Chabad Lubavitch Roma Novembre - Dicembre
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Chabad Lubavitch Roma Novembre - Dicembre
ב״ה Chabad Lubavitch Roma Novembre - Dicembre 2 Carissimi, Siamo giunti al settimo numero di Pocket Torah - la Torah in Tasca - mensile interamente dedicato alla diffusione della Torah, della Halacha e del pensiero Chassidico. I risultati sinora ottenuti sono semplicemente straordinari: con una tiratura di oltre 500 copie, Pocket Torah è ormai una presenza fissa nelle tasche di centinaia di ebrei della Comunità di Roma. Un successo che ci onora e che permette a tantissime persone di studiare facilmente Torah in ogni momento della giornata. Il nostro nuovo obiettivo è ambizioso: vogliamo raddoppiare a breve la tiratura! Per fare questo, però, abbiamo bisogno del tuo sostegno spirituale e materiale. Non dimenticare: sostenendo Pocket Torah avrai l’opportunità e l’onore di contribuire attivamente alla realizzazione di ciò che chiedeva il Rebbe: «Fare in modo che la luce della Chassidut, che è la luce del Baal Shem Tov, raggiunga ogni singola famiglia ebrea!» Cordialmente, rav Aaron Leotardi Per pubblicità o donazioni si prega di contattare: 3283889057 Chabad Lubavitch Roma presenta 5774 201esima Hillula dell’ Admur Hazaken, il primo Rebbe di Lubavitch, autore del Tanya e del Shulchan Aruch Harav Gennaio - Febbraio Marcello David ben Emilia Doris bat Lisa Shaul ben Clima Israel ben Aziza Messauda bat Myriam David ben Meir Rivka Hilda bat Rosine Fredj ben Ephraim Direttore del progetto e redazione : Aharon Fabio Leotardi Traduzione : Martine Leotardi e Chani Benjaminson Design : zeldesign.com Questo progetto è autofinanziato. Per fare una publicità o per fare un dono o per informazioni chiamare il num. 3283889057 Progetto di Chabad Lubavitch Roma 4 Il “Capodanno” del cHassidismo Nel 1798, Rabbi Shneur Zalman di Liadi fu liberato dalla prigionia. Dopo il Baal Shem Tov e del Maghid di Mezeritch del quale fu allievo, egli uno dei grandi maestri del chassidismo Chabad Lubavitch, movimento che si stava velocemente sviluppando. Egli s’imbatte nei difensori dell’ebraismo che vedevano con preoccupazione questo movimento raccogliere un forte entusiasmo nelle masse ebraiche finora disprezzate. Calunnie, macchinazioni riescono a fare in modo che il Rabbi fosse arrestato dalla polizia dello zar con l’accusa di alto tradimento. Il Rebbe Shneur Zalman viene rinchiuso nella fortezza Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Lo stesso giorno, ventidue dei suoi chassidim vengono messi in carcere a Liozna. Durante il processo al quale è sottoposto, il Rebbe deve rispondere a numerose domande concernenti la pratica e la fede ebraiche. Fanno tradurre in russo il Tanya, la grande opera del Rabbi, che è l’opera fondamentale della chassidùt Chabad. Finalmente, il 19 Kislev, cinquantatre giorni dopo il suo arresto, annunciano al Rebbe Shneur Zalman che è stato riconosciuto innocente dai “crimini” per i quali era stato accusato. Egli è libero. I ventidue chassidim incarcerati a Liozna vengono liberati anche loro. Da allora, il 19 Kislev – Yud-Tet Kislev – rappresenta una 5 grande festa chassidica che viene chiamata “Capodanno della chassidùt”. C’è da dire che questo evento supera per i chassidim la puntualità storica. Esso segna un momento fondamentale della storia spirituale del popolo ebraico. Perché il tribunale quaggiù, cioè il tribunale russo, rimanda al tribunale Lassù. La domanda reale alla quale bisognava rispondere era: può il Rebbe Shneur Zalman, il grande maestro che portò il pensiero chassidico al massimo livello, diffondere il proprio insegnamento? Già alcuni secoli prima Rabbi Itzchak Luria aveva dichiarato che nel corso delle ultime generazioni sarebbe diventato necessario svelare la saggezza della Kabbalà. Era in particolare questa l’ambizione di fondatori del Chassidismo. Da quel momento, la liberazione del Rebbe Shneur Zalman per intervento di un tribunale terrestre significa solo un assenso da parte del Tribunale celeste. Il processo annunciato da Rabbi Itzchak Luria poteva iniziare durante questa nuova era del “dopo- 6 Pietroburgo” e la chassidùt stava per diffondere all’esterno le sue origini. Nota: Il capo d’accusa verteva sui fondi che il Rebbe Shneur Zalman mandava alle comunità chassidiche che vivevano in condizioni di estrema povertà in Terra Santa. Questa regione era allora sotto dominio dell’Impero ottomano, nemico dell’Impero russo. Più di una semplice festa chassidica Da Adin Even (Israel) Steinzaltz Sul piano strettamente storico, questa data segna il giorno in cui l’Admur Hazaken, il Rebbe Shneur Zalman di Lyadi, è uscito dal carcere, prosciolto da tutte le accuse di cui era oggetto. Le ultime accuse rappresentavano una minaccia fisica contro la sua persona e anche contro i fedeli della sua comunità chassidica. Il 19 Kislev rappresenta dunque il giorno di redenzione di un grande leader spirituale del popolo d’Israele e di tutti quelli che gli erano vicini. Tuttavia, secondo la tradizione ebraica, i discendenti e i discepoli di una persona che fu salvata miracolosamente devono pronunciare una benedizione formale. Sotto 7 questo aspetto, la liberazione del Admur Hazaken senza dubbio merita di essere festeggiata da tutti i suoi discepoli in ogni generazione, anche la nostra, mentre molti di noi continuano ad attingere all’inesauribile sorgente del suo insegnamento. Quando, a maggior ragione, sappiamo che questo miracolo fu associato a un Kiddùsh Hashem, santificazione del Nome Divino, quest’obbligo ricade su ogni Ebreo. In realtà nel corso della storia, non hanno mai esitato i Saggi d’Israele nell’istituire dei giorni di festa in seguito a miracoli successi in alcune comunità ebraiche oppure ad alcuni individui; e queste feste sono ancora osservate dai loro discendenti. Tuttavia, tutto ciò rappresenta solo la superficie degli eventi. In realtà, dietro tutto questo, si nasconde un aspetto molto più profondo. Innanzi tutto, ricordiamoci del contesto storico. Il movimento chassidico era all’inizio della sua vita e anche se era in veloce espansione, si imbatteva in numerosi mitnagdim, oppositori, capeggiati dal Gaon di Vilna, Rav Eliyahu. Dopo la scomparsa del Gaon, invece di placarsi, questa opposizione aumentò in modo aggressivo. Le pressioni esercitate contro i chassidim, tramite ogni mezzo e muri eretti dai vari dirigenti comunitari, finì per fomentare un notevole odio fraterno. Anche se esercitate da un numero ridotto di persone, le calunnie rivolte allo Admur Hazaken non erano altro che il riflesso di questo sentimento di odio 8 e del peggioramento della lotta spirituale e raggiunse enormi proporzioni. Era veramente opportuno che tutti potessero accedere all’insegnamento della Chassidùt che pretendeva significare elevazione ed esaltazione in seno al popolo ebraico? L’incarcerazione del Rebbe Shneur Zalman di Liady e il suo processo erano di fatto solo un tentativo in vista di un’azione più ampia. Una sentenza negativa avrebbe avuto ripercussioni più chiare: il governo dello zar avrebbe potuto reprimere con una forza e una crudeltà inaudita tutta la comunità dei chassidim. Inoltre, con l’aiuto dei mitnagdim che consideravano i chassidim come una setta insolita, la condanna del Admur Hazaken avrebbe portato alla totale distruzione del movimento chassidico. Pertanto, il processo al Admur Hazaken non era altro che un processo contro la Chassidùt. Quando fu pronunciato il verdetto finale e quando fu dichiarato innocente l’Admur Hazaken, fu tutta la Chassidùt ad essere lavata da ogni accusa. Liberato dagli oppressori, all’interno come all’esterno, il movimento chassidico poteva uscire dalla prigionia. Di fatto Yud-tet-Kislev segna il termine della disputa contro la Chassidùt. Ovviamente, non tutti gli Ebrei di quel periodo divennero dei chassidim. Numerosi saggi d’Israele continuarono a dimostrare diffidenza nei loro confronti. Ma la lotta attiva, il tentativo di escludere 9 il movimento chassidico dalla comunità d’Israele cessarono definitivamente. Da allora, la Chassidùt s’incamminò verso una ampia e totale apertura verso il mondo e questo cammino doveva condurla verso migliaia di famiglie ebraiche. Non stupisce quindi l’espressione “Capodanno della Chassidùt” poiché dal 19 Kislev, la Chassidùt si divulgò e si rafforzò senza mai più incontrare odio od opposizione veramente attiva. Anzi, quelli che non facevano parte dei chassidim finirono per rispettarli e onorarli. Tuttavia, se vogliamo capire la vera quintessenza di quel giorno, dobbiamo andare oltre. Si sa molto bene che gli eventi “esterni” della Storia sono retti da forze eccezionali. Questo è vero sia per il macrocosmo sia per il microcosmo. “Nessuno può alzare un dito se non riceve un segnale da Lassù”. A maggior ragione quando si accenna a un caso come questo, il quale rappresenta una importanza storica e decisiva e la Provvidenza vi svolge un ruolo fondamentale. In questa storia, ogni dettaglio, ogni relazione di causa ad effetto possono essere collegati a eventi di natura più profonda, più trascendente. Sottolineano d’altronde i commentatori del libro di Daniele che nessuna guerra può essere dichiarata tra due nazioni fino a quando 10 i loro rispettivi “principi”, i loro angeli celesti, non entrano prima in conflitto nel mondo Lassù. Anche nel nostro caso, la grande disputa tra chassidim e mitnagdim attinge la propria forza in alto, ben oltre ciò che si vede in apparenza. Il 19 Kislev, il movimento chassidico ottenne in qualche modo l’autorizzazione da Lassù a proseguire senza limiti la propria espansione, non solo al livello delle idee ma anche al livello della rivelazione del Divino. Il problema vero che si trova in fondo a questa disputa era questa: “in quale misura era permesso, addirittura conveniente, rivelare e divulgare in seno a tutto Israele l’insegnamento della Chassidùt? Non si doveva fare una distinzione tra i grandi, i giusti, gli eruditi, da una parte e la gente comune, gli ignoranti dall’altra? C’era lì un grande timore: non era rischioso divulgare l’insegnamento del Baal-Shem Tov, fondatore due secoli prima del movimento chassidico, a persone che non possedevano una conoscenza sufficiente della Torà e che non avevano neanche delle capacità intellettuali idonee? Non poteva condurre alla decadenza anziché all’ascesa tanto desiderata? Si poteva svelare la dimensione divina di ogni cosa così come il livello di elevazione di ogni Ebreo per il semplice fatto 11 che fa parte della collettività d’Israele senza cadere nella volgarizzazione, senza provocare il degrado del livello di studio della Torà e finalmente senza arrivare a deridere il rispetto dovuto al Cielo? A buon diritto, tutte queste domande erano prese sul serio dai dirigenti comunitari di quel periodo. Questi vedevano lì un vero dibattito che doveva essere discusso e al quale bisognava dare risposte. Sarebbe capace la loro generazione di sopportare un tale livello di rivelazione divina? Erano propizi il momento e il luogo? Era veramente opportuna l’apertura a tutti dell’insegnamento della Chassidùt che pretendeva apportare elevazione ed esaltazione in seno al popolo ebraico? Anzi, non ci sarebbero stati più torti e danni invece di effetti positivi?” Tutte queste domande, tutte queste accuse riflettono l’intima dimensione di questo processo contro la Chassidùt. Non sorprende quindi che il rappresentante del movimento chassidico, che sedeva nel banco degli accusati e doveva rispondere alle domande fu proprio l’Admur Ha Zaken. E proprio lui che meglio incarnava tra tutti i rami esistenti la scuola di pensiero del movimento. I giudizi che si deicidono nei Cieli non rimangono appesi nei mondi superiori. All’instar di altre manifestazioni delle rivelazioni che ci vengono da Lassù, finiscono per scendere quaggiù dopo una serie di vari collegamenti, da mondo a mondo, da livello a 12 livello, fino a rivestire una forma veramente terrestre. MARTEDI 14 MAGGIO 2013 5 SIVAN La metamorfosi di un avversario Uno strano visitatore A Vilna, in tutto il Bet-Midrash, non era insolita la presenza di Ebrei estranei alla città. Alcuni erano semplici mendicanti, altri erano uomini di condizione umile andati via a raccogliere dei soldi per costituire la dote di una figlia in età da marito. Altri ancora erano eruditi pii che si sottoponevano volontariamente a un periodo di “esilio” nello scopo di purificare la propria anima e il proprio corpo. Ma, un giorno, lo straniero che entrò in una delle sinagoghe di Vilna non poteva essere collocato in nessuna di queste categorie. Di solito, lo shamash poteva immediatamente e con una sola occhiata situare ogni straniero e indovinare persino la sua attività professionale. L’uomo in questione sembrava un baal-habait, uomo d’affari o forse un negoziante. Quindi lo shamash rimase stupito che le straniero fosse venuto al Bet-Hamidrash nel bel mezzo della giornata (era di giovedì), si fosse seduto in un angolo appartato e si fosse immerso in una Ghemarà dondolandosi da un lato all’altro. Trascorsero due ore. Lo straniero chiuse la Ghemarà, si lavò le mani e si rimise seduto per consumare il suo pasto che era molto leggero e composto unicamente di pane e di un pezzo di aringa che egli lavò con 13 l’acqua. Lo shamash fingeva di essere assorto dalla lettura di un libro sacro; in realtà, osservava lo straniero con la coda dell’occhio. Alla fine, andò verso di lui. L’altro non aveva finito di mangiare. Lo shamash gli tese la mano dicendogli : “shalom alechem” e chiedendo se gli doveva prenotare un letto nel Centro di Accoglienza o se preferiva andare a casa di un privato. Lo straniero rispose che non gli occorreva niente. Aveva di che mangiare e in quanto all’alloggio, il BetHamidrash gli sarebbe bastato ampiamente. Verso sera, quando cominciarono ad arrivare i fedeli per la funzione di minchà, tra di loro c’era uno degli uomini più in vista della comunità, un uomo ricco a casa del quale lo shamash mandava sempre uno straniero per trascorrere lo Shabbat. Questa volta, non fu facile per lo shamash: c’era un solo straniero al Bet-Hamidrash e questo rifiutava ogni invito. Solo per i pasti Comunque, l’influente membro della comunità andò verso di lui, lo salutò con il consueto “shalom alechem” e l’invitò a casa sua per Shabbat. Lo straniero diede la stessa risposta che aveva dato allo shamash: aveva da mangiare e si sarebbe accontentato del BetHamidrash per la notte. Ma l’altro era determinato nel non cedere di fronte a questo rifiuto. Eh no! Un 14 Ebreo non poteva rimanere da solo, tra i suoi fratelli per giunta, e di Shabbat! Senza dimenticare che non poteva privare deliberatamente un correligionario della grande mitzvà di hachnassath orchim, l’ospitalità. Lo straniero fu in parte convinto da queste argomentazioni e accettò un compromesso: avrebbe accettato l’invito per i tre pasti di Shabbat ma sarebbe rimasto a dormire al Bet-Hamidrash. Durante il primo pasto, il venerdì sera, il padrone di casa iniziò con il suo ospite una conversazione riguardo argomenti di Torà e fu felice nel costatare che si trattava di un uomo pio, erudito e umile. Questo contatto fu molto piacevole sia per l’uno che per l’altro. Ma a un certo punto, il padrone di casa divenne triste e sospirò profondamente, l’ospite non disse nulla per discrezione. Successe lo stesso durante il secondo pasto e anche durante il terzo pasto. Alla fine di Shabbat, il padrone di casa invitò lo straniero a rimanere per la cena di “Melavè Malkà”, la cena post Shabbat quando si saluta la Regina Shabbat. L’uomo accettò. A un certo punto, come durante i pasti precedenti, il padrone di casa sospirò profondamente. Non resistendo oltre, l’ospite chiese quale fosse la causa della sua tristezza; doveva avere grossi problemi per sospirare in questo modo…. Un suggerimento Allora, il padrone di casa aprì il suo cuore. In 15 seguito a una terribile calunnia, lui e il suo socio erano stati accusati a torto per un crimine che non avevano commesso. Anche se erano innocenti, un giudice che non amava gli Ebrei aveva dato il suo verdetto condannandoli a un pesante periodo dì incarcerazione e a una forte multa. Avevano fato appello e il caso doveva essere discusso di nuovo ma le prospettive non erano rosee. A quel punto l’ospite rivelò che era un chassid, un discepolo del famoso Rebbe Shneur Zalman e che stava proprio facendo un pellegrinaggio a Liozna dove viveva il Rebbe. “Se voi mi voleste dare ascolto”, disse lo straniero, “potreste fare un salto dal Rebbe e chiedergli consiglio e benedizione. Sono certo che egli vi aiuterà.” “Non vedo come, rispose il padrone di casa. Ma lo dirò al mio socio e se egli è d’accordo, andremo tutti e due dal Rebbe.” L’indomani, il chassid andò via , il padrone di casa andò a trovare il suo socio per sentire che cosa pensasse della proposta dello straniero. In quel periodo, il movimento chassidico non era molto popolare e i chassidim erano visti con sospetto. Si pensava, erroneamente, che non erano molto rigorosi nel osservare i precetti religiosi. Per cui, il fatto che il socio non desiderasse essere scambiato per un chassid non deve stupire. I due uomini decisero che avrebbero prima chiesto il suo parere al 16 capo della comunità, il Rebbe Meir Refaels, la quale conoscenza della Torà e la grande saggezza erano conosciuti da tutti. Egli aveva tentato di aiutarli in questo processo ma non aveva potuto fare molto. I due soci gli avrebbero chiesto se approvava una loro visita al Rebbe di Liozna. Il Rebbe Meir Refaels non era un chassid. Anzi, era il capo degli oppositori al movimento chassidico. Ma sorprendendo i due uomini, egli disse che non sarebbe stata una cattiva idea. Dopo tutto, che cosa c’era da perdere? Un occasione unica Se i due uomini avessero saputo della strana e recente esperienza che aveva vissuto il Rebbe Meir Refaels, il suo cambio di comportamento concernente il Rebbe non li avrebbe sorpresi. Ma il capo della comunità non li disse che egli stesso era stato l’improvviso strumento grazie al quale il Rebbe aveva potuto salvare una agunà, una donna che non sa dove sia il marito e quindi non può risposarsi. Da allora il Rebbe Meir Refaels era mutato radicalmente, benché non fosse ancora abbastanza convinto di diventare un chassid vero e proprio. Con la visita dei due soci, si presentava un’occasione unica per testare di nuovo il potere del Rebbe. Il Rebbe Meir rigirava tutti questi pensieri nella testa ma non disse niente limitandosi a ripetere ai due uomini che la loro situazione era grave 17 e solo un miracolo li poteva salvare. Lui, il Rebbe Meir, non faceva miracoli, forse il Rebbe sì. E poi, ancora una volta , che cosa c’era da perdere? Una frase oscura I due soci si avviarono verso Liozna. Il Rebbe li accolse e loro gli raccontarono in che situazione disperata si trovassero. Il Rebbe rispose: “Vedo che siete uomini con sapere toranico e conoscenze generali molto grandi. Potete dirmi il significato delle parole dei nostri Saggi: “Il regno terrestre è simile a quello celeste? In quale modo il regno di un re umano può essere simile a quello del Re dei re, l’Unico, benedetto Egli sia?” I soci si guardarono ma non seppero che cosa rispondere. “Ve lo dico io”, fece il Rebbe. “Quando l’Eterno apparse per la prima volta a Moshe e gli disse di andare dai Figli d’Israele a spiegare che il D-o dei loro padri li avrebbe liberati dal giogo degli Egiziani, Moshe fece questa domanda: ‘E se mi domandassero: qual è il Suo Nome? Che cosa potrei rispondere?’ D-o rispose che il Suo Nome era un mistero, che la Sua presenza era evidente in tutto il mondo, ma che non doveva essere pronunciato il Suo Nome. Non è grazie al Suo Nome, ma grazie alle Sue azioni che D-o viene riconosciuto nel mondo. Non possiamo parlare che della Maestà Divina. Allo stesso modo, anche se un re 18 umano ha un nome personale, non viene chiamato col nome, ma con “Sua Maestà” oppure “Sua Maestà Imperiale”. Anche se i sudditi non conoscono il re personalmente e non lo possono chiamare col suo nome, si sottomettono alla sua corona con rispetto, amore e dedizione. Ora, tornate a casa. Abbiate fede in D-o e siate certi che Egli vi aiuterà.” Un po’ turbati, i due soci si congedarono dal Rebbe. Tuttavia sentivano una certa delusione. Il Rebbe non aveva dato nessun consiglio, aveva detto solo parole di Torà che non avevano nessun nesso apparente con la loro drammatica situazione. Bene, avevano ora il significato delle parole del Rebbe ma come tutto questo li avrebbe tirati fuori dalle difficoltà? Erano sempre più delusi e cominciarono a pensare che avevano perso il loro tempo. Tornati a Vilna, andarono a trovare il Rebbe Meir Refaels. Gli raccontarono quello che era successo ma egli fece spallucce senza replicare. Un pensiero gli passò per la mente: “Forse mi sono sbagliato!” Stava arrivando il giorno del processo. I due soci si recarono a Pietroburgo, la capitale. Gli avocati non nutrivano nessuna speranza. Al massimo, avrebbero potuto ottenere una riduzione della pena. Però un avocato li suggerì di andare prima del processo dal ministro e di presentare una richiesta. L’incontro col ministro 19 Fecero una piccola indagine e seppero che, ogni mattina, il ministro soleva passeggiare nel parco prima di recarsi al ministero. Quindi andarono di buon ora sul percorso della passeggiata e aspettarono che comparisse l’uomo che aveva in mano la loro sorte. Ma sentendosi poco bene, il ministro non fece la solita passeggiata. Successe anche che il ministro dell’Istruzione che a volte attraversava lo stesso parco venisse al posto suo. I due soci gli si avvicinarono; dopo essersi scusati per il disturbo, gli raccontarono il loro problema e si lamentarono dell’iniquità di un verdetto che, se confermato, li avrebbe rovinati. “Signori, state facendo un errore”, rispose con stizza il ministro.“Vi dovete rivolgere al mio collega, il ministro della Giustizia. Io sono il ministro dell’Istruzione.” Quindi, lasciando stupefatti i due soci si allontanò. Qualche minuto dopo, venne di corsa il custode del parco che disse: “Il signor ministro vi vuole vedere subito. Venite con me.” Li portò verso una panchina sul quale era seduto il ministro. Questa volta, quest’ultimo li parlò con maggior cortesia: “Vedo che siete degli Ebrei colti. Se siete capaci di rispondere alla domanda che vi farò, vi prometto di sottoporre io stesso il vostro caso a Sua Maestà Imperiale e di chiedere la vostra grazia. Ecco: l’altro giorno, Sua Maestà ci chiese a me e ai miei colleghi di spiegare una frase che egli aveva trovato e che era 20 tratta dal vostro Talmùd. Eccola: ‘Il regno di un re umano sulla terra è simile a quello del regno celeste. E il sovrano finì con questa domanda: In quale modo i due regno sono simili?’ Nessuno di noi seppe dare una risposta. Lo potete fare voi?” I due soci mostrarono in viso una gioia infinita. Si ricordavano la recente visita che avevano fatto al Rebbe di Liozna e avevano una risposta bella e pronta. Furono anche leali nel rivelarne la fonte al ministro. Una felice conclusione Quest’ultimo ne fu profondamente colpito e manifestò la speranza di incontrare un giorno il santo Rebbe. Li garantì che potevano stare tranquilli perché sarebbe intervenuto presso Sua Maestà nel loro favore. E li lasciò lì felice all’idea di raccontare una meravigliosa storia al sovrano. Erano ancora più felici i due soci di fronte alla miracolosa conclusione del loro dramma. Impazienti di andare a trovare il parnass (Capo della Comunità), il Rebbe Meir Refaels, tornarono a Vilna. Questa volta quest’ultimo non ebbe più nessun dubbio. Senza perdere altro tempo, si recò a Liozna. Da questo giorno, fece parte dei più ferventi e fedeli discepoli dell’Admur Hazaken. 21 Essere una alef piccola Il giorno in cui lo Tzémach Tzedek, Rabbi Menachem Mendel, terzo Rebbe di Lubavitch, doveva recarsi per la prima volta al cheder, scuola religiosa, egli fu accompagnato dal suo nonno, il Rebbe Shneur Zalman. Il Rebbe chiese al melamed, l’insegnante, di cominciare la lezione con la prima parte del libro di Vayikrà, Levitico. Dopo la lezione il bambino chiese al nonno: “Perché la lettera alef di Vayikrà è scritta in piccolo?” Il Rebbe Shneur Zalman ebbe un momento di riflessione e rispose: “Le lettere della Torà sono di dimensione media. In casi veramente eccezionali, sono più grandi o più piccole della media. Adamo era la creatura di D-o stesso, ecco perché aveva un’intelligenza superiore alla norma. Questa intelligenza superava anche il livello di saggezza degli angeli. Lui era consapevole delle proprie qualità, allora divenne velocemente fiero e orgoglioso. E questo lo portò alla caduta e lo spinse a commettere il peccato dell’Albero della Conoscenza. Moshé invece era dotato di qualità eccezionali e ne era consapevole. Eppure, questo non fomentò in lui nessun orgoglio. Anzi, il suo cuore era pieno di modestia. Moshé era convinto di godere di una situazione unica e pensava che se un’altro Ebreo avesse ricevuto lo 22 stesso privilegio, avrebbe sicuramente raggiunto un livello ben più alto del suo. Un’altro uomo avrebbe potuto portare a termine delle missioni molto più rilevanti di Moshé figlio di Amram. Adamo era consapevole e fiero delle proprie capacità ed egli peccò. Ed è per questa ragione che la Torà usa, una volta (Croniche I 1, 1), una alef grande per scrivere il suo nome. Invece, quando la Torà dice che D-o si rivolse a Moshé, l’uomo più umile che sia, scrive Vayikrà, lo scrive con una alef piccola.” IL pianto di un bambino Non sorprenderà, dunque, che i chassidim attribuiscano un’importanza speciale a tale data. Il numero 18 ha un significato particolare che lo ha reso molto popolare. Infatti le lettere ebraiche che lo compongono formano la parola chai, vivo, vivente. È entrato quindi nell’uso designare questo giorno come chai elul, e così lo si chiama tuttora; esso viene considerato il giorno che dà vita e significato ad elul e la cui vivida luce si diffonde su tutto il mese. Rabbi Shneur Zalman di Liadi è conosciuto come l’Alter Rebbe, ovvero il Rebbe anziano in yiddish. L’Alter Rebbe abitava con il figlio maggiore, sposato, rabbi Dov Ber, che poi gli succedette alla guida del movimento. Il giovane era noto per la sua straordinaria capacità di concentrazione. 23 Una volta, quando rabbi Dov Ber era immerso nello studio, il suo bimbo che dormiva accanto a lui nella culla, cadde e si mise a piangere. Il padre del piccolo non udì il suo pianto, ma il nonno, che nella sua stanza al piano superiore era anch’egli immerso nello studio, udito il pianto interruppe le sue letture e scese al piano inferiore. Sollevò il nipote che si acquietò tra le sue braccia e quindi lo rimise nella culla. E il padre del bambino non si accorse di nulla. L’Alter Rebbe rivolse poi a suo figlio il seguente ammonimento: «Non dobbiamo mai rimanere insensibili al pianto di un bambino, nemmeno quando ci dedichiamo completamente alla più nobile delle occupazioni». Questo episodio illustra uno dei principi basilari del movimento Chabad e di tutto l’ebraismo: dobbiamo sempre ascoltare i nostri bambini ebrei che invocano soccorso. Il “bambino” può essere un ebreo non ancora adulto, uno scolaro o una scolara caduti dalla “culla” dell’educazione ebraica fedele alla Torà. Oppure può essere un adulto, secondo la sua età, ma un “bambino” per quanto riguarda la sua vita ebraica: quanto alla sua conoscenza e alle sue esperienze della religione ebraica, del suo retaggio e delle sue tradizioni. Le anime di questi “bambini” chiamano disperatamente 24 aiuto, perché vivono in un vuoto spirituale, di cui sono consci, in alcuni casi, mentre il più delle volte lo sentono solo a livello di percezione. Ogni ebreo, anche quando dedica tutto se stesso ad una grande causa, deve udire le loro invocazioni, poiché più importante di tutto è riportare questi “bambini” ebrei alla loro culla ebraica. (Saggio basato su una lettera del Rebbe di Lubavitch; tratto da Il Pensiero della Settimana a cura del rabbino Shmuel Rodal). Pensare costantemente all’altro Raccontato da Eliahou Dahan Un anno durante il pomeriggio di Yom Kippùr, il Rebbe Shneur Zalman interrupe la sua preghiera e andò via dalla sinagoga e lasciò i fedeli sbalorditi da questa uscita. Il Rebbe andò verso la foresta; arrivato lì si mise a tagliare della legna e la portò in una catapecchia situata alle porte della città. Egli bussò alla porta ed entrò. Quando fu all’interno, il Rebbe accese un fuoco e lo attizzò con i rami che aveva portato. Poi si mise a cucinare, preparò una minestra e imboccò cucchiaio dopo cucchiaio una donna che aveva appena partorito e che era rimasta sola in casa senza nessuno vicino 25 che la potesse aiutare. Solo dopo avere portato a termine questo compito, lo tzaddìk tornò alla sinagoga per partecipare alla fine della funzione. Storia: l’arresto e la liberazione del Rebbe Shneur Zalman In viaggio verso Pietroburgo Tutta la città di Lyozna rimase stupita nel sapere che il Rebbe Shneur Zalman sarebbe stato arrestato e condotto a Pietroburgo per essere ascoltato in tribunale. Lo stupore si mutò in terrore quando i soldati si piazzarono intorno alla casa del Rebbe. Quest’ultimo fu condotto verso la capitale nella vettura nera che si usava per i condannati sospettati dei delitti più gravi, in particolare per i casi di rivolta verso lo zar. Sotto scorta, la vettura si diresse verso Pietroburgo. Fece il viaggio senza sosta. Era di venerdì ed era quasi ora del tramonto. Il Rebbe chiese al capo della scorta il permesso di fermarsi in una locanda per poter trascorrere lo Shabbat. Ma l’ufficiale lo prese in giro. “Sei un prigioniero. Con quale diritto dai ordini? Dobbiamo proseguire fino a Pietroburgo seguendo le direttive che mi sono state date.” “Non può però obbligarmi a trasgredire lo Shabbat!” Ma l’ufficiale fece finta di non sentire e decise di 26 fermarsi soltanto per il cambio dei cavalli quando essi sarebbero stanchi. Il Rebbe rimase in silenzio. Poco dopo, si ruppe uno degli assali e fu necessario interrompere il viaggio per permettere ai soldati di ripararlo. Il viaggio riprese, ma poco dopo si ruppe un altro assale. Questo fu riparato, ma poco più lontano, cadde un cavallo che morì subito. Vedendo tutto ciò e rendendosi conto delle forze sopranaturali del Rebbe, l’ufficiale non osò più rifiutare nulla. Ordinò quindi al cocchiere di cercare una locanda per permettere al Rebbe Shneur Zalman di trascorrere lo Shabbat. Una domanda sulla Bibbia All’uscita dello Shabbat, si riprese il viaggio verso Pietroburgo. Lì, il Rebbe fu messo in isolamento in una cellula destinata ai condannati accusati dei più gravi crimini. Quando si ritrovò da solo, il Rebbe si mise a pregare e a studiare la Torà. 27 Era nel bel mezzo ella sua preghiera quando si aprì la porta. Un emissario del ministro incaricato dell’affare entrò nella cella. Vedendo il Rebbe pregare, capì che si trovava di fronte a un uomo santo. Commosso, rimase a lungo in piedi a contemplare il Rebbe mentre pregava. Poi, si rivolse a lui con grande rispetto. Fu subito evidente per lui che un uomo di quel calibro non poteva essere il pericoloso criminale che brigava per il trono dello zar. L’uomo conosceva la Bibbia e l’Ebraismo, chiese pertanto al Rebbe: “Ci sono alcuni versetti della Torà che leggo e rileggo ma non li capisco molto bene. Per esempio, quando Adamo commise il peccato, D-o lo chiamò e gli chiese: ‘Dove sei?’ Adamo rispose ‘Eccomi’. Qual è il significato di questa domanda divina? Non sapeva D-o dove si trovava l’uomo?” Il Rebbe ricordò il commento di Rashì a proposito di questo versetto ma l’emissario del ministro rispose che conosceva questa spiegazione. Tuttavia egli desiderava conoscere la spiegazione del Rebbe stesso. “Credi che la Torà sia eterna, che possa trascendere lo spazio e il tempo?” “Ci credo.” “Ecco la spiegazione: Quando un uomo raggiunge un’età precisa (e il Rebbe citò l’età esatta del suo interlocutore), D-o si rivolge a lui facendogli una 28 domanda: ‘Dove sei?’ A quale punto sei moralmente? Lo sai per quale motivo sei stato creato sulla terra? Quale missione ti è stata affidata? E che cosa hai realizzato?” La visita dello Zar Questo funzionario fu colpito dalla risposta del Rebbe. Fu chiamato dallo Zar per fare un resoconto del incontro e gli raccontò gli scambi che aveva avuto con lo strano prigioniero. Lo zar ne fu incuriosito e decise di andare in persona a trovare il Rebbe Shneur Zalman. Tuttavia non voleva che la visita fosse di dominio pubblico, decise quindi di non rivelare chi era. Mise allora dei vestiti comuni ed entrò nella cella. Quando entrò lo zar, il Rebbe si alzò e disse la benedizione che si pronuncia davanti a un re. Gli si rivolse con i massimi onori, e lo zar non ebbe più nessun dubbio, il Rebbe l’aveva riconosciuto anche se lui aveva provato a nascondere la propria identità. “Come mai sai chi sono?” “La monarchia terrestre è all’immagine della monarchia celeste”, rispose il Rebbe. “Appena Lei è entrato, ho capito che mi trovavo in presenza di un re. Non ho mai provato questa sensazione davanti agli impiegati del carcere o ai giudici.” L’ora esatta 29 Oltre ai chiarimenti ottenuti riguardo gli aspetti collegati direttamente al processo, i giudici poterono costatare quanto fosse grande in vari campi la saggezza del Rebbe. E così lo chiusero in una camera buia illuminata solo dalla luce debole di una candela. I raggi del sole e la luce del giorno non vi penetravano in nessun modo. Volevano verificare cosi se il Rebbe sarebbe stato in grado di distinguere il giorno dalla notte. Un giorno, alle due del pomeriggio, gli chiesero: “Perché non vai a dormire? Sono le due di notte!” “Non è vero”, rispose, “sono esattamente le due e cinque del pomeriggio.” “Come fai a saperlo con cosi tanta precisione?” “Perché ogni ora del giorno corrisponde a una combinazione del nome divino Havaya e ogni ora della notte a una combinazione del nome Ado-n-ai. Grazie a queste combinazioni è possibile determinare l’ora con precisione.” La kasherut in carcere. Il Rebbe Shneur Zalman fu incarcerato nella fortezza Petropalov. Ma nessuno sapeva dove si trovasse e né se fosse ancora vivo. Però D-o diede ai chassidim di Pietroburgo il modo di scoprire il luogo dove fosse prigioniero il Rebbe. Una volta, l’emissario del ministro disse al Rebbe: “Mi piacerebbe farti una cortesia, anche piccola. Che cosa 30 posso fare per te?” “Potresti far sapere alla mia famiglia che sono vivo?” “Come posso? Non sono gli Ebrei i tuoi detrattori? Se mi rivolgessi a un Ebreo, come potrei sapere se si tratta di un chassid o di un oppositore alla chassidùt?” “Se tu incontrassi un uomo con vestiti spaiati, sappi che si tratterebbe di mio cognato che si chiama Israele Kasik. Prima che io fossi arrestato gli avevo detto di andare subito a Pietroburgo. Sono certo che egli mi ha ubbidito.” L’emissario fu colpito dall’affermazione del Rebbe Shneur Zalman. Fece la promessa di trasmettere il messaggio e la mantenne. Girò per le vie della città e incontrò a un certo punto un uomo che corrispondeva alla descrizione di Israele Kasik. Gli chiese: “Come ti chiami?” Reb Israel aveva viaggiato col passaporto di qualcun altro. Diede il nome iscritto sul passaporto. L’emissario disse: “Bugiardo!” E andò via. Reb Israele Kasik era stupito di tutto ciò. Ne parlò con i chassidim e tutti arrivarono alla conclusione che qualcosa si nascondeva dietro tutta questa faccenda. Decisero che l’indomani Reb Israele Kasik sarebbe andato in giro per la città. Se incontrasse quell’uomo, egli gli avrebbe detto il suo vero nome. E cosi fu. L’emissario andò dal Rebbe e gli disse di aver 31 incontrato un uomo che rispondeva esattamente alla descrizione di suo cognato ma che aveva un altro nome. Il Rebbe Shneur Zalman capì che suo cognato aveva preso in prestito un passaporto e chiese di provarci un’altra volta. L’uomo accettò. Mentre andava per la città, incontrò Israele Kasik e gli chiese il suo nome. Il cognato del Rebbe rivelò la sua vera identità e l’uomo non rispose. Andò via piano e il Rebbe lo seguì. Andò verso casa sua e entrò, mentre Reb Israel rimase fuori, improvvisamente, un’anguria cadde dalla finestra. Reb Israel capì che gli era destinata. La raccolse e si recò a casa di uno dei chassidim. Lì, aprirono l’anguria e trovarono un biglietto scritto dal Rebbe stesso: “Ascolta Israel, l’eterno è nostro D-o, l’Eterno è Uno” Vennero a sapere cosi che grazie a D-o, il Rebbe era vivo e che c’era ancora speranza. Ma non sapevano ancora dove fosse prigioniero. Lo seppero solo qualche giorno dopo. Difatti, non avendo a disposizione cibi kasher, il 32 Rebbe non mangiava da diversi giorni. Il responsabile del carcere pensò che temeva il verdetto e che digiunava per lasciarsi morire. Gli chiese ripetutamente di alimentarsi e siccome non gli dava ascolto mandò i soldati per obbligarlo a mangiare. Ma il Rebbe chiuse con forza la bocca e fu impossibile per loro portare a termine il loro compito. L’emissario del ministro venne e vide quello che stava succedendo. “Che succede qui? Chiese. Non si può obbligare un uomo cosi. Bisogna tentare di convincerlo.” Si girò verso il Rebbe e chiese: “Perché non mangia? E possibile che Lei sia prosciolto dal verdetto. Anzi, è molto probabile. Se lei rifiuta di mangiare, sarà responsabile della sua morte e, secondo la legge d’Israele, lei non sarà nel mondo futuro.” “Qui non c’è cibo kasher” rispose il Rebbe, “e non se ne parla che io mangi taref anche se dovessi perdere la mai parte nel mondo futuro.” “Se io le procurassi del cibo kasher, lei avrebbe fiducia?” “Per il momento, non ho fame poiché ho lo stomaco chiuso a causa del digiuno. Ho bisogno di qualcosa che 33 mi tiri su. Se lei mi trovasse una medicina preparata da un Ebreo, io lo prenderei.” “Avrebbe fiducia se fossi io a portargliela?” “Se lei la ricevesse dalle mani di un Ebreo e se nessuno tranne voi la toccasse fino a quando arrivasse a me, io mangerò.” A Pietroburgo, la capitale, viveva uno dei grandi chassidim, il ricco Mordechai di Lyepele, un uomo rispettato da tutti i ministri per la sua onestà e la sua rettitudine. Il funzionario gli chiese di preparare una medicina kasher destinata a un Ebreo. Il Rebbe Mordechai sentì che si trattava del Rebbe Shneur Zalman. A chi altro poteva essere destinata questa medicina? Quindi la preparò e mise tra questa e il piatto un biglietto con una domanda: “Per chi è questa medicina? Dov’è il destinatatario?” Firmò col proprio nome. L’emissario del ministro prese il piatto con il contenuto e lo portò al Rebbe che trovò il biglietto. Mangiò ciò che c’era nel piatto ma ne lasciò un po’. Mise sotto un biglietto sul quale aveva scritto: “Sono quello che mangia e sono a Petropavlov.” Poi, chiese al funzionario di portare dietro la medicina. L’uomo consegnò il piatto al Rebbe Mordechai il quale trovò il biglietto. Allora tutti i chassidim furono sollevati e il Rebbe Mordechai preparò ancora una medicina per il Rebbe. 34 La benedizione alla luna. Durante tutto il periodo della prigionia del Rebbe nella fortezza di Petropavlov, furono formalizzati i capi d’accusa in vista del processo. Quest’ultimo non si svolse a Petropavlov bensì al centro dell’intelligence zarista chiamato «Tainy Soviet». Lì il Rebbe era stato regolarmente condotto per essere sentito. Un fiume, la Niba, separava i due luoghi e un soldato glielo faceva attraversare in barca. Una volta, il Rebbe volle cogliere l’occasione per dire la benedizione alla luna. Chiese al soldato di fermare la barca ma questo rifiutò. “Se voglio, posso fare fermare questa barca”, precisò il Rebbe. Ma l’uomo continuava a rifiutare. Improvvisamente, la barca si fermò e il Rebbe recitò il Salmo precedente la benedizione. Poi, la barca riprese il viaggio e il Rebbe chiese ancora di fermarla poiché voleva compiere la mitzvà facendo ricorso alle vie naturali. “Che cosa mi dai in cambio?” Chiese la guardia. Il Rebbe gli consegnò il testo di una benedizione che egli stesso aveva scritto su un biglietto. Allora il soldato fermò la barca e il Rebbe disse la benedizione. Questo soldato divenne ricco e famoso, egli visse molti anni. Aveva messo il biglietto in un medaglione di vetro con cornice d’oro. Era molto importante per lui. Il Rebbe Dov Zeev, chassid di Yekaterinoslav, vide 35 questo biglietto a casa del figlio del soldato e poté leggerlo. Il 19 Kislev. Lo zar si accorse molto rapidamente che le accuse rivolte al Rebbe non erano fondate. Chiese di liberarlo e l’autorizzò addirittura a continuare a insegnare la chassidut come lo aveva fatto prima. Dopo 53 giorni di detenzione, il martedì 19 Kislev 5548 (1799), il Rebbe fu informato della sua liberazione. Stava leggendo dei Tehilim e stava proprio recitando il versetto (Salmi 55,19): “Egli ha liberato la mia anima nella pace”: Da quella data, numerosi Ebrei festeggiano ogni anno il 19 Kislev in quanto Festa della Liberazione e Rosh Hashana della Chassidùt. 36 Adattato da “IL Rebbe Shneur Zalman di Lyadi e la sua generazione” da Haim Mellul, ed. Beth Loubavitch TANIA CAPITOLO 1 Viene insegnato (Niddà, fine cap.3):” Lo si fa giurare: Prima che un ebreo venga al mondo, gli si fa prestare un giuramento nei cieli, dicendogli: “Sii un giusto (tzaddik), e non essere un malvagio (rasha); e persino se tutto il mondo, giudicandoti secondo i tuoi atti, ti dice che sei uno tzaddik, sii ai tuoi occhi come un rasha”. La discesa di un’anima in un corpo ha uno scopo – compiere un compito particolare in questo mondo. Per permetterle di riuscirci, le si fa prestare il giuramento di “essere uno tzaddik e di non essere un rasha”, e contemporaneamente di considerarsi come un rasha, non come uno tzaddik. Questo deve essere capito, poiché è insegnato nella Mishnà (Avot, cap.2):”Non considerarti come un rasha” Come è possibile dire che un ebreo deve prestare giuramento di considerarsi come un rasha, allorchè 37 la mishnà stessa insegna il contrario? (L’apparente contraddizione tra i due insegnamenti verrà risolta nel capitolo 13). Inoltre, se si considera come un rasha, verrà ferito nel suo cuore e sarà triste, e non potrà di conseguenza servire D-o in modo gioioso, con cuore lieto; Oltre alla contraddizione precedentemente menzionata, una domanda supplementare si pone adesso. Uno dei principi essenziali del servizio di D-o è la gioia di avere il privilegio di servirLo, osservando i comandamenti positivi e astenendosi da ciò che è vietato. Come possiamo pretendere da un uomo che presti il giuramento di essere un rasha ai suoi propri occhi quando una tale considerazione, sinonimo di tristezza e malinconia, rende impossibile il servizio di D-o nella gioia? E se il suo cuore non è affatto ferito da (questa considerazione), in altre parole se si suggerisce, per compiere il sermone prestato, di considerarsi come un rasha e di non esserne turbato, per non ostacolare la gioia nel servizio di D-o, può arrivare ad avere un comportamento di leggerezza, che D-o non voglia non appena il peccato non lo tormenterebbe. Persino se la sua risoluzione di non essere turbato dal fatto di essere un rasha risulta solo da un sincero desiderio di servire D-o nella gioia, una tale risoluzione è tuttavia suscettibile di condurlo ad uno stato nel quale il peccato non sarebbe più veramente fonte di disturbo. Tuttavia, capiremo questa questione dopo avere prima definito il vero significato dei termini: tzaddik e rasha. Troviamo nel Talmud (Berachot 7a) cinque categorie: lo tzaddik che conosce il bene (letteralmente: lo tzaddik e 38 il bene per lui, la prosperità materiale), lo tzaddik che conosce il male, (letteralmente: lo tzaddik e il male per lui, ossia che soffre materialmente), il rasha che conosce il bene (letteralmente: il rasha e il bene per lui), il rasha che conosce il male (letteralmente: il rasha e il male per lui, ossia che soffre materialmente), e l’uomo intermedio – il benonì. Il Talmud spiega:” lo tzaddik che conosce il bene” è lo tzaddik completo, per colui che raggiunge un simile livello,le sofferenze fisiche, la cui funzione è di sbarazzare l’anima delle impurità del peccato, non sono necessarie. Di conseguenza, egli prospera anche sul piano materiale. “Lo tzaddik che conosce il male” è lo tzaddik incompleto. Egli conosce delle sofferenze fisiche, per purificare la sua anima affinchè non soffra nell’altro mondo. Secondo questa spiegazione del Talmud, lo “tzaddik che conosce il bene” e lo “tzaddik che conosce il male” non sono due tzaddikim dello stesso livello spirituale, di cui uno riesce a prosperare mentre l’altro soffre. Si tratta piuttosto di due livelli di tzaddikim. Tuttavia, per il Talmud, il livello spirituale dello tzaddik in questione è definito con le espressioni “tzaddik completo” e “tzaddik incompleto”, mentre le espressioni “tzaddik che conosce il bene” e “tzaddik che conosce il male” non definiscono il suo livello spirituale, ma descrivono semplicemente la sua situazione materiale che ne consegue. Nel Raya Mehemna (Zohar II, 117b), viene spiegato che lo “tzaddik che conosce il male” è colui il cui male 39 (la cattiva inclinazione) è sottomesso al bene (la buona inclinazione). E’ lo tzaddik in cui il male è solo residuo, e sottomesso per di più alla sua buona natura. Di conseguenza, lo “tzaddik che conosce il bene” è uno tzaddik che ha solo del bene dentro di sé, non possiede più alcun male. Secondo lo Zohar (di cui fa parte il raya Mehemna), le espressioni “tzaddik che conosce il bene” e “tzaddik che conosce il male” definiscono, anch’esse, il livello dello tzaddik in questione. Lo “tzaddik che conosce il bene” è uno tzaddik che ha solo il bene, il male presente dentro di lui essendo stato trasformato in bene. Lo “tzaddik che conosce il male” è uno tzaddik di un livello inferiore che porta ancora dentro di sé un residuo del male. In queste condizioni, bisogna capire perché vengono dati ad ognuno di questi tzaddikim dei titoli ridondanti:”tzaddik completo” e “tzaddik che conosce il bene”, “tzaddik incompleto” e “tzaddik che conosce il male”. Se lo “tzaddik completo” è lo “tzaddik che conosce il bene” (ossia colui in cui si trova solo del bene) e che lo “tzaddik incompleto” è lo “tzaddik che conosce il male” (che conserva dentro di sé un residuo del male), perché è necessario dare ad ogni tzaddik due appellativi? La spiegazione che verrà data più avanti (al cap.10), è che ogni termine descrittivo denota un aspetto particolare del servizio divino dello tzaddik (ossia il suo amore per D-o, poiché è grazie a questo amore che riceve il nome di Tzaddik). Le espressioni “tzaddik completo” e “tzaddik incompleto” denotano dei livelli differenti di questo servizio: lo “tzaddik completo” è lo tzaddik che ha raggiunto la forma più elevata di amore per D-o, ahava betaanu- 40 ghim (l’amore nelle delizie). Quanto allo tzaddik “incompleto”, è colui il quale “l’amore nelle delizie” non è ancora completo. Le espressioni “tzaddik che conosce il bene” e “tzaddik che conosce il male” riguardano un’altra differenziazione di queste due categorie di tzaddikim. L’appellativo “tzaddik che conosce il bene” denota colui che ha già totalmente trasformato il male che era in lui lasciando spazio solo al bene. Lo “tzaddik che conosce il male” è colui il quale non è riuscito in questa trasformazione assoluta e nel quale il male ancora risiede. La spiegazione che segue dimostrerà che il male al quale viene fatto riferimento qui è tuttavia solo un male residuo che abita ancora nel cuore dello “tzaddik incompleto”. Poiché lo tzaddik non conosce il male reale che si esprime attraverso il pensiero o la parola. Né a maggior ragione, il male che si manifesta attraverso l’azione. Nel Talmud (fine del cap.9 di berachot), (viene detto che) i tzaddikim sono “giudicati” (ossia animati) dalla loro buona inclinazione, etc. I restai sono “giudicati” (ossia animati) dalla loro cattica inclinazione, i benonim (intermedi) sono “giudicati” dall’una e dall’altra (la buona e la cattiva inclinazione). Rabba dichiarò:”Io per esempio, sono un benonì”. Abbayè gli rispose:”Maestro, non lascia vita a nessuna creatura…” Abbayè fa il ragionamento seguente:”Se sei un benonì, coloro che sono ad un livello inferiore al tuo sono inclusi nella categoria dei restai, di cui i nostri saggi hanno detto:”I reshaim sono considerati come morti, persino quando sono in vita”. Qualificandoti come benonì, non 41 lasci la vita a nessuno”. Per capire questo chiaramente, Oltre alla questione che verrà affrontata, ossia che se, secondo la concezione comune, il benonì è colui i cui atti si dividono per metà in mitzvot, in buone azioni, e per metà in trasgressioni, allora come può un saggio del calibro di Rabba commettere l’errore di considerarsi come un benonì?, un’altra viene qui esplicitamente posta: se il benonì è soltanto l’uomo di questa concezione comune, il suo statuto è facilmente identificabile e non c’è più bisogno di chiarire la questione. Così come la dichiarazione di Yov (Baba Batra cap.1):”Padrone del mondo! Tu hai creato degli tzaddikim, Tu hai creato dei reshaim…”, eppure non è deciso (in anticipo se l’uomo sarà) tzaddik o rasha! Il Talmud spiega che D-o decreta prima della nascita di un bambino se sarà intelligente o no, forte o debole, etc. Tuttavia, D-o non determina se sarà tzaddik o rasha: gli lascia il libero arbitrio. Di conseguenza come bisogna capire la frase di Yov:”Tu hai creato degli tzaddikim, Tu hai creato dei reshaim”? Bisogna anche capire la natura essenziale (mahut) del livello del benonì. La natura essenziale dello tzaddik è il bene; la natura essenziale di un rasha è il male. Qual è la natura essenziale del benonì? Non è di certo colui i cui atti contano una metà di meriti e una metà di peccati, poiché altrimenti, come avrebbe potuto Rabba commettere l’errore di definirsi un benonì, quando sappiamo che la sua bocca non 42 cessava mai di studiare la Torah, al punto che l’angelo della morte non riusciva ad avere la meglio su di lui? Lo zelo di Rabba era tale che non trascurò mai un istante lo studio della Torah. Anche da un punto di vista qualitativo, il suo studio era così elevato che l’angelo della morte non riuscì a dominarlo. Quindi come avrebbe potuto commettere l’errore di pensare che avesse una metà di peccati, che D-o non voglia? Inoltre, in che momento un uomo potrebbe essere chiamato benonì? Poiché, nel momento stesso in cui pecca, e fino a quando si pente, è considerato come un vero e proprio rasha (e se si pente in seguito, cessando di conseguenza di essere un rasha, viene considerato come un tzaddik completo). E persino colui che trasgredisce un divieto minore dei Saggi è chiamato rasha, come insegna il Talmud in Yevamot cap.2, e in Nidda, cap.1. (Per di più) persino colui che non pecca lui stesso, ma ha la possibilità di prevenire il peccato del suo prossimo, e non lo fa, è chiamato rasha (Shevuot cap.6). A maggior ragione colui che trascura un precetto positivo che potrebbe osservare, come colui che potrebbe studiare la Torah e non lo fa, al quale i nostri Saggi hanno applicato il verso:”Poiché ha disprezzato la parola di D-o (la Torah), (la sua anima) verrà recisa, etc.” E’ evidente che viene qualificato come rasha, più di qualcuno che trasgredisce un divieto rabbinico. Bisogna quindi concludere che il benonì non è colpevole neanche per il peccato di aver trascurato lo studio 43 della Torah, Un peccato tuttavia difficile da evitare, incluso nei peccati che si commettono quotidianamente. E per questa ragione Rabba commise l’errore di definirsi come un benonì. Il benonì non commettendo mai il peccato di trascurare lo studio della Torah, Rabba potè (per errore) considerarsi come un benonì, nonostante abbia scrupolosamente osservato tutti i comandamenti nei minimi dettagli, e non abbia mai cessato di studiare. NOTA: In quanto a ciò che è scritto nello Zohar III p.231:”Colui i cui peccati sono poco numerosi (è chiamato un “tzaddik che conosce il male”)”, Questo passaggio sembra indicare che persino secondo lo Zohar, lo tzaddik che conosce il male potrebbe essere semplicemente un uomo che ha commesso pochi peccati. Il benonì sarebbe quindi un uomo che ha commesso una metà di meriti e una metà di peccati. Questa è solo la domanda di rav Hamnuna a Eliau. Ma secondo la risposta di Eliau, la definizione dello “tzaddik che conosce il male” è la stessa che viene esposta nel Raya Mehemna, sezione Mishpatim, menzionata precedentemente ossia che lo “tzaddik che conosce il male” è colui in cui il male è solo un infimo residuo sottomesso alla sua buona natura. E la Torah ha settanta modi di interpretazione. In quanto a ciò che si dice comunemente, che colui che ha una metà di meriti e una metà di peccati viene chiamato un benonì, mentre colui che ha una maggioranza 44 di meriti che prevalgono sui suoi peccati viene chiamato uno tzaddik, si tratta solo di un termine che devia dal suo uso abituale per definire ciò che riguarda la ricompensa e la punizione, poiché l’uomo viene giudicato seguendo la maggioranza dei suoi atti, ed è qualificato come tzaddik alla fine del giudizio pronunciato nei suoi confronti non appena questo giudizio gli è favorevole. E’ soltanto in questo caso legale che il termine tzaddik viene applicato a colui le cui buone azioni sono maggiori rispetto alle cattive. Ma per quanto riguarda la vera definizione delle qualità e dei livelli distinti di tzaddikim e benonim, i nostri Saggi hanno detto che gli tzaddikim “vengono giudicati” ossia animati soltanto dalla loro buona inclinazione, così come è detto:”E il mio cuore è vuoto dentro di me”, poiché David, l’autore di questo verso, era sprovvisto della cattiva inclinazione, avendola annientata tramite il digiuno. David sradicò la sua cattiva inclinazione per mezzo dei digiuni. Sono possibili anche altri metodi. Questo testo del Talmud dimostra quindi che il termine tzaddik nel suo vero senso, si applica solo a colui che si è sbarazzato della sua cattiva inclinazione. Ma chiunque non ha raggiunto questo livello, e non si è liberato della sua cattiva inclinazione, nonostante i suoi meriti siano più numerosi che i suoi peccati, non è assolutamente del livello e del rango dello tzaddik. In realtà non ha raggiunto neanche il livello di benonì, come è stato dimostrato in precedenza. 45 Per questa ragione i nostri saggi hanno detto nel Midrash:”Il Santo Benedetto Egli sia vide che gli tzaddikim erano poco numerosi, si alzò e li piantò in ogni generazione, ossia li distribuì equamente in ogni generazione. Questa espressione (“gli tzaddikim sono poco numerosi”) è concepibile solo se il termine tzaddik denota un uomo che si è completamente disfatto della sua cattiva inclinazione. Se lo tzaddik fosse solo colui il quale le buone azioni prevalgono sulle cattive, perché i nostri saggi avrebbero detto allora che :”gli tzaddikim sono poco numerosi”, allorchè la maggior parte degli ebrei conta più buone azioni che non cattive? Così come è detto:”Lo tzaddik è il fondamento del mondo” Deve esserci quindi in ogni generazione uno tzaddik che serve come fondamento del mondo. Tuttavia questa questione potrà essere spiegata (si capiranno meglio i livelli di tzaddik e benonì, così come le diverse sfumature che compongono i loro ranghi), basandosi su ciò ha scritto Rabbi Haim Vital nel Shaar Hakedushà (e nell’Etz haim, Porta 50 cap.2): ossia che ogni ebreo, tzaddik o rasha, possiede due anime, così come è detto:”E le neshamot (le anime al plurale) che ho fatto”. Nonostante il verso si riferisce solo ad un ebreo come individuo (come lo indica il singolare della parola ruach (spirito) nella frase precedente “Quando lo spirito (di un uomo) che emana da Me sarà sottomesso”), la forma plurale (le anime) viene impiegata poiché ogni ebreo possiede due anime. Sono due nefashot, due anime e forze vitali, 46 un’anima proviene dalla klipa e la sitra achara. La parola klipa significa letteralmente una conchiglia o una buccia. D-o creò delle forze che dissimulano la vitalità divina presente nell’insieme della creazione così come la buccia che ricopre e dissimula il frutto. Sitra achara significa “l’altro lato”, il lato della creazione che è l’antitesi della santità e della purezza (questi due termini sono generalmente sinonimi). E’ lei (quest’anima proveniente dalla klipa e dalla sitra achara) che è rivestita dal sangue dell’uomo, e dà vita al corpo, come è scritto:” poiché la nefesh della carne (ossia l’anima che intrattiene la vita fisica) è nel sangue”. E da essa (da quest’anima) provengono tutti i tratti caratteriali cattivi, che derivano dai quattro elementi che sono in essa, Come i quattro elementi fisici: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, sono il fondamento di tutte le entità fisiche, quest’anima è composta dai quattro elementi spirituali che corrispondono agli elementi fisici fondamentali. Siccome essi derivano dalla klipa e dal male, sono essi stessi malvagi e generano tutti i tratti malvagi del carattere, ossia: la rabbia e l’orgoglio che emanano dall’elemento del fuoco che si eleva verso l’alto, L’orgoglio è uno stato nel quale un individuo si considera superiore agli altri. La rabbia è un derivato dell’orgoglio: se non fosse imbevuto di questo, non si arrabbierebbe contro chiunque sfida la sua volontà. L’appetito per i piaceri emana dall’elemento di acqua, poiché l’acqua permette la crescita di tutti i tipi di cose che offrono il piacere, la capacità dell’acqua di far nascere e crescere delle cose 47 gradevoli stabilisce che l’elemento di piacere è dissimulato in essa. L’appetito per i piaceri deriva dunque dall’elemento d’acqua. La frivolezza, lo scherzo, il vanto e le parole futili emanano dall’elemento d’aria, In modo simile all’aria, sono sprovviste di sostanza, e la pigrizia e la malinconia emanano dall’elemento di terra. La terra è caratterizzata dalla pesantezza. L’uomo pigro e malinconico risente una certa pesantezza dei suoi membri. Da quest’anima provengono anche i tratti buoni inerenti al carattere di ogni ebreo, come la compassione e la beneficienza. Tuttavia, come potrebbero dei buoni sentimenti emanare dall’anima di klipa e del male di cui si tratta qui? Poiché per gli ebrei, quest’anima di klipa deriva dalla klipa (chiamata) noga che comprende anche del bene, e questo è la fonte di tutti questi tratti naturali positivi.(Questa klipa) proviene dall’ “Albero” esoterico “della conoscenza” (che comprende) il bene e il male. Al contrario, le anime delle nazioni del mondo emanano dalle altre kelipot impure che non contengono alcun bene, così come è scritto in Etz Haim, Porta 49, cap.3. E tutto il bene compiuto dalle nazioni del mondo è solo per scopi personali. Siccome le loro anime provengono dalle kelipot sprovviste di bene, le loro buone azioni sono motivate esclusivamente da intenzioni egoistiche. E come il Talmud lo spiega, riguardo al verso:” La bontà delle nazioni è un peccato”, tutta la carità e il bene 48 compiuti dalle nazioni sono solo per la loro propria gloria… Quando un ebreo agisce con benevolenza, è essenzialmente motivato dal benessere del prossimo. Questo concetto viene provato dal fatto che il piacere che ha quando il suo prossimo non ha bisogno del suo aiuto è più grande della soddisfazione che ha del suo atto di bontà. Al contrario, le altre nazioni del mondo non sono mosse dalla preoccupazione del benessere del loro prossimo, ma piuttosto da delle considerazioni egoistiche, un desiderio di gloria personale, un sentimento di soddisfazione. Bisogna tuttavia sottolineare che esistono anche fra le nazioni del mondo, delle anime derivate dalla kelipat noga. Sono i “pii fra le nazioni del mondo”, degli uomini virtuosi, giusti, capaci di manifestare veramente una preoccupazione per il prossimo. CAPITOLO 2 La seconda anima (che appartiene solo) all’ebreo è veramente “una parte di D-o in alto”, L’espressione “parte di D-o in alto” è una citazione degli agiografi (Yov 31,2). La parola “veramente” insiste sul suo senso letterale. Infatti, alcuni versi usano un linguaggio iperbolico. Ad esempio, il verso che descrive “le grandi città fortificate (fino) ai cieli” deve essere sicuramente capita in un senso figurato, e non letteralmente. Affinchè non si interpreti l’espressione “una parte di D-o in alto” in questo senso, Rabbi Shneur Zalman aggiunge la parola “veramente”, sottolineando così che l’anima ebraica è letteralmente una parte di divinità. 49 Così come è detto riguardo ad Adamo (la cui anima era generale, una neshama klalit, ossia che comprendeva tutte le anime particolari delle generazioni a venire):”e soffiò nelle sue narici un’anima di vita”, e come diciamo nella preghiera della mattina, “Tu (Hashem) l’hai soffiata dentro di me”. Rabbi Shneur Zalman spiegherà ora il significato del verbo “soffiare” in questo contesto. E’ scritto nello Zohar:”Colui che soffia, lo fa da dentro se stesso”, ossia dall’interno e dal più profondo del suo essere, poiché soffiando con forza, l’uomo esprime la sua vitalità interna e profonda. Soffiare stanca molto più rapidamente che parlare, poiché la vitalità espressa è più importante. La metafora del soffio utilizzata per descrivere l’assestamento dell’anima ebraica in un corpo significa quindi che quest’anima proviene dall’aspetto “profondo” del divino. Questa radice dell’ebreo nell’essenza stessa di D-o viene anche indicata dalla designazione degli ebrei come i “figli” di D-o. Le loro anime derivano dal “pensiero” divino così come un figlio deriva dal cervello di suo padre, idea che rabbi Shneur Zalman adesso svilupperà. Così, per utilizzare una metafora, le anime ebraiche sono state concepite nel pensiero (divino), l’anima ebraica trae la sua origine nel pensiero divino, il livello più profondo del divino. Tutte le altre creature, compresi gli angeli, hanno la loro fonte nella “parola” divina, ad un livello che, paragonato a quello del pensiero, è più superficiale. 50 Come è detto, a proposito del popolo ebraico nel suo insieme “Israel è il Mio figlio primogenito”, e riguardo ad ogni ebreo in particolare, “Voi siete dei figli per l’Eterno il vostro D-o”. Questo significa che, così come un figlio deriva dal cervello di suo padre, ossia dall’essere essenziale del padre, allo stesso modo, se così si può dire, l’anima di ogni ebreo deriva dal pensiero e dalla saggezza di D-o. Rabbi Shneur Zalman adesso affronterà una seconda tappa del suo ragionamento. Dire che gli ebrei derivano dal pensiero e dalla saggezza di D-o, significa in sostanza che derivano da D-o stesso. Poiché “E’ saggio”, D-o possiede l’attributo di saggezza, ma non di una saggezza conosciuta da noi” poiché “Egli e la Sua saggezza sono Uno” E, come scrive Maimonide:” E’ Egli stesso la conoscenza e il conoscente… (e il conosciuto)”. In altre parole, la saggezza e la comprensione di D-o sono assolutamente differenti dalla comprensione umana. Quest’ultima è basata su tre elementi distinti: 1)il conoscente, l’anima dell’uomo; 2) la conoscenza, la facoltà cognitiva che permette all’anima di conoscere e comprendere; 3) il conosciuto,ad esempio una legge nella Mishna o una discussione nel Talmud. Al contrario, a proposito della saggezza divina, Maimonide dice:” E’ Egli stesso la conoscenza, il conoscente e il conosciuto”. Maimonide prosegue:” L’uomo non ha la possibilità di 51 capire questo chiaramente…”, così come è scritto:”Puoi trovare e capire D-o cercando?” e “Poiché i Miei pensieri non sono i vostri pensieri” dice D-o, di conseguenza, “i vostri” pensieri umani non possono carpire “i Miei” pensieri. La saggezza di D-o è un tutt’uno con Egli stesso. Dunque l’anima ebraica, generata dalla saggezza divina, deriva in verità da D-o stesso. Numerosi pensatori ebrei rifiutano l’approccio descrittivo di Maimonide. Secondo il loro punto di vista, “definire” D-o è impossibile, dato che ogni definizione è per sua natura limitativa e quindi incapace di rendere conto in qualche modo del divino. Nella nota che segue, Rabbi Shneur Zalman osserva che i saggi della kabbala seguono la posizione di Maimonide. Per loro, questa posizione non potrebbe riguardare tuttavia l’essenza non conoscibile di D-o. D-o non può essere definito con il termine di “conoscenza” poiché trascende infinitamente questa nozione. Al contrario, quando D-o si “presenta” con l’attributo di Chochma (saggezza) “dopo” che la luce infinita della Sua essenza è stata limitata per mezzo del “tzimtzum” (le contrazioni progressive di questa luce creatrice), è in effetti, possibile dire che D-o è “il conoscente, la conoscenza e il conosciuto”. NOTA: I saggi della kabbala hanno accettato (la posi- 52 zione di Maimonide), come lo spiega il pardess di rabbi Moshè Cordovero. E persino secondo la kabbala dell’Ari Zal (Rabbi Itzchak Luria, di memroia benedetta), l’enunciato di Maimonide ha un senso, La kabbala dell’Ari Zal introduce dei significati più profondi riguardo all’essenza illimitata di D-o che trascende infinitamente il livello di conoscenza al quale Maimonide fa riferimento. E tuttavia, persino secondo gli insegnamenti dell’Ari Zal, l’opinione di Maimonide resta accettabile. se viene affiancata al concetto mistico della luce dell’Ein Sof che si riveste, dopo aver subito numerose “contrazioni” (tzimtzumim), nei ricettacoli delle sefirot di chabad (chabad è un acronimo di chochma, bina e daat –rispettivamente “la saggezza”, “la comprensione” e “la conoscenza”, la triade delle sefirot che rappresentano “l’intelletto” divino) del mondo di atzilut (“l’emanazione”), attraverso il processo del tzimtzum (“contrazione”), la luce infinita di D-o (designata dai kabbalisti come Or Ein Sof, “la luce di Colui che è infinito”) si riveste nelle sefirot, che sono i Suoi attributi. Questa manifestazione si produce al livello di Atzilut, in particolare al livello di chabad di Atzilut – l’intelletto divino. Così, al livello di atzilut, D-o può essere definito con le parole di Maimonide come “il conoscente, la conoscenza e il conosciuto”. Ma non al di là di Atzilut. Al di là di Atzilut, è impossibile definire D-o poiché è inconoscibile. Di conseguenza, per i saggi della kabbala, 53 l’opinione di Maimonide verte solo sulla luce divina “giunta” al livello di Atzilut. Come è spiegato altrove, D-o benedetto Egli sia, è infinitamente più elevato, e trascende l’essenza e il livello di chabad. In realtà, il livello di chabad è considerato rispetto a Lui come essendo sullo stesso piano d’inferiorità dell’azione fisica, così come è detto:”Tu le hai fatte tutte con saggezza”. Il verbo “concepire” sembrerebbe essere più appropriato al contesto piuttosto che il verbo “fare”, poiché la funzione della saggezza divina è di concepire, e non di fare. Avrebbe dovuto essere quindi scritto:”Tu le hai concepite con saggezza”. Tuttavia, l’utilizzo del verbo “fare” denota che la saggezza è, nei suoi confronti, assimilata al livello dell’azione fisica. Rabbi Shneur Zalman affronterà adesso una difficoltà sollevata da ciò che ha illustrato prima, ossia che ogni anima ebraica proviene dalla saggezza divina (chiamata nel testo chochma ilaa, la saggezza superiore). Infatti le anime, che provengono tutte da una stessa fonte, dovrebbero avere tutte, di conseguenza lo stesso livello. Allora come si creano delle differenze tra le anime ebraiche? Ovviamente esistono miriadi di tipi di gradazione di anime (neshamot), un livello sopra l’altro, all’infinito. Ad esempio le anime dei patriarchi e di Moshe il nostro maestro sono molto superiori alle anime delle nostre 54 generazioni, (che appartengono al) periodo che precede la venuta (letteralmente periodo dei “talloni”, ossia dei passi) del Mashiach, le quali sono designate così poiché sono veramente simili ai talloni rispetto al cervello e alla testa. Così come la forza vitale presente nel tallone non può essere paragonata a quella che si trova nella testa e nel cervello, allo stesso modo, nessun paragone può essere fatto tra le anime delle presenti generazioni e quelle delle generazioni di un tempo. E la stessa differenza si constata ugualmente in ogni generazione: ci sono (coloro che sono) le “teste (le guide) delle migliaia d’Israel”, chiamati così poiché le loro anime sono del rango della “testa” e del “cervello” rispetto a quelle della massa e degli ignoranti. Allo stesso modo, queste distinzioni esistono tra nefashot e nefashot il livello d’anima di nefesh, poiché ogni anima è composta di nefesh, ruach e neshama. Così come il livello d’anima di neshama varia da un ebreo all’altro, allo stesso modo i livelli di ruach e di nefesh. Le differenze tra le anime sono quindi molto marcate. Potremmo di conseguenza aspettarci di ritrovare la stessa diversità alla loro fonte. Tuttavia, la fonte di tutti i nefesh, ruach e neshama dal più alto al più basso livello, quello delle anime rivestite dal corpo degli ignoranti e dei leggeri fra i leggeri, 55 deriva, se così si può dire, dal cervello superiore, che è chochma ilaa (la saggezza superiore). Per esplicitare il processo che realizza una tale pluralità fra le anime nonostante la loro fonte comune, rabbi Shneur Zalman ritorna adesso all’analogia del padre e del figlio (di cui si è servito precedentemente per illustrare la descrizione degli ebrei come “i figli di D-o” generati da chochma ilaa – il “cervello” di D-o, se ci si può esprimere così). Troveremo qui un breve cenno di questa spiegazione. La totalità del corpo del bambino ha come origine una goccia di seme la cui fonte si trova al livello del cervello del padre. Tuttavia, le numerose parti fisiche che costituiscono il corpo del bambino non sono uniformi. Sono al contrario molto differenziate, il cervello essendo la parte più elevata e le unghie dei piedi quella più inferiore. Queste considerevoli differenze si creano grazie alla presenza della goccia nella pancia della madre, durante i nove mesi della gravidanza. E’ questa fase di sviluppo fisico che produce la differenziazione dei membri: più un aspetto particolare della goccia originale si materializza, più diverge dal suo stato iniziale per diventare un’entità a tutti gli effetti, con le sue proprie caratteristiche fisiche. Dunque, nonostante tutti i membri derivino da una fonte comune, si creano delle differenze radicali fra loro durante il loro sviluppo. 56 Un’altra idea può essere dedotta da questa analogia: nonostante le unghie siano la parte più insignificante del corpo del bambino, rimangono attaccate e unite alla loro fonte, il cervello del padre. Infatti, le unghie ricevono, anch’esse, come le altre parti del corpo del bambino, il loro flusso e la loro vitalità dal suo cervello. E dato che il cervello del bambino conserva l’essenza della sua fonte (il cervello del padre), e rimane costantemente legato ad essa, le unghie di questo bambino anch’esse rimangono legate alla loro fonte per mezzo del suo cervello. Lo stesso vale per le anime che, tutte quante, derivano dalla stessa fonte, Chochma Ilaa: la Saggezza superiore. Tuttavia, l’anima deve prima attraversare una moltitudine di mondi e di livelli per rivestirsi di un corpo fisico. E’ questa discesa, che è alla fonte delle modifiche che si operano per quanto riguarda il livello dell’anima così come della differenza fra le anime. Il secondo aspetto di questa analogia si applica anch’esso. Nonostante un’anima possa subire una discesa fino al livello più basso, tuttavia rimane unita alla sua fonte in Chochma Ilaa. Nell’analogia sviluppata, le unghie del bambino, attraverso il loro legame con il suo cervello, rimangono legate al cervello del padre. Allo stesso modo, le anime di un livello spirituale inferiore sono ugualmente legate alla loro fonte al livello di Chochma Ilaa attraverso il loro attaccamento con le anime dei Tzaddikim e dei Saggi della loro generazione da cui ricevono la loro vita spirituale. Infatti, le anime di un alto livello 57 spirituale (che corrispondono nei termini dell’analogia al cervello del bambino) mantengono, persino in questo mondo fisico, il livello spirituale della loro fonte, il livello della “testa” e del “cervello”; è quindi per mezzo di queste anime elevate che le anime di un livello inferiore rimangono attaccate ed unite con la loro fonte divina. Per utilizzare una metafora, (l’anima è) simile al figlio che procede dal cervello di suo padre: persino le unghie dei suoi piedi esistono grazie alla goccia di seme uscita dal cervello paterno. In che modo le unghie sono create a partire da questa goccia? Per il fatto che ha dimorato nove mesi nel ventre di sua madre, scendendo di grado in grado, cambiando fino a che ( persino) le unghie esistono grazie ad essa. Nonostante gli organi del bambino derivano tutti quanti dalla stessa fonte, si sviluppano in entità estremamente diverse come il cervello e le unghie. Inoltre, nonostante la goccia si sia sviluppata per diventare la sostanza delle unghie del bambino, tuttavia, è ancora attaccata ed unita in una meravigliosa e potente unità al suo essere ed essenza originario, la goccia di seme uscita dal cervello del padre. E anche adesso, nel figlio, le unghie ricevono cibo e vita dal cervello, le unghie del bambino ricevono la loro votalità dal suo cervello, il quale conserva la stessa sostanza della sua fonte, il cervello del padre. Dunque, le unghie 58 del bambino sono legate, per mezzo del suo cervello, al cervello del padre. Rabbi shneur Zalman adesso porterà la prova a partire dai testi dei nostri Saggi: così come è scritto nel Talmud (trattato Niddà 31 A):” dal bianco della goccia di seme del padre sono formate le vene, le ossa e le unghie del bambino”. Anche secondo la Kabbala, esiste una relazione tra le unghie e il cervello: (nell’Etz Chaim, Shaar Hachashmal, è ugualmente insegnato a proposito del concetto esoterico dei vestiti di Adamo, nel giardino dell’Eden, che questi (i vestiti) erano delle unghie (derivate) dalla facoltà cognitiva del cervello). Lo stesso vale, se così si può dire, per quanto riguarda la fonte di ogni nefesh, ruach e neshama della comunità d’Israele in alto. Una metamorfosi si opera nell’anima attraverso un processo di sviluppo simile alla gestazione che trasforma la goccia di seme. Tuttavia, nel caso dell’anima, questa trasformazione consiste in una discesa di mondo in mondo e di livello in livello all’interno di ogni mondo. I dettagli di questa discesa saranno quindi descritti. 59 L’anima attraversa, nella sua discesa da Chochma Ilaa (la Saggezza Superiore) verso il corpo umano, quattro mondi spirituali. Questi “mondi” nel processo di creazione sono (in ordine): Atzilut (il mondo di emanazione), Bria (il mondo di creazione), yetzirà (il mondo di formazione) e Assia (il mondo d’azione) (il loro acronimo è ABYA). La funzione e il significato di questi mondi saranno spiegati in dettaglio nel seguito del tanya; una breve presentazione è sufficiente, in attesa, per capire questo passaggio. Atzilut (emanazione) è il mondo nel quale, dalla luce dell’Ein Sof, proviene un raggio. E’ dunque il Divino stesso trasposto (se così ci si può esprimere) ad un livello inferiore ( e questo per mezzo del tzimtzum). Per questa ragione, Atzilut resta ancora unito alla sua fonte, la luce dell’Ein Sof. Queste due caratteristiche di atzilut si riflettono nel suo nome. La parola Atzilut è legata etimologicamente a due radici: (a) il verbo “atzal”, che significa staccare, slegare, come nel verso (Bamidbar 11, 17):” Io (D-o) staccherò (una parte) dello spirito che è su di te (Moshè) e lo porrò su di essi (i settanta Anziani)”. Questo verso stabilisce che lo spirito profetico di cui erano dotati i settanta Anziani era solo un’estensione dello spirito di Moshè, e non un elemento nuovo. Allo stesso modo, Atzilut è un’es- 60 tensione, su un piano inferiore, della luce dell’Ein Sof. (b) Atzilut ha la stessa radice di “etzel”, che significa vicino: si intende qui, l’unità di atzilut con la sua fonte. Il mondo di brià (creazione), come il suo nome lo indica, è una creazione, e non più il Divino stesso. E’ la prima creazione in quanto yesh meain ossia ex nihilo, dal nulla: dall’”ain” (“il nulla”) viene un “iesh”, uno stato di esistenza. Tuttavia Brià rappresenta ancora solo uno stato della creazione che non può ancora essere qualificato pienamente come “esistenza”. Yetzirà (formazione) è il mondo in cui ciò che è creato dall’ “ain” riceve una struttura ed una forma. Il mondo di Assia fa riferimento alla creazione nel pieno senso del termine. Tuttavia questa creazione rimane solo a livello spirituale, e il mondo finale della creazione (l’”assia” fisico), che comprende questo mondo materiale e tutte le sue creature, viene ad esistere solo dopo vari processi. Questi mondi formano insieme il seder hishtalshelut, “l’ordine di incatenamento dei mondi”, chiamato così ad immagine di una catena nella quale l’ultimo anello è attaccato al primo per mezzo degli altri anelli incatenati. Allo stesso modo, nel seder hishtalshelut, l’ultimo livello di Assià è legato al più alto livello in atzilut, essendo tutti gli altri livelli intermedi incatenati l’uno con l’altro. 61 Durante la sua discesa a partire da Chochma Ilaa (la Saggezza Superiore, il livello più alto in atzilut), l’anima attraversa l’insieme del seder hishtalshelut e, come già è stato spiegato, questa discesa è all’origine della differenza fra le anime. Dopo queste indicazioni, possiamo riprendere lo stduio del testo: con la discesa (dell’anima) di livello in livello attraverso l’incatenamento dei mondi di Atzilut, brià, Yetzirà e assià della Sua Saggezza, benedetto egli sia, così come è detto.”Li hai fatti tutti con saggezza (chochmà)” (tutto proviene da chochmà, che è la fonte dell’insieme del seder hishtalshelut), (grazie a questa discesa) i nefesh, ruach e neshama degli ignoranti e degli uomini di statura spirituale inferiore vengono all’esistenza. Dunque, il livello spirituale di ogni anima è funzione dell’effetto che ha avuto su di essa la discesa attraverso il seder hishtalshelut. Rabbi Shneur Zalman spiegherà adesso il secondo aspetto dell’analogia. Così come nella metafora del bambino, le unghie rimangono attaccate alla loro fonte primaria (il cervello del padre) essendo continuamente nutrite dal proprio cervello, allo stesso modo per l’anima. Tuttavia, nonostante siano diventate delle anime di statura spirituale inferiore, le anime degli ignoranti rimangono attaccate ed unite in una meravigliosa e potente 62 unità con la loro essenza originale, che è un’estensione di Chochmà Ilaa (la Saggezza superiore, poiché il cibo e’ la vita dei nefesh, ruach e neshama degli tzaddikim e dei saggi, le “teste” d’Israele nella loro generazione. Ricevendo il loro cibo e la loro vita da coloro che simboleggiamo i livelli della testa e del cervello, tutti gli ebrei sono attaccati alla loro fonte nella Chochmà Ilaa, la Saggezza Superiore. Questo permetterà di capire il commento dei nostri Saggi sul verso:” e per attaccarsi a Lui”, una domanda si pone: in che modo ci si può attaccare a D-o? come risposta i nostri Saggi dicono che “colui che è attaccato ad un erudito (della Torah) è considerato dalla Torah come attaccato alla Shechinà (la Presenza divina)”. Questa affermazione sembra difficile da capire; in che modo il legame con un erudito della Torah può essere assimilato all’attaccamento alla Shechinà? Ciò che è stato appena detto permette di rispondere a questa domanda. Poiché attraverso l’attaccamento agli eruditi, i nefesh, ruach e neshama degli ignoranti sono attaccati ed uniti alla loro essenza originaria e la loro fonte nella Saggezza Superiore, (e così persino con D-o stesso poiché) Egli e la Sua Saggezza sono uno, ed “E’ la Conoscenza….” 63 (In quanto a coloro che peccano e si ribellano contro i Saggi, in che modo ricevono la loro vita e il loro cibo spirituali? La vita e il cibo spirituali possono arrivare solo a quelli che il donatore desidera vivificare e nutrire. Per rispondere a questa domanda, rabbi Shneur Zalman prosegue: il cibo del loro nefesh, ruach e neshama proviene dall’ ”aspetto dietro” (dalla dimensione più esterna) dei nefesh, ruach e neshama degli eruditi.) questa nozione può essere raffigurata dall’immagine di un uomo che dà un oggetto al suo nemico per necessità, in assenza di conseguenza di un vero e proprio desiderio di compiere questo gesto. Il disgusto con il quale dà, appare nella forma del dono: gira la schiena, getta l’oggetto da sopra le spalle. Allo stesso modo,la vita spirituale data contro cuore viene descritta comme data “da dietro”, proveniente da un livello superficiale del donatore. Dunque, persino coloro che si ribellano contro i Saggi ricevono da loro un certo livello di vitalità, poiché ogni anima, senza alcuna eccezione, deve essere attaccata alla sua fonte e alla sua radice, come è già stato spiegato. Tuttavia, il grado di vita che ricevono viene solo dal “piano esterno” delle anime dei saggi. Dopo aver concluso che ogni ebreo possiede un’anima santa che emana “dall’alto” (dalla Saggezza Superiore), e 64 che persino la qualità (il rango o livello) di ogni anima particolare dipende solo dai fattori “dall’alto”, ossia dai fattori spirituali come la discesa dell’anima attraverso il seder hishtalshelut, Rabbi Shneur Zalman vuole sottolineare ancora quest’idea mostrando che nessuna azione di questo mondo fisico può alterare la sua qualità e il suo rango. Lo farà spiegando un insegnamento del Zohar che, ad una prima lettura, sembra contraddirla. In quanto a ciò che è scritto nel Zohar e nel Zohar Chadash, ossia che il fattore principale è il comportamento santo durante il concepimento, ciò che non è il caso dei figli degli ignoranti (e i loro simili), il Zohar spiega che gli ignoranti attirano per loro figlio un’anima di un livello inferiore. Ciò sembra indicare che un’azione prodotta in questo mondo eserciterebbe un’influenza rispetto al rango dell’anima. Rabbi Shneur Zalman spiegherà che questa concezione è erronea, poiché il Zohar non si riferisce all’anima stessa, ma semplicemente al suo “vestito” spirituale. La ragione è che non esiste nefesh, ruach e neshama sprovvisti di un vestito generato dal nefesh dell’essenza del padre e della madre. Tutti i comandamenti che un uomo compie, lo sono per mezzo di questo vestito, è per mezzo di questo vestito che l’anima acquisisce la capacità di muovere il corpo e di compiere i comandamenti che riguardano il mondo materiale; persino il flusso che gli viene accre- 65 ditato dai cieli avviene per mezzo di questo vestito. Poiché l’anima è potentemente legata a questo vestito, lo Zohar vi fa riferimento, in questo contesto, come “ all’anima” stessa. Quando un uomo si santifica, attira un vestito santo per l’anima di suo figlio e gli permette così di servire D-o più agiatamente. E persino se è un’anima elevata, ha bisogno della santificazione del padre nel momento del concepimento per ricevere un vestito santo. Ma l’anima stessa, per opposizione al suo vestito, non è influenzata dalla santificazione dei suoi genitori; quindi, a volte, l’anima di un uomo di altissima elevazione scende per essere il figlio di un uomo di bassissimo livello… Tutto ciò è spiegato dall’Ari zal, nel Likutei torah, sezione Vayerà e nel Taamei Hamitzvot sezione Bereshit. Dunque, il mondo fisico, i genitori stessi, non possono in alcun modo alterare la statura spirituale dell’anima. Persino l’insegnamento del Zohar, secondo il quale il rango di un’anima sarebbe principalmente determinato da un comportamento santo durante il concepimento del figlio, fa riferimento solo al “vestito” dell’anima. L’anima stessa emana “dall’alto”.