walsersprache - Alpine Space Programme 2007-2013

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walsersprache - Alpine Space Programme 2007-2013
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WALSERSPRACHE
Lingue tagliate: strategie d’intervento e di rivitalizzazione • Geschnittene zungen : eingriff- und wiederbelebungstrategien
Langues coupées : stratégies d’entremise et de revitalisation • Cut out tongues: intervention and revitalisation strategies
3o Incontro di studio, Gressoney-Saint-Jean, giovedì 10 maggio 2007
3e Rencontre d’études, Gressoney-Saint-Jean, jeudi, le 10 mai 2007
3e Studienzusammenkunft, Gressoney-Saint-Jean, Donnerstag, den 10.ten Mai 2007
3rd Study Get-together, Gressoney-Saint-Jean, Thursday, May 10th, 2007
PROGETTO INTERREG III B
SPAZIO ALPINO”WALSER ALPS”
Cura editoriale:
Raffaella Poletti
Grafica di copertina:
Daniele Camisasca
Foto di copertina:
Nicola Alessi
Le Château Edizioni, Aosta
Via Trottechien, 51 - 11100 Aosta tel. 0165.363067
E.mail [email protected] - www.lechateauedizioni.it
ISBN 88-7637-070-6
WALSERSPRACHE
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Lingue tagliate: strategie d’intervento e di rivitalizzazione
Geschnittene Zungen: Eingriff-und Wiederbelebungstrategien
Langues coupées: stratégies d’entremise et de revitalisation
Cut out tongues: intervention and revitalisation strategies
Studienzusammenkunft
Rencontre d’études
A Study Get-together
Incontro di studio
A cura di
SERGIO MARIA GILARDINO
3o Incontro di studio, Gressoney-Saint-Jean, giovedì 10 maggio 2007
3e Rencontre d’études, Gressoney-Saint-Jean, jeudi, le 10 mai 2007
3e Studienzusammenkunft, Gressoney-Saint-Jean, Donnerstag, den 10.ten Mai 2007
3rd Study Get-together, Gressoney-Saint-Jean, Thursday, May 10th, 2007
PROGETTO INTERREG IIIB
SPAZIO ALPINO “WALSER ALPS”
PREFAZIONE
Sergio Maria Gilardino
Il terzo ed ultimo incontro di studio nell’ambito del Progetto Interregionale
IIIB Spazio Alpino “Walser Alps”, sotto l’egida della Regione Valle d’Aosta, ha avuto
luogo giovedì 10 maggio 2007 a Gressoney-St-Jean e, conformemente ai piani di lavoro,
è stato interamente dedicato alle strategie d’intervento e di rivitalizzazione. Otto
oratori si sono succeduti al podio, tutti attivi nel campo della conservazione, rivitalizzazione e documentazione di lingue minori. Tre di essi di lingua tedesca, uno di
lingua francese e quattro di lingua italiana: ma in realtà le lingue nazionali non sono
che il paravento di realtà linguistiche molto più sfumate, in quanto le lingue da essi
rappresentate sono in realtà il Franco-provenzale, il Walserdeutsch, il Piemontese,
il Mocheno, il Cimbro e il Tedesco altoatesino.
Proprio perché le rispettive lingue si trovano a stadi molto diversi di conservazione, dalle poche diecine di locutori ad Alagna Valsesia ai tre milioni del Piemonte,
le visioni prospettate e le strategie d’intervento proposte variano tra la mera documentazione come espediente di primissima urgenza (Gilardino) alla necessità di portare la lingua fuori dalla cerchia domestica e corroborarne l’uso anche in ambito sociale
(Favre, Sigg, Toller, Bétemps). Nel mezzo del cammino si trova lo studio ben documentato di Pedrazza, che concettualizza i processi di apprendimento, ma prende anche
atto della necessità di conservazione e di documentazione didattica, mentre la posizione di Gianfranco Gribaudo, autore di un compendioso e attualissimo dizionario
della lingua piemontese, punta soprattutto a strategie di inappuntabile documentazione scientifica volte a far accettare dal grosso pubblico la lingua regionale come strumento degno di studio e di attenzione, sottraendola al poco lusinghiero ruolo di gergo
terragno delle masse indotte. Una posizione molto circospetta, ma assai più ottimista,
la si deve a Karl Rainer, il rappresentante della comunità altoatesina, forte di una lingua che – oltre ad essere piccola in Italia – è assai grande, nazionale e ufficiale altrove,
il quale espone tanto la “dialettalità” del tedesco parlato nella sua regione, quanto gli
attriti e le incomprensioni che possono derivare da una situazione di plurilinguismo,
molto apprezzabile però dal punto di vista economico e turistico.
L’insieme delle considerazioni sulla globalizzazione, sul pericolo in cui versano
tutte le lingue a minore diffusione (“langues moins répandues”, per usare l’espres5
sione di Alexis Bétemps), sulla psicologia dei parlanti, sul ruolo di enti privati e pubblici, sulle varie strategie di insegnamento, di documentazione e rivitalizzazione, costituisce un corpus di conoscenze di grande valore teorico e pratico, che rende
fruttuosa e conveniente la lettura del volume, soprattutto perché molti degli interventi qui discussi e proposti sono poi applicabili alla maggior parte delle lingue minoritarie, non solo in Europa, ma anche nel resto del mondo.
Il primo volume degli atti, relativo all’incontro di studio di Aosta, 2-3 dicembre
2005, era stato dedicato allo stato delle conoscenze della lingua dei Walser1. In esso
vari operatori, ma soprattutto docenti, insegnanti e animatori culturali, hanno fornito un quadro delle conoscenze di questa lingua, dei pericoli che la sovrastano, ma
anche delle prospettive che le rimangono aperte.
Il secondo volume, emerso dalle relazioni dell’incontro di Briga, 9-10 giugno
2006, tracciava il quadro delle risorse disponibili: archivi fonografici, pubblicistica,
dizionari e grammatiche, toponomastica, ecc.2
Si è riservato dunque al terzo convegno e al relativo volume degli atti il compito
di tracciare il quadro più completo possibile, sia per quanto riguarda la tematica di più
ampio respiro (le strategie di gestione e d’intervento da parte dei più disparati settori
pubblici e privati), sia per l’allargamento della problematica a buona parte delle lingue
minoritarie dell’arco alpino. Ne è emerso un quadro forse a prima lettura un po’ inquietante ma, allo stesso tempo, metodologicamente e scientificamente univoco.
Alexis Bétemps, rappresentante del Centre d’Études franco-provençales René Willien
di Saint-Nicolas, ha spezzato con entusiasmo e competenza una lancia in favore
della “diversità linguistica”. Ha tracciato un ampio quadro della situazione su scala
globale, presentando il caso delle lingue minoritarie e poi quello del franco-provenzale. Ha infine parlato del centro da lui diretto, della collaborazione con il BREL
(vedi il paragrafo successivo) e delle svariate iniziative popolari, scolastiche, scientifiche intraprese per portare avanti la causa del franco-provenzale nella piena avvertenza anche di valori identitari e socio-psicologici.
Saverio Favre, rappresentante del BREL (Bureau régional pour l’étnographie et
la linguistique dell’assessorato regionale Istruzione e Cultura della Valle d’Aosta), ha
ampliato ulteriormente il quadro su scala internazionale, per poi tornare – munito
di ampi punti di riferimento – alle istituzioni che operano “on the field” per la rivitalizzazione linguistica e per la documentazione del franco-provenzale. Il suo ufficio è nato con lo scopo di raccogliere tutti i materiali di interesse linguistico ed ha
1 Walsersprache. La lingua dei Walser: lo stato attuale delle conoscenze / Die Sprache der Walser: der gegenwärtige Zustand der Kenntnissen / La langues des Walsers: l’état actuel des connaissances, 1o Incontro di studio, Aosta, 2-3 dicembre 2005, Aosta, Le Château Edizioni, 2006, pp. 134.
2 Walsersprache. La lingua dei Walser: perché la lingua viva / Die Sprache der Walser: so daß die Sprache lebe weiter / La
langues des Walsers: afin que la langue vive, 2o Incontro di studio, Briga, 9-10 giugno 2006, Aosta, Le Château Edizioni,
2006, pp. 172.
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ereditato compiti e mandati anche dal Centre d’études francoprovençales come pure dall’Associazione Valdostana Archivi Sonori (AVAS). Ne è nato il BREL che cura, tra l’altro, l’Atlante linguistico e la toponomastica locale.
Sergio Gilardino ha insistito particolarmente sull’urgenza e sulla priorità assoluta della documentazione delle lingue quando queste sono in pericolo di estinzione,
come è il caso della lingua dei Walser di Alagna Valsesia, esaurientemente registrata
nel dizionario appena ultimato e comprendente ben 20.000 lemmi, numerosi proverbi e modi di dire, schede enciclopediche, verbi coniugati.
Gianfranco Gribaudo ha esposto la metodologia sottesa alla stesura del suo dizionario della lingua piemontese e del felicissimo esito dei primi corsi universitari di
lingua e letteratura piemontese presso l’Università di Torino, elencando tanto i dati
negativi che quelli positivi inerenti lo stato del piemontese ma, indirettamente, anche
di molte altre lingue minoritarie.
Con sicura competenza di addetta ai lavori Monica Pedrazza, docente presso il
Dipartimento di psicologia e antropologia culturale dell’Università di Verona, ha
suddiviso il proprio scritto in due parti di cui la prima verte sulla conservazione
della lingua e dei motivi sottesi a questa conservazione, tra cui il senso di appartenenza dei locutori o, perlomeno, del rivelante modo in cui essi lo percepiscono. La
seconda parte espone i dati di un’inchiesta “sul campo”, in cui sono state intervistate 234 persone sull’arco di due anni, suddivise in tre gruppi di età. Ne è uscito un
quadro estremamente interessante anche per gli spunti scientificamente motivati
che esso può offrire alla causa della conservazione linguistica.
Karl Rainer ha fornito un excursus completo della storia della minoranza di lingua tedesca nel Sudtirolo, delle varie leggi nel corso dei decenni e di come una politica di rafforzamento della specificità linguistica abbia fruttato grandi vantaggi
economici a questa regione che vanta a giusto titolo una invidiabile perizia linguistica ed una posizione strategica di ponte tra Italia e Paesi di lingua tedesca.
Roman Sigg ha esposto la sua esperienza come ricercatore presso l’Archivio Fonografico dell’Università di Zurigo, un’istituzione che raccoglie un’enorme quantità di
materiali sonori, tra cui anche registrazioni del tedesco dei Walser a sud delle Alpi. Ma,
da esperto in questioni linguistiche, ha anche messo in guardia contro la glorificazione
del passato, reiterando a più riprese la necessità di svecchiare il lessico delle lingue ancestrali riportandole al presente tramite un impiego accorto della neologia. (Si avverte
che il testo del suo intervento è stato trascritto della registrazione effettuata in sala).
Si tratta, tutto sommato, di esperienze molto diverse, ma con in comune carriere
di insegnamento pluriennale (Bétemps, Gilardino, Gribaudo, Pedrazza, Toller), di registrazione di dati statistici e linguistici (Bétemps, Favre, Gilardino, Gribaudo, Pedrazza,
Rainer, Sigg, Toller) e preparazione di strumenti di lavoro (Gilardino, Gribaudo, Pedrazza, Toller). Anche con apparenti divergenze per quel che concerne le priorità di lavoro e di intervento, gli scritti qui contenuti concordano sull’importanza delle lingue
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non solo come medium di comunicazione, ma come deposito di civiltà e dunque quale
patrimonio dell’intera umanità. Tutti auspicano la più completa documentazione delle
proprie lingue, tutti concordano sulla necessità di avere l’appoggio pubblico rendendo
consapevoli le popolazioni circa l’importanza di conservare le loro lingue. Tutti si preoccupano dell’educazione dei bambini e dei giovani e creano spazi appositi riservati alle
lingue ancestrali, riservandone altri esclusivamente alle lingue veicolari. I bimbi non possono venire segregati completamente dal mondo esterno (anche là dove ciò fosse ancora possibile) e pertanto la diglossia, il multilinguismo, diventano necessità ineludibili
del nostro tempo. Tutti concordano sul fatto che tanto la soluzione dei problemi quanto
la tutela delle lingue minoritarie non è compito solo dello sparuto gruppo dei locutori,
ma anche di operatori, enti, agenzie esterne. Occorre pertanto esportare problemi e lingue verso i centri urbani. Tutti sono d’accordo sul fatto che l’ancestralità non è appannaggio esclusivo di un gruppo, ma beneficio ed eredità cui possono accedere tutti coloro che non posseggono una propria tradizione o ne vogliono acquisire un’altra.
Ma sono pure tutti d’accordo sul fatto che senza l’accettazione e la corroborazione da parte di un nutrito gruppo di parlanti nessuna lingua può sopravvivere e
qui se i relatori divergono è solo per cifre di locutori nelle rispettive aree: alcuni milioni per i piemontesi, alcune centinaia di migliaia per gli altoatesini, alcune diecine
di migliaia per i francoprovenzali, per i mocheni, per i cimbri, alcune centinaia per
i Walser valdostani, alcune diecine per gli abitanti di Alagna Valsesia. E su quest’ultima constatazione si giunge all’interrogativo inevitabile: tra dieci, venti, trent’anni
saranno tutte ridotte così? Ecco che le priorità addotte nei diversi interventi assumono una loro coerenza, pur nell’asimmetria tra saggio e saggio, quando si considera il destino che incombe su queste lingue. Ma è sorte che toccherà pure a tutte
le altre del pianeta (Bétemps), eccetto una manciata di grandi, quanto monolitiche
lingue planetarie, capaci di dire tutto a tutti, privando però i propri locutori di quel
lessico ancestrale senza di cui un uomo è veramente sradicato dal cuore della terra.
Una caratteristica ancora accomuna tutti i saggi qui offerti: quale che sia la sorte
a venire, il lavoro continua, indefesso, ostinato, entusiasta. Non è solo questione di
vocazione, ma anche di dovere morale: così come bisogna evitare la monocultura e
il monolinguismo, così pure bisogna perorare la causa di un mondo in cui – ciascuno a modo suo – congiura per salvare una civiltà che rischia di sparire portando
via con sé le lingue di tutta l’umanità.
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FOREWORD
The third and last study seminar issuing from the “Walser Alps” Interreg Project IIIB under the auspices of the Aosta Val-
ley Region took place on May 10th 2007 in Gressoney-St-Jean. According to the work plan, this third study meeting was entirely
dedicated to intervention and revitalising strategies. Eight speakers took turns at the podium. They are all professionally involved
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with preserving, revitalising and documenting minor languages. Three of them are German-speaking, one French-speaking and
four Italian-speaking. Yet national languages are but a front for far more shaded linguistic realities. The languages they truly rep-
resent are French-Provençal, Walserdeutsch, Piedmontese, Mochen, Cymbre and Tyrolean German.
Their views and their intervention strategies widely differ because their respective minority tongues range from a few dozen speak-
ers in Alagna Valsesia to some three million in Piedmont. Understandably their suggestions range from mere documentation as a first
priority (Gilardino) to the expediency for taking minority languages out of the home environment into the open (Favre, Sigg, Toller,
Bétemps). Somewhere in the middle we find the well documented essay by Pedrazza, who substantiates learning processes with adequate
quotations, but is nonetheless equally aware of the need to preserve and teach the language. Gianfranco Gribaudo, the author of a
comprehensive and updated dictionary of Piedmontese, aims above all at scientifically documenting a language so as to have it accepted
by people at large as a worthy study tool, rescuing it from the nether regions of illiterate patois. Karl Reiner, the representative from
the German-speaking South Tyrol, takes a wary yet optimistic stance. His is a minority language in Italy, but a very major, national
and official language elsewhere. He exposes the “dialect” status of the German spoken in his land as well as the clashes and misun-
derstandings issuing from multilingualism, which however turns out to be quite profitable from an economic and tourist point of view.
All of the remarks on globalisation, on the danger of extinction many minority languages are in (“lesser spread out languages”
to borrow the expression used by Alexis Bétemps), on the speakers’ psychology, on the role of public and private agencies, on the dif-
ferent teaching, documenting and revitalising strategies constitute a body of knowledge of great theoretical and practical value which
makes it worthwhile reading this volume. Many of the papers contain suggestions which are well suited also for other minority lan-
guages, not only in Europe, but throughout the rest of the world.
The first book with the proceedings from the study seminar held in Aosta, on December 2nd and 3rd, 2005, contained valuable pa-
pers on the knowledge of the Walsers’ language. Various professors, teachers, cultural organisers supplied a complete picture of this language, of the dangers threatening it and the future lying in front of it.
The second volume with the proceedings from the study seminar held in Brig on June 9th and 10th, 2006, listed all available
resources: voice archives, publications, grammars and dictionaries, place names, and so on.
It was then for the third study seminar and the volume with its proceedings to draw as complete a picture as possible both as
regards managing and intervention strategies by the widest range of public and private stakeholders and as regards the inclusion of
most of the languages from the Alpine area. The picture one gets from it is somewhat disquieting yet fully coherent from a method-
ological and scientific point of view.
Alexis Bétemps, who represents the René Willien Centre for French-Provençal Studies enthusiastically and competently
broke a lance in favour of “linguistic variety”. He drew a picture of the situation on a global scale, first as far as minority languages
go, then as far as French-Provençal is concerned. He finally spoke of the Centre he manages, of the close cooperation with the BREL
(see the following paragraph) and of the various popular, school, scientific initiatives under way to promote knowledge of FrenchProvençal while keeping in sight identity and socio-psychological issues.
Saverio Favre, who represents the Regional Bureau for Linguistic and Ethnology, further widened the picture at the in-
ternational level only to come back to his French-Provençal with many a benchmark against which to measure revitalisation and doc-
umentation procedures. His Bureau was created to gather as much linguistic information as possible and it took over some of the
mandates of the French-Provençal Study Centre and of the Aosta Valley Association for Voice Archives. BREL
was the offspring of the merger. It takes care of ethnology and linguistics and also of a linguistic atlas and local place names.
Sergio Gilardino underscored the urgent need to document languages about to disappear, as is the case with the language of
the Walsers from Alagna Valsesia, now thoroughly recorded in a just completed dictionary with some 20,000 entries, many
proverbs and sayings, encyclopaedia-like entries and conjugated verbs.
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Gianfranco Gribaudo made clear his method for compiling the dictionary of the Piedmontese language and spoke about the
successful introduction of this language and of its literature at the University of Turin. He listed down- and upside aspects concerning the bill of health of the Piedmontese language and, indirectly, of other languages as well.
With much self-assurance Monica Pedrazza, a professor with the Department of psychology and cultural anthropology at the
University of Verona, divided her paper in two parts. The first deals mainly with preserving a language and the underlying reasons
for doing so (sense of belonging to one community or to one place). The second presents data from a field survey in the course of which
234 persons were interviewed over a two-year period and three age groups. There emerged a most interesting picture with scientifically
proven data in favour of linguistic conservation.
Karl Rainer supplied a thorough overview of his German-speaking minority in South Tyrol, of the various laws affecting
language conservation and of the economic windfall this region draws from its enviable language competence and from its strategic
emplacement between Italy and German-speaking countries.
Roman Sigg’s essay is a mere transcription of the recording of his speech. He spoke of his experience as a voice archive offi-
cer at the University of Zurich. Here huge quantities of recorded messages are stored. Among them also some from the Walsers south
of the Alps. Yet, as a knowledgeable person on linguistic matters he also warned people not to idealise the past. As a matter of fact
there is a need to carry Walser German from the past into the present, hence the necessity to wisely create and employ neologisms.
On the whole these are experiences stemming from very different backgrounds and yet they share multi-year teaching careers
(Bétemps, Gilardino, Gribaudo, Pedrazza, Toller), recordings of linguistic and statistical data (Bétemps, Favre, Gilardino, Grib-
audo, Pedrazza, Rainer, Sigg, Toller), compilation of teaching and conservation tools (Gilardino, Gribaudo, Pedrazza, Toller).
With all their apparent discrepancies as far as priorities go, the papers in this volume agree on the importance of minority lan-
guages not only as communication tools, but as repositories of civilisation. They all wish their languages to be fully documented, to
have public support by making people aware of the importance of preserving their native tongues. They all express their concern
about the linguistic education of children and youth and apportion spaces for ancestral languages which should never trespass on
terrain meant only for international languages. Children should never be severed from the outside world (even there where this is
still possible) and therefore bilingualism or multilingualism become unavoidable necessities of our time. They all agree that the so-
lution to language-related problems as well as the protection of endangered languages is not just a task for the puny groups who
still speak them, but it is also a duty for stakeholders and outside agencies. Small languages and their problems must be moved to
larger urban centres. They also agree ancestrality is no one group’s exclusive heritage, but it belongs to all those who do not have
traditions of their own and wish to benefit from a given lore.
Yet they are all fully aware that without the cooperation of a fairly consistent group of speakers no language may survive the on-
slaught of time. If the authors of these papers disagree it is just because of the numbers of the persons still speaking their respective lan-
guages: a few millions for Piedmontese, a few hundred thousands for South Tyrolean, a few tens of thousands for French-Provençals,
Mochens, Cymbres, a few thousands for the Walsers from the Aosta Valley, a few dozens for Alagna’s denizens. And over this last re-
alisation one comes to the inevitable question: what will be of these languages in ten, twenty, thirty years from now? Priorities, as brought
forward in these papers, albeit very different one from another, take on a lot of consistency when one considers the fate awaiting these lan-
guages. But all other major languages too are heading in the same direction (Bétemps), all except half a dozen, enabling all to say any-
thing to everyone, but stripping their speakers of any residual ancestral values without which Man is uprooted from the sap of the land.
Yet one more trait unites these essays: no matter what lies ahead, conservation work goes on, unflaggingly, obdurately, enthu-
siastically. It is not just a vocational matter, but also a moral duty. As much as we must avoid monoculturalism and monolingual-
ism, so too we must uphold the cause of a world where each one in his own way strives to save a civilisation which is on the brink
of losing most of humanity’s linguistic wealth.
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POUR LA DIVERSITÉ LINGUISTIQUE
Alexis Bétemps
Les situations diglossiques sont en train de se généraliser et de devenir ainsi un
problème aux confins beaucoup plus élargis qu’autrefois. En Europe même, nous
vivons un moment de globalisation linguistique qui, par sa nature, met en contact
une quantité non quantifiable de langues et met en branle une dynamique tout à
fait nouvelle, comme la situation qui l’a créée. Nous sommes en train de vivre un
moment sans précédents dans l’histoire, donc inconnu à l’humanité.
Dans ce cadre nouveau qui est en train de se dessiner – non sans tensions – il
est difficile d’imaginer l’aboutissement linguistique, voire la résultante des forces,
centrifuges et centripètes, qui s’affrontent actuellement en Europe. Dans ces bouleversements d’étendue continentale qui s’annoncent, il peut paraître futile de s’occuper de l’avenir des langues moins répandues, dans ce nouveau contexte en
mouvement. Mais ce ne l’est pas du tout. Au contraire, il s’agit désormais d’un problème d’intérêt général et même d’une question de principe, puisque si une petite
langue doit toujours laisser la place à une plus grande, il faut savoir qu’il y aura toujours une plus petite à effacer jusqu’à l’élimination de toutes les langues sauf une.
Bref, en acceptant ce principe on accepte la perspective d’aller vers une langue
unique. Ce n’est qu’une question de temps.
Si l’on croît que la biodiversité est vitale pour l’humanité et qu’elle est faite aussi,
par extension, de langues différentes, leur conservation, qu’elles aient une petite ou
une grande diffusion, devient un souci pour tout le monde. Parler de soucis prioritaires est peut-être exagéré mais, souvent, les priorités ne sont pas si évidentes: elles
le deviennent quand cela est trop tard pour intervenir efficacement …
De plus, cette attitude conservatrice à l’égard des petites langues a une valeur comportementale non indifférente: c’est une marque de respect de l’autre, un indicateur
de capacité de vivre en commun malgré les différences, un témoignage de civilité.
***
L’importance de la biodiversité est déjà communément acquise depuis plusieurs décennies. Tout le monde ou presque est d’accord sur le fait qu’on doive sau11
Alexis Bétemps
vegarder la flore et la faune jusqu’à l’espèce la plus petite et, apparemment, la plus
inutile. Le même principe appliqué aux langues et aux cultures a eu plus de mal à percer, jusqu’à présent. Cela probablement à cause des grands intérêts que le nationalisme linguistique des états chaperonne. Mais la sensation qui est en train de se généraliser, d’après laquelle le monde est en train de courir vers un monolinguisme
anglais et vers une culture uniformisée sur celle américaine de nos jours, a donné une
secousse aux intelligences assoupies. Voilà alors les prises de position d’organismes
internationaux et d’intellectuels influents soutenant que le multilinguisme et le multiculturalisme sont un patrimoine de l’humanité à sauvegarder. L’enrichissement culturel est le produit des différences qui entrent en contact parce que ce sont les différences qui stimulent l’intelligence humaine et la portent à des inventions nouvelles.
La langue, en tant que composante d’une culture, en a les mêmes comportements,
donc, toutes les langues existantes, en tant que ferments culturels essentiels, méritent d’être sauvegardées. Et comme a dit le poète Paul Valéry: “Enrichissons-nous
de nos différences mutuelles”.
***
Dans ce nouveau contexte, les langues les plus démunies de locuteurs et de
moyens pour s’adapter aux exigences nouvelles, celles qu’on appelle souvent les petites langues et que j’appelle ici langues à faible diffusion, sont donc celles qui ont
le plus souffert. Les locuteurs se rendent compte que leur langue est un piètre instrument pour la communication élargie; qu’ils doivent apprendre au moins un
deuxième code linguistique s’ils désirent communiquer hors de leur petite communauté; qu’ils sont ainsi condamnés à un effort supplémentaire par rapport à d’autres
citoyens jouissant d’un code linguistique plus largement répandu. Dans une culture
où le temps c’est de l’argent et l’argent est, malheureusement, en train de remplacer le Bon Dieu, cette situation, à elle seule, constitue déjà une bonne raison pour
ne plus retransmettre aux descendants la langue à faible diffusion.
***
Ceux qui, pour des raisons variées, dotés d’un caractère sentimental la plupart
des fois, s’accrochent à leur langue ancestrale, se retrouvent, au bout de quelque
temps, avec d’autres problèmes encore.
D’abord, les contacts accrus avec d’autres langues transforment rapidement les
locuteurs des petites langues en bilingues pour qui le passage d’une langue à l’autre
peut devenir tellement spontané que la tendance aux mélanges linguistiques devient
un penchant naturel. Puis, ils doivent constater l’incapacité de leur langue ancestrale de «digérer» les emprunts linguistiques, de les transformer en néologismes co12
POUR LA DIVERSITÉ LINGUISTIQUE
hérents avec les règles de leur parler, au rythme imposé par les exigences communicatives modernes. En d’autres mots, ils se rendent rapidement compte que leur
code linguistique originaire est en train de se transformer en un charabia sans cohérence interne qui tend à devenir, dans des cas extrêmes, une entrave même pour
la communication à l’intérieur de leur propre communauté linguistique. Et, ce qui
est aussi grave, l’incohérence est un lest pour l’apprentissage des autres langues, dotées de grammaires rigoureuses et rassurantes. Donc, vouloir insister sur la retransmission de la langue par la famille risque de doter l’enfant d’un système linguistique
inadéquat et de les exposer à un échec scolaire: comment voulez-vous qu’ils greffent de nouvelles langues sur un système linguistique maternel chancelant?
***
Dans notre époque où les contacts entre civilisations sont de plus en plus courants, où le métissage des races est de plus en plus perçu comme un fait positif et
enrichissant, pourquoi se tracasser du métissage linguistique? Ce serait une attitude
mentale discriminatoire insupportable. Mais est-ce que, dans le cas évoqué, s’agit-il
d’un véritable métissage, donc un fait positif, ou n’est-ce pas, plutôt, une homologation sur des modèles plus forts et prévaricateurs, plus ou moins sournoisement
proposés? Ce prétendu métissage, ne serait-il pas une étape vers la standardisation
des usages linguistiques, vers une langue unique pour tout le monde? L’appauvrissement des ressources linguistiques mondiales ne nous mènerait pas, au bout du
compte, vers un aplatissement général, rêve du marché global?
***
La nécessité de sauvegarder les langues du monde est donc, finalement, de plus
en plus reconnue. Mais qu’entend-on par langues? Uniquement celles qui ont une
grammaire écrite, enseignées à l’école, utilisées par les médias, et qui jouissent de l’officialisation d’un état?
Ou bien aussi toutes les infinies variétés que l’homme, dans son histoire, a créées
et moulées, qui ne sont pas enseignées à l’école, qui ont vécu dans la brousse, à
l’écart de la technologie moderne ou dans le creux de vallées inaccessibles, qui n’ont
pour se défendre qu’une tradition dévaluée par les performances tapageuses de la
civilisation occidentale? Et encore, faut-il aussi sauvegarder toutes ces variétés qu’on
appelle dialectes ou patois, survécues à l’ombre d’une sœur qui a fait fortune, sorte
de brouillons griffonnés de la langue littéraire, mauvaise conscience d’une ruralité
reniée pour un bien-être espéré mais jamais rejoint?
Je crois que la réponse est évidente: tout doit être sauvegardé avec une attention
particulière pour les variétés les plus menacées et tous les moyens sont bons à condi13
Alexis Bétemps
tion d’être efficaces. Il ne suffit pas d’appeler langues les dialectes pour leur rendre
leur dignité et il ne suffit pas de déclarer avec emphase leur importance pour les
sauver. Souvent, on a promu des patois à langues mais après on ne leur a accordé
qu’un statut limité par rapport aux autres langues… Faut-il vraiment qu’une production linguistique soit considérée une langue pour mériter d’être sauvegardée?
Sur ce point, les opinions commencent à diverger et les distinguos sont souvent
invoqués.
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Qui dit sauvegarder, dit aller contre courant, action qui demande cependant un effort supplémentaire. La sauvegarde de n’importe quoi n’est jamais gratuite. Donc, sauvegarder une langue coûte. Sauvegarder une langue est d’abord un choix politique. Ainsi,
c’est la polis qui doit prendre les décisions, donc, les citoyens concernés en premier lieu.
Sauvegarder une langue signifie pas seulement la codifier ou l’étudier scientifiquement, mais aussi la mettre en condition d’être pratiquée par les locuteurs qui l’ont
conservée jusqu’à nos jours, ainsi que par tous les autres qui le désirent, et d’être retransmise aux générations futures. Sauvegarder une langue signifie donner davantage à la langue en difficulté. Sauvegarder une langue signifie la privilégier jusqu’à
ce qu’elle soit à même de continuer son chemin toute seule, en pleine autonomie.
En absence de consensus, on peut douter de l’efficacité des mesures proposées ou,
éventuellement, prises. On peut toujours créer des guichets linguistiques, afficher des
panneaux bilingues, introduire à l’école quelques heures d’enseignement de la langue
en difficulté, publier des recueils de poésies, mais ce sera comme bâtir sur du sable.
Cela ne servirait qu’à retarder de quelque peu la disparition de la langue.
Malheureusement, un consensus sur un projet de ce genre n’est pas si simple à
obtenir.
***
Le consensus atteint, d’autres questions se posent. Une d’abord: qui doit s’activer pour promouvoir et réaliser une politique linguistique donnée?
Nous pensons que les agents députés pour cela, chacun avec un rôle particulier,
sont au moins trois:
a) les locuteurs eux-mêmes par leurs institutions
b) les linguistes par leurs centres de recherche
c) les organismes culturels internationaux.
Cela pour la raison suivante: les langues sont patrimoine de l’humanité (c),
avons-nous dit, mais, de quelque manière, elles appartiennent aussi aux locuteurs (a)
et elles sont étudiées par les linguistes (b).
14
***
POUR LA DIVERSITÉ LINGUISTIQUE
Les locuteurs sont certainement les agents principaux et leur rôle est déterminant
pour la pratique de la langue. Ce sont eux qui, par leur comportement, décident s’ils
doivent l’abandonner ou s’ils doivent continuer à la parler. On ne sauvera jamais une
langue si ceux qui la parlent la méprisent ou décident, pour quelque raison, de ne plus
la retransmettre. Les locuteurs doivent être bien convaincus de la nécessité d’enseigner leur langue et conscients de son importance, surtout si elle a été, pendant des générations, contrariée par les institutions, ouvertement ou sournoisement. Parfois le
locuteur a grandi avec la honte de pratiquer un parler particulier dont souvent on se
moquait. Parfois, il a du mal à comprendre comment sa langue maternelle, autrefois
poursuivie, il n’y a pas longtemps encore, devient maintenant un patrimoine important.
Si on veut sauver sa langue, le locuteur mérite tous les égards. Ainsi, toute action, toute politique concernant la langue doit être menée de concert avec les locuteurs. L’humanité s’en fait charge, les linguistes l’étudient mais les locuteurs, dûment
informés, doivent décider ce qu’ils veulent en faire. Nous disons informés parce que,
souvent, ces renseignements ont été niés aux locuteurs par l’école et par les institutions. Dans les pays évolués, aucune politique linguistique n’est acceptable sans l’accord des locuteurs, accord qui, en plus, accroîtrait l’efficacité des mesures prises.
***
Le linguiste a un rôle délicat dans toute l’opération. Il est le scientifique, spécialiste de la langue qu’on voudrait sauvegarder. Comme pour tous les scientifiques, sa
mission est d’améliorer la condition humaine par la connaissance qui vient du fruit
de leurs recherches. Dans son cas spécifique, il doit comprendre la langue qu’il étudie, la décrire, l’analyser, l’interpréter et l’expliquer. Et c’est ce qu’il fait toujours
avec beaucoup de passion, en plus.
Il a un grand prestige aux yeux des locuteurs qui se sentent valorisés par l’attention qu’il démontre à l’égard de leur langue. Et à l’égard de leur personne en même
temps. Mais attention: ce que le linguiste dit, qu’il publie, peut aider la langue en danger comme il peut l’endommager, peut-être définitivement. Il a donc de grandes responsabilités. Il doit être bien prudent: exercer ses compétences sans vouloir jouer un
rôle qui n’est pas le sien, c’est-à-dire qu’il ne doit pas se mêler des choix politiques qui
ne lui appartiennent pas et éviter de les influencer. Dans le passé, quelques scientifiques, une petite minorité, ont parfois plié leurs compétences au service des puissants et ont contribué ainsi à compromettre, voire même noyer certaines variétés
linguistiques. L’histoire est, malheureusement, riche en exemples, même en Europe.
***
15
Alexis Bétemps
Le troisième agent est représenté par les institutions culturelles internationales. L’UNESCO? Peut-être, mais c’est à voir. Ce qui me paraît certain, c’est que la tutelle des petites
langues ne peut être confiée aux états qui, souvent, ont été, ou sont, les principaux responsables de leur déchéance, par agressivité, par incapacité ou par nonchalance. En Europe, et dans le monde entier, rares sont les cas de minorités linguistiques sauvegardées
efficacement par l’état auquel elles sont soumises. Et dans ce qu’on appelle habituellement tiers-monde, la situation est encore pire. Pour survivre, les langues à faible diffusion auraient besoin d’une indépendance culturelle absolue ou bien de larges garanties
internationales. Les institutions préconisées devraient conseiller les communautés sous
tutelle, les aider techniquement et financièrement, veiller à ce que les équilibres nécessaires à l’épanouissement de la langue soient établis et ne soient pas perturbés.
***
En attendant cela, dans l’espoir que le meilleur de ces mondes ne se fasse pas
trop attendre, chacun de nous, locuteurs d’une petite langue, chaque personne
consciente, avons le devoir de nous engager selon nos forces et notre rôle social,
pour la promotion de notre parler. L’engagement peut aller du témoignage personnel (utiliser la langue dans toutes les occasions possibles) au militantisme dans des
structures (privées ou publiques) préposées à la promotion des langues en danger.
Il serait, a ce point, probablement utile présenter l’une de ces structures: Le Centre
d’Études franco-provençales René Willien de Saint-Nicolas, association privée reconnue d’intérêt public par l’Administration Régionale qui le finance.
La plupart des initiatives du Centre ont été reprises successivement par le BREL,
après 1986, quand il a été institué. Depuis la création du BREL, le Centre s’est transformé un peu à la fois en vitrine pour la mise en valeur des activités, en archives pour
la conservation du patrimoine culturel accumulé et en référent scientifiques pour les
différentes initiatives. Il assure aussi des activités qui lui sont propres, toujours en
syntonie avec le BREL.
Les réalisations du Centre vont de l’animation culturelle à la recherche scientifique, bien que les différentes initiatives ne puissent pas toujours être cataloguées
comme scientifiques ou d’animation. En voilà les principaux.
***
Projets où l’objectif animation prédomine:
• sensibilisation des enfants et des parents à travers l’école par le “Concours
Cerlogne”.
En collaboration avec les écoles (primaire et secondaire) on propose chaque
année un sujet concernant la civilisation alpestre. On organise un court stage. Les
16
POUR LA DIVERSITÉ LINGUISTIQUE
journées d’information, où l’on présente le sujet et les principes de la graphie du francoprovençal et de l’enquête orale. Les classes, dirigées par les enseignants, rassemblent
des documents, interrogent les gens et, au printemps, déposent au Centre la documentation collectée. Au mois de mai, une grande fête où tous les participants se retrouvent (2.500/3.000) couronne le projet.
Avec le BREL, mise au point d’un système de graphie à même de reproduire correctement les différentes variétés de patois et promotion de l’utilisation écrite de la langue.
Expositions, même itinérantes sur les différents aspects de la civilisation rurale
valdôtaine. La langue étant étroitement liée à la culture qui la soutient, la mise en valeur de la dite culture a des reflets positifs sur la langue aussi.
Ainsi, le franco-provençal est la langue utilisée pour les légendes explicatives (avec traduction en
français et en italien):
• publications de textes en franco-provençaux (toujours accompagnés d’une traduction) visant un public moyen, les patoisants en particulier;
• émissions radiophoniques et télévisées en franco-provençaux;
• production de vidéos dans un but didactique;
• organisation de fêtes, congrès, rencontres entre patoisants.
Projets éminemment scientifiques:
• création d’archives sonores rassemblant des ethnotextes en franco-provençaux. De l’action du Centre est née l’Association Valdôtaine des Archives Sonores (AVAS) qui a une phonothèque de environs 10.000 cassettes;
• l’Atlas des patois valdôtains avec 16 points d’enquête et les réponses à plus de
3000 questions. Ce matériel est en voie de publication;
• l’enquête toponymique en vue de recueillir tous les microtoponymes encore
utilisés. Le projet, coordonné par le BREL, est presque achevé (environs
100.000 toponymes recueillis). Les enquêteurs ont enregistré le toponyme de
la vive voix des témoins, ont rempli une fiche explicative et placé le toponyme
sur les plans cadastraux.
Le fait même que des scientifiques s’occupent du franco-provençaux dans leurs
recherches, contribue à renforcer l’image de la langue aux yeux des locuteurs et favorise sa pratique.
Mais le franco-provençaux ne peut pas demeurer l’apanage d’une élite d’autochtones si nous voulons vraiment qu’il continue à être pratiqué. C’est pour cette raison qu’en 1995 nous avons organisé des cours de franco-provençaux s’adressant à
tous ceux ne le connaissant pas. Ces cours ont eu un grand succès et continuent normalement. Une commission mixte a aussi étudié la possibilité d’introduire l’enseignement du franco-provençaux à l’école.
L’étude scientifique d’une langue est importante mais elle ne suffit pas pour en
assurer la survie: sans locuteurs habituels, la langue perd, en grande partie, le rôle
de stimulateur culturel.
17
Alexis Bétemps
BREAKING A LANCE FOR LINGUISTIC DIVERSITY
Diglossic situations are sprawling and flowing well over their once narrower confines. In Europe we are experiencing an era of
linguistic globalisation which brings a non-quantifiable number of languages in close contact and triggers off an entirely new process,
much like the situation which engendered it. We are experiencing an unprecedented time in history totally unknown to humanity.
In this new framework which is emerging, not without inner tensions, it is hard to predict what the outcome might be, with
centrifugal and centripetal forces clashing one against the others. In this context it might appear as totally futile to care for less known
languages. It is not so at all. It is on the contrary a problem concerning everybody. It is comes to lesser languages yielding to major
ones, then rest assured there will always be a small language to blot out until all have undergone the same fate but one. If we ac-
cept this principle we go toward a one language world. It is but a matter of time. If biodiversity is important for humanity, and if
in it we include languages, then their preservation is everybody’s business. It is also a matter of respecting our fellow people, a gauge
to measure our aptitude to live peacefully and respectfully side by side, in spite of marked differences.
Accepting linguistic biodiversity has proven tougher than that applied to trees and animals, perhaps because major interests
lurk behind linguistic nationalism. But the uncomfortable feeling that we might be sliding toward an English-only speaking world
and an American-only culture worldwide has jumpstarted many a dozing brain. Hence international organisations and influen-
tial intellectuals taking sides with multilingualism and multiculturalism, asserting they are humanity’s common heritage. They
must be saved. Cultural enrichment stems from differences stimulating human intelligence, goading it to inventions and findings.
Existing languages, as essential cultural entities, deserve being saved. As poet Paul Valéry put it: “Let us our differences enrich
one another”. In this new world scenario smaller languages or, as I call them, less known languages, have suffered the most. Their
speakers are sharply aware of the fact their tongue is no tool for broad-scope communication. They know they have to master at
least a second language code if they wish to communicate beyond the precincts of their tiny community. They are thus bound to pay
a higher fee than those world denizens whose tongue carries them much further. In a world culture where time is money and money,
unfortunately, is replacing the good Lord, this fact alone outweighs any reason to hand their puny language over to their children.
For those who stubbornly cling to an ancestral tongue there are yet more problems in the offing. Increased contacts with other tongues
quickly turns lesser-tongue speakers in bilinguals for whom shifting from one to another tongue is so natural as to make language
mixing practically a matter of fact. They must also come to terms with the fact their mother tongue cannot take on borrowings and
turn them into coherent neologisms. Otherwise said, they keenly realise their original language code is turning into a tutti-frutti salad
without any internal consistency. It hinders communication even at home. Inconsistency becomes a hurdle when learning other
tongues with regular grammatical codes. So, carrying over such a mumble-jumble to one’s children might spell disaster in school. How
can you expect children to graft new tongues on a wavering mother-tongue? Yet, if one considers races get more and more interre-
lated, why should one care about mixing languages? But it is really cross-breeding or is it rather a take-over by more prestigious
models? Is it not rather a flattening out of all linguistic codes toward one language only for the entire planet? The need to safeguard
the world’s languages is a more and more recognised must. But what is it meant by languages? Only those with a written grammar,
those taught in schools, used by medias and made official by a sovereign state? Or also the infinite variety of tongue which Man
over the course of his history created and moulded, not taught in schools, living out there in the bush, untouched by modern tech-
nology in that nooks and crannies of forlorn valleys, who have nothing more to fence for them but a much depreciated tradition?
And, more yet, must we safeguard also all those variants whom we call dialects or patois, who somehow managed to survive in the
wake of a sister tongue who had a stroke of luck and became a major cultural and literary language? I believe the answer is sim-
ple and straightforward: everything must be saved, especially the most endangered varieties. All means welcome as long as they work.
Styling dialects as “languages” will not restore their dignity nor will underscoring their importance save them. Does a language out-
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POUR LA DIVERSITÉ LINGUISTIQUE
put need be considered a language to deserve being saved? Safeguarding means swimming upstream. No safeguard ever came cheap.
Safeguarding a language costs money, but it is first and foremost a political choice. Citizens must take the action in their hands.
Safeguarding a language does not mean codifying or scientifically studying it only; it implies enabling speakers who saved it to ac-
tually speak it along with others wishing to speak it and to hand it over to future generations. Safeguarding means giving a lan-
guage more. It means favouring it until it can walk on its own feet. If there is no consensus one should beware of any proposed or
adopted measures. They can set up language booths, post bilingual signs, teach the language a few hours in schools, it will all amount
to building a house on sand. Unfortunately reaching a consensus on language projects is far from easy. Once it has been reached
one must decide who will busy himself with enacting a language policy. Three agents or “doers” could be involved: the speakers them-
selves, language scholars from their research centres, international cultural organisations. They are all concerned since languages are
humanity’s heritage, they belong to their speakers and they are studied by linguists. Speakers take centre stage: they decide whether
a language can continue being spoken or it must fade out. If one wants to save a language speakers deserve full attention. Any ac-
tion being undertaken must be agreed upon beforehand by them. Humanity may take charge over it, scholars study it, but it is only
the speakers who can go on speaking it. Linguists have a crucial role to play. As is the case for all scientists, their task is to im-
prove the human condition by whatever knowledge stems from their research. They must understand the language they study, de-
scribe it, analyse it, interpret and explain it. Native speakers feel encouraged by this. But they must be careful, because with their
publications they might actually cause harm. Linguists must keep out of issues which do not concern them. International cultural
institutions too have a role to play. UNESCO? May be: it remains to be seen. Individual states should not be entrusted with safe-
guarding smaller languages. Most of the time they have been the culprits who by default, aggressiveness, incompetence or indiffer-
ence have let them fade or die. Both in Europe and elsewhere in the world few and far apart are the instances of states who have
efficiently safeguarded smaller languages within their national boundaries. In the so-called third world countries the situation fares
even worse. In order to survive smaller languages need a complete cultural independence or wide international warrants. Institu-
tions in charge should advise their protégés, offer them technical and financial assistance, watch to make sure whatever mechanism
is needed be in place and working. Waiting for a golden age to descend on earth each of us, speaker of a lesser language, has the
duty to do all one can to promote our tongues. This may mean speaking our language every time we can to taking an active part
in public and private initiatives promoting language survival. At this point it might prove useful to introduce one of the following
institutions: the René Willien French-Provençal Study Centre in Saint-Nicolas, a private organisation recognised by the Regional
Authority financing it as a public interest group. Most of this Centre’s initiatives have been passed on to the BREL since 1986.
After then the Centre turned into a show case for highlighting language activities, into an archive for preserving the cultural her-
itage and into a scientific partner for a variety of initiatives. It works hand in hand with the BREL. The Centre promotes cul-
tural animation activities and scientific research.
Here are the main animation projects:
• making children and parents aware through a school initiative called “Concours Cerlogne”. Working with schools, each year
the Centre proposes a new theme about alpine civilisation. It is topped by a final even and celebration with some 3,000 peo-
ple taking part;
• together with BREL, devising a spelling which correctly represents the different brands of patois to promote written use of
the language;
• standing or itinerant exhibitions;
• publishing sundry textbooks in French-Provençal;
• radio and TV broadcasting in French-Provençal;
• production of teaching videos;
19
Alexis Bétemps
• organising events, conventions, meetings.
Scientific projects:
• creation of sound archives in French-Provençal. The Centre’s initiatives brought to life the Sound Archives Valdotaine Association (AVAS) endowed with 10.000 recordings;
• creation of the Atlas of the patois from the Aosta Valley with 16 major enquiry points and answers to more than 3,000
questions. Relevant documents are about to be published;
• a place name enquiry with a view to collecting micro place names still being used. This project, along with BREL, is almost complete.
The very fact that scholars take an active interest in French-Provençal helps promoting the image of this language in the eyes
of its speakers. Yet the survival of this language cannot rest on the small group of its speakers alone. That is why in 1995 we
set up classes for those who do not speak it. These classes were very successful and go on being taught. A joint committee is study-
ing the possibility of teaching this language in schools.
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I DIALETTI OGGI: CANTO DEL CIGNO O ARABA FENICE?
Saverio Favre
Non è mia intenzione cimentarmi in un discorso accademico, non sarebbe questa la sede più idonea, piuttosto, proprio nello spirito di una tavola rotonda, vorrei
farvi partecipi di un’esperienza che ho vissuto da vent’anni a questa parte, nonché di
alcune opinioni che ho sull’argomento, per altro in parte già espresse in occasione di
uno dei precedenti incontri, tenutosi lo scorso anno presso la Biblioteca regionale.
Rappresento qui il Servizio Regionale per l’Etnologia e la Linguistica, dell’assessorato regionale Istruzione e Cultura che, nel 1985, si è dotato di questa struttura anche per far fronte all’assenza, all’epoca, di un’Università che promuovesse iniziative
a carattere scientifico come si verificava in altre regioni limitrofe. Questo ufficio, che
è nato con lo scopo di raccogliere tutto il materiale di interesse linguistico ed etnografico relativo al territorio regionale, di catalogarlo, conservarlo, valorizzarlo e
diffonderlo, si è, per così dire, innestato sull’attività di due associazioni che già precedentemente operavano in analoghi ambiti di ricerca, ossia il Centre d’Études francoprovençales René Willien di Saint-Nicolas, di cui ha già riferito il collega Alexis Bétemps,
e l’Associazione Valdostana Archivi Sonori (AVAS), nata nel 1980. Il BREL (acronimo
di Bureau Régional pour l’Éthnologie et la Linguistique) ha ampliato ed arricchito l’attività
delle due associazioni, garantendo alle iniziative continuità nel tempo, in quanto l’esperienza ci insegna che le azioni fondate esclusivamente sul volontariato non hanno
sempre lunga vita e non rappresentano comunque una fonte di energia inesauribile.
Tra le iniziative a carattere scientifico già avviate dal Centre ed ereditate dal BREL,
come già anticipato da Bétemps, va annoverato l’Atlante linguistico dei Patois valdostani – che non contempla il titsch e il töitschu, parlate che tuttavia sono state oggetto
di studi e pubblicazioni grazie all’intraprendenza dei loro ultimi depositari. L’atlante,
progetto al quale si sta lavorando da circa 35 anni, comprende sedici punti di inchiesta ed è stato redatto sulla base di un questionario di oltre seimila domande. Esso
costituisce quindi una ponderosa raccolta di dati che riguardano, in primis, la società
agro-pastorale tradizionale. Si tratta di un’operazione di recupero e di documentazione dell’elemento linguistico, che ne conserva la memoria in maniera imperitura,
ma che non contribuisce necessariamente a salvaguardare la vitalità di un idioma
qualora non si continui più a parlarlo.
21
Saverio Favre
Un altro progetto, anch’esso in corso d’opera, riguarda la ricerca toponomastica, iniziata nel 1986, ed ha lo scopo di effettuare un censimento sistematico e capillare di tutti i nomi di luogo del territorio regionale, rilevati dalla tradizione orale.
La frammentazione della proprietà fondiaria in Valle d’Aosta, come generalmente
in tutte le regioni montuose, ha favorito una proliferazione enorme di nomi di luogo,
dal ruscello, al campo, al sentiero, alla roccia, e quindi si è provveduto a raccogliere
un’infinità di toponimi che in media raggiungono quasi le 1200 unità per ogni comune: i dati raccolti, accompagnati dalla registrazione delle interviste, vengono cartografati e schedati sulla base di una scheda descrittiva molto dettagliata. Si tratta di
un patrimonio importantissimo, non soltanto dal punto di vista storico e culturale,
in quanto rappresenta una pagina inedita sull’ambiente e sulla vita delle nostre popolazioni, ma anche e, nella fattispecie, soprattutto, per quanto riguarda l’aspetto
linguistico: la toponomastica, infatti, è un settore della lingua particolarmente conservativo che riesce a trasmettere elementi sovente già scomparsi dal linguaggio corrente e che non fanno più parte del bagaglio di conoscenze dei locutori.
Un settore di fondamentale importanza del centro di documentazione del BREL
è costituito dagli archivi sonori: oltre 3000 ore di registrazioni, dalla viva voce degli
informatori, la maggior parte delle quali effettuate in francoprovenzale, che sono
uno spaccato della società valdostana del XX secolo. Questo corpus consente studi
linguistici che hanno il vantaggio, rispetto ad un dizionario, ad una grammatica o ad
un atlante, di permettere di cogliere l’esatta pronuncia delle parole, i fenomeni prosodici, l’intonazione, le inflessioni. I materiali della fonoteca formano un archivio
importantissimo, da cui si può attingere un’infinità di informazioni, ma altre iniziave sono attualmente in atto o andranno avviate nell’ottica della diffusione, della
promozione e della valorizzazione delle parlate minoritarie.
In collaborazione con il Centre di Saint-Nicolas, il BREL organizza ogni anno
il Concours Cerlogne, un concorso scolastico che verte su un tema riguardante la civiltà
alpina locale e che varia di anno in anno. Esso si propone di iniziare gli allievi alla
ricerca di documenti in patois propri della tradizione orale, nonché di creare nelle
nuove generazioni interesse per il loro dialetto. Si tratta di un’esperienza singolare
che ci consente di prendere atto, sulla base delle statistiche in nostro possesso e
delle indicazioni forniteci dagli insegnanti, come anno dopo anno i bambini che conoscono il francoprovenzale e ne hanno una competenza attiva siano sempre meno
numerosi, ridotti talvolta ad un’esigua minoranza, e come, in certe realtà, addirittura
non ne esistano più. Si assiste tuttavia anche ad un’inversione di tendenza, ad un rinnovato interesse per le parlate minoritarie e per la cultura che esse veicolano, che si
traduce in una crescita esponenziale del numero dei partecipanti al Concours, ivi comprese scolaresche di Aosta o dei grossi borghi: nelle ultime edizioni si è raggiunta la
cifra record di 3.500 unità. Non sarà questa iniziativa il toccasana, la panacea per il
francoprovenzale, tuttavia essa crea interesse, avvicina i bambini ad una realtà non
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I DIALETTI OGGI: CANTO DEL CIGNO O ARABA FENICE?
soltanto linguistica ma anche culturale, il che non può che giovare alla causa del patois e sortire effetti positivi.
Nel 1995, per rispondere ad un’esigenza particolarmente sentita soprattutto nella
città di Aosta, l’allora assessore alla Pubblica Istruzione ha dato vita ad un progetto
che ha preso il nome di Scuola Popolare di Patois, finalizzato all’apprendimento del
francoprovenzale, destinato a quanti non lo conoscono, oppure vogliono recuperarlo come lingua madre, o che desiderano impararne la grafia. I corsi, che ormai
vengono organizzati da 12 anni, sono stati ovviamente preceduti da percorsi formativi per i futuri insegnanti e hanno raggiunto picchi di oltre 300 iscritti. La scuola di
patois è articolata su più livelli di apprendimento e prevede corsi per principianti, di
perfezionamento e di approfondimento. La grafia, problema aperto e da sempre
molto dibattuto, non soltanto all’interno della nostra Regione dove esistono più
scuole di pensiero e nessuno vuole rinunciare al proprio sistema, è un discorso che
si sta ampliando, coinvolgendo tutta l’area francoprovenzale, nel tentativo di arrivare
in qualche modo ad un sistema ortografico unificato. Giustamente, qualcuno ha
fatto osservare che la grafia in fondo è un abito, è una convenzione, su cui non varrebbe la pena di perdere troppo tempo, mentre invece in questi ultimi tempi è stata
all’origine di accesi dibattiti, ha alimentato qualche polemica, anche se ha fatto registrare qualche tentativo riuscito di aprire nuove frontiere. In quest’ultimo periodo
la scuola di patois sta segnando un po’ il passo e si sta verificando una flessione, probabilmente fisiologica, delle iscrizioni. Come tutte le iniziative che hanno durata nel
tempo, anche questa necessita forse di essere rivitalizzata, rinnovata, resa più accattivante, modificata e aggiornata in base a nuove esigenze che sono venute a crearsi.
Nel 1999, come è noto, viene varata la Legge 482 dello Stato italiano recante
“Norme di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Il BREL si occupa anche
dell’applicazione di questa legge che finanzia, in primis, gli sportelli linguistici, una
sorta di mediatore linguistico tra cittadini e pubbliche amministrazioni, ma che recentemente sta contemplando anche altre opportunità. Le prime esperienze di operatività
della legge in Valle d’Aosta si sono concretizzate proprio in territorio walser, con il titsch e il töitschu, come qualcuno di Gressoney o di Issime potrebbe illustrare meglio di
me. L’esperienza si è rivelata, nel complesso, positiva, anche se è evidente che uno
sportello linguistico non può limitare il suo raggio d’azione alla mera funzione per la
quale è stato istituito, perché rischierebbe di essere sottoutilizzato o non utilizzato del
tutto. Viviamo in una realtà in cui le lingue minoritarie, nonostante la fase di regresso
ed i problemi che stanno vivendo, sono ancora sufficientemente vitali da non dover
richiedere un mediatore nei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione. Occorre
fare in modo che gli sportelli vengano utilizzati nel migliore dei modi e diventino efficaci strumenti per azioni di recupero, salvaguardia, promozione, diffusione della lingua anche tramite ricerche, redazione di testi, opere di sensibilizzazione, ecc., per
conferire dignità e attribuire un ruolo più attivo alle nostre parlate vernacolari.
23
Saverio Favre
Il gruppo di insegnanti di patois ha costituito al suo interno una Commissione
che fa capo al Centre di Saint-Nicolas e che vuole essere un organo indipendente,
svincolato dalla pubblica Amministrazione, quindi libero di operare in piena autonomia. In seno a questo organismo, sono state pure create alcune sottocommissioni, in particolare una molto importante che si sta occupando del trattamento dei
neologismi. Per definizione (perlomeno questa è opinione diffusa) le lingue cosiddette minoritarie sono considerate come idiomi saldamente ancorati alla società
agro-pastorale tradizionale, quindi non più attuali. Una lingua moderna deve invece
fare i conti con il progresso tecnologico, scientifico, e con tutti ciò che caratterizza
la società attuale; quindi risulta indispensabile trovare soluzioni idonee per trattare
in maniera adeguata i neologismi. La Commissione sta anche utilizzando mezzi di
informazione molto diffusi, come giornali settimanali, proponendo una rubrica Le
moteur de recherche in cui vengono proposti una serie di termini non presenti nelle lingue tradizionali, chiedendo il supporto dei lettori per consigli, suggerimenti, al fine
di trovare soluzioni credibili e condivise alle problematiche che via via si presentano.
Il BREL svolge pure un’importante attività editoriale, con pubblicazioni in lingua minoritaria, anche in collaborazione con il Centre e l’AVAS, come nel caso della
collana del Concours Cerlogne, o di altri prodotti che consistono essenzialmente in trascrizioni di interviste effettuate presso le persone anziane dei villaggi, depositarie di
antichi saperi, e tradotte in francese o italiano per renderle accessibili ad un più ampio
pubblico. Sono anche stati realizzati supporti didattici, utilizzati nei corsi della Scuola
popolare di Patois.
Recentemente, è stata riavviata una collaborazione più stretta con la Federazione
valdostana di Teatro popolare, che raggruppa le compagnie teatrali che recitano in
francoprovenzale, nell’ambito di progetti comunitari transfrontalieri, per sperimentare una forma di teatro innovativa che consiste in rappresentazioni nei centri storici dei comuni – attività che produce un impatto positivo per quanto riguarda la
revitalizzazione della lingua minoritaria.
Nonostante questo fermento ed il rinnovato interesse di cui il patois, come pure
il walser, stanno godendo in questi ultimi tempi, l’interrogativo che oggi ci si pone
è: “cosa si può ancora fare?” Il regresso dei dialetti è un fenomeno che si constata
ogni giorno ed è un processo irreversibile: si tratterebbe perlomeno di arginarlo, se
non di recuperare il passato, operazione sulla quale è legittimo nutrire seri dubbi.
Condivido quanto asserito da Bétemps, a proposito della teoria secondo la quale
non si può salvare una lingua senza la creazione di una koinè, in altri termini senza
la sua standardizzazione: si tratta di una soluzione che non troverebbe terreno fertile in Valle d’Aosta, in quanto nessuno rinuncerebbe alla propria parlata vernacolare
a vantaggio di un codice comune. Se poi si ipotizzasse una koinè che non si identifichi con una parlata ben precisa (la scelta potrebbe cadere su quella più neutra, o
su quella più prestigiosa, ammesso che ne esista una, o su quella con il maggior nu24
I DIALETTI OGGI: CANTO DEL CIGNO O ARABA FENICE?
mero di locutori), ma che vada nella direzione di una sorta di esperanto, l’alternativa non sarebbe neppure da immaginare.
Esiste, a mio avviso, un’unica soluzione perché il francoprovenzale, come il titsch e il töitschu, abbiano una chance di sopravvivenza: essa consiste nel fatto che questa lingua venga trasmessa in ambito familiare, tutto il resto rappresenta palliativi più
o meno utili, più o meno produttivi, però non sarà nelle attività sin qui descritte che
risiede la reale soluzione al problema. È evidente che bisogna agire sulle coscienze,
bisogna far sì che i genitori siano consapevoli che la trasmissione di una lingua, bene
immateriale, è un’eredità importante alla stregua di un qualsiasi patrimonio materiale.
Ora, il fatto che una lingua minoritaria venga valorizzata dall’Ente Pubblico, riconosciuta a livello europeo, nazionale, regionale e comunale, che la si studi all’Università, che la si proponga nelle scuole, tutto ciò contribuisce a conferirle prestigio e dignità,
a creare interesse e, in qualche modo, a far sì che le famiglie si convincano che parlare dialetto ai propri figli non è una vergogna ma un privilegio. E a maggior ragione
oggi, quando si è finalmente sfatata la credenza secondo la quale parlare dialetto
era all’origine della cosiddetta deprivazione verbale e si enfatizzano invece i vantaggi
del bilinguismo precoce. Sono persuaso che soltanto quando, in virtù di una profonda
convinzione, si ricomincerà a parlare in famiglia la lingua minoritaria, allora esista
veramente uno spiraglio perché quest’ultima possa sopravvivere; altrimenti, temo
fortemente che qualsiasi altra azione risulti del tutto vana.
A complemento di quanto espresso nel mio intervento, vorrei ancora aggiungere
alcune considerazioni che scaturiscono dalle osservazioni di altri conferenzieri. In
particolare, sono d’accordo con il collega di Zurigo, il prof. Roman Sigg, sul fatto
che, se l’uso del dialetto resta confinato alla sfera familiare e non trova uno sbocco
nella comunità di riferimento, rimane ghettizzato. A conferma del ruolo importante
ricoperto dalla comunità locale, posso citare esempi riferiti agli anni 1960-70 dell’ormai secolo scorso di genitori entrambi patoisants che, quando la scuola era il peggior
nemico del dialetto e quindi il miglior deterrente per quanto riguarda il suo uso,
hanno parlato esclusivamente italiano ai loro figli, i quali hanno tuttavia imparato
ben presto il patois, in quanto nella realtà locale questo idioma era ancora vivo e dinamico e quindi, per integrarsi con gli altri bambini, sono stati stimolati a servirsene.
Lo stesso fenomeno si è verificato con gli immigrati, specialmente quelli di seconda
generazione, finché il fenomeno migratorio è stato contenuto e graduale. Ritengo
comunque che una comunità, per quanto piccola, senza il supporto delle famiglie,
non sia in grado, da sola, di perpetuare una lingua che, non a caso, si chiama lingua
materna.
Condivido anche l’osservazione che l’interesse economico possa rivelarsi un
atout importante per il mantenimento in vita di una lingua. C’è chi afferma che occorra monetizzare le competenze linguistiche, nella fattispecie quelle in lingua minoritaria, proponendo per esempio, magari in maniera provocatoria, di erogare un
25
Saverio Favre
contributo in denaro ai genitori che insegnano il dialetto ai propri figli, o, prospettiva che potrebbe rivelarsi invece interessante, riservare posti di lavoro, con prove
d’esame a sbarramento nei concorsi, a chi possiede le necessarie abilità sia per quanto
riguarda il codice orale che per quanto attiene a quello scritto. In un’ottica di valorizzazione globale ed integrata dell’intero patrimonio culturale di una realtà locale,
la lingua può svolgere un ruolo centrale, finalizzato anche ad un ritorno economico.
***
DIALECTS NOWADAYS: A SWAN SONG OR JUST RARE BIRDS?
I’d like to share with you an experience some twenty years in the making and a few opinions I have on this subject. I speak
on behalf of the Regional Bureau of Linguistic Ethnology which was brought into being back in 1985 to carry out scien-
tific research in lieu of a university which, at that time, we did not have. The Bureau had the mission to gather all linguistic and
ethnographic evidence from our Region, classify, preserve, enhance and spread it. This mission was “grafted”, so to say, on the
mainstream activities of two other associations which carried on similar activities from earlier on. One was the French-Provençal
Study Centre “René Willien” from Saint-Nicolas. My confrère Alexis Bétemps already spoke of it. The other was the AVAS,
that is the Sound Archives of the Valdotain Association created in 1980. My Regional Bureau, in short known as BREL has
enlarged and enriched the work of these two associations, ensuring continuity over time.
Among the initiatives of the Study Centre and now of the BREL I should like to mention the Linguistic Atlas of the pat-
ois from the Aosta Valley (titsch and töitschu are not in it because already extensively studied in other publications elsewhere).
We have now been working some 35 years on this Atlas, which has 16 enquiry points and was drawn on the basis of a question-
naires containing some six thousand queries. It is a mighty collection of data concerning above all the traditional agricultural and
shepherding social groups. It is a vast operation meant to reecover and document the language. It does not necessarily aim at revi-
tilising it if and when it is no longer spoken.
Another project also under way was begun in 1986 and it is aimed at recording every single piece and bit of place name over
our Region’s territory, as orally known by people in it. The breaking down of land ownership has brought about a huge variety of
place names over a mountaneous terrain, where every brook, field, path, jutting rock and what not has a name. There are some
1200 for each township, along with the recorded interview for each of them. It is an inheritance of extraordinary historical and
cultural importance. It is also relevant from a linguistic point of view. Place names are very much tied to the past and this can sup-
ply clues as to the origin of many words.
Sound archives are an important part of BREL’s activities. We have over 3,000 hours of recorded interviews, many of them
in French-Provençal. They enable scholar to get the exact pronunciation.
Hand in hand with the Saint-Nicolas Centre, the BREL organises each year the Cerlogne Competition. It is a contest for
the pupils from public schools on a topic concerning local alpine ways of life. The topic changes every year. It is meant to introduce
students to researching documents in patois and foster in younger generations a keen interest for their native language. It also al-
lows us to count the ever decreasing number of pupils with a fluent command of it.
In 1995 the Councillor for Public Education got under way a project nicknames Popular School of Patois, tailored for
those who did not know this language or would like to re-acquire it. It has been in existence for 12 years and before it came courses
for over 300 teachers who would teach it.
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I DIALETTI OGGI: CANTO DEL CIGNO O ARABA FENICE?
In 1999 came into force Bill 482 better known as “Rules Fostering Historical Language Minorities”. BREL looks after
the enactment of this law. It subsidises language wickets in local communities. They were first experimented with on Walser-speaking territory with titsch and töitschu. On the whole it was a positive experience.
The group of patois teachers created a Commission reporting to the Saint Nicolas Centre. It is a free and autonomous com-
mission. One of the working groups from this commission deals with neologisms, that is new words to be adopted. The commission
is also using medias as, weekly magazines and so on in which the new words are listed and the opinion of the speakers asked for.
The BREL carries out also an important publishing activity in its regional language together with the Centre and the AVAS
both for the Cerlogne Competition and with transcriptions of conversations with village elders. Teaching tools have also been devised.
Recently a closer cooperation with the Federation for Popular Theatre in the Aosta Valley was also revived. It works as an
umbrella organisation for theatre companies acting in French-Provençal to bring in innovating theatre teaching out to the various
communities and municipal centres.
In spite of this flurry of initiatives and activities which both Patois and Walser are enjoying, one cannot refrain from asking one-
self: «what else can one possibly do?». Dialects’ disappearance is a fact one deals with day after day. It is irreversible. Anything short of
reconquering the past, all one can realistically aim for it is to stem further erosion. I share Bétemps statement that one cannot salvage a
language if one does not succeed in creating a koiné, that is a sort of mother-tongue grouping several dialects under it. Yet in our valley
no one would give up its very own local dialect in favour of a common tongue.
There is only one chance for French-Provençal, for Titzsch and for Töitschu to survive: they must be spoken at home. All
the rest is make-shift and stop-gap operations. One should somehow succeed in alerting people to the danger of extintion of their
language, changing their hearts and minds. If a language is officially recognised at a local, or at a national or federal level, and it
is taught in schools and universities, might contribute to its prestige and convince families to speak it at home. All the more so today,
when we finally got over the prejudice that speaking a dialect at home could curtail one’s linguistic skills later and we acknowledge
instead the advantages of early bilingualism.
I agree with prof. Roman Sigg that dialect should go beyond the family circle and have a sounding board in its community.
Back in the Sixties and Seventies, when parents started speaking Italian only to their children, the latter still learned patois from
the village. Migrant workers too, when the migration process was still manageable, learned the patois.
I also share in the opinion that economic support may prove very useful in maintaining a language afloat. One should reward
language skills and remunarate parents who teach the language to their children or have more openings in public job competitions
for those who have a command of the ancestral language. Language can thus work as an economic fall out.
27
NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
DI UNA LINGUA IN VIA DI SPARIZIONE
LA COMPILAZIONE DEL DIZIONARIO
DELLA LINGUA WALSER DI ALAGNA VALSESIA
Sergio Maria Gilardino
Trattando di lingue minoritarie spesso si confonde conservazione con documentazione. Entrambe operazioni vitali, esse sono tuttavia distinte, ancorché gli strumenti
prodotti dall’ultima si rivelino poi indispensabili alla prima.
Spieghiamoci.
Si hanno lingue morte, come il greco e il latino, ma meravigliosamente documentate, e lingue vive, ma del tutto prive di documentazione1.
Il principale problema, oggigiorno, non è tanto costituito dal numero spropositato di lingue che ogni anno scompare definitivamente, ma dal fatto che la stragrande maggioranza di esse era priva di documentazione o con una documentazione
del tutto insufficiente.
Certo, nessuno vede con compiacimento la scomparsa di centinaia di lingue
ogni anno2. Ma bisogna anche capire che accanirsi con problemi insonvibili signi1 Siamo lieti di leggere in un recentissimo articolo pubblicato sul sito languagehotspots gestito dal Living Tongues Institute for Endangered Languages in data 17 ottobre 2007 che la priorità assoluta, al momento attuale, per tutte
le lingue minoritarie del pianeta (il 90% delle quali è parlato da meno di un decimo dell’umanità) è la documentazione: «Half of the world’s languages have no written form and are therefore at greater risk» [“La metà delle
lingue del mondo non hanno alcuna forma scritta e pertanto sono a più alto rischio”].
2 In un articolo intitolato Enduring Voices, Documenting the Planet’s Endangered Languages, Losing Our World’s Languages, apparso simultaneamente nel numero di ottobre 2007 della rivista mensile “National Geographic” e nel
precitato sito languagehotspots, leggiamo a conferma delle nostre asserzioni quanto segue: «Every 14 days a language dies. By 2100, more than half of the more than 7,000 languages spoken on Earth – many of them never
yet recorded – will likely disappear, taking with them a wealth of knowledge about history, culture, the natural
environment, and how the human brain works.» [“Ogni 14 giorni una lingua muore. Da qui all’anno 2100 più
della metà delle 7.000 lingue parlate sulla Terra – molte delle quali mai documentate – con ogni probabilità spariranno, portandosi via con sé un patrimonio di conoscenze sulla storia, cultura, ambiente naturale e modo di
funzionamento del cervello umano”]. Lo stesso articolo è stato riportato nel quotidiano “La Repubblica” in data
20 settembre 2007 alle pagine 42-43. È da notare che i dati quantitativi (7.000 lingue, di cui una sparisce ogni
due settimane) divergono da quelli riportati da rivitalisti come Claude Hagège, Halte à la mort des langues, Paris,
Éditions Odile Jacob, 2000, pp. 381; David Crystal, Language Death, Cambridge, Cambridge University Press,
2000, pp. 198; Daniel Nettle e Suzanne Romaine, Vanishing Voices, The Extinction of the World’s Languages, Oxford,
Oxford University Press, 2000, pp. 241. Le ragioni per queste divergenze sono da ricercarsi tanto in dati meno
suffragati da ricerche campali, quanto in modi diversi di contare le lingue suddividendole per famiglie oppure
contandole come lingue separate. Anche i ritmi di sparizione riportati nei libri qui citati sono allarmantemente
più alti (e di conseguenza anche la data del “silenzio” assai più vicina dell’anno 2100) proprio perché i criteri di
valutazione delle forze sociali in atto non sono gli stessi. Strano che poi proprio David Crystal, nel suo libro En-
29
Sergio Maria Gilardino
fica poi non occuparsi di quelli che invece sarebbero rimediabili, vista la loro mole
assai più ridotta.
Le lingue scompaiono per diversi motivi3, che però hanno denominatori comuni. Uno di questi denominatori è la mancanza di supporti sociali, o economici,
per conservarle in vita. Al momento attuale questa mancanza è la realtà per la stragrande maggioranza delle lingue planetarie.
In questo allarmante contesto, cosa si può fare?
Semplicissimo: concentrarsi su alcune lingue e documentarle in modo completo.
In effetti, se una lingua muore ed era priva di letteratura, non si tramanda più
nulla4. Invece una lingua che muore, ma con una ricca documentazione, non è veglish as a Global Language, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, p. 212, non elenchi nessuno dei fattori
elencati nel nostro presente articolo e si limiti a scrivere, nel sottocapitolo intitolato What are the dangers of a global language? [“Quali sono i pericoli di una lingua globale”] che «Perhaps a global language will hasten the disappearance of minority languages, or – the ultimate threat – make all other languages unnecessary» (p. 15) [“Forse
una lingua globale accelererà la sparizione delle lingue minoritarie o, minaccia delle minacce, renderà inutili tutte
le altre lingue”]. Non vi è la minima avvertenza dei campi semantici insostituibili e della perdita di identità. Ben
diversa avvertenza si trova nel libro di Harrison, qui sotto citato, in cui la perdita di identità e di cultura è al centro della sua argomentazione in favore della conservazione delle lingue ancestrali. Gli articoli apparsi sul sito languagehotspots, sul settimanale “National Geographic” e su “La Repubblica” traggono i loro dati dal recentissimo
libro di K. David Harrison, direttore delle ricerche del Living Tongues Institute for Endangered Languages, intitolato
When Languages Die, Oxford, Oxford University Press, 2007, ISBN: 0-19-518192-1 978-0-19-518-192-0. Sull’aletta di copertina si legge: «This book is the first account of global language endangerment and the threat of
knowledge loss that is looming as a humanitarian and scientific catastrophe written for a popular audience. It is
also the first book for a general audience on language endangerment written by a linguist with field experience
with endangered languages». [“Questo libro è il primo resoconto scritto per il grande pubblico sul pericolo a scala
mondiale in cui versano le lingue e della possibile perdita di conoscenze che si prospetta come catastrofe umanitaria e scientifica. È pure il primo libro per un largo pubblico sul grave pericolo che incombe sulle lingue planetarie scritto da un linguista con esperienza di ricerche sul campo, sulle lingue in pericolo”]. Dissentiamo dalla
pretesa qui accampata che si tratti del “primo libro” su questo argomento in quanto i libri sopracitati, essi pure
recenti, recitano esattamente la stessa lezione e presentano più o meno gli stessi dati, ma prendiamo atto dell’aggiornamento su diverse aree del pianeta. Aggiornamento, tuttavia, che non fa che confermare quanto già si sapeva e si temeva: le lingue muoiono ad un ritmo impressionante e la stragrande maggioranza di esse scompare
senza la minima documentazione, da cui l’urgenza prioritaria di questa operazione.
3 Harrison cita il fattore psicologico, cioè la percezione che un popolo ha della propria lingua ancestrale
come lingua dei paria: «Languages are abandoned when speakers come to think of them as socially inferior, tied
to the past, traditional/backward, or economically stagnant», op. cit., p. 7. [“Le lingue vengono abbandonate
quando i loro locutori finiscono per considerarle come socialmente inferiori, legate al passato, tradizionaliste/retrograde o economicamente stagnanti”]. La versione italiana dello stesso articolo [ma con aggiunte e modifiche] ne fornisce anche altre due: «Complici le comunicazioni di massa e il prevalere di alcune lingue, circa
la metà di quelle attualmente presenti è parlata da gruppi molto ristretti, al punto da essere considerate in via
di estinzione». In “La Repubblica”, 20 settembre 2007, p. 42. Siamo senz’altro d’accordo anche con questi due
fattori, cioè le comunicazioni di massa che creano l’ambiente da global village e lo strapotere delle lingue veicolari che costringono tutti a parlarle, svestendosi delle proprie identità.
4 «When these languages disappear they do not leave behind a dictionary or a text, nor the bulk of the culture which expressed them» [“quando queste lingue scompaiono non lasciano alle spalle un dizionario o un testo,
né il cumulo della cultura che le ha espresse”] Harrison, op. cit., p. 7.
NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
ramente mai morta: può essere riportata in vita in qualsiasi momento. E così come
è rinato l’ebraico, potrebbero rinascere il greco classico o il latino, a patto che rinascano pure le ragioni per riportarli in vita: il caso del celtico, lingua nazionale della
Repubblica Irlandese, ha ampiamente dimostrato che la sola legislazione non basta
a rivitalizzare una lingua.
È per questo che gli addetti ai lavori distinguono tra language revival (per lingue
morenti) e language resuscitation (per lingue morte), come pure distinguono tra le tecniche e gli specialisti che occorrono nell’uno o nell’altro di questi due casi molto diversi. Nell’ultimo caso però la documentazione è l’unico appiglio5.
La priorità quindi, quando una lingua è periclitante, non è tanto il tramandarla
ai nipotini, quanto il documentarla per tutta l’umanità. Se c’è chi la tramanda, ben
venga: sia incoraggiato e lodato in ogni modo. Ma in mancanza di corroborazione
dal contesto sociale, la fine è vicina.
Indispensabile pertanto agire con estrema tempestività, stabilendo la tabella di
marcia senza sentimentalismi o false illusioni. Il bilancio va fatto – caso per caso –
a mente fredda.
***
Nel tracciare il quadro della situazione è necessario fare a priori alcune constatazioni.
Prima constatazione: se non vi sono i necessari presupposti sociali, culturali e/o
economici una lingua muore, checché si faccia per tenerla in vita. Si compia dunque,
a priori, uno studio molto approfondito delle dinamiche in atto. Il linguista deve calarsi nel ruolo del sociologo, o dell’antropologo, o comunque dimostrarsi attento osservatore e conoscitore di svariate dinamiche. Deve tracciarne un quadro e capire
cosa può essere fatto prendendo atto di tutte le forze negative e positive in gioco.
Seconda constatazione: non è insegnando una lingua ancestrale due ore alla settimana ai bambini delle elementari o agli adulti dei corsi serali che si salva una lingua
periclitante. L’insegnamento serve, è indispensabile, è lodevole, ma non basta. In
realtà i convenevoli che si imparano in questi corsi stanno alla padronanza linguistica quanto i saluti che si apprendono de bouche à oreille in vacanza in Giappone o in
Russia stanno alla corrente conoscenza di quelle lingue.
Terza constatazione: l’unico modo per formare degli insegnanti che insegnino la lingua agli altri e, pertanto, la perpetuino è di disporre di strumenti di lavoro quali
5 Ci rallegriamo del fatto che David Harrison, nel suo precitato libro, sintetizzi così le fasi di intervento
linguistico: 1) documentation, 2) maintenance, 3) preservation, 4) revitalization. Nel nostro presente articolo, basato
sull’esperienza alagnese, noi abbiamo prospettato i punti 1) e 4) come quelli di più assoluta priorità, mentre riteniamo ripetitivi i concetti espressi da Harrison nei punti 2) e 3), ma ci sentiamo rassicurati dalla sua dichiarazione che occorrono strumenti filologici quali dizionari e grammatiche. Sono le stesse identiche conclusioni alle
quali siamo giunti anche noi davanti ad una lingua, il Titzschu dei Walser di Alagna Valsesia, che sta morendo.
31
Sergio Maria Gilardino
grammatiche, manuali e dizionari. La preparazione di questi strumenti richiede una
stretta cooperazione tra i locutori ed i filologi e i tempi possono essere lunghi: a
volte anche un decennio.
Peccato che il più delle volte non ci sia un decennio a disposizione, né per gli ultimi, anziani informatori, né per i filologi, alle prese con i tempi molto stretti delle
sovvenzioni governative.
Fatte queste constatazioni, si capisce perché la documentazione, in casi di “urgenza
finale”, debba prendere il sopravvento su qualsiasi altra operazione.
***
E qui siamo già in colpa, non per mancanza di personale specializzato o di
tempo, ma proprio per mancata avvertenza delle priorità.
In effetti la stragrande maggioranza delle lingue minoritarie è priva di un dizionario, di una grammatica, di un’antologia e di un repertorio fonografico.
A scanso equivoci, precisiamo subito che cosa intendiamo per dizionario e per
grammatica.
In effetti, molte delle lingue dell’arco alpino posseggono un qualche tipo di glossario ancestrale e di manuale d’insegnamento. Tuttavia in questa sede per dizionario non si intende un glossario con alcune centinaia di parole, magari accompagnate
da disegni o raffigurazioni di attrezzi e di congegni tipici della vita agreste d’una
volta. Questi glossari sono opere preziose, ma non sono dei dizionari: sono, se mai,
uno dei punti di partenza per la stesura di dizionari.
Per dizionario intendiamo invece un’opera con lemmi interconnessi gli uni con
gli altri per sinonimia, antonimia e analogia semantica, con rinvii interni, con verbi
coniugati, con mutazioni morfologiche chiaramente indicate, con espressioni idiomatiche e proverbi citati e tradotti, con lessico ancestrale e neologismi strettamente interconnessi e con una rosa lessicale di diecine di migliaia di parole tale per cui è
possibile tradurre tanto la fiaba partendo dalla lingua ancestrale quanto l’articolo di
giornale dalla lingua nazionale.
Se non possediamo un tale dizionario la lingua non è sufficientemente documentata.
Accanto a questo indispensabile repertorio lessicale occorre una grammatica descrittiva che illustri tutte le parti del discorso, con esercizi scritti e chiavi di svolgimento degli esercizi di traduzione.
Deve essere un’opera concepita in modo da poter essere utilizzata da studiosi e da
autodidatti che non hanno mai avuto alcun contatto con quella comunità di locutori.
Così concepita essa consente a chi lo desidera di perfezionarsi e di perpetuare per
sé e per gli altri quella lingua. È da essa che si potranno desumere le norme linguistiche
per preparare manuali di insegnamento calibrati su misura per le proprie scolaresche.
Occorre inoltre una campionatura di brani, quindi un’antologia, che abbracci
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
un’ampia gamma lessicale. Per far ciò occorre scegliere appositamente i brani, con
criteri lessicografici in mente, ovvero creare appositi brani che compensino la mancanza di una letteratura adeguata.
Occorre infine un fonorepertorio per tramandare l’ortoepia. Anche il fonorepertorio, nella misura del possibile, dovrebbe contenere voci maschili e femminili,
giovanili e anziane, e narranti situazioni svariate.
Basta tutto ciò a documentare una lingua?
Non basta a documentarne tutte le minuzie e le finezze idiomatiche, poiché ci
sarà sempre qualcosa che sfuggirà al lavoro dei filologi, ma basta per poterla studiare
e far rinascere, all’occorrenza.
***
Ampliamo ora il quadro e chiediamoci perché questo non è stato fatto per la
maggior parte delle lingue planetarie.
David Crystal ha quantificato il costo di documentazione esauriente di una lingua: circa 300.000 dollari.
Sembra una cifra esorbitante, ma se si pensa che occorrono dai cinque ai dieci
anni di lavoro, che occorrono specialisti a tempo pieno per altrettanti anni, volontari per diverse ore al giorno, locali per il lavoro, spese di pubblicazione di dizionari
e manuali di grosse dimensioni, si capirà come la cifra possa arricchire solo il popolo la cui lingua è documentata per sempre: di certo non coloro che si allontanano
da tutto e da tutti per periodi così prolungati e per avventure così ardue.
La risposta più ovvia parrebbe dunque proprio essere questa: per la maggior
parte delle lingue sparite senza documentazione non c’erano i fondi necessari.
La verità è che, prima ancora di parlare di fondi, bisognerebbe parlare di coscienza e
di volontà. Coscienza del valore della propria lingua e del suo ruolo indispensabile per conservare la propria identità. Volontà di agire e quindi di reperire i mezzi necessari per farlo.
Ma è una spirale viziosa, perché se un popolo è impoverito al punto da perdere
la propria lingua, di solito non ha più né coscienza, né volontà residue. E se invece
le ha, potrà anche trattarsi di un popolo sparuto e sfornito di mezzi, ma ciò non pertanto capace di reperire le persone e i mezzi per attuare il salvataggio. La lingua di
un popolo che ha coscienza e volontà ben di rado è in pericolo.
La risposta vera dunque è mancanza di valori dello spirito prima ancora che assenza di beni materiali. Questo è vero per la maggior parte delle lingue oggigiorno,
come pure è vero per la maggior parte dei problemi planetari: sono le crisi di valori
che portano alla ribalta gli estremismi capaci di generare conflitti o le indifferenze
all’origine delle più gravi catastrofi.
Ben lungi dal voler occuparci di problematiche di sfondo, ci limitiamo a constatare che più spesso che no la sparizione di lingue ancestrali ha a che fare con
33
Sergio Maria Gilardino
problemi più generali e che il meglio che si possa fare è di documentarle prima che
spariscano. L’assenza di specialisti o di mezzi è dunque un serio problema, ma secondario. Potrebbe essere ovviato se vi fosse coscienza dei valori in gioco. Tant’è
che la maggior parte delle volte il campanello d’allarme viene suonato ben troppo
tardi. Per troppo tempo e con troppe lingue si è pensato che c’erano ancora tanti
locutori e tanti anni, ci si è illusi che bastasse insegnare qualche frase ai bambini
o agli adulti per salvare una lingua. Si è temporeggiato e si sono privilegiate altre
aree di intervento linguistico. E le lingue, d’improvviso, come d’improvviso finisce la vita terrena, sono svanite.
Si è pure commesso un errore di prospettiva nel ritenere che lingue come il Mocheno o il Titzschu – tanto per fare degli esempi – fossero ad uso e consumo esclusivo dei Mocheni e dei Walser e che l’insegnamento andasse strutturato secondo
una metodologia ancestrale, locale e spesso esoterica.
È questa la concezione più avvilente delle lingue ancestrali, quella di limitarne
l’interesse all’ambito in cui erano utilizzate come lingue di comunicazione e misconoscendone del tutto il valore in termini di patrimonio umano. Ne consegue l’isolamento ad una zona in cui l’uso non era magari già più necessario come lingua di
comunicazione e dunque la si priva di qualsiasi valore estrinseco, l’unico che potrebbe giustificarne la conservazione.
Una lingua minoritaria va pertanto documentata con in mente non solo la propria comunità come unica destinataria finale, ma un’utenza più vasta, facendo riferimenti ad altre lingue, corredandola con spiegazioni esplicite e non riferite a contesti
criptici e monoculturali.
La mappatura filologica deve di conseguenza avere portanza universale, proprio
perché la salvezza di una lingua è ben spesso compito che esula dalle limitatissime
possibilità del piccolo gruppo che ancora la parla.
Il suo valore ancestrale è la sua giustificazione. È insito in essa: chiunque se ne
appressi ne può beneficiare. Inutile cercare spessore idiomatico o storico negli esperanti: essi sono in termini linguistici quello che un moderno edificio di dormitoriappartamenti è in termini architettonici. Impossibile avvicinarsi alle lingue ancestrali
senza incappare ad ogni pie’ sospinto in contenuti storici e peculiarità idiomatiche:
esse sono in termini linguistici quello che un tempio greco o un castello medievale
sono in termini architettonici.
Che poi ad interessarsi di una determinata lingua ancestrale siano pochi studiosi,
o centinaia di migliaia (come è il caso dell’ebraico, del greco classico e del latino), nessuno può predire: il suo valore è indiscutibile, ancorché non da tutti riconosciuto6.
6 Dopo la Seconda guerra mondiale e i miracoli degli operatori radio statunitensi che trasmettevano senza reticenze e senza paure dati militari segretissimi in lingue amerindiane che nessun altro possedeva, l’interesse per
quelle lingue salì di molto e da allora moltissimi non-amerindiani non hanno cessato di studiarle. In Canada l’Inouktitut e il Cri sono insegnati in quasi tutte le maggiori università e non certo per ragioni finanziarie o commerciali.
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
L’importante è tenere presente il valore delle lingue non solo come veicoli di comunicazione, ma come documenti storici: ogni lingua rappresenta un segmento dell’esperienza
umana. Il suo lessico palesa specificità semantiche e rinvii storico-ambientali unici. Pertanto la storia dell’umanità comincia e finisce con le sue lingue: potrà essere documentata
solo nella misura in cui possediamo un supporto linguistico. Se mancano dieci, cento, mille
lingue a questo rendiconto, mancheranno altrettanti tasselli alla documentazione finale.
Questa documentazione non riguarda solo la piccola minoranza dei Cimbri, dei
Ladini, dei Walser o degli Occitani, ma la comunità scientifica. Ecco dunque che
sebbene il dizionario della lingua dei Walser si rediga con in mente i Walser, il suo
valore finale va ben al di là della comunità di alcune centinaia di anime per cui è
stato compilato. Per quelle poche centinaia esso è strumento pratico, per la comunità
scientifica è documento storico.
***
Perché è documento storico? In che cosa consiste la sua storicità?
La storicità di una lingua ancestrale emana dai campi semantici delle sue parole,
che rivelano situazioni createsi nel corso dei secoli e tuttora veicolate da quelle parole: il loro etimo – quando ci è noto – ci apre orizzonti di conoscenza7.
Ad esempio, il fatto che in Titzschu “carabiniere” si dica “chritzritter” e che questa parola designasse, tempo addietro, un soldato a cavallo armato di carabina, e che in
epoche ancora più remote, significasse, alla lettera, crociato, ci dice per quali lunghe
vie questa parola sia giunta ai tempi moderni e per quali evoluzioni siano passati il
significato e il significante veicolati da questo termine. L’inglese law enforcement agent
è più descrittivo, è più inclusivo (di tutte le categorie di addetti ai servizi di polizia),
è più accessibile a chi non sa nulla degli ordinamenti polizieschi di un determinato
Paese, ma è assolutamente sprovvisto di spessore storico. Dice solo, alla lettera, che
si tratta di un agente addetto a far rispettare la legge. La parola inglese e la parola titzschu
significano entrambe la stessa cosa, ma la prima non dice molto della storia del
Paese che usa quella lingua, la seconda ne racconta almeno mille anni.
“Storicità” quindi non nel senso di cumulo di grandi avvenimenti, ma di tracciati che
evocano e riassumono i percorsi di un popolo.
L’altro aspetto della storicità, o della sua assenza, è quello della capacità di una
parola a richiamare in causa personaggi, luoghi, situazioni, legati a quella parola.
Prendiamo la parola “casa”. Normalmente essa non è che un edificio, di solito adibito all’abitazione familiare:
7 «A vast repository of human knowledge about the natural world, plants, animals, ecosystems, and cultural traditions. Every language contains the collective history of an entire people». Harrison, op. cit. p. 7. [“Un
vasto serbatorio di conoscenze umane sul mondo naturale, sulle piante, sugli animali, sugli ecosistemi e sulle
tradizioni culturali. Ogni lingua contiene la storia collettiva di un intero popolo”].
35
Sergio Maria Gilardino
casa s.f. 1 (costruzione in cui abitano permanentemente una o più persone, anche tale edificio vuoto
o disabitato) hus n. [pl. hiser] || di casa in casa = va’ hus z’hus || in casa, a casa
= zam hus || a casa (in patria) = haim 2 (casa alpina) chasarra f. [pl. e] 3 (casa da
fuoco cucina) firhus n. 4 (casa parrocchiale) pfruahus n. casetta s.f. hisji n. [pl. ni] 5 (insieme di stanze che costituiscono un’abitazione indipendente e separata dal resto di una casa)
wounstube f.pl. 6 (alloggio) lusiär n. [pl. ri] 7 (residenza) wounung f. [pl. e] 8 (luogo di abitazione, residenza) wounourd n. [pl. eirter] 6 (dimora, stanza invernale in stalla) stand m.
[pl. ständ] 7 (casa di accoglienza, luogo in cui si raccolgono persone bisognose di assistenza e aiuto)
ongeihus n. [pl. hiser].
Ma nelle lingue ancestrali il termine inevitabilmente richiama in vita una selva di
“case” dai nomi e dagli episodi specifici:
Alla Casa della Veronica n.p.f. (alpeggio di Alagna Valsesia, nel vallone di Otro, di poco
a valle dell’alpe Pian Misura piccola) Zar Freinu Chasarra.
Casa Ferro n.p.m. (alpeggio di mezza montagna, situato nel vallone di Mud, trascinato via
dalla slavina dell’aprile del 1986) Z’ Ise Hus.
Casa Giacomolo n.p.f. (frazione di Alagna Valsesia, così chiamata perché di proprietà di
un non meglio definito “Giacomo(lo)”) Z’ Jackmuls Hus [Nota bene: in questa frazione si trovano la casa natale dell’abate Gnifetti, la casa d’Henricis e la casa del teologo Farinetti. La casa
Gnifetti si presenta ora in condizione alterate rispetto a quelle originario a seguito di un restauro.
La casa d’Henricis, pur ristrutturata, mantiene la sua tipologia originale integra. La casa Farinetti fu costruita dal teologo nel 1869 e vi dimorò fino alla sua morte: non è di tipologia Walser,
ma mutuata all’architettura francese].
Casa Prato n.p.f. (frazione superiore di Alagna Valsesia, a metà strada per Rusa e Goreto,
alla sinistra orografica del torrentello Olen) Z’ Juassis Hus.
Insomma, c’è molto di più che lo storico, ma ben troppo istituzionalizzato termine “Casa Bianca”: c’è la storia di un popolo in tutte le sue tappe.
Ne va poi della specificità linguistica e per meglio spiegarci prendiamo la parola d i r u p o ,
tedesco A b s t u r z , francese r a v i n . In Titzschu abbiamo ben 14 possibili accezioni:
dirupo s.m. 1 (luogo roccioso e dirupato, precipizio) flua f. [pl. –e, dim. flïajin n., pl. -i] 2
(luogo scosceso e dirupato di collina o di montagna, dirupo) stutz m. [pl. stïtz] 3 (luogo dirupato,
pericolosamente scosceso) stelli f. [pl. -ne], laidi f. [pl. -ne] 4 (luogo profondo, cavernoso e buio)
chittu m. [pl. -e] 5 (abisso, gola) schlucht f. [pl. -e] 6 (profonda voragine o crepaccio di monte)
chrachu m. [pl. -e] 7 (crepaccio) chlach m. [pl. chläch] 8 (crepaccio nei ghiacciai) schrunda
f. [pl. -e] 9 (spaccatura, fenditura profonda) spold m. [pl. -a] 10 (salto, balzo) tschukku m. [pl.
-e] 11 (roccia tagliata a picco) bïal n. [pl. -i] 12 (luogo dirupato ove si falcia l’erba) chruterra f.
[pl. -e] 13 (luogo fra rupi ove si falcia l’erba) dristal n. [pl. -i] 14 (profondo scoscendimento nel
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
terreno fra pareti dirupate) grobu m. [pl. -e, dim. gräbji n., dim.pl. -ni] || mettersi in un
dirupo, mettersi in una posizione dalla quale è difficile uscire = ich lekke in stelji
Inutile cercare questa specificità nelle lingue nazionali. La riscontriamo invece ad
un elevatissimo livello nelle lingue ancestrali.
Quale altra lingua potrebbe rivaleggiare con l’Inouktitut per definire gli usi che si
possono fare della carcassa di un orso polare o di un tricheco, evocare il nome da assegnare alle rispettive parti e specificare le operazioni necessarie per trasformale in oggetti indispensabili alla sopravvivenza? Quale altra lingua potrebbe rivaleggiare con il
piemontese contenuto nel dizionario Rastlèire 8, la lingua del Roero e delle Langhe, per
definire viti, vitigni, vigneti, vinificazione, uve, uvaggi, filari, potature, e via di seguito?
Le lingue veicolari, le lingue nazionali sono onnicomprensive: mentre l’Inouktitut non ha la parola per “vite” o “vitigno”, mentre il Titzschu non ha la parola per
“anemone marina”, mentre il piemontese langarolo non ha la parola per “tendine
di tricheco”, l’italiano bene o male ce le fornisce tutte, a volte anche pel tramite di
perifrasi. Sono però parole che non evocano nulla in chi le ascolta in una lingua nazionale, perché non solo i campi semantici evocati sono diversi rispetto a quelli delle lingue ancestrali, ma anche perché l’uso che si fa di una lingua nazionale non è mai l’uso
che si fa di una lingua ancestrale. La risonanza psicologica non è la stessa. In breve, le
lingue nazionali non “formano” l’individuo, ma lo “informano”. Le lingue ancestrali
possono anche informare, ma il loro compito pristino rimane intatto: debbono “impressionare”, debbono risvegliare istinti, senso del pericolo, dell’urgenza, dell’inflessibile logica della sopravvivenza: dei Walser ad altitudini proibitive, degli Inouit su ghiacci
malfidi, dei langaroli sulla presenza della peronospora. La lingua nazionale rivela queste cose “a distanza”, quella ancestrale “a contatto”. La prima evoca qualcosa solo in
chi lo possiede già, la seconda è inesorabile: o si capisce, o si perisce.
Così dunque come il tedesco, l’italiano o qualsiasi altra delle principali lingue
europee non possono definire con una sola parola un luogo dirupato ove a gran fatica e
a rischio della vita si falcia l’erba, così esse non possono evocare l’epopea, il popolo, le
vicissitudini connesse a quella parola, né le lingue nazionali possono far nascere
nella coscienza dei loro locutori la possibilità che si debba fare una gran fatica per
falciare l’erba in un luogo dirupato. Non insegnano e non contemplano quella come
una necessità.
8 Primo Culasso e Silvio Viberti, Vocabolario illustrato di Alba, Langhe e Roero, Rastlèifie, Vocabolàfii d’Afiba,
Langa e Roé, Savigliano, Gribaudo, 2003, pp. 636. Della stessa area linguistica e con altrettanta specificità linguistica sono da segnalare i due dizionari di Giacomo Giamello, Dizionario Botanico, latino, italiano, piemontese, francese, inglese, Piobesi d’Alba, Sorì Edizioni, 2004, pp. 386, e Dizionario zoologico, latino, italiano, piemontese, francese, inglese,
Piobesi d’Alba, Sorì Edizioni, 2005, pp. 405. È soprattutto in questi ultimi due che la patetica carenza delle lingue nazionali e “scientifiche” balza con spietata evidenza all’occhio, perché accanto all’elencazione delle piante
o degli animali nelle loro infime sottospecie in piemontese le altre lingue presentano una lunga teoria di cases
vides, di spazi assolutamente vuoti per mancanza di termini corrispondenti.
37
Sergio Maria Gilardino
Le necessità e i pericoli nelle lingue nazionali sono sempre collettivi: riguardano
le masse, non l’individuo. Nella psicologia nazionale c’è sempre la possibilità del ricorso, del rinvio, della delega. In quelle ancestrali il significato è inesorabile: una
volta identificato il pericolo o l’individuo non ci sono rinvii o sostituzioni possibili.
Il fatto dunque che ci sia stata gente che per secoli ha falciato l’erba a rischio della
propria vita non è tramandato univocamente dalle lingue nazionali, ma da una lingua
ancestrale. Quest’ultima non lo tramanda solo ai Walser, ma a chiunque si avvicini
ad essa e alla sua civiltà. Le lingue, ancestrali o nazionali che siano, non conoscono
paratie stagne per gruppi etnici: chi impara l’italiano prima o poi impara a dire parole come “spaghetti” o “pizza”, e con esse le cose che esse designano. È lo stesso
per il Titzschu, il Mocheno, il Piemontese o l’Inouktitut. Solo che quest’ultime hanno parole che le altre non hanno. Nel loro ambito esse sole sono lingue, tutte le altre dei dialetti
carenti e imperfetti, incluse le grandi lingue nazionali.
Moltiplichiamo questo per migliaia di lingue e per migliaia di popoli e otterremo
il conto finale di quanto perderemmo, in termini di documentazione, se si estinguessero tutte quelle lingue senza che di esse rimanesse alcun documento.
Una lingua nazionale non può dunque competere con una lingua regionale e ancestrale in materia di documentazione storica insita.
Una lingua è “regionale” nella misura in cui è limitata ad una zona e ne espone
tutte le sue peculiarità, “ancestrale” nel senso che veicola le esigenze di vita di un
gruppo su un territorio e pertanto è superiormente dotata ad esprimerne le attività,
affinate nel corso dei secoli. “Ancestrale” e “regionale” vogliono quindi dire lingua
“specializzata, particolarmente atta ad un compito”, quello di esprimere come nessun’altra un popolo e la sua storia. Può darsi benissimo che nel frattempo quella
lingua regionale e ancestrale sia diventata un dialetto parlato solo più da pochi anziani che non posseggono i termini per “i-pod” e “banda larga”, ma sarebbe errore
gravissimo etichettarla come “dialetto”, perché essa contiene pur sempre la capacità
di veicolare la storia di un popolo assai meglio di qualsiasi altra lingua.
Da qui se ne deduce che non è per nulla vero che i toscani parlano l’italiano meglio delle altre popolazioni italiane: parlano particolarmente bene non l’italiano, ma
il toscano e, tra le tante varietà di toscano, quello della loro città o del loro paesetto.
In altre parole, tanto più è ristretto l’ambito, tanto più specifico è il lessico. Insomma,
per parlare “bene” bisogna che la lingua sia in perfetta sintonia con la propria storia, da cui ne deriva l’adeguatezza semantica e la valenza idiomatica.
Le lingue e le parole senza storia, invece, servono a svolgere delle funzioni, come
l’intelligent English dei computer. Il dramma è quando ci chiedono (o ci impongono)
di smettere di parlare l’inglese ordinario e di scrivere e parlare quello dei computer
per facilitare, senza ulteriori elaborazioni, l’accettazione dei documenti da parte delle
macchine elettroniche. L’intelligent English invade così non solo il posto di lavoro, ma
si impone poi anche al di fuori di esso, entra nelle aule scolastiche e universitarie,
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
entra nelle famiglie, entra nella psiche, debellando la lingua ordinaria. Il dramma è
quando non rimane altro che l’intelligent English, o l’intelligent qualsiasi altra lingua e
l’individuo è derubato non solo dei suoi territori ancestrali, ma anche della sua pur
generica lingua nazionale.
È quanto lentamente sta avvenendo ovunque oggigiorno, per gradi impercettibili. È la lingua degli iloti e degli sprovveduti che si impone, non più quella degli
edotti e dei creatori. L’osmosi linguistica si è rovesciata e a poco a poco si sta scivolando verso l’innuendo (“you know, you know what I mean …”) e l’afasia.
Il dramma finale è dunque doppio: il primo stadio è quando ci chiedono (o ci
impongono) di smettere di parlare le lingue regionali e ancestrali per parlare solo
quelle nazionali o veicolari, il secondo è quando “formattano” quest’ultime alle esigenze dell’interscambiabilità: dal paesetto alla comunità mondiale, dall’uomo alla
macchina. È un dramma perché trasformano individui unici in individui interscambiabili. Fa molto comodo alle società multietniche e ai paesi industrializzati. Fa molto
scomodo alla pianta uomo.
***
Questo però ci porta ad affrontare un altro argomento a sostegno della specificità linguistica, che è quello dell’adattabilità del linguaggio umano ad ambienti abissalmente diversi, a mestieri e modi di vita inconciliabili con quelli dei vicini o degli
antenati: nessuno nasce montanaro o marinaio, ma qualsiasi popolo, spinto dalla
necessità, può diventare esperto nel lasso di una o due generazioni. La lingua del popolo così sollecitato è capace, dal suo ceppo lessicale di base, di ricavare un’infinità
di campi semantici nuovi: non vi è limite e ciò anche senza cross-fertilization, cioè
anche senza calchi o imprestiti per scontro-incontro con altre lingue.
La documentazione di una lingua ancestrale sfocia in una ennesima conferma
di questa potenzialità in atto: l’ampliamento, senza fine, di ogni lingua e la registrazione di ogni esperienza nel suo lessico.
Falso pertanto affermare che le lingue ancestrali non possono adattarsi a situazioni geograficamente diverse o temporalmente più aggiornate: possono farlo benissimo, conservando la loro storicità anteriore ed acquisendone segmenti di una nuova.
La differenza è nell’uso: le lingue veicolari impongono di abbandonare l’anteriore, il
vecchio, il desueto, le lingue ancestrali ne fanno la base per ogni nuova accezione.
Ecco dunque che, come dizionarista, posso essere felice di aver procurato un dizionario di quarantamila parole ad una piccola comunità che può anche non servirsene, ma
il fine vero era di offrire alla comunità scientifica uno strumento di ricerca completo. Esso
si affianca alla documentazione di altre lingue per fornire il quadro dell’esperienza umana. Senza poi contare che esso può fornire agli operatori politici uno strumento per provare la ricchezza di una determinata lingua ancestrale e una ragione valida per tutelarla.
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Sergio Maria Gilardino
Per vedere poi come si spengono le lingue basta osservare la dinamica delle lingue degli emigranti in America o in Australia.
La prima generazione insegna la lingua ancestrale alla seconda, la seconda molto
meno alla terza e di solito una lingua in terra straniera non sopravvive a due generazioni.
Ma l’italiano che si estingue in una piccola comunità in Australia o in Sudamerica non
è lingua defunta: rimane pur sempre lingua nazionale in patria, lingua documentatissima
e munita di una splendida letteratura, ed è pure lingua di grande prestigio all’estero,
dove è insegnata in quasi tutte le principali università. Una lingua minoritaria invece
no. Se muore senza documentazione non ha ricorsi diatopici: è morta dovunque.
Il caso dell’italiano all’estero (o del greco, del cinese, del portoghese, ecc.) prova
che se le condizioni sociali, culturali, politiche o economiche non lo esigono, una lingua si spegne. Rimane viva in ambiti accademici, in circoli ed enclaves culturali, ma
non tra il popolo. È un paradigma che può essere mutuato per predire il destino di
tante lingue ancestrali senz’altra terra-madre che il villaggio in cui sono parlate.
Siamo dunque realisti. Il nostro primo obbiettivo, anche come progetti per l’avvenire, non è quello di insegnare, ma di documentare le lingue e ciò tramite un’annotazione completa, filologicamente ineccepibile, didatticamente utile, autoesplicativa
per studiosi e per autodidatti, preziosa per la comunità internazionale.
***
Quando affermiamo che l’insegnamento scende al secondo posto del podio non
intendiamo affatto dire che deve essere trascurato o tralasciato. È anzi proprio l’insegnamento il destinatario privilegiato di ogni attività di documentazione. Per quanto riguarda l’insegnamento del Titzschu, l’esperienza alagnese nel biennio 2004-2006 ha
provato che giovani laureati in lingue straniere, e interessati alle lingue minoritarie,
possono in breve tempo impadronirsi degli elementi lessicali e morfosintattici a patto
che si forniscano loro gli strumenti (dizionari e grammatiche) e le nozioni di base9.
Questo è rinfrancante. La declinazione degli articoli, dei nomi, dei pronomi, degli
aggettivi, la coniugazione dei verbi, la sintassi, sono elementi che si possono registrare,
documentare, esemplificare, insegnare e perpetuare. E con essi, beninteso, il lessico. Ma non
si possono compiutamente acquisire da adulti senza un adeguato supporto filologico.
9 Anche qui assistiamo al drastico cambiamento di numeri e di metodi. Fino al 2006 il Titzschu era insegnato solo ad Alagna, nell’alta Valsesia, estremo insediamento ai piedi del Monte Rosa, luogo di origine di questa particolare accezione della lingua dei Walser. La frequenza era assidua, ma esigua. Al corso di Titzschu
iniziato a Varallo venerdì, 28 settembre 2007, presso la sede della Comunità Montana, dove il Titzschu non è di
casa, se non amministrativamente, si sono presentati più di quaranta discenti di tutte le età, tra i quali insegnanti
e laureati in lingue germaniche. La stragrande maggioranza non è Walser. L’interesse per la lingua ancestrale dei
Walser è risultato fortissimo. In quest’ambito si è resa indispensabile la preparazione di strumenti didattici concepiti per un pubblico eterogeneo, con riferimenti alla sintassi e alla morfologia di altre lingue. È questo il tipico esempio di come le lingue ancestrali possano venire esportate e rivitalizzate extra muros.
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
In altre parole in nessun caso gli adulti imparano le lingue come i bambini10: un
adulto che impara alcune frasi senza sapere scomporle morfologicamente o sintatticamente non ha imparato altro che una lunga e complessa parola. Il giorno in cui se
la scorda è il giorno in cui finisce la già magra utilità del corso seguito per impararla.
Gli adulti hanno invece bisogno di strutture morfosintattiche apprese a parte, come
sostegno all’apprendimento di qualsiasi lingua. Sapere che cos’è un genitivo, un dativo, un
accusativo, che cos’è un pronome in posizione enclitica o proclitica, che cos’è un
verbo perfettivo o imperfettivo, sono nozioni che si possono desumere da una lingua che possiede queste caratteristiche, ma che poi valgono per qualsiasi lingua. Questo complesso di nozioni non va dato per scontato né va nascosto dietro le parole
di una lingua imparata come filastrocca: debbono essere oggetto di considerazioni,
di insegnamenti e di esercizi a parte, anche se questa filosofia non fa comodo alla visione nordamericana dell’apprendimento linguistico, dove tutto deve essere basato
sulla pratica.
La faciloneria con cui si insegnano frasi in lingue declinate nella speranza che gli
adulti ne desumano autonomamente regole ed eccezioni e poi le applichino alla fattispecie è patetica. I risultati oscillano tra la farsa e l’inanità.
Per chi ritiene invece che l’apprendimento delle strutture morfosintattiche sia
una questione molto più seria ci sono gli strumenti filologici.
Beninteso, le grammatiche possono poi essere presentate sotto forma di manuali con varie miscidanze di esercizi pratici e orali a seconda dell’età dei discenti,
delle loro aspettative e della loro preparazione linguistica.
Ma l’esperienza di rivitalizzazione in Valsesia conferma questo fatto: se riusciamo ad insegnare a degli adulti filologicamente preparati gli elementi costitutivi
di una lingua (fonetica, morfologia, sintassi) abbiamo perpetuato il processo.
***
10 Per una rassegna delle varie teorie sull’apprendimento delle lingue mi riferisco in particolare al volume
curato da Stefano Bertolo, Language Acquisition and Learnability, Cambridge: Cambridge University Press, 2001.
247 pp., contenente articoli di Martin Atkinson, Ian Roberts, Robin Clark, William G. Sakas and Janet D. Fodor.
Benché ci troviamo sostanzialmente d’accordo con quanto affermato da questi studiosi sui processi di apprendimento, a livello psicologico, non siamo per nulla d’accordo per quanto riguarda le metodologie: ma questa è
la storia del perenne disaccordo tra la scuola europea e quella americana per quanto riguarda la didattica delle
lingue. Un testo abbastanza curioso, ma più dedito al sensazionalismo che a scoprire nuovi orizzonti sull’apprendimento linguistico, è quello di Steven Pinker, The Language Instinct, How the Mind Creates Language, New York:
Perennial Classics, 1994, pp. 524. In sostanza quello che Pinker afferma è che gli esseri umani nascono con l’istinto della lingua e che parlerebbero anche se nessuno insegnasse loro a parlare. L’altra sua affermazione di base
è che non esiste una grammatica “corretta” e una “scorretta”, ma che ad ogni sfascio di lingue e di civiltà la necessità di comunicare crea da sola le proprie regole di economia e di univocità, per cui anche dalla lingua più
sgrammaticata emerge il messaggio comprensibile che poi, a sua volta, diventa la lingua “standard”. Da tutti questi testi si evince con chiarezza un messaggio: la prima lingua, quella imparata in tenerissima età, e la lingua acquisita, quella imparata in età adulta, sono due universi completamente diversi.
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Sergio Maria Gilardino
L’altro obbiettivo non è la lingua, ma la psicologia che precede, accompagna, e
segue la decisione di apprendere una lingua.
Decidere di apprendere un’altra lingua può significare due cose diametralmente
opposte: aprirsi al mondo o isolarsi da esso.
Nel primo caso si apprende una lingua veicolare, nel secondo una lingua ancestrale.
Si dice lingua veicolare una lingua parlata da centinaia di milioni di persone e quindi
lingua franca in estese regioni del mondo, se non addirittura lingua planetaria. Non ha
lessico ristretto, non ha problemi terminologici in riferimento alle più disparate discipline o attività. Veicola tutto a tutti dappertutto.
Si dice lingua ancestrale una lingua ereditata da un gruppo di locutori che ne fanno
un uso locale e particolare e che, pertanto, ha lessico limitato. Essa veicola solo ad
alcuni, in luoghi circoscritti, certi tipi di informazione riferiti a un numero limitato
di attività. Questa lingua avrebbe seri problemi davanti alla maggior parte delle discipline moderne. Veicola qualcosa a qualcuno in qualche luogo.
Le lingue veicolari si arricchiscono ogni giorno di nuovi locutori e di nuovo lessico. Le lingue ancestrali perdono locutori e si vedono erodere il lessico che non ha
le parole per le cose e le invenzioni moderne. E pertanto l’evangelico chi più ha più
avrà è valido anche qui: oggigiorno o si cresce o si sparisce.
Imparando una lingua veicolare si accede ad informazioni provenienti da milioni
di individui e dalle fonti più disparate e tramite essa si possono inviare i propri messaggi, lunghi e brevi, ad altrettanti riceventi in aree grandissime o addirittura a grandezza di pianeta. La decisione di imparare una tale lingua può essere spontanea o
imperativa, ma equivale in entrambi i casi ad aprirsi al mondo.
Imparando una lingua ancestrale si accede ad informazioni provenienti da pochissimi individui, da fonti quasi esclusivamente orali, e si possono trasmettere i
propri messaggi, lunghi o brevi, a pochissimi riceventi su aree assai ristrette, se non
addirittura limitate ad un villaggio o ad una tribù. La decisione di imparare una tale
lingua può essere spontanea o – raramente oggigiorno – imperativa (dettata da necessità di sopravvivenza), ma equivale in ogni caso a chiudersi al mondo.
***
E allora, si chiederà, perché mai fare tanto sforzo per chiudersi al mondo quando con lo
stesso sforzo ci si può aprire ad esso?
Il paradosso lessicale e idiomatico, tuttavia, è questo: chi usa una lingua veicolare,
che pur possiede quattrocento mila parole11, ne fa di solito un uso limitatissimo e
11 È tale il numero delle parole delle principali lingue veicolari odierne, computato a partire da dizionari
come l’Oxford Dictionary of the English Language, Le Grand Larousse, Il Battaglia, etc. Ma il modo più semplice è
quello di avvalersi di supporti elettronici come il Termium canadese, che è la più compendiosa raccolta di cor-
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
settoriale, servendosi quasi esclusivamente di quelle che si riferiscono alla propria specializzazione,
mentre chi usa una lingua ancestrale, che a malapena raggiunge le 30.000 parole, di
solito fa un uso generale e altamente idiomatico della maggior parte di esse. Il risultato è
che un suonatore di guzla jugoslavo a Mostar, o un pupazzaro siciliano a Racalmuto o
uno g’zolter walser ad Alagna usano linguaggi molto più ricchi di un agente di borsa
a Tokio, di un controllore aereo a Seattle o di un vulcanologo a Rejkiavik. I locutori
ancestrali sono chiusi al mondo, ma estremamente aperti all’esperienza umana.
Ne consegue che la vita professionale è impossibile senza una lingua veicolare, la vita individuale è estremamente povera senza una lingua ancestrale.
È possibile fare un uso professionale e ancestrale della stessa lingua, ma vi sono
diverse barriere e precondizioni, per cui l’inglese – per fare un ovvio esempio – ben
di rado è lingua ancestrale per chi la impara da adulto. Non perché un adulto non
possa imparare una lingua ancestrale e trarne i vantaggi che sempre si traggono da
queste lingue, ma perché l’inglese delle scuole, delle università e degli ambienti internazionali non è una lingua ancestrale o, comunque, non viene insegnata e non viene
utilizzata come tale. Addirittura anche chi l’inglese l’ha succhiato con il latte della
balia spesso deve spogliarsi della sua padronanza idiomatica – in ambito professionale – per non risultare ostico ai milioni di locutori che la usano esclusivamente
come lingua veicolare. L’inglese, per intenderci, ha cessato da gran tempo di essere
“proprietà” degli inglesi e il suo uso internazionale è dettato tanto dall’impiego che
se ne fa ad Hong Kong quanto da quello che se ne fa in una conversazione telefonica tra Milano e Rejkjavik, proprio perché le lingue veicolari diventano vittime della
loro stessa universalità. Se un giorno ci sarà una lingua veicolare interplanetaria, sarà
vietato dire in essa la parola “Terra” per non lasciare all’oscuro gli altri locutori che
non sanno che cosa sia la nostra piccola trottola ruotante attorno al sole.
***
Che cosa si cerca con la capacità di eloquire in una lingua che non è la propria?
Semplice, la comunicazione con chi parla una lingua diversa. Quel che conta dunque nell’apprendimento linguistico odierno non è la lingua in sé, ma la comunicazione.
Per il greco e il latino era il caso opposto: non si imparavano per la comunicazione, ma per la formazione.
È stato il caso del passaggio dal francese all’inglese come pricipale lingua di insegnamento scolastico. Con il francese si imparava anche la civilisation française. Con
l’inglese non si impara alcuna civilization, anche se vi sarebbe molto da imparare in
rispondenze linguistiche tra due lingue (inglese-francese e viceversa), edito dal Ministero degli Affari Esteri di
quel Paese. Nel Termium è elencato più di mezzo milione di corrispondenze (cioè non solo parole, ma allocuzioni
e frasi intere, soprattutto di natura tecnica, politica, socio-economica, ecc.). Molti altri grandi dizionari sono ora
disponibili su supporto elettronico. In Italia, per fare un esempio, il Dizionario enciclopedico.
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Sergio Maria Gilardino
fatto di istituzioni democratiche. Con l’inglese si impara la lingua, quella più comune, possibilmente quella nordamericana. Il fatto che essa non serva né come modello sintattico, né come stimolo stilistico non conta più nulla. Anche in campo
scolastico si è passati quindi dalla formazione alla comunicazione nuda e cruda.
La comunicazione ci pone davanti ad un interrogativo: comunicare che cosa?
Se si declassa la formazione rispetto all’informazione si ha sempre meno di personale e sempre più di tecnico da comunicare. In generale, si ha sempre di meno da
comunicare in tutti i sensi. Poter parlare con tutti e non avere più nulla da dire sta
diventando la sindrome dei tempi moderni.
Ad ogni buon conto, se siamo degli studenti, degli scienziati, dei ricercatori, dei
commercianti, dei tecnici, degli affaristi, con la comunicazione vogliamo sapere cose
che gli altri sanno e che noi non sappiamo (o viceversa).
La comunicazione è la storia del consorzio umano ed è l’opposto della violenza.
Comunicare con chi?
È qui che le vie tra lingue veicolari e lingue ancestrali divergono.
Quando grazie ad una lingua veicolare comunichiamo con tutti in realtà miriamo ad uno scopo pratico: il nostro fine non è l’individuo che ci fornisce l’informazione, ma l’informazione tout court. L’individuo che ci dà l’informazione (che
spesso non vediamo perché comunichiamo a distanza) è secondario, è strumentale, è incidentale. O lui, o un altro: il primo che ci fornisce quello che vogliamo sapere, lo
scopo è raggiunto.
Inoltre noi non cambiamo il nostro modo di pensare, di sentire, di vedere: noi rimaniamo sempre gli individui di prima, con una informazione in più. Quell’informazione
ci serve a vendere un prodotto, a non perdere una coincidenza aerea, a presentare
un’offerta entro la data di scadenza, a evitare di ripetere esperimenti scientifici già condotti da altri, a non andare là dove esiste il pericolo di mine antiuomo, e via di seguito.
Inoltre imparando una lingua veicolare noi non rinunciamo alla nostra lingua, ai suoi
idiomi, alla sua specificità culturale. Ci riserviamo di ritornare “in noi”, nel nostro Paese,
nel nostro piccolo mondo, per riprendere a parlare agevolmente, idiomaticamente,
spontaneamente la nostra lingua. Alla lingua veicolare non chiediamo di aggiungere
o di detrarre nulla al nostro “vero” mondo, ma solo di darci i mezzi per risolvere
problemi che si producono all’esterno della nostra sfera comunicativa regionale.
La verità è che anche la nostra lingua, quella che usiamo in famiglia e con gli
amici, quella che ci porta spettacoli, t.v., calcio, quella in cui capiamo e sappiamo contare barzellette, è due cose distinte: è una lingua veicolare ed una lingua ancestrale, solo
che noi ben di rado avvertiamo quando ce ne serviamo come strumento e quando ce
ne serviamo invece come identità.
Avvertiamo la differenza invece quando parliamo una lingua veicolare e, d’improvviso, con un occasionale compagno di viaggio in aereo, intavoliamo una conversazione su argomenti personali e ci avvediamo che il frasario sciolto e spigliato delle
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
nostre riunioni tecniche cede il posto ad un frasario carente e incerto ben al di sotto di
quello che noi utilizzeremmo se ci esprimessimo nella nostra lingua ancestrale (quando
ne possediamo una). E ci accorgiamo pure che l’inglese che comprendevamo così
bene diventa assai meno comprensibile quando un neo-zelandese, o un texano, o un
sudafricano parlano a ruota libera delle loro vicende regionali, con il loro accento e
il loro frasario idiomatico. Quando cioè usano l’inglese come lingua ancestrale.
E cosa succede, linguisticamente parlando, quando sempre di più nel mondo vi
sono individui che hanno come lingua esclusiva una lingua veicolare e non sanno più
farne altro uso, se non quello limitatissimo del mondo professionale? Cosa succede
quando nel mondo sempre meno persone dispongono dei benefici psichici e culturali dell’ancestralità?
Nel mondo, in qualsiasi momento, vi sono 200 milioni di migranti, che prima o
poi approdano ad un Paese di accoglienza. Moltissimi di loro non possono più rientrare nei loro rispettivi habitat (o perché sono perseguitati, o perché gli habitat stessi
sono spariti) e a poco a poco sostituiscono la lingua ancestrale, ora inutile, con una
lingua appresa solo come lingua veicolare.
Il primo problema con le lingue veicolari è dunque proprio questo: ce ne serviamo solo per scopi pratici, informativi, mediatici, con registri monodici e scelte lessicali limitatissime. Il secondo è che tendiamo sempre di più a rimpiazzare l’ancestrale
con un veicolare che poco e male lo rimpiazza e ciò facendo crediamo di arricchirci
mentre invece ci stiamo impoverendo.
Si creano dunque delle aree di uso linguistico che potremmo definire a tre stadi.
Uno stadio superiore, in cui una lingua è usata solo come medium veicolare, tecnico, scientifico, finanziario, militare. È il caso dell’inglese in ambito internazionale.
Uno stadio intermedio, in cui una lingua è frammista di parole tecniche e di parole idiomatiche. È l’italiano del Signor Rossi, che la usa al lavoro e in famiglia.
Uno stadio inferiore, in cui una lingua è usata solo come dialetto e dunque solo
per scopi locali e idiomatici.
La necessità professionale spinge sempre più persone nel mondo a servirsi di
una lingua veicolare ma, proprio per questo, ad avvertire con sempre più urgenza il
bisogno di una lingua ancestrale per compensare alla mancanza di specificità.
Paradossalmente a trovarsi in pericolo non sono più tanto le lingue superiori e
inferiori del nostro quadro a tre stadi, ma quelle intermedie. Questo non vuole dire
che l’italiano, o il francese, o il tedesco spariranno, ma che sempre più italiani, francesi e tedeschi dovranno servirsi dell’inglese per lavorare e di una lingua regionale
per rifarsi dell’identità perduta.
Da qui il vivo interesse per le lingue ancestrali e regionali e la validità dell’esigenza di studiarle e di documentarle.
***
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Sergio Maria Gilardino
La prima e più preoccupante constatazione è questa: più persone parlano una lingua e meno idiomatica essa può essere.
Ben presto sul pianeta terra parleremo tutti un gergo minimo e spersonalizzato
per intenderci con tutti su di tutto: e non avremo la possibilità di esimerci, perché
in un villaggio globale o si comunica o si è scomunicati. A quanti sarà concessa la fortuna di conservare una lingua ancestrale e qualcuno con cui parlarla? A quanti, soprattutto, sarà concessa la coscienza di capire che l’intelligent English non è una lingua
e che in nessun modo la sua utilità e praticità possono supplire alle funzioni ancestrali che tutte le lingue finora hanno brillantemente assolto?
Ecco che qui si presenta il caso della persona colta e professionalmente avviata,
che possiede una lingua nazionale, che si serve alla perfezione di una lingua veicolare, che legge già in una o due lingue letterarie straniere e che ciò nonostante sente
il bisogno di un idioma molto storico, molto locale, molto particolare che gli consenta di ritornare alle radici, di collegarsi con un mondo che non è quello dell’aggiornamento
professionale o della messa a punto finanziaria, ma quello della propria identità.
In questi casi ciò che occorre non è una lingua le cui parole sono prive di spessore storico, idiomatico o regionale, ma – al contrario – una lingua in cui ogni parola sia passato, tradizione, usi, modo di vita unico e non riscontrabile altrove. Ne
va della propria voglia di essere qualcuno di diverso da miliardi di altre persone in
grattacieli e aeroporti e megalopoli, ne va della propria inestinguibile sete di villaggio, di appartenenza, di ancestralità.
Di solito questo non è un desiderio o un’esigenza che si provano nell’adolescenza,
quando si vuole evadere e percorrere le vie del mondo: a quell’età le lingue straniere sono l’imperativo. È un desiderio che si prova quando è tempo non di migrare,
ma di ritornare.
La lingua ancestrale permette di conservare, di trovare o di ritrovare delle tradizioni, dei costumi, dei piatti tradizionali, dei sapori, delle sagre, insomma, un modo
di vita che ci distingue dagli altri e che ci trova immersi in un mondo che è squisitamente nostro.
Ripetiamolo: anche se non si è nati in quel particolare cosmo, è possibile sorbirne i succhi ancestrali.
L’ancestralità è dunque una dimensione, non un’esclusività. Avviene qui il ribaltamento delle posizioni: l’ancestralità diventa universalità, cioè dimensione aperta a tutti,
che esercita il suo fascino e il suo valore terapeutico su tutti, indipendentemente dalla
razza, dall’etnia o dalla cultura di origine. Riacquista inoltre il suo significato pristino:
una volta tutte le lingue erano ancestrali. La riconquista di una lingua ancestrale non
è la riconquista di un astruso dialetto, ma la riconquista della Lingua nel suo significato più pieno e più gratificante.
Ecco che il nostro o la nostra professionista decide che dopo l’inglese, il francese e lo spagnolo non vuole imparare l’arabo, il giapponese o il cinese, ma il pro46
NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
venzale, il titzschu, il piemontese o il mocheno, proprio perché non vuole un’ennesima lingua-funzione, ma un’unica lingua-identità.
Ne consegue un secondo ribaltamento di valori: i dialetti, le lingue locali, da lingue dei più, dei poveri, delle masse sono diventate lingue di élites.
Parlare bene oggigiorno il piemontese, possibilmente nella koiné torinese, non è
più una condizione da analfabeti e da paria culturali, ma un gesto chic, altamente elitario, una competenza dalla quale sono escluse le masse, ancorché nate e cresciute
in Piemonte, ma che oramai parlano solo più l’italiano. Invece andare a lezione di
inglese è diventato un obbligo da masse, un doveroso atto di adeguamento aziendale
per far fronte a necessità di ordine pratico, come era imparare la dattilografia, la stenografia o la computisteria negli anni Cinquanta o Sessanta.
Paradossalmente le lingue sono diventate dei dialetti e i dialetti delle lingue o, per
essere più esatti, si usano le lingue come dei dialetti e si esige dai dialetti quello che
una volta si esigeva dalle più prestigiose lingue letterarie.
In questa campagna, o battaglia, per la sopravvivenza delle lingue ancestrali bisognerà pertanto tenere conto di questa esigenza della ricerca ancestrale e del bisogno, non di massa, ma certamente di grande peso, di riacquistare un’identità tramite
lo studio di una lingua regionale o ancestrale. Esiste qui una tendenza sociale che,
ben imbrigliata, potrebbe fornire abbastanza spinta per tenere in vita lingue che, altrimenti, per il normale sviluppo degli avvenimenti, sarebbero già morte o comunque condannate a sparire.
L’esigenza ancestrale è la dinamica del salmone: si ritorna alle origini, in uno specchio d’acqua di pochi centimetri di profondità, dopo aver nuotato nelle immensità
abissali degli oceani. Chi emigra, tosto o tardi sente il bisogno di tornare (ed è un bisogno imperativo, cui è ben difficile resistere). L’abbandono dell’ancestralità è una emigrazione: prima o poi c’è il rientro e ciò si traduce nel desiderio di re-imparare la propria
lingua ancestrale o di imparare, comunque, una lingua ancestrale, quale che essa sia.
***
Comunque, per tanto che ci sforziamo, il provenzale, il piemontese, il walser,
ecc., non diventeranno mai più lingue di massa. Rimarranno – se rimarranno – lingue di minoranze, lingue di élites.
Se sono lingue di élites debbono alimentarsi di nuove parole e di parole usate
non solo in accezioni strettamente ancestrali, ma anche letterarie.
È questo il paradosso che rischia di far naufragare la causa delle lingue ancestrali: di venire sollecitate e utilizzate per scopi cui non sono vocate.
Intendiamoci, per “letterario” non ci riferiamo necessariamente ad un uso come
quello che ne farebbero Salvatore Quasimodo in poesia o Gesualdo Bufalino in
prosa, ma ad un’assunzione della lingua ancestrale in contesti di fiaba, di mito, di rac47
Sergio Maria Gilardino
conto, di leggenda. Bisogna passare dall’oralità alla scrittura conservando le caratteristiche originarie. La neologia deve essere rispettosa di questi limiti: non parole
per tradurre “le trombe della solarità”, ma per consentire più ampia manovra all’interno della portata del Titzschu, del Piemontese, dell’Algonchino, ecc.
Che cosa vuol dire tutto ciò?
Che gli sforzi dei rivitalizzatori debbono tener conto delle esigenze delle élites e non
solo dell’ipotetica partecipazione delle masse, che linguisticamente sono impegnate su
ben altri fronti. I filologi ed i rivitalisti debbono preparare i propri strumenti e le proprie
strategie di lavoro tenendo conto di queste forze in atto, che essi debbono studiare e definire con la stessa attenzione con cui studiano e definiscono i fenomeni linguistici.
***
Che cosa si è fatto finora dal punto di vista sociolinguistico per definire queste élites?
Ben poco.
Si continua a insegnare a livello locale, spesso in sedi isolate, lontane dai centri
e difficili da raggiungere, si esasperano le apofonie tra una variante dialettale e l’altra impedendo la formazione di koiné che potrebbero accogliere molti più discenti,
si continuano a privilegiare metodi didattici basati sull’oralità infantile e sulla ripetitività, si continua ad operare senza strumenti di lavoro di grande respiro e di ineccepibile impianto filologico e si continua a presentare una gamma di espressioni
che andrebbe bene solo per chi pascola greggi, non per chi vorrebbe utilizzare quella
lingua anche per escursioni, pur modeste, nel ventunesimo secolo.
Come gerarchia di interventi penserei ai seguenti quattro punti:
• primo, sensibilizzare i giovani liceali ed universitari al valore inestimabile delle lingue
ancestrali e alla loro perfetta compatibilità con l’apprendimento delle lingue straniere e ciò con apposite conferenze. È da questi ambienti e da questi gruppi che si ricavano individui dotati e adeguatamente preparati. Sono conferenze che non propagandano una lingua ancestrale particolare, ma il valore delle lingue ancestrali in generale.
• Secondo, sensibilizzare insegnanti e genitori al valore delle lingue ancestrali, non
tanto per averli come alleati, ma almeno per non averli come nemici, perché il
principale ostacolo al livello scolastico è proprio la prevenzione dei genitori e
degli insegnanti che credono, con molta fermezza e convinzione, che imparare
un dialetto o una lingua ancestrale significhi mettere a rischio l’apprendimento
dell’inglese e il buon uso dell’italiano.
• Terzo, strutturare l’insegnamento in modo che chi apprende sia poi in grado di
elaborare da solo i dati appresi. Non si insegna dunque ma si insegna agli altri
come insegnare a sé stessi e ci si accerta con costanti esercizi di autogestione
che quello sia veramente il caso.
• Quarto, si concentrino finanziamenti, sovvenzioni, mezzi e contatti con gli
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
informatori linguistici su un unico fine, che è quello della documentazione linguistica, stabilendo opportuni contatti con coloro che hanno già documentato una
lingua ancestrale per apprenderne i metodi di lavoro e con le facoltà universitarie che possono fornire giovani filologi in grado di seguire la documentazione, anche là ove occorresse imparare una lingua ancestrale da zero.
Tra due mali, il minore: molto meglio un giovane filologo che può imparare e
documentare la lingua, che qualcuno che ancora la parla, ma non sa né insegnarla,
né documentarla. L’ideale: mettere i due insieme perché la collaborazione tra filologi e informatori linguistici produce gli strumenti di conservazione. E dove una
lingua è ben documentata, il pericolo di morte è ridotto davvero al minimo.
***
ASIDE REMARKS ABOUT A DOCUMENTATION EXPERIENCE
OF A LANGUAGE ON ITS WAY OUT: COMPILING THE DICTIONARY
OF THE WALSERS’ LANGUAGE FROM ALAGNA VALSESIA
When dealing with minority languages one often confuses conservation with documentation. Both are paramount, but
apart from one another, although the tools made available by the latter become indispensable to the former.
Let us get this straight.
One can come across extinct languages, like Greek and Latin, yet thoroughly documented and, conversely, find live languages
which are totally unaccounted for.
Of our day and age the problem is not so much the number of languages disappearing for good each year, but that the over-
whelming majority of them vanishes without any recording whatsoever or with too skimpy a documentation.
To be sure, no one welcomes the disappearance of hundreds of languages each year. As a matter of fact most would like them
to live on and keep being spoken, read and written.
Languages vanish for a variety of reasons, which may however share some common denominators. One of them is the ab-
sence of social or economic props to keep them alive. At present that happens to be the case with the majority of languages spoken
around the globe.
In this most distressing scenario, what could possibly be done?
Simple enough: concentrate on few languages and thoroughly map them.
Indeed, if a language dies without any record of it, nothing can be handed on. On the other end a language which dies, but
leaves a rich lore of documents behind, is never really dead. It can be brought back to life at any time. So, the same way Hebrew
was reborn, classical Greek or Latin too could be, provided the reasons for bringing them back to life were at hand. The sad case
of Gaelic, Ireland’s supposed national language, is clear proof that legislation alone is not enough.
This is why language revivalists distinguish between language revival (for dying languages) and language resuscitation (for
dead languages), as well as they set apart language specialisations needed in either one of these two distinct fields. Be as it may, in the
latter case documentation is the only grip to hold on to.
Therefore the absolute priority when a language is at risk is not passing it on to a few grand-children, but mapping it for all
humanity. If, over and above that, there are also those who still can speak it to their grand-children, it is one more blessing in the
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Sergio Maria Gilardino
deal: let them be praised and encouraged in every possible way. Yet, failing any support from the surrounding environment, the end
is imminent. Grandparents and grandchildren will not prevent it from dying.
In such cases it is imperative to act quickly, setting up one’s schedule aloof from pious or sentimental intentions. One must
take stock of the situation one language at a time, on a cold, determined mind.
***
A few preliminary statements are called for at this stage.
First: a language will die out no matter what one does to keep it alive if it cannot rest on a minimum amount of social,
cultural or economic support. So the language doctor must factor in all that is hanging in the balance, putting on ? if need be ?
the sociologist’s or the anthropologist’s hat. A very detailed picture of all positive and negative aspects must be drawn, mapping
the way for future action.
Second: teaching an ancestral language two hours a week to elementary school children or to continuing education students
will not save it. Teaching is in order, is of paramount importance, is praiseworthy, but it is simply not enough. Civilities and greet-
ings learned in these classes are to linguistic fluency what circumstance words learned while vacationing in Japan or Russia are to
a full mastery of these countries’ languages.
Third: the only way to train teachers to pass on a language to others is to have them trained with working tools like gram-
mars, manuals and dictionaries. Oral knowledge wanes and dies out with the last generation of active speakers. Preparing these
learning and teaching tools calls for a close cooperation between native speakers and scholars and it is by no means a quick fix: it
may take years, sometimes decades. It is just too bad that most of the time there is no decade available any more, both because of
the frail conditions of the last elders speaking a given language, or owing to the short-lived promises of financial support from gov-
ernmental agencies.
Once this has been taken due notice of, one realises why in emergency situations recording a language must take upper
hand over any other consideration.
***
As it turns out, we are already grievously at fault in this respect, not for any lack of time or of properly trained language
scholars, but rather for lack of vision to give recording operations absolute priority. We are at fault because the overwhelming ma-
jority of ancestral languages lack a dictionary, a grammar, an anthology and a phonographic repertoire.
Just to get it straight, I would like to state what is here meant by a dictionary and a grammar.
True enough, many languages from the Alpine area already have some kind or another of ancestral word-list and of teach-
ing manual. Yet what we mean by dictionary is not a list of a few hundred words, some of which matched by drawings or pictures
of tools and gadgets from the old days’ farming and shepherding life-style. No doubts these word lists are precious, but they are not
dictionaries. They are one of the sources dictionaries draw from.
By dictionary we mean instead a scholarly work with interconnected entries, linked to each other by synonymy, antonymy and
semantic kinship. Cross references are provided where needed, with fully conjugated verbs, clearly shown morphological mutations,
lists of proverbs and idiomatic expressions. The ancestral words stand side by side with neologisms and the final word count runs
into the tens of thousands of words, supplying what it takes to translate ancestral tales into a national language and a newspaper
article back into an ancestral language.
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
If no such dictionary is at hand, then that language is not sufficiently documented.
Side by side with a thorough dictionary we need a descriptive grammar showing how each of the speech’s components works,
along with written exercises and their matching translations.
It must be a work which self-taught persons and scholars with no direct contact with that language or that community can prof-
itably learn from. From it one can easily take down whatever language materials and insights are needed to prepare teaching manuals
tailored to one’s own pupils’ requirements.
One also needs a sampling of reading passages, or an anthology, so assembled as to supply a wide word choice from both con-
versational and literary passages to sample as many of that language’s levels and registers as possible.
Finally one requires a phonographic repertoire to pass on the right pronunciation. This phonographic repertoire should fea-
ture male and female voices, youth and elders, each telling a different tale.
Will all of this be enough to fully record a language?
It will not reach out into every nook and cranny of it, since some bits will get through the linguist’s sieve, but it will be more
than enough to enable scholarly people to study it and revive or resuscitate it, as the need might be.
***
Let us now look at all of this from a wider perspective and ask ourselves why this was not carried out for the majority of the
languages on the planet.
David Crystal put a price tag on satisfactorily recording a language: about $ 300.000.
It might sound like an exorbitant amount of money, but if one thinks that it might take anywhere between 5 and 10 years’
work, that full-time specialised staff must be at hand at all times, that language informants must supply information several hours a
day, that working spaces, working stations and computers will be needed, and that in the end one has also to pay for printing large size
dictionaries and grammars, one can easily grasp how that amount might benefit those whose language is saved, but hardly those who
have to live for long years in remote areas away from family and friends.
So the most obvious answer to our question might be an old one: no money available. Yet, even before entertaining financial
issues one should give awareness and will some consideration. Awareness of one’s own language and its crucial role in preserving
one’s identity, will to act and thus raise the funds or appropriate whatever it takes to keep it alive.
It turns out to be a vicious circle, because if one group of speakers is destitute enough to forsake its own language, it usually
has neither awareness nor will to spare. If instead it still has plenty of both, it may well be impoverished and thinned down to a
few individuals, but it will always do what it takes to secure the means and the scholars to record their language. The language
of a people with awareness and will to spare is very seldom in danger of extinction.
The true answer then is lack of values taking precedence over lack of means. This is sadly true of most languages today, as it
is of most planetary problems: it is invariably value crises which bring to the fore extremisms capable of fuelling conflicts or callous indifference leading to major catastrophes.
We will be content with remarking that frequently the disappearance of ancestral languages has its roots in much broader
problems and the best we can do is to record them before they vanish for good. Lack of specialised staff or of means are second-
hand problems, so much so that the alarm bell is rung when time is out. Way too often it was thought there was yet time, there were
yet plenty of speakers or, quite naively, elders and authorities figured teaching some sentences to children would be enough to save
a language. They took their sweet time and gave precedence to other methods of language revival. And all of a sudden languages
vanish, as suddenly as life itself often does.
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Sergio Maria Gilardino
A strategic error was also committed in believing languages like Mochen and Titzschu were meant for Mochens and Walsers only
and that their teaching had to be tailored to old-fashioned methods.
It is a most demeaning view of ancestral languages the one which curtails their field of action to the territory they were orig-
inally spoken in, dismissing altogether their worth as human heritage. This entails using that language in its ancestral area where
perhaps it has no longer been needed for some time already. That is tantamount to divesting it of any added value, where added
value is the only element warranting its preservation.
A minority language should instead be codified bearing in mind not just its native community, but much wider audiences. That
calls for plenty of references to other languages and other cultures, away from cryptic and monocultural presentations. Teaching tools
must have a universal scope, since a language’s survival is a task far beyond the reach of the puny group of speakers still speaking it.
Its ancestral endowment is its lawful claim to survival. It is embedded in it. Anyone approaching it can draw from it. It is of no
use looking for idiomatic or historical depth in artificial languages like Esperanto: they are to language what a modern apartment-dorm
building is to architecture. On the other hand, one can hardly draw close to any ancestral language without stumbling at every other step on
historical and idiomatic milestones: they are to language what a Greek temple or a medieval castle are to architecture.
Whether later on a lonely scholar or throngs and droves of them (as is the case with Hebrew, classical Greek and Latin)
will care for it no one can predict. Its value is not in the balance, though only a few may ever acknowledge it.
What truly matters is to uphold these languages’ value not solely as communication tools, but as historical landmarks.
Each of these languages is a mapping landmark of Man’s presence on earth. Their word choices disclose unique semantic fields
and provide historical insights into the past. Man’s history can thus be thoroughly unfurled only if we can avail ourselves of the
entire gamut of these idioms. If ten, one hundred, a thousand of them no longer answer the roll call, it will be as many props and
stays missing from the final tally.
This business of recording dying languages does not concern Cymbres, Ladins, Walsers or Occitans only (if those happen to
be the groups whose languages are in peril), but the entire scientific community. So, although the dictionary of the Walser language
was drawn up bearing in mind the Walsers, its final value by far exceeds that of its intended use by a community of a few hun-
dred speakers. For them it is a practical tool, for the scientific community it is a historical tool.
***
How could it be considered a historical tool? What does its historical value consist of?
The historical value of an ancestral language stems from the peculiar semantic fields of its words. These fields convey situa-
tions which took shape over the centuries and which can be conveyed by those words only.
Just as an example, the word for “policeman” in Titzschu is “chritzritter”. This same word a long time ago meant “a mounted sol-
dier with a rifle”. Even longer ago it literally meant “crusader”. This tells us by what detours this word came all the way to the present time
and what changes of meaning the signified and the signifier went through. On the other hand the English compound word law enforce-
ment agent tells us much more about the job of the designed person, covers a much broader field of action, it is far more descriptive for
those who know next to nothing about law enforcement in a given country, but it is absolutely devoid of any historical background.
The flip side of historic depth is a word’s aptness to call back to life characters, places and situations. Let us take the word “house”.
Ordinarily speaking it is a smaller building used as a family dwelling:
casa s.f. 1 (costruzione in cui abitano permanentemente una o più persone, anche tale edificio vuoto o disabitato) hus n.
[pl. hiser] || di casa in casa = va’ hus z’hus || in casa, a casa = zam hus || a casa (in patria) = haim
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
2 (casa alpina) chasarra f. [pl. e] 3 (casa da fuoco-cucina) firhus n. 4 (casa parrocchiale) pfruahus n. ? casetta s.f. hisji
n. [pl. ni] 5 (insieme di stanze che costituiscono un’abitazione indipendente e separata dal resto di una casa) woun-
stube f.pl. 6 (alloggio) lusiär n. [pl. ri] 7 (residenza) wounung f. [pl. e] 8 (luogo di abitazione, residenza) wounourd
n. [pl. -eirter] 6 (dimora, stanza invernale in stalla) stand m. [pl. ständ] 7 (casa di accoglienza, luogo in cui si raccol-
gono persone bisognose di assistenza e aiuto) ongeihus n. [pl. -hiser]
Yet in Titzschu this word evokes a host of “houses”, each with a name of its own and peculiar episodes attached to them:
Alla Casa della Veronica n.p.f. (alpeggio di Alagna Valsesia, nel vallone di Otro, di poco a valle dell’alpe Pian
Misura piccola) Zar Freinu Chasarra
Casa Ferro n.p.m. (alpeggio di mezza montagna, situato nel vallone di Mud, trascinato via dalla slavina dell’aprile
del 1986) Z’ Ise Hus
Casa Giacomolo n.p.f. (frazione di Alagna Valsesia, così chiamata perché di proprietà di un non meglio definito
“Giacomo(lo)”) Z’ Jackmuls Hus [Nota bene: in questa frazione si trovano la casa natale dell’abate Gnifetti, la casa
d’Henricis e la casa del teologo Farinetti. La casa Gnifetti si presenta ora in condizione alterate rispetto a quelle ori-
ginario a seguito di un restauro. La casa d’Henricis, pur ristrutturata, mantiene la sua tipologia originale integra. La
casa Farinetti fu costruita dal teologo nel 1869 e vi dimorò fino alla sua morte: non è di tipologia Walser, ma mutuata
all’architettura francese]
Casa Prato n.p.f. (frazione superiore di Alagna Valsesia, a metà strada per Rusa e Goreto, alla sinistra orografica
del torrentello Olen) Z’ Juassis Hus
So, what is at stake here is a language’s special aptness at evoking surroundings and episodes. Let us supply an example for
this. The word r a v i n e ,German A b s t u r z , French r a v i n in Titzschu has as many as 14 possible translations:
dirupo s.m. 1 (luogo roccioso e dirupato, precipizio) flua f. [pl. –e, dim. f l ï a j i n n., pl. -i] 2 (luogo scosceso e dirupato di
collina o di montagna, dirupo) stutz m. [pl. stïtz] 3 (luogo dirupato, pericolosamente scosceso) stelli f. [pl. -ne], laidi f. [pl.
-ne] 4 (luogo profondo, cavernoso e buio) chittu m. [pl. -e] 5 (abisso, gola) schlucht f. [pl. -e] 6 (profonda voragine o
crepaccio di monte) chrachu m. [pl. -e] 7 (crepaccio) chlach m. [pl. chläch] 8 (crepaccio nei ghiacciai) schrunda f. [pl.
-e] 9 (spaccatura, fenditura profonda) spold m. [pl. -a] 10 (salto, balzo) tschukku m. [pl. -e] 11 (roccia tagliata a picco)
bïal n. [pl. -i] 12 (luogo dirupato ove si falcia l’erba) chruterra f. [pl. -e] 13 (luogo fra rupi ove si falcia l’erba) dristal
n. [pl. -i] 14 (profondo scoscendimento nel terreno fra pareti dirupate) grobu m. [pl. -e, dim. gräbji n., dim.pl. -ni] ||
m e t t e r s i i n u n d i r u p o , m e t t e r s i i n u n a p o s i z i o n e d a l l a q u a l e è d i f f i c i l e u s c i r e = sich lekke in stelji
It is totally futile to look for this level of specialised aptness in national languages. It can be found only in ancestral languages.
Which other language could match Inouktitut in defining what uses the body of a polar bear or of a walrus can be put to, sup-
plying the names for each part and for the operations needed to get from them whatever is needed for survival? Which language could
match Piedmontese from a dictionary entitled Rastlèire, the language from the hilly region of Roero and of the Langhe, when it
comes to assign names to grapevines, vines, vineyards, grapes, grape blends, wine making, vineyard rows, pruning and so on?
Global and national languages are all-encompassing. While Inouktitut has no word for “vineyard” or for “vine”, while Titzschu
has no word for “sea anemone”, while Langhe Piedmontese has no word for “walrus sinew”, Italian one way or another has them all,
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Sergio Maria Gilardino
though at times it makes recourse to paraphrases. It has them all but its words conjure up nothing in the listener, not just because the
semantic fields are different, but because the use one makes of a national language is never the same one makes of an ancestral one.
The psychological sensation just is not the same. Essentially speaking, national languages do not “shape” the individual’s mind, they
just “inform” him. Ancestral languages may also “inform”, but their original task remains unchanged: the must “impress”, awaken
instincts, alert to dangers and emergencies, kindle the pitiless logics of survival: that of the Walsers for forbidding altitudes, that of
the Inouits for treacherous ice, that of the Piedmontese for the possible presence of grape mildew. The national language conveys these
concepts “from a distance”, ancestral languages “hand to hand”. The former conjures up something only in those who already know
what it is, the latter are unforgiving in their warning: one either grasps it or places his life in the balance.
So, just like German, Italian or any other of Europe’s main languages cannot describe with one word a steep place where
one may mow grass at his life’s peril and with utmost toil, so they too cannot bring to life the epic, the people, the vicissi-
tudes attached to that word. Nor can national languages instil in their speakers the notion one should go to such great extents to
mow grass on a steep slope. They just do not see that as a need.
Needs and dangers in national languages are always collective: they concern the multitudes, not the individual. From a national
perspective there is always the possibility of a recourse, of a postponement, of a proxy. In ancestral languages there simply is no such
leeway: once the danger or the individual have been singled out there are no postponements, recourses or replacements allowed.
The concept of mowing grass at the cost of one’s life is a concept the language of the Walsers yields not just to their original speak-
ers, but to any one approaching it. Languages, both national and ancestral, are not exclusive to one group. Anyone learning Italian
sooner or later learns words like “spaghetti” or “pizza”, and with them the things these words mean. It is the same for languages like
Titzschu, Mochen, Piedmontese or Inouktitut. The only difference is that the latter have words the others do not have. Each in their
respective domains are true languages, while all the others are wanting and rough.
Let us multiply this for thousand of languages and thousand of peoples and we will get the final tally of what we stand to lose
if minority languages were to disappear without any kind of record.
So, a national language stands no chance when matched against a regional or an ancestral language when it comes to his-
toric values.
A language is thus “regional” to the extent it is confined within a given area and expresses all of its peculiarities, it is “an-
cestral” to the extent it vents all of the needs of an ethnic group over a territory and is thus better suited to express them as they
evolve over the centuries. “Ancestral” and “regional” thus mean “specialised, particularly apt to carry out a communication task”.
The task, that is, of expressing like no other could a people’s life and history. It could very well be that in the meantime that lan-
guage has become a dialect spoken only by a few surviving elders who have no clue how to say “i-pod” or “broad band”. Yet it would
be a serious mistake labelling it as a “dialect”. It is still capable of conveying the history of its people better than any other language.
So, it is not true at all that Tuscans speak Italian better than any other regional people in Italy. Tuscans speak particularly
well not Italian, but Tuscan and, of all existing varieties of Tuscan, the one from their city or village. In short, the smaller the
territory, the apter and more specific its lexicon. So, to “speak well” requires first and foremost a language perfectly in sync with
its own history, which in turn creates a superior semantic aptness and a much broader idiomatic gamut.
Languages and words without history do not aim at superior semantic aptness. Instead they carry out tasks, just like Intelli-
gent English does. The predicament arises when people are asked (or compelled) to stop speaking ordinary English and write or speak
only computer’s English to streamline documents’ processing. Thus Intelligent English takes over not just at work, but elsewhere
too, entering classrooms in schools and universities, homes and people’s minds, slowly doing away with ordinary speech. The situation
becomes truly alarming when the only language left is Intelligent English or Intelligent-any-other-language and individuals are
deprived not only of their ancestral grounds, but even of their national languages, as generic as they might already be.
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
This is fairly much what is taking place nowadays, albeit almost imperceptibly. It is the language of illiterates and simple-
tons taking the upper end and not that of the learned and of creative minds. Linguistic osmosis has been turned upside down and
little by little we are sliding toward innuendos (“you know, you know what I mean …”) and aphasia.
The final tragedy is twofold: the first stage is reached when entire populations are more or less compelled to stop speaking regional
and ancestral languages in order to speak only national or global ones; the second is attained when the latter languages are formatted
to fulfill the requirements of interfacing from hamlet to megalopolis, from man to machine. It is a tragedy because they turn unique individuals into interchangeable dupes. This suits multiethnic societies and industrialised countries. It hardly suits Man himself.
***
This ushers in yet another topic in favour of the special aptness of minority languages. It deals with the possibility of adapt-
ing human language to entirely new and different environments, professions or ways of life with no connection whatsoever with those
of one’s neighbours or forefathers. Indeed no one is “born” a sailor or a highlander, yet any people in case of need may become quite
apt at surviving in a new environment in the lapse of one, perhaps two generations. The language of any people in such dire
straights may derive from its basic ancestral treasury an indefinite number of new semantic fields. There are no limits and no need
for cross-fertilisation. It can be achieved without moulds or loans from other languages.
Recording an ancestral language will provide yet one more confirmation to this tremendous potential, i.e. the possibility of going
on enlarging any language’s vocabulary, embedding each subsequent life experience in its lexicon.
It is groundless to think ancestral languages cannot adapt to new geographic surroundings or latter times. They can very well
do both, preserving their already acquired historical heritage and adding new layers to it. The difference is in the usage one makes
of languages: global languages exact the scuttling of all that is no longer updated, ancestral languages use the old vocabulary as
the basis for any new meaning. For the former “old” is “dead”, for the latter “old” is the sap of life: the new stems from it.
As a writer of dictionaries I may rejoice in having given a small community a dictionary 40,000 words strong. They might
put it to use or ignore it altogether. Yet my true goal was handing the scientific community a thorough research tool. It joins those
already made available by other language revivalists. Altogether they will yield a reasonably complete framework of human expe-
rience over time. Last but not the least, it may provide politicians a valid argument to prove an ancestral language’s wealth and a
good reason to legislate to save its life.
***
If one wishes to see how languages die all one has to do is to take notice of what happened to the languages of immigrants
to North America or to Australia.
Usually the first generation of immigrants takes the pain to teach their ancestral language to their children. The second gen-
eration teaches it – if at all – to the third, but dramatically less. As things go, an ancestral language on foreign soil will not get
through to the third generation. Yet Italian dying out in a small community in Australia or in South America is not a dead lan-
guage. It is still the national language in its country of origin, a very well documented language with a splendid literary lore. It
happens to be as well a prestigious language abroad, where it is taught in all major universities. If instead a minority language
dies without any documentation it has no second chance or second country: it is dead everywhere.
The instance of Italian abroad (or Greek, or Chinese, or Portuguese, etc.) proves that if attending social, cultural, political
or economic conditions do not contribute to it, a language dies out. It may stay alive within academic and cultural circles, but not
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Sergio Maria Gilardino
out in the open. This is a blueprint against which one can predict the fate of many ancestral languages with no other mother-country than the small village in which they are still spoken.
Let us then be matter of fact. Our first priority is not teaching, but recording languages by means of a thorough process
of registration. A process which is philologically irreproachable, didactically useful, self-explanatory for scholars and self-taught peo-
ple, precious for the international community.
***
When we state teaching takes second place we do not at all mean it should be sidelined or given up altogether. Quite the op-
posite, teaching is the main beneficiary of any recording operation. As far as teaching Titzschu goes, the experience in the two-year
period 2004-2006 has confirmed that foreign-language graduates, keenly interested in minority languages, may in a brief lapse of
time master the lexical and morphosyntactic features of a given language provided they are handed the right tools (dictionaries and
grammars) and the essential notions.
This is indeed refreshing. The declension of articles, nouns, pronouns, adjectives, the conjugation of verbs, the proper under-
standing of syntax, are all notions which can be illustrated, exemplified, taught and duplicated. And plenty of ancestral words
along with them, of course. Yet they cannot be acquired by adults without an adequate philological support.
In no way adults learn languages the way children do. An adult learning a few sentences without being able to morphologi-
cally or syntactically break them down has learned but a long and complicated word. The day he forgets it is the day the meagre
usefulness of the course he attended comes to nil.
Adults require morphosyntactic notions learned on the side, as a prop in learning any language. Notions like know-
ing what is a genitive, a dative, an accusative, what is an enclitic or a proclitic pronoun, what is a perfective or an imperfective verb
may be extrapolated from any language which has these features, and applied to any other language. One cannot take these notions
for granted, nor should they be left behind the words of a language taught as a lullaby. They must become the object of teachings
and drills on the side, even if the current North-American philosophy about teaching and learning a second language may not quite
agree with these methods.
The slipshod attitude with which declensed languages are taught in the hope adults will glean on their own rules and ex-
ceptions and then apply them to concrete cases is simply pathetic. Outcomes go from farce to futility.
For those who instead believe the teaching of morphosyntactic features is a far more serious matter the obvious answer is philo-
logical tools.
To be sure, grammars may also be introduced as manuals with various mixes of practical and oral exercises to suit the
pupils’ age, expectations and previous linguistic background.
Yet the revitalisation experience in Valsesia proves that if we succeed in teaching well trained adults the fundamental fea-
tures of a language (phonetics, morphology, syntax), we have perpetuated the knowledge of that language. It will live on.
***
The other target is not language itself, but the turn of mind which precedes, accompanies and follows the decision to learn a
language.
Deciding to learn another language may mean two very different things: opening up to the world or shutting up to it altogether.
In the first instance one will learn a global language, in the second an ancestral one.
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
A global language, as its name suggests, is a language spoken by hundreds of millions of people around the globe. It is a
lingua franca and it could become a planetary language. It has no shortcomings when it comes to word choice. It conveys any-
thing to anyone everywhere.
An ancestral language is an hereditary tongue proper to a small group of speakers making a local and limited use of it. It has
a modest vocabulary. It conveys only some kind of information to some body within a limited areas and it does so only for a limited number of activities. Such a language would face major difficulties if confronted with modern scientific progress. It conveys something to
someone somewhere.
Global languages acquire new speakers and new words every day. Ancestral languages lose speakers and see their vocabulary
shrink because they have no words for contemporary contrivances and situations. Never before was the evangelical he who has
shall be given even more proven right as in this instance. Nowadays either one grows and disappears.
By learning a new language one gains access to information pouring in from millions of individuals and from the most di-
verse sources. Thanks to such a language one can send long and short messages to as many potential recipients in very vast areas
or even worldwide. The decision to learn such a language may be spontaneous or mandatory, but in either case it is tantamount to
opening up to the world.
By learning an ancestral language one gains access to information coming from very few individuals, from almost exclusively
oral sources, and one can send long or short messages only to a few recipients on very narrow areas, when not just to one village or
tribe. The decision to learn such a language may be spontaneous or – very rarely nowadays – mandatory (created by a survival
need), but in any case it is tantamount to closing up to the world.
***
Why then, would one rightfully ask, go to such troubles to shut himself from the world when with the same
effort one could open up to it?
There is a paradox behind all of this.
He who makes use of a global language, which boasts a vocabulary of some four hundred thousand words, makes as a rule
a very limited and very sectarian use of it, using almost exclusively those words which pertain to his own field of spe-
cialisation, while he who uses an ancestral language, which hardly offers 30,000 words, uses the majority of them all the time
in a highly idiomatic context.
The outcome is that a guzla player and story-teller in Mostar, former Yugoslavia, a puppet story-teller in Racalmuto, Sicily,
or a Walser story-teller in Alagna, Piedmont, use a much richer language than a stock broker in Tokyo, an air controller in Seat-
tle or a volcanologist in Reykjavik. Ancestral speakers may be closed to the world, but they are far more open to human experience.
It follows that professional life is virtually impossible without a global language, individual life is extremely
poor without an ancestral language.
It is quite possible, incidentally, to make a professional and an ancestral use of one and the same tongue. Yet there are many limi-
tations, so that English – to make a rather obvious example – very seldom turns out to be an ancestral language for those who learned
it in their adult lives. This is by no means due to the fact adults cannot learn an ancestral language and draw the benefits one always gets
from these languages, but because the brand of English one learns in schools, in universities and in international milieus does not have
the bearings of an ancestral language and, at any rate, it is not taught or used as such.
It so happens that even those who sucked English with the milk of their mothers often must give up any idiomatic mastery
of their mother tongue – when on the job – not to shut out millions of other speakers who manage to use it only as a global lan-
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Sergio Maria Gilardino
guage. To be sure, English has long ceased to be the property of Englishmen only. Its international outline is as much the outcome
of its use in Kuala Lampour as it is of its use in a telephone conversation between Milan and Reykjavik: whatever these non-na-
tive speakers make of it will determine its final, global purport. Thus global languages fall victims to their own universality. If ever
one day there is an interplanetary language, the word “planet earth” will be barred from it not to leave in the dark the speakers
who have no clue what our whirligig spinning around the sun is.
***
What does one look for, once he has acquired the skill to speak a tongue other than his own?
Simple enough, getting across with whomever speaks his newly acquired language. So what matters nowadays when learning
a foreign tongue is not the language per se, but getting the message across.
It was not so when learning classical Greek or Latin. Here one did not care in the least for communication, but looked
forward to shaping his mind.
This has been fairly recently exemplified in the shift from French to English as the main foreign language in school curricula
throughout Europe and the world. Along with French one also learned civilisation française, French civilisation. With Eng-
lish one does not acquire any civilisation, although there would be a great deal to learn about democracy’s milestones. When
learning English one learns a language, the most common and widespread kind there is, possibly the North-American brand. The
fact it cannot provide any help either as a syntactic model nor as a stylistic support matters next to nothing. So in schools too they
have shifted from formation, or mind shaping, to hard-fact communication, or getting the message across.
Communication raises a question: communicating what?
If we sideline formation, we will have fewer personal, and more technical messages to get across. We will have less to talk
about on anything. Well, enabling everybody to communicate with everybody else and end up with having next to nothing to say
appears to be our times’ syndrome.
Be as it may, if we are students, or scientists, or traders, or business people, or technicians, whenever we communicate we do
so because we want to know something others know and we do not (or the other way around).
Communicating sums up the history of mankind. It is the opposite of violence.
Communicating with whom?
It is at this juncture global and ancestral languages go their separate ways.
When by virtue of a global language we can get across with everybody, or just about, indeed we aim at a practical result: our
goal is not the individual supplying us the information (whom we cannot see because most of the time we speak long distance or
communicate via internet). The individual at the opposite end of the communication line is second in line. He is but an instru-
ment, he is incidental. Either he or anybody else: the first who supplies us the needed information fulfills our quest. Our goal has
been reached.
In such an exchange we do not modify our way of thinking, feeling, or looking at things. We remain who we were, with
one piece of information added to our knowledge. That piece of information is needed to sell something, or not to miss
a plane, or to submit a bid before expiry date, or to avoid duplicating experiments already carried out elsewhere, or to abstain from
stepping on grounds strewn with anti-personnel mines, and so on.
Furthermore, by learning a global language we do not give up ours, we do not forgo its idiomatic expressions, its cultural unique-
ness. As long as we have a country to go back to, that is. We put on hold the moment when we can go back to being “what we nor-
mally are”, back to our small world, to resume speaking our very own language. We do not expect a global language to either add or
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
take away anything from our “real” world. We just want it to supply us the means to solve whatever communication problems we encounter when we happen to be outside our own regional communication range.
The truth of the matter is that even our own language, the one we speak inside our homes and with friends, that which brings
us t.v. shows, soccer games, the one we know how to wield to crack jokes with, is in reality two different languages. One is a con-
veying language and the other an ancestral one, except that we very seldom are aware of when we use it as a tool or, conversely,
when we use it as an identity provider.
We become aware of this difference when we speak a global language and, haphazardly, we strike a conversation on per-
sonal matters with a fellow traveller sitting next to us in a plane. Then we become suddenly aware of the fact that the otherwise
loose and comfortable jargon we normally make use of in our business meetings yields to a wanting, wavering, uncertain language way below the sparkling choice of words we would have at our disposal were we to speak our ancestral language. We also
become sharply aware of the fact that the English we understood so well becomes far less understandable when a New Zealander, or a Texan, or a South African loosely chat about their regional realities, freely making use of their regional accents and
idioms. That is, when they use English as an ancestral language.
***
From a linguistic point of view, what does it truly occur when around the world we encounter more and more individuals who
have a global language as their only tongue and cannot use it any other way but with the limited vocabulary afforded them by their
professions? What happens when around the world fewer and fewer people can benefit from the psychological and cultural benefits
of an ancestral language?
Nowadays there are 200 million migrants or displaced persons any time around the globe. Sooner or later they find a host
country. Most of them cannot go back whence they came from because their homelands no longer exist or because they would be in
danger of losing their lives. Little by little they replace their ancestral languages, totally useless in their new surroundings, with a
language learned only as a conveying language.
This then happens to be the dismal shortcoming of conveying languages, even when they happen to be global languages. We use it only
to a limited extent, for information purposes, with limited word ranges and monodic registers. The additional drawback is that we tend
more and more to replace ancestral tongues with global languages, even when not strictly necessary, and in so doing we believe we are getting
culturally richer, whereas we are relinquishing whatever residual linguistic wealth we still possessed.
The outcome is the inception of a three-layer linguistic landscape.
We have an upper layer in which a language is exclusively used as a technical or professional conveyer. It is the case of Eng-
lish in its international setting.
A middle layer, in which a national language turns out to be an admixture of technical and idiomatic jargons. It is Mr.
Rossi’s Italian. He speaks it on the job and at home.
A lower layer, in which a language is exclusively used as a dialect and thus only for local and highly idiomatic purposes.
More and more people are being cut off from the two lower layers.
Professional needs push people everywhere to adopt a global language but, because of this, they feel more and more the urgent need to
appropriate an ancestral language to make up for loss of individuality.
Strange as it may seem, the languages truly at risk are not the upper or lower layer languages, but those in the middle. This does not
mean languages like Italian, French or German will disappear, but that more and more Italians, French and Germans will have to use
English in order to make a living; at the same time, they will feel the need for a regional language to make up for identity deprivation.
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Sergio Maria Gilardino
Hence the keen interest recently shown everywhere for ancestral and regional languages and the good reasons behind some-
body’s decision to study or to record them.
***
And here comes the first and most startling realisation: more people speak a language and less and less idiomatic
it can afford to be.
On planet earth we will soon speak a depersonalised and compact jargon to get across with everybody on everything. There
is no way out of this, because in a global village situation you either communicate or you are excommunicated. How many will
retain the privilege to speak an ancestral language as well and someone to speak it with? And, above all, how many will retain the
awareness that intelligent English is not a language and that in no way its technical expediency may make up for the ancestral
blessings which real languages have thus far generously bestowed on us?
Funny and inexplicable as it might appear, this is where and when we find a learned Mr. or Mrs. somebody, quite comfort-
able in a well paid profession, brilliantly speaking a national language, fluently using a global language, reading one, perhaps two
foreign literary languages and who, in spite of all of this linguistic wealth, feels the need for a very local, deeply histori-
cal, strictly personal tongue which enables him or her to go go back to his or her roots, to connect with a world which is not
that of professional briefings or of the latest financial news.
In this instance what is needed is not a language devoid of regional limitations, but – quite the opposite – a language where
every word is past, tradition, customs, unique ways of life. What is at stake is one’s desire to be someone apart from billions of
other humans in skyscrapers, airports and megalopolis, it is about one’s own longing for an ancestral group, a village somewhere, a
heritage available only to those who can utter the wondrous words of yonder days.
One does not usually come to sense this urge in one’s teens, when all one wishes is to break away and trod the thoroughfares
of this wide world. It’s a longing one senses when it is time to return.
An ancestral language allows one to preserve and find lost traditions, customs, traditional dishes, savours, village feasts, in
short, a way of life which distinguishes us from all the others and steeps us in a world exquisitely our own.
Let us stress it: even if one was not born into that world it is possible to tap ancestral values all the same. Adoption is wel-
come and easy.
Ancestrality is therefore a dimension, not an exclusiveness. A transvaluation of values takes place here: ancestrality
becomes universality, that is a dimension open to everyone, bestowing its fascination and its therapeutic virtues on all, no mat-
ter what is the breed, the race, the country or nationality of origin. It redresses also the original value of language itself: once upon
a time all languages were ancestral. Reconquering an ancestral language does not amount to appropriating some awkward di-
alect, but reclaiming Language itself, as it has always been, as it should always be.
This is the juncture where our learned professionals might indeed decide that after English, French or Spanish he or she will not
go on and learn Arabic, Japanese or Chinese, but Provençal, Titzschu, Piedmontese or Mochen, because what is desired is not yet another language-tool, but a language-identity.
A second overturning of values and perspectives takes place: dialects, which were the languages of the illiterate masses, have
of late become elite languages, the languages of the happy few.
Nowadays to speak well and fluently Piedmontese, possibly with a Turin-like pronunciation, is no longer an illiterate-like
stance, but a refined assertion which populace and masses are no longer capable of, although they were born and raised in Piedmont.
Taking English classes instead has become an obligation for lower-class citizens, a task they have to carry out to get in line with their
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NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
company’s requirements, pretty much like fifty years ago one had to learn book-keeping or short hand.
Paradoxically enough, languages have become dialects and dialects have turned into languages or, to be more exact, languages
are spoken as if they were dialects and one has come to expect from dialects what once was demanded of the most prestigious lit-
erary languages.
In this battle for the survival of ancestral languages one must factor in this quest for ancestral values and the elite’s need to
regain some kind of identity. One detects here a social trend which, when properly harnessed, could supply enough momentum to
keep alive and kicking languages already listed for extinction.
The ancestral quest is the same force driving salmons back to their spawning grounds. They make their way forcefully back
to were they were born, to puddles a few inches deep after having swum for years in the fathomless depths of oceans. Those who mi-
grate feel at one time or another the need to return. You may rest assured they will do so and that translates into a desire to re-
learn their own ancestral language or learn an ancestral language, as long as it is history-scented.
***
No matter how much we strive, Provençal, Piedmontese, Walser, and so on, will never ever be mass-languages again. They will live
on – if live they will – as minority languages, as the languages of elites.
If they become elite languages they must be endowed with new words, with words used not just for ancestral, but also for lit-
erary purposes. Elites, after all, are those who can still read and write and do it with a delightful twist to it.
This is the stumbling stone on which ancestral languages might run aground, using them for purposes they were never meant.
Let’s be clear. By “literary purposes” we do not necessarily mean the use William Butler Yeats would have made of words in
poetry or James Joyce in prose, but rather using an ancestral language to narrate tales, short stories, legends and fables. It amounts to
going from oral to written literature preserving the pristine features of an ancestral language. Neology must not trespass these bound-
aries. One does not expect to be supplied with words to translate “willows whiten, aspens quiver”, but merely enough to get some leeway within the hallowed confines of Titzschu, Piedmontese, Algonquin, etc.
What does this really mean?
Efforts deployed by language revivalists must be in line with the expectations of the elites as much at least as with those of
the masses which, of late, are far more engaged with global than with ancestral languages. Philologists and revivalists must pre-
pare their strategies bearing in mind these trends. They must analyse them with the same painstaking care with which they previ-
ously analysed linguistic phenomena.
***
What has thus far been done from a sociolinguistic point of view to assess and define these new elites?
Very little.
As it is, ancestral language teachers continue teaching minority languages at a local level, oftentimes in isolated communities,
far from urban centres and hard to reach. Slight dialectal differences in pronunciation are magnified a hundredfold, preventing the
birth of compromise koines which could attract larger classes. They keep on giving preference to teaching methods based on child
didactics and on repetitiousness. They go on teaching without reliable working tools. They keep using a lexicon fit for shepherds
and chestnut gatherers but hardly for those who would like to take a stroll in the twenty-first century.
If I were to dress up a list of priorities I would slim it down up to four points:
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Sergio Maria Gilardino
• first, awaken high school and university students to the priceless value of ancestral languages and to their compatibility with
learning any other major foreign tongue(s). It is from these audiences one recruits gifted and properly trained adepts. Lec-
tures should highlight no particular ancestral language, but the intrinsic value of ancestral languages in general.
• Second, make teachers and parents aware of the value of ancestral languages to gain them over: if not as allies, at least
not as enemies. The main hurdle in schools is made up of teachers’ and parents’ prejudices against “dialects”. They firmly
believe that learning a dialect or an ancestral language will jeopardise their pupils’ and children’s chances of learning English or speaking Italian properly.
• Third, structure one’s teachings in such a way as to make those who learn from you keep on improving what you taught
them. One does not really “teach” others, but rather teach others how to teach themselves and makes sure by frequent drills
that such is indeed the case.
• Fourth, concentrate whatever financial resources, subsidies, means and contacts with language informants on one goal only,
that of thoroughly recording a language. Make contact with those who have already gone through that process to learn from
them how they went about it and with university departments where young language trainees might come from: they will help
in documenting a tongue, even if they must learn a new language from scraps.
Bear in mind at all times cooperation among scholars and language informants yields the much needed conservation tools. And
where a language has been properly documented the danger of it vanishing for good is defeated.
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CREARE GLI ATTREZZI DI CONSERVAZIONE E DI LAVORO:
IL DIZIONARIO
Gianfranco Gribaudo
L’amico Gilardino mi ha tirato in ballo, a più riprese, con degli appellativi che certamente mi onorano, ma non corrispondono alla realtà della mia preparazione scientifica.
Io sono un modesto dilettante che nella vita ha fatto tutt’altro che il filologo. Ho
fatto il dizionarista un po’ per caso ma, più che altro, per passione, ed è questo che
volevo sottolineare condividendo la posizione del prof. Favre.
La scientificità, certo, è importante, ed è riservata a pochi. In una visione sarcosiana,
se possiamo usare la terminologia. Io vorrei riservare qualcosa anche per la racaille1. Cosa
riserviamo alla racaille se tutto sommato continuiamo a studiare, fra di noi, anzi direi fra
di voi, perché io tendo ad estraniarmi un poco da questa coltre di begli ingegni.
Che cosa riserviamo? Noi abbiamo anche un dovere, diciamo etico, di fare il
possibile con tutta la base scientifica che possiamo procurarci, e che ci siamo già procurata, e che affineremo anche in futuro.
Ma che cosa facciamo adesso perché ci sia una speranza di continuità? Non una
continuità ad æternum, perché nelle cose umane l’eternità è difficile da raggiungere, ma
per lo meno che si possa continuare una battaglia eventualmente morendo in piedi.
Io mi sono messo a fare il dizionario2 avendo, per mestiere, tutt’altro che la
scienza delle lingue. C’era anche la pratica delle lingue ma, essendo laureato in scienze
politiche e avendo fatto il funzionario internazionale tutta la mia vita, non necessariamente questo mi avrebbe condotto a delle operazioni di quel genere, non dico
qualitativamente, ma quantitativamente: un dizionario di mille pagine che ho iniziato
in età giovanile. Avevo 27 anni quando l’ho cominciato, e la prima edizione l’ho terminata che ne avevo 41, quindi ho impegnato 14 anni a ore perse, come si dice in piemontese, lavorando alla sera, lavorando il mattino, lavorando sui treni, anche un po’
sugli aerei, perché era un periodo in cui viaggiavo molto, portandomi dietro cassette
usate, di scarto e piene di schede fatte a mano, perché a quei tempi non si usava certo
1 Canaglia, plebaglia in francese [Nota del curatore].
2 Gianfranco Gribaudo, Ël neuv Gribàud, Dissionari piemontèis, Torino, Daniela Piazza Editore, 1996. È il dizionario piemontese-italiano più completo e più aggiornato al momento attuale, con diverse delucidazioni etimologiche, riferimenti ad altre lingue e raggruppamenti semantici sotto ad un unico lemma. È strumento
indispensabile di lavoro per quanti si occupano di lingua e di letteratura piemontese.
63
Gianfranco Gribaudo
il computer e anche se si fosse usato forse io non sarei stato capace di usarlo, come
non sono capace di usarlo adesso.
Quindi l’ho fatto per passione. L’ho fatto perché sentivo che avevo un dovere
verso i miei figli, che nel frattempo stavano nascendo, e verso i genitori che nel frattempo stavano morendo, per tramandare un patrimonio.
Voi mi direte: “È una passione. C’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha”. Effettivamente
c’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. È una passione che non sempre è accompagnata dalla
competenza scientifica.
Poco per volta ho avuto la fortuna, nelle mie fermate a Torino, che cercavo di rendere tanto frequenti quanto possibile, di incontrarmi con alcuni circoli piemontesisti,
letterati, poeti, il famoso Camillo Brero, il prof. Renzo Gandolfo, il prof. Amedeo Clivio e il figlio prof. Gianrenzo Clivio. Già nel 1966-67, io avevo 32 in quel momento, ci
riunivamo, mi incoraggiavano dall’alto dei loro – diciamo – “traguardi” già raggiunti e
mi hanno incoraggiato ad andare avanti in questa fatica che è durata 14 anni, per la prima
edizione, poi altri 10 anni per la seconda edizione ed altri 10 anni per la terza edizione e
adesso non dico che ci sia una quarta edizione in preparazione, perché non troverò mai
più un editore che si metta a fare un’impresa del genere, ma per lo meno lascerò a qualcuno una copia di quel dizionario con 10.000 aggiunte, correzioni, eccetera, eccetera.
Perché si fa questo? Dicevo si fa per passione e questa passione, secondo me,
abbiamo il dovere di diffonderla.
Come si diffondono le passioni? Bisognerebbe chiedere, non so, a Carlo Marx
come si diffondono le passioni. Io mantengo, dico per scherzo, quel tipo di manifesto: “Noi piemontesi”, ma forse questo vale anche per altre lingue.
Abbiamo la necessità di far passare alle masse, la famosa racaille, nella quale io
credo comunque, indipendentemente dalle ideologie politiche, di fare passare il messaggio e di fare capire perché è importante conservare, perché è importante tramandare, perché è importante, eventualmente, studiare e perché lo studio di queste
nostre lingue povere e tagliate non mina alla base lo studio delle lingue nazionali e
delle lingue internazionali di comunicazione. Si può conoscere benissimo il piemontese, il mocheno, il cimbro, il franco-provenzale, e, allo stesso tempo, conoscere il
russo, il cinese. Ci sono dei meccanismi glottologici e psicologici alla base di questi
apprendimenti che io non so descrivere compiutamente. Mi pare che questo sia,
non dico il segreto, perché sarebbe troppo facile pensare di detenere un segreto,
ma questo sia il messaggio che dobbiamo coltivare, che dobbiamo far passare.
Un piemontese alla sua facoltà, Scienze della Formazione, io ho l’onore di dare
un corso di laboratorio piemontese con la prof.ssa Rosso-Sebastiano. Mi sono divertito in questi tre anni in cui ho fatto questo mestierino di 20 ore, una piccola
cosa, perché ci sono 200, anzi 193, iscritti, 189 ragazze, mediamente carine, e 4 ragazzi. Mi direte che certo non vengono per me, vengono per prendere delle firme,
sicuramente, però l’altro giorno abbiamo fatto un dettato finale e ho avuto la sod64
CREARE GLI ATTREZZI DI CONSERVAZIONE E DI LAVORO: IL DIZIONARIO
disfazione di vedere, pur senza correggerli tutti (193), che dopo 20 ore queste ragazze, questi ragazzi, tutto sommato, si sono messi sulla buona strada per scrivere
il piemontese. Lei mi dirà “quando mai continueranno a scrivere il piemontese”,
che importanza può avere che scrivano il piemontese? Ma solamente come manifestazione di interesse da parte di questi signori qui, di queste signorine qui, il fatto
che siano state mediamente frequenti, circa attorno al 70%, e che alla fine abbiamo
prodotto un dettato il cui voto medio, così a occhio, potrebbe essere del 6,5-7, ma
per persone che non avevano mai visto, conosciuto il piemontese e che forse continueranno a vederlo abbastanza poco, perché le mie esortazioni a comprare la grammatica piemontese, non dico il dizionario, perché non faccio réclame per le mie
produzioni, ma anche il librettino che è uscito e mi sembra molto degno di attenzione, l’Assimil in piemontese, è un segno di attenzione anche da parte di un certo
mondo dell’editoria per questa lingua. Il fatto che abbiano scritto e continuino a
non comprare, a non dimostrare interesse, dimostra una certa divaricazione.
Secondo me abbiamo il dovere di continuare a batterci perché queste persone
che in teoria, in futuro, dovrebbero insegnare piemontese nelle scuole, se mai questo avverrà, possano considerarsi con una certa fierezza portatrici di un messaggio
che è altrettanto divertente, forse più divertente, forse più importante dei messaggi
della omologazione che vengono proposti loro dalle televisioni.
Ho avuto soddisfazione in campo internazionale nel vedere quanto sia apprezzato, forse più che in Italia, lo sforzo che si fa in questo senso. Frequentando ambienti, diciamo, di organizzazioni internazionali, Nazioni Unite, Unesco, eccetera, ho
visto che l’apprezzamento della diversità, l’apprezzamento della varietà culturale,
intellettuale è molto più forte di quanto sia nell’ambiente nazionale nostro, dove
forse per abbondanza d’ignoranza la diversità è conculcata.
IN BREVE
Come può venire in mente di compilare durante quattordici anni, in ore libere, un dizionario
piemontese, ad un dilettante digiuno di scienze linguistiche sebbene ricco di interesse, curiosità e
amore per tutte le lingue, e dunque anche “in primis” per la propria?
• Per assicurare la trasmissione fra generazioni, specie in un periodo (anni 60)
in cui iniziavano a vacillare le certezze del passato;
• come segno forte di identità personale a titolo di contrappeso alla cultura “internazionale”, “cosmopolita” che caratterizzava l’ambiente di lavoro;
• dunque il “local” a fianco (non in opposizione) al “global”. Termini e nozioni
a quel tempo ancora oscure. Precorritore di “glocal”, il culto della propria identità nel rispetto di tutte le altre, e con la curiosità non solo intellettuale ma
umana per esse.
Necessità urgente di un “messaggio” (un “Manifesto”) che, emesso dalla ristretta cerchia di
addetti ai lavori, spieghi alla “gente” in termini semplici e chiari questi valori culturali fondamen65
Gianfranco Gribaudo
tali, anche e non solo nei loro aspetti linguistici, e risponda agli interrogativi che molti si pongono.
Non avendo risposte forti e convincenti, si abbandonano al lassismo e alla superficialità.
Dunque:
• Se: sia da coltivare l’identità linguistica.
• Come: proponendo un ampio ventaglio di metodi adattabili alle singole comunità (non ci può essere una ricetta universale).
• Perché: chiarendo i vantaggi dell’individuo e della comunità, e il valore etico
di questa politica.
• Che cosa: individuando gli obiettivi fondamentali della trasmissione (leggere,
scrivere, parlare, ricercare).
***
CREATING WORKING AND CONSERVATION TOOLS: THE DICTIONARY
Gianfranco Gribaudo
How can it pop up in one’s mind to create a Piedmontese dictionary over 14 years, using every minute of
spare time, starting from scrap and no linguistic background? I did so:
• to ensure a smooth passing of the torch from generation to generaion, especially at a time – the Sixties – when certainties
about the past were beginning to waiver and wane;
• as a token of an outspoken personal identity as opposed to “international”, “cosmopolitan” culture which permeated my
working environment;
• so, matching “local” with – rather than pitching it against – “global”. Words and notions still unknown then, forerunners
of “glocal”, which came to signify a reverence for one’s own identity whilst fully respecting that of others and a curiosity,
both human and intellectual, for them.
Urgent need for a message, if not a candid declaration, coming from the narrow circle of insiders and ex-
plaining to the general public in as simple and clear-cut a way what these fundamental cultural values were, lin-
guistically and otherwise. It meant also dealing with the many questions they raised. Too many let themselves
go or gave evasive and superficial answers for lack of strong and convincing arguments.
So:
I f : linguistic idendity is to be pursued;
H o w : putting forward a wide array of means and ways which one could adapt to each individual community’s needs (there
cannot be any cure-all recepie);
W h y : clearly stating the advantages issuing therefrom to both individuals and communities and the ethical value of this policy;
W h a t : singling out the fundamental goals of this handing over (reading, writing, speaking and researching skills).
66
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE:
OBIEZIONI IN ORDINE ALLA IRREVERSIBILITÀ DEL FENOMENO
ED ORIENTAMENTI PER UNA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA
STRATEGICA PER LE MINORANZE
Monica Pedrazza
„Die Sprache ist das bildende Organ des Denkens,…
nicht nur ein Weltbild, sondern eine Weltansicht…”
(Humboldt)
“perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi,
ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo”
(Alessandro Baricco, 2006)
PREMESSA
Le riflessioni che seguiranno sono, in parte, già state oggetto di riflessioni in alcune mie pubblicazioni, ne parlerò nuovamente per tre motivi:
• in primo luogo la ricerca che feci a Luserna, Giazza ed in Val del Fersina, risale
ad periodo di tempo a cavallo tra la fine degli anni ottanta ed i primi anni novanta, in cui in queste comunità risiedeva ancora (e mi riferisco soprattutto a
Giazza ed a Luserna) un buon numero di giovani adulti tra i quindici ed i venticinque anni, che conosceva e parlava correntemente la lingua locale. Potei
quindi trovare un campione che venne suddiviso tra popolazione giovane, adulta
e popolazione anziana, in quel tempo ancora molto ben rappresentata per la fascia dai 60 anni in su. In particolare intervistai nell’arco di un paio di anni, nelle
tre comunità un campione di 234 persone, non poche se si pensa che per Luserna e per Giazza intervistai un terzo dei residenti (93 su 369 per la prima e 63
su 213 per la seconda comunità), per quel che riguarda la valle del Fersina potei
sentire 78 parlanti su 265 residenti.
• Non mi è più stato possibile replicare la medesima ricerca in riferimento ad altri
concetti regolatori del senso di appartenenza alla comunità, come avrei voluto
ed in realtà anche progettato, per la impossibilità di reperire parlanti, che non
sono in realtà del tutto scomparsi, ma che non sono più reperibili in termini di
campione rappresentativo della popolazione rispetto a tutte le fasce di età. Le
fasce di età considerate nella ricerca furono tre: la prima dai 15 ai 25, la seconda
dai 25 ai 55 e l’ultima dai 55 anni in su. Ogni gruppo costituito per età, per
67
Monica Pedrazza
•
ognuna delle tre comunità rappresentava non meno del 30% circa del totale
degli intervistati.
Infine ritengo che i risultati della ricerca di allora abbiano costituito la motivazione al perfezionamento del progetto culturale di rivitalizzazione del cimbro che
sto sviluppando come Presidente del Comitato Scientifico del Kulturinstitut di
Luserna che si ispira al concetto di reversing language shift di Fishman (1991), configurandosi come contributo potenziale al superamento di alcune delle dislocazioni socioculturali della modernità.
LA CONSERVAZIONE DELLA LINGUA ED IL PUNTO DI VISTA DELLA PSICOLOGIA
DELLO SVILUPPO E COGNITIVA
J. Piaget e la sua collaboratrice Inhelder, psicologi dello sviluppo, avevano già sostenuto nel loro testo dedicato a La rappresentazione dello spazio nel bambino che la territorialità umana ha a che fare con la sopravvivenza, né più né meno della parola. Si
tratta di una sopravvivenza sociale e culturale oltre che fisica ed ha a che fare con
l’apprendimento e con la cognizione. Gli AA. sottolineano come il processo di ambientamento e di presa di possesso dello spazio di appartenenza si ripeta costantemente nella vita di ogni giorno con una scoperta che ha inizio nei primissimi giorni
di vita e che determina la capacità dell’individuo di rappresentarsi lo spazio esterno,
ma anche di costruire uno spazio interno che faccia da mappa per le future acquisizioni. Se tale processo non si completa sorgono problemi nella capacità di lateralizzazione, di ubicazione degli oggetti e del proprio corpo e in genere nell’orientamento
del reale. La rilevanza delle immagini interne sicure e stabili, dai precisi connotati, e
dalla loro costanza ed invarianza nel tempo è stata da tempo rilevata dagli psicologi
dello sviluppo (da Bowlby alla Ainsworth, da Arno Gruen ad Alice Miller) quale
fonte imprescindibile di autostima, quale fattore di prevenzione del rischio di patologia psichiatrica ed infine quale base per un buon sviluppo delle competenze che
regolano la socializzazione.
Quindi, la capacità dell’individuo di percepire ed organizzare da un punto di
vista cognitivo ed affettivo le proprie esperienze di orientamento nello spazio fisico
e sociale sono fondamentali per la costruzione della conoscenza che avrà di sé stesso
e dell’altro da sé, nonché per regolare in modo equilibrato le future relazioni ed interazioni che il soggetto intratterrà con l’ambiente. La psicologia sociale ed in particolare il costruttivismo di Gergen e poi la psicologia culturale da Cole con i suoi
studi sugli artefatti alla Suchman e le sue riflessioni sulla natura degli atteggiamenti
e sulla costruzione dell’azione, e ancora le riflessioni di Mantovani sulla natura del
pregiudizio, non più visto come errore della mente o come bias di natura affettiva
o cognitiva, ma come l’unico modo che l’essere umano conosce di percepire selettivamente e di organizzare i dati della realtà, ci hanno permesso di evidenziare la natura culturale di alcuni processi psicologici. Risulta evidente la natura sociale,
68
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
cognitiva ed affettiva dell’apprendimento stesso, che prima nella relazione madre-bambino e poi nelle successive relazioni avviene in modo equilibrato e funzionale ad un
buon adattamento sociale dell’individuo solo se tiene conto seriamente della necessità
dell’uomo alla sistematizzazione e categorizzazione della realtà, ma in modo non disgiunto dalla esperienza affettiva ad ogni apprendimento associata. La Bercheid arriva
a sostenere che non esiste apprendimento senza coinvolgimento emotivo.
LA MAPPA DEL TERRITORIO DI APPARTENENZA
Dalla mia formazione psico-sociale avevo imparato ad apprezzare il modo in
cui artefatti umani1 quali le lingue possono incorporare la logica culturale inscritta
nei sistemi di significazione e nelle procedure di comunicazione2. Ma dove trovare
questi significati, dove rintracciare quella causalità circolare che scandisce la relazione tra il singolo e gruppo più volte sottolineata da Mead, da Vygotskij, da
Lewin ed infine dal costruzionismo e dalla psicologia culturale; dove e come trovare la traccia del singolo, dell’esperienza quotidiana, dell’andare e del tornare, la
routine rassicurante del riconoscere sentieri e percorsi usuali, dove trovare l’espressione dell’assetto dialogico della cognizione umana nel panorama interiore del
territorio di appartenenza3?
All’uopo mi sono riferita al concetto di repertorio interpretativo (Potter e Wheterell,
1987, p. 149) quale “gamma limitata di parole usate in particolari costruzioni grammaticali o stilistiche”. Gli autori presentano questo loro concetto come l’unità molare minima di una metodologia che dovrebbe corrispondere ad una rivoluzione di
prospettiva all’interno della psicologia sociale. Alla luce di ciò ho cercato di individuare segmenti discorsuali significativi, i cosiddetti chunks, che mi hanno permesso
di individuare in fase esplorativa quella tracce, quei segmenti appunto che seppur
parte sempre di discorsi più ampi costituivano di per sé una sezione, un segmento
autonomamente significante. I chunks da me individuati sono stati quelli che mi
hanno permesso di individuare due diversi concetti di “centro” corrispondenti a
due differenti modelli di orientamento culturale e sociale. Essi sono emersi nelle risposte alla mia domanda “Come descrivi a chi ti ascolta il tragitto dalla località...
alla località... ?” Fedele alla prospettiva dei due autori ho poi cercato di individuare
la spendibilità pratica dei risultati della ricerca: ho cercato di formulare proposte
che possano migliorare il nesso tra la costruzione discorsuale individuale e i sistemi
di valori e di potere sociali che in realtà ne regolano la strutturazione.
Già Mead ci spinse a considerare l’interdipendenza quale fondamento imprescindibile di qualsiasi costruzione dell’immagine di sé e dell’altro da sé nell’interazione
1 Nell’accezione di Cole e della psicologia culturale.
2 G. Mininni, Diatesi, per una psicosemeiotica del discorso sociale, Liguori Ed., Napoli 1992.
3 B. Schlieben Lange, Linguistiche Pragmatik, Kohlhammer Gmbh, Stoccarda 1975.
69
Monica Pedrazza
sociale. Gli psicologi sociali hanno costantemente ribadito (da Berger e Luckmann
a Gergen e Shotter, 1989) l’importanza di trovare nel linguaggio i modi per spiegare
la costruzione sociale della realtà, fino a porre la questione centrale dei “testi di
identità”. Questa psicologia sociale ha quindi ispirato questa ricerca ed è quella che
spinge il ricercatore a scoprire le forme della testualità sociale che sorreggono la costruzione
cognitiva del mondo e che sono strettamente intrecciate con le procedure di elaborazione del senso
consentite di cultura in cultura e dalle forme dagli strumenti della comunicazione4.
Codici differenti e mezzi di comunicazione diversi o altri contesti consentono
la costruzione di immagini interne o rappresentazioni diverse dello stesso spazio, la
psicologia ambientale infatti ad esempio ha sottolineato più volte l’effetto familiarità nella predilezione frequente di percorsi più lunghi anche se poco efficaci rispetto ad altri che le persone manifestano quando ad esempio preferiscono
percorrere una strada conosciuta e più lunga piuttosto che una breve e quindi più
economica da diversi punti di vista.
Codici differenti possono mediare mappe interne diverse dello stesso territorio
proprio perché all’interno di ogni codice, veicolo per la comunicazione in contesti
diversi e con interlocutori differenti, necessita di informazioni diverse al fine di essere significativa e significante.
Mi sono quindi anche chiesta se la mappa del territorio di cui il soggetto dispone viene in qualche modo espressa o segnalata allo stesso modo in ogni codice
linguistico che il soggetto utilizza.
Ho quindi indagato la struttura ed il contenuto dei chunks relativi alla descrizione della mobilità intra/inter territorio di appartenenza in tre codici diversi dalla
lingua locale minoritaria, al dialetto italiano, alla lingua nazionale.
METODO
Obiettivo della ricerca fu quindi quello di disegnare il territorio di appartenenza
di ogni comunità relativamente al suo centro, alle sue coordinate spaziali, alla sua
estensione ed ai suoi confini. I dati così raccolti e riferiti dai soggetti sono stati ritenuti validi ed attendibili non tanto perché fedelmente corrispondenti al territorio,
ma piuttosto in quanto indicatori precisi della percezione condivisa del territorio e
del significato ad esso attribuito dai parlanti. Concretamente la percezione condivisa
emerge dai confini percepiti, dal centro percepito, dal fatto che il luogo indicato
come centro venga o meno utilizzato per l’orientamento nel territorio di appartenenza, dal numero di elementi strutturali coinvolti nella descrizione della mobilità
in termini di numerosità e di significato.
Una volta individuato il perimetro ed il centro del territorio con indagine esplorativa emersa dalla intervista a tre gruppi (uno per ogni comunità) ognuno costituito da
4 G. Mininni, Idem, p. 23.
70
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
quattro testimoni privilegiati, (scelti per lo più nella popolazione anziana), ho elaborato un numero di quesiti predisposti al fine di indurre i soggetti a descrivere in lingua madre il percorso di volta in volta loro indicato da una località all’altra del territorio
individuato. Sono stati distribuiti su due diverse scale tipo Lickert a cinque punti:
a) una scala di valutazione del benessere e della soddisfazione percepita dai soggetti per lo stile di vita possibile nella comunità di appartenenza, valutazione di aspetti
diversi della comunità di appartenenza: spostamenti, servizi, svago, attività delle associazioni, impegno dei comuni, dello stato, della provincia e del comprensorio;
b) una scala di appartenenza che presentava item relativi al grado di attaccamento
percepito del parlante alla propria comunità. Presentava item relativi alla disponibilità
di risiedere nel luogo d’origine, la percezione di isolamento attuale e nel passato, la
disponibilità a tramandare la lingua ai figli, le motivazioni addotte, l’essere o meno
parlante attivo, la definizione degli appartenenti alla comunità e della comunità stessa;
c) infine un terzo strumento costituito appunto dall’elenco di percorsi da un
punto all’altro del territorio di appartenenza preceduto dalla richiesta seguente:
“Come ti esprimeresti nella tua lingua madre se dovessi descrivere il seguente percorso vado da Luserna ad Asiago”.
Per questo ultimo punto la procedura è stata quella di registrare fedelmente per
ogni parlante di ogni comunità l’espressione della mobilità da un punto all’altro del territorio per un numero non inferiore a 22 percorsi identificati diversi e mai superiore
a 30. Ai soggetti veniva chiesto di esprimersi in tutti e tre i codici linguistici (se) conosciuti: per Luserna in cimbro, dialetto trentino e italiano, per Giazza in cimbro, dialetto
veneto ed italiano, per la val del Fersina in mòcheno, dialetto trentino ed italiano.
Nella registrazione dei dati si è tenuto conto:
1) del numero di elementi della lingua usato (in questo caso sono stati identificati avverbi di moto a luogo e preposizioni);
2) delle differenze intergruppi;
3) del concetto di centro della comunità emergente rispetto alle caratteristiche
morfologiche del territorio;
4) del codice linguistico utilizzato.
RISULTATI
Dobbiamo premettere che per la mobilità in tutte e tre le comunità sono stati
individuati tre assi di orientamento5:
a - il primo è l’asse orizzontale in/aus (Lus): viene usato per indicare la mobilità
da e verso il centro della comunità. Quest’asse presenta una grande asimmetria:
l’asse aus/in è infatti molto più breve (circa 10 chilometri) dell’asse in/aus.
5 Per semplificare la presentazione mi riferirò ad esempi relativi al cimbro di Luserna (Tn) ed alla traduzione in italiano degli stessi e rimando i lettori interessati ad approfondire gli aspetti delle altre comunità consultando i testi e gli articoli citati in bibliografia.
71
Monica Pedrazza
b - Il secondo è un asse che ho denominato di attraversamento, durch (Lus.);
serve ad indicare l’attraversamento ed è perpendicolare all’asse in/aus.
c - Il terzo asse, denominato verticale, nidar/au (Lus.), indica zone che si trovano ad altitudini diverse rispetto al centro: rispettivamente più in basso (nidar, “giù”)
e più in alto (au, “su”).
È interessante notare che il numero di elementi coinvolti nella descrizione della
mobilità diminuisce in modo significativo nella popolazione giovane. I giovani infatti perdono quasi sistematicamente l’uso degli indicatori della direzione sopra descritti e si limitano all’uso delle preposizioni (at su, in in, ka a). La popolazione più
giovane perde rispetto agli anziani gli indicatori che avevano una triplice funzione:
dare informazioni precise relativamente alla direzione del percorso intrapreso, confermare con l’uso quotidiano un certo tipo di rappresentazione dello spazio di appartenenza, confermare l’importanza ed il valore della zona identificata come centro.
Queste informazioni potevano essere utili e funzionali ad un buon adattamento al
contesto di appartenenza sia fisico che sociale in tempi in cui le persone si spostavano almeno all’interno della comunità di appartenenza, prevalentemente a piedi
nonché in contesti socio-economici in cui venivano ad essere rilevanti le informazioni veicolate dal concetto di centro da me registrato.
Gli avverbi che seppur con una minore frequenza rispetto alla popolazione
adulta ed anziana compaiono ancora nell’uso dei giovani sono gli indicatori nidar/au.
Forse per il loro significato che conserva un alto potere di informazione significativa e significante. Infatti anche spostandosi in automobile si possono percepire le
variazioni altimetriche che questi indicatori segnalano. Va considerato il fatto che all’epoca della ricerca quasi nessun parlante da me intervistato, a parte rare eccezioni,
era in grado di esprimersi in forma scritta nella lingua minoritaria. La descrizione
della lingua (a Luserna, ad esempio, molto recente) non sempre è coincisa, come ben
si sa, con la possibilità per i parlanti di sviluppare una consapevolezza del proprio
codice linguistico, della sua struttura e delle sue regole. La lingua quindi non potendo
essere decontestualizzata e ricontestualizzata nella sua forma scritta non ha potuto
conservare quegli elementi strettamente ed esclusivamente legati alla originaria trasmissione di informazioni significative per il parlante.
Nel momento in cui il significato trasmesso non rispondeva più ad un esigenza
dei parlanti, o ad obiettivi funzionali a comunicazioni significative, esso è andato
perduto. Mi sembra anche interessante segnalare il fatto che la parte della ricerca rivolta alla analisi del concetto di centro fu svolta in tre codici diversi: in cimbro/mòcheno, in dialetto trentino/veneto ed in lingua italiana. I risultati del
confronto interlinguistico hanno portato a rilevare che mentre i soggetti tendevano
generalmente a tradurre in dialetto trentino o veneto la forma originaria della lingua madre (ad esempio per Luserna I gea durch ka Schlege, Vago via a Asiago, vado
ad Asiago), veniva del tutto persa qualsiasi indicazione relativa alla mappa del terri72
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
torio registrata nella lingua madre nel momento in cui al soggetto veniva chiesto di
esprimere la stessa frase in lingua italiana. Da un punto di vista cognitivo quindi risulta confermata l’ipotesi che codici differenti possono veicolare mappe del territorio differenti non tanto relativamente alla loro potenziale forza espressiva ma
quanto piuttosto per il fatto che codici diversi vengono usati in contesti differenti
e soprattutto con interlocutori differenti6. Sono diverse quindi le informazioni che
risulta utile e necessario veicolare .
Ho quindi dovuto prendere atto del fatto che quando una informazione non
serve più ad una comunità si perdono anche le strutture e le forme che la lingua orale
di quella comunità utilizzava per veicolare efficacemente le informazioni stesse tra
i parlanti. La perdita non è quindi solamente semantica ma anche strutturale.
Per quel che riguarda la mappa del territorio di appartenenza sono emersi due
concetti di centro diversi:
1) il primo risulta essere condiviso dalle comunità di Luserna e di Giazza. Il centro individuato dai parlanti non è il centro dell’area residenziale o del paese, ma si
tratta di un’area diversa che dista dai tre ai cinque chilometri dal nucleo abitato e non
coincidente in nessuna delle sue parti con l’area urbanizzata. Si tratta per Luserna
della località Vezzena (I gea in in Vesan, vado in Vezzena) e per Giazza della località
Terass (I gea in in Terass, vado in …). In entrambi i casi il centro è costituito da un’area ricca di risorse (pascoli e legname soprattutto) utilizzata collettivamente da tutti i
membri della comunità;
2) il secondo invece rilevato in val del Fersina si manifesta nel fatto che abbiamo
trovato un centro che non coincide con una precisa area, ma che si identifica solo
con una direzione dall’esterno verso la parte interna ed alta della valle. Possiamo aggiungere che lo schema di orientamento utilizzato per la descrizione della mobilità
nella valle costituisce il modello quasi sotto forma di griglia ridotta per l’orientamento all’interno di ogni singolo maso (indar khommar, la camera che guarda verso
l’interno della valle, indar ackar, il campo che si trova nella parte del maso che guarda
verso la parte alta della valle). Il maso chiuso costituiva un tempo la struttura non
solo residenziale, ma anche economica più diffusa, la famiglia si reggeva autonomamente sulle risorse prodotte all’interno del maso. Attualmente la struttura del maso
ha un significato quasi esclusivamente riconducibile alla identificazione dell’origine
di singoli individui o di gruppi familiari.
Di fatto ci troviamo di fronte in entrambi i casi ad un orientamento nello spazio secondo coordinate che con la struttura dello spazio stesso hanno poco a che
fare e che invece riflettono un orientamento culturale ed economico del singolo
nella comunità.
6 Sottolineo che la mia ricerca si è riferita a codici quali il cimbro di Giazza, il cimbro di Luserna, il mocheno della val del Fersina, il dialetto trentino ed il dialetto veneto tutte lingue non codificate, non standardizzate e comunque non utilizzate dai parlanti in qualsivoglia forma scritta.
73
Monica Pedrazza
Singolarmente infatti Giazza da un punto di vista della morfologia del territorio si trova in una posizione identica alla collocazione di Palù del Fersina rispetto alla
valle omonima; le due comunità però non presentano lo stesso concetto di centro
e nemmeno lo stesso modello di orientamento.
Il modello di orientamento nello spazio quindi è un modello economico e culturale piuttosto che uno specchio delle morfologie ambientali o che un riflesso delle
strutture geografiche.
La comunità con le prescrizioni ed indicazioni rispetto alla modalità socialmente
diffusa e condivisa di sostentamento permette la registrazione e diffusione nonché
la conservazione nella lingua di informazioni utili in tal senso. Nel momento in cui
però la struttura economica cambia, il modello di orientamento nello spazio di appartenenza ricco di indicazioni relative al valore simbolico di certe aree perde la sua
funzione e induce una trasformazione anche nella lingua parlata. La trasformazione
da me registrata è la perdita di informazioni e di elementi strutturali necessari alla
veicolazione dell’informazione richiesta sul territorio di appartenenza.
La lingua quindi, in questa area semantica, come tutti i sistemi aperti, inverte la
sua normale progressione verso una sempre maggiore differenziazione e complessità per regredire verso forme meno complesse di espressione. La lingua non solo
perde relativamente al numero di elementi coinvolti nel passaggio di informazioni,
ma trasforma il significato trasmesso in termini di una drastica riduzione dei contenuti e di semplificazione del messaggio. La dimensione simbolica veicolata nella
comunicazione orale attraverso i chunks individuati si assottiglia e si riduce da registrazione nella lingua della percezione del territorio che diventa orientante alla percezione di un territorio sfumata e priva delle coordinate culturali ed economiche di
orientamento condivise e fino ad ora trasmesse. Ciò che in un simile contesto di significato meno complesso e meno differenziato risulta ancora orientante, se così
possiamo dire, non è più il centro simbolico (fonte del sostentamento economico),
ma è solo la più superficiale struttura morfologica del territorio. Essa induce una
sorta di omologazione della comunicazione e descrizione della mobilità, nei due codici (minoritario e lingua nazionale maggioritaria) si perde la differenza, che prima esisteva nella descrizione dello stesso percorso. Lo stesso percorso quindi non ha più
per i locali quel surplus di significato dato dalla appartenenza, dal radicamento al territorio e dal suo uso, dalla sua conoscenza ed interiorizzazione. Il processo in atto poterà in breve tempo ad una sostanziale uguaglianza nella descrizione della mobilità.
Relativamente invece alle scale di valutazione del benessere e dell’attaccamento
alla comunità possiamo rilevare quanto segue:
1 - un buon grado di conservazione della lingua (per Luserna e Palù del Fersina) corrisponde ad una valutazione media complessiva più favorevole delle condizioni
di vita nella comunità di appartenenza; a Palù ed a Luserna troviamo le percentuali più elevate relativamente all’uso diffuso e costante della lingua locale. Il
74
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
64,1% dei soggetti residenti a Palù ed il 79,3% di quelli residenti a Luserna sostengono di usare con tutti la lingua quotidianamente, mentre a Giazza il 68,3%
sostiene di non parlare mai cimbro con nessuno. La popolazione di Palù presenta
le medie più alte e si differenzia significativamente rispetto a Luserna nella valutazione positiva dei servizi (p <.01), nella valutazione positiva dell’impegno
della propria amministrazione comunale (p <.01), ed infine nella valutazione
positiva dell’impegno dei compaesani (p <.01). Inoltre la comunità di Palù presenta valutazioni significativamente migliori rispetto a Giazza per l’impegno del
comune (p <.01), del comprensorio (p <.001), della provincia (p <.001) e dello
stato (p <.05). La popolazione di Luserna infine valuta complessivamente in modo
significativamente migliore a quella di Giazza l’impegno del comune (p < 0.5),
quello della provincia (p <.001), e quello del comprensorio (p <.01);
2 - ad un minore grado di conservazione della lingua (mi riferisco a Giazza dove
sono riuscita all’epoca della ricerca di cui al presente articolo a rintracciare solo
6 parlanti attivi ultraottentenni) corrisponde una percezione del legame al luogo
d’origine significativamente maggiore sia alla comunità di Palù che a quella di Luserna. A Giazza infatti la lingua non viene più parlata dal 70% circa della popolazione e ci risulta interessante sottolineare che a questo dato corrisponde una
percezione media dei soggetti di legame significativamente più forte verso la
propria comunità sia rispetto ai soggetti di Palù (p <.05) sia rispetto ai soggetti
di Luserna (p <.05). Questo dato potrebbe configurarsi come una conferma
dell’ipotesi di Tajfel della rivalutazione del tratto distintivo, a Giazza la popolazione non si può più identificare e definire come gruppo sulla base dell’indicatore linguistico locale e quindi cerca in altri tratti distintivi una ridefinizione della
propria identità. Può essere plausibile che lo faccia come indicato dai dati con
una più forte identificazione di gruppo;
3 - laddove la caratterizzazione etnica è più marcata (maggior numero di parlanti attivi, maggior numero di persone che dichiarano di usare la lingua locale in tutte le
loro interazioni sociale, caratterizzazione etnica della comunità, caratterizzazione etnica del gruppo) troviamo anche punteggi medi significativamente più elevati per
la percezione di isolamento della comunità. La comunità di Luserna presenta percentuali elevate relativamente alla caratterizzazione etnica degli abitanti la fanno il
28,3% dei soggetti così come il 67,4% dei soggetti di Luserna definisce in termini
etnici anche il paese. Per Palù la caratterizzazione etnica ricorre solo nelle descrizioni
che i soggetti fanno dei propri compaesani, ma non si presenta in relazione alla comunità che viene invece descritta dal 75,6% dei soggetti in termini di attrattiva ambientale generale. La popolazione di Giazza non descrive in termini di caratterizzazione etnica né i compaesani, né la propria comunità. Mentre tutte tre le comunità
concordano nel definire isolate le loro comunità nel passato, solo a Luserna troviamo
un buon 32% di soggetti che trasferisce questa percezione anche al giorno d’oggi;
75
Monica Pedrazza
4 - tutte e tre le comunità concordano relativamente alla valutazione dell’opportunità di trasferire alle generazioni successive la lingua, l’accordo è relativo alla
forza con cui viene sostenuta l’opportunità ma non sussiste relativamente alle
motivazioni addotte a sostegno del comportamento;
5 - laddove la caratterizzazione etnica però è più forte infatti (Luserna) troviamo una
motivazione legata alla soddisfazione ed all’arricchimento culturale personale, seguendo, Palù come comunità che presenta un grado inferiore di caratterizzazione etnica troviamo quale motivazione la facilitazione che l’acquisizione del
mòcheno comporta per coloro che intendono imparare il tedesco. Infine Giazza
la comunità che meno si caratterizza etnicamente perde completamente la motivazione alla trasmissione transgenerazionale della lingua sostenendo che “non
serve più a nulla”.
Pare quindi nuovamente confermata l’ipotesi di Tajfel relativa alla teoria dell’identità sociale che sottolinea come nelle comunità che perdono visibilità positiva e
perdono quindi una possibilità di differenziarsi positivamente rispetto alla maggioranza secondo un particolare tratto, che ha perso pregnanza, valore distintivo o che
ha addirittura assunto un significato negativo, procedono alla ridefinizione del tratto
stesso. Laddove la funzione coesiva della lingua rispetto al gruppo di appartenenza
scompare, avviene all’interno del gruppo stesso una ridefinizione del tratto distintivo (la lingua).
RIFLESSIONI CONCLUSIVE IN MERITO ALLE POLITICHE PER LA CONSERVAZIONE
DELL’IDENTITÀ E LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA MINORITARIA STRATEGICA
Quali indicazioni utili possiamo trarre da questa ricerca e purtroppo dalla impossibilità di replicarla per l’ormai irreversibile diminuzione del numero dei parlanti? A
mio modo di vedere bisogna agire sistematicamente invertendo due linee di tendenza che ormai da sempre consolidano e caratterizzano la interazioni tra minoranza e maggioranza:
• sia sul piano delle pratiche educative e formative dirette alla minoranza;
• sia in relazione alle prassi consolidate in cui la comunità scientifica si occupa
delle minoranze.
Come sappiamo le politiche di pianificazione linguistica maggioritarie si declinano all’insegna di un atteggiamento evoluzionista che vede il declino delle lingue
minoritarie inevitabile e legato a trasformazioni di ordine socio economico. Inoltre
l’approccio maggioritario alla pianificazione e progettazione linguistica a lungo termine considera le lingue solamente dal punto di vista strumentale e non sociale e
storicamente collocante il parlante. Dal punto di vista della maggioranza le lingue
minoritarie non sono funzionali e costituiscono un aumento dei costi della comunicazione riducendone in realtà l’efficacia. Infine l’approccio maggioritario non è
ecologico, nel senso che non valuta positivamente le differenze culturali come in76
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
vece fa l’approccio ecologico che sostiene che la presenza di numerose lingue e di
altrettante culture contribuisce all’arricchimento globale del sistema cultura. Pare
quindi chiaro che una politica di pianificazione linguistica minoritaria che sia efficace deve per così dire modificare l’ordine delle priorità che la maggioranza media
e trasmette. Queste priorità sono generalmente di ordine strumentale ed economico, all’insegna dell’efficientismo, della produttività e dell’appiattimento delle differenze. La pianificazione favorevole alla auspicabile inversione di tendenza nelle
strategie di sopravvivenza delle minoranze dovrebbe quindi resistere e mettere in discussione le derive democratiche che appiattiscono, che selezionano positivamente
il più efficiente, che eliminano le frange e le nicchie culturali lente e riflessive.
Fishman inoltre sostiene, a mio modo di vedere correttamente, che la cultura e
la lingua di un popolo non possono sopravvivere l’una in assenza dell’altra, un popolazione infatti che perde la sua lingua non ha più la stessa identità etnica di prima,
la lingua infatti non è solo veicolo ma è strumento di costruzione di senso e di significato è indicazione costante continuata e condivisa di ciò che per una comunità
è significato, è importante è determinante per la propria definizione identitaria.
Relativamente al primo punto (pratiche educative e formative) dovremmo creare
nuove forme di aggregazione. La comunità non ne trova più spontaneamente soprattutto relativamente alle zone di appartenenza delle comunità etniche che ormai per
la stragrande maggioranza delle persone non sono più zone di residenza ma solo di
permanenza temporanea. Queste nuove forme di aggregazione vanno proposte, a
nostro modo di vedere, e soprattutto promosse nel tempo, ne va assicurata cioè la
continuità, solo in questo modo infatti possiamo presumere che si consolidino legami sociali e che col tempo essi divengano significativi ed importanti al punto da meritare
agli occhi dei partecipanti di essere trasmessi alle generazioni future. Solo così si
formano significati nuovi, condivisi, fondanti l’identità del gruppo. Senza identità sociale,
senza senso di appartenenza al gruppo, senza coesione, la lingua sparisce in quanto
non è sostenuta dalla sua funzione di elemento caratterizzante il veicolare particolari ed unici tipi di significati. Senza una politica di intervento a sostegno delle comunità in quanto gruppi sociali (prima ancora che come gruppi sociali che parlano in modo
diverso) che vanno favoriti ed agevolati nelle loro pratiche di interazione e relazione
intragruppo, qualsiasi pianificazione linguistica o intervento a sostegno della lingua
resta un intervento privo di futuro, privo di ricaduta positiva sulla comunità.
Affinché la lingua resista va sì standardizzata ed insegnata, ma sicuramente se
non creiamo i contesti, i luoghi fisici e simbolici in cui possa avere senso per le persone utilizzarla e soprattutto preferirla alla lingua maggioritaria non si salverà certamente negli asettici laboratori linguistici.
La lingua per vivere autonomamente e non per sopravvivere o per morire più
lentamente, necessita di tessuto fertile e rivitalizzante ed esso viene dato non dalle
competenze linguistiche astratte e decontestualizzate dei corsi per principianti o per
77
Monica Pedrazza
progrediti, ma nella faticosa pratica quotidiana nei gruppi e nelle aggregazioni
umane. Per offrire tale opportunità bisogna che vengano favorite le possibilità di aggregazione, più o meno spontanee, più o meno finalizzate a scopi, paradossalmente
l’importante non è la motivazione all’incontro ma la sua durata, la perseveranza nel
tempo, che sole ed a prescindere dallo scopo, permettono la praticabilità del costruire relazioni significative.
La motivazione forte a comunicare che si fonda sulle relazioni, sulla coesione del
gruppo sulla percezione di una comune appartenenza sono i prerequisiti, a mio
modo di vedere della possibilità remota di rendere il processo di declino linguistico
reversibile.
Ciò che la lingua ha perso, dato che emerge dalla ricerca qui presentata, è il significato condiviso e funzionale alla comunità di una ristretta area cognitiva e semantica di rappresentazione del territorio, ma molto va perduto. È già perduto ad
esempio molto del patrimonio linguistico che si riferisce alla vecchie arti, ai mestieri, delle pratiche sociali come quella del filò, all’allevamento ed alla cura del bestiame, all’allevamento e alla cura dei bambini7, alle attività di coltivazione di campi
e degli orti, alla cura degli affetti e della casa. Date le caratteristiche delle comunità
attuali, dato lo spopolamento delle stesse mi sembra irragionevole riproporre forme
di aggregazione che sembrano inni alla morte piuttosto che alla vita. Mi sembra più
opportuno produrre sinergie complesse ed ardite quali basi per nuove forme di collaborazione e di aggregazione.
È quindi indispensabile creare l’opportunità che in gruppi di persone nasca l’esigenza di trasmettere ancora delle informazioni e che esse siano funzionali alla costruzione della identità non solo dei gruppi ma anche dei singoli.
Iniziative in tal senso devono inoltre tenere conto del fatto da noi registrato nei
primi due anni e mezzo di attività inverno 2005, 2006, e parte del 2007, le attività
proposte non possono essere offerte solo ai residenti che ormai costituiscono la
minoranza dei parlanti e degli appartenenti alla comunità. I residenti sono costantemente sollecitati a partecipare ad iniziative offerte quali:
• corsi di rivitalizzazione delle forme di artigianato artistico locale (tombolo);
• corsi di lingua (base e per progrediti);
• corsi per traduttori;
• attività ricreative, cineforum, musica, ballo, teatro.
Di fatto però il tempo limitato e le attività dovrebbero raggiungere anche quella
maggioranza di parlanti che si colloca al di fuori dei confini del territorio del comune
di origine. Molti parlanti (di tutte le comunità, anche se in misura diversa) sono emigrati in zone limitrofe entro ed anche oltre i confini regionali.
7 Molto in questo senso va perduto soprattutto nei matrimoni misti dove solo uno dei partner conosce ed
usa la lingua madre minoritaria.
78
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
Sarebbe auspicabile proporre, almeno nei comuni a più alta frequenza di immigrazione di appartenenti alle minoranze, alcune delle seguenti attività:
- laboratorio di scrittura,
- laboratorio di lettura,
- narrazioni in contesti intergenerazionali,
- ricostruzione della storia locale attraverso la raccolta delle storie di vita,
- diffusione delle informazioni sulla comunità, in lingua locale e/o bilingui, sulle
attività della comunità (dentro e fuori) anche oltre i confini comunali.
Ritengo che il rapporto classico tra comunità scientifica e minoranze vada rivisto sostanzialmente, a tutt’oggi le comunità sono dei terreni fertili e ricchi di opportunità per
il ricercatore, che però ha sempre avuto, soprattutto in Italia un approccio squisitamente e rigidamente disciplinare alla ricerca, non solo verso quella di base ma
anche in quella applicata. Lo scopo è sempre stato quello di verificare ipotesi di
confermare tesi o di indagare forme e strutture. Ora penso sia maturato il tempo
in cui la comunità scientifica debba guardare ai vari Istituti che sono stati costituiti
laddove la tutela delle minoranze è formalizzata, come a dei partner. Gli Istituti di
tutela possono diventare il banco di prova per le Università relativamente alla priorità di linee ed aree di ricerche, e della loro ricaduta positiva sulla popolazione. Non
possiamo più permetterci di investire sia economicamente che psicologicamente su
ciò che non favorisce l’identità positiva di chi fa parte di una minoranza. Dal mio
punto di vista e dall’osservatorio privilegiato da cui guardo alle comunità penso
che ci troviamo ad un punto di svolta, la vitalità e la ricchezza della lingua che ho
sentito, percepito e cui ho partecipato circa vent’anni fa non esistono più nemmeno a Luserna dove comunque la maggioranza dei residenti parla la lingua minoritaria. Inoltre l’esperienza dell’Istituto almeno per gli ultimi due anni è di grande
difficoltà nel motivare le persone ad incontrarsi a seguire insieme un obiettivo, che
si tratti della tradizione del tombolo o del corso di teatro. La forza di attrazione
delle forma di aggregazione maggioritarie temporanee e frammentate agisce in
modo rilevante soprattutto sulla popolazione giovane che non sa organizzarsi localmente nemmeno su esplicito invito e sostegno dell’Istituto.
Quello che a mio modo di vedere può essere un approccio almeno per questa
particolare fase utile è la ricerca-intervento tipica delle scienze dell’educazione e della
formazione. Dall’analisi dei bisogni alla predisposizione degli interventi formativi
che devono poter essere valutati, non solo in termini di gradevolezza del prodotto
(il corso è stato bello, interessante ecc. da parte degli utenti o fruitori), ma anche e
soprattutto in termini di modificazione dei comportamenti sociali relativamente ad
un incremento delle possibilità di aggregazione.
A mio modo di vedere inoltre questa strategia non può ridursi a proporre attività che si collocano all’interno dell’area di appartenenza storica della minoranza, ma
dovrebbero poter raggiungere anche l’emigrato colui che per motivi di lavoro o
79
Monica Pedrazza
altro non può materialmente più vivere nella comunità di origine. Le persone vanno
quindi sostenute nel loro senso di appartenenza che è l’unico filo che le lega ancora
alla comunità di origine, ma non si deve trattare di un sostegno virtuale cui ci si limita a fare riferimento nelle dichiarazioni di intenti più o meno ufficiali, dovrebbe
invece trattarsi di un sostegno attivo partecipativo in relazione ai problemi di gestione di appartenenze multiple già tipicizzanti la generalità della popolazione nelle
società complesse e sicuramente ancora più problematici da governare per chi vive
al margine, al confine tra identità diverse e spesso portatrici di valori, modelli e
schemi di comportamento per certi aspetti contrapposti. Infine le attività di ricerca
che auspico possano essere progettate all’insegna di nuove forme di parternariato
tra Enti di Tutela e Università andrebbero coordinate in modo da essere rivitalizzante e rese più complesse da enti terzi appartenenti al territorio comune. Da enti
cioè diversi che comunque fanno parte della regione in cui le comunità sono situate
e che di volta in volta a seconda delle caratteristiche delle singole comunità e dei progetti di ricerca sviluppati possano costituire con le loro attività una sorta di cartina
al tornasole dei risultati della ricerca e delle loro applicazioni.
A tale proposito ho sviluppato un progetto sperimentale con il Mart, Museo di
Arte Moderna e contemporanea di Trento e di Rovereto, in particolare con la Sezione
didattica8 che ormai per il terzo anno propone attività espressive e didattiche alla popolazione delle comunità, ma non solo, dichiarando e praticando una costante attenzione anche per gli aspetti linguistici della minoranza. Da settembre il progetto di
collaborazione Mart – Kulturinstitut Lusern, dovrebbe incorporare anche un Dipartimento dell’ateneo trentino in ordine a un progetto di ricerca e promozione dell’identità per la popolazione nella fascia adolescenziale e dei giovani adulti. Il frutto
della ricerca concordata e pianificata in collaborazione, tra Università e Kulturinstitut Lusern dovrebbe poi avere una ricaduta immediata sulle attività che Mart ed Istituto andranno a promuovere in ordine alla popolazione target del progetto.
Dal punto di vista della costruzione dell’identità noi operiamo in una fase in cui
molti dei tratti distintivi della comunità (lingua, tradizioni rurali, religiose ecc) stanno
perdendo, o hanno già perso, il loro potenziale coesivo ed identificatorio positivo e
quindi offriamo alla popolazione una rivalutazione della propria identità sulla base
di nuovi nuclei di significati. Questi vengono mediati da enti come appunto il Mart
che per la nostra regione rappresenta una istituzione che gode di ottime valutazioni.
La mediazione di enti come questo ha:
1) da una parte la funzione di agevolare una nuova identificazione positiva che esca
dai confini rigidi dello spazio di appartenenza e che invada lo spazio della cul-
8 Di cui è responsabile il dott. Carlo Tamanini che è diventato uno di più preziosi e validi interlocutori del
Kulturinstitut per le attività educative e formative extrascolastiche.
80
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
tura di maggioranza ridefinendola per la propria identità: propongo in sostanza
una colonizzazione alla rovescia;
2) dall’altra ha la funzione di verificare sul campo la ricaduta positiva e l’efficacia
pragmatica delle ricerche promosse dalla collaborazione di Istituti di tutela e Dipartimenti al fine di invertire il tradizionale atteggiamento accademico di attenzione privo talvolta di umano interesse e partecipazione e ricco talaltra di
paternalistica benevolenza.
La collaborazione di Enti terzi, così come un approfondimento della collaborazione
paritaria tra Università ed Istituti di tutela dovrebbe permettere di far confluire energie
nuove in percorsi educativi e formativi dedicati, che possano da una parte prevedere un
ponte tra Comunità Minoritarie e Comunità Transnazionali nell’ottica di favorire studi,
ricerche e percorsi formativi che tengano conto da un punto di vista multidisciplinare
(linguistico, psicologico, sociale, storico, antropologico, economico e giuridico) dei problemi di spostamento delle popolazioni e dei problemi di integrazione culturale (si vedano le problematiche forti all’interno dei servizi sia sociali che sanitari che assistenziali)
e che possano dall’altra essere un ponte che fa confluire energie nuove e rivitalizzanti
anche all’interno delle piccole comunità con interventi di sostegno e con un occhio di
riguardo verso azioni e proposte che possano, almeno eccezionalmente, tenere conto del
punto di vista del più piccolo, del poco, del minuto e nascosto.
La forte spinta propulsiva ed omologante della maggioranza che anche in ambito
accademico tende ad una sempre maggiore standardizzazione di pratiche di ricerca e
di pratiche educative, se privata della sensibilità e del rispetto per ciò che è diverso e
altro rischia di perdere linfa vitale forza creativa e soprattutto aderenza alla realtà.
La realtà per le minoranze infatti non è la confusa e complessa gamma di identità e appartenenze virtuali o temporanee, ma è la faticosa e quotidiana mediazione
tra una parte di sé, appunto, minoritaria legata talvolta a stili di vita scomparsi e a
ritmi ormai sconosciuti, a suoni naturali e a silenzi lunghi, e un’altra parte di sé
proiettata nel futuro incerto dei figli, nell’abbandono forzato degli anziani, dei luoghi, degli spazi, dei tempi che non producono più vita, non danno più nutrimento
e non permetto più progettazioni in comune nel tentativo di adeguarsi così a vite
disperse nel fluire dell’anonimato e dell’omologazione.
***
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82
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
IDENTITIES AND MINORITY LANGUAGES ON THE WANE: TAKING EXCEPTIONS
AS TO THE IRREVERSIBILITY OF THIS PHENOMENON
AND CLUES FOR MINORITY LANGUAGE STRATEGIC PLANNING
PRELIMINARY REMARKS
I have already dealt with this subject matter in some previous publications of mine. I come back to this subject
mainly for three reasons:
- to begin with, my field research in Luserna, Giazza and Fersina Valley dates back to the late Eighties/early
Nineties, when one could still find a fair number of young adults who fluently spoke the local language. I divided that
sampling in young, adult and older speakers. Over a two-year period I interviewed 234 speakers (one third of Lusern’s
and Giazza’s population.
- Ever since I have not been able to repeat and update the same research with an eye to other criteria for assessing the feeling of “belonging” to a community because I could no longer find speakers who could represent all age
groups (15-25, 25-55, over 55).
- The data from that research prop the revitalisation project of the Cymbre language which I have developed with
the Chair of the Scientific Committee of Lusern’s Kulturinstitut, in the wake of Joshua Fishman’s concept of reversing the language shift (1991), overcoming some of modern days’ sociocultural displacements.
PRESERVING THE LANGUAGE. COGNITIVE AND DEVELOPMENTAL PSYCHOLOGY’S VIEWPOINT
In their book La représentation de l’espace chez l’enfant [How children perceive space] Jean Piaget
and his co-worker Inhelder, maintain that human territorial claims have to do with the survival instinct, just like speech
itself. Besides physical, it is about social and cultural survival. It is strictly linked with learning and their cognitive process.
Acclimation and space’s appropriation happen time and again in every day’s life after finding out about it at a tender age.
From it flows an individual capability of grasp the notion of external space as well as building up an internal space to
map out future acquisitions. If this process does not go its full circle there will be lateralization, object and body localization problems and a general difficulty in getting a straight grasp of reality. Developmental psychologists like Bowlby,
Ainsworth, Arno Gruen, Alice Miller have pointed out the relevance of steady and reliable internal images as a prevention against any form of psychiatric pathology. Hence an individual capability to perceive and organize one’s own experiences vis-à-vis physical and social space are instrumental in building up self- and other-awareness.
MAPPING UP ONE’S OWN TERRITORY
Human artefacts, such as languages, may embody the cultural logics embedded in signifying systems and in communication procedures. But where can one find such meanings which underlies the relationship between the individual
and the social group, as severally pointed out by Mead, Vygotskij, Lewin? Where can one find that circular causality
highlighted by constructionism and by cultural psychology. Where can one find the tracks leading to the individual, to
the scent of daily experience, to the reassuring routine of old trodden trails? For this I had recourse to the interpreting repertoire (Potter and Whetherell, 1987, p. 149) as a “finite gamut of words used only in particular grammatical or stylistic constructions”. I also tried to isolate meaningful segments, the so-called chunks, which enabled me to trace
back those tracks. This led me to single out two different concepts of “centrality” matching two different models of cultural and social orientation. They came to fruition when asking the question “How would you describe going from place
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Monica Pedrazza
so and so… to place so and so… ? I then accordingly tried to put to use the responses to my research by putting forth proposals which could enhance the relationship between individual sentence construction and value systems-social power which
deep below determine its structure. This interdependence was pointed out by Mead. Social psychologists from Berger to Luckmann, from Gergen to Shotter (1989) reiterated the need for finding in speech ways of explaining reality’s social construction all the way to the core question, which is “identity texts”. This social psychology is what inspired my research and is
what drives the researcher to discover forms of social textuality underpinning the world’s cognitive construction. Other codes and means of communication allow for internal image-building and different representation of space.
I likewise wondered about the map of a territory, which the individual can avail himself of: is it somehow expressed or
signified in the same way in every language code used by a given individual? I subsequently researched the structure and
the contents of the chunks pertaining to the description of mobility within the territory one belongs to in three different
codes spanning from the local minority language, to Italian dialect, to the national language.
METHODOLOGY
Mapping out the territory one belongs to in every community was the aim of this research. The data thus gathered were considered reliable not because they painstakingly matched a territory, but because they acted as monitors of
the shared perception of the territory and the meaning attributed to it by the speakers. Once I had singled out a territory’s outlying borders and its centre by an exploratory probe on the three groups (one for each community), I devised
a number of questions meant to lead the individuals being researched to describe in their mother tongue the course from
one place to another within their territory. They were spread out on two different, five-point indexes. While recording
data I kept due track of: 1) number of language components made use of, 2) differences between groups, 3) concept
of centre vis-à-vis the geography of a territory; 4) language code employed.
RESULTS
Three orientation axis were singled out in each of the three communities as far as mobility went. The first is the
in/out axis, indicating movement to and from the community centre. The second is the through axis. The third is
the downward/upward axis. Worth pointing out that the number of individuals in mobility description is much
smaller for the youngest group. They dropped the above mentioned mobility indicators and limit themselves to downward, at, to. Adverbs too surface in the younger group, but in smaller number. In general, whenever a semantic field
no longer conveyed a need by the speakers, it fell out of use. So I had to acquiesce in the fact that when a piece of information is no longer needed by a community, the latter drops the forms and the structures once needed to express it. Two
concepts for “centre” surfaced: 1) the “centre” for Lusern’s and Giazza’s communities is not the residential area’s, but
a different spot some two, to three and a half miles away from the village. It could be singled out only when it is in an
outbound direction toward the upper valley; 2) the second was singled out in the Fersina valley, where the centre did not
coincide with any particular are, but with an outbound direction toward the inner, upper valley. We are here confronted
with direction clues which share little with space and much more with cultural and economic views about one’s own community. Language patterns no longer evolve toward a greater variety and complexity, but lose instead a number of elements by dramatically reducing contents and simplifying messages. The territory becomes devoid of cultural and economic
connotations. The centre is no longer the economic source, but just the morphological structure of the land itself.
What concerns the scale of evaluation of well-being and sense of belonging to one’s community we notice the following:
1) a satisfactory level of preservation of one’s ancestral tongue is matched by a more favourable evaluation of life’s quality
84
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
within one’s own community. Palù and Luserna score the highest marks in this sense; 2) the lower level of preservation of
the language, like in Giazza, where 70% of the population no longer speaks it, is explained with a stronger sense of belonging to one’s community; 3) wherever ethnic characterisation is stronger so is also the sense of isolation of one’s community; 4)
all communities agree on the expediency of handing the language over to future generations; 5) wherever ethnic characterisation is stronger the reason for handing the language over is linked to personal pride and personal cultural enrichment.
Tajfel’s assumption on the theory of social identity appears to be confirmed insofar as those communities which have
lost their positive view of themselves let also go of any desire to preserve distinctive traits, including language itself.
CLOSING REMARKS ON IDENTITY CONSERVATION POLICIES
AND STRATEGIC MINORITY LANGUAGE PLANNING
What teachings may we glean from this research and from the impossibility of duplicating it in view of the dramatic reduction of speakers in the meantime? One should take drastic action to reverse two trends which for ever have
characterised all interactions between majority and minority language speakers: 1) at the education and formative levels; 2) change the long-hailed habits of the scientific community taking care of minority groups. Majority groups’ language planning are based on evolutionary certainties; they see the decline of minority languages as inevitable. Majority
policies see languages only from the instrumental point of view. For them minority languages are non functional and
carry higher costs with them. Majority groups’ attitude is not ecological, inasmuch as it does not value cultural differences as a positive element. A minority group’s language planning must reverse this scale of values and place cultural
differences at the top of their agenda. Fishman upholds that a people’s language and culture may not survive one
without the other. Accordingly, new forms of social aggregation should be created. The community no longer can
generate them, since for most of them their ancestral grounds are not longer a permanent, but rather a temporary place
of residence. This would bring bout new principles fostering group identity. Language must indeed be standardised and taught, but it we do not create adequate social backgrounds it will be to no avail. In order to live on language
needs a fostering social background. There must be a strong drive to communicate with that particular tongue. All the
language heritage relating to old arts and crafts, social habits, cattle raising, child care, tilling and vegetable growing, is
gone for good already. Somehow we must create opportunities for groups of people to carry over their language expertise to younger generations. Residents should be encouraged to take part in revitalisation courses, beginners’ and advanced
language courses, translators’ courses, leisure activities like music, dancing, theatre and so on. Townships with high immigration from the outside should get involved with: composition labs, reading labs, story telling sessions among different age groups, piecing local history from real life anecdotes, news casting in both majority and minority languages.
Furthermore the time-hallowed relationship between scientific and minority language communities should be changed
entirely. It should be turned into a research-intervention strategy. This strategy should be directed also at immigrants. An experimental project has been specially developed with the Mart (Contemporary Museum of Modern Art
from Trento and Rovereto) and its didactic department which for the third year in a row offers expression and didactic
activities to the population at large. It will cooperate with the Kulturinstitut Lusern. We should also work to strengthen
the sense of identity. Identity should migrate over the narrow borders of ancestral grounds. The cooperation from universities and various organisations should promote the input of new energies and much needed know-how.
The greatest difficulty for most minority groups consists in mediating between the minority share in their personalities and cultures and the style of life of majority groups, including an uncertain future is their children follow in
their footsteps.
85
GESCHICHTE EINER SPRACHMINDERHEIT
Karl Rainer
Die Autonomie- und Sprachregelung in der autonomen Provinz Bozen-Südtirol
stellt ein sehr aussagekräftiges Beispiel dafür dar, dass der Schutz und die Pflege von
Minderheiten immer eine gute Investition für das betroffene Gebiet sind. Südtirol ist
sehr geschwächt aus der Zeit der Unterdrückung durch Faschismus und Nationalsozialismus hervorgekommen; die ehemals fast zu 100% deutsch- und ladinischsprachige Bevölkerung hat unter den Endnationalisierungsmaßnahmen und durch das
Umsiedlungsabkommen zwischen Hitler und Mussolini sehr gelitten. Das soziale
und wirtschaftliche Gefüge war vollkommen aus den Fugen geraten, als mit der italienischen demokratischen Verfassung von 1946 und dem ersten Autonomiestatut ein
neues Kapitel in der Geschichte unseres Landes eröffnet wurde. Es bedurfte aber
nachher noch langer Verhandlungen auf innerstaatlicher und internationaler Ebene,
um die im Pariser Abkommen aus dem Jahre 1946 festgelegten Rechte zugesprochen zu bekommen; dieses Abkommen sieht eine weite Autonomie und Sprachrechte vor und verleiht Österreich eine Schutzfunktion gegenüber Südtirol.
Heute hat die autonome Provinz Bozen-Südtirol Gesetzgebungs- und Verwaltungsbefugnisse in allen sozialen, kulturellen und wirtschaftlichen Bereichen. Diese
Befugnisse sind auch in finanzieller Hinsicht verfassungsrechtlich abgesichert – ganz
grob gesagt, werden der autonomen Körperschaft ungefähr 9/10 der in Südtirol eingehobenen Steuern vom Staat zugewiesen. Das Land Südtirol verfügt somit über einen Jahreshaushalt von rund 5 Milliarden Euro.
Seit dem Inkrafttreten des neuen Autonomiestatutes im Jahre 1972 konnte in allen Bereichen aufgeholt werden. Zu Beginn der neuen Strukturfondsperiode 2007 –
2013 zählt unsere autonome Provinz zu den 10 Regionen der Europäischen Union mit
dem höchsten BIP, in Italien befindet sie sich an erster Stelle. Auch andere statistische
Erhebungen ergeben, dass Südtirol eine ausgesprochen hohe Lebensqualität verzeichnet, gute Umweltstandards verwirklicht hat, seit Jahren praktisch unter keiner Arbeitslosigkeit leidet. Dieser Erfolg beruht auf eine sehr ausgewogene Politik der Entfaltung
aller Wirtschaftszweige und ihrer gegenseitigen Verbindung und Ergänzung. Das
Land zeichnet sich durch eine ausgesprochene Gebirgsgegend aus, über 60 % der 7.400
Km2 liegen oberhalb von 1500 Metern Meereshöhe, in den Tallagen sind die Gründe
87
Karl Rainer
äußerst knapp. Eine absolute Priorität stellte somit die Erhaltung der Wohnsiedlungen
und Bauernhöfe auch in den Randlagen dar, dies ist durch die konsequente Förderung
der notwendigen Infrastrukturen (Zufahrt auch zu extremen Berghöfen, Strom- und
Telefonanschluss) und der Verwirklichung von sozialen und gesellschaftlichen Einrichtungen (Schulen, Gesundheitsbetreuung, Treffpunkte für kulturelle Tätigkeiten) und
besonders auch durch die Schaffung von Arbeitsplätzen in der Peripherie (Zu- und Nebenerwerb für die Bauern) gelungen. Wichtige Konzepte für diese integrierte Entwicklung von ausgesprochen benachteiligten Gegenden wurden auch den Europäischen
Förderprogrammen, wie beispielsweise der Leader-Initiative entnommen.
Ganz besondere Wettbewerbsvorteile konnte Südtirol aus der Mehrsprachigkeit
ziehen. Das Autonomiestatut stellt die deutsche Sprache der italienischen in allen öffentlichen Bereichen gleich, damit das Recht aller auf Gebrauch der Muttersprache gewahrt bleibt. Dies bedeutet, dass diese beiden Sprachen unterrichtet, geschrieben und
gesprochen, dass sie im privaten wie öffentlichen Leben immer wieder zusammengeführt werden. Auf wissenschaftlicher Ebene ist Südtirol dadurch zu einem Kompetenzzentrum geworden, denken wir nur an die Übersetzung aller bedeutenden italienischen Rechtstexte in die deutsche Sprache, aber auch Forschungsergebnisse und
–erfahrungen können durch diese Sprachkompetenz leicht ausgetauscht werden.
Nicht nur auf Grund der geografischen Lage ? am Schnittpunkt zwischen dem süddeutschen, österreichischen und norditalienischen Wirtschaftsgeschehen – sondern besonders auch durch diese Sprachverbindung ist Südtirol zum Ausgangspunkt für Geschäftsanbahnungen und Betriebsniederlassungen von vielen Firmen geworden. Die
verbreitete Zwei- und in den ladinischen Tälern Dreisprachigkeit hat den Tourismus
einzigartige Chancen gegeben. Nicht von ungefähr verzeichnet Südtirol jährlich 27 Millionen Nächtigungen von Gästen, bei einer Einwohnerzahl von 490.000 Menschen.
Sprache vermittelt auch Kultur, sie ist in den meisten Bereichen der direkte Weg
zu den Menschen und ihren Lebensgewohnheiten. Die Mehrsprachigkeit in Südtirol hat zu einem besonderen Ambiente geführt, das sich auch im kulinarischen Bereich, aber ebenso in den künstlerischen und in anderen Ausdrucksformen des
gesellschaftlichen Lebens deutlich äußert. Eine gute Zusammenarbeit zwischen verschiedenen Sprach- und Volksgruppen auf einem Gebiet verleiht der betroffenen
Bevölkerung viel Entwicklungspotential, wie die jüngere Geschichte Südtirols zeigt.
Die minderheitenfreundliche Sprachregelung in unserem Land hat auch einen sehr
aussagekräftigen Niederschlag auf europäischer Ebene gefunden. Mit einem Urteil
hat der Europäische Gerichtshof Sprachrechte der deutschen und ladinischen Minderheit auf alle EU-Bürger ausgedehnt. Wenn eine EU-Bürgerin in einem gerichtlichen Verfahren in Südtirol leichter mit der deutschen Sprache zurecht kommt als
mit der italienischen (die ja die offizielle Staatssprache ist), so kann sie auf den Gebrauch der deutschen Sprache bestehen, wie eine deutschsprachige Südtirolerin.
Dieses Beispiel allein zeigt auf, welche Auswirkungen eine gute Sprach- und Min88
GESCHICHTE EINER SPRACHMINDERHEIT
derheitenpolitik in einer vergleichsweise doch sehr kleinen Region auf die große
europäische Gemeinschaft haben kann.
Bei der Förderung von Sprachinseln und kleineren Sprachminderheiten ist meines Erachtens ein ganzheitlicher Ansatz sehr wichtig. Es hat wohl wenig Sinn, gezielte
Förderung für die Rettung von gefährdeten Sprachinseln zu betreiben, ohne dabei
auf die Erfordernisse der gesamten, im Gebiet lebenden Bevölkerung Bedacht zu
nehmen. Viele Initiativen der Europäischen Union bieten dafür auch gute Ansatzpunkte: durch die Wiederaufwertung von sprachlichen und kulturellen Traditionen,
durch die Aufnahme von Kulturgütern kleiner Minderheiten in die Darstellung beispielsweise von Fremdenverkehrsgebieten, kann diesen ein besonderer Anreiz und
somit mehr Anziehungskraft verliehen werden. Natürlich muss bei dieser wirtschaftlich ausgerichteten Betrachtungsweise eine positive Grundeinstellung zu Fragen der
Mehrsprachigkeit, der Achtung verschiedener Kulturen und Traditionen gegeben
sein, und vor allem müssen bei allen Schritten die betroffenen Gemeinschaften der
eigentliche Motor und der wirkliche Träger dieser Initiativen bleiben.
***
STORIA DI UNA MINORANZA LINGUISTICA
La regolamentazione dell’autonomia e delle lingue nella Provincia Autonoma di Bolzano-Sudtirolo costituisce un eloquente
esempio di come la tutela e la cura delle minoranze sia sempre un ottimo investimento per il territorio interessato. Il Sudtirolo è
uscito molto indebolito dall’era della soppressione da parte del fascismo e del nazismo; la popolazione di allora, quasi al 100% di
lingua tedesca o ladina, ha sofferto moltissimo per via delle misure di nazionalizzazione forzata e di rilocazione prese da Musso-
lini in accordo con Hitler. La compagine sociale ed economica si era praticamente disgregata allorquando con la Costituzione de-
mocratica italiana del 1946 e il primo Statuto autonomo fu aperto un nuovo capitolo della storia della nostra terra. Si resero tuttavia
necessarie in seguito trattative più prolungate a livelli interstatali e internazionali al fine di addivenire ad un impegno fermo ri-
guardo al trattato di Parigi del 1946. Questo trattato contempla tanto un’ampia autonomia quanto dei diritti linguistici e confe-
risce all’Austria una funzione di garante nei confronti del Sudtirolo.
Oggigiorno la Provincia Autonoma di Bolzano-Sudtirolo dispone di competenze legislative e amministrative in tutti i campi
sociali, culturali ed economici. Queste competenze sono pure garantive costituzionalmente dal punto di vista finanziario: in poche pa-
role, all’Ente autonomo vengono restituiti dallo Stato i 9/10 delle tasse percepite nel Sudtirolo. Il territorio del Sudtirolo dispone
così di un gettito annuale di circa 5 miliardi di Euro.
A partire dall’entrata in vigore del nuovo periodo di amministrazione dei fondi 2007-2013 la nostra Provincia Autonoma
si colloca tra le 10 regioni europee con il PIL più elevato. È al primo posto in Italia. Anche da altri dati statistici si desume che
il Sudtirolo offre una qualità di vita notevolmente superiore. Esso ha pure realizzato buone condizioni ecoambientali e da anni
non soffre praticamente di alcuna disoccupazione. Questo successo è basato su una politica molto ben equilibrata degli sviluppi
di tutte le branche economiche e del modo in cui esse reciprocamente si collegano e si completano. Il territorio si distingue per l’e-
stensione delle sue zone montagnose, più del 60% dei suoi 7.400 chilometri si trovano al di sopra dei 1.500 metri sul livello del
mare. Nei ripiani valligiani le distese sono assai anguste. Una assoluta priorità era rappresentata dal conseguimento di insedia-
89
Karl Rainer
menti e di fattorie anche in zone marginali. Questo è stato reso possibile dal potenziamento delle necessarie infrastrutture (accesso anche
agli insediamenti alpini più isolati, collegamenti elettrici e telefonici) e la realizzazione di strutture sociali e societarie (scuole, centri sa-
nitari, punti di incontro per attività culturali) e soprattutto anche tramite la creazione di posti di lavoro periferici (fonti alternative di
guadagno per gli agricoltori). Importanti concetti per questo sviluppo integrato delle regioni spiccatamente avvantaggiate sono stati de-
sunti anche dai programmi di sostegno europei, come ad esempio l’Iniziativa-Leader. Al Sudtirolo vengono anche notevoli vantaggi com-
petitivi dal fatto che esso è terra plurilingue. Lo statuto autonomo colloca la lingua tedesca alla stesso livello di quella italiana in tutti
i campi e pertanto viene tutelato per tutti il diritto di servirsi della lingua madre. Ciò significa che entrambe queste lingue sono inse-
gnate, scritte e parlate, che esse vengono appaiate pure nella vita pubblica come in quella privata. Da un punto di vista scientifico il
Sudtirolo è pertanto diventato un centro di competenza: si pensi solo alle traduzioni in tedesco di tutti i testi di diritto italiano, come
pure ai dati di ricerche ed esperimenti che possono venire facilmente scambiati in virtù di questa competenza linguistica. Non solo gra-
zie alla sua posizione geografica (all’intersezione di tutti gli avvenimenti economici del sud della Germania, dell’Austria e dell’Italia
del nord), ma anche per via di questa connessione linguistica il Sudtirolo è diventato il punto di partenza di avviamento di affari e di
insediamenti di succursali e filiali di molte ditte. Il bilinguismo, e nelle valli ladine, il trilinguismo ha dato delle possibilità uniche al turismo. Non a caso il Sudtirolo conta annualmente 27 milioni di pernottamenti con una popolazione di 490.000 abitanti.
La lingua veicola anche la cultura. Nella maggior parte delle discipline essa è la via diretta per raggiungere tanto le persone
quanto le loro abitudini di vita. Il plurilinguismo nel Sudtirolo ha contribuito a creare un ambiente speciale, come lo rivelano la
cucina, ma anche l’arte ed altre forme d’espressione della vita sociale. Una buona cooperazione tra i diversi gruppi linguistici e i
diversi popoli conferisce alle popolazioni interessate un grande potenziale di sviluppo, come è dimostrato dalla recentissima storia
del Sudtirolo. La regolamentazione linguistica nella nostra terra, favorevole alle minoranze, ha avuto anche riflessi molto favore-
voli a livello europeo. Con un giudizio della Corte Europea, i diritti delle minoranze tedesche e ladine sono stati estesi a tutti i cit-
tadini europei. Quando una cittadina europea si trova in una causa legale nel Sudtirolo e si sente più a suo agio con il tedesco che
con l’italiano (che pertanto è la lingua nazionale ufficiale), essa può esprimersi in tedesco come farebbe una donna originaria del
Sudtirolo. Basta questo esempio a dimostrare quali riverberi positivi può avere una buona politica linguistica e minoritaria in una
regione comparativamente piccola sulla grande comunità europea.
Nel tutelare le isole linguistiche e le minoranze linguistiche a mio avviso è molto importante adottare una impostazione che
tenga conto di tutti simultaneamente. Avrebbe infatti ben poco senso adottare politiche rivolte esclusivamente a salvare determinate
isole linguistiche minacciate senza, allo stesso tempo, prestare la dovuta attenzione a tutte le popolazioni che vivono sullo stesso ter-
ritorio. Molte iniziative dell’Unione Europea offrono a questo scopo delle ottime metodologie: attraverso la rivalutazione di tradi-
zioni linguistiche e culturali, tramite l’adozione di beni culturali di piccole minoranze per la rappresentazione ad esempio di territori
dove transitano molti stranieri, si può conferire ad un ambiente un particolare fascino e quindi più attrattiva. Naturalmente si deve
dare un’inquadratura più positiva alle questioni sollevate dal plurilinguismo, alla presenza di diverse culture e tradizioni nella prospettiva creata da considerazioni di natura economica. E, soprattutto, a qualsiasi punto le comunità interessate devono rimanere
gli agenti promotori e i veri iniziatori di qualsiasi iniziativa.
***
AN HISTORICAL OVERVIEW OF A LINGUISTIC MINORITY
By-laws regulating the autonomy and the linguistic policy in the autonomous Province of Bozen-South Tyrol constitute an
eloquent example of how fostering and protecting language minorities always pays out, above all in the affected area. South Tyrol
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GESCHICHTE EINER SPRACHMINDERHEIT
was shattered during the suppressive fascist and nazi regimes. The almost 100% German- or Ladin-speaking population of those
days suffered greatly under nationalisation and relocation measures jointly adopted by Mussolini and Hitler. The social fabric had
all but come asunder, when finally the Italian democratic constitution came into force in 1946. The first ever autonomy-granting
charter opened up new grounds for our people and our land. Yet many more treatises had to be hammered out both within and without
the state boundaries to come to a firm commitment to adopt and respect the Paris treaty of 1946. This treaty grants our region
ample autonomy and linguistic freedom. It also confers Austria the role of ombudsman over South Tyrol.
Nowadays South Tyrol enjoys a remarkable legislative and administrative leeway in all matters concerning social, cultural and eco-
nomic domains. Financial advantages are entrenched in the constitution as well. In short, the autonomous Province gets back from the
Italian state 9/10ths of all taxes levied in the Province. This territory thus benefits from revenues worth some 5 billion Euros yearly.
Ever since the 2007-2013 administrative funding term came into force the autonomous Province of South Tyrol ranks among
the first 10 European provinces with the highest gross domestic product. It ranks first in Italy. From other benchmarking data one
infers it offers a superior quality of life. It also achieved some of the best environmental standards and for years now it has had vir-
tually no unemployment. This enviable state of affairs is due to a well-balanced policy aimed at developing all economic venues as
well as from a holistic view about their interconnection and reciprocal fulfillment. This region stands out for its overwhelmingly moun-
taneous terrain. More than 60% of its 7,400 square kilometres are above 1,500 metres (4,700 feet) above sea level. Flat stretches
in the lower valleys are few and far apart. It became an absolute priority to carve out settlements and farms even in outlying areas.
That was made possible by strengthening infrastructures (making even remote alpine settlements easily reachable, supplying them with
electricity and phone) and by building social and community centres (schools, health centres, meeting points for cultural activities) and,
above all, by creating jobs in outlying areas (alternative income sources for farmers). Many inputs for this integrated development of
priviliged areas were supplied by European support programmes, like the Leader Initiative, to quote but one example.
South Tyrol gets a competitive edge also from its being a multilingual area. The charter warranting its autonomy places Ger-
man on the same footing as Italian and this for all intents and purposes. Everybody’s right to make use of his or her mother tongue
is thus safeguarded. That means that both languages are taught, written and spoken and are so as much in private as in public
life. South Tyrol has become a scientific reference point. Just think of all Italian law textbooks translated into German, as well
as research and experiment data which can easily exchanged thanks to this linguistic competence. It is not just its geographic loca-
tion (at the economic crossroad of Southern Germany, Austria and Northern Italy), but also this wealth of languages which turned
South Tyrol into a launching pad for joint business ventures and the ideal ground for dealerships of many companies. Bilingual-
ism and trilingualism in Ladin-speaking areas has boosted tourism as well. It is by no hazard that South Tyrol boasts 27 mil-
lion overnight stays with an overall population of 490,000 people.
Language conveys culture too. For most activities is it the aptest way to reach people and life habits. Multilingualism in South
Tyrol has brought about a unique environment, as can be seen from its cuisine, but also from its art and from other forms of ex-
pressing social life. A good synergy among the various language groups and peoples affords an extraordinary development poten-
tial, as has been shown by South Tyrol’s recent history. Minority-friendly language policies throughout our homecountry has had
much beneficial fallouts at the European community level as well. By virtue of a judgment by the European Court, language rights
of German and Ladin minorities have been extended to all European citizens. When a lady European citizen is involved in a
law suit in South Tyrol and she happens to feel more at ease with German than with Italian (which is, nonetheless, Italy’s offi-
cial language), she may chose to express herself in German as would a local native. This example alone shows what positive out-
comes a good linguistic and minority policy from a comparatively small region may have for the entire European Community.
While protecting linguistic islands and language minorities it is of paramount importance to have a bird’s eye view of the
situation.
91
WIE KANN MAN WALSERDEUTSCH FÖRDERN
Roman Sigg
Wie Sie gehört haben, arbeite ich im Phonogrammarchiv der Universität Zürich
und damit ist Ihnen wohl auch klar, dass ich mich ganz besonders mit der Dokumentation von Sprachen befasse. Das ist die Hauptaufgabe unseres Instituts: die
Dokumentation von Dialekten auf Tonbändern.
Natürlich betreuen wir an unserem Institut auch ein klein wenig die Südwalser.
Vielleicht weniger intensiv als Sie das heute machen, aber dafür länger. Unsere älteste Aufnahme aus Gressoney stammt aus dem Jahr 1910 und ist wahrscheinlich
eine der ältesten Tonaufnahmen von Walser Dialekten überhaupt.
Ich denke, wenn wir uns mit der Dokumentation von Sprachen beschäftigen
wollen, dann gibt es mehrere Ebenen und Aspekte, die berücksichtigt werden wollen. Auf der einen Seite haben wir die Dokumentation von gesprochener Sprache,
so wie sie jetzt gerade zu hören ist – nämlich spontan vorgetragen. Das ist die Sprache, wie wir sie im Alltag verwenden.
Die jetzige Situation ist natürlich etwas ungewöhnlich, weil ich spreche und sie
interagieren nicht. Normalerweise besteht Kommunikation daraus, dass zwei oder
mehrere Leute miteinander interagieren, woraus Sprache entsteht; die Sprache eines
Augenblicks, die Sprache, die zwei Leute finden, um miteinander zu sprechen. Und
das ist eigentlich nicht dieselbe Sprache, die ich sprechen würde, wenn man nur
mich anschauen würde, sondern es ist eine „ad hoc generierte Koiné “.
Es gibt noch mehrere Aspekte. Es gibt nicht nur die Mündlichkeit, sondern auch
die Schriftlichkeit. Es gibt Sachen, die man auch haben muss, wie zum Beispiel Lexika, wie es Professor Gilardino schon mehrmals deutlich gezeigt hat. Und diese Lexika sind eigentlich nur eine Abstraktion des Lexikons, das wir mit uns, in unserem
Kopf, herumtragen. Ein Dizionär ist lediglich eine Extraktion dessen, das die Sprachgemeinschaft oder die Summe der Sprecher mit sich herumträgt. Und das ist immer
viel weniger, als sie eigentlich dabei haben. Ich habe selber einmal bei einem Wörterbuchprojekt mitgearbeitet und daher weiß ich, dass es sehr schwierig ist, die Informanten dazu zu bringen, wirklich alles zu sagen und alle Wörter, alle Verwendungsweisen, alle Sprichwörter und Redensarten aus ihnen herauszukitzeln, die sie eigentlich
kennen. Genau die Fülle, die man brauchte, bekommt man nur sehr schwer.
93
Roman Sigg
Es ist nicht möglich, eine Sprache vollständig zu dokumentieren. Das müssen
wir uns einfach eingestehen. Wir können sie für die Revitalisierung nur so gut wie
möglich dokumentieren. Dies ist die eine Seite. Die andere Seite ist: wir müssen sie
so verständlich wie möglich dokumentieren. Die Leute, die wir gerade dokumentieren wollen, sind nämlich in der Regel keine ausgebildeten Sprachwissenschaftler,
sondern Leute aus dem Volk.
In der Schweiz hatten wir eine Serie an Wörterbüchern und Grammatiken, die
für die Allgemeinheit, für das breite Publikum verfasst sind. Ich kann Ihnen garantieren: das ist jedes Mal ein Verkaufserfolg geworden, weil sich die Leute für ihre Sprache interessieren. Sie wollen sich mit ihrer Sprache auseinandersetzen und sie wollen
zum Beispiel wissen, wie man etwas schreibt. In diesem Sinne sind die Wörterbücher
auch ein Leitfaden für einen vernünftigen schriftlichen Ausdruck des Dialektes.
Und ich sage jetzt nicht, dass wir eine Orthographie haben. Das ist ja falsch, weil
eigentlich sind diese Wörterbücher so gemacht, dass wir eine phonematische Umschrift des mündlichen Ausdrucks bieten. In der Schweiz haben wir eine beliebte Transkriptionsmethode für den Dialekt – für die deutschen Dialekte. Das ist die sogenannte
Bierkrugschrift, was eine phonematische und nicht eine phonetische Umschrift ist –
ich möchte den Unterschied zwischen den beiden doch betonen. Es geht nicht darum,
jeden Laut eins zu eins abzubilden, aber aufgrund der schriftlichen Wiedergabe kann
man sich die Laute sehr gut rekonstruieren. Das ist sehr einfach möglich.
Ich würde nun auch die Walserkommunitäten südlich der Alpen dazu aufrufen,
dass sie ihre Wörterbücher in einer möglichst einfachen Transkription verfassen,
dass sie eben auch Beispiele der konkreten Sprachverwendung bringen. Machen Sie
nicht nur Wörterlisten, sondern versuchen Sie auch zu jedem Wort Verwendungsbeispiele abzudrucken, die aus der Praxis stammen. Es ist sehr viel illustrativer zu
sehen, wie und in welchem Kontext ein Wort verwendet wird, als wenn man eine
elaborierte semantische Umschrift der Bedeutung findet. Das war ein kleiner Aufruf zu diesem Punkt.
Sprache ist, wie wir heute schon mehrmals gehört haben, Identität. Sie ist aber
nicht nur Identität, sondern sie zeigt auch den Spiegel auf. Ein Heimatdichter aus
meiner Region, aus dem Kanton Schaffhausen, hat es so aufgezeigt: „Die Sprache
ist der Spiegel eines Volkes“.
Wenn man die Sprache anschaut, fällt der Blick manchmal auch auf die Situationszirkeln, wie sich die Sprache präsentiert.
Wenn man sich die Dialekte heute anschaut, sieht man, dass dieser Spiegel weit
in die Vergangenheit zurück reicht. Sein Fokuss liegt nicht auf der Gegenwart. Die
Walserdialekte sind eine antiquierte Form, hat man manchmal das Gefühl. Sie bringen Ausdrücke aus einer Wirtschaftsform, die heute fast nicht mehr geläufig ist. Es
geht um Landwirtschaft, es geht um Alpwirtschaft, es geht in Gressoney zum Beispiel auch ein bisschen um das Hausiererhandwerk, weil die Leute hier seit dem
94
WIE KANN MAN WALSERDEUTSCH FÖRDERN
Mittelalter als Hausierer gearbeitet haben – zumindest die Männer. Aber es zeigt
eigentlich nicht die konkrete Gegenwart. Und das ist ein Problem! Denn wir leben
in der Gegenwart und nicht in der Vergangenheit. Das möchte ich auch allen Walser
Kulturvereinen ans Herz legen. Einerseits gehört die Vergangenheit zu uns. Das
sind unsere Wurzeln. Daher kommen wir. Diese Trachten, die ganzen Gebräuche
usw. sind ein Teil davon, wie wir uns definieren. Aber – es ist nicht nur das, was uns
ausmacht. Der Grund, warum es das gibt, hat nichts mehr damit zu tun, wie wir
heute leben. Wir brauchen keine Trachten mehr, um zu zeigen, woher wir kommen.
Früher war es die Arbeitskleidung der Leute, eine Tracht. Heute ist sie es nicht mehr.
Meine Tracht ist im Moment dieser Anzug, um zu zeigen, dass ich hier aufs Referentenpodium gehöre – um das einmal ironisch auszudrücken.
Man muss sich einerseits fragen: Wie ist es mit der Vergangenheit? Sie gehört
zu uns. Aber sie ist nicht alles. Wir müssen versuchen, aus der Vergangenheit eine
Brücke in die Gegenwart und in die Zukunft zu schlagen. Das hat der Kollege aus
Südtirol, Dr. Karl Rainer, sehr deutlich gesagt. Man darf die Vergangenheit nicht
streichen, aber sie ist nicht alles. Man darf sie auch nicht verklären, auf ein Podest
hochheben und sie abschotten vom Zugriff der Gegenwart!
Was möchte ich Ihnen noch mitgeben? Ich finde es wichtig, dass man in die
Gegenwart und in die Zukunft kommt – auch mit der Sprache. Dazu gehören Neologismen – das kann sein! Ich als Schweizerdeutsch Sprecher stehe den Neologismen etwas kritisch gegenüber. Das hat sich bei uns in der Schweiz nie so ganz
durchgesetzt. Allerdings gibt es bei uns in der Schweiz auch Sprachgemeinschaften,
die mit Neologismen arbeiten. Besonders die Räteromanische Sprachgemeinschaft
hat eine eigene Arbeitsstelle, die sich darum kümmert, Neologismen zu bilden oder
auch Sprachanpassungen für Computer Software herzustellen. Microsoft gibt es
mittlerweile auch auf Rätoromanisch, was schon ein Fortschritt ist.
Aber das ist nur eine Seite. Die andere Seite ist eben auch, dass man in der Gegenwart lebt und die Sprache der Gegenwart verwendet. Neologismen, die keine
Verwendung erfahren, sind Todgeburten, akademische Todgeburten. Ich finde es
sehr interessant, wie Sie es in Aosta machen, dass sie jede Woche in einer Zeitung
ein neues Wort vorstellen und so versuchen, die Leute auf Neologismen aufmerksam zu machen und sie in den konkreten Sprachgebrauch einfließen zu lassen. Ich
denke, das ist ein Punkt, den man weiterverfolgen müsste.
Ebenso in diese neue Gegenwart und in die Sprachverwendung der neuen Gegenwart gehört eben auch das Internet. Es ist nicht so, dass das Internet nur ein Mittel der Globalisierung ist. Es ist auch ein Mittel der Regionalisierung und des
Kontaktes! Ich bin zwar kein Spezialist auf diesem Gebiet, aber einer meiner Kollegen arbeitet sehr intensiv mit Internetchats, Regionalchats und Regionalforen. Da
kommunizieren die Leute im Dialekt! In der Schweiz ist es sowieso üblich, dass man
im Chatroom im Dialekt schreibt. Man schreibt auch seine SMS im Dialekt. Man
95
Roman Sigg
schreibt auch seine E-Mails – außer vielleicht die Geschäftsemails – im Dialekt. Das
ist eine Möglichkeit, wie sich die Mündlichkeit in einer schriftlichen Form niederschlägt, die man gerade bei der Jugend fördern sollte. Die Jugend ist frei von solchen
Konventionen, dass man einen Brief unbedingt in der Standardsprache schreiben
muss. Man kann ihn ja auch im Dialekt schreiben. Und das sollten wir auch fördern.
Und der wichtige Punkt sind die Kinder. Wie bringen wir die Kinder dazu, die Elternsprachen zu lernen? Einerseits ist natürlich die Familie die Kernzelle. Andererseits
ist die Familie aber auch eine große Gefahr! Es erstaunt Sie jetzt, wenn ich das sage.
Aber die Familie sorgt dafür, dass man nur eine Form des Dialektes, der Sprache,
lernt und zwar die, die innerhalb der Familie gesprochen wird. Wenn man aber feststellt, dass die Kollegen irgendwie etwas ganz anderes machen und einen teilweise
nicht verstehen, dann führt das dazu, dass man automatisch ausweicht. Und das ist
genau das, was wir eigentlich nicht wollen. Und darum ist es wichtig, dass wir versuchen, die Sprachverwendung nicht nur in der Familie zu fördern, sondern auch außerhalb. Die Leute müssen miteinander sprechen. Das habe ich schon in Brig gesagt und
das ist das Kernproblem! Wir müssen die Kommunikation fördern – mit allen Mitteln, die uns zur Verfügung stehen! Wir müssen zeigen, dass der Dialekt nicht nur die
Sprache des Gestern und der Landwirtschaft ist, sondern auch die Sprache des Heute
und Morgen. Da brauchen wir vielleicht auch die Schulen, die versuchen müssen, die
Kinder in der Verwendung des Dialektes zu fördern – dies nicht nur in der mündlichen, aber vielleicht auch in seiner schriftlichen Verwendung. Da geht es nicht nur
darum, dass man ein bisschen Basisvokabular und Basissätze lernt, sondern es geht
darum, dass man wirklich ein breites Stilrepertoire im Dialekt erwerben kann.
Da müsste man mit den Lehrmitteln, die zur Verfügung stehen, arbeiten. Man
müsste auch versuchen, nicht nur während der Grundschule den Dialekt an der
Schule zu fördern, sondern auch an den weiterführenden Schulstufen. Man könnte
vielleicht auch Projekte machen. Am Lyzeum in der Schweiz ist es mittlerweile üblich, vor der Matura, dem Abschluss am Gymnasium, eine Projektarbeit zu schreiben, die etwa 20 bis 30 Seiten umfasst. Ich als Assistent am Phonogrammarchiv
erlebe es immer wieder, das Kantonschüler zu mir kommen, um herauszufinden, ob
sie etwas über den Heimatdialekt machen könnten. Zum Beispiel eine Tonaufnahme, die sie mit einer früheren Aufnahme vergleichen, um zum Beispiel zu sehen,
wie sich die Dialekte verändert haben. Die Neugier der Jugend muss auch in diesem
Bereich gefördert werden. Ich denke, das wäre auch möglich.
Man muss einfach Mittel und Wege finden, wie der Dialekt von dieser Ecke des
Gestern, der Vergangenheit, der Armut in das Heute überführt werden kann, weil
er auch ein Zeichen der Zukunft sein muss.
Ein weiterer Punkt ist der, dass man sich wieder Mühe geben muss, die Verbindung zur Schweiz besser zu reaktivieren, als sie früher war. Ich spreche für die
Walser, nicht für Lusern oder für das Fersental – da wären andere Regionen attrak96
WIE KANN MAN WALSERDEUTSCH FÖRDERN
tiver. Gressoney hat über Jahrhunderte hinweg direkten Kontakt mit der Schweiz
geführt und behalten. Der Kontakt ist eigentlich erst im letzten Jahrhundert unterbrochen worden und zurückgegangen. Ich denke, da müsste man sich überlegen,
wie man das wieder verbessern kann. Zum Beispiel wäre ein Schüleraustausch möglich, was auch im Rahmen dieses Projektes vorgesehen war, wenn ich mich recht erinnere. Oder dass man vielleicht tatsächlich Radio DRS hier in Gressoney empfangen
kann. Das war eine Forderung, die in den sechziger Jahren ziemlich vehement vorgetragen wurde; jetzt ist sie verschwunden. Das wäre vielleicht doch ein Anreiz den
Dialekt zu stärken, weil man merkt, dass man durch den Dialekt mit dem Nachbarn
in Verbindung treten kann, der gleich über dem Berg wartet. Und das ist so! Wir
Walser, wir warten auf euch!
Es ist wichtig, dass ihr den Dialekt nicht verliert. Denn euer Dialekt ist das, was
euch mit allen anderen Walsern verbindet. Es ist das einzige, das allen Walsern gemeinsam ist. Es gibt Walser, die haben eine andere Religion, Konfession – die sind
reformiert. Es gibt Walser, die wohnen in Steinhäusern und nicht in den typischen
Walserhäusern! Es gibt Walser, die wohnen nicht zuoberst auf dem Berg, sondern
weiter unten! Es gibt Walser, die haben andere traditionelle Wirtschaftformen! Es
gibt Walser, die mussten nicht auswandern usw. usf.! Aber der Dialekt, auch wenn
er nicht überall der gleiche ist: Das ist das, was euch verbindet! Es ist eure Sprache
und die müsst ihr pflegen!
***
COME PROMUOVERE IL WALSERDEUTSCH
Come avete appena sentito, lavoro per l’Archivio Fonografico dell’Università di Zurigo e con ciò vi è pure chiaro che mi oc-
cupo in modo particolare della documentazione delle lingue. Questo è il compito principale del nostro Istituto: documentare i vari
dialetti su supporto fonografico.
Naturalmente al nostro Istituto ci prendiamo cura anche un po’ dei Walser del sud. Forse meno intensivamente di quanto lo
facciate voi oggigiorno, ma da noi la cosa dura da molto più tempo. La nostra più vecchia registrazione a Gressoney è del 1910 ed
è con tutta probabilità una delle più vecchie registrazioni sonore di un dialetto Walser.
Io ritengo che se vogliamo occuparci della documentazione delle lingue vi siano più livelli e aspetti che debbono essere presi in
considerazione. Da un lato abbiamo la documentazione della lingua parlata, così come essa si può sentire proprio al momento at-
tuale – cioè enunciata spontaneamente. È la lingua come la usiamo ogni giorno.
La situazione presente è, naturalmente, un po’ inconsueta, perché io parlo e voi non interagite. Di solito la conversazione con-
siste di due o più persone che interagiscono, da cui ne scaturisce la lingua, quella che due o più persone escogitano per conversare gli
uni con gli altri. E quella non è in verità la stessa lingua che io parlerei se mi guardassero, ma è invece una koiné generata ad hoc.
Vi sono ancora altri aspetti. Non c’è solo l’oralità, ma anche la scrittura. Ci sono poi cose di cui uno deve assolutamente
dotarsi, dizionari per esempio, come il professor Gilardino ha già più volte significativamente dimostrato. E questi dizionari sono,
propriamente parlando, una astrazione di tutto quel lessico, che noi, nella nostra testa, ci portiamo dietro. Un dizionario è sola-
97
Roman Sigg
mente un estratto di ciò che la comunità dei parlanti o la somma dei locutori conosce e porta con sé. Un dizionario è sempre molto
meno di quello che essi in effetti posseggono. Io stesso una volta ho collaborato ad un progetto per la compilazione di un dizionario
e pertanto so che è molto difficile apportarvi informazioni, dire veramente tutto ed estrarre dagli informatori tutte le parole, le al-
locuzioni, i proverbi e i modi di dire che essi effettivamente conoscono. L’intera misura, la compiutezza, di cui si ha bisogno si può
ottenere solo al prezzo di una grande fatica.
Non è possibile documentare compiutamente una lingua. Dobbiamo semplicemente ammetterlo. Possiamo al meglio, ma solo
fino ad un certo punto, documentarla per i fini della rivitalizzazione. Questo è un lato della medaglia. L’altro è che noi dobbiamo
documentarla nel modo più ragionevole e comprensibile. Le persone, la cui lingua noi vogliamo documentare, non sono dei linguisti
provetti, ma gente del popolo.
In Svizzera avevamo una collana di dizionari e di grammatiche per tutti, per il grosso pubblico. E ve lo posso garantire: è sem-
pre stato un successo di vendite, perché la gente si interessa alla propria lingua. Vogliono analizzarla a fondo e vogliono anche sapere
come si possa scrivere questa o quella cosa. In questo senso i dizionari sono anche il filo d’Arianna per una ragionevole codificazione
del dialetto.
E di certo io non voglio qui asserire che abbiamo già un’ortografia. Sarebbe falso affermarlo, perché in realtà questi dizio-
nari sono concepiti in tal modo che quello che noi abbiamo è in realtà una trascrizione fonematica dell’espressione orale. In Sviz-
zera abbiamo un metodo preferito di trascrizione del dialetto – dei dialetti tedeschi. È la cosiddetta grafia “Bierkrug” (“boccale
di birra”), che è una trascrizione fonematica e non fonetica: vorrei sottolineare la differenza che intercorre tra le due. Non si tratta
per nulla di rappresentare graficamente ogni suono, uno per uno, ma piuttosto di fornirne una resa grafica che consenta di ricostruirne
i suoni. E ciò è fattibile molto agevolmente.
Io lancerei un appello alle comunità Walser a sud delle Alpi affinché compilino i loro dizionari con una codificazione il più
semplice possibile e che adducano esempi dell’uso pratico della lingua. Non fate solo delle liste di parole, ma cercate di abbinare ad
ogni parola degli esempi di uso pratico presi dalla prassi quotidiana. È molto più illustrativo vedere come e in quale contesto una
parola viene utilizzata di quanto non avvenga quando ci si trova davanti ad una trascrizione semanticamente elaborata di un si-
gnificato. Il mio è un piccolo grido di supplica a questo riguardo.
La lingua è – come l’abbiamo sentito già più volte oggi – identità. Ma non è solo identità: essa fornisce anche l’esempio. Un
poeta d’ispirazione locale della mia regione, del cantone di Schaffhausen, l’ha messa così: “La lingua è lo specchio di un popolo”.
Quando si guarda la lingua lo sguardo talvolta cade anche sulle situazioni in cui essa viene rappresentata. Quando si osser-
vano oggi i dialetti si nota che questo specchio riesce a penetrare molto addietro nel passato. Il suo punto focale non è il tempo pre-
sente. I dialetti Walser sono forme linguistiche antiquate, o perlomeno così è l’impressione che se ne ricava. Veicolano espressioni
emananti da strutture economiche che oggi praticamente sono sparite. Si tratta di agricoltura, di alpeggi, si tratta per Gressoney,
ad esempio, anche un po’ di vendita ambulante, perché qui molti fin dal Medioevo hanno lavorato come venditori ambulanti – gli
uomini almeno. Ma non vi compare il presente nella sua concretezza. E questo è un problema! Poiché viviamo al tempo presente
e non nel passato. Questo vorrei farlo notare a tutte le associazioni Walser. Da un lato il passato ci appartiene. Sono le nostre ra-
dici. È da lì che veniamo. Questi costumi, l’intera gamma degli usi, e via discorrendo, sono una parte di ciò con cui noi ci definiamo.
Ma quello non è tutto quanto ci riassume. Il fondamento per cui ciò esiste non ha più nulla a che fare con il modo in cui noi vi-
viamo oggi. Oggi non abbiamo più bisogno di costumi tradizionali per far vedere da dove veniamo. Una volta l’abito da lavoro
della gente era un costume. Oggi non è più così. Il mio costume in questo momento è un vestito da uomo per dimostrare che io sono
qui al podio dei relatori, per dirla un po’ ironicamente.
Da un lato bisogna chiederci: com’è dunque che possiamo collocare il passato? Appartiene a noi. Ma il passato non è tutto.
Dobbiamo cercare di lanciare un ponte che dal passato si protenda verso il presente e il futuro. L’ha detto molto significativamente
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WIE KANN MAN WALSERDEUTSCH FÖRDERN
il collega della zona del Sudtirolo, il Dottor Karl Rainer. Non si può obliterare il passato, ma esso non è tutto. Non bisogna nep-
pure trasfigurarlo, metterlo su un piedestallo e isolarlo dal concetto di presente.
Ritengo che sia importante che ci si muova verso il presente e il futuro anche con la lingua. Per quello ci vogliono i neologismi.
Come locutore di tedesco svizzero sono un po’ critico nei loro confronti. È qualcosa che non si è completamente imposto da noi in
Svizzera. Ma ad ogni buon conto anche da noi in Svizzera ci sono gruppi linguistici che si occupano dei neologismi. Soprattutto la
comunità linguistica retoromanza ha un proprio posto di lavoro che si occupa di formare dei neologismi o di creare degli adatta-
menti linguistici per il software dei computer. Nel frattempo è stato creato Microsoft anche per il retoromanzo, che è già un bel
passo in avanti.
Ma questo è solo un aspetto. L’altro è che viviamo nel presente e che usiamo la lingua del presente. I neologismi che non ven-
gono utilizzati sono nati morti, dei nati morti accademici. Trovo invece interessante quello che fanno in Val d’Aosta dove ogni set-
timana si presentano in un giornale nuove parole e si cerca di attirare l’attenzione della gente sui neologismi e di farli entrare
nell’uso linguistico effettivo. È un esempio che meriterebbe di essere seguito.
A questo nuovo presente e all’uso linguistico del nuovo presente appartiene pure l’internet. Non è vero che l’internet sia un
mezzo solo della globalizzazione. È anche un mezzo della regionalizzazione e dei contatti! Non sono per nulla uno specialista in
questo campo, ma uno dei miei colleghi lavora intensamente con Internetchat, Regionalchat e Forum regionali. Lì la gente
comunica in dialetto! In Svizzera è quanto mai comune per la gente scrivere nelle Chatroom in dialetto. Scrivono pure i loro mes-
saggi SMS in dialetto. Si scrivono anche le E-Mails (con l’eccezione forse dei messaggi d’affari) in dialetto. Questa è una possibi-
lità di verificare come l’oralità si fissi in forma scritta, che poi si potrebbe anche fissare stabilmente a beneficio della gioventù. La
gioventù si sente libera da ogni costrizione, come per esempio l’idea che una lettera debba assolutamente essere scritta nella lingua
standard. La si può scrivere benissimo in dialetto. E anche questo dovrebbe essere incoraggiato.
Il punto più importante tuttavia rimane sempre quello dell’educazione linguistica dei bambini. Com’è che possiamo indurli ad
imparare la lingua dei genitori? Da una canto è più che naturale che la famiglia sia il nucleo centrale. Ma d’altro canto la famiglia
è anche un grosso pericolo. Vi stupirà ciò che ora vi dico. Ma è proprio la famiglia a far sì che si impari solo una forma del dialetto,
della lingua che viene parlata all’interno del focolare domestico. Ma quando si constata che i colleghi da altre parti in qualche modo
fanno qualcosa di completamente diverso con la lingua e i piccini non capiscono veramente bene qualcuno, allora ne consegue che au-
tomaticamente ci si sottragga a questa norma linguistica. Ed è esattamente quello che non vogliamo. È proprio per quello che è importante tentare di far sì che l’uso linguistico non si limiti al focolare domestico, ma si estenda anche all’esterno. Le persone debbono
parlare le une con le altre. L’ho già detto a Briga ed è proprio questo il problema centrale! Dobbiamo sostenere la comunicazione con
tutti i mezzi di cui disponiamo. Dobbiamo dimostrare che il dialetto non è solo la lingua di ieri e dell’agricoltura, ma anche la lin-
gua di oggi e di domani. Abbiamo bisogno anche delle scuole che debbono incoraggiare i bambini ad usare il dialetto e ciò non sol-
tanto nell’accezione orale, ma anche in quella scritta. Non si tratterebbe solo di apprendere un po’ di lessico e di sintassi di base, ma
anche di costruire un repertorio stilistico quanto mai ampio in dialetto.
Ciò si dovrebbe fare con i mezzi didattici disponibili. Il dialetto dovrebbe essere incoraggiato non solo nelle classi elementari,
ma anche in quelle superiori. Si potrebbero anche fare dei progetti. Al liceo in Svizzera è ora possibile, prima della maturità, alla
conclusione delle classi ginnasiali, scrivere un progetto di lavoro di 20-30 pagine. Come assistente presso l’Archivio Fonografico mi
capita volta dopo volta di veder arrivare studenti del Cantone che vorrebbero sapere se possono fare qualcosa con il dialetto. Per esem-
pio una registrazione da confrontare con una precedente per vedere se, per esempio, il dialetto in questione nel frattempo è cambiato.
La curiosità dei giovani dovrebbe essere incoraggiata anche in questo campo. E pure ciò io ritengo sia perfettamente possibile.
Insomma, si dovrebbero semplicemente trovare mezzi e modi per far uscire il dialetto dalle strette dello “ieri”, del “passato”,
della “povertà” e farlo pervenire all’oggi, perché esso deve anche essere un segno del futuro.
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Roman Sigg
Un ulteriore punto è che bisognerebbe sforzarsi di rigenerare i rapporti con la Svizzera così com’essi erano una volta. Parlo
per i Walser, non per Luserna o per il Fersental. Gressoney nel corso dei secoli ha avuto e conservato buoni rapporti con la Sviz-
zera. I contatti sono stati interrotti nel corso dell’ultimo secolo. Bisognerebbe pensare a come si potrebbero riattivare. Per esempio,
vedere se non fosse possibile uno scambio di studenti, qualcosa che era previsto anche nell’ambito di questo progetto, se ben mi ri-
cordo. O vedere se si potesse diffondere i programmi di Radio DRS qui a Gressoney. Questa è stata una proposta che negli anni
Sessanta è stata portata avanti con energia. Ora è del tutto sparita. Sarebbe qualcosa di molto attraente rafforzare il dialetto per-
ché si nota che tramite il dialetto si può entrare in contatto diretto con il vicino che aspetta proprio dall’altra parte della montagna.
Ed è così! Noi Walser vi aspettiamo!
È molto importante che non perdiate il dialetto. Perché è il dialetto che vi lega a tutti gli altri Walser. È il solo ad essere comune
a tutti i Walser. Ci sono Walser che hanno un’altra religione, confessione – sono protestanti. Ci sono Walser che abitano in case di
pietra e non nelle tipiche case Walser. Ci sono Walser che non abitano in cima alle montagne, ma molto più sotto. Ci sono Walser che
vivono di altre forme di economia. Ci sono Walser che non hanno dovuto emigrare. Ma il dialetto, anche se non è lo stesso dovunque,
è quello che vi tiene uniti. È la vostra lingua e dovete prendervene cura!
WAYS AND MEANS TO FOSTER WALSERDEUTSCH
I work at the Sound Archives of Zurich University and I record languages. At our department we also look a tiny bit after
the language of the South Walsers. Our first such recording dates back to 1910 and in all likelihood it is the oldest sound record-
ing of a Walser dialect. Documenting a language means having to take care of various aspects at various levels. First there is the
spoken language as it is used in everday conversation. But besides the oral form, there is the written form. One must create tools,
as Prof. Gilardino eloquently pointed out. Dictionaries are but an abstract concept of all the words we carry around in our minds.
It is invariably smaller than the entire array of words people actually know. I took once part in a project which involved compil-
ing a dictionary: that is how I came to know it is hard to extract words, proverbs, expressions from the people who know them.
There is just no way one can thoroughly document a language. At best we can document it for revitalisation purposes. We must do
so as rationally as possible: after all, people speaking it are not trained linguists. In Switzerland we had a dictionary and gram-
mar series tailored to everybody’s needs. It was always a sellout, because people take a keen interest in their language. They want
to sift it and know how one could go about spelling this or that. This way dictionaries become a good blueprint of how one could
correctly spell a language. I do not mean we have already a standard spelling. What we have is a phonematic transcription of oral
expressions. In Switzerland we have a favourite transcription method for our dialect. It is the so called “Bierjug”, a phonematic
and not a phonetic way of writing words. It is not an attempt to exactly reproduce sounds, but just to represent them graphically
in such a way that readers can make out the original sound. I would like to appeal to Walser communities from south of the Alps
to write their dictionaries with as simple as possible a spelling and add expressions and ways of saying to each entry. It is so much
more helpful to see how a word is used in real sentences in everyday conversation. As we severally heard it said today, language is
identity. But language is also a mirror. This mirror reaches far back into the past. Walser dialects are ancient. They give voice to
economic settings which nowadays are all but vanished. They supply words above all for alpine agriculture and shepherding and,
for Gressoney, for peddling as well. The present is squarely shut out. The past is ours, it is all we are nowadays, but we need the
present and the future as well. As Dr. Rainer said, we must lay the foundations of the language to come. We need neologisms. As
a speaker of Swiss German I am not entirelu confortable with them. Yet we have groups working on neologisms, especially the Rhetorumansch people, who have a centre where they produced a Rethorumansch version of Microsoft. We must however be careful not
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WIE KANN MAN WALSERDEUTSCH FÖRDERN
to create words which no one will ever use. In the Aosta Valley they have a magazine where they publish newly devised words and
ask people to either adopt or reject them. It is an example worth imitating. Internet too is a part of the present. It is not true it is
a tool just for globalisation. It is useful for regionalism as well. People go on the internet on such chat programmes like Internetchat,
Regionalchat and regional Forums and write in dialect. They even write their SMS on their cellulars in dialect. This is an excel-
lent opportunity to see how an oral language is put to writing by the people. Youth should be encouraged to use their dialect for such
messages. Children’s linguistic education is also of vital importance. They learn dialect at home. Yet they might not find the same
language whenever they are not in their domestic environment. Dialect should not be confined to the family environment, but used also
elsewhere. And, above all, we have to show that dialect is not just the language of agriculture and of shepherding, but expedient also
for other subjects and purposes, both spoken and written. Schools must encourage its use, not just at the elementary level, but also
later on in high school. Students should build up a vast array of words and expressions in it. One could also have study projects.
Students frequently come to me to see what they could do with our dialect to comply with short dissertation assignments. They com-
pare recordings of the same dialect taken at different times to see how it changed over the years. We should strive to find ways of get-
ting the dialect out of its ghetto and out of its past. We should also re-establish a connection between Walsers and Switzerland.
Gressoney had good connections with Switzerland over the centuries. But they came loose last century. We must see how they could
be made sound again. We could have class exchange programmes or make DRS radio station available to the entire Gressoney area.
It would be a nice way to link up again with the other Walsers on the opposite slope of the mountain. It is crucial that this dialect
not be lost. Dialect is the link among all Walsers. Some of them have another religion, live in stone and not in wooden houses, down
in the valley rather than atop high mountains and make their living with other jobs and trades. But this dialect, albeit slightly dif-
ferent from community to community, is what keeps us all bonded together. It is our language and we must take good care of it.
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STRATEGIE DI SALVAGUARDIA DELLE MINORANZE LINGUISTICHE
VENT’ANNI DI ISTITUTO CULTURALE
IN VALLE DEI MÒCHENI/BERSNTOL IN TRENTINO:
ESPERIENZE E PROPOSTE INTERDISCIPLINARI
Leo Toller
Kulturomt van Bersntoler Kulturinstitut
Ufficio cultura dell’Istituto culturale mòcheno
I DESTINATARI DELLE AZIONI
L’istituzione di un ente locale appositamente finalizzato alla salvaguardia e valorizzazione delle minoranze germanofone mòchena e cimbra del Trentino – risalente ormai
a 20 anni fa – ha senza dubbio rappresentato un fatto storico per le due comunità.
Si tratta di un ente che nel 2004 è stato scorporato nell’Istituto mòcheno/Bersntoler
Kulturinstitut e nell’Istituto cimbro/Kulturinstitut Lusérn con riferimento ciascuno alle
rispettive comunità – che ha la possibilità di agire dall’interno e che può essere condotto direttamente da essa, pur rimanendo un ente a carattere provinciale.
L’azione di salvaguardia – un concetto dall’accezione un po’ statica e al quale aggiungerei sempre anche quello di “valorizzazione”, forse un po’ più ardito – presuppone un soggetto e un destinatario. Tralasciando l’analisi dei principali enti pubblici,
Comuni, Provincia autonoma di Trento, Regione autonoma Trentino-Südtirol ed
individuato soprattutto negli Istituti culturali i principali soggetti di questa breve
analisi1, vale senz’altro la pena di individuare i destinatari.
Un tentativo di sistematizzarli potrebbe dunque essere costituito dal pubblico al
quale le azioni sono rivolte. Distinguiamo innanzitutto tra interventi rivolti soprattutto alla comunità interna, ai giovani, alla scuola (tab. A) e interventi invece rivolti
principalmente alle comunità esterne, al Trentino, al Sudtirolo e – perché no – alla
comunità internazionale (tab. B).
Ovviamente nelle tabelle sono riassunte soltanto le principali attività, siano finalizzate al rafforzamento dell’identità mòchena e al potenziamento dei mezzi e
delle capacità espressive, oppure ad una maggiore partecipazione e coinvolgimento
della comunità esterna2.
Ma è poi reale questa suddivisione?
Talvolta le azioni rivolte più alla comunità stessa che all’esterno hanno risvolti
molto accentuati – anche se il loro valore non viene sempre percepito fino in fondo
1 Le azioni e gli interventi di questi enti, così come quelle delle associazioni e dei privati – seppur di tanto
in tanto richiamati – non vengono qui presi in considerazione in maniera dettagliata.
2 Per un esame più puntuale, si rimanda al periodico “Lem” che dal 1990 è l’organo dell’Istituto mòcheno.
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Leo Toller
TAB. A: LE PRINCIPALI ATTIVITÀ RIVOLTE ALLA VALORIZZAZIONE DELLA LINGUA MÒCHENA.
TAB. B: LE PRINCIPALI ATTIVITÀ VOLTE ALLA CONOSCENZA DELLA COMUNITÀ MÒCHENA.
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STRATEGIE DI SALVAGUARDIA DELLE MINORANZE LINGUISTICHE
– nella popolazione esterna. Ad esempio, la toponomastica viene letta anche dal
nostro turista o frequentatore, seppur occasionale, il quale può rimanerne in qualche maniera colpito.
Ma anche le azioni rivolte principalmente all’esterno trovano riscontro anche all’interno della comunità. Ad esempio il maso con l’allestimento museale può trasmettere molto
al giovane ragazzo mòcheno che della vita passata non può avere ricordi tangibili.
Ma vogliamo proprio elevare un confine tra la comunità e l’esterno? Certamente
no. La minoranza linguistica, e questo vale ancora di più per una piccola minoranza
linguistica, non può contare esclusivamente sulle proprie forze, ma deve poter fare
affidamento su un appoggio esterno.
Il rapporto con l’esterno diventa dunque un elemento fondamentale per le azioni
che si intendono intraprendere a favore di una piccola minoranza linguistica. Ed è
fondamentale la percezione da parte della “maggioranza” della comunità di minoranza: la condivisione del valore del plurilinguismo innanzitutto, ma anche semplicemente la curiosità disinteressata, l’approccio informale, senza pregiudizi.
I pregiudizi. Troppo spesso il primo impatto, il primo contatto è influenzato da
conoscenze superficiali, dai “sentito dire” che si diffondono velocemente, troppo
in fretta rispetto a elementi e conoscenze più conformi ad una realtà certamente
complessa, ma tutto sommato più diffusa di quanto normalmente si pensi. La globalizzazione, l’uniformizzazione di prodotti, stili di vita e quindi di culture – come
appare sempre più massicciamente – provoca fortunatamente anche reazioni contrarie, che vanno però attentamente studiate e verificate.
La diversità – come sappiamo – non può rivestire soltanto la dimensione a carattere
ostentativo, ma va vissuta in profondità ed emergere ogniqualvolta le scelte personali o
di gruppo lo richiedano. Ottenere un provvedimento legislativo o un contributo finanziario è senz’altro importante, ma è fondamentale una partecipazione che oserei definire
“emotiva” da parte della “maggioranza” linguistica circostante. E ciò non vale – o, meglio, non è di per sé sufficiente – che avvenga esclusivamente a livello istituzionale: anche
in questo caso è soprattutto nei rapporti interpersonali quotidiani che la persona appartenente alla minoranza linguistica costruisce la propria identità, il proprio cammino personale, e questo è vero soprattutto nell’infanzia e nella gioventù. Le esperienze giovanili
hanno una immediata ripercussione sul comportamento interpersonale dell’adulto.
Episodi – purtroppo vissuti direttamente sulla nostra pelle – quali l’emarginazione se non addirittura la discriminazione in ambiente scolastico, possono portare
alla negazione e cancellazione di valori e elementi propri della cultura nei bambini
e ragazzi cresciuti.
Anche per le realtà più piccole, la difesa strenua di piccolissime istituzioni scolastiche non è di per sé sempre positiva e va valutata con discrezione e buon senso,
non soltanto a livello politico. Arriva infatti per tutti il momento in cui il proprio
105
Leo Toller
“piccolo mondo” deve confrontarsi con una realtà più ampia: è interesse generale
che si tratti di un incontro e non di uno scontro. Senza dubbio è anche pericoloso
creare dei limiti e dei confini ai bambini, dato che quelli esistenti sono già troppi.
Ma torniamo al nostro rapporto tra comunità germanofona mòchena e popolazione trentina, perché proprio in questo ambito si inserisce l’indagine sulla percezione delle minoranze linguistiche da parte della popolazione trentina3 voluta dalla
Provincia autonoma di Trento. Ne risulta innanzitutto una scarsa conoscenza delle
comunità mòchena e cimbra, ma non è del tutto assente un certo timore4, forse
frutto di un nazionalismo inteso in maniera troppo stretta.
In conclusione di questa prima parte, preme accennare brevemente al sistema
dell’informazione.
Il ruolo dei media e dell’informazione è insostituibile e anche le piccole comunità
linguistiche devono avere la possibilità di accedervi in maniera sistematica e qualificata.
L’accesso alla stampa e all’etere può oggi avvenire in maniera continuativa e puntuale. Certo alcune norme del sistema radiotelevisivo devono pure essere riviste,
nonché il complicato sistema che regolamenta le frequenze e i programmi del principale ente pubblico nel settore non è attualmente favorevole alla realizzazione e
diffusione di programmi per le piccole minoranze.
Nel terzo millennio è infine sicuramente utopistico credere che la comunità abbracci nella sua interezza (seppur piccole, si tratta comunque di comunità variegate
per istruzione, legame con l’ambiente, tipo di economia, ecc.) la pura causa identitaria, culturale e linguistica fine a sé stessa. Occorrono quindi altri approcci.
IL RUOLO DELL’ECONOMIA
Tra le attività proposte dall’Istituto, tentiamo di evidenziare quelle che hanno certamente anche risvolti a carattere economico. Ecco le principali:
• promozione e realizzazione di un Ecomuseo;
• borse di studio per studenti universitari;
• lavori diretti (traduzioni, realizzazione di banche dati, partecipazione a ricerche
sul territorio, ecc.).
Ma è possibile incrementare l’economia di una piccola comunità senza snaturarne il territorio, la struttura sociale e in definitiva l’esistenza stessa?
Proviamo anche in questo a formulare alcune proposte, pensate per la nostra comunità, ma che evidentemente potrebbero trovare attuazione – e che forse in taluni
casi hanno già trovato una realizzazione concreta – anche presso altre comunità:
3 S. Abruzzese, I sentieri dell’identità, cimbri, ladini e mòcheni visti dai trentini, Trento, Provincia autonoma di
Trento, 2006.
4 Ibidem, p. 83.
106
STRATEGIE DI SALVAGUARDIA DELLE MINORANZE LINGUISTICHE
a) interventi mirati in ambito architettonico. Lo studio e la conservazione di antichi stili deve proseguire di pari passo con l’elaborazione di tecniche, meccaniche e materiali adatti ad una costruzione moderna. La Valle dei Mòcheni – ma
anche per le altre comunità vi sono temi eccezionali nel settore5 – è molto conosciuta per un sapiente e talora raffinato uso del legno nelle costruzioni, un uso
che sta gradualmente scomparendo assieme alle tecniche e ai saperi manuali che
sono state trasmesse fino a noi. Una schedatura degli edifici di interesse è già
stata compiuta dal comprensorio di riferimento6, ma una tale varietà di modelli
e di situazioni deve portare ad uno sviluppo di stili anche nuovi, ma saldamente
ancorati alla tradizione locale e trovare infine sbocco attuativo negli strumenti
urbanistici e nella realizzazione concreta delle varie costruzioni. Per evitare incomprensioni, va detto subito che il sostegno a tale operazione non può evidentemente mancare, come peraltro già tuttora non è contestabile7.
b) Pianificazione di piccole opere di recupero della memoria storica (sentieristica,
manualità, ecc.). Anche qui le nostre piccole comunità hanno la possibilità di
caratterizzarsi e di offrire spunti interessanti, per la propria memoria storica e salvaguardia del territorio e per il piacere e il benessere del visitatore. Staccionate,
ponticelli, selciati e, perché no, percorsi con piccole attrazioni lungo sentieri storici e punti d’ombra, vanno puliti, risistemati e valorizzati.
c) Organizzazione di iniziative ed eventi a carattere culturale legati alla comunità.
Piccole iniziative, ben calibrate e di buona qualità sono molto ricercate. È opportuno valorizzare le piccole strutture museali delle quali sono disseminate i nostri paesi con iniziative puntuali e a cadenza fissa (ad esempio si consideri il
successo di pubblico per la riproposizione di antichi lavori chiamate “De Òrbetn
en hoff ” e “Òlla za moln”), inventare appuntamenti o mostre prendendo spunto
da elementi tangibili e radicati nel territorio e nella comunità e valutare un collegamento sotto forma di rete con altre manifestazioni, strutture ed eventi di cui
le nostre regioni sono normalmente ricche.
d) Legare con modalità innovative i tre settori portanti, ovvero l’agricoltura (incluso
l’allevamento), il turismo e la cultura. Luoghi come la stalla, il fienile, il prato e il
5 Sono innumerevoli le pubblicazioni che si occupano anche dell’architettura delle comunità di minoranza,
come ad es. P. Righetti, Architettura popolare nell’area dei cimbri, Giazza (VR), Taucias Garëida, 1989 oppure G. Moretti (a cura di), Vivere in una vallata alpina: architettura, urbanistica e ambiente nell’Alta Valle del Fersina: radicamento e sopravvivenza della Comunità Mòchena nel suo territorio, Palù del Fersina (TN), Istituto culturale mòcheno cimbro, 2001.
In numerosissimi altri casi l’argomento viene trattato all’interno dei vari aspetti della comunità, come in D. Cozzi,
D. Isabella, E. Navarra (a cura di), Sauris = Zahre, una comunità delle Alpi Carniche, Udine, Forum, 1998.
6 Comprensorio alta Valsugana, Ufficio Urbanistica, La casa rurale e i baiti della Valle dei Mòcheni: ricerca sulla
dimora rurale della Valle per un progetto di recupero, Pergine Valsugana (TN), 1994 (Man.)
7 La legge provinciale già prevede concreti strumenti da questo punto di vista. Cf. Giuliani M. C. Architettura delle Alpi, tradizione e innovazione, Atti del Convegno, Trento 6 ottobre 2000, Trento, Provincia autonoma di Trento, Giunta, 2001.
107
Leo Toller
pascolo hanno potenzialità inespresse a livello culturale – si pensi agli attrezzi, alle
tecniche, alle varietà floreali, ecc. – e quindi a livello turistico. Anche in questo
caso, le attività devono trovare sbocchi su terreni del tutto nuovi o ancora poco
conosciuti, privilegiando la cultura alimentare, le troppo spesso represse passioni
floreali, la riscoperta della microfauna, le coltivazioni a carattere macrobiotico e le
immancabili esperienze di lavoro presso i contadini di montagna.
L’elenco intende avere carattere puramente indicativo, sicuramente il lettore avrà
infatti altre idee che possono venire discusse e portate ad un giusto confronto.
TRA TRADIZIONE E FOLKLORE
La discussione all’interno della comunità mòchena è aperta e talvolta emergono
contrasti non indifferenti.
Le modifiche ad una tradizione sono consentite? Se sì, in che misura? In quale direzione?
Una recente iniziativa di un gruppo di giovani della Valle riguardo ad un progetto
di confezionamento di vestiti secondo disegni di inizio Ottocento ha suscitato numerose polemiche e un certo scalpore anche all’esterno. “Non è mai esistito un costume tradizionale mòcheno e non è pertanto opportuno crearne uno senza una
seria ricerca scientifica preliminare volta ad approfondire tutte le fonti (documentarie, orali, reperti, ecc.) presenti”, questo – in estrema sintesi il succo di una lettera
di altolà firmata da una cinquantina di giovani.
Il supporto scientifico viene quindi invocato anche da talune componenti delle
comunità, ma come sappiamo non è sufficiente: ci vuole anche l’accettazione di
certe scelte giudicate innovative.
Le modifiche alle tradizioni, se non avvengono in maniera apparentemente spontanea, sono normalmente volte al folklore nel quale – almeno da noi – non sempre
la comunità si riconosce.
Così il carnevale di Palù è ad esempio riuscito a superare senza grandi traumi anche
gli ultimi decenni, mantenendo le sue principali caratteristiche e soprattutto una
straordinaria continuità. La manifestazione non ha una grande spettacolarità, ma viene
sempre più identificata come un carattere distintivo del paese e pertanto riproposta
con gesti, simboli e percorsi tradizionali.
Ma talvolta proposte nuove, con caratteri importati da altre zone vengono offerte al pubblico senza una appropriata mediazione e inducendo ad una prima lettura errata: risulta fin troppo facile nella nostra regione associare la lingua e la cultura
mòchena a quella sudtirolese, sradicando o coprendo in questa maniera elementi
che invece sarebbero propri.
Ci vorrebbe spesso la lentezza, il procedere con cautela e con ponderatezza: in
un’epoca nella quale tutto cambia vertiginosamente ciò non sembra purtroppo
sempre possibile.
108
STRATEGIE DI SALVAGUARDIA DELLE MINORANZE LINGUISTICHE
In definitiva, i famosi picchetti servono. Ecco che la Provincia autonoma di
Trento ha istituito un gruppo di lavoro volto alla razionalizzazione del sistema normativo tramite la creazione di un testo unico in materia di minoranze linguistiche.
Un intervento quanto mai opportuno per creare rete, per gettare le basi dove
ognuno ha i suoi compiti e porta il suo contributo.
Ma, come detto, la visione dovrà essere più ampia.
Si tratta inevitabilmente dei grandi processi in corso a livello globale, dove la
vecchia Europa – grazie alle proprie radici e ai propri valori – ha importanti basi per
poter rendere evidente un cambiamento di rotta che è necessario per garantire varietà al sistema globale.
***
STRATEGIES FOR SAFEGUARDING LINGUISTIC MINORITIES
TWENTY YEARS OF ACTIVITIES BY THE CULTURAL INSTITUTE IN THE MOCHENS’
VALLEY/BERSNTOL, TRENTINO:
ACQUIRED KNOWLEDGE AND INTERDISCIPLINARY PROPOSALS
T h e b e n e f i c i a r i e s . Setting up some 20 years ago a local organisation whose main goal was to safeguard and enhance Ger-
man-speaking Mochens’ and Cymbres’ minorities in Trentino has no doubt been an historical landmark for both communities.
Ours was separated from, and made autonomous under the name of Mochens’ Institute/Bersntoler Kulturinstitut. It can
take actions directed both within and without, but on a provincial basis. Safeguarding requires a subject and a beneficiary. The
beneficiary is the public. Our home or “in-house” public are our youth (chart A). The others are outsiders throughout Trentino
and South Tyrol and, why not, the international community as well (Chart B). In Chart A are listed the main activities aimed
at revitalising the Mochen language. In Chart B are listed the main activities meant to publicise knowledge of the Mochens’ com-
munity. Many of these activities are beneficial to both in-house and outside users, like place names, for example, which benefits
tourists as well as locals, or the mountain hut museum, meant mainly for outsiders, but which can tell a lot to our youngsters too
who know very little about their past. Better raise no fences between local people and outsiders. Relationships with the outside world
make up a substantial share of all actions undertaken to foster a small linguistic minority. What the outside majority thinks of
a small minority is of great consequence, like interest in multilingualism or just plain curiosity. Oftentimes the first encounter takes
place under the influence of superficial and preconceived ideas. Globalisation of products, of people’s attitudes and of life styles
may create reactions which must be carefully sifted. Diversity is not just showing off what one is or is not. It must be experienced
and shared in some depth whenever personal or group choices require it. Getting a favourable bill passed or a grant is important,
but one must also get an “emotional” empathy from the “majority” without. Institutions simply are not enough. It is in daily in-
terpersonal relationships that a minority person builds up his or her identity, especially during childhood and youth. Youthful ex-
periences deeply mark later, adult, interpersonal behaviour. Marginalisation or straightforward discrimination in the school milieu
may blot out whatever residual elements of native culture in children and grown up kids. Defending at all costs minor school niches
must not be seen as appropriate at all times. It must be weighed with discretion and common sense. The moment when our “small
world” must be confronted with the reality of the wide world outside comes for everybody. We must make sure that moment is an
encounter and not a clash. There is no doubt it is dangerous to create barriers and limitations for children, considering existing ones
109
Leo Toller
are already enough as it is. In Trentino the public at large does not know the Mochen or Cymbre communities that well and there
is even a certain amount of fear coming from too narrow a view of nationalism. The role of the media and of information is ir-
replaceable and even small language communities must be granted access to them. Access to the press and to broadcasting may take
place uninterruptedly and timely. Some TV by-laws and regulations need some fine tuning, as well as the complex set of rules for
radio frequencies and programming by the national broadcasting institute which is not as yet particularly favourable toward small
minorities. In this third millennium it is unrealistic to believe one community espouses the identity, cultural and linguistic cause as
an end to itself. Other approaches are needed.
W h a t r o l e s e c o n o m y c a n p l a y . Among the activities fostered by our institute we point out those which may have eco-
nomic implications:
• promoting and creating an ecological museum,
• scholarships for university students,
• jobs (translating, creating data banks, conducting on-the-field research, etc.).
It is possible to stimulate a small community’s economy without misrepresenting and radically changing its territory, its so-
cial structure and, bottom line, its very existence?
We put forward some proposals meant for our community which could also prove useful to others:
a) architectural projects. Preserving ancient buildings and building styles must go hand in hand with new techniques and build-
ing materials. A wise and refined use of wood as an engineering material must not disappear and a list of fine old buildings is al-
ready well under way;
b) recoup and spruce up small structures embodying an historical value;
c) organise cultural events linked with our community’s history;
d) connect among themselves the three props and mainstays of our economy, that is agriculture and farming, tourism and cul-
ture. Stables, haylofts, meadows and grazing grounds possess an unexplored potential from a tourist’s point of view.
Other ideas may be found and added to this list.
F r o m t r a d i t i o n s t o f o l k l o r e . Can one bring changes to a tradition? If so, to what an extent? Going which way? An
initiative recently taken by a group of youth from our valley about sawing clothes according to drawings dating back to the early
Eighteen hundred rose objections and debate even from outside quarters. «There never was a traditional Mochen costume and it
makes no sense to try and create one without beforehand scientifically researching this matter». Scientific support is thus demanded
by members of our community. Accepting innovation is also a must. Palù’s carnival survived over the last few decades, preserving
its original features. The autonomous Province of Trento has set up a work group to look into rules, regulations and by-laws to
draw one common guideline text for linguistic minorities. Each one will be called upon to bring to it its own bit of wealth and truth.
These are global processes underway everywhere in this world of ours to which old Europe has crucially important clues to bring
about a much needed new course of events.
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INDICE
INHALTSVERZEICHNIS
PREFAZIONE
Sergio Maria Gilardino
POUR LA DIVERSITÉ LINGUISTIQUE
Alexis Bétemps
I DIALETTI OGGI: CANTO DEL CIGNO O ARABA FENICE?
Saverio Favre
NOTARELLE A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI DOCUMENTAZIONE
DI UNA LINGUA IN VIA DI SPARIZIONE
Sergio Maria Gilardino
CREARE GLI ATTREZZI DI CONSERVAZIONE E DI LAVORO: IL DIZIONARIO
Gianfranco Gribaudo
DECLINO DELLE IDENTITÀ E DELLE LINGUE MINORITARIE
Monica Pedrazza
GESCHICHTE EINER SPRACHMINDERHEIT
Karl Rainer
WIE KANN MAN WALSERDEUTSCH FÖRDERN
Roman Sigg
STRATEGIE DI SALVAGUARDIA DELLE MINORANZE LINGUISTICHE
Leo Toller
5
11
21
29
63
67
87
93
103
L’INIZIATIVA È COFINANZIATA CON FONDI DELL’UNIONE EUROPEA
PROGETTO INTERREG IIIB “WALSER ALPS”
Composto in Garamond 12/14
Finito di stampare nel mese di dicembre 2007
presso presso Grafica Ferriere - Buttigliera Alta (To-I)