, usano il grassetto, il corsivo, il
maiuscolo, proprio per evidenziare titoli oppure concetti che a loro stanno particolarmente cari]— : Donatio Costantini, foglio 101 recto e asserisce che Costantino
divise l’Impero tra i figli, affidando al sacerdotium l’Impero, non perché
ne fosse il sovrano, ma perché il clero lo sostenesse con l’ausilio spirituale dell’Oratione: « verum imperii fautores Constantinum non regnum
Romanis pontificibus hoc modo tradidisse, sed ipsos tamquam summi sacerdotes ob Domini reverentiam in patres assumpsisse, ab eisque se ac successores suos benedicendos et patrocinio orationum fulciendos contendunt. ».
Conoscendo quanto fossero ricettivi gli umanisti inglesi nei confronti dei nuovi approcci filologici e linguistici —si pensi alla presenza di
Erasmo a Cambridge sostenuta da Thomas More e da John Fisher—, il riferimento a queste fonti in un documento redatto dal 1527 al 1530 non manca di suscitare un certo interesse. Molto opportunamente Alberto Rocca
ha voluto far notare a questo punto che la qualità della preparazione culturale dei vescovi enriciani era generalmente superiore a quella di molti
vescovi del continente. Questo è un altro dato estremamente interessante.
Così confezionata ad arte, questa raccolta tolse ogni dubbio al
sovrano: veramente la sua era corona imperiale e dall’autorità imperiale conseguiva la sua giurisdizione sulla Chiesa. Non va dimenticato
che il principio di impero è fondamentale per la dottrina della supremazia, che da esso viene fatto derivare. L’affermazione solenne di questa
convinzione maturò a partire dal 1530, ma fu formalmente espressa e
codificata ufficialmente dal parlamento nel febbraio 1533 con l’Act in
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Restraint of Appeals, che segnò la via dell’iter giuridico e politico, che
trasferì la giurisdizione dal pontefice romano alla corona inglese. L’Atto
fu fatto passare in gran fretta perché il re, in gennaio, aveva già sposato
segretamente Anna Bolena che era incinta. A parere di Rocca, questo
testo è più significativo ancora dello stesso Atto di supremazia del ’34.
Per questo ne propone la lettura. Dice il testo del ’33: « Poiché in diverse antiche storie, cronache, è manifestamente dichiarato ed espresso
che questo reame d’Inghilterra è un Impero e così è stato accettato nel
mondo, governato da un supremo capo e re, che ha la dignità e lo stato
regale e porta la corona imperiale, sul quale un corpo politico, formato
da ogni sorta e gradi di popolo, diviso in termini e in nomi di spiritualità e temporalità [questo è, secondo Rocca, un riassunto fenomenale di quello che
era il desiderio dei sovrani medioevali in Inghilterra] sia legato e sia portato
in obbedienza davanti [...] et cetera. ». Quello che conta: questa corona
imperiale di cui il sovrano in Inghilterra è portatore, l’Act in Restraint of
Appeals dichiara proprio questo in maniera molto, molto determinata.
I contenuti dell’Atto del ’33 in realtà non erano nuovi, perché
nei Collectanea erano stati riportati numerosi passi del giurista Henry
de Brighton, il quale aveva scritto che il re d’Inghilterra non habet superiorem, applicando a lui quanto la legge romana attribuiva all’imperatore. L’espressione verrà ripresa anche nell’Atto di supremazia del 1559,
all’inizio del regno di Elisabetta, dove si dice: « per la restaurazione e
l’unificazione della corona imperiale di questo regno. ».
Ancora nel 1583 Thomas Smith ribadirà che l’origine di questa
indipendenza d’essere un imperatore, che non ha nessun superiore sulla terra, è assai antico ed è di diritto divino.
Ovviamente la convinzione che la corona inglese sia corona
imperiale sarà ulteriormente ribadita agli inizi della monarchia degli
Stuart, così come sarà ripresa la concezione di un unico corpo politico
composto da clero e da laici, che fa riferimento all’unico capo: il sovrano. Non è assolutamente fuori luogo affermare che, benché il tutto
fosse un lungo e ingegnoso costrutto, iniziato con l’ascesa al trono di
Enrico VII al termine della Guerra delle Due Rose, il modello costantiniano veniva a formare, se non l’unico, certamente uno degli ottimi
paradigmi per i monarchi inglesi. La propaganda ideata da Cromwell
al fine di diffondere l’ideologia antipapale, per convincere i sudditi
del nuovo, secondo lui, riscoperto ruolo di Enrico VIII nei confronti
della Chiesa, si mosse su diversi fronti. Ma Alberto Rocca, proprio sul
punto, ha voluto soffermarsi, in particolare, sulle riedizioni. Benché si
tratti di materia vastissima e affascinante, ha voluto dedicare poche
parole per menzionare due edizioni fondamentali per quel che riguarda
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
l’aspetto specifico di questa presentazione. Si è riferito alla Declaratio
di Lorenzo Valla pubblicata nel 1534 in inglese e quella del Defensor
pacis di Marsilio da Padova pubblicato in inglese nel 1535. L’edizione
inglese di L. Valla apparve proprio nel ’34 e c’interessa per provare
come il testo dell’umanista italiano fosse ben conosciuto in Inghilterra
—noi sappiamo che il livello umanistico del Valla era altissimo, era
molto conosciuto, se ne parlava—. L’anno successivo venne data alle
stampe una traduzione, curata da William Marshall e patrocinata da
Thomas Cromwell, del Defensor pacis di Marsilio da Padova. Un’opera
che, concependo la plenitudo potestatis del pontefice come il massimo
ostacolo alla pace, scopo primario di ogni buon governo, tornava utilissima a Cromwell. Spesso la versione inglese è volutamente libera in alcune sue parti, per essere adattata al contesto e alle necessità enriciane.
È sufficiente leggere la nota del verso del frontespizio, per comprendere
immediatamente però come oggetto primario sia di usurped power of the
bishop of Rome, otherwise called, the Pope, l’usurpato potere del vescovo
di Roma, altrimenti chiamato, il Papa. Per chi leggeva questa traduzione del Defensor, la figura del good emperor dell’imperatore Ludovico il
Bavaro, che era il sovrano di riferimento per Marsilio, spariva in dissolvenza per assumere la fisionomia di Enrico VIII buon principe, che
riprendeva possesso della autorità legittima sulla Chiesa, conferitagli da
Dio, sottrattagli dai vescovi di Roma. L’apostrofare i sommi pontefici
come usurpatori e definire i principi come loro naturali sovrani conferma il convincimento, ormai consolidato nel 1535 nell’ambiente della
corte, che il re d’Inghilterra gode di una superiorità sul clero che gli è
conferita direttamente dall’alto. Acutamente qui Rocca ha sottolineato
che nel Defensor scarso rilievo viene attribuito alla Donatio, mentre assai rilevante è la convinzione marsiliana che Costantino fosse originario
detentore di ogni giurisdizione; del resto non bisognerebbe dimenticare
il suo intento precipuo di negare che la giurisdizione pontificia fosse
superiore a quella imperiale. Queste erano argomentazioni cardine del
progetto della supremazia imperiale e Costantino ne veniva a costituire
il modello perfetto.
Per amore di precisione va qui detto che non deve sembrare
che Costantino sia l’unico e solo exemplar del Godly Prince, cioè del
buon principe. Moltissimi sono gli esempi desunti dalla scrittura, dai
Padri della Chiesa, dalla storia inglese, dalle vicende dell’Impero. In
particolare, e degno di nota: con Edoardo VI salito al trono nel 1547 a
soli sei anni e l’instaurarsi di un regno con una reggenza recisamente
calvinista, Thomas Cromwell fu portato a salutare il re-bambino più
che come Costantino, come il novello Joas, il figlio del re Akhazia, di cui
105
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
si parla nel II libro delle Cronache, inaugurando una retorica dai toni
accesamente riformati, —si potrebbe dire: dalle sottolineature più scritturistiche che giuridiche, com’era stato sinora—, una retorica che avrebbe
però dovuto conoscere una drammatica stasi con la prematura morte di
Edoardo e la Restaurazione cattolica di Maria. Una Restaurazione, tuttavia, che non significò una mutazione di percezione della giurisdizione
del sovrano. Questo è un aspetto poco trattato, sottolinea Rocca, ma in
realtà, Maria governò in base al principio della supremazia regia e a
Roma poco interessò, se non per alcune pratiche da un punto di vista
formale.
Alberto Rocca desidera concludere questo veloce intervento sull’immaginario di Costantino nelle riforme religiosi inglesi, soffermandosi su un autore elisabettiano. La sua scelta è stata motivata per cercare
anche di vedere quali differenze ci siano state nell’utilizzo del personaggio. Richard Hooker è sicuramente uno dei personaggi, oggi per noi,
più rappresentativi del’500: non lo era per i suoi contemporanei. Le
sue opere non volevano essere stampate per lunghezza e scriveva in un
inglese che i suoi contemporanei definivano “incomprensibile”. Rocca
parla di Hooker, ma in realtà non esiste apologista, anche elisabettiano,
che non menzioni il nostro imperatore. Si pensi solo alla “Defense of
The Apology of the Church of England” di Bp. John Jewel, Vescovo di Salisbury, che era uno dei massimi apologisti elisabettiani. Oltretutto era
molto interessante, perché era stato in esilio durante gli anni di Maria.
Dunque si era fatto una mentalità riformata sul continente. Quindi è
bello vedere come lui proponga una riforma in Inghilterra, dovendo
però essere sottoposto al settlement elisabettiano. Però Hooker merita
una menzione particolare perché, se da una parte le sue tematiche, i
suoi riferimenti sono quelli di tutti gli apologisti Tudor, la sua trattazione si distingue per essere più meticolosa, sistematica, ma anche in un
certo senso meno politically correct. Come sappiamo Hooker, che era master del Temple, la Chiesa dei giuristi, a Londra, fu impegnato per buona
parte della sua vita nel difendere le istituzioni e i principi della Church
of England del settlement di Elisabetta; e questo non primariamente contro le obiezioni cattoliche, quanto piuttosto contro quanto sostenuto dai
puritani che avevano conosciuto una notevole diffusione in Inghilterra,
nonostante il pugno di ferro dell’arcivescovo John Whitgift.
Dopo la decapitazione di Maria Stuart e la sconfitta dell’Invincibile Armada del 1588, i cattolici cessarono di costituire un pericolo
reale per la monarchia, gli sforzi dell’establishment per il mantenimento dell’ordine dovettero concentrarsi sui puritani che negavano veridicità al settlement Elisabettiano, mettendone in discussione i principi
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
teologici, le modalità d’interpretazione della scrittura, l’organizzazione
episcopaliana, persino l’ordinamento monarchico. I primi libri della
principale opera di Hooker, Le Leggi della politica ecclesistica, furono
pubblicati nel 1593, quando fortissima era la repressione ecclesiastica
dei puritani per mano di Whitgift.
Rocca si limita qui a fare riferimento a due passaggi nei quali
Hooker fa richiami espliciti a Costantino. Entrambi sono tratti dall’ultimo libro de Le leggi, l’ VIII, quello interamente dedicato alla difesa
della supremazia regia contro le obiezioni puritane. In aperta risposta
alle posizioni puritane, Hooker fa riferimento a Costantino per difendere due particolari prerogative regie:
— quella di convocare i Sinodi e i Concili; e
— quella di legiferare in materia ecclesiastica.
Rocca fa notare la mutata situazione: — con Enrico VIII era un
momento in cui si ponevano le basi per qualcosa di nuovo; con Elisabetta I ormai ci si trova a difendere qualcosa che è ormai established,
qualcosa che costituisce tradizione per quanto riguarda il regno.
In aperta risposta alle posizioni puritane, Hooker fa riferimento
a Costantino, appunto, per difendere due particolari prerogative regie:
quella di convocare i Sinodi e quella di legiferare in materia ecclesiastica.
La prima affermazione nel libro VIII, capitolo IV: « Costantino non solo
fu colui che per primo convocò un Concilio generale, ma fu anche colui
che determinò come fare queste convocazioni. ». Fa giustamente notare
Rocca come l’elemento saliente sia non solo il riferire l’atto della convocazione di un’assise ecclesiastica esercitato dall’imperatore, quanto
piuttosto l’avere anche definito tale istituzione come necessaria alla
vita della Chiesa. L’altro passo citato da Rocca è desunto dal cap. VI
del libro VIII, uno di quelli più importanti per la comprensione della
supremazia regia in Hooker : « Domandandoci in base a quale diritto
da Costantino in poi gli imperatori cristiani si siano occupati degli affari
della Chiesa, noi dovremmo o condannare questo fatto come qualcosa oltre
modo presuntuoso e arrogante, oppure dovremmo riconoscere che in virtù
di una legge che è chiamata regia, il popolo ha conferito all’imperatore il
proprio potere di fare le leggi e di far sì che gli editti abbiano valore legale e questa autorità essi trasmettono a quanti hanno autorità competente.
Cioè gli imperatori, a loro volta, hanno il potere di fare le leggi, anche
per le religioni e a beneficio della Chiesa di Gesù Cristo ». Questo è uno
dei punti fondamentali de Le Leggi di Hooker, perché per Hooker una
delle questioni principali è che il consenso crea il potere, non tanto secondo le accezioni democratiche odierne, ma quanto che il popolo è il
detentore del potere. C’è stato un momento —quello di questa lex regia—,
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
in cui il potere è stato conferito dal popolo al sovrano. Come? Hooker
questo non lo dice, e però, in virtù di questo passaggio, il sovrano oggi
ha un’autorità che giustamente esercita e che può delegare. Questo non
soltanto per quanto riguarda il body politic, quanto meno le leggi anche
religiose per il body politic. Il body politic è un sinolo di temporality e
di spirituality. Queste due cose non possono essere separate. Questo è
uno dei punti fondamentali, interessante come una delle affermazioni
fondamentali de Le Leggi che vede Hooker porre l’inizio in Costantino.
Non tanto Costantino in quanto proprio lui, ma in quanto primo imperatore che legifera nei confronti della Chiesa.
Al pari di Costantino il sovrano inglese ha diritto sulle convocazioni di Canterbury di York, quindi sulle adunanze della Chiesa e
ha piena competenza nel governare la Chiesa e nel derimerne tutte le
questioni, il testo però contiene un’espressione che non può essere trascurata, che è appunto: Avendo il popolo passato all’imperatore il suo
intero potere di fare le leggi. É in sintesi il pensiero cruciale de Le Leggi
di Hooker: nel popolo risiede il potere di fare le leggi, power, che è stato
da lui trasferito al sovrano perché, in unione col parlamento, governi il
commonwealth, secondo la volontà divina.
La parabola che Rocca ha così approfonditamente presentato
è veramente singolare. Si parte da un riferimento all’Imperatore, per
sostenere un impero assoluto, per giungere a un altro riferimento al
medesimo imperatore, per dire che il potere che il sovrano esercita non
potrebbe essere, se non gli fosse derivato da un popolo.
Non è un caso che Hooker, benché suddito fedele, non abbia
mai raccolto elogi dalla sua sovrana e che la ‘ comprehensivness ’ sia,
ancora oggi, il tratto saliente della Chiesa d’Inghilterra.
A. Bentoglio,
Drammi,
tragedie,
musiche
e balli per
Costantino
il Grande.
Alberto Bentoglio
Drammi, tragedie, musiche e balli per Costantino il Grande
Anche a una prima e superficiale ricerca il nostro grande imperatore è soggetto di una vastissima produzione teatrale dedicata alle sue
vicende pubbliche e private. Basterà consultare la sola raccolta drammatica Corniani Algarotti conservata a Brera, per censire più di venti libretti per musica, drammi, tragedie dedicate a questo argomento.
Questa ricchezza ci attesta subito che la figura di Costantino anche sulle
scene teatrali godette di una grandissima fortuna, che cronologicamente si confermò soprattutto in Italia tra la fine del XVII secolo e i primi
cinquant’anni dell’ ’800.
Alla fine del ‘500, 1597, troviamo un esempio importante: il Crispus una tragedia latina composta dal padre Bernardino Stefonio della
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Compagnia di Gesù da recitarsi nel seminario romano. Questo testo riscosse un successo straordinario nel teatro tragico di tutt’Europa. Nel
Crispus viene dichiarata esplicitamente l’affiliazione da Euripide come
da Seneca. Dalle molte traduzioni italiane che seguono viene anche modificato il soggetto con l’inserimento di Elena, la madre dell’Imperatore, e con l’inserimento di altre vicende collaterali, al punto che già da
queste prime osservazioni si può evincere agevolmente che si creano
quasi due vicende differenti, una prima più ricondotta allo schema della tradizione classica e una seconda invece dilatata e arricchita.
1653, un secondo esempio. Il Costantino, tragedia in prosa rappresentata a Roma nel Palazzo dei Pichini. Ghirardelli è l’autore. Genere, il sommo Aristotele. Il Costantino è opera destinata a un’eco clamorosa, con violente polemiche. Per dirimerla, sarà invocata un’autorità
francese: Pierre Corneille. Corneille la inserirà nella sua dissertazione
sulla tragedia.
Dal 1715, gli esempi moltiplicano. Tra i tanti, Annibale Marchese con il suo Il Crispo.
Altrettanto numerosi gli esempi nell’ ‘800.
Due tra i tanti.
1. — Costantino il Grande, tragedia di Cosimo Giotti, rappresentata nella
Venezia giacobina nel 1801. Singolare che in un repertorio giacobino di
sostanziale rifiuto della tragedia classica con un proprio desiderio d’innovazione e di rottura, il personaggio di Costantino rimanga centrale e
mantenga una fortuna indiscussa.
2. — 1833, una tragedia oggi dimenticata, Costantino Magno di Luigi
Malvezzi, al tempo clamorosa e motivo di scontro tra classici e romantici.
E poi i balli. Costantino è presente nei grandi balli allegorici
nelle così dette azioni mimico-tragiche, fortunatissime sui palcoscenici
dei teatri fra ‘700 e ‘800. E il teatro musicale, dramma in musica: stessa
fortuna di Costantino, che viene letto, riletto, declinato in tutta la sua
importanza e in molti casi come personaggio principale, ma anche secondario. Molte volte entra nella vicenda benché storicamente non fosse
assolutamente possibile che ciò accadesse.
Fino a un grande compositore, Gaetano Donizetti in un’opera
intrisa di grande pessimismo, così vicina alla sensibilità dello straordinario musicista e approdata nel ’32 a Milano alla Scala con Fausta,
personaggio disperato, la cui passione la divora dalla prima all’ultima
scena e che, vedendo il figlio, non può che esclamare: Ecco, il mio bene
supremo, ma anche ecco il mio tormento, il mio supplizio estremo. E la
figura di Costantino prefigura la temperie moderna del Filippo II o del
Don Carlo donizettiani. Le anime romantiche.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
P. Vismara,
Costantino
nel ’700
italiano.
Interpretazioni
storiche e
teologico–
politiche.
Paola Vismara. Costantino nel ’700 italiano.
Interpretazioni storiche e teologico-politiche.
Notevolissimo lo spazio che Lodovico Antonio Muratori negli
Annali d’Italia riserva al lungo regno di Costantino. Lo storico non ne
tace le colpe, ma ne evidenzia il ruolo nel dare felice principio alla più
consolante epoca del Cristianesimo. Felice, termine significativo per
l’età settecentesca e per Muratori. Ma lo sguardo non è rivolto al passato. Muratori si contrappone volutamente e frontalmente a quanti chiama sedicenti filosofi del proprio secolo, per affermare che l’adesione alla
religione di Cristo da parte di Costantino era così sincera e profonda
che l’Imperatore fece di tutto per favorire i progressi della fede cristiana
e per distruggere completamente l’idolatria.
Poi Giuseppe Agostino Orsi, H istoria ecclesiastica, 1748. Costantino è colui che ha reso la pace alla Chiesa dopo un lungo e tormentato
periodo di vessazioni e generale persecuzione. Le premesse della pax
christiana sono segnalate nell’Editto di Galerio del 311. Poi Costantino
insieme a Licinio con l’Editto del 312 e i primi albori della pace. Poi gli
studi di Filippo Musenga e Giuseppe Piatti con al centro il 313.
Posizione comune: Costantino è l’autore della pace dell’Impero
in quanto garante della diffusione del cristianesimo e della distruzione
dell’eresia. Elementi inseparabili.
In occasione dell’ingresso a Milano dell’arcivescovo Carlo Gaetano Stampa, nel 1737 , per suggerimento del Prefetto della Biblioteca
Ambrosiana, Antonio Sassi, sull’Arco trionfale era raffigurato Costantino. Per le cronache dell’epoca colpiva, tra le immagini, quella dipinta
in chiaroscuro della historia degli imperadori Costantino e Licinio: l’arcivescovo entrava a Milano in un clima ancora di prevalente concordia
tra autorità civile e autorità ecclesiastica. Nel tardo ’700 lo scenario
muta completamente e l’indagine finemente storica passa in secondo
piano.
Sul fatto che rispetto all’Editto altre e ben più importanti cause
fossero in gioco, atte a spiegare il trionfo del cristianesimo, si sofferma soprattutto Nicola Spedalieri, siamo nel 1784. Sotto Diocleziano
l’idolatria mostrava le sue profonde ferite per una sentenza del cielo.
Costantino fu uno strumento all’interno di un progetto divino. Siamo al
passaggio dal piano della valutazione storica a una riflessione di natura
teorica sulle ragioni provvidenziali che muovono la storia.
Alla fine del secolo le letture si fanno politiche e gli autori favorevoli alle rivendicazioni dei sovrani di poter disciplinare la Chiesa
vedono l’età costantiniana come l’epoca del felice accordo tra pontefice
e sovrano
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
L’ambito dotto, i giansenisti pavesi in testa, con Giuseppe Zola e
Pietro Tamburini, consideravano l’età costantiniana l’epoca di un perfetto equilibrio tra potere civile e potere ecclesiastico. Nella loro riflessione avvertono la necessità di una riforma della chiesa e la vogliono
attuare ritornando a conferire al sovrano il suo potere giurisdizionale
in materia ecclesiastica: solo mediante i provvedimenti e le iniziative
delle autorità civili si può attuare una riforma religiosa oggi necessaria.
Ma certo i gesuiti non stavano lì a guardare. Tra tutti Gaetano Luigi Del
Giudice con La scoperta dei veri nemici della sovranità, del 1794.
Così, la figura di Costantino nel XVIII secolo resta il riferimento
ineludibile all’interno della storia, in cui segna uno snodo epocale. Nel
tardo Settecento, però prevale l’interpretazione politica che distoglie
molti autori da fini indagini storiche, per spingerli ad assumere Costantino e l’Editto come momenti chiave della storia passata, ma utili a
confermare o modificare l’assetto dei rapporti Chiesa–Stato nella storia
a loro contemporanea e secondo un’interpretazione della figura di Costantino quale prototipo di quel buon sovrano visto nei sogni dell’assolutismo illuminato.
Nota
del
Curatore
Pur nella differenza dei temi dibattuti e dei distinguo determinatisi
nell’occidente, anche in oriente era maturata una fedeltà alla presenza di
Elena e Costantino, accentuata dalla particolare situazione vissuta con l’occupazione musulmana prima e turca poi. Tutti gli elementi storici hanno
sempre un peso nella determinazione delle tradizioni e delle credenze. Nel
caso dell’oriente tale maturazione di fedeltà è ascrivibile però anche alle
modalità con cui le popolazioni hanno guardato ad Elena prima e a Costantino poi. Tali modalità sono tutte riconducibili al tema della ricerca e
del ritrovamento della Croce, voluti direttamente e fisicamente dalla madre
dell’imperatore. Da qui la gratitudine delle comunità cristiane e il fiorire di
tanti riti vissuti con devozione e di tante rappresentazioni alimentate dalla
pietà popolare e illustrate nelle tradizioni, nei documenti scritti e nelle opere di tanti artisti.
Axinia Džurova. I Santi Costantino ed Elena negli affreschi dei Balcani.
Com’è noto il culto di San Costantino è direttamente collegato
con l’adorazione della Croce e la sua « invenzione » ad opera di Elena,
appassionata sostenitrice del Cristianesimo.
Dal IV secolo fino ad oggi questi due santi occupano un posto
di primo piano nella memoria dei credenti e nel ciclo liturgico ecclesiastico, con due date che lo scandiscono: 21 maggio; 14 settembre. Per la
diffusione del loro culto è innegabile il merito di Eusebio di Cesarea,
biografo di Costantino, il fondatore della prima ideologia politica del
cristianesimo. I Santi Costantino ed Elena vengono definiti come pari
agli Apostoli, mentre Costantino è detto primo basileus dei cristiani, il
111
A. Džurova,
I Santi
Costantino
ed Elena
negli
affreschi
dei Balcani.
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
nuovo Mosè, il nuovo Davide, l’onnipotente Costantino venerato dal
mondo, letizia dei cristiani e incoronato da Dio, signore luminoso come
l’aurora, padre dei cristiani. Nella liturgia del 21 maggio viene presentato come il nuovo Davide.
In Occidente il culto di San Costantino è limitato ed entra nell’agiografia cristiana insieme con la leggenda del suo battesimo ad opera di Papa Silvestro. Ben più ricco è il culto di Costantino il Grande nella Chiesa Ortodossa che lo unisce alla madre Elena. Com’è noto dalle
fonti, la figura di Costantino è collegata alla Croce già durante la sua
vita, nella sua visione prima della battaglia con Massenzio, al Ponte
Milvio. Se tuttavia cerchiamo riscontro a questo episodio nella storia
ecclesiastica di Eusebio di Cesarea vi troveremmo soltanto un parallelo
con la battaglia di Mosè e dell’esercito del Faraone nel Mar Rosso.
Tutta la ricca iconografia proiettata e commentata da Axinia Džurova durante il Convegno, insieme alla relativa documentazione e spiegazione, sarà
rinvenibile negli Atti che verranno pubblicati.
V. Zhivov,
Constantine
the Great
in Russia
from a
comparative
european
perspective
Viktor Zhivov. Constantine the Great in Russia
from a comparative european perspective.
[La relazione del Prof. Viktor Zhivov, mancato il 17 aprile,
è stata letta da F.Braschi]
(Due immagini di Costantino il Grande
nella letteratura storica russa dei secoli XIV e XVIII)
Costantino il Grande fu una figura di primo piano nella letteratura religiosa del Medioevo russo, in primo luogo come fondatore
dell’Impero cristiano e in quanto tale come predecessore di Vladimir il
santo che aveva convertito la Russia di Kiev al Cristianesimo nel 988.
Gli autori russi dell’XI secolo sostennero infatti la santità di Vladimir, paragonandola a Costantino e dichiarandolo pari agli Apostoli.
I primi esempi di questa strategia sono già presenti nel Sermone «Sulla
legge e sulla grazia» del metropolita di Kiev, Ilarione, scritto nel 1047–
1050. Il Sermone contiene l’encomio di Vladimir, che con la nonna
Olga, paragonata a S. Elena, dalla Nuova Gerusalemme, la città di Costantino, aveva portato la Croce nel proprio paese. Si può affermare che
nei testi di origine slavo-orientale del periodo più antico la figura del
primo imperatore cristiano viene rappresentata in modo sostanzialmente conforme alle fonti greche tradotte in lingua slava, come le cronache
bizantine di Giorgio Monaco e di Giovanni Malala. La prospettiva in
cui queste e altre fonti descrivono la vita e le opere del grande impera-
112
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
tore, si può definire, sostanzialmente, ecclesiastica. Così in un conciso
Chronicum attribuito al patriarca Niceforo l’atto più importante di Costantino è la convocazione del I Concilio ecumenico.
La letteratura antica, in particolare l’innografia, risalta il ruolo
di C. come scopritore della Santa Croce che era stata ritrovata dalla madre Elena e alla cui invenzione egli partecipò in modo diretto. Nell’innografia dedicata alla festa dell’Esaltazione della S. Croce, la scoperta
della Croce poteva essere descritta come legata da un rapporto provvidenziale con la visione costantiniana del labaro alla vigilia della vittoria
sull’empio Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio. La visione di C.
come predecessore di Vladimir trovò poi eco nella costruzione di genealogie teocratiche che collegavano i regnanti moscoviti sia a Vladimir che
a Costantino. I primi esempi risalgono alla prima metà del ‘400 ma la
realizzazione più ampia si trova nell’annuncio delle Pascalia per l’VIII
millennio del metropolita di Mosca Zosima del 1492. L’autore ricorda
le principali tappe del progresso della fede cristiana e dopo la venuta
di Cristo e la predicazione degli Apostoli cita le imprese « del primo Zar
ortodosso Costantino, le cui vittorie erano state precedute dalla visione
della Santa Croce » e che aveva « sconfitto tutti i nemici e professato la fede
ortodossa di Cristo in accordo con le tradizioni degli Apostoli, respingendo
come lupi tutti coloro che avevano fatto crescere eresie contrarie alla fede
cristiana. ». In tutte queste imprese, egli era stato seguito da piissimo e
cristofilo gran principe Vladimir, il quale aveva sconfitto tutti i nemici
e professato la fede ortodossa ed era stato chiamato il Secondo Costantino.
In seguito il nuovo Costantino era apparso nella persona del
piissimo e cristofilo gran principe Ivan Vassilijevic, Ivan III, e anche
quest’ultimo aveva professato la fede Ortodossa, che era la fede in Cristo Dio e respinto come lupi tutti coloro che avevano fatto crescere eresie contro la fede ortodossa di Cristo. L’idea sottesa da simili genealogie
è abbastanza semplice e lineare. Costantino è stato il primo imperatore
cristiano, i pii principi russi ne hanno seguito l’esempio. Il dominio dei
potentati russi su altri territori cristiani è giustificato dalla loro pietà cristiana e la devozione alla fede ortodossa è la fonte delle loro vittorie. Col
tempo queste idee trovarono un naturale sviluppo nella dottrina nella
successione degli imperi, in virtù della quale Mosca divenne la nuova
città di Costantino, la seconda Costantinopoli.
Alla fine del XV secolo la Moscovia si trovò priva di una concezione imperiale. La sua espansione aveva fatto sì che essa fosse l’unico principato slavo governato da un sovrano ortodosso e inoltre anche
l’unico principato ortodosso sulla terra. La piccola e remota Georgia
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
non veniva presa in considerazione. Dopo l’annessione di Nižnij Novgorod e Pskov, si rese necessaria una riconcettualizzazione dei destini
della storia, che in parte era già stata rappresentata dalla rappresentazione di Mosca come seconda Costantinopoli.
Il medesimo compito fu svolto dalla teoria di Mosca come terza
Roma, in entrambi i casi viene applicata l’idea della Translatio imperi e
in entrambi i casi le genealogie imperiali esistenti vengono reinterpretate e adattate a questo quadro concettuale. L’idea della Translatio imperi
non aveva in sé nulla di specificamente russo, dato che numerosi scritti
medievali, sia in occidente che in oriente, proponevano la storia come
una successione d’imperi. Ciò che rende russa questa concezione è il suo
nesso con l’idea della vera fede. Mosca eredita il legato imperiale non
perché i suoi sovrani sostengono lo stato imperiale, ma perché sostengono la vera fede ortodossa. La giustificazione religiosa non era del tutto
assente nei trattati cattolici o slavo-meridionali, ma nel caso di Mosca
essa divenne in pratica l’unico fondamento della successione dell’impero. Mosca era la III Roma, perché le due precedenti erano state incapaci
di sostenere la vera fede. La prima era caduta a causa dell’eresia, la seconda era stata distrutta dagli infedeli a motivo dell’apostasia greca. Il
fatto di essere l’unico sovrano ortodosso, comportava una sua maggiore
responsabilità: se l’aspetto religioso diveniva centrale, di conseguenza
si poneva anche il problema del ruolo del clero cui spettava spiegare e
purificare la dottrina ortodossa e realizzarla nella vita della Chiesa.
In Moscovia la formulazione delle teorie politiche, qualunque
cosa s’intenda con questo termine, fu opera di uomini di chiesa poiché
in pratica fino almeno all’epoca di Ivan il Terribile non vi furono autori di altro tipo. È naturale dunque che essi attribuissero la massima
importanza al ruolo dell’ordine spirituale. Il sovrano era considerato
il principale difensore della vera fede, ma per svolgere questa missione
aveva bisogno di una guida spirituale e lo status di coloro che dovevano offrire tale guida era un serio problema concettuale. In questo
quadro Costantino diventa il modello da imitare e il testo principale in
cui l’idea viene sviluppata è il Racconto del Cappuccio Bianco. La parte
iniziale di questa storia deriva dalla Donatio Constantini. Il cappuccio
bianco, che era il copricapo degli arcivescovi di Novgorod, viene identificato con la tiara donata da Costantino a Papa Silvestro. Dopo aver
descritto la guarigione miracolosa di Costantino e il dono al Papa della
corona imperiale della tiara, l’autore o gli autori, narrano come i papi
successivi cominciarono a detestare il sacro cappuccio e cercarono di
distruggerlo, ma furono costretti dalla volontà divina a spedirla al patriarca di Costantinopoli. Di qui, per ispirazione divina, il cappuccio fu
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
inviato a Novgorod e solennemente accolto dal clero locale con a capo
l’arcivescovo Vassilij. Non ci sono dubbi sul fatto che l’opera fu composta a Novgorod, poiché Mosca non viene mai nemmeno menzionata, e
si può ritenere che nella versione originaria il racconto fosse diretto a
confermare la relativa autonomia e l’importanza della sede di Novgorod anche dopo l’annessione della città allo stato moscovita nel 1478.
Quanto alla datazione dell’opera, il parere degli studiosi divergono,
ma sembra ragionevole ritenere che il testo originario risalga alla fine
del ‘400 e alla cerchia dell’arcivescovo di Novgorod, Gennadi. Accanto
a dotti russi questa cerchia comprendeva tra gli altri un monaco domenicano croato, Beniamino, che era venuto in Russia per realizzare
l’unità religiosa e politica degli slavi. Una delle maggiori realizzazioni
del gruppo fu la traduzione completa della Bibbia, la così detta, Bibbia
Gennadiana del 1499, in cui per la prima volta vennero tradotti dal
latino e divennero disponibili alcuni dei libri mancanti nelle traduzioni
della Bibbia presenti in Russia. Beniamino conosceva senza dubbio la
Donatio Constantini nell’originale latino e la utilizzò nel proprio Sermo
brevis. Fu dunque lui, forse, a far conoscere il testo agli altri membri del
gruppo. L’arcivescovo Ghennadi era stato nominato da Mosca a capo
della Chiesa di Novgorod nel 1484, si appassionò alle tradizioni della città e potè diventarne un cultore. I suoi rapporti con i metropoliti
moscoviti erano tesi e certamente aspirava a divenire capo spirituale
della Russia e il Racconto sul Cappuccio Bianco potè essere elaborato in
questo ambito allo scopo di rafforzare la posizione della Chiesa di Novgorod. Tuttavia la leggenda non bastò a proteggere la città e i suoi arcivescovi dall’arbitrio moscovita: non solo le ricchezze di Novgorod, ma
anche il suo patrimonio culturale e sacrale furono trasferiti a Mosca nel
corso del ’500 e anche Il racconto del Cappuccio Bianco fu rielaborato in
chiave filo-moscovita. In questa nuova versione gli zar russi ereditavano
l’autorità di Costantino il Grande e i capi della Chiesa russa, non di
Novgorod, quella di Papa Silvestro. In accordo con questo modello i due
poteri, secolare e spirituale, si trovarono in armonioso reciproco equilibrio e si integravano a vicenda. Questo rapporto di complementarietà
motivò l’instaurazione nel 1589 del patriarcato di Mosca. I metropoliti
moscoviti assunsero il titolo di Patriarca in un nuovo universo imperiale
in cui i grandi principi di Mosca diventavano Zar.
L’atto fondativo del 1589 attribuiva al patriarca di Costantinopoli, Geremia II, un proclama in cui Mosca era dichiarata la III Roma
e la fondazione del patriarcato era in stretto rapporto con l’esaltazione dello Zar in quanto unico sovrano ortodosso dell’universo. Il nuovo
paradigma imperiale ammetteva una certa flessibilità, prevedeva due
115
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
autorità complementari fra le quali lo Zar aveva la parte più attiva. Era
lui il capo della nazione, governava i sudditi, aveva la responsabilità
della loro pietà e della purezza della loro fede, ma in questo compito
agiva sotto la guida del suo padre spirituale, il Santo Patriarca della
Russia. Su di lui gravava l’impegno di seguire l’esempio del prototipo
del sovrano cristiano, Costantino il Grande, e di accostarsi con reverenza e umiltà al proprio padre spirituale. Questo rapporto poteva essere
interpretato a favore sia dello Zar sia del Patriarca e ambedue le interpretazioni hanno avuto una certa influenza nella storia del pensiero
politico russo.
In tutte le versioni del Racconto sul Cappuccio Bianco risultava evidente lo status particolare dell’impero moscovita e dello Zar: era
scelto da Dio per regnare sull’ultimo stato ortodosso, per difendere la
fede ortodossa contro infedeli ed empi, per salvare il mondo dalle potenze malvage e demoniache. L’esempio di Costantino forniva dunque al
pensiero russo le basi per una sorta di concezione di autocrazia divina,
ovvero del potere assoluto dello Zar santificato da Dio.
È tuttavia possibile anche un’altra interpretazione.
Se lo Zar deve mostrarsi umile nei confronti del potere spirituale, almeno in qualche senso quest’ultimo gli è superiore. Alcuni studiosi
sostengono che Il racconto sul Cappuccio Bianco sia opera, come altri
racconti imperiali, di scrittori ecclesiastici e scritto allo scopo di limitare, più che espandere, il potere del sovrano.
Si può concludere che dalla fine del ‘400 alla metà del XVII
secolo Costantino il Grande rappresentò in Russia il modello dello Zar
Pio, il cui retaggio consisteva nell’obbligo fatto ai sovrani cristiani di
rispettare i propri padri spirituali, capi delle loro chiese.
Lo Zar aveva una sua missione spirituale: era eletto da Dio per
difendere la vera fede, guidare il popolo lungo le vie della salvezza, ma
in questo paradigma teocratico la sua attività doveva essere benedetta
dal Patriarca. Via via che l’autocrazia russa si rafforzava, verso la metà
del XVII secolo, l’umiltà di Costantino verso Papa Silvestro cessa d’essere popolare fra i monarchi russi e il paradigma della doppia autorità
entra in conflitto con le ambizioni assolutistiche dello Zar. Il Patriarca
Nikon avrebbe aspirato a figurare come reincarnazione di Papa Silvestro, ma lo zar Alexieij Michaijlovic non era così entusiasta di seguire
l’esempio di Costantino, facendo da palafreniere al successore di S.
Pietro. Questo conflitto raggiunse l’apice durante il regno di Pietro il
Grande. Non stupisce che Pietro, che aspirava ad essere il sovrano assoluto, che abolì il patriarcato e creò il Santissimo Sinodo come vertice
collettivo della Chiesa russa, non amasse l’umiltà e non fosse molto desi-
116
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
deroso di fungere da palafreniere per il Patriarca, ci si sarebbe aspettati,
quindi, che respingesse la figura di Costantino come modello imperiale.
Le cose invece andarono diversamente e Costantino conservò la propria
funzione archetipica anche se in una rappresentazione radicalmente
rinnovata.
La glorificazione di Pietro come nuovo Costantino ebbe una
lunga tradizione durante e dopo il regno dello Zar. Ciò che importa
però non è tanto il riferimento a Costantino, quanto la nuova funzione
di questo imperatore. Nella propaganda petrina, infatti, l’evento principale non furono il I Concilio ecumenico e la miracolosa guarigione operata da Papa Silvestro, ma la vittoria di Costantino su Massenzio. Archi
e porte trionfali innalzate dopo le vittoriose campagne dello Zar erano
pieni di riferimenti e rappresentazioni delle campagne militari di Costantino e proclamavano in modo esplicito l’analogia fra i due sovrani.
Dal rito celebrato dopo la vittoria sugli svedesi a Poltava, ad esempio, si
proclamava che il nostro Zar, crocifero e secondo Costantino, ha sconfitto
il Massenzio svedese e loda Dio con gratitudine. Altrettanto significativo è
che tutti gli stendardi dell’età petrina, o quasi tutti, esibissero la croce
di Costantino.
Qui però si può cogliere un tratto polemico contro la precedente
tradizione. La creazione del regno cristiano non è più il risultato di miracoli operati dal papa, ma conseguenza delle sagge azioni e decisioni
e delle azioni vittoriose dell’imperatore, nello stesso tempo l’imperatore
è in rapporto diretto con Dio, il quale gli invia dei segni per rivelargli
che grazie ad essi vincerà. È dunque l’imperatore che stabilisce la religione. Le autorità della Chiesa non vi hanno parte. Per cui l’imperatore
assume la supremazia e non deve più fungere da palafreniere del papa.
Anche in questo modo viene propagandata la concezione dell’autorità
dello zar in quanto potere che abbraccia sia la sfera secolare che quella
religiosa. È dunque il monarca il vero capo dei popoli cristiani, mentre
il papa, o il patriarca, usurpa la sua autorità. Per questa ragione Feofan
Prokopovič, sodale di Pietro, argomenta il diritto dell’imperatore a nominare i vescovi, appellandosi proprio a Costantino, il vescovo comune
al di sopra di tutti. L’impero di Pietro era in tal modo presentato come
la vera realizzazione dello stato cristiano modello, creato da Costantino
isapostolo [«uguale agli apostoli»], mentre, in seguito, quel modello era
stato distorto in Occidente dagli intrighi dei papi e, in Oriente, dopo il
regno di Giustiniano.
Il riferimento di Costantino in un contesto in cui si affermano
i poteri imperiali, la subordinazione della sfera religiosa al monarca,
con la riforma della Chiesa che ne consegue, è naturale e trova analogie
117
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
di carattere tipologico, ad esempio, nella politica di Elisabetta I d’Inghilterra o dell’imperatore Carlo V. Pietro probabilmente non conosceva questi precedenti, ma essi facevano parte del modello assolutistico
europeo, in cui lo Zar russo aspirava a inserirsi. Pietro utilizzò dunque
la figura di Costantino, per rafforzare il suo diritto ad adattare il governo della Chiesa alle proprie riforme politiche. Per far ciò non solo
ridisegnò l’immagine di Costantino, liberandolo dai tratti di umiltà e
sottomissione cristiane, ma si adoperò anche per eliminare le tracce
del precedente Costantino, che risalivano alla Donatio e al Racconto del
Cappuccio Bianco.
Fin dal 1697 egli aveva cancellato il rito della processione dell’asinello che si svolgeva nella domenica delle Palme. Nella seconda
metà del ‘600, questo rito era percepito come chiara espressione del
rapporto normativo tra Chiesa e Stato. Il patriarca a cavallo dell’asino
era l’immagine di Cristo nel suo ingresso a Gerusalemme, mentre lo Zar
che lo guidava per le briglie simboleggiava l’umiltà o la subordinazione
del potere secolare davanti a quello divino. Pietro detestava questo rito
che considerava una forma di papismo. Secondo l’imperatore e i suoi
seguaci, al patriarca veniva, in quel caso, un onore che spettava unicamente al sovrano. Per lottare contro quelle che considerava le pretese
del clero, Pietro creò una particolare istituzione blasfema, il così detto
Concilio ridicolissimo e ubriachissimo, che aveva lo scopo di screditare il
patriarcato e la stessa idea di sinfonia fra l’autorità secolare e quella spirituale. Il Concilio era guidato da un principe papa o principe patriarca
e dal principe Cesare.
Testimoni oculari raccontano che quando il personaggio che
rappresentava in modo parodistico il patriarca montava a cavallo lo
Zar ne reggeva la staffa come avevano fatto, prima di lui, gli zar col
vero patriarca. Si tratta chiaramente di una parodia del servizio prestato da Costantino a Papa Silvestro, che per Pietro andava associato con
le odiose pretese di potere del clero russo e in generale egli eliminò ogni
rituale associato al Racconto del Cappuccio Bianco, negando tra l’altro
ai metropoliti di indossare un cappuccio bianco.
Pietro il Grande modificò in modo radicale il paradigma russo
medievale del rapporto tra autorità secolare e spirituale, utilizzando a
questo scopo la figura di Costantino e accentuando il fatto che l’imperatore aveva goduto di una doppia autorità e a questo modello poteva conformarsi lo Zar russo. In tal modo Costantino rimase attuale durante la
prima età moderna in Russia e divenne il modello del sovrano assoluto,
la cui autorità giustificava l’espandersi dell’autocrazia anche sulla sfera
ecclesiastica.
118
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Edoardo Bressan. Il centenario del 1913
e la Settimana sociale di Milano
su ‘Le libertà civili dei cattolici’.
Accanto ai centenari della storia esiste anche la storia dei centenari e i momenti celebrativi riflettono orientamenti e sensibilità di
un’epoca che è utile ricostruire, perché rappresentano una fonte privilegiata per la storia delle interpretazioni e della storiografia in argomento.
Nel 1913 la celebrazione, in un rapporto davvero singolare fra
passato e presente, si carica di ulteriori significati attualistici e politici,
in un momento di particolare rilevanza per il cattolicesimo europeo,
direi di svolta. Sullo sfondo c’è una questione romana ancora irrisolta.
Come ha ricordato anche Massimo Guidetti nel suo recentissimo lavoro,
è per questo che Pio X, anche su suggerimento autorevole di Giuseppe
Toniolo, indice un Giubileo universale straordinario, al cui centro non
vi è però la vittoria di Costantino su Massenzio, ma quella della Chiesa
sulle persecuzioni, con la conseguente rivendicazione da parte sua della libertà necessaria allo svolgimento della sua azione soprannaturale
sulla terra. Sono le parole del pontefice ai pellegrini di tutto il mondo
convenuti a Roma il 23 febbraio 1913. Questo è il filo conduttore di
tutte le celebrazioni fino alla Settimana sociale di Milano, ma anche
all’Assemblea dei cattolici tedeschi che si tenne a Mess nella Lorena,
allora tedesca. Entrambi sulle libertà civili dei cattolici. In questo modo
un evento che, ancora nella visione di Leone XIII era stato ricordato in
relazione al potere temporale come giustificazione del principato civile
del pontefice, assume un significato indubbiamente diverso anche se si
rimane in una lettura che ha dei tratti apologetici rispetto all’Editto
di Costantino, che solo qualche voce discorde in Germania comincia a
mettere in dubbio. Del resto l’importanza del Centenario del 1913, con
tutto il dibattito particolarmente ampio e ricchissimo a cui ha dato luogo, non è da mettere in relazione con un esame filologicamente obiettivo dei dati storici, come ha osservato in questo convegno Marcone.
In Italia si era aperta una nuova stagione in cui i cattolici erano
chiamati ad assumere un ruolo sempre più importante in campo sociale
e ormai anche politico. Dopo gli accordi clerico-moderati che si erano
consolidati a partire dal 1904 e, soprattutto, con il patto Gentiloni che
porta, in quello stesso 1913, a un accordo elettorale di vasta portata
con i liberali giolittiani, destinato a segnare una tappa fondamentale
nell’avvicinamento allo stato e nel superamento, almeno de facto, della
questione romana, ma pure ad avere effetti di non poco conto sugli equi-
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E. Bressan,
Il centenario
del 1913
e la Settimana
sociale di
Milano su
“Le libertà
civili dei
cattolici”.
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
libri interni al sistema giolittiano.
Le elezioni si sarebbero svolte il 26 ottobre e il 9 novembre, poco
prima della Settima sociale, con le note e certo improvvide dichiarazioni del conte Gentiloni al Giornale d’Italia che l’Osservatore Romano si
vide costretto a confermare, sul rilievo determinante che quegli accordi
avevano avuto sul risultato elettorale. Più di duecento deputati furono
‘gentilonizzati’, come si disse, e questo innescò la crisi di quegli equilibri
politici. Al tempo stesso i cattolici sono chiamati a confrontarsi con un
quadro europeo e Mediterraneo in fermento, soprattutto all’indomani
della guerra di Libia. Si trattava di misurarsi, al tempo stesso, sia con
una diversa politica estera dell’Italia, sia con le istanze nazionalistiche
sempre più forti.
A Milano, nel solco di quella tradizione guelfa richiamata a suo
tempo da Giorgio Rumi, il quotidiano cattolico L’Unione, sorto nel 1907
dalla fusione de l’Osservatore Cattolico e della Lega Lombarda, si era
trasformato, nel ’12 , ne L’Italia. e dalle pagine dell’Italia, Filippo Meda
aveva resa esplicita una posizione di distacco del mondo cattolico dal
nazionalismo, ma certo non dai problemi che esso poneva e non sarebbero mancate contaminazioni di vario genere, come sappiamo.
Dopo l’avvio promettente, d’indubbio successo delle Settimane
sociali dei cattolici italiani, l’ottava si celebra non a caso a Milano, dal
30 novembre al 6 dicembre, appunto, su questo tema delle libertà civili dei cattolici e rappresenta il punto d’arrivo di una lunga riflessione,
che tuttavia si chiarisce proprio in occasione del Centenario e a questo
contribuisce il grande rilievo che viene attribuito al Centenario stesso
con la costituzione di un Consiglio superiore per le feste centenarie della proclamazione della pace della Chiesa, 313-1913. Il Consiglio pubblicava un bollettino dal titolo: XVI centenario della pace della Chiesa, il cui
primo numero riportava la lettera d’incoraggiamento di Pio X. L’invito
del Consiglio è quello di costituire in ogni diocesi comitati locali, con
sottocomitati nei centri più popolosi delle province, che preparassero
numerosi pellegrinaggi alla eterna città e promuovessero un vero plebiscito di tutti quanti i fedeli a questa solenne e pacifica dimostrazione di
fede. Lo riporta Civiltà Cattolica che di suo aggiunge un suggerimento:
Perché oggi dì sono venute tanto in voga le conferenze popolari con proiezioni luminose, quale argomento o più splendido o più interessante di questo XVI Centenario costantiniano, che può dar campo a mettere sott’occhi
al popolo, compare suo diletto e utilità tutto quel periodo fortunosissimo e
tanto vario che intercede fra l’ultima persecuzione dioclezianea e l’Editto
di Milano. Nel ’13 la celebrazione assume un vero e proprio carattere
giubilare, con una indulgenza che si può ottennere dalla Domenica in
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Albis alla festa dell’Immacolata, sia nelle basiliche romane, sia in chiese opportunamente designate dalle singole diocesi. Si possono ricordare
altre significative testimonianze a questo riguardo: la nuova basilica
di Santa Croce al Ponte Milvio in Roma, come si scrisse, monumento a
Cristo Redentore e al suo vessillo di redenzione che in quei campi della Flaminia brillava per la prima volta vittorioso al sole di Roma, basilica voluta
dallo stesso Pio X, per ricordare il Centenario, ed edificata su progetto
di Aristide Leonori; ed anche a Milano fra il ’13 e il ’17 viene edificata
la chiesa di Santa Croce affidata ai padri stimmatini, su progetto di
Cecilio Arpesani e numerosi in Italia e all’estero sono i monumenti, le
chiese eretti in questa circostanza.
Accanto al dato religioso, l’obiettivo è quello di riaffermare il
ruolo e la centralità della Chiesa nel mondo, denunciando la rinnovata
e subdola lotta contro di essa che si traduce nella negazione della sua
effettiva libertà. Allora, ai tempi delle persecuzioni, chi non voleva riconoscere nello stato e nell’imperatore l’arbitro delle coscienze, era un
nemico dell’Impero, oggi, chi non voglia riconoscere questo ruolo della
Chiesa e del Papa si vede bollato come nemico della patria. Questo
legame fra dimensione religiosa e dimensione civile è presente fin dall’inizio in tutte le iniziative che sono davvero moltissime. Tra le tante: le
feste costantiniane, promosse dall’arcivescovo di Milano, cardinale Andrea Carlo Ferrari e dal vescovo di Parma Guido Maria Conforti. A Parma si susseguono una serie di momenti religiosi, conferenze, proiezioni
cinematografiche, con un programma che sembra dei giorni nostri, fino
al Congresso catechistico diocesano, concluso dallo stesso Ferrari. Per
Conforti, il 29 marzo 1913, al di là di un giudizio sulla figura dell’imperatore, l’Editto segna la fine di un’epoca, il tramonto del mondo antico,
del Paganesimo e l’inizio di un’era novella e di splendore, di gloria pel
cristianesimo. L’episcopato lombardo aveva dedicato la lettera collettiva del 1912 al XVI Centenario dell’Editto di Milano e la libertà della
religione nelle scuole, un documento, come sappiamo, steso da Angelo
Giuseppe Roncalli, con un significativo accenno alla libertà delle coscienze, che gli valse qualche problema.
L’ottava Settimana sociale di Milano rappresenta il punto d’arrivo di molteplici riflessioni, sintetizzato proprio da Ferrari nella serata
inaugurale in S. Ambrogio, intorno alla tomba del grande atleta della
libertà della Chiesa. Per Ferrari, senza la difesa del patrimonio sacro
della religione e della fede, anche la tutela degli altri diritti e interessi
inferiori cadrebbe vuota di ogni effetto per la vera felicità dell’uomo,
sia dell’individuo, come della società.
Il riferimento alle libertà civili dei cattolici emerge soprattutto
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
in due interventi molto noti:
— la Prolusione dell’arcivescovo di Udine, Monsignor Antonio Anastasio Rossi; e
— la Conclusione del presidente dell’Unione Popolare fra i cattolici italiani, conte Giuseppe della Torre.
Entrambe accennano a una possibile soluzione della questione
romana. È la prima volta che viene fatto in questi termini e questo provoca non poche discussioni. Nasce una polemica sui giornali laici, milanesi e romani. Civiltà Cattolica se la prende un po’ con tutti, particolarmente con quelli di Roma, cominciando dalla ufficiosa tribuna, sino
all’opportunista Giornale d’Italia, il settario e pornografico Messaggero.
Civiltà Cattolica se la prende anche son i giornali del trust, accusati di
aver avuto una reazione tiepida rispetto agli attacchi di parte laica. In
realtà non era così, perché per esempio Filippo Crispoldi aveva puntualmente risposto su L’Italia, su Il Momento, su l’Avvenire d’Italia agli
interventi di grandissimo interesse e valore scientifico di Ruffini. Civiltà
Cattolica glielo riconosce, ma, dice, è troppo poco e dunque è costretta, paradossalmente, a ridurre la portata di quelle stesse aperture. Sì,
si è parlato di questione romana a Milano, ma proprio per mettere in
evidenza l’insostenibilità della condizione del pontefice.
In realtà c’è dell’altro, non solo nei due interventi Rossi e Dalla
Torre, ma anche nel complesso dei temi affrontati durante i lavori della
Settimana sociale, parlando di libertà civili. Per esempio: il diritto al
rispetto del primo articolo dello Statuto; la libertà d’insegnamento tema
trattato da Randini Tedeschi, vescovo di Bergamo, in cui si riprende il
documento dell’episcopato lombardo dell’anno precedente; la libertà
d’associazione; la garanzia della proprietà ecclesiastica; la difesa della
famiglia; la libertà delle disposizioni testamentarie nei confronti delle istituzioni di beneficenza —argomento quanto mai caldo— in fase di
applicazione della riforma crispina; e poi, il diritto di rappresentanza delle organizzazioni cattoliche nei corpi consultivi dello stato; altro
tema sensibile di evidenti discriminazioni a danno dei cattolici —erano
quasi 6.000 le istituzioni economiche escluse dal Consiglio superiore del
lavoro e quindi private del diritto comune e che, in gran parte, erano
associazioni cattoliche.
Tornando ai due interventi, la Prolusione di Rossi sottolinea
maggiormente in maniera più esplicita il legame fra la memoria costantiniana e il presente, nel solco di una rilettura del 313 non solo
indirizzata a un certo scopo, ma anche in armonia con la dottrina tradizionale della Chiesa. Rossi dice che l’Editto non fu di mera tolleranza, perché non solo concesse libertà alla Chiesa, ma pose le basi per il
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
suo riconoscimento ufficiale, così come aveva suggerito in un intervento
sulla rivista internazionale di scienze sociali Santucci, perché un regime di tolleranza può essere accettato dalla Chiesa stessa quale ipotesi
più rispondente alle esigenze della società, invece della tesi dello stato
confessionale, dello stato cattolico, che resta però tale in ragione del dovere, da parte dello stato stesso, di conoscere la verità religiosa e di stare
sottoposto all’autorità suprema che governa il mondo e con la sua verità
lo illumina. Rossi sottolinea puntigliosamente l’utilità sociale di una soluzione che assicuri un’effettiva libertà alla Chiesa e al Papa. Una soluzione riconosciuta anche sul piano internazionale: una soluzione che
al chiudersi di questo anno costantiniano dev’essere il voto dei cattolici italiani, non solo, ma di quanti di sincero amore amano la patria Italiana. Si
prospetta una conciliazione a metà strada fra la internazionalizzazione
delle quarentigie e un inedito patriottismo cattolico. L’editto di libertà
di Costantino fu alba di nuova era di civiltà, la soluzione del problema
dell’indipendenza della Chiesa e del Papa sarà alba di nuova prosperità e
grandezza e l’Italia con più sicuro e rapido passo correrà le vie delle civiltà,
del progresso, della potenza e della gloria baciata in fronte dagli splendori
della Croce di Cristo. L’approdo successivo durante la Ia Guerra mondiale di Rossi ci fa vedere poi come queste parole s’inseriscano in una
sua visione, diciamo, non lontana dalle suggestioni nazionalistiche.
Nella Conclusione Dalla Torre opera una lettura diversa, ponendosi su un piano più storico costituzionale, quindi ponendo innanzi
tutto il problema dello Stato. Dice Dalla Torre: si è voluto confondere la
sovranità, la laicità dello stato, lo stato sovrano e laico con la patria. Lo si
è fatto sulla base di un voluto equivoco, quello d’intendere la laicità stessa
come laicismo, aprendo la strada a una prevaricazione del potere civile su
quello religioso. In tal modo l’altro desiderio di vedere lo stato non oblioso
della fede del suo popolo, tutore della libertà delle sue manifestazioni religiose, scatena l’accusa di voler attentare ai diritti dello stato laico, dalla
quale facilmente si discende a quell’altra dei cattivi cittadini i quali ostacolano e compromettono altresì le più pure idealità patrie. Dalla Torre riafferma che è dimostrata coi fatti la fedeltà dei sudditi allo stato da parte
dei cattolici e che quindi non è possibile immaginare lo stato stesso
estraneo alla volontà del popolo che esso impersona, da potersi arbitrare
di misconoscere ciò che fu ed è alla base della sua civiltà, lo spirito vivificatore della sua storia e delle sue imprese, il principio informatore del suo
costume, il genio della sua arte, il fulgido raggio di tutte le sue glorie. Non
lo possiamo e non lo dobbiamo considerare così al di sopra della collettività
di cui esso è emanazione da poterle imporre un orientamento nuovo da poter sconvolgere nonché riformare la vita nazionale, in nome di un principio
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
laicista, —e qui c’è un’aggiunta significativa—, violatore di leggi sancite da
consuetudini e patti costituzionali, persecutore di libertà e di diritti naturali
che non tollerano menomazioni e non ammettono dissuetudini. Proprio la
certezza di amare la patria, per Dalla Torre si colloca più in alto, oltre
le lotte e i contrasti politici, dà il diritto di respingere questo tentativo
di trasformare la patria e lo stato in altrettante istituzioni ostili. E allora
se questa solenne affermazione delle nostre libertà e le libertà dei cattolici,
dice Dalla Torre, dignitosa si manifestò tutta la fermezza del nostro carattere nella giusta e doverosa intransigenza dei principi; manifestò altresì come
noi vi aspiriamo nell’orbita della costituzionalità, facendo anzi appello ai
migliori ideali cui s’informa tutta la vita del paese. La rivendicazione della
libertà e della indipendenza del pontefice da parte dei cattolici è doverosa, ma qui si colloca l’apertura finale di Dalla Torre, quella che fece
così discutere, in un quadro che non poteva non essere di dichiarazioni
autorizzate, come ha osservato il prof. Giuseppe Dalla Torre, nipote del
relatore, in una ricostruzione molto puntuale. Le parole di Dalla Torre
senior sono molto esplicite, ebbene se come fedeli non possiamo derogare
da questo essenziale principio, il quale direttamente si collega con quello
delle libertà delle nostre coscienze: come cittadini pensiamo che la pace fra
lo Stato e la Chiesa che l’equa soluzione di un sì essenziale contrasto possa
sempre avvenire per costituzionale volontà del paese, da parte dello Stato
senza che la sua civile sovranità ne sia compromessa. E tale nostra sincera
convinzione è anche legittimo augurio, giacché saremmo giustamente fieri
e felici di vedere l’aurora di quel giorno in cui l’Italia nostra, per virtù sua,
riconciliata con la Chiesa tornerà ad intrecciare le sue glorie a quelle della
sua fede e riprenderà sicura la sua missione di civiltà e di progresso cristiano nel mondo. Qui manca tutta quella potenza che c’era nella relazione
di Rossi.
E la figura di Costantino?
È Dalla Torre che richiama l’attenzione dei suoi ascoltatori:
Signori ancora un pensiero, sedici secoli orsono in Milano, Costantino Augusto emanava l’Editto per cui cessavano le persecuzioni e le lotte
contro il Cristianesimo e ne veniva sancita la libertà. Il suo popolo, il suo
esercito, le sue città avevano ormai nei cristiani i migliori cittadini dello
stato, le anime più generose, le menti più aperte alle conquiste nuove della
nuova civiltà che ringagliardiva improvvisamente il decrepito Impero.
Il Principe pio e giusto si decretava così la gratitudine dei contemporanei, la gloria nella posterità.
Il riferimento di Dalla Torre alla volontà costituzionale del paese e a una cittadinanza finalmente condivisa, finalmente di tutti, era
importante in quell’Italia, in quel momento storico. Sembra indicare
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
una strada diversa rispetto a quella della cristianizzazione di un sistema di potere. La Costituzione è il quadro di riferimento a cui non si
può, appunto, derogare. E la libertà è un orizzonte, a sua volta, irrinunciabile.
Dopo la prova della guerra sarebbe venuta la stagione del popolarismo, spenta però troppo presto da un regime di fronte al quale tutto
si poteva far valere tranne la lealtà costituzionale. Dalla Torre, da direttore de l’Osservatore Romano, nel 1928, lo avrebbe scritto, ovviamente
da solo in quella condizione, molto chiaramente.
La lettura dunque dell’evento costantiniano come initium libertatis piuttosto che come accordo di potere, tuttavia, non era mancata:
stava nella Pastorale della Quaresima del 1914 del cardinale arcivescovo di Pisa, Maffi: — In Roma si era affermato e proclamato il diritto delle
anime alla libertà. Ecco, si tratta di un seme, che più avanti, e su ogni terreno, avrebbe dato i suoi frutti.
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9. Lectio a due voci: PATRIARCA BARTOLOMEO I
CARDINALE ANGELO SCOLA
Milano, Palazzo Reale – Sala delle Cariatidi
mercoledì, 15 maggio 2013 – 17,30
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
9.1.
Lectio a due voci: Patriarca Bartolomeo I
Cardinale Angelo Scola
Milano, Palazzo Reale – Sala delle Cariatidi
mercoledì, 15 maggio 2013 – 17,30
I
«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32)
Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano
1. Cristo è risorto! Christòs anèsti! Santità Vi ringrazio infinitamente
per avere accettato il mio invito a venire a Milano in visita alla nostra
Diocesi. La Vostra presenza è segno, nello stesso tempo, del forte legame
che unisce le nostre Chiese e dell’importanza cruciale dell’anniversario
che stiamo celebrando: il XVII centenario del cosiddetto “Editto” di
Milano.
2. Sempre Cristo si rivolge alla libertà dell’uomo
«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Non
sembra esagerato affermare che queste parole del Signore Gesù intercettano, in modo immediato e sorprendente, l’anelito più profondo che
qualifica da sempre il cuore dell’uomo. Se si tiene conto del contesto
in cui il celebre versetto si colloca non sfugge però la sua componente
altamente drammatica. Nella storia, tra verità e libertà si dà sempre
inevitabilmente una tensione. La Verità in senso pieno si offre, e non
può non farlo, come assoluta, totalizzante; la libertà, sua interlocutrice
propria, d’altra parte, non accetta coercizioni. Dalla semplice apertura
che caratterizza spontaneamente il nostro rapporto con la realtà fino ad
arrivare all’atto di fede in Dio che si è comunicato in Gesù Cristo, Verità vivente e personale, i diversi gradi con cui la verità si offre all’uomo
sempre richiedono l’implicazione cosciente della libertà.
L’uomo, in forza della sua dignità, conosciuta sia attraverso la
parola di Dio rivelata, sia attraverso la stessa ragione, «ha diritto alla libertà religiosa. Tale libertà consiste in questo: che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione sia da parte di singoli, sia di gruppi
sociali e di qualsivoglia potestà umana e in modo tale che in materia
religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né sia
impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità alla sua coscienza,
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
privatamente o pubblicamente, in forma individuale associata» .
Parlando di “materia religiosa” ci si riferisce alla questione decisiva del senso (significato e direzione) dell’umana avventura. Senso
che ogni visione sostantiva della vita – religiosa, agnostica o atea che si
voglia – mette in campo. L’anelito di libertà proprio dell’uomo, costitutivamente orientato alla ricerca della verità, esprime il carattere inviolabile della sua coscienza. Essa è un cardine di ogni forma di ordine
sociale a misura d’uomo.
Il versetto biblico propone un rapporto dinamico con la persona
di Gesù che rende pienamente liberi. Esso “merita” paradossalmente
la celebre accusa che il grande inquisitore, nei fratelli Karamazov di
Dostoievskij, rivolge a Cristo: «Invece di impadronirti della libertà degli
uomini, Tu l’hai ancora accresciuta!».
È vero che l’uomo postmoderno spesso mette in questione la
possibilità stessa di accedere alla verità. Eppure le parole di Gesù, «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi», continuano indomite a risuonare e sfidano, dopo 2000 anni, ogni preclusione e pregiudizio. La
capacità di Gesù di interloquire con ogni uomo, in ogni tempo storico,
scaturisce dal fatto che Egli sa parlare “al cuore” della persona. Infatti
porre la domanda circa la verità e circa la libertà e stabilire quale nesso
debba sussistere tra loro, significa andare al centro dell’io, da cui ogni
uomo parte per il percorso che lo porti al compimento di sé, cioè alla
felicità, in termini cristiani alla santità.
La celebrazione dei 1700 anni dal cosiddetto Editto di Milano costituisce un’occasione privilegiata per rimettere a fuoco tali questioni in se stesse irrinunciabili, connesse con la dimensione religiosa
dell’umana esistenza. Lo riconosce acutamente il geniale scrittore di
origine ebraica George Steiner: «Potessi soltanto buttare via la zavorra
di una visione religiosa del mondo. Potessi soltanto lasciarmi alle spalle
quella ‘malattia infantile’» . L’ordinanza positivista che impone alla
mente adulta di chiedere al mondo e all’esistenza soltanto “Come?” e
non “Perché?” è una censura fra le più oscurantiste. Vorrebbe imbavagliare la voce sotto le altri voci dentro di noi. Persino al livello del
“Come?” non è affatto certo che le scienze maestose troveranno risposte dimostrabili. Per me esiste la pressione assolutamente innegabile di
una Presenza aliena alla spiegazione» .
Come non cogliere, in ultima analisi, in questa Presenza la forza stessa
della verità che interpella l’umana libertà?
3. L’“Editto” di Milano
Non è questa, ovviamente, la sede per dar conto – sia pur brevemente – delle numerose ed accurate indagini che, anche in questi ultimi
tempi, hanno valutato la reale portata storica e il significato sociale e
politico dell’accordo tra Costantino e Licinio.
Si tratta di valutare se quell’evento possa essere assunto come
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
uno dei tasselli utili a comprendere l’autentica natura della libertà religiosa, che la nostra fede custodisce e ci comunica e che l’umana ragione
riconosce e conferma.
Per questo occorre fare i conti con una obiezione che ha attraversato la storia dell’Occidente cristiano e si è riaffacciata con discrezione, ma anche con tenacia, in questi mesi. L’obiezione è la seguente:
l’“Editto” anziché favorire un’idea di libertà religiosa da far crescere
dentro le società, ha invece finito col trasformarsi in uno strumento per
un legame e un’alleanza tra cristianesimo e potere politico. Nei fatti,
avrebbe indebolito – se non snaturato – la stessa fede cristiana, e avrebbe ingabbiato il funzionamento politico e sociale dentro uno schema
sacrale. Avrebbe così condizionato in modo negativo lo sviluppo della
stessa idea di uomo, delle culture e delle civiltà. Si dice: la storia della
recezione dell’“Editto” di Milano più che operare una maturazione nel
modo di pensare il rapporto religione-verità permettendo un equilibrato
legame tra le religioni e il potere politico, avrebbe prodotto l’imposizione di una forma religiosa sulle altre (dal paganesimo al cristianesimo).
Avrebbe così inibito, invece che favorire, la possibilità della nascita e
dello sviluppo del concetto di libertà religiosa. Solamente in un periodo
più tardo, e grazie a tutt’altri fattori, questa importante dimensione
sarebbe riuscita a fare il suo ingresso nella storia delle nostre società.
Una simile lettura, pur contenendo talune giuste forme di critica su
vicende storiche che in più di un’occasione hanno conosciuto gli eccessi
segnalati, non può però essere assunta come la cifra in grado di interpretare nella sua globalità la svolta che l’“Editto” di Milano ha avviato
dentro la storia dell’Europa e non solo.
Importanti tracce di questa originalità sono visibili soprattutto
nel modo in cui la teologia cristiana fa suoi i due concetti che stanno
alla base anche dell’“Editto” di Milano: l’idea di pace e il modo di pensare l’universalità della salvezza.
L’idea di pace, anzitutto. Sarà il pensiero di sant’Agostino a fissare in modo definitivo la giusta interpretazione che la fede cristiana
dà a quella pace cui tende l’“Editto” di Milano. Il cristianesimo non si
accontenta di una concezione funzionale e meramente politica di questo termine. Sviluppa una declinazione escatologica dell’idea di pace:
soltanto la tensione al suo compimento definitivo ne spiega il significato
pieno. Questa concezione della pace rende possibile una interpretazione non utopica della storia e dei soggetti che la costruiscono.
L’istanza universalistica. Proprio l’“Editto” di Milano spinge il
cristianesimo ad elaborare, su basi nuove, il senso della sua presenza
nella storia. Favorisce la nascita di uno spazio nuovo, in cui l’individuo
è chiamato a scoprire le tracce del disegno creatore di Dio all’interno di
un mondo e di una storia che sono consegnati alla libertà degli uomini.
Non si può pertanto rinunciare all’affermazione che l’“Editto”
sia stato nei fatti «l’initium libertatis dell’uomo moderno» . Quest’as-
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
serzione permette di evidenziare come l’accordo tra i due Augusti determinò non solo la progressiva cessazione delle persecuzioni contro i
cristiani ma, soprattutto – pur nei limiti oggettivi della mentalità del
tempo – l’alba della libertà religiosa.
Certo, fu un inizio mancato per i tanti motivi che gli storici, con
vicende alterne a partire dal 1700 continuano, ancor oggi, a mettere in
luce.
4. Alle sorgenti della verità
Possiamo a questo punto svolgere qualche considerazione sul
tema della libertà religiosa in quanto tale. Essa non comporta l’imposizione della verità, ma piuttosto l’accettare che sia la verità stessa, per
essere riconosciuta in quanto tale, a chiamare in causa la libertà.
In quest’ottica il Concilio Vaticano II, nella Dichiarazione Dignitatis humanae, si è occupato della libertà religiosa non in termini
generali come libertà morale nei confronti della verità o di un valore – tesi essenziale, per altro esplicitamente richiamata dalla celebre
Dichiarazione – ma si è volutamente limitato a considerare la libertà
giuridica nell’ambito dei rapporti tra le persone e nella vita sociale.
Così considerato, il diritto alla libertà religiosa è un diritto negativo che
stabilisce i limiti dello Stato e dei poteri civili, negando loro una competenza diretta sulla scelta in materia religiosa.
La strenua affermazione e difesa della libertà religiosa dice la
centralità e l’inviolabilità della persona umana, la sua dignità, fondamento dell’organizzazione sociale.
Secondo alcuni le parole della Dignitatis humanae potrebbero
ultimamente essere lette come una resa da parte della Chiesa cattolica,
non più in grado di mantenere i propri privilegi, alle pretese della secolarizzazione, siano esse ritenute benefiche o meno.
Interpretare in questo modo l’insegnamento conciliare significa
subire un clima culturale che non riesce più a pensare la realtà nella
sua origine, cioè nell’orizzonte della creazione opera della Santa Trinità. Così facendo si ignora la presenza benefica del Dio Uno e Trino, sorgente della vita della persona, della comunità e del cosmo. A differenza
dei nostri fratelli d’Oriente, noi cristiani di Occidente ci siamo spesso
rassegnati a non fare più della confessione della nostra fede – basata
sul credo che ogni domenica professiamo comunitariamente nella celebrazione eucaristica – il cardine del nostro pensiero. Veniamo colti
da uno strano pudore a comunicare l’esperienza che scaturisce dalla
nostra fede, nel timore che questo possa minare l’universale solidarietà
con tutta la famiglia umana, i cui componenti si riferiscono a visioni
diverse della realtà.
Eppure l’autentica tradizione ha sempre riconosciuto e affermato «quanto viva sia la relazione tra il più inavvicinabile di tutti i misteri
[la Santa Trinità appunto] e la nostra vita quotidiana» .
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Il perfetto ed eterno scambio di amore, nello Spirito Santo, tra
il Padre e il Figlio da Lui generato apre lo spazio, nel mondo creato
– cioè nell’umana esperienza – ad una comunicazione della verità che
chiede di essere accolta dalla libertà. Una libertà che non percepisce il
legame di dipendenza da Dio in termini di sudditanza, ma in termini
di filiazione. L’uomo creato ad immagine della Trinità – come maschio
e come femmina, differenza questa interna ad ogni persona – si compie
accogliendo la verità che sempre chiede il dono della libertà, come insegna la costituzione pastorale Gaudium et spes (N. 24).
5. Trinità e vita sociale
Il nesso Trinità, verità e libertà, lungi dal restare relegato nell’ambito cristiano illumina anche la vita sociale. E rappresenta un decisivo contributo che i cristiani debbono offrire, in quanto cittadini,
a tutti i soggetti che abitano la società plurale. Pensare, nelle debite
distinzioni, la dimensione personale e sociale a partire dalla Trinità
rende più agevole riconoscere, nell’edificazione della società civile, la
necessità di un duplice decisivo atteggiamento: «Amore, comunanza di
tutto fino all’identità dell’essenza e della vita. Ma, nello stesso tempo,
perfetta custodia di sé da parte della persona» .
Dalla contemplazione della Trinità emerge una visione dell’uomo e della società praticabile da tutti, che supera in radice qualunque
pensiero incapace di riconoscere la differenza come un bene e, nello
stesso tempo, non rinuncia a quell’unità che è il marchio inconfondibile del vero.
Dal punto di vista dell’organizzazione sociale ne derivano conseguenze decisamente notevoli. Infatti, il riconoscimento del bene della
differenza permette di combattere l’utopia del collettivismo in cui l’uomo si dissolve nello Stato. D’altra parte, non rinunciare mai all’unità
come orizzonte necessario di ogni realizzazione sociale mette al riparo dall’utopia dell’individualismo, incapace di concepire la logica del
dono necessaria, invece, al bene personale e sociale. La tradizione della
Chiesa lo ha ben compreso sostenendo che la giustizia e la benevolenza
sono inseparabili nella vita sociale. Così scrive il nostro padre Ambrogio: «Nulla s’accorda tanto con l’equità quanto la giustizia, la quale,
inseparabile compagna della benevolenza, fa sì che amiamo quelli che
crediamo uguali a noi (…) Per la benevolenza più persone diventano
una sola, perché, se più persone sono amiche e perciò in esse v’è un
solo spirito e un solo modo di pensare, diventano una sola persona».
E insegna l’enciclica Deus caritas est al n. 28: «L’amore – caritas – sarà
sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo
in quanto uomo». Il servizio della carità fa emergere ciò che è specificamente umano ed esalta il necessario ordine di giustizia. Contrasta inol-
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
tre la tentazione che più insidia la piena libertà, ben descritta da Eliot:
«L’uomo sogna sistemi così perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di
essere buono» .
6. Il futuro di Milano
Queste parole diventano particolarmente urgenti nell’attuale
frangente storico in cui l’Occidente è segnato da un doloroso travaglio.
In esso si innesta la crisi economico-finanziaria che non cessa di colpire pesantemente le nostre società e intere nazioni e popolazioni che
continuano a subire il terribile flagello della fame, della miseria e della
violenza.
Si profila in tal modo un compito particolarmente impegnativo
per Milano, per la Lombardia e per le nostre terre. Sono chiamate a
mostrare la capacità di rinnovare il corpo ecclesiale e quella di edificare
un buon tessuto sociale, rispettoso della libertà di tutti. Consegneranno
in tal modo alle nuove generazioni, nell’esercizio di una memoria viva,
la fede operosa dei padri e, in solidale filìa con tutti, l’eccellente esperienza civica delle terre ambrosiane.
La celebrazione dell’anniversario dell’“Editto” di Milano cade
in un momento storico in cui la Chiesa ambrosiana, insieme a tutte
le Chiese del nostro paese, è impegnata in un’opera di trasformazione
delle forme di presenza in una società plurale. Il concreto tessuto ambrosiano di vita cristiana è capillarmente radicato nell’esteso territorio
della diocesi attraverso l’annuncio esplicito della bellezza, della bontà
e della verità dell’evento di Gesù Cristo presente nella comunità ecclesiale. Un annuncio che giunge fino alla proposta di tutte le sue umanissime implicazioni antropologiche, sociali e di rapporto con il creato.
Lo documentano le reti di accoglienza, di solidarietà, di costruzione di
risposte ai bisogni fondamentali, di gestione del legame sociale, di luoghi di elaborazione e diffusione di arte e di cultura.
«Il campo è il mondo» (Mt 13,38). Le parrocchie, le associazioni,
i movimenti sono consapevoli che per i cristiani non ci sono bastioni da
difendere, ma vie da percorrere per documentare che Cristo è l’Evangelo dell’umano.
7. Un cammino comune
Santità, l’annuncio della Trinità Santa e della salvezza compiuta nel Crocifisso Risorto trova le nostre Chiese unite nel cammino comune dell’evangelizzazione e del contributo all’edificazione di una civiltà
del volto umano.
Infatti, come Vostra Santità ebbe a dire l’11 ottobre 2012 in
Piazza San Pietro, «la nostra presenza qui – e quindi anche quella di
oggi a Milano – significa e segna il nostro impegno a testimoniare insieme il messaggio di salvezza e guarigione per i nostri fratelli più piccoli: i
poveri, gli oppressi, gli emarginati nel mondo creato da Dio». E il Santo
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Padre Francesco ribadiva nell’omelia dell’Eucaristia per l’inizio del ministero petrino: «Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli
altri, per custodire il creato!».
A questo compito appartiene intrinsecamente la promozione
della libertà religiosa sia in Occidente che in Oriente. Sono ben diverse
le forme in cui questa libertà viene conculcata. Si va dal martirio come
avviene nelle terre del Medio Oriente fino ad interventi giuridici che
ne impediscono la piena attuazione come avviene talora in Europa.
Promuoverla a beneficio delle nostre società e promuoverla insieme con
i fratelli d’Oriente è un dovere che la Chiesa di Milano non intende disertare.
I cristiani di Lombardia stanno progressivamente rendendosi
conto della necessità di un senso di vita adeguato ai grandi cambiamenti in atto. Un senso della vita che necessita un approfondimento della dimensione affettiva e dell’esperienza del bell’amore, l’accettazione
cordiale della società plurale ed il contributo costitutivo alla vita buona
e al buon governo. Fattori che implicano un pensiero positivo e deciso
della “differenza”. Esso, se rettamente perseguito, non spezza l’unità.
Ne è garanzia proprio il mistero del Dio Uno e Trino.
Per questo, unendomi alla Sua persona e in considerazione della testimonianza e dell’originale riflessione che la Santità Vostra ci ha
offerto, credo che possiamo affermare con un cuor solo e con l’umiltà
propria di chi sa di non esserne degno, che «la verità ci è venuta incontro e ci farà liberi».
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
9.2. Lectio a due voci: Patriarca Bartolomeo I
Cardinale Angelo Scola
Milano, Palazzo Reale – Sala delle Cariatidi
mercoledì, 15 maggio 2013 – 17,30
II
Il significato dell’autentica libertà
“Cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos”
(Secundum Ioannem, 8, 32)
Patriarca Bartolomeo I
Patriarca di Costantinopoli
È per la nostra Umile Persona una benedizione e motivo di gioia
trovarci oggi a Milano per i festeggiamenti in occasione dei millesettecento anni dalla pubblicazione dello storico Editto di Milano, che ha
rappresentato una tappa fondamentale nella storia della umanità.
L’Editto ha costituito anzitutto una svolta importante per la vita
del suo autore, l’imperatore Costantino il Grande, conducendolo verso
la fede cristiana e la vita ispirata dal Vangelo. Ora è tra i Santi ed è
protettore e benefattore della Chiesa. Con l’Editto Costantino ha reso
il Cristianesimo una religione libera nel grande Impero Romano e ha
posto le basi del primo stato cristiano.
Ci rallegriamo, dunque, perché ci troviamo con voi, in questo
luogo benedetto dai martiri, santificato dalla presenza di tanti Santi
della Chiesa cristiana indivisa. Anzitutto il grande Padre Ambrogio, patrono della Chiesa di Milano, buon pastore di questa città benedetta da
Dio, continuatore dei Santi Apostoli nell’opera dell’evangelizzazione.
Ricordiamo poi i Santi martiri Sebastiano, Nazario, Gervasio, Celso e
Protaso che con l’effusione del sangue hanno suggellato la loro fede in
Cristo, la cui pratica poco tempo più tardi Costantino il Grande renderà
libera.
Questi cinque Santi Martiri, protettori della città di Milano e intercessori verso Dio per i suoi figli, costituiscono anche per noi modello
ed esempio per la loro totale dedizione fino alla morte al Capo della
vita, il Signore dei vivi e dei morti, il vincitore della morte nostro Signore Gesù Cristo.
Esprimiamo il nostro compiacimento, perché le sacre reliquie
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
di questi martiri, generosamente concesse dal predecessore di Vostra
Eminenza e ora custodite nella sede del nostro Patriarcato Ecumenico,
rafforzano i sacri legami spirituali con questa Città e Arcidiocesi.
Desideriamo innanzitutto ringraziare l’amatissimo fratello in
Cristo l’Eminentissimo Signor Cardinale Angelo Scola, che con il suo
gentile invito ci ha dato la gioia e la possibilità di partecipare a questi
festeggiamenti, con tanto impegno organizzati nella Città in cui fu pubblicato l’Editto.
Come piccolo contributo alla comprensione reciproca, grato per
l’onore conferitoci di intervenire ora davanti a voi, esponiamo pochi
semplici pensieri sul significato della libertà, sotto varie prospettive, nella nostra Chiesa Ortodossa, nella cristianità e nel mondo.
Milano festeggia i 1700 anni dalla concessione della libertà di
religione e la fine delle disumane e dure persecuzioni causate ai cristiani dai seguaci di religioni pagane che adoravano l’immagine di Cesare,
il sole, la luna, le stelle, le statue inanimate dei dodici dei demoniaci…
Siamo venuti dalla città fondata da San Costantino per onorare
solennemente l’anno Costantiniano. L’anniversario dei millesettecento
anni dalla pubblicazione dell’Editto o – come altri lo definiscono - del
Dogma di Milano, costituisce un’occasione unica per il nostro tempo,
nel quale spesso si assiste alla violazione degli elementari diritti umani, per spiegare questa fondamentale eredità di Costantino il Grande,
grazie alla quale fu realizzata per la prima volta la fecondazione della
legislazione romana con il pensiero cristiano e, inoltre, è stata raggiunta una conquista decisiva per il futuro della umanità: il concetto della
libertà religiosa.
La decisione di Milano ha posto in condizione di parità legale il
Cristianesimo, fino ad allora perseguitato, concedendogli libertà religiosa istituzionalmente registrata. In tal modo fu aperta la via per fondare
il primo e unico stato cristiano dell’ecumene, portando benefici culturali e contribuendo all’evangelizzazione del Continente Europeo.
I. Libertà spirituale
La deformazione del suo senso nel mondo moderno
Generalmente si considera la libertà un concetto astratto, specialmente nella comunità intellettuale, politica, accademica e culturale
senza che se ne evidenzi la profondità del suo mistero.
Scrive il Santo Crisostomo: “Libertà è la mancanza di arroganza e vanità” (Commento della Lettera agli Ebrei, XXVIII, P.G. 63,200). “Questo precisamente è libertà, quando anche nella schiavitù brilla, nella
schiavitù la libertà si dona” (San Giovanni Crisostomo, Commento alla
Iª Lettera ai Corinzi, XIX, P.G. 61,157).
Come del resto ha vissuto e testimoniato con la vita, durante
questi 17 secoli, il Patriarcato Ecumenico: costretto alla schiavitù secon-
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
do il mondo, ma libero, indomito, non soggiogato nel pensiero e nello
spirito.
L’assoluta libertà che ci ha concesso il nostro Signore Gesù dono rinnovato nella pratica da Costantino il Grande, con la firma 17
secoli fa qui a Milano insieme al suo collega imperatore Licinio della
legge sulla tolleranza religiosa - costituisce un sommo bene spirituale e
un inafferrabile regalo di Dio. Il primo uomo, Adamo, fu plasmato da
Dio a Sua immagine e somiglianza. Dio ha donato alla Sua creatura il
Suo più prezioso dono: essere padroni di sé stessi, cioè della libera volontà e della possibilità di scegliere di appartenerGli o di negarLo.
Dio può realizzare tutto, ma non desidera costringere l’uomo
ad amarLo. Soprattutto rispetta la libertà dell’uomo. “Dio è amore” (I
Gv 4,16), è libero amore verso l’uomo e cerca il libero amore della Sua
creatura. E Dio nessuno l’ha visto mai, perché anche l’amore non viene
visto con l’occhio nudo, né si manifesta con complimenti, conviti e feste,
ma viene vissuto nel cuore, si manifesta nella verità con il sacrificio e la
croce di chi ama a beneficio della persona amata.
Tramite il Dio-Uomo Cristo e la Sua opera salvifica, Dio ha voluto convincere e non violentare; chiamare e non cacciare; amare e non
giudicare; liberare e non schiavizzare.
Questa libertà occupa, allora, uno posto centrale nella vita dell’uomo che desidera avvicinare Dio. Durante l’esercizio della Sua opera
salvifica nel mondo, il Verbo di Dio incarnato afferma: “A quei Giudei
che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete
davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv
8, 31-32).
Questa libertà è un profondo, eterno, incomprensibile mistero.
Non può facilmente essere determinata o compresa in un concetto.
Durante la nostra epoca, principalmente nei secoli XIX e XX,
molti discorsi sono stati fatti sulla libertà e tante guerre combattute per
la cosiddetta libertà dei popoli.
Questa libertà, essendo spesso separata dal suo Datore primo, il
datore di ogni dono, Dio, viene isolata, divinizzata, acquista un carattere antropocentrico, diventa onnipotente, causando - fenomeno non raro
nella storia della umanità – grandi crimini nel nome di questa libertà
onnipotente e antropocentrica.
Occorre distinguere la vera libertà della quale parla il Vangelo,
e che Costantino il Grande ha realizzato, dalle altre forme di libertà che
non costituiscono il bene supremo donato da Dio all’uomo, ma che sono
una debole imitazione, o deviano in falsificazioni della vera libertà.
Una libertà ingannevole è ad esempio la libertà carnale che soddisfa i desideri inferiori dell’uomo e le sue esigenze individuali, e gli
impedisce di condurlo a Dio, degradandolo ad un livello di esistenza
inferiore, istintiva e bestiale, per la quale non fu plasmato da Dio.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Purtroppo oggi la libertà è ridotta a uno dei beni più “maltrattati” nell’umanità, soggetta continuamente all’arbitrio e alle ideologie
umane. Gli uomini, soprattutto chi si sente “superiore”, credono di
essere liberi quando possono indiscriminatamente soddisfare i propri
desideri, compiendo ciò che vogliono quando vogliono, senza limiti, decidendo e operando, commettendo ingiustizie nel silenzio di coloro che
gli stanno attorno, ammazzando e venendo applauditi: tutto e sempre
nel nome della libertà.
Oggi, oltre alla crisi economica mondiale e ogni altra crisi, viviamo anche la crisi della libertà.
Tutti si tormentano sulla terra, tutti protestano, desiderano e
cercano la libertà, alcune volte versano anche il proprio sangue per questo, ma pochi sono coloro che la trovano e l’acquisiscono; pochi sono
quelli che conoscono il contenuto della vera libertà e dove essa si trovi.
II. Il concetto della vera libertà
Però la possibilità dell’uomo di fare ciò che vuole non solo non è
libertà, ma, anzi, costituisce la peggiore forma di schiavitù. Lo stesso nostro Signore Gesù Cristo, nel Santo Vangelo, mostra il significato della
vera libertà. Quando i Giudei con stupore chiedono al Signore di quale
libertà stia parlando, visto che “siamo seme di Abramo e non siamo
mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: diventerete liberi?”, Egli
risponde in modo molto particolare: “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta
per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi
farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8, 34-36).
Il peccato è la peggiore forma di schiavitù dell’uomo: liberandosene si ha il presupposto per l’acquisto della vera libertà. Nessuno
è libero, se non nega l’auto-adorazione del suo “ego”, se non supera il
suo “se stesso” peccatore, se non vince i suoi desideri e le sue passioni
peccatrici.
La libertà dal peccato è l’unica libertà reale. Questo sottolinea
il Protocorifeo Apostolo Paolo scrivendo ai Romani (6, 22-23): “Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che
vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. Perché il
salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo
Gesù nostro Signore”.
L’uomo è libero quando raggiunge la santificazione e la purificazione totale della sua esistenza. E’ libero proprio secondo il grado
della sua liberazione dalle catene del peccato che genera la morte. E’
libero quando nega se stesso a favore dell’altro, quando sacrifica la sua
esistenza, le sue aspettative, i suoi “interessi” a favore del suo fratello,
del suo amico, del suo prossimo e di Dio.
Il concetto e la verità della libertà furono rivelati nel mondo con
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Cristo come incontro del Dio personale con l’uomo personale.
L’uomo non può essere autentico uomo se non è in comunione
con Dio. Anzi nega la sua umanità quando l’uomo si costituisce come
un assoluto, quando nega di sottomettersi alla volontà divina, quando nega la legge di Dio (i dieci comandamenti dell’epoca prima della
Grazia e principalmente il Vangelo di Cristo); quando ha come criterio
esclusivamente se stesso per decidere cosa sia bene e male.
III. L’esempio e la parola di un Santo della Chiesa Ortodossa
Dopo quasi 1900 anni dall’incarnazione di Cristo nel mondo,
un asceta del Santo Monte Athos, San Silvano, fornisce la misura e la
definizione della vera libertà: “La vera libertà è la continua permanenza in Dio” (Archim. Sofronio, L’Anziano Silvano di Athos (1866-1938),
Tessalonica, p. 64).
Quanto più ci allontaniamo da Dio, tanto più diventiamo schiavi delle passioni, delle idee, dei desideri, dei possedimenti, del denaro:
così ritorniamo all’idolatria, ad un neo-paganesimo, al “rispetto della
immagine di ogni Nabucodonosor”. E ciò nonostante il progresso, i voli
nello spazio, i “miracoli” della scienza e della tecnologia e le conquiste
“incredibili”.
A questa libertà giunse anche Costantino Il Grande e grazie a
questa libertà fu liberato dal culto dell’idolo di se stesso, dell’idolo dell’imperatore, che fino ad allora si adorava come Dio, sottomettendosi
invece umilmente alla Volontà dell’umile e mansueto Gesù, di Cui divenne servitore e discepolo. Di questa vera libertà erano possessori anche
tutti i Santi, i Martiri, i Beati e i Giusti della nostra Chiesa, come Ambrogio di Milano e tutta la lunga catena dei Santi fino ai nostri giorni.
Lo Ieromonaco Sofronio riporta il contenuto di una conversazione dell’asceta atonita San Silvano con uno studente che visitò il
Sacro Athos e parlò a lungo della libertà. Silvano, venerato oggi come
Santo, rispondendogli così si espresse: “Chi non vuole la libertà? Tutti
la vogliono, ma devi sapere dove sta e come puoi trovarla. Per diventare
libero devi vincolare se stesso. Quanto più vincoli te stesso, tanto più
grande libertà avrà il tuo spirito. Devi incatenare le tue passioni dentro
di te per non farti dominare; devi incatenare te stesso per non fare il
male al tuo prossimo.
Di solito gli uomini cercano la libertà per fare “ciò che vogliono”. Però questo non è libertà, ma non-libertà, dominio del peccato
sopra di noi. Noi crediamo che la vera libertà consista nel non peccare,
nell’amare il Signore e il tuo prossimo con tutto il tuo cuore e tutta la
tua forza” (Archim. Sofronio, come sopra, pp. 63-64).
IV. L’acquisto della vera libertà con il pentimento e la permanenza
in Dio
Modello della perfetta libertà è la “kenosis-svuotamento” di Dio
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
che ci da tutto e Se Stesso. Questa è la libertà perfetta: “Prendete, mangiate; questo è il mio corpo che viene spezzato per voi in remissione dei
peccati”. Egli è al tempo stesso “colui che si offre e la vittima che viene
offerta; colui che si dona e il sangue che viene donato” in libertà e totalmente: Cristo, il nostro Dio.
Il Signore non vuole la morte del peccatore ma al pentito dona
la Grazia dello Spirito Santo. Egli dona nell’anima la pace e la libertà
di permanere in Dio sia con la mente che con il cuore. Quando lo Spirito Santo perdona a noi i peccati, l’anima riceve la libertà di pregare in
Dio e in Lui trova riposo e gioia. Questo è vera libertà. Senza la libertà
di Dio è impossibile esistere: i nemici scuotono l’anima con pensieri
malvagi.
V. La vera libertà sta nell’amore
Come realizzeremo queste parole, come acquisteremo la vera
libertà in un mondo, ateo, pluralista, in cui dominano tendenze nazionaliste, la violenza, l’ideologia, l’interesse, le frammentazioni sociali,
l’incostanza della classe dirigente che muta opinione e parere contrastando così la sapiente coerenza? La vera libertà si trova nella nostra
permanenza in Dio. Come possiamo permanere in Dio per restare veramente liberi quando non siamo coerenti nei nostri atti? Nella lingua
greca la parola coerenza significa il valore che ho e possiedo, che non
cambio spesso con arretramenti.
Troviamo risposta nella voce ispirata da Dio di Giovanni il Teologo ed Evangelista: “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e
Dio dimora in lui” (I Gv 4, 16-17). La libertà, allora, si trova nell’amore,
nella nostra sottomissione, nel nostro servizio per gli altri. L’Apostolo
delle Genti Paolo ci da l’ethos della libertà, con la totale kenosis/svuotamento dell’uomo a favore dei suoi fratelli: “Infatti, pur essendo libero
da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero.
Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (I Cor 9,
19-22).
La Croce della libertà è la Croce dell’amore. L’unica illimitata libertà è l’illimitato amore. I Santi lo testimoniano empiricamente.
Siamo liberi quando amiamo. Senza l’amore l’illimitata libertà diventa
illimitata violenza, oppressione e dissolutezza, come disgraziatamente
capita in molte situazioni - anche in quelle ecclesiastiche – dove è entrato lo spirito di questo mondo, l’immoralità, la rapina, la copertura e la
tolleranza dei potenti a situazioni illiberali. Ma Dio vede tutto e interviene al momento opportuno con vero giudizio, come “giusto giudice”.
La richiesta di vera libertà conduce nel totale amore, l’amore
crocifisso e sacrificato. Quindi libertà senza croce non può esistere.
“Prenderò una salita, prenderò sentieri per trovare gli scalini che conducono alla libertà”, scriveva un quindicenne eroe e combattente della
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
libertà, spiegando che presupposto della libertà è la croce, il sacrificio.
La via della libertà cristiana è la via della croce e dell’ascesi faticosa, della profonda umiltà, del pentimento, della vittoria sopra se stessi, della negazione di ogni interesse a favore dell’amore. La vera libertà
è unita con l’amore, si sviluppa dentro la libertà dell’amore. Cristo è il
testimone della libertà e dell’amore, del libero amore tra Dio e uomo.
La legge della libertà sarà anche la misura del nostro giudizio finale, che si esprimerà tramite la legge dell’amore. “Parlate e agite come
persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia”, dice il Santo Apostolo Giacomo, il Fratello del Signore (Giac 2,
12-13).
Nell’attuale società delle rivendicazioni e dei diritti, l’uomo fatica a capire il significato della vera libertà dell’amore: cercando di dominare i suoi fratelli, da servitore della libertà si trasforma servo di se
stesso.
Comprendiamo che siamo veramente liberi quando veniamo
crocifissi e non quando crocifiggiamo; quando sacrifichiamo i nostri
diritti a favore dei diritti degli altri; quando offriamo e condividiamo,
non quando rivendichiamo. Vera libertà è nel dare, non nel ricevere.
VI. La libertà come espressione di civiltà e vita e linea direttiva della
storia
Con questi presupposti di reale libertà non sussistono motivi religiosi per un violento scontro tra le culture e i principi di Cristianesimo
e Islamismo. La recente e nota teoria dell’inevitabile scontro violento
tra queste civiltà non trova fondamento su veri motivi religiosi. Se le
aspirazioni delle nazioni o fattori geopolitici conducono a conflitti tra
popoli musulmani e cristiani, se le religioni si mettono al servizio dei politici per rafforzare l’idea della diversità, dell’ostilità di un popolo verso
un altro, ciò non ha alcuna relazione con la vera natura della libertà.
Del resto le guerre e tutti gli atti di inimicizia tra gli appartenenti alla medesima religione e alle sue variazioni, come gli Ortodossi
di Serbia e i Romano-Cattolici di Croazia, i sunniti e sciiti musulmani,
testimoniano che le cause reali di questi conflitti non sono le divergenze
sul concetto della libertà, ma rivendicazioni riferibili ad altre questioni
pratiche. Ciò diventa ancor più evidente nei casi di conflitto tra popoli
che appartengono precisamente alla medesima fede religiosa, fenomeno che spesso si manifesta nella storia fino ai nostri giorni.
Il modo fondamentale per appianare ogni differenza etnica, economica, ideologica e di altra natura è lo sviluppo di dialoghi seri e in buona fede tra le parti, vivendo il dono divino della libertà quotidianamente
e con coerenza in ogni ambito. E ciò vale specialmente per i capi reli-
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
giosi. Altrimenti Dio permetterà catastrofi, distruzioni e insuccessi nelle
nostre opere a causa del cattivo uso del dono della libertà e dell’amore.
La vera libertà dissolve pregiudizi, contribuisce alla comprensione reciproca e prepara il terreno per trovare soluzioni pacifiche di
tutti i problemi. Ma la più importante conseguenza della libertà è che
avvicina e rivela la vera personalità di chi dialoga.
È la libertà con la quale Cristo ci ha liberato a costituire l’occasione per superare i nostri limiti anche nel comprendere il punto di
vista del nostro interlocutore. Questo libera lo spirito dall’unilateralità
dell’approccio. In questa apertura verso la percezione dell’altro c’è un
pericolo e sta nel pensare che il confronto con l’altro metta in discussione i fondamenti stessi della nostra fede. Non esiste più grande pericolo del valutare che il nostro edificio spirituale risulti indebolito dalla
considerazione che la bellezza e la perfezione dell’edificio del nostro
interlocutore siano migliori delle nostre.
Molti uomini sono talmente legati alle proprie convinzioni da
decidere di sacrificare la propria vita piuttosto che cambiarle. Da loro
si leverà perciò la domanda se così noi proponiamo l’instabilità e il
facile mutamento della fede. Non proponiamo ciò. Proponiamo invece
l’approfondimento, la continua e più profonda infiltrazione nella verità. Colui che approfondisce questa affermazione constata che spesso le
idee che gli sembravano fino ad allora contraddittorie si accordano fra
di loro.
Il Vangelo ci mostra un esempio: “Chi vorrà salvare la propria
vita, la perderà” (cfr. Mt 16,25). Chi vuole salvare la sua vita deve accettare di sacrificarla, perché la vita si guadagna quando viene sacrificata e non quando con pusillanimità e con la paura di perderla viene
custodita dai pericoli. La contraddizione è evidente, e l’accettazione di
questo schema di antinomia contraddice il ragionamento di chi rimane
rigido. E’ quanto testimoniano coloro che hanno vissuto nei campi di
concentramento: gli amanti della propria vita - quelli che tentavano custodire se stessi dai pericoli - perdevano la lotta con l’esistenza, mentre
sopravvivevano coloro che volontariamente accettavano il sacrificio.
Nel profondo dell’animo di quel padre palestinese - che anni
fa ha donato ad un ospedale israeliano gli organi del suo giovane figlio ucciso dagli israeliani, affinché fossero trapiantati in un giovane
malato senza distinzione, sia israeliano che palestinese - ha brillato un
luminoso raggio di luce che gli ha rivelato la verità: tutti gli uomini sono
fratelli, malgrado in molti oggi disgraziatamente credano di essere radicalmente diversi dagli altri e di non potere convivere pacificamente con
loro. Come notte e giorno sono un’unica e medesima cosa, perché non
sono un’unica e medesima cosa greco, italiano e giudeo, servo e libero,
uomo e donna, uomo e uomo di qualsiasi tribù, lingua e religione?
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
VII. Il libero spirito greco antico
I greci antichi si sono distinti per la loro capacità di ricevere dal
prossimo conoscenze e idee e di valorizzarle senza il timore di degradazione o disprezzo. L’altissimo sviluppo dello spirito greco antico durante
l’epoca classica si deve anche a questo incrocio voluto tra le loro idee e
quelle di altri popoli e civiltà, fondendo con discernimento ammirabile
in un nuova sintesi tutto il bene incontrato fuori dall’Ellenismo.
Questa libertà di spirito si trova alla base di ogni progresso spirituale. Noi crediamo che dove esiste lo Spirito di Dio lì stia la libertà.
Il pericolo che soffre la libertà spirituale è di non considerare i beni che
essa offre. Purtroppo, come abbiamo già detto, in molti costruiscono un
castello spirituale e ideologico dentro il quale si chiudono per assicurare
la propria integrità spirituale. Malgrado questo sforzo, comprenderanno con il tempo che quanto più si cautelano contro l’ingresso nello spirito di nuove idee, tanto più “angosciosa” diventerà la loro vita, perché
l’infiltrazione delle idee è talmente forte che nessun ostacolo ne può
impedire l’ingresso nei cuori degli uomini.
Occorre chiarire che l’approfondimento nella verità della libertà
non ha come conseguenza obbligata il cambio di religione, come viene
sostenuto oggi da molti. E’ possibile che in alcuni casi capiti, e il diritto
di ognuno di cambiare fede deve essere rispettato. Ma parlando di approfondimento noi intendiamo il miglioramento del modo di pensare
e di comprendere, quindi la più chiara conoscenza della verità nella
libertà.
Nella lingua ecclesiastica greca usiamo la parola “metanoia”,
che esattamente significa cambio della mente, della mentalità, operazione necessaria, secondo i Padri della Chiesa, vicina al pentimento.
“Nel pentimento sincerità, nel pentimento libertà”, dice San Giovanni
Crisostomo (Sul Pentimento, VIII, P.G. 49, 338).
In questo cambio di mentalità contribuisce molto la conoscenza
e l’aspirazione della vera libertà: speriamo che tramite l’anniversario
che stiamo festeggiando raggiungeremo un migliore approfondimento
almeno di quelle verità che facilitano la pacifica convivenza degli uomini. Perché le differenze tra gli uomini sono minori della differenza del
giorno dalla notte, in ogni caso.
VIII. Il vissuto della vera libertà tra Cristiani e Musulmani
Di particolare attenzione necessita lo sviluppo dei temi che si
riferiscono alla situazione dei cristiani nei paesi musulmani e dei musulmani in quelli cristiani. La situazione dei cristiani in alcuni paesi
musulmani ha bisogno di importanti miglioramenti per consentire libertà e possibilità analoghe a quelle che i musulmani godono nei paesi
cristiani.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
C’è bisogno di procedere verso questa direzione abbandonando
le angosciose ferite del passato. La storia ha registrato comportamenti
di popoli e governi cristiani non compatibili con il Vangelo, come anche
di comportamenti di popoli e governi islamici non in accordo con il Corano. E’ tempo di fare come dice il Signore. Di convergere tutti verso ciò
che comanda per tutti la volontà di Dio. Chi ha grazia nel cuore sperimenta che Dio misericordioso e pietoso non si compiace delle stragi ma
della pace, altissimo bene e dono divino. Cristiani e musulmani gioiscono reciprocamente della parola di pace che si identifica con la libertà.
IX. Il comportamento della Chiesa Ortodossa di fronte alla cura per
la libertà e i diritti dell’uomo.
Certamente tutto detto quanto fin qui non sottovaluta le conquiste e i progressi delle società umane riguardo alle libertà e ai diritti dell’uomo. Queste conquiste hanno come inizio l’Editto pubblicato 1700
anni fa in questa storica Città. Perciò avete e abbiamo diritto di esaltare
l’atto e le conseguenze scaturite dall’Editto.
La preoccupazione che l’uomo sia sostenuto di fronte a ogni ingiusta oppressione e privazione della sua libertà - espressa anche dopo
la Rivoluzione Francese con la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo”
– per il Cristianesimo non è nuova cosa ma è contenuta nell’insegnamento divino-umano sulla terra, di duemila anni fa, di Cristo e dei suoi
Santi Apostoli (nei Sacri Vangeli e negli scritti dei Padri Teofori).
E questa preoccupazione non può che avere l’approvazione della Chiesa.
Ma la democrazia per la Chiesa è legale solo quando dice la partecipazione del popolo alla nomina dei capi e del governo, rispettando
i diritti di Dio e le leggi divine. La pretesa della nazione di auto-determinarsi come il supremo fondamento dei canoni che ispira e istituisce
le leggi, non può essere accettata dalla Chiesa, ma viene bocciata come
pretesa luciferina che conduce l’uomo alla sua auto-distruzione.
Per la Chiesa ogni sforzo per l’acquisto della libertà deve essere
rivolto in primo luogo verso l’uomo interiore e dopo essere esteso agli
altri. Per la Chiesa Ortodossa l’uomo reca intera la responsabilità di
lottare per la realizzazione dell’aspetto positivo della libertà nella sua
persona, di diventare ogni giorno autenticamente libero, negando sé
stesso e la sua tendenza al peccato.
Tutti i movimenti umani che hanno tentato di raggiungere la
libertà fuori da Dio, senza Cristo, alla fine non solo sono falliti, ma hanno avuto anche conseguenze catastrofiche per l’umanità.
Non si deve dimenticare che alla Rivoluzione Francese del 1789,
con le sue dichiarazioni progressiste, hanno fatto seguito le stragi degli
anni 1792-94 e i milioni di morti delle guerre napoleoniche. Non si
deve dimenticare che alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia sono seguiti
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
milioni di vittime delle persecuzioni staliniste e dei terribili campi di
concentramento in Siberia.
Purtroppo non sono solo il fondamentalismo e l’odio religioso a
privare l’uomo dei suoi basilari diritti. È anche la sete di libertà senza
Cristo, la libertà immorale che alla fine diventa prigione. Questa sete di
libertà non troverà il suo compimento se l’uomo Europeo non si ricollegherà con l’eredità cristiana di Costantino Magno, grande e santa personalità che ha tracciato un segno nella storia del mondo, come solo un
santo poteva fare. Quando i popoli dell’Occidente cercano fondamento
alla morale e al diritto solo nell’uomo e nella nazione dimenticando
Dio, allora anche i diritti dell’uomo rimarranno semplici dichiarazioni
sulla carta.
La stessa cosa succede anche oggi in Medio Oriente. Rivoluzioni,
rovesciamento di regimi, guerre per richiedere più libertà e l’instaurazione della democrazia. Malgrado ciò i risultati non sono positivi e
alcune volte molto scoraggianti.
La violenza religiosa, l’odio, la mancanza di tolleranza di fronte
ai cristiani, continuano a dominare in Paesi teatro di rivoluzioni. Gli
eventi politici che accadono nel Medio Oriente - luoghi attraversati da
Dio - le catastrofi naturali, l’insicurezza verso il futuro, minacciano i
cristiani, la loro vita loro e quella delle proprie famiglie. In Siria i cristiani di ogni confessione, chierici e laici, malgrado i grandi sforzi che
compiono per rimanere neutrali nel conflitto civile, malgrado la loro
vita tranquilla e pacifica, vengono provati e minacciati quotidianamente con sequestri e omicidi.
Il Patriarcato Ecumenico condanna senza dubbi queste e analoghe situazioni. Lontano da ogni posizione politica riproviamo - come
capo spirituale e Patriarca Ecumenico - l’uso della violenza e le persecuzioni dei cristiani soltanto e solamente in quanto cristiani.
Non abbiamo timore di quelli che usano la violenza contro i
cristiani, perché la Resurrezione del Signore ha vinto anche la morte.
Come cristiani non abbiamo paura delle persecuzioni, perché le persecuzioni sono la pagina d’oro della storia della nostra Chiesa, hanno
esaltato santi, martiri ed eroi della fede. Ma anche non cessiamo di esprimere verso la Comunità Internazionale la nostra protesta, perché 1700
anni dopo la concessione della libertà religiosa con l’Editto di Milano,
continuano in tutto il mondo, sotto molteplici forme, le persecuzioni.
Facciamo quindi appello a tutti affinché prevalga la pace e la
sicurezza tanto nel Medio Oriente - dove il Cristianesimo tiene i suoi
più venerabili e antichi santuari e dove la tradizione cristiana è tanto
profonda e collegata con la vita del popolo - quanto in tutto il mondo,
dove viene calpestata la libertà della fede in Cristo con il pretesto del
terrorismo, delle guerre, delle oppressioni economiche e in molti altri
modi. Situazioni che si correggono solo con personali autocritiche, con
la Grazia dello Spirito Santo. Tutto questo condanniamo, proclamando
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
la libertà in Cristo. La libertà è per il cristiano modo di vita. La più
elevata libertà è la purezza della nostra mente e perfetta libertà è la
purezza del cuore. Questa è la libertà di Dio che ha le sue radici, la sua
pienezza e la sua perfezione nella libertà dell’uomo. La libertà dell’uomo è la libertà di Dio.
L’Editto di Milano costituisce un momento culminante nella vita
dell’umanità e per il nostro travagliato mondo è speranza per un domani migliore. Ed è al tempo stesso un suggerimento affinché il mondo
comprenda che può raggiungere la sua reale libertà soltanto in Cristo.
Testimonia San Giovanni Crisostomo, Lui che ha servito nella libertà:
“Chi non cerca la gloria, già da ora riceve il premio; di nessuno è servo,
ma libero nella vera libertà” (Commento a Giovanni, 73, P.G. 59, 349).
Amen.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
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Basilica di Sant’Ambrogio a Milano
Celebrazione ecumenica
presieduta dal Patriarca di Costantinopoli
e dall’Arcivescovo di Milano
Milano 16 maggio 2013
Testi
della riflessione del Patriarca
e dell’ omelia dell’Arcivescovo
Photo: N/A, License: N/A - http://www.chiesadimilano.it/polopoly_fs/1.75611!/image/image.jpg_gen/derivatives/landscape_490/image.jpg
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Riflessione
di Sua Santità
Il Patriarca Ecumenico K.k. Bartolomeo
durante la Preghiera Ecumenica nella Basilica Di San Ambrogio
(16 Maggio 2013)
“Ha spiegato la potenza del suo braccio: ha rovesciato dai troni
i potenti e ha innalzato gli umili, il Dio di Israele. Da Oriente e dall’alto
siamo stati visitati, Egli ci ha elevato nella via della pace” (Irmòs IX del
Canone del Giusto Lazzaro).
Eminentissimo Fratello nel Signore, Signor Cardinale Angelo Scola,
Fratelli Vescovi, figli e figlie amati nel Signore,
Veramente il Signore ha “spiegato la potenza del suo braccio”:
così noi possiamo camminare - come Chiesa e come umanità – in questo anno nel quale si compiono i 17 secoli dalla promulgazione dell’Editto di Milano.
Rendiamo gloria al nostro Signore Risorto Cristo Gesù ed inneggiamo alla “Sua forza incomparabile”, perché “morto per il peccato è
risuscitato, secondo la Sua parola, il creatore di tutte le cose”. Siamo
venuti dalla Città di Costantino - che il Santo Re ha fondato e ha reso
degna di essere la Nuova Roma - nella storica città di Milano, nell’antichissima Basilica del Santo Vescovo Ambrogio.
“Il mondo passa e anche la sua concupiscenza; ma chi fa la
volontà del Signore rimane in eterno!” (1 Gv. 2,17). Se analizziamo
attentamente il passo sacro appena citato, se al tempo stesso gettiamo
uno sguardo fugace alle tavole della storia universale, ci accorgeremo di
come molti potenti “secondo il mondo”, rimasti ingabbiati in una visione materialistica dell’esistenza, dedicati al piacere di una vita agiata e
voluttuosa, si siano ben presto eclissati dalla memoria storica ed il loro
ricordo si sia perso definitivamente come una lontana eco.
Al contrario, quando il “braccio” del Signore, alto e potente “acconsente cose buone”, persone insignificanti secondo il mondo - quali
ad esempio coloro che trascorrono la vita da eremiti perseverando nella
preghiera - ma anche dei Santi agli occhi del mondo come il fedele Re
Costantino, divengono strumenti della Divina Provvidenza e seguaci
del Signore Gesù, non vengono consegnati all’oblio umano. Non solo:
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
un numero incalcolabile di cristiani si onorano del loro nome, un gran
numero di templi sono innalzati in loro onore e – soprattutto - la loro
mediazione e intercessione per l’uomo smarrito rimane forte e certa.
Costantino il Grande si è umiliato e negata l’irragionevole
uguaglianza a Dio che gli imperatori romani si attribuivano, ha preferito più di tutto la croce del Signore, il cui segno aveva visto nel cielo
a mezzogiorno, prima della battaglia. Così ora riscuote la gioia piena e
la gloria nello stesso luogo in cui si trova il Corpo risorto, incorruttibile
e glorificato del Dio-Uomo, il Signore Gesù. Non nella Costantinopoli
corruttibile e terrena, ma nella Città celeste dei primogeniti, insieme a
coloro che hanno vissuto la verità evangelica col martirio, sia secondo
il sangue, sia secondo lo spirito.
Proviamo oggi tutti una grande gioia incontrandoci in questa
Basilica, dove sono custodite le venerate reliquie di Sant’Ambrogio, davanti alle quali avremo la benedizione di pregare.
Pastore di questa Città più di sedici secoli fa, Ambrogio rappresenta – per tutti coloro che hanno sperimentato il peso della guida
pastorale del popolo di Dio - un esempio: prima della sua ordinazione a
vescovo nella veste di autorità civile, poi come Pastore sempre disponibile alle richieste di tutti: giusto, indulgente, schietto, imitatore di Cristo,
amante dell’ “opera di Cristo”, come scriveva e testimoniava con la vita.
Sant’Ambrogio di Milano e l’imperatore Costantino il Grande
hanno in comune Cristo, l’amore, l’abnegazione, e in quelle circostanze in cui una questione ecclesiastica o umana risultava complicata, non
esitavano a scegliere e a proporre un’unica soluzione: il sacrificio.
Vostro illustre predecessore - Eminentissimo Fratello Cardinale
- Sant’Ambrogio proclamava e credeva che “la Chiesa non subisce mai
danno quando vince l’amore”. Dalle sue labbra sgorgava nettare di vita
immortale che per grazia rallegrava e deliziava la Chiesa di Cristo.
Fratelli nel Signore,
Sono passati 1700 anni dall’epoca in cui a Milano Costantino
il Grande ha dato ai cristiani la libertà di credere in Dio.
In quel significativo momento storico, l’umanità ne ha tratto
grande beneficio: per la prima volta la libertà religiosa è stata sancita
come legge di un Impero, quello Romano, che allora influenzava le sorti del mondo conosciuto. Sono state così poste le fondamenta di quelli
che poi sarebbero divenuti i “diritti dell’uomo”.
Oggi, nonostante gli apparenti progressi circa il rispetto dei diritti umani, le persecuzioni contro i cristiani non sono cessate. Con
grande afflizione vediamo anche oggi cristiani di tutte le confessioni
perseguitati in molti luoghi, ritenuti nemici della società e dello stato,
non tollerati da un gran numero di paesi e legislazioni, costretti a bere
il calice dell’amarezza e spesso del martirio: tutto per il solo fatto di
essere cristiani.
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Ma gli eventi dell’umanità e il corso del mondo, le guerre e i disordini, l’ingiustizia e la mancanza di sicurezza personale non ci fanno
paura.
Il Signore insegna: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per
causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima
di voi” (Mt. 5, 11-12). E “se hanno perseguitato me, perseguiteranno
anche voi” (Gv. 15,20).
Nella speranza che il Datore di Luce illuminerà tutti, non cessiamo di pregare, di augurarci e di chiedere che tutti comprendano che
la rappacificazione, la riconciliazione, la tolleranza, la mitezza, la clemenza - virtù che onoravano Sant’Ambrogio - possano avere riscontro
positivo nella società, con le parole e con i fatti.
Fino a quando questo non accadrà, la Chiesa di Cristo non cesserà di generare martiri, essendo Chiesa di eroi e atleti nella fede del
Signore. E non cesserà di generare martiri nello spirito.
La realizzazione dell’unione degli uomini tra loro e con Dio
- scopo dell’esistenza della Chiesa come organismo teandrico, militante
sulla terra, come Corpo di Cristo - è così necessaria, che questo desiderio diventa una richiesta di tutti gli uomini, fin dall’antichità. Richiesta
che trova il suo significato reale nella fede rivelata in Cristo. E nella
Chiesa: divisa e ma cammino verso l’unità, secondo il comando del
Signore.
La mancanza di comprensione, il vivere l’amore solo a parole,
le antipatia e le calunnie, “la menzogna e satana”, come la definiscono
i Padri (cioè il “non rimettere ai debitori”), ci impediscono di osservare
i comandamenti e di accogliere il lieve “giogo del Signore”, l’unione
della Chiesa e del mondo.
Fratelli miei,
cerchiamo di non aver paura di resistere alla corrente della globalizzazione distruttiva e agli attuali stili di vita materialistici: viviamo secondo i comandamenti del Santo Vangelo comportandoci con
saggezza e in santificazione continua. Imitiamo Costantino il Grande
e Sant’Ambrogio, le cui reliquie sono custodite in questo Tempio “per
rallegrare e deliziare“il nostro cuore, noi che siamo radunati per annunciare “quello che vi accadrà nei tempi futuri” (Gen. 49,1). Amen.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
Omelia
dell’Arcivescovo di Milano
Angelo Card. Scola
durante la Preghiera Ecumenica nella Basilica Di San Ambrogio
(16 Maggio 2013)
La preghiera di Gesù al Padre non può essere ascoltata a prescindere dal contesto in cui l’Evangelista Giovanni ce la riporta, quello
dell’Ultima Cena, dei drammatici eventi che precedono la Pasqua del
Signore. Le prime parole di Gesù ne rimarcano il carattere cruciale:
«Padre, è venuta l’ora». Sono parole che racchiudono in estrema sintesi le verità essenziali della nostra fede: la Trinità e la Pasqua, cioè,
l’Incarnazione redentrice che si compie nella morte e risurrezione di
Gesù.
Padre: ogni cosa ha la sua origine dal Padre, principio senza
principio. Da Lui eternamente è generato il Figlio. Questi a Lui si dona
eternamente nello Spirito. Vita eterna di eterno amore, la Santa Trinità ha voluto, in modo del tutto libero e gratuito, rendere partecipi gli
uomini della propria comunione di amore, amandoli nel Figlio prima
della creazione del mondo. Ogni cosa, infatti, esiste in questo e per questo disegno di benevolenza gratuita.
L’Ora di Gesù: è l’ora della Sua morte e risurrezione. L’ora
della Sua consegna propter nos homines et propter nostram salutem.
L’amore della Trinità non è solo all’origine, ma è la sorgente permanente di ogni istante della storia. E, in modo ineffabile, è la sorgente
dell’obbedienza del Figlio: Gesù, il Verbo eterno che ha assunto la natura umana per redimerla, ha obbedito, cioè ha voluto umanamente
ciò che divinamente la Santa Trinità ha gratuitamente deciso, la nostra
salvezza.
Noi, che abbiamo ricevuto il dono inestimabile del Battesimo,
siamo resi partecipi della Vita divina in forza dell’obbedienza umana
del Figlio e della benevolenza divina della Trinità.
Partecipi della Vita divina: si comprende allora che la preghiera
per l’unità che Gesù pronuncia nel frangente particolarmente solenne
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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
dell’Ultima Cena, sia molto più che un’esortazione morale.
Quell’unità – come Tu Padre sei in me e io in Te – è il dono a
cui partecipiamo in forza della nostra incorporazione sacramentale a
Cristo. Un’unità a cui siamo quotidianamente conformati attraverso la
partecipazione alla Santa Eucaristia. Da qui scaturisce quell’amore ai
fratelli uomini così ben descritto dal quinto inno bizantino preceduto
dal Gloria: «Diciamo fratelli anche a quelli che ci odiano; perdoniamo
tutto a causa della risurrezione».
Per questo ogni giorno siamo più consapevoli della ferita che
implica la mancata unità tra i cristiani. Essa dice la nostra fragile accoglienza del dono della Trinità che ci precede.
La nostra preghiera, pertanto, non può che essere supplica ardente perché lo Spirito porti a pienezza il disegno del Padre compiutosi
in Cristo. Tutti noi siamo al servizio di tale disegno. Come ha voluto
ricordare la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium del
Concilio Vaticano II: «La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il
regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe
e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella
gloria».
Questa brama sia la nostra preghiera. Amen.
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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
11. Un appunto bibliografico. ” 73
All’interno della Biblioteca Ambrosiana sono custoditi manoscritti,
stampati, pergamene, incisioni, che costituiscono un vasto patrimonio
per chi volesse addentrarsi nelle questioni storiografiche e bibliografiche che la svolta di Costantino pose nella sua epoca e in tutti i secoli successivi, sino ai nostri giorni. È un patrimonio documentale che
abbraccia un arco di tempo secolare e che risulta aggiornato sino alle
pubblicazioni scientifiche più recenti. Qui di seguito se ne dà un elenco
suddiviso per descrizione fisica delle voci bibliografiche, manoscritti,
pergamene, etc, ma se ne riporta anche ogni segnatura, per agevolare
l’eventuale consultazione in biblioteca, sia per gli studiosi, sia per il
pubblico più vasto, interessato ad arricchire le proprie conoscenze su
un evento storico così rilevante come quello che per la prima volta ha
aperto all’umanità concretamente l’esercizio della libertà religiosa, divenuto a sua volta fondamento per rivendicazioni ulteriori di altre libertà da riconoscersi in ogni società, in ogni tempo, ad ogni essere umano.
Stampati:
1. Accademia Ambrosiana, Classe di Slavistica, La figura di Costantino imperatore e
l’ideologia imperiale nella storia culturale, religiosa, civile dei paesi slavi, Milano,
Biblioteca Ambrosiana, 2013, XIV, 216 p., 24 cm, 2013, Slavica Ambrosiana, 4. — Coll.
RIV.732 — RIV. 732/B — Contiene 12 titoli:
1. Introduzione, di Francesco Braschi;
2. La situazione linguistica nello spazio transimperiale della Slavia ieri e oggi,
di Christian Voss;
3. La figura di Costantino fra Russia e Italia, fra slavistica e comparatistica, di
Maria Pliukhanova;
4. La diffusione del cristianesimo fra le donne in epoca costantiniana, di Rumen Boiadzhiev;
5. Costantino il Grande: l’immagine del primo imperatore cristiano nella letteratura liturgica bulgara medievale, di Vassja Velinova e Marjia Jovčeva;
6. Constantine the Great in Medieval Bulgaria, di Roland Marti;
7. Il Sermone panegirico dei santi Costantino ed Elena del patriarca di Tarnovo Eutimio e l’ideologia del potere nella Bulgaria medievale, di Krassimir
Stantchev;
8. Constantine the Great as a cultural Icon in the spiritual Tradition of the
Ohrid and Prespa Region, di Maja Jakimovska-Toshich;
9. Costantino il Grande nella letteratura serba antica, di Aleksander Naumow;
10. Postać Cesarza Konstantyna Wielkiego w O znalezieniu drzewa kzyrza
świetego Piotra Skargi, di Aleksander Wojciech Mikolajczak;
11. La Cavalcata di Costantino nella Moldavia di Stefano il Grande e la ripresa
dell’immagine nella Mosca della zar Ivan 4, di Cesare Alzati;
12. Two images of Constantine the Great in Russian Historical Writings of the
Fifteenth - Eighteenth centuries, di Victor Zhivov;
2. Andaloro, Maria - Romano, Serena, Arte e iconografia a Roma: da Costantino a Cola—
di Rienzo, Milano, Jaca book, 2000, pp. 266, 24 cm. [con contributi di: Andaloro, Maria Claussen, Peter Cornelius Fraschetti, Augusto Gandolfo, Francesco Parlato, Enrico
Romano, Serena] — Coll. N.A.6326
152
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
3. Angeli, Diego, 1869-1936, Roma: parte 1: dalle origini al regno di Costantino, Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1908 — Coll. I.ST.E.IX.37
4. Angeli, Diego, 1869-1936, Roma: parte 2: da Costantino al Rinascimento, Bergamo,
Istituto italiano d’arti grafiche, 1908 — Coll. F.B.A.5163
5. Banfi, Luigi, 1925- Costantino in Dante, Università di Macerata, 1992, p. 91-103; 24
cm., 1992; Estratto da: Costantino il grande dall’antichità all’umanesimo : colloquio sul
cristianesimo nel mondo antico : Macerata, 18-20 settembre 1990. Università degli studi
di Macerata, Pubblicazioni della Facoltà di lettere e filosofia, 67, atti di convegni 21.
— Coll. OP.N.A.693
6. Berenson, Bernhard, 1865-1959, L’arco di Costantino, o della decadenza della forma,
Milano, Electa, 1952 — Coll. VALS.2687
7. Biasiotti, Giovanni, La battaglia di Costantino a Saxa Rubra (20 ottobre 312), Roma :
Cuggiani, 1912 — Coll. S.O.B.VII.87
8. Bernareggi, Adriano, 1884-1953, Costantino e la sua politica religiosa, Monza, Tipografia degli artigianelli, 1913 — Coll. U.V.15
9. Braschi, Francesco, 1967- , La conversione di Costantino: riflessioni a partire dai criteri di lettura delle antiche fonti, Milano, Àncora, 2007, p. 115-149; 24 cm. 2007; in:
La Scuola cattolica, n. 1 (2007) — Coll. OP.N.A.3580
10. Bonamente, Giorgio, Costantino il Grande: dall’antichità all’Umanesimo: colloquio
sul cristianesimo nel mondo antico, Macerata 18 - 20 dicembre 1990 / a cura di Giorgio Bonamente, Franca Fusco; Università degli studi di Macerata, 1993, 2 v. (955 p.),
[42] p. di tav. ; 24 cm., 1993 — Coll. N.A.558-559
11. Biraghi, Luigi, 1801-1879, Sarcofago dei santi Naborre e Felice con figure allusive
al loro martirio, alla sentenza di Pilato, al labaro di Costantino Magno in forma di
Croce : monumento milanese contemporaneo al celebre decreto di liberta cristiana dato in Milano nell’anno 313, Milano : Boniardi-Pogliani, 1867 — Coll. L.II.568
— OP.C.XXXVII.31 — S.P.N.VII.36/16
12. Biraghi, Luigi, 1801-1879, Memoria del decreto di libertà per i cristiani pubblicato
da Costantino magno in Milano, [S.l. : s.n.], 1874 — Coll — OP.F.LVI.2
13. Burckhardt, Jacob, 1818-1897, Costantino il Grande e i suoi tempi, Milano, Longanesi, 1954 — Coll. VALS.4015
14. Centro Culturale Cattolico San Benedetto [a cura del], 313 l’Editto di Milano: da Costantino ad Ambrogio, un cammino di fede e libertà, Cinisello Balsamo, San Paolo,
2013, pp. 127 p., ill., 24 cm. — Coll. S.O.O.XXI.1084
15. Dal Covolo Enrico e Uglione Renato [a cura di], Cristianesimo e istituzioni politiche:
da Augusto a Costantino, Roma, LAS, 1995, pp.182, 24 cm — Coll. BSR.117
16. Eusebius : Caesariensis, ca. 260-ca. 339, Elogio di Costantino: Discorso per il trentennale; Discorso regale, introduzione, traduzione e note di Marilena Amerise, Milano,
Paoline, 2005, 264 p., 21 cm. — Coll. N.A.24864
17. Franchi de’ Cavalieri, Pio, Di un frammento di una vita di Costantino : nel codice
greco 22 della Biblioteca Angelica, [Roma : s. n.], 1897, P. 89-131; 23 cm., Estr. da:
Studi e documenti di storia e diritto, 18 (1897) — Coll. I.ST.H.XII.9
18. Gaudenzi, Augusto, 1858-1916, La falsa donazione di Costantino nella sua origine e
nel suo sviluppo, [s.n.] Bologna, 1913 — Coll. OP.E.LXXXV.2
19. Gentile, Panfilo, 1889-1971, Il cristianesimo dalle origini a Costantino, Firenze, Le
Monnier, 1946 — Coll. V.P.20501
20. Gentilezza, Giuseppe, Costantino il Grande e l’Illirio romano, Roma, Tipografia Istituto Pio 9., 1913 — Coll. OP.I.XLII.9
21. Heydenreich, Eduard, Incerti auctoris De Costantino Magno eiusque matre Helena li-
153
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
bellus, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1879, in Bibliotheca scriptorum Graecorum
et Romanorum Teubneriana, 1879 — Coll. TBL.CONSTANTINO.CO.1x. Laffranchi,
Lodovico, L’11. anno imperatorio di Costantino Magno, Roma, Pontificia Accademia
romana di archeologia, 1921 — Coll. IV.HIE.E.VIII.129
22. Impellizzeri, Salvatore, La letteratura bizantina: da Costantino a Fozio, Firenze, Sansoni, Milano, Accademia, 1975 — Coll. AMB.N.I.101
23. Maffei, Domenico, La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano, Giuffrè, 1964 — Coll. S.O.O.XVI.22
24. Maiocchi, Rodolfo, 1862-1924, Sant’Elena ; Costantino Magno e l’Editto di Milano,
[s.n.] Milano, 1913 — Coll. S.O.C.VI.109x. Monaci, Alfredo, La visione e il lavoro di
Costantino, Roma, Tipografia Ricca, 1913, Coll. OP.E.LXXXVII.5
25. Merisi, Antonio, Milano al tempo di Massimiano e di Costantino: note storico-archeologiche, Milano, Ghirlanda, 1913 — Coll. IV.HIE.F.II.892
26. Monaci, Alfredo, Nuovi studi sull’arco di Costantino, Roma, Pontificia Accademia
romana di archeologia, 1904, Coll. IV.HIE.F.IX.123
27. Monaci, Alfredo, La scenografia dell’ingresso di Marco Aurelio nell’arco di Costantino, Roma, Loescher, 1910 — Coll. IV.HIE.E.VII.30
28. Monaci, Alfredo, Di una rara insegna legionaria scolpita sull’arco di Costantino,
Roma, Pontificia Accademia romana di archeologia, 1916 — Coll. OP.I.XLIII.20
29. Monaci, Alfredo, Disegno inedito d’un trofeo nei piedistalli dell’arco di Costantino, ,
Roma, Arcadia, 1929 — Coll. II.HIE.C.X.11
30. Petrucci, Enzo, I rapporti tra le redazioni latine e greche del Costituto di Costantino,
Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1962, in: Bullettino dell’Istituto storico
italiano, n. 74 (1962 — Coll. RIV.682/
31. Pini, Gian Domenico, La Chiesa da Costantino a Carlo Magno, Milano, Palma, 1901
— Coll. S.P.AA.V.9/
32. Pirzio Biroli Stefanelli, Lucia - Valeriani, Roberto, Venti bozzetti in cera rossa raffiguranti i rilievi dell’Arco di Costantino in Roma, 2003 — Coll. N.A.12975
33. Quacquarelli, Antonio, La società cristologica prima di Costantino e i riflessi nelle
arti figurative, Bari, Istituto lettere cristiane antiche, 1978 — Coll. S.M.B.VI.44
34. Ricciotti, Giuseppe, La era dei martiri: il cristianesimo da Diocleziano a Costantino,
Roma, Coletti, 1953, pp. 398, 26 cm. — Coll. A.S.8019
35. Salvatorelli, Luigi, 1886-1974, Costantino il Grande, Roma, Formiggini, 1928, 88 p.,
1 tav., — Coll. N.B.387
36. Savio, Fedele, 1848-1916, Costantina figlia dell’imperatore Costantino e la Basilica
di S. Agnese a Roma, [s.n.] Torino, 1907 — Coll. OP.E.XCIII.15
37. Scaglia, Sisto, Costantino, Vicenza, Società anonima tipografica, 1913 — Coll. OP.I.XXIV.8
38. Schmidt, Joël, Mémoires de Costantin le Grand / Costantino : memorie del primo imperatore cristiano, trad. di Bruno Pistocchi, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001, 246
p.; 22 cm. ISBN: 88-215-4319-6 — Coll. N.A.6796
39. Scotto, Guido, L’Europa occidentale da Costantino a Carlo Magno, Firenze, Firenze
libri, 1996, 182 p., 24 cm.— Coll. N.A.2547
40. Segala, Franco, Sant’Euprepio primo vescovo di Verona: note sulla comunità cristiana precostantiniana della città nel centenario dell’editto di Costantino (313),
Verona, Archivio Storico Curia Diocesana, 2012 — Coll. S.O.O.XXI.782
41. Sini Francesco e Onida Pietro Paolo [a cura di], Poteri religiosi e istituzioni: il culto
di San Costantino imperatore tra oriente e occidente, Torino, G. Giappichelli, 2003
— Coll. N.A.17824
154
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
42. Spada, Antonio Francesco, La sagra di San Costantino, Cagliari, Stabilimento tipografico editoriale Fossataro, 108 p. 8 c. di fot.; 20 cm, 2000 — Coll. OP.N.A.1154
43. Spada, Antonio Francesco, Santu Antine: la sagra di san Costantino Imperatore, Sassari, Delfino, 2001, pp. 205 ill., 24 cm — Coll. S.O.O.XXI.77
44. [Vaticano], Il Labaro di Costantino ricostruito per il s.m.o. costantiniano di S. Giorgio,, Roma, Tipografia poliglotta vaticana, 1914 — Coll. OP.I.XLIII.12
45. Vian, Giovanni Maria, La donazione di Costantino, Bologna, Il mulino, 2004, 240 p.,
21 cm. — Coll. N.A.17742
Manoscritti:
1. Lettera a Giovanni Pietro Puricelli con appunti su san Costantino. 55r-56v. Fa parte
di: C 103 inf.: unità codicologica 6 ; 1
2. Cronaca di Este, inc. In quel tempo che Costantino signoreggiava... 200r-207v. Fa
parte di: O 152 sup. ; 5
3. Alcuni dubbi sopra il battesimo di Costantino imperatore. 137r. Fa parte di: R 119 sup.
4. Notitia delle medaglie antiche degli imperatori e loro donne auguste in metallo da
Giulio Cesare a Costantino il Magno. Fa parte di: Trotti 475
5. Albero genealogico e cronologico della storia antica sacra ed ecclesiastica dalla creazione
del mondo fino all’epoca dell’imperatore Costantino ... Fa parte di: L 127 (tomo 2) sup.
6. Serie cronologica dei regnanti di Roma da Pompeo Magno a Costantino Paleologo, imp.
d’Oriente, atta a servire la numismatica. Assi romani e italici... Fa parte di: I 413 inf.
7. Luppi, Costantino, Descrizione storica delle monete coniate in Milano e nel suo ducato
dall’anno 254 dell’E. V. fino ai giorni nostri (anno 1879), vol. 1. Fa parte di: I 319 inf.
8. Instrumentum Constantini imperatoris in favorem Sanctae Romanae Ecclesiae. 170184. Fa parte di: Z 145 sup.
9. Frammento in arabo cufico, ff. 6 ; perg. ; 220x150 mm. Data: 0900-1000. Supporto del
libro: pergamena. Fa parte di: *S.P.II.18/bis ; 1 — Nota: Contiene: Storia della guerra di Costantino contro Giuliano apostata e discorso di Eusebio, vescovo di Roma
10. Sigonio, Carlo <ca. 1520-1584> De baptismo et donatione Constantini e Mercuriale,
inc. Quousque actum esse de baptismo et donatione Constantini in historia... 5r-8r. Fa
parte di: P 193 sup. ; 2 (Nota: Edit16; Gian Vincenzo Pinelli et Claude Dupuy, Une correspondance entre deux humanistes, éditée avec Introduction Notes et Index par Anna
Maria Raugei, Firenze, Olschki, 2001, II, pp. 657-660). Nota: Giovanni Maria Vian,
La donazione di Costantino, il Mulino, Bologna, 2004. Edit16; Gian Vincenzo Pinelli
et Claude Dupuy, Une correspondance entre deux humanistes, éditée avec Introduction Notes et Index par Anna Maria Raugei, Firenze, Olschki, 2001, II, pp. 657-660
Pergamene:
1. Pergamena 4358 — Milano; dopo 1495, marzo, 31.
2. Pergamena 226 — Milano; 1746, luglio, 20.
3. Pergamena 5603 — Milano; 1512, febbraio, 21.
4. Pergamena 6737 — Trecate; 1483, agosto, 25.
5. Pergamena 4817 — Milano; 1514, novembre, 15.
6. Pergamena 6473 — Milano; 1523, marzo, 30.
7. Pergamena 271 — Bergamo (una vicinia di); 1531, marzo, 28.
8. Pergamena 7793 — Roma; 1592, gennaio, 17.
155
Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana
9. Pergamena 8656 — Roma?; 1807, gennaio, 13.
10. Pergamena 493 — Milano; 1478, febbraio, 18.
11. Pergamena 4977 — Milano; 1520, luglio, 10.
12. Pergamena 4976 — Lonate Pozzolo; 1512, dicembre, 1
Incisioni e stampe:
1. Legeay, Jean-Laurent, 18° sec., Arco di Costantino Magno. Roma 1748 Fausto Amidei libraro al Corso. foglio: 219x305 mm; impronta: 131x182 mm., stampa b/n. In
“Varie vedute di Roma antica e moderna disegnate e intagliate da celebri autori; 86.
2. Bonifacio, Natale, 1538-1592, L’obelisco di Costantino trasportato a San Giovanni
in Laterano, Roma, appresso Domenico Basa; f. 400x270 mm; impr. 390x245 mm.
1589, stampa, carta, b/n, acquaforte. In: “Della trasposizione dell’obelisco vaticano
e delle fabriche di Nostro Signore papa Sisto V dal cavalliere Domenico Fontana,
architetto di Sua Santità”. Libro primo; 72. Vecchia segnatura: S.Q.F.III.11 (Nuova
segn.: S.R. 292)
3. Bellicard, Jérôme-Charles, 1726-1786, Veduta del Portico di S. Pietro della parte del
Costantino, Piranesi inc., Roma, 1748, Fausto Amidei libraro al Corso, f. 219x305 mm;
impr. 127x175 mm., stampa, carta, b/n, acquaforte. In “Varie vedute di Roma antica
e moderna disegnate e intagliate da celebri autori”; 5
4. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Altro soldato nell’istessa Battaglia di Costantino, e
Massenzio mirabilmente espressa da Raffaello, f. 545x400 mm.; impr. 284x210 mm.
1785, stampa, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil de têtes choisies de personnages illustres dans les lettres et dans les armes éxactement dessinées
et gravées de la grandeur des originaux par Paul Fidanza peintre romain d’apres
les peintures de Raphaël d’Urbin et autres grands maîtres existantes au Vatican
et dans plusieurs galeries de Rome. Ouvrage contenant 180 planches”. Tom. II; 4.
— S.R.394.
5. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Effigie di due Soldati, che mostrano delle Teste
a Costantino in tempo della battaglia dipinta da Raffaello, f. 545x400 mm; impr.
308x205 mm., 1785, stampa, carta, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...]” op.
cit. Tom. II.; 5. — S.R.394.
6. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Testa di Guerriero presentata a Costantino Magno
da uno de’ suoi Soldati in tempo dell’azione dipinta da Raffaello, f. 545x400 mm;
impr. 307x202 mm, 1785, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...]
op. cit. Tom. II.; 6. — S.R.394.
7. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Altra Testa nella stessa occasione presentata a Costantino, come si vede nelle Stanze Vaticane figurate da Raffaello, f. 545x400 mm;
impr. 310x205 mm., 1785, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...]
op. cit. Tom. II.; 7. — S.R.394.
8. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., La Giustizia effigiata da Rafaello a olio accanto al quadro della Battaglia fra Costantino, e Massenzio, nel Palazzo Vaticano, f.
545x400 mm; impr. 425x313 mm., 1785, stampa, b/n, incisione a bulino, acquaforte,
In “Recueil [...]” op. cit. Tom. II.; 8. — S.R.394.
9. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Massenzio usurpatore dell’Imperio Romano, fu
disfatto da Costantino sul Ponte Milvio nell’anno 312 di Cristo e s’affogò nel Tevere,
f. 545x400 mm; impr. 390x295 mm., 1785, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte.
In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 2. — S.R.394.
10. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Idea d’un mostro chiamato Mandricardo, che
fingesi essere stato Nhano di Costantino Imperatore, come viene rappresentato da
156
Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano
Rafaello nel Palazzo Vaticano, f. 545x400 mm ; impr. 362x270 mm., 1785, carta, b/n,
incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 9. — S.R.394.
11. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Testa di profilo d’un Putto, che scherza con un
Cane, vagamente espressa da Raffaello nella Storia della Donazione fatta da Costantino, f. 545x400 mm; impr. 362x270 mm., 1785, carta, b/n, incisione a bulino,
acquaforte. In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 10. — S.R.394.
12. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Costantino il grande, figlio di Costanzo, e di S.
Elena, Imperador Romano, avendo l’anno 312 dell’Era volgare disfatto Massenzio
sul Ponte Milvio coll’ajuto della Croce messa ne’ suoi stendardi, si fece Cristiano,
e morì nel 337 in Costantinopoli ove avea trasferita la sede, f. 545x400 mm ; impr.
373x270 mm., 1785,carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...] op. cit.
Tom. II.; 3. — S.R.394.
13. Cavalieri, Giovanni Battista, ca. 1525-1601, Costantini Imp. arcus [...] victoriae insignibus, 1596, f. 280x21,5 mm ; impr. 160x211 mm, 1569, stampa, carta, b/n. incisione
a bulino. In “Vrbis Romanae aedificiorum illustrium quae supersunt reliquiae summa cum diligentia a Ioanne Antonio Dosio stilo ferreo ... “; 30.
Monete e medaglie:
1. Follis, Massimiano, zecca di Ticinum, circa 305 d.C.; D/C. Ric. VI, p. 288, n. 57b,
n°. di Catalogo 2472; n°. d’Inventario MM 3664.
2. Follis, Massenzio, zecca di Ostia, fine 309-ottobre 312 d.C. Ric. VI, p. 404, n. 35,
n°. di Catalogo 2473; n°. d’Inventario MM 3658.
3. Follis, Licinio, zecca di Ticinum, circa 317-318 d.C.; D/C. Ric. VII, p. 371, n. 70,
n°. di Catalogo 2474; n°. d’Inventario MM 3660.
4. Per Costantino I, celebrato come VICTOR OMNIUM GENTIUM su solidi di numerose
zecche, v, Claudia Perassi, Ideologia e prassi imperiale; panegirici, monete e medaglioni, in XII Internationaler Kongress, Berlin, 7-12 September 1997, II Berlin 2000, pp.
830-839.
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[email protected]
La newsletter viene inviata a tutti coloro
che sono stati in contatto con l’Ambrosiana:
nel caso non desideriate riceverla
vi preghiamo di comunicarcelo, grazie.
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