Dighe `L`Eterna Guerra dell`acqua`

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Dighe `L`Eterna Guerra dell`acqua`
Il mare del Nord inghiottirebbe volentieri un metro di coste olandesi all’anno. «Così per
frenarlo spendiamo, sempre ogni anno, 60 milioni di euro, cioè quello che ci vuole per estrarre al
largo 12 milioni di metri cubi di sabbia e trasferirli più vicino alla costa, proteggendola
dall’erosione». Parola di Tjalle de Haan, consulente del ministero dei Lavori pubblici per il settore
idraulico. Insomma, un traffico incessante di sabbia che rende benissimo l’idea di cosa significhi
vivere in terre strappate all’acqua - un quarto del Paese si trova sotto il livello del mare - con il
pensiero fisso di impedire che l’acqua se le riprenda. «E non stiamo parlando solo del mare, ma
anche dei fiumi», precisa de Haan. «In Olanda ci sono le foci di Reno, Mosa e Schelde, con tutti i
rischi che questo comporta».
Il pensiero oltre che fisso è antico, visto che i primi interventi di water management, di gestione
delle acque e recupero di terreni fertili, risalgono a duemila anni fa, quando si cominciarono a
costruire argini e dighe, ottenendo i primi piccoli polder, cioè le aree prosciugate. Da allora gli
interventi sono rimasti in sostanza gli stessi: realizzare barriere contro l’acqua, che si tratti delle
onde di tempesta del mare del Nord o delle esondazioni di fiumi e canali, e pompare l’acqua fuori
dai terreni recuperati. Quella che è cambiata è la tecnologia, costantemente all’avanguardia rispetto
ai tempi. Solo fra il Seicento e l’Ottocento, per esempio, oltre un centinaio di laghi (per 600
chilometri quadrati di superficie) vennero trasformati in campi grazie a innovazioni nella struttura
dei mulini a vento, e all’idea di sistemarli in file. Come? Anzitutto si scavava un canale tutto
intorno al lago, poi si erigeva un argine tra i due, infine si piazzava una serie di mulini a vento
sull’argine in modo da trasferire l’acqua, in passaggi successivi, dal lago al canale. Con il tempo, i
mulini sono stati sostituiti da moderne stazioni di pompaggio a motore diesel o elettrico.
Fermare il mare con le mani
Di esempi ce ne sono decine, ma sono soprattutto due le grandi opere che vale la pena ricordare,
due meraviglie del mondo moderno secondo la Società americana di ingegneria civile: il progetto
dello Zuiderzee e i lavori del Delta. «All’inizio del Novecento diventò chiaro che avevamo un gran
bisogno di nuove terre agricole, e di maggior protezione dalle minacce del mare, in particolare
lungo le coste dello Zuiderzee, cioè il mare interno fra Amsterdam e la Frisia», spiega l’ingegner
Willem van Dijk, a capo del dipartimento di gestione delle risorse idriche dello Zuiderzeeland. Lo
incontriamo nel suo ufficio a Lelystad, la cittadina che prende il nome da Cornelis Lely, il primo a
proporre, già nel 1891, la chiusura dello Zuiderzee. Allora si trattava di costruire una diga che
interrompesse l’accesso al mare interno, trasformandolo in un lago d’acqua dolce, in cui si
sarebbero creati nuovi polder. Un’idea semplicissima per una sfida tecnica ai limiti del possibile: i
lavori per i 32 chilometri della gigantesca diga di sbarramento, la Afsluitdijk, cominciarono solo nel
1927, con centinaia di uomini impegnati in un’impresa titanica. «Non c’erano computer o
attrezzature sofisticate. Tutto il lavoro di progettazione e di costruzione è dipeso da tre soli
elementi: cuore, mente e mani», ricorda l’ingegner de Haan. Solo mani e qualche gru, per costruire
da costa a costa due muri paralleli d’argilla, per pompare l’acqua fuori dallo spazio tra i due muri
(ben 90 metri), per rivestirne il fondo con una griglia di rami di salice e pietre. E, poi, per riempire
il tutto con tonnellate di sabbia e accumulare sulla cima e sui fianchi della struttura altre tonnellate
di massi. «Infine si è aggiunto un rivestimento di bitume come collante», precisa de Haan. «Ma
adesso stiamo eseguendo dei test per sostituire il bitume con un nuovo materiale plastico».
Chiuso l’accesso al mare, gli olandesi si trovarono con un lago in più, l’IJsselmeer, al quale
riuscirono a strappare, a forza di nuovi argini e stazioni di pompaggio, ben 165mila ettari di terra in
quattro polder. «Il piano originale di Lely ne prevedeva uno in più, che non è mai stato fatto. Perché
di terra ce n’era comunque abbastanza e perché era altrettanto importante mantenere nella zona un
grosso bacino d’acqua dolce», spiega van Dijk.
Il computer che chiude i cancelli
Se l’Afsluitdijk poteva garantire una certa sicurezza a nord, ancora precaria rimaneva la situazione a
sud, nella regione del Delta, dove il Reno, la Mosa e la Schelda raggiungono il mare. Anche qui
l’idea circolante, già prima degli anni Cinquanta, era quella di chiudere l’accesso dei fiumi al mare
e anche qui la sfida tecnica era imponente. A sbloccare la situazione fu la devastante inondazione
del febbraio 1953: onde marine alte fino a sei metri spazzarono le coste sud-occidentali d’Olanda,
uccidendo quasi duemila persone e allagando oltre 150mila ettari di terra. Quattro anni più tardi
cominciarono i primi lavori di sbarramento. La più imponente delle strutture doveva essere la
grande diga sulla Schelda orientale, sul modello della Afsluitdijk, che tuttavia suscitò da subito
grande ostilità nella popolazione locale. Chiudere la Schelda significava rinunciare all’ambiente
salmastro tipico del Delta. E quindi agli allevamenti di mitili e a buona parte della pesca. Così, nel
1979, ecco il piano B: la barriera ci sarebbe stata, ma tale da poter essere chiusa solo al momento
del bisogno. Come? Con 62 paratie mobili d’acciaio larghe 40 metri ciascuna e sorrette da 65 piloni
di cemento alti come palazzi di undici piani. In tutto, la barriera mobile di questo tipo più lunga del
mondo. Per costruirla c’è voluta una nuova flotta di navi, come la Mytilus, che aveva il compito di
compattare il fondo marino, la costosissima Cardium, che ci appoggiava sopra, per fortificarlo, dei
“sandwich” di plastica farciti di sabbia e ghiaia. O la Ostrea, fantastica imbarcazione a forma di U
in grado di trasportare i piloni di cemento dal cantiere alla loro nuova sede.
Altra via d’acqua che non si poteva chiudere era, ovviamente, l’accesso al porto di Rotterdam.
Anzi, in questo caso ci voleva proprio qualcosa che, in condizioni di tranquillità, consentisse il
pieno traffico navale. La soluzione, inaugurata nel 1997, è un’altra straordinaria opera di
ingegneria: una specie di cancello dai battenti curvi, collegati tramite due bracci d’acciaio a un
perno rotante. I battenti sono cavi e sollevati rispetto al fondo del fiume, per cui possono essere
chiusi con facilità: una volta in posizione si riempiono d’acqua e affondano, sigillando la chiusura.
A decidere se e quando bloccare l’accesso al porto è un computer. E due sistemi informatici, Bos e
Bes, prendono analoghe decisioni sulle paratie sulla Schelda orientale.
E adesso che il clima cambia?
Abbastanza per stare tranquilli? Non proprio. Anche perché ai rischi “classici” della zona ora si
aggiungono quelli del cambiamento climatico. La prospettiva è che nei prossimi anni il livello del
mare si alzi, mentre le terre olandesi continuano ad abbassarsi, sia per fenomeni geologici sia per il
costante drenaggio cui sono sottoposte. Inoltre si prevede un aumento di precipitazioni di tipo
tropicale, e quindi di alluvioni. «Per il momento ci limitiamo a un’ordinaria manutenzione di argini
e dighe, ma tra qualche anno dovremo ricominciare ad alzarli e rinforzarli», afferma Willem van
Dijk. E si pensa anche a strategie di respiro più ampio. Per difendersi dai fiumi l’unica soluzione
sensata sembra quella di restituire loro della terra: «Se si lascia ai fiumi più spazio in zone aperte,
per esempio in campagna, le città saranno più sicure», chiarisce Tjalle de Haan. Per proteggere le
coste, invece, si pensa di costruire un’unica, lunghissima diga una ventina di chilometri al largo,
lasciando in mezzo una laguna. Quello che è certo è che c’è ancora molto lavoro per gli ingegneri
idraulici olandesi.