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Work-life balance e differenze di genere
2. La flessibilità contrattuale, i congedi e i servizi come strumenti di conciliazione tra lavoro e
famiglia.
Negli ultimi decenni, come abbiamo delineato nelle pagine precedenti, le società sono state
caratterizzate da forti mutamenti sul piano del lavoro, della famiglia, delle relazioni tra uomini e
donne e tra generazioni, che inevitabilmente hanno determinato delle ripercussioni sulla salute e
sicurezza di lavoratori e lavoratrici. Questi cambiamenti hanno richiesto e richiedono un riequilibrio
tra i ruoli all’interno della famiglia e politiche in grado di rispondere al bisogno di riallineare il
lavoro di cura con quello per il mercato. Si tratta di politiche che, per quanto agiscano su piani
differenti si trovano spesso ad essere particolarmente integrate e ad avere risvolti positivi anche in
altri settori di policies: uno per tutti, la salute e la sicurezza sul lavoro.
Le politiche di conciliazione, quindi, talvolta diventano tali anche se nate per rispondere ad altri
obiettivi o rispondono ad altri scopi pur essendo state concepite come misure di riallineamento tra
differenti tempi di vita.
Tra le varie misure atte a riallineare il tempo della cura con quello per il lavoro, in questa sede, ci
soffermeremo sul lavoro a tempo parziale e sui congedi dal lavoro per maternità, paternità e
parentali in quanto strumenti che liberano del tempo, permettendo o una rotazione o un
contemporaneo svolgimento di lavoro retribuito e di cura di familiari (l’attenzione, in particolare,
sarà rivolta alla cura dei figli).
Nell’ambito delle tipologie contrattuali caratterizzate dalla flessibilità temporale, il contratto di
lavoro a tempo parziale è sicuramente la fattispecie più ricorrente, oltre che uno strumento
funzionale alla conciliazione.
Il lavoro part-time occupa un posto centrale nel dibattito sulla flessibilità in Europa, in quanto
appare come una figura contrattuale volta, da un lato, a facilitare l’organizzazione del lavoro e i
livelli di produttività dell’impresa, per la caratteristica flessibilità degli orari, e dall’altro lato, ad
aumentare il tasso di occupazione o anche di partecipazione, soprattutto femminile, al mercato del
lavoro, in un contesto in cui, essendo ancora gran parte del lavoro di cura all’interno delle famiglie
a carico delle donne, è sempre più evidente il bisogno di conciliare tempi di vita diversi.
Il nostro sistema presenta, al riguardo, una forte asimmetria di genere nella distribuzione del lavoro
di cura dei figli e degli anziani, prevalendo ancora oggi un modello sociale e culturale di
organizzazione della vita familiare costruito sulle figure del male breadwinner e della female
caregiver; le donne, dunque, presentano maggiore difficoltà nella conservazione del lavoro in
presenza del doppio carico professionale e familiare, con il rischio della loro marginalizzazione in
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tipologie contrattuali precarie e in mansioni caratterizzate da un modesto contenuto professionale e
scarsa rilevanza nell’organizzazione aziendale, con ridotte prospettive di carriera.1
In sostanza, si vuole porre luce sulla questione dell’alternativa tra conciliazione e marginalizzazione
delle donne part-times. L’alternativa è tra due tesi che si possono sintetizzare con le espressioni di
flessibilità ‘cattiva’2e flessibilità ‘buona’: la prima marginalizza le donne, finendo per impedire loro
di sfuggire ad una condizione occupazionale sottopagata, corrispondente ad un basso livello di
status sociale, segregate per genere e rendendole più dipendenti dai loro partners; la seconda,
invece, rappresenta la migliore soluzione occupazionale per loro, in quanto mogli dipendenti, per le
quali la famiglia rappresenta l’interesse primario e il cui reddito da lavoro ha una funzione soltanto
accessoria.
Da questa prospettiva, il part-time come politica di conciliazione si ritrova associato alla questione
dell’occupazione femminile, considerata o come soluzione “ponte” verso il full-time o come
“trappola”, nel senso che queste lavoratrici, una volta impiegate nel part-time avrebbero una
probabilità di rimanere senza lavoro più alta di quella di passare ad un impiego a tempo pieno.
In un’ottica di maggiore parità di genere occorre, però, riformulare l’ipotesi che vede il part-time
soltanto come una soluzione lavorativa per le donne, concependolo per l’insieme della forza lavoro
e dei gruppi che la compongono come opportunità e libera scelta, ad esempio per gli uomini che
contribuiscono alle responsabilità di cura. L’impiego del part-time, infatti, se scelto liberamente e
tutelato da standard elevati comparabili con l’impiego a tempo pieno, può costituire un’opzione
attraente e offrire una soluzione in vista di un migliore equilibrio fra tempo per guadagnarsi da
vivere e tempo da dedicare ad altre attività.3
A livello comunitario, la Direttiva 97/81/Ce relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale
ha sollecitato gli Stati membri a promuovere adeguate legislazioni per l’uguaglianza di trattamento
tra part-timers e lavoratori a tempo pieno nell’aver accesso ai sistemi di protezione sociali, al fine di
incentivare la diffusione di un lavoro a tempo parziale volontario e contribuire all’organizzazione
flessibile dell’orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori.
Tenuto conto che oltre tre quarti dei lavoratori a tempo parziale sono donne e che, tutt’ora, esiste
nel mercato del lavoro un forte divario nelle retribuzioni percepite dalle lavoratrici rispetto ai
lavoratori, di fondamentale importanza appare l’obiettivo di eliminare le discriminazioni nei
1
Cfr. Ibidem, pp.401-402.
In questi termini v. NUNIN R., Precarietà, lavoro femminile e tutela della salute e della sicurezza, in Lav. Dir., n.3,
2010, p.425.
3
Cfr. FASANO A., op.cit., p.72.
2
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confronti delle lavoratrici e dei lavoratori a tempo parziale per quanto attiene le “condizioni di
impiego”.4
Affinché il part-time possa essere un buon strumento di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro,
sia per le donne che per gli uomini, è necessario che ci sia il presupposto di non essere penalizzato
sul piano del welfare e della stabilità del lavoro. Pertanto, risultano essere molto importanti quegli
aspetti delle normative nazionali – in quanto le questioni relative ai regimi legali di sicurezza
sociale esulano dalle finalità dell’accordo - che tendono a garantire sotto il profilo delle tutele
sociali (contro i rischi della vecchiaia, disoccupazione, malattia, infortuni) i part-timers.
Nell’attribuzione di un ‘diritto al part-time’ appare evidente la maggiore inclinazione verso la
valorizzazione ed il rafforzamento delle capacità di autodeterminazione dei tempi di vita e di lavoro
del soggetto, in una ‘riscoperta dell’individuo’ che sembra ben coniugare “flessibilità e sicurezza”.
Ambizioso è poi l’obiettivo di “facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base
volontaria”, contemperando i bisogni dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori. In tal senso, la
promozione del lavoro part-time dovrebbe essere accompagnata da una serie di regole volte a
garantire la volontarietà della scelta di lavorare a tempo parziale, così come da una serie di misure
volte a far sì che l’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro tenga realmente conto dei bisogni
dei prestatori che scelgono di lavorare ad orario ridotto.
A tal proposito, tra le principali misure di favore adottate e adottabili a livello aziendale in materia
di conciliazione e differenze di genere si menziona la ‘banca delle ore’, il ‘job sharing’ e il parttime reversibile.
Con la c.d. banca delle ore il tempo effettivo è registrato sottoforma di debiti e crediti di lavoro in
apposito conto e le ore in eccedenza possono essere utilizzate dal dipendente per necessità familiari.
Si tratta di un sistema a costo zero che contribuisce a creare un clima migliore di lavoro all’interno
delle organizzazioni, senza contare il fatto che sarà molto probabile che l’azienda ottenga maggiore
disponibilità dal collaboratore nei momenti di necessità.
Il job-sharing è invece una forma stabile di part-time gestito in modo autonomo da due o più
lavoratori che condividono la responsabilità della posizione e svolgono il lavoro alternativamente,
ad esempio il primo le mattine ed il secondo i pomeriggi o a giorni/settimane alternati. La copertura
di una mansione da parte di due figure part-time permette una maggiore flessibilità e una riduzione
del rischio in caso di malattia di un lavoratore o di altre emergenze; e la riappropriazione del
proprio tempo è senz’altro uno stimolo all’offerta di maggiore impegno e flessibilità. A fronte della
possibilità di mantenere due figure professionali, a copertura di un solo posto di lavoro, qualificate e
4
Cfr. ZAPPALÀ L., I lavori flessibili, in SCIARRA S. (a cura di), Manuale di diritto sociale europeo, Torino,
Giappichelli, 2010, p. 140.
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specializzate, che possono rendersi disponibili nel lungo periodo, vi sono, a carico dell’azienda
interessata, dei costi in termini di programmazione, progettazione, pianificazione e organizzazione
del nuovo modello di orario di lavoro, soprattutto nella fase iniziale.
Il lavoro part-time non costituisce espressamente una misura family friendly, tuttavia, può essere
promosso come modalità di lavoro reversibile, per consentire, ad esempio, di conservare
l’occupazione a donne o uomini che, in alcune fasi della propria vita, hanno bisogno di una
riduzione del loro orario di lavoro (in primo luogo, nei primi anni di vita dei figli). A tale scopo va
garantita anche, mediante opportune forme di riorganizzazione, la possibilità, sia di accedere alle
varie modalità di part-time orizzontale e verticale, sia di tornare all’orario a tempo pieno, qualora le
necessità, che hanno portato alla riduzione, cessino. La reversibilità della scelta di lavorare a tempo
pieno o a tempo parziale rappresenta una delle più forti garanzie per l’espansione del modello
volontario di rapporto di lavoro a tempo parziale. Si tratta di un obbligo procedurale che impone un
“mero esame della domanda di trasferimento”, senza tuttavia obbligare il datore di lavoro ad
accettarla.5
Al fine di rendere concretamente possibile che il datore di lavoro “prenda in considerazione” le
domande dei lavoratori è, ovviamente, necessario che siano previsti meccanismi di pubblicità delle
opportunità di trasformazione del contratto di lavoro da part-time a full-time e viceversa: per tale
ragione, la clausola 5, paragrafo 3, lett. c), dell’accordo stabilisce la necessità di garantire “la
diffusione in tempo utile di informazioni sui posti a tempo parziale e a tempo pieno disponibili nello
stabilimento”.
L’accordo si preoccupa, inoltre, di incoraggiare la possibilità di accesso al part-time “a tutti i livelli
dell’impresa, ivi comprese le posizioni qualificate e con responsabilità direzionali”, nonché di
promuovere “le misure finalizzate a facilitare l’accesso dei lavoratori a tempo parziale alla
formazione professionale per favorire carriera e mobilità professionale” (clausola 5, paragrafo 3,
lett.d). Al fine di favorire un’adeguata trasparenza sull’uso del lavoro a tempo parziale, la clausola
5, paragrafo 3, lett.e, prevede, infine, la necessità di “diffusione, agli organismi esistenti
rappresentanti i lavoratori, di informazioni adeguate sul lavoro a tempo parziale nell’impresa.”
Nello specifico, la Direttiva comunitaria prevede una serie di linee guida a cui gli Stati membri
devono fare riferimento nelle rispettive normative nazionali. Tuttavia, pur riconoscendo in modo
inequivocabile la rilevanza del principio di non discriminazione a favore dei part-timers, al
contempo è stata lasciata ampia libertà agli Stati e alle parti sociali nelle attività dirette ad
5
Cfr. ZAPPALÀ L., I lavori flessibili, in SCIARRA S. (a cura di), Manuale di diritto sociale europeo, Torino,
Giappichelli, 2010, p.148.
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identificare ed analizzare gli ostacoli di natura amministrativa o giuridica che possono limitare le
possibilità di lavoro a tempo parziale.
Volgendo lo sguardo al alcune esperienze europee, si è osservato che i tassi di part-timers sono più
alti laddove i governi hanno cercato di apportare degli incentivi o attraverso misure finalizzate a
promuovere il part-time in parallelo allo svolgimento delle incombenze familiari – così come
avviene in Olanda, Germania e Francia – o tramite un’indennità di disoccupazione che bilancia lo
svantaggio economico derivante dal minor numero di ore lavorate – così come avviene in Svezia -,
al fine di incoraggiare l’utilizzo di questa tipologia contrattuale.6
In Svezia, infatti, il percorso prescelto è stato piuttosto quello di incentivare l’emancipazione
femminile, attraverso anzitutto una presa di coscienza generalizzata sulle tematiche inerenti la parità
tra i sessi, seguita dalla riforma fiscale7 attuata negli anni Settanta e dalla diffusione di servizi statali
di assistenza all’infanzia che hanno portato ad un notevole incremento della partecipazione
lavorativa delle donne e per questa via ad un aumento consistente del part-time. Inoltre, la
normativa prevede che lavoratori e lavoratrici a tempo pieno possano richiedere la riduzione
dell’orario di lavoro fino al massimo di un quarto per la cura dei figli fino a otto anni, senza bisogno
di trasformare il contratto di lavoro originariamente stipulato in uno di lavoro part-time.
2.1 I congedi familiari.
Il congedo familiare, nelle sue varie forme, rappresenta un importante strumento di
conciliazione tra tempi di lavoro e altri tempi di vita.
Con l’espressione ‘congedi familiari’ si fa riferimento all’insieme delle cause di sospensione
del rapporto di lavoro per motivi legati allo stato di maternità e paternità (congedo di maternità,
paternità, parentali e per la malattia del bambino) e, più in generale, all’essere parte di un nucleo
familiare.
Il nostro ordinamento prevede una disciplina specifica8 al fine di consentire al lavoratore di
occuparsi della famiglia senza pregiudicare la sua posizione lavorativa. L’insieme di queste norme
permette una gestione meno rigida dei tempi e dei ruoli, e quindi riduce almeno in parte le tensioni
sia delle lavoratrici-madri – che lamentano gli effetti sul loro stato di salute del dover conciliare il
proprio ruolo di madri o la propria funzione di cura a familiari in difficoltà con un conseguente
senso di inadeguatezza sia sul lavoro che in famiglia – sia dei lavoratori-padri – che avvertono come
6
Cfr. FASANO A., op. cit., pp.84-85.
La riforma fiscale del 1971 ha introdotto la tassazione separata per i coniugi, rendendo in tal modo più remunerativa e
conveniente la partecipazione lavorativa femminile.
8
V. artt.16-54, d.lgs. 151/2001 e art.4, Legge 53/2000.
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frustrante e ansiogeno il non potersi dedicare abbastanza ai propri figli. Quindi le norme che
permettono di gestire più flessibilmente i congedi tra genitori possono contribuire indirettamente a
ridurre la presenza di eventi stressogeni. Non si tratta certo di strategie risolutive, ma comunque
adatte a favorire il mantenimento della salute intesa come “stato di benessere fisico, mentale e
sociale non consistente in un’assenza di malattia o infermità”9.
La disciplina si inserisce in un processo evolutivo costante, influenzato tanto dalla
giurisprudenza costituzionale, quanto dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria, che tende
a valorizzare in maniera sempre più accentuata, a fronte della tradizionale normativa di tutela della
donna lavoratrice, la dimensione paritaria di genere rispetto al rapporto tra attività lavorativa e
compiti di cura della famiglia.
Secondo la ratio del ‘Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno
della maternità e della paternità’ (il d.lgs. n.151/2001), propensa a favorire l’obiettivo della
“condivisione” oltre che della “conciliazione”, il congedo parentale è considerato quale diritto di
entrambi i genitori e ne è diretta titolare anche la figura paterna, con alcuni limiti10. L’articolo 32,
comma 1, d.lgs. 151/2001, che ne disciplina il godimento ammettendone l’uso frazionato, è
altrettanto rilevante nella prospettiva volta ad avvicinare il padre al lavoro di cura gradualmente, in
maniera più compatibile con la tradizione culturale e la rappresentazione tradizionale che l’uomo ha
di sé, costituendo e per il destinatario e per le lavoratrici un’innovazione senz’altro positiva per la
sua maggiore flessibilità in rapporto alle esigenze familiari.11 Un ulteriore incentivo nella direzione
della ‘condivisione’ è dato dal fatto che complessivamente (tra madre e padre) il diritto di astenersi
dal lavoro è pari a 10 mesi, elevabili a 11 nel caso in cui il padre fruisca di almeno 3 mesi di
congedo parentale.
La Legge n.92 del 2012, meglio nota come “riforma Fornero”, al fine di sostenere la
genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli
all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, ha introdotto in
via sperimentale per gli anni 2013-2015 un vero e proprio obbligo per il padre lavoratore, di
godimento di congedo di maternità.
In particolare è previsto che entro i cinque giorni dalla nascita del figlio, il padre si astenga
dal lavoro per un periodo di un giorno. Entro il medesimo periodo, il padre lavoratore dipendente
può astenersi per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre
9
V. art.2, d.lgs. 81/2008.
Il diritto di astenersi dal lavoro compete: alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità (c.d.
astensione obbligatoria), per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6 mesi; al padre lavoratore, dalla
nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6 mesi, elevabile a 7 nel caso in cui si
astenga per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 mesi.
11
Cfr. TORELLI F., La difficile condivisione del lavoro di cura. Spunti sui congedi parentali, in Lav. Dir., n.3, 2010, p.
457.
10
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e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima. In
tale ultima ipotesi, per il periodo di due giorni goduto in sostituzione della madre è riconosciuta
un’indennità giornaliera a carico dell’Inps pari al 100% della retribuzione e per il restante giorno in
aggiunta all’obbligo di astensione della madre è riconosciuta un’indennità pari al 100% della
retribuzione.12
Un ulteriore aiuto per la madre lavoratrice deriva da una seconda misura sperimentale che
consiste nella concessione di ‘voucher’ per acquistare servizi di baby-sitting che diano la possibilità
alla neo mamma di svincolarsi dagli obblighi familiari per riprendere l’attività lavorativa. In
alternativa tali ‘voucher’ possono essere di ausilio per far fronte ai costi derivanti dalla rete pubblica
dei servizi per l’infanzia, o servizi privati accreditati, da richiedere al proprio datore di lavoro. Tali
servizi, innovativi nell’ambito delle tutele riservate alla lavoratrice-madre, possono essere richiesti
solo negli 11 mesi successivi al termine del periodo di congedo per maternità, ma in alternativa al
congedo parentale del periodo di 6 mesi.
In altri termini, per meglio recuperare il soggetto femminile, considerato una risorsa
fondamentale per lo sviluppo non solo economico ma anche sociale e culturale, si è assistito ad un
tentativo di riequilibrare ruoli e funzioni nella famiglia spostando il piano degli interventi
soprattutto sul ruolo del genitore considerato in sé, e dando rilievo al fattore “genere” laddove
strettamente necessario, ovverosia in quanto legato ad aspetti biologici della maternità.13
Insomma, il legislatore punta a valorizzare la ‘genitorialità’, tanto che gli studiosi della
tematica preferiscono parlare ormai di ‘condivisione’ dei ruoli anziché di ‘conciliazione’.
Ciononostante, a dimostrazione che il cammino da percorrere è ancora lungo, nel nostro Paese
si continua ad assistere ad uno scarso utilizzo di congedi dal lavoro da parte dei padri: per motivi
culturali certamente, ma soprattutto, economici e, per certi versi anche più in generale, legati ai
rischi di una successiva emarginazione dal contesto lavorativo - con tutte le possibili conseguenze
sulla carriera e sulla professionalità - che le lavoratrici madri da decenni hanno dovuto in molti casi
sperimentare al ritorno al lavoro dopo un’assenza per maternità.
12
Il padre lavoratore è tenuto a fornire preventiva comunicazione in forma scritta al datore di lavoro dei giorni prescelti
per astenersi dal lavoro almeno 15 giorni prima dei medesimi. Quest’ultimo obbligo di comunicazione così anticipata
però toglierebbe ogni speranza ai futuri padri di assistere la madre nel giorno del parto utilizzando di diritto un
permesso. È infatti oggettivamente impossibile comunicare al proprio datore di lavoro il giorno esatto della nascita del
figlio a meno che non si tratti di un parto programmato. Sarebbe forse più giusto stabilire che il padre ha diritto ad
astenersi dal lavoro nel giorno della nascita del proprio figlio o in alternativa in un giorno qualsiasi nei cinque mesi
successivi. Cfr. QUINTAVALLE R., I nuovi congedi parentali: così la riforma sostiene la maternità, in SANNA P.,
VICHI L., BOSCO A. (a cura di), La riforma del lavoro. Maternità e paternità nel rapporto di lavoro, Vol.7, Milano,
Ilsole24ore, p.20.
13
Cfr. SARACINI P., I congedi “familiari” tra diversità di genere e culturale, in SANTUCCI R., NATULLO G.,
ESPOSITO V., SARACINI P. (a cura di), “Diversità” culturali e di genere nel lavoro tra tutele e valorizzazioni,
Milano, FrancoAngeli, 2009, pp. 380 – 381.
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Per quanto riguarda l’aspetto economico, la scarsa consistenza dell’indennità prevista –
laddove si considerino i costi che la nascita di un figlio comporta per la famiglia14 - congiuntamente
al noto permanere, in seno alla coppia genitoriale, di un gender pay gap che comporta
l’effettuazione di scelte strategiche, le quali, nella stragrande maggioranza dei casi, portano ad una
fruizione del congedo parentale da parte della sola madre, quale componente della coppia con lo
stipendio meno elevato.15 A dimostrazione di ciò basti pensare al fatto che l’utilizzo dei congedi
parentali da parte dei padri è molto più diffuso nel pubblico impiego che nel privato, dove il livello
dell’indennità viene elevato dalla contrattazione collettiva al 100% della retribuzione, anche se solo
per il primo mese (periodo in cui il congedo viene difatti effettivamente utilizzato). Per quanto
riguarda la questione della ripercussione sul rapporto di lavoro è probabile la maggiore utilizzazione
– a prescindere dal sesso – in contesti, come quello del lavoro pubblico, in cui è avvertita una
sostanziale stabilità del posto.16
La permanente scarsa propensione maschile alla fruizione del congedo parentale finisce
dunque per riversare ancora una volta sulle spalle femminili – in assenza, appunto, di una reale
condivisione – il problema della difficile conciliazione tra lavoro esterno e lavoro di cura.
Queste considerazioni spingono a sottolineare l’importanza del congedo parentale, ma
soprattutto la necessità di insistere nell’individuare ulteriori meccanismi in grado di promuovere
effettivamente l’utilizzo di tale istituto (ad esempio, forme di sostegno economico da parte dello
Stato, una maggiore attenzione della contrattazione collettiva sul punto anche nel privato), affinché
si possa rendere realmente libera questa scelta che, indubbiamente, denota anche l’appartenenza ad
un determinato modello culturale; nella consapevolezza che l’individuazione di nuove strategie
appare ineludibile tanto per favorire una maggiore partecipazione delle donne italiane nel mercato
del lavoro, in linea con le indicazioni comunitarie, i cui obiettivi (75% di occupazione femminile
nel 2020) appaiono ancora per l’Italia drammaticamente distanti17, quanto per cercare di produrre
14
Solo incidentalmente deve segnalarsi come la famiglia in Italia sia ormai un fattore di impoverimento, nel senso che
avere famiglia è causa di rischi di povertà sociale, che appaiono inoltre crescenti al crescere del numero di figli.
15
La scelta di utilizzare il congedo parentale comporta una perdita considerevole della retribuzione che, fino al terzo
anno di vita del bambino, viene ridotta nella misura del 70%; più precisamene i genitori hanno diritto a percepire
un’indennità pari al 30% della retribuzione, per un periodo massimo complessivo di sei mesi; oltre i 6 mesi,
esclusivamente nel caso in cui il reddito individuale del genitore interessato sia inferiore a 2,5 volte l’importo del
trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria. NUNIN R., Dalla conciliazione alla
condivisione. Valorizzazione del ruolo paterno e interventi del legislatore regionale: il caso del Friuli Venezia-Giulia,
in CALAFÀ L. (a cura di), Paternità e lavoro, Bologna, Il Mulino, 2007, p.211.
16
Cfr. Ibidem.
17
Si rinvia alla ‘Premessa’ del presente elaborato per un quadro statistico di riferimento.
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un impatto positivo sulle scelte riproduttive, che vedono tassi di fertilità delle donne italiane
particolarmente bassi rispetto alla media europea.18
Tale esigenza è avvertita anche dall’Unione europea che da ultimo è intervenuta nuovamente
proprio sui congedi parentali cercando di renderli ancora più appetibili: il riferimento è alla
Direttiva 96/34/Ce riscritta dal recente Accordo quadro europeo del 18 giugno 2009 attuato dalla
Direttiva 2010/18/Ue.
La ratio complessiva, ed originaria, dell’intervento è appunto quella di individuare strumenti
(minimi) che consentano ai genitori lavoratori di conciliare vita professionale e vita familiare, nella
più ampia prospettiva di garantire a donne e uomini pari opportunità di accesso al mercato e nel
rapporto di lavoro. Per questo motivo l’accordo quadro, nel predisporre gli strumenti necessari a
consentire un’equa distribuzione delle responsabilità familiari e professionali tra uomini e donne, è
rivolto a “tutti i lavoratori, di ambo i sessi”.
Dal punto di vista sostanziale, la normativa europea riconosce a ciascun genitore lavoratore,
come misura minima, il diritto individuale a fruire di un congedo parentale per la nascita o
l’adozione di un bambino, di durata minima pari a quattro mesi e da fruire, in via facoltativa e non
obbligatoria, nell’arco dei primi otto anni di vita del figlio.19 Nell’ottica di promuovere le pari
opportunità la Direttiva invita a prevedere che almeno un mese di tale congedo sia accordato in
forma non trasferibile, spettando poi agli Stati membri fissare le modalità di applicazione; gli altri
tre mesi restano pertanto nella disponibilità della coppia, che potrà decidere quale dei genitori ne
sarà l’effettivo fruitore.
L’effettività del diritto al congedo parentale infatti deve essere garantita dagli Stati membri o
dalle parti sociali prevedendo “sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive” nei casi di violazione
delle disposizioni nazionali, ivi comprese forme di tutela per i casi di licenziamenti intimati a causa
della domanda o della fruizione del congedo stesso, nonché prevedendo il diritto del lavoratore a
rientrare nello stesso posto di lavoro (o in un posto equivalente quando ciò non sia possibile) e al
mantenimento dei diritti acquisiti. A quest’ultimo proposito la nuova Direttiva introduce una novità,
laddove prevede che gli Stati membri dovranno contemplare la possibilità per i lavoratori che
rientrino da un congedo parentale di chiedere, per un dato periodo di tempo, modifiche all’orario di
lavoro e all’organizzazione della vita professionale, per meglio conciliare esigenze di cura e di
lavoro. Non si giunge tuttavia a prevedere che il datore di lavoro debba necessariamente soddisfare
simili richieste, potendo tener conto delle proprie esigenze organizzative. Sempre nella medesima
18
Cfr. NUNIN R., Dalla conciliazione alla condivisione. Valorizzazione del ruolo paterno e interventi del legislatore
regionale: il caso del Friuli Venezia-Giulia, in CALAFÀ L. (a cura di), Paternità e lavoro, Bologna, Il Mulino, 2007,
pp.211-212
19
Cfr. VALLAURI M.L., La discriminazione di genere e i congedi parentali, in SCIARRA S. (a cura di), Manuale di
diritto sociale europeo, Torino, Giappichelli, 2010, p.115.
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prospettiva la Direttiva invita a prevedere che lavoratore e datore di lavoro mantengano un contatto
durante il periodo di congedo in modo da rendere più agevole la ripresa dell’attività. Come inciso allo stesso fine di facilitare il rientro dalla maternità o paternità - si considera una buona prassi
quella di istituire all’interno dell’azienda degli sportelli volti ad assistere, in generale, i neogenitori
nello loro nuova condizione, almeno per quanto attiene alle implicazioni per il rapporto di lavoro.
Ad esempio, nel caso delle donne occorre evitare che il rientro dalla maternità si traduca
formalmente e sostanzialmente in una dequalificazione. A tale scopo è importante che vengano
organizzati corsi di aggiornamento, che mettano rapidamente al corrente le lavoratrici su quanto
avvenuto in loro assenza, in modo da consentire loro di riprendere la posizione precedente. Peraltro,
un servizio che favorisca il più possibile un rientro agevole dal congedo, avrebbe un riflesso
positivo anche sull’azienda stessa, evitando la perdita di risorse umane qualificate.
Inoltre, la nuova Direttiva timidamente introduce un primo riferimento al “ruolo del reddito
nell’esercizio del congedo parentale”, invitando gli Stati membri a tenerne conto nel momento della
regolamentazione della materia sia in via legislativa che per il tramite della contrattazione collettiva
o della prassi.
L’accordo quadro, come prevedibile, è stato oggetto di pesanti critiche a causa della ritenuta
scarsa incisività e vincolatività per gli Stati membri, e, in particolare, per non aver stabilito alcuna
forma di congedo obbligatoria per i padri né una misura minima di indennità. Tali critiche sono
condivisibili, dato che le misure proposte, salvo un lungimirante atteggiamento da parte degli Stati
membri, difficilmente potranno contribuire in maniera incisiva al raggiungimento degli obiettivi
indicati dalle stesse parti sociali e richiamati in tutti i documenti europei in materia. Tuttavia,
l’accordo sembra dare nuovo slancio ad una revisione della tutela interna e ad una eventuale
rimodulazione che ne colga lo spirito, cogliendo nella ‘intrasferibilità’ di una parte del congedo
l’adesione al principio che entrambi i genitori si devono occupare dei figli – in questi termini le
norme ad hoc della Legge 92/2012 di cui sopra -, in modo che la redistribuzione dei ruoli, da
programma diventi realtà.20
Una riforma più che auspicabile è quella riguardante l’introduzione del congedo obbligatorio
per il padre, che per il nostro ordinamento non dovrebbe rappresentare tecnicamente una riduzione
delle tutele, bensì una rimodulazione delle stesse.21
Infatti, pur considerando che per introdurre l’obbligo al congedo per i padri occorre reperire le
risorse per garantire anche a costui una indennità minima del 60-80%, non necessariamente ciò
20
V. Considerando 16, Direttiva 2010/18/Ue, secondo il quale “l’esperienza dimostra che rendere il congedo non
trasferibile può costituire un incentivo positivo per l’esercizio del congedo da parte dei padri”. Cfr. TORELLI F., La
difficile condivisione del lavoro di cura. Spunti sui congedi parentali, in Lav. Dir., n.3, 2010, p. 465.
21
Cfr. Ibidem, p.466.
134
Work-life balance e differenze di genere
comporta un aggravio della finanza pubblica. Secondo la giuslavorista Francesca Torelli, la
soluzione al problema si trova nell’affiancare alla ripartizione esplicita dei mesi indennizzati un
sistema flessibile tale da lasciare la scelta sulla distribuzione dell’indennità al lavoratore, nel
rispetto del limite attuale in ipotesi di congedo parentale. Tale combinazione infatti permetterebbe
al padre di decidere se ricevere un’indennità elevata il primo mese a scapito dei mesi successivi
oppure godere di un indennizzo equamente ripartito su tutti i mesi del congedo. 22 Il periodo oltre al
primo mese e l’indennità non goduta, nella misura autodeterminata, sarebbero trasferibili alla
madre, che godrà dell’indennità residua. In questo modo il bilancio familiare non cambierebbe, la
somma complessiva dell’indennità resterebbe invariata e pertanto sarebbe salvo il diritto del figlio e
della coppia.23
Come abbiamo già considerato, la componente maschile prevalente non dimostra interesse
verso il congedo dal lavoro in forma obbligatoria e la ragione principale è nel generico timore di
non trovare più la stessa situazione lavorativa al rientro dal congedo o di dover sopportare
conseguenze negative per la propria carriera futura, fino all’ipotesi estrema della perdita del posto
di lavoro. Alla stessa stregua, non bisogna trascurare la percezione di un simile strumento da parte
dei datori di lavoro, infatti, sembra abbastanza scontato che, configurando ipotesi di sospensione del
rapporto di lavoro, il congedo non sia considerato funzionale al miglioramento delle prestazioni
professionali nel contesto organizzativo di riferimento, se non indirettamente e nella misura in cui
sia in grado di favorire il benessere del singolo lavoratore. Anche perché trattandosi di un diritto
potestativo, non lascia alcun margine di manovra ai datori di lavoro, che si trovano costretti a
subirne l’esercizio.24 Tali difficoltà di tipo organizzativo darebbero luogo ad ulteriori resistenze ad
attuare il modello auspicato.
A tali obiezioni, la giuslavorista Torelli risponde che una simile scelta di politica del diritto –
il congedo parentale obbligatorio per il padre, previsto anche a prescindere dalla condizione
lavorativa della donna - rappresenta una svolta culturale e sociale, ed eviterebbe effetti indesiderati
sulla figura materna, innescando così un circolo virtuoso.
Pertanto, occorre percorrere la via verso il modello descritto, e solo in minimissima parte già
intrapresa dall’ordinamento, per contribuire in maniera significativa a diffondere un sensibile
cambiamento di costume sia dei padri lavoratori sia dei datori di lavoro, rafforzando l’impatto di
nuovi modelli di stili di vita e dando modo alla madre e alla società nel suo complesso di
apprezzarne i vantaggi.
22
Ad esempio, il padre potrebbe scegliere di stare in congedo durante il periodo obbligatorio indennizzato all’80%,
lasciando una copertura al 10% per il secondo mese e nulla al terzo, oppure fruire del congedo obbligatorio con
un’indennità al 30%, che si manterrebbe uguale nei mesi successivi.
23
Cfr. Ibidem, p.467.
24
Cfr. SARACINI P., I congedi “familiari” tra diversità di genere e culturale, op. cit., p.385.
135
Work-life balance e differenze di genere
Dalle analisi dei dati a disposizione circa le esperienze maturate a livello europeo in materia
di congedo parentale, la maggior parte dei paesi corrispondono solo formalmente all’equità di
genere. Infatti, pur essendo un diritto di entrambi i genitori, almeno dal punto di vista normativo, è
principalmente utilizzato con alte percentuali dalle donne e la Svezia è l’unico paese in cui la parte
di competenza esclusiva del padre è usufruita in modo consistente.
Non è un caso infatti che il primo paese ad aver proposto una normativa nazionale in materia
di congedi parentali, anticipando di gran lunga i tempi dell’Unione europea, è stata proprio la
Svezia nel 1974, dove ha prevalso l’idea che debbano essere i genitori (sia il padre che la madre) ad
accudire i figli. Tale concezione si è tradotta in una legislazione che è orientata a dare priorità sia
alla durata che alla retribuzione del congedo, nonché ad una più equa distribuzione del congedo tra
madri e padri, attraverso – giust’appunto - una quota di congedo riservata separatamente al padre e
alla madre.
Il sistema svedese tende verso un modello partecipativo egualitario che incoraggia
l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro, con lo Stato che è il maggior datore di lavoro
femminile. La politica svedese per le pari opportunità si concentra soprattutto sulle abilità di ogni
individuo a raggiungere l’indipendenza economica attraverso un’occupazione retribuita. Il secondo
più importante obiettivo è quello di rendere possibile sia agli uomini che alle donne di conciliare
lavoro e ruolo di genitore. Le politiche a sostegno delle famiglie25 e quelle per le pari opportunità
non rappresentano due entità separate, ma sono strettamente intrecciate e costituite con un reciproco
rapporto di sostegno.26
Per quanto riguarda la cura dei bambini, il sistema svedese prevede 10 giorni di congedo di
paternità retribuito all’80%. Inoltre, la presenza di 2 mesi del congedo parentale riservati
esclusivamente ai padri ne ha, di fatto, incrementato l’utilizzo.
I genitori svedesi possono usufruire di un congedo parentale per un totale di 480 giorni per
stare in casa ad occuparsi del bambino percependo un’indennità giornaliera pari all’80% del salario
medio per i primi 390 giorni e una somma forfettaria al di là di questo periodo, fino al compimento
dell’ottavo anno del figlio.27 Tale diritto si applica ad entrambi i genitori, ed il sussidio del periodo
si divide equamente tra loro e, se richiesto, tutti i giorni, ad esclusione di 60 usufruibili solo dal
padre e di 60 solo dalla madre, possono essere trasferiti ad uno dei genitori. Il contratto di lavoro
25
In Svezia, le politiche familiari pur essendo quasi completamente implicite, sono molto efficaci, in quanto i diritti
sono concepiti in senso universalistico, cioè rivolto a tutti, indipendentemente dal tipo di famiglia in cui si vive, dei
mezzi di cui si dispone o di qualsiasi altra misura selettiva.
26
Ad esempio, gli assegni per i figli e per la famiglia vanno ai genitori indipendentemente se essi siano sposati o no, se
conviventi o in abitazioni separate, e ambedue i genitori sono titolari dei benefici del sistema di protezione a favore dei
genitori.
27
Il congedo può essere previsto in forma parziale, attraverso una riduzione del 25% del proprio orario di lavoro, ma
senza alcuna indennità.
136
Work-life balance e differenze di genere
prosegue durante il congedo parentale e il periodo di congedo è computato ai fini dell’anzianità di
servizio.
Esistono anche altre modalità di congedo per la cura dei figli, tra cui quello per malattia del
bambino minore di 12 anni che può essere usufruito per un massimo di 120 giorni all’anno, pagati
all’80%. Questo diritto, in un’ottica di libera scelta, può anche essere trasferito ad una terza
persona, per un massimo di 60 giorni l’anno.
Sintomatico del fatto che il governo svedese è orientato ad una politica integrata e ad ampio
spettro è la possibilità di poter richiedere un ulteriore congedo, denominato “free year” (dai 3 ai 12
mesi), retribuito con l’85% del sussidio di disoccupazione (anche se per averne diritto occorrono
determinate condizioni, soprattutto collegate all’anzianità di servizio in un determinato posto di
lavoro), a patto che durante questo periodo sia sostituito da un disoccupato.
In conclusione a questo excursus sul sistema di welfare svedese un’ultima annotazione
riguarda il fatto che i soggetti più partecipi alla cura, tramite l’utilizzo di un periodo di congedo
parentale, sono soprattutto i lavoratori con un livello di istruzione maggiore, coloro che hanno una
partner con una più alta retribuzione e quelli impiegati nel settore pubblico. È interessante notare
anche che, in base ad alcune ricerche, la decisione di avere un secondo figlio è più alta se il padre ha
utilizzato parte del congedo parentale in occasione del primo bambino.
Tuttavia, l’utilizzo o meno del congedo parentale sembra essere influenza non solo dal
contesto culturale, ma anche dal grado di conoscenza che i padri hanno relativamente a questo
diritto. In linea di massima, infatti, laddove c’è una maggiore informazione sulla normativa (come
nei paesi scandinavi), vi è una maggiore propensione dei padri ad usufruirne. Affinché il congedo
parentale sia effettivamente utilizzato da parte dei padri sono, però, necessari una serie di incentivi
che non riguardano solo un riconoscimento giuridico del diritto e una maggiore informazione. Ad
esempio, un certo rilievo sembra avere anche la titolarità riservata ai padri di una parte del congedo
parentale (presente in Svezia e in Germania, pari a due mesi), aspetto teso a favorire una maggiore
collaborazione tra entrambi i genitori per la cura dei figli e che, di fatto, incentiva gli uomini ad
usufruirne; laddove, invece, sono stati inseriti congedi ‘neutri’ (utilizzabili dalla madre e dal padre),
non si è riusciti ad innescare nella sfera sociale una più equa ripartizione dei ruoli tra genitori.
Ancora, la ‘riconciliazione’ delle responsabilità genitoriali e familiari tra uomini e donne è
maggiore in quei paesi in cui il contesto sociale, culturale e lavorativo offre maggiori opportunità di
scelte ‘garantite’ anche da un punto di vista retributivo e previdenziale, nonché laddove vi sono
situazioni concrete di vita che rendono necessaria la collaborazione tra partners (in quanto entrambi
lavorano in maniera continuativa e full-time).28 Il sistema di welfare e la cultura prevalente nel
28
Cfr. FASANO A., op.cit., p.158.
137
Work-life balance e differenze di genere
contesto territoriale, infatti, presentano delle caratteristiche che influenzano la direzione stessa delle
politiche e, quindi, le differenti strategie di conciliazione che possono essere attuate.
Quello che emerge con forza è la necessità – dopo aver approntato gli opportuni strumenti
giuridici – di promuovere un percorso di mutamento culturale (che appare tanto più indispensabile
quanto non certo agevole) a sostegno della nuova ottica di condivisione.29
2.2 I servizi family friendly.
A seguito delle trasformazioni economiche e sociali che si sono verificate negli ultimi
decenni, le modifiche nella composizione e nelle dinamiche familiari, il crescente tasso di
occupazione della donna si è affermata la convinzione che il futuro del welfare debba fondarsi
sempre più sull’erogazione di servizi piuttosto che su trasferimenti monetari ed assicurazioni
sociali.
In questo mutato paradigma si registra in Italia, così come nel resto d’Europa, una costante e
sempre maggiore richiesta di servizi di cura per l’infanzia che siano caratterizzati da flessibilità sia
dei tempi che dei luoghi di fruizione. Infatti, se la diffusione di misure quali i congedi familiari e la
flessibilizzazione dell’orario di lavoro costituiscono degli ottimi strumenti per migliorare il worklife balance, la presenza di servizi per l’infanzia, d’altro canto, assicura un’alternativa valida e di
qualità alla cura materna in grado di favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro.
I servizi per la prima infanzia, dedicati ai bambini da 0 a 4-6 anni (a seconda dell’inizio
dell’obbligatorietà scolastica), sono ormai considerati un vero e proprio diritto di cittadinanza e
perciò servizi di interesse pubblico, che devono rispondere principalmente a due esigenze:
l’assistenza-custodia e l’educazione-apprendimento. Essi risultano essere un valido strumento di
conciliazione tra tempi familiari e lavorativi, soprattutto se localizzati all’interno dell’azienda.
Asili e micronidi aziendali, infatti, pur richiedendo dei costi di gestione delle strutture interne
per la prima infanzia, offrono numerosi vantaggi sia verso il lavoratore, quali la vicinanza del
servizio al posto di lavoro, con una conseguente riduzione dell’ansia delle madri o la
corrispondenza degli orari di apertura con quelli di lavoro, sia – di riflesso – verso l’azienda, quali
la maggiore disponibilità da parte del collaboratore, più serenità sul luogo di lavoro e maggiore
fidelizzazione all’azienda.
29
Cfr. NUNIN R., Dalla conciliazione alla condivisione. Valorizzazione del ruolo paterno e interventi del legislatore
regionale: il caso del Friuli Venezia-Giulia, in CALAFÀ L. (a cura di), Paternità e lavoro, Bologna, Il Mulino, 2007,,
p.210.
138
Work-life balance e differenze di genere
Accanto alle strutture di childcare tradizionali, occorre proseguire nella sperimentazione di
servizi a carattere innovativo, quali spazi gioco, ludoteche, baby parking. Questi servizi anche se, in
genere, offrono una copertura oraria inferiore, a quella dei nidi e delle scuole materne, possono
costituire un’utile integrazione degli stessi, anche per garantire ai bambini una varietà di esperienze
educative e di contatto umano nell’arco della giornata.
Sempre al fine di ampliare l’offerta, occorre replicare e diffondere la presenza di nuove figure
professionali, quali educatrici familiari che accolgano presso il proprio domicilio un numero
limitato di bambini, qualificandole opportunamente. Oltre a strutture fisse, è opportuno promuovere
anche l’istituzione di servizi straordinari di baby sitting a domicilio in grado di soddisfare le
necessità di sostegno straordinario in occasione di missione di lavoro o altri impegni in orari non
abituali. Tali servizi possono essere forniti da equipe di appoggio collegate con gli asili frequentati
quotidianamente dai figli delle lavoratrici, oppure essere erogati da associazioni, cooperative e
imprese che operano esclusivamente nel settore domiciliare.
Negli ultimi anni, le politiche per la prima infanzia nei paesi europei hanno registrato una
serie di tendenze positive che vanno dalla maggiore flessibilità e diversificazione dei servizi e di
un’espansione dell’offerta dei servizi pubblici o privati per far fronte alle necessità insoddisfatte
delle famiglie al miglioramento della formazione per gli operatori dei servizi strutturati e per le
assistenti materne, fino allo sviluppo di forme di contributi erogati direttamente ai genitori per la
copertura dei costi dei servizi frequentati dai loro figli.
Abbiamo visto sopra il sistema svedese come modello partecipativo più “egualitario”, che si
caratterizza per un superamento molto avanzato degli squilibri di genere, reso possibile, oltre che da
politiche di conciliazione più ‘neutre’, da servizi efficienti e reali di social care.
In coerenza con una politica che attribuisce priorità ai congedi parentali, infatti, i servizi
svedesi per l’infanzia aumentano il livello di copertura al crescere dell’età dei bambini, ovvero
quando si presume che molti genitori non abbiano più periodi di congedo da richiedere. I servizi di
social care sono ottimi, sia per i bambini sia per gli anziani oltre i 65 anni, e sono di costo
contenuto e accessibili per tutti, a prescindere dalle caratteristiche familiari del richiedente. Lo
stesso sviluppo dei servizi per l’infanzia è avvenuto come un requisito di base per il raggiungimento
dell’uguaglianza sociale sia come sostegno alla crescita dei bambini, sia come aiuto ai genitori che
lavorano. Oltre alle classiche tipologie di servizi, ne esistono altri di nuova generazione destrutturati
negli orari e, in alcuni casi, innovativi sotto il profilo educativo (nido famiglia, centri per il
doposcuola).
In Svezia, dunque, la conciliazione avviene soprattutto grazie a congedi abbastanza lunghi
presi dalle madri e a lunghi periodi di part-time volontario al momento del rientro senza, però,
139
Work-life balance e differenze di genere
l’obbligo di trasformare definitivamente il contratto di lavoro da full-time a tempo parziale. Inoltre,
un ruolo fondamentale è giocato dal sistema di tassazione, piuttosto favorevole nei confronti del
secondo percettore, e da un’elevata spesa pubblica per i servizi di social care.
A questo punto, consideriamo alcune delle principali strategie family friendly che coniugano
esigenze di occupazione femminile, conciliazione e differenze di genere adottate e adottabili nelle
aziende italiane.
In un’ottica di miglioramento dell’offerta per favorire l’equilibrio tra vita personale e
professionale rientra certamente anche l’attivazione di servizi per i figli dei dipendenti, ragazzi e
adolescenti. L’assistenza alle famiglie andando incontro alle esigenze di una fascia di età30 che
richiede minore assistenza fisica, ma che costituisce comunque fonte di forti preoccupazioni per i
genitori, attraverso strutture fisse, quali doposcuola, circoli per ragazzi, o anche in modo più ‘soft’,
facilitando l’accesso ad attività culturali ed educative, di gruppo o individuali (ad esempio soggiorni
estivi, corsi di musica, sport, recitazione) o ancora tramite l’attivazione di servizi di scuolabus,
possono contribuire a ridurre una fonte di stress nell’organizzazione della vita quotidiana delle
famiglie con una conseguente ripercussione positiva sul lavoro in azienda.
Sempre nella medesima prospettiva, rientrano pure le organizzazioni di servizi funzionali
all’alleggerimento dei carichi di lavoro domestico attraverso la spesa alimentare che consiste, non
tanto in quella effettuata periodicamente al supermercato (che è resa ormai piuttosto agevole dagli
orari prolungati della grande distribuzione), quanto all’acquisto di prodotti freschi e/o di qualità
(frutta, verdura, carne, pesce). In proposito, si può seguire la strada di alcune aziende che hanno
consentito l’apertura di negozi con prodotti freschi al proprio interno, o di alcune cooperative di
lavoratori-consumatori che si sono organizzati per effettuare collettivamente la spesa dei prodotti
maggiormente richiesti.
Invece, tra i servizi che consentono di estendere il supporto anche ai lavoratori senza prole,
assicurando, così, una maggiore equità nell’assistenza fornita al personale e, quindi un maggiore
consenso alle politiche family friendly nel loro complesso, menzioniamo l’accesso a servizi
efficienti e qualificati per lo svolgimento delle pulizie domestiche, il lavaggio e la stiratura del
bucato, la cura della casa e del giardino, l’esecuzione di piccole riparazioni di sartoria o agli
impianti domestici, tramite convenzioni con agenzie a ciò preposte o informazioni sui fornitori più
vicini e convenienti; e ancora, servizi di assistenza a chi deve cambiare sede, al fine di facilitare il
trasloco, il reperimento di scuole adeguate per i figli, lo svolgimento di pratiche burocratiche, la
ricerca di un lavoro da parte del coniuge, l’accesso alle attività sociali e culturali.
30
Ragazzi in età da scuola primaria (6-10 anni) o secondaria (11-18 anni).
140
Work-life balance e differenze di genere
Merita infine attenzione la prassi del c.d. telelavoro, tramite la quale al dipendente viene
installata una postazione di lavoro presso il proprio domicilio, ed è così invitato a lavorare per
obiettivi e non per ore trascorse sul luogo di lavoro. In tal modo, si consente al dipendente un
aumento della flessibilità e il fatto di non essere vincolato ad uno spazio e ad un orario permette di
dare il massimo della concentrazione e della propria creatività. Le perplessità e le obiezioni, che
hanno accompagnato la sperimentazione di questo strumento, vale a dire che favorisca l’isolamento
e l’invasività rispetto alla sfera privata, sembrano superabili mettendo in atto opportuni
accorgimenti ed evitando di far diventare il telelavoro l’unica forma con cui vengono svolti i
compiti lavorativi.
In tutti questi servizi di assistenza elencati, il coinvolgimento aziendale varia da semplice
costruzione di network, fino alla condivisione economico-organizzativa. Ad esempio, ‘Kraft Foods
Italia’ offre direttamente molti dei servizi work-life balance ai propri dipendenti: la mensa, il
parcheggio, lo sportello bancario e assicurativo, il servizio postale, la lavanderia, e la farmacia;
inoltre esistono convenzioni con palestre, autonoleggio a tariffe agevolate, shopping on-line e
consegna in ufficio, assistenza fiscale e vendita di prodotti aziendali a prezzi vantaggiosi. ‘Microsof
Italia’ha adottato tecnologie e strumenti per favorire la fruizione spazio-temporale dei dipendenti,
come il lavoro da casa, la possibilità di fare la spesa on-line ed una scuola materna interna.
La descrizione delle leve più generali di gestione delle differenze trova completamento
nell’analisi delle politiche adottate per la gestione delle diversità di genere. Il segmento femminile,
infatti, costituisce frequentemente nel nostro paese un elemento centrale delle politiche di gestione
delle varietà. Oltre ai progetti già citati di work-life balance in molte aziende vengono messi in atto
percorsi di superamento di eventuali segregazioni orizzontali, posizioni esclusivamente maschili o
femminili, o verticali, ovvero la non occupazione da parte delle donne di posizioni gerarchicamente
significative. A tale scopo è possibile fare riferimento alle politiche di reclutamento e selezione del
personale, ad esempio, soprattutto nelle grandi multinazionali, la definizione di quote rosa nelle
short list di selezione del personale; alle attività di sviluppo del personale legate alla gestione delle
diversità, tramite una formazione finalizzata a prendere coscienza degli stereotipi e delle patologie
percettive e/o ad aumentare le competenze nella gestione della diversità.
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