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RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA LA TRUFFA ASSICURATIVA CASS. PEN. SEZ. II, 17-12-2013, N. 1856 (RV. 258012) LA MASSIMA L'art. 642 cod. pen., strutturato come una norma penale mista del tutto peculiare, prevede nei suoi commi primo e secondo cinque diverse fattispecie di reato - in particolare, il danneggiamento dei beni assicurati e la falsificazione o alterazione della polizza, nel comma primo; la mutilazione fraudolenta della propria persona, la denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o alterazione della documentazione relativi al sinistro, nel comma secondo - che, ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere fra loro. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il concorso di reati nel caso di fraudolenta distruzione della cosa propria e di fraudolenta esagerazione del danno). (Annulla in parte con rinvio, App. Trani, 21/10/2009) REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CASUCCI Giuliano - Presidente Dott. DE CRESCIENZO Ugo - Consigliere Dott. DAVIGO Piercamill - Consigliere Dott. RAGO Geppi - rel. Consigliere Dott. VERGA Giovanna - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: UNIPOL ASS.NI S.P.A.; avverso la sentenza del 26/04/2012 pronunciata dalla Corte di Appello di Bari nei confronti di: S.L. nata il (OMISSIS); Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago; udito il Procuratore Generale in persona della dott.ssa Maria Giuseppina Fodaroni che ha concluso per l'annullamento con rinvio; uditi i difensori avv.ti Merlini Maurizio (per la parte civile ricorrente) che ha concluso per l'accoglimento del ricorso e l'avv.to Stefano Dardes che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo 1. Con sentenza del 26/04/2012, la Corte di Appello di Bari, in riforma della sentenza pronunciata in data 21/10/2009 dal giudice monocratico del Tribunale di Trani, assolveva, ex art. 530 cod. proc. pen., comma 2 S.L. dal reato di cui all'art. 642 cod. pen. (capo sub A: "perchè, al fine di conseguire l'indennizzo relativo alla polizza assicurativa contratta tra la Newline Textile di S.L. e la Unipol Ass.ni spa, distruggeva mediante incendio parte del materiale presente presso il capannone della suindicata ditta, nonchè parte degli infissi e delle strutture murarie") - in esso assorbito il reato di tentata truffa (capo sub B: "perchè con artifici e raggiri costituiti dall'indicare nella denuncia di incendio e nella "situazione merci danneggiate" presentate alla Unipol, danni superiori a quelli effettivamente prodotti dall'incendio verificatosi il (OMISSIS) presso il capannone della Newline-Textile, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore la Unipol al fine di procurarsi un ingiusto vantaggio ai danni della compagnia di assicurazioni") - perchè il fatto non sussiste. Il giudice di primo grado aveva ritenuto la colpevolezza dell'imputata sulla base di tre elementi indiziari: a) la presenza di tracce di benzina nei reperti esaminati: il suddetto accertamento si era fondato sulle ct. degli ing. V. e C. incaricati dalla Unipol; b) il fatto che non si fosse verificato alcun cortocircuito riguardante l'impianto elettrico; c) la mancanza di segni di effrazione sui serramenti esterni di accesso al capannone. La Corte di Appello, invece, assolse l'imputata sostenendo che: - le C.t. non potevano essere ritenute attendibili sia perchè di parte, sia perchè avevano presentato conclusioni perplesse; - insufficiente appariva anche l'ulteriore elemento della mancanza di segni di effrazione in quanto gli inquirenti avevano "omesso di verifica re chi, oltre alla S., fosse in possesso delle chiavi di accesso all'opificio e quindi potesse entrarvi liberamente") - il primo giudice aveva ingiustamente svalutato le deposizioni dei testi Va., Ca. e D.T. - che avevano dichiarato di aver visto prima dell'incendio nel magazzino tessuti pregiati - sulla base di una apodittica affermazione secondo la quale "il tessuto di più elevato valore commerciale ... sia stato riposto altrove la sera dell'incendio per evitare che venisse danneggiato dalle fiamme"; - infine, il reato di cui agli artt. 56 e 640 cod. pen., costituendo un'ipotesi criminosa speciale rispetto a quello di cui all'art. 642 cod. pen., doveva in questo ritenersi assorbito. 2. Avverso la suddetta sentenza, la Unipol Ass.ni spa, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione ai soli effetti della responsabilità civile dell'imputata, deducendo i seguenti motivi: 2.1. violazione degli artt. 15, 640 e 642 cod. pen.: la ricorrente, pur condividendo l'affermazione della natura speciale del reato di cui all'art. 642 cod. pen. rispetto a quello di cui all'art. 640 cod. pen., sostiene che, nel caso di specie, la Corte avrebbe omesso "di considerare la diversità dei fatti e delle condotte oggetto di contestazione nei distinti capi d'imputazione, ciascuno dei quali idoneo ad integrare diverse fattispecie di reato", con ciò, quindi, dovendosi ritenere un concorso di reati e non di norme. In realtà, la condotta contestata alla S. come tentata truffa, integrerebbe comunque la fattispecie autonoma di cui all'art. 642 cod. pen., comma 2 e, quindi, concorrente con quella già contestata di cui all'art. 642 cod. pen., comma 1 in quanto le condotte contestate all'imputate sono due ed autonome l'una dall'altra: a) la fraudolenta distruzione della cosa propria; b) la fraudolenta esagerazione del danno. La Corte, quindi, avrebbe dovuto procedere alla riqualificazione giuridica della fattispecie, ma non AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 1 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA dichiarare l'assorbimento del reato sub B) in quello sub A). 2.2. manifesta illogicità della motivazione: la ricorrente sostiene che l'affermazione di inattendibilità delle CTP effettuata dalla Corte territoriale, sarebbe apodittica in quanto priva di motivazione, tanto più che la Corte non aveva considerato che le attività di accertamento, fattuale e tecnico, svolte dai consulenti della parte civile, peraltro acquisite ex art. 493 c.p., comma 3 e art. 555 cod. proc. pen. con il consenso delle parti, furono compiute nella sede extraprocessuale della ed perizia assicurativa con la partecipazione e nel pieno contraddittorio del perito della S.. La ricorrente, poi, osserva che la Corte era pervenuta ad una sentenza di assoluzione sulla base di una valutazione non solo parcellizzata delle prove ma anche errata perchè contrastante con le risultanze probatorie. Infatti: a) non era vero che l'esito della Ct, in ordine al rilevamento di tracce di benzina, fosse perplesso, come poteva desumersi sia dalla lettura della Ct sia dalle dichiarazioni rese in dibattimento dal prof. V.; b) era pacifico, comunque, che l'incendio avesse avuto origine dolosa in quanto la stessa Corte non aveva confutato le conclusioni alle quali era giunto il Ct ing. C.; c) in modo contraddittorio ed illogico era stato superato l'indizio costituito dal fatto che non erano stati rinvenuti segni di effrazione sui serramenti di accesso al capannone; d) la Corte non aveva considerato come, a fronte di una richiesta di indennizzo pari ad Euro 467.551,84, il riscontro merceologico sui residui dell'incendio effettuato dal p.i. B. nell'ambito della perizia assicurativa nel contraddittorio con il perito della ditta assicurata, avesse accertato la sostanziale difformità tra la tipologia ed il valore della merce rappresentata dalla S. e quella invece effettivamente presente al momento dell'incendio ed andata distrutta in quanto non solo non era stata rinvenuta traccia della merce di pregio (Euro 115.545,00), ma quella presente era diversa e tale da non superare l'importo di Euro 61.100,00. E, tale omessa motivazione, risultava tanto più grave a fronte della motivazione addotta dal tribunale di Trani. 3. Con memoria depositata il 03/09/2013, la S., a mezzo del proprio difensore, ha confutato punto per punto il ricorso della Unipol spa, sostenendo ed illustrando le ragioni per le quali la sentenza appellata doveva ritenersi corretta con conseguente infondatezza del ricorso. Motivi della decisione 1. violazione degli artt. 15. 640 e 642 cod. pen.: la doglianza è fondata per le ragioni di seguito indicate. La costante giurisprudenza di questa Corte, come ha già rilevato la Corte territoriale, ritiene che "l'art. 642 cod. pen. - che punisce la fraudolenta distruzione della cosa propria - costituisce un'ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di truffa di cui all'art. 640 cod. pen.: nel primo, infatti, sono presenti tutti gli elementi della condotta caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento specializzante, il fine di tutela del patrimonio dell'assicuratore": Cass. 2506/2003 Rv. 227890; Cass. 4352/1997 Rv. 207438; Cass. 4828/1994 Rv. 201184. La ricorrente, pur non contestando il suddetto principio di diritto, ha obiettato che le condotte contestate all'imputata, in realtà, sono due ed autonome l'una dall'altra: a) la fraudolenta distruzione della cosa propria (art. 642 cod. pen., comma 1); b) la fraudolenta esagerazione del danno (art. 642 cod. pen., comma 2): quindi, più che dichiarare l'assorbimento del reato di tentata truffa in quello di cui all'art. 642 cod. pen., la Corte avrebbe dovuto procedere alla riqualificazione giuridica dei fatti e ritenere il concorso fra le due fattispecie di cui all'art. 642 cod. pen., commi 1 e 2. 1.1. L'art. 642 cod. pen. prevede cinque ipotesi delittuose: a) il danneggiamento dei beni assicurati: primo comma, nella parte in cui prevede "distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà"; b) la falsificazione od alterazione della polizza o della documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione: primo comma, seconda parte; c) la mutilazione fraudolenta della propria persona: secondo comma prima parte nella parte in cui prevede: "cagiona a sè stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da infortunio"; d) la denuncia di un sinistro non avvenuto: secondo comma nella parte in cui prevede "denuncia un sinistro non accaduto"; e) la falsificazione o alterazione della documentazione relativi al sinistro: comma 2, ultima parte nella parte in cui prevede: "distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro". Ora, all'imputata, nel capo sub a) è stata contestata la condotta del danneggiamento dei beni assicurati prevista nell'art. 642 c.p., comma 1, prima parte: "distruggeva mediante incendio parte del materiale presente presso il capannone della suindicata ditta, nonchè parte degli infissi e delle strutture murarie"; al capo sub b), le è stata, invece, contestata la condotta di aver denunciato "danni superiori a quelli effettivamente prodotti dall'incendio verificatosi il (OMISSIS) presso il capannone della Newline- Textile" in modo da indurre "in errore la Unipol al fine di procurarsi un ingiusto vantaggio ai danni della compagnia di assicurazioni". La seconda delle condotte contestate, come appare evidente, rientra nella quinta fattispecie prevista dall'art. 642 cod. pen. ed esattamente in quella con la quale il soggetto attivo "falsifica, altera documentazione relativi al sinistro". Il problema, quindi, che pone l'art. 642 cod. pen. è duplice: a) in che rapporti si pone con la truffa; b) se e in che misura le varie fattispecie previste nei due commi dell'art. 642 cod. pen. possano o no concorrere. 1.2. Quanto ai rapporti fra l'art. 642 cod. pen. e l'art. 640 c.p. (o artt. 56 e 640 cod. pen.), deve ribadirsi il tradizionale citato orientamento giurisprudenziale: fra le due norme vi è un rapporto di specialità, in quanto l'art. 642 cod. pen., a ben vedere, ha la stessa struttura dell'art. AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 2 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA 640 cod. pen., in cui, però, gli interessi tutelati (patrimonio dell'assicuratore: Cass. 12210/2007 Rv. 236132; Cass. 22906/2012 Rv. 252997), il soggetto attivo (per le ipotesi che presuppongono la stipula di un contratto e, quindi, la qualifica di soggetto assicurato), e l'elemento materiale dei raggiri e degli artifizi, sono costituiti da elementi speciali rispetto a quelli generici previsti per il reato di truffa. In particolare, le condotte previste dall'art. 642 cod. pen. vanno ritenute null'altro che particolari artifizi e raggiri previsti espressamente dal legislatore e che, quindi, caratterizzano e differenziano il suddetto reato da quello della truffa. 1.3. Il fatto, però, che fra il reato di truffa e quello di cui all'art. 642 cod. pen. vi sia un rapporto di specialità, non significa che fra le cinque ipotesi previste dall'art. 642 cod. pen. non vi possa essere concorso - materiale o formale ove l'agente ponga in essere una o più delle condotte criminose previste dalla suddetta norma. Sul punto, peraltro, è opportuno preliminarmente precisare se il concorso sia ammissibile solo fra le ipotesi previste nei commi 1 e 2 o anche fra le ipotesi previste all'interno di ciascun comma. La questione va risolta appurando quale sia la natura giuridica da riconoscere alla disposizione incriminatrice di cui all'art. 642 cod. pen che rappresenta un chiaro esempio di norma penale mista. Come è noto, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza di questa Corte distinguono, all'interno del più ampio genus denominato "norma penale mista", le cd. norme a più fattispecie (o norme miste alternative) dalle cd. disposizioni a più norme (o norme miste cumulative). Le norme a più fattispecie descrivono una pluralità di condotte fungibili, con le quali può essere integrata in via alternativa un'unica norma incriminatrice: in definitiva, il reato astrattamente previsto è uno solo, ma in concreto lo stesso può venire realizzato indifferentemente da una o più delle condotte tipizzate dalla norma, senza che la modalità di esecuzione - naturalisticamente unitaria o plurima - incida sul carattere, invariabilmente unitario, del reato posto in essere dal reo. Al contrario, le disposizioni a più norme contengono tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie legislativamente previste; ciò in quanto le diverse condotte, lungi dall'essere tra loro equipollenti ed alternative, non rappresentano semplicemente una diversa manifestazione modale della medesima fattispecie criminosa, bensì costituiscono differenti elementi materiali di altrettanti reati. La distinzione è foriera di rilevanti conseguenze applicative, giacchè, nel primo caso, l'eventuale realizzazione congiunta di più condotte lascia intatto il carattere unitario del reato; nel secondo caso, invece, la violazione di ciascuna fattispecie implica l'integrazione di altrettante ipotesi di reato, ognuna dotata di una autonoma rilevanza, determinando pertanto l'operatività della disciplina in materia di concorso di reati. 1.4. Tanto premesso, lo sguardo deve volgersi all'individuazione dei criteri discretivi, che consentano di discernere le ipotesi nelle quali si versi in una, anzichè nell'altra specie di norma penale mista. La tematica dell'unità o pluralità di reati è stata affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo ad altre norme incriminatrici presenti nel codice penale o in leggi speciali, le quali, al pari dell'art. 642 cod. pen., sono (o erano) costruite mediante l'inserimento, in un unico articolo, di una molteplicità di condotte materiali. Si pensi, anzitutto, a quel costante orientamento giurisprudenziale, in base al quale "l'art. 216, n. 1, L. Fall. è una norma a più fattispecie, in quanto le condotte da essa previste sono ad un tempo plurime, alternative, equipollenti e tra loro fungibili, sicchè quando ci si riferisce ad una pluralità di "fatti" non si richiede la contestuale presenza di più fattispecie diverse descritte negli artt. 216 e 217 ma la reiterazione della condotta, comunque sussumibile in entrambe o in ciascuna delle due ipotesi, con la conseguenza che anche fatti dello stesso tipo, e riferibili alla stessa ipotesi di bancarotta, sono sufficienti ai fini dell'applicazione di quella circostanza aggravante": ex plurimis Cass. 8327/1998 rv 211367; SSUU 21039/2011 Rv. 249667. Principi di analogo tenore sono stati altresì enunciati, in materia di stupefacenti, in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 il quale, secondo un indirizzo consolidato e ribadito anche in tempi recenti (Cass. 9477/2009 Rv. 246404; Cass. 36523/2008 Rv. 242014; Cass. 22588/2005, Rv. 232094; Cass. 230/2000 Rv. 215175) "costituisce norma a più fattispecie tra loro alternative. Con la duplice conseguenza: da un lato, della configurabilità del reato allorchè il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste; e, dall'altro, per quanto qui interessa, dell'esclusione del concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative, nel qual caso le condotte illecite minori perdono la loro individualità e vengono assorbite nell'ipotesi più grave". Sul punto, si è peraltro precisato che, affinchè le condotte illecite minori perdano la loro individualità e vengano assorbite nell'ipotesi più grave, occorre che si verifichino le seguenti circostanze: a) che si tratti dello stesso oggetto materiale; b) che le attività illecite minori siano compiute dallo stesso soggetto che ha commesso quelle maggiori o dagli stessi soggetti che ne rispondono a titolo di concorso; c) che le condotte siano contestuali e cioè si verifichi il susseguirsi di vari atti, sorretti da un unico fine, senza apprezzabili soluzioni di continuità. Qualora, invece, le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico, esse costituiscono più violazioni della stessa disposizione di legge e quindi distinti reati; unificabili eventualmente per la continuazione, se commessi dallo stesso soggetto o dagli stessi soggetti in concorso, in presenza del disegno criminoso unitario: Cass. 230/1999 RV 215175; Cass. 25276/2002 Rv. 222013; Cass. 22588/2005 Rv. 232094; Cass. 9477/2009 Rv. 246404; Cass. 8163/2009 Rv. 246211. Sulla problematica in esame sono, poi, intervenute anche le SSUU le quali, con la sentenza n 22902/2001, Tiezzi, rv 218871, in relazione all'ormai abrogato art. 12 del D.L. n. 143 del 1991 conv. in L. n. 197 del 1991, nella dichiarata consapevolezza della difficoltà di rinvenire criteri univoci di risoluzione del problema, ritennero di impostarlo "essenzialmente alla stregua di una corretta interpretazione letterale e logica" della disposizione, AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 3 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA puntualizzando che "in linea di massima si può ritenere valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle varie condotte ipotizzate, configuranti uno o più reati a seconda che costituiscano ontologicamente diverse manifestazioni esteriori di una sola situazione di fatto rivestente lo stesso disvalore sociale, ovvero rappresentino situazioni strutturalmente fenomenicamente e cronologicamente distinte anche in relazione alle offese arrecate". L'esame della suddetta giurisprudenza, consente, quindi, di concludere che il riconoscimento della natura di norma a più fattispecie viene rimesso al riscontro cumulativo di un'identità oggettiva (devono avere uno stesso oggetto materiale), soggettiva (devono essere compiute dallo stesso soggetto), cronologica (devono essere contestuali) e psicologico-funzionale (devono essere indirizzate verso un unico fine) tra le diverse condotte penalmente sanzionate. Soltanto ove la verifica abbia esito positivo è possibile affermare che ci si trova al cospetto di un unico titolo di reato, cosicchè il reo, anche laddove abbia commesso plurime violazioni della medesima norma, sarà chiamato a rispondere di un solo illecito, sebbene integrato sotto l'aspetto materiale da una pluralità di condotte. Al di fuori del perimetro così delineato, ciascuna violazione della disposizione incriminatrice si tradurrà, al contrario, in altrettanti reati quante siano state le condotte effettivamente realizzate dall'agente. 1.5. Ciò chiarito, può affermarsi che l'art. 642 cod. pen. si configura quale norma penale mista del tutto peculiare, giacchè accorpa in sè sia la qualifica di disposizione a più norme (nel rapporto tra le condotte previste nei commi 1 e 2) sia quella di norma a più fattispecie (in riferimento alle condotte previste all'interno di ciascun comma). Come precisato dalle SSUU cit., l'esegesi del dettato normativo deve condursi alla stregua degli ordinari canoni ermeneutici, affidandosi cioè a quei criteri che orientano la comune attività d'interpretazione. A completamento di questo primo momento d'indagine, segue, poi, la necessaria verifica in ordine alla sussistenza dei predetti presupposti fattuali di affinità tra le diverse condotte tipiche in concreto realizzate, alla cui ricorrenza soltanto è subordinato l'effettivo riconoscimento della natura di norma a più fattispecie nonchè la valutazione normativa delle stesse in guisa di azione unitaria. Nessuna indicazione può, invero, trarsi dal profilo sanzionatorio, il quale, essendo prevista la stessa pena sia nel primo che nel comma 1, risulta nella specie del tutto neutro ai fini che ci occupano. Neppure la previsione formale di un'aggravante solo nel comma 2 si rivela decisiva, trattandosi di una mera imprecisione di tecnica legislativa, che deve ragionevolmente essere corretta in sede ermeneutica mediante la riferibilità della stessa a tutte le ipotesi ex art. 642 cod. pen. (cfr. Cass., 13 novembre 2003, n. 2506, Rv. 227891). Quanto alla relazione che intercorre tra i due commi, deve escludersi un rapporto di alternatività formale tra le condotte tipizzate nel primo e nel secondo comma, rappresentando piuttosto fattispecie di reato differenti e dotate di autonoma rilevanza penale. Indice sintomatico della infungibilità delle diverse ipotesi criminose appare, in primis, la netta separazione delle stesse in due commi distinti; collocazione che, pur non potendo assurgere ad elemento in sè solo decisivo, evidenzia in modo plastico una diversità ontologica tra le varie condotte sanzionate. Segnatamente, da un raffronto strutturale delle cinque differenti ipotesi delittuose emergono, infatti, tre gruppi di condotte, distinti già dal punto di vista fenomenico: uno, comprensivo di comportamenti che si sostanziano in atti violenti su cose o persone (ipotesi sub a e c); un altro, concernente fatti di falso materiale (ipotesi sub b ed e); ed infine, un ultimo, che include esclusivamente una condotta di falso ideologico (ipotesi sub d). Ora, ciascun comma dell'art. 642 cod. pen. incrimina, con una corrispondenza quasi perfetta, una soltanto delle condotte - fenomenologicamente distinte - incluse in ognuno dei suddetti gruppi: in particolare, il comma 1 punisce le ipotesi sub a) e b), mentre il comma 2 quelle sub c), d), e). Se ne desume che la collocazione dei vari comportamenti è il frutto di una meditata scelta legislativa, come a voler distribuire, in due autonomi titoli di reato, ipotesi criminose eterogenee, da tener anche prima facie separate in diversi commi. Il che trova conferma nella intitolazione della norma in questione, peraltro rimasta significativamente invariata a seguito della riforma apportata con la L. n. 273 del 2002, la quale ha affiancato alle tradizionali ipotesi sub a) c) le altre attualmente sanzionate; difatti, già la locuzione "e" contenuta nella rubrica ("Fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutuazione fraudolenta della propria persona") certifica la voluntas legis, ribadita in occasione della novella, di prevedere due differenti fattispecie delittuose, e non un unico titolo di reato (presumibilmente, la "frode assicurativa") alternativamente realizzabile da una qualsiasi delle cinque condotte tipiche. Ad ulteriore sostegno, si osservi che le diverse ipotesi comprese in ciascun comma divergono altresì sia sotto l'aspetto oggettivo, sia per disvalore sociale. A ben vedere, infatti, nell'ambito del secondo gruppo diverso è l'oggetto su cui cade il fatto di falsità materiale: nell'ipotesi sub b) "una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione", mentre nell'ipotesi sub c) "elementi di prova o documentazione relativi al sinistro". Inoltre, che il terzo gruppo di condotte sia costituito da un fatto di falsità ideologica previsto unicamente nel comma 2 è coerente con la sistemazione delle varie fattispecie operata dalla riforma del 2002, la quale, ha accentrato le tre ipotesi delittuose di cui al comma 2 sul comune presupposto di un sinistro, reale o solo falsamente denunciato. Ma la differenza tra le varie ipotesi si coglie maggiormente all'interno del primo gruppo. Benchè tutte le ipotesi delittuose ivi previste siano dirette a protezione dell'unico bene giuridico del patrimonio dell'ente assicurativo, è evidente che gli atti di danneggiamento dei beni assicurati e gli atti violenti sulla persona del danneggiato esprimano un grado di riprovazione diverso, più o meno intenso a seconda AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 4 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA dell'oggetto materiale su cui incide la condotta fraudolenta, sicchè la collocazione in due commi distinti pare tesa proprio a valorizzare tale distanza (dis)valoriale. Coniugando, quindi, il suddetto profilo oggettivo con quello teleologia?, è del tutto comprensibile e logico che fatti aventi oggetti materiali diversi, oltre che connotati da una carica di disvalore sociale variabile, siano stati collocati in due distinti commi, proprio a valorizzarne la distanza anche in termini di intensità lesiva; con la coerente conseguenza che, allorquando siano state realizzate più condotte tipiche previste dai due commi, devono ritenersi integrati illeciti autonomi, la cui individualità non può certo essere assorbita in presenza di situazioni ontologicamente ed oggettivamente eterogenee, anche in relazione alle offese arrecate. Detta ricostruzione non è stata scalfita neppure dalla novella del 2002, la quale, nell'introdurre un ampliamento delle condotte punibili in ambedue i commi, ha soltanto reso più complessa la struttura dell'art. 642 cod. pen., attribuendo a ciascun comma la natura di norma a più fattispecie. L'introduzione di ulteriori condotte punibili assume rilievo per la soluzione non tanto del problema del rapporto tra le condotte previste nei commi 1 e 2, quanto del separato problema del rapporto tra le condotte tipiche di ciascun comma. Vigente la versione originaria risalente al Co.Ro., le uniche due condotte ivi sanzionate si ponevano in relazione di alterità formale, con la conseguenza che, essendo infungibili a causa della differente carica di disvalore sociale connessa alla diversità del loro oggetto materiale, l'art. 642 cod. pen. costituiva unicamente una disposizione a più norme. Come sopra chiarito, tale qualificazione va confermata anche in seguito alla riforma normativa, con la puntualizzazione che l'alternatività formale, che prima concerneva solo le ipotesi di danneggiamento dei beni assicurati e di mutilazione della propria persona, va oggi estesa al rapporto tra le nuove ipotesi contemplate rispettivamente nel primo e nel secondo comma, in ragione della difformità oggettiva che caratterizza le stesse. In riferimento alla seconda problematica (rapporto tra le condotte tipiche di ciascun comma), giova rilevare che il legislatore della riforma, pur potendo modificare l'impianto normativo dell'art. 642 cod. pen., ha ritenuto di confermare la separazione delle fattispecie in commi distinti. La scelta legislativa, evidentemente, è stata ispirata da un intento preciso: quello, cioè, di accorpare ipotesi omogenee, da un lato, e di tenere separate ipotesi eterogenee, dall'altro. Nella ricerca dei tratti comuni alle varie fattispecie soccorre il comma 2, il quale contiene un ventaglio di condotte affini quanto al loro presupposto fattuale, atteso che tutte postulano l'esistenza, reale o falsamente denunciata, di un sinistro. Sinistro che, invece, non è richiesto per la realizzazione delle fattispecie di cui al comma 1, posto che esse o prescindono da un siffatto evento oppure si pongono in epoca cronologicamente anteriore allo stesso. Che, poi, l'evento lesivo sia realmente avvenuto, sia stato oggetto di una falsa denuncia ovvero, pur essendosi verificato, le conseguenze siano state meno gravi di quelle artatamente aggravate o gli elementi probatori o documentali dello stesso siano stati fraudolentemente distrutti, alterati o precostituiti, non riveste alcun rilievo; ciò che conta, e che rende le condotte truffaldine del comma 2 espressione di una situazione identica dal punto di vista ontologico, fenomenico e cronologico, è che i comportamenti fraudolenti siano tutti successivi ad un sinistro, sia o no questo realmente accaduto. Di conseguenza, le condotte ivi previste rappresentano ontologicamente diverse modalità di esecuzione alternative di un medesimo illecito, e la violazione di due o più di esse non da luogo ad una pluralità di reati in concorso - ed eventualmente in continuazione - tra loro, bensì ad un unico titolo di reato: si può, quindi affermare che i due commi dell'art. 642 cod. pen. costituiscono, ciascuno, una norma a più fattispecie. Applicando i suddetti principi alla concreta fattispecie in esame, deve allora concludersi che la condotta contestata all'imputata al capo sub b) integra, in realtà, l'ipotesi criminosa di cui all'art. 642 cod. pen., comma 2 che concorre con quella contestata al capo sub a). Pertanto, la sentenza impugnata dev'essere annullata alla stregua del seguente principio di diritto: "l'art. 642 cod. pen. si configura quale norma penale mista del tutto peculiare, giacchè accorpa in sè sia la qualifica di disposizione a più norme (nel rapporto tra le condotte previste nel primo e nel secondo comma) sia quella di norma a più fattispecie (in riferimento alle condotte previste all'interno di ciascun comma). Di conseguenza, poichè ciascun comma prevede ipotesi diverse di reato, ove ne ricorrano gli estremi fattuali, le medesime concorrono fra di loro" 2. manifesta illogicità della motivazione: fondata deve ritenersi, infine, anche la seconda censura dedotta dalla ricorrente. 2.1. Sul punto, in via preliminare, è opportuno rammentare due principi di diritto. Innanzitutto, quello secondo il quale "in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato": SSUU 33748/2005 Rv. 231679. In secondo luogo, in tema di valutazione della consulenza tecnica di parte, ex art. 233 cod. proc. pen., questa Corte di legittimità ha enunciato i seguenti principi: a) la consulenza di parte, che è atto delle indagini preliminari, assume funzione probatoria, assimilabile alla perizia, quando la stessa sia acquisita dal giudice con il consenso delle parti, ovvero, in caso di dissenso, si proceda all'audizione del consulente: Cass. 10918/1992 Rv. 192881; Cass. 7663/2004 Rv. 230824; Cass. 3986/2011 Rv. 251746; b) in tema di valutazione della prova, atteso il principio della libertà di convincimento del giudice e della insussistenza di un regime di prova legale, il presupposto AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 5 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA della decisione è costituito dalla motivazione che la giustifica. Ne consegue che il giudice può scegliere, tra le varie tesi prospettate dai periti e dai consulenti di parte, quella che maggiormente ritiene condivisibile, purchè illustri le ragioni della scelta operata (anche per rapporto alle altre prospettazioni che ha ritenuto di disattendere) in modo accurato attraverso un percorso logico congruo che il giudice di legittimità non può sindacare nel merito: Cass. 46359/2007 Rv. 239021. Alla stregua dei suddetti principi di diritto, non resta che verificare se la Corte territoriale ad essi si sia attenuta e, quindi, se le censure dedotte dalla ricorrente parte civile siano o no fondate. 2.2. Come si è già anticipato, la Corte ha totalmente riformato la sentenza di condanna di primo grado, assolvendo l'imputata, sebbene ex art. 530 cod. proc. pen., comma 2 con la formula "perchè il fatto non sussiste", ritenendo, in pratica che: - le C.t. non potevano essere ritenute attendibili sia perchè di parte, sia perchè avevano presentato conclusioni perplesse; - insufficiente appariva anche l'ulteriore elemento della mancanza di segni di effrazione in quanto gli inquirenti avevano "omesso di verificare chi, oltre alla S., fosse in possesso delle chiavi di accesso all'opificio e quindi potesse entrarvi liberamente"; - il primo giudice aveva ingiustamente svalutato le deposizioni dei testi Va., Ca. e D.T. - che avevano dichiarato di aver visto prima dell'incendio nel magazzino tessuti pregiati - sulla base di una apodittica affermazione secondo la quale "il tessuto di più elevato valore commerciale ... sia stato riposto altrove la sera dell'incendio per evitare che venisse danneggiato dalle fiamme". Ora, quanto alla valutazione delle C.T. - acquisite agli atti con il consenso di tutte le parti - e all'esame dei consulenti tecnici, avvenuto nel giudizio di primo grado, la motivazione addotta dalla Corte territoriale (pag. 6-7), per confutare l'esito delle medesime, va ritenuta perplessa e, sostanzialmente carente ed apodittica. Infatti, a fronte dell'amplissima motivazione addotta sul punto dal primo giudice, il quale, con argomenti tecnici - desunti dalle Consulenze tecniche degli ingg. V. e C. - aveva concluso che l'incendio aveva avuto sicuramente natura dolosa ed era stato appiccato con benzina per autotrazione (cfr pag. 3 ss della sentenza di primo grado), la Corte territoriale, da una parte, sembra non mettere in discussione la circostanza che l'incendio ebbe natura dolosa, ma, dall'altra, poi, in modo contraddittorio, ritiene che le Consulenze tecniche siano inattendibili, sostenendo, in modo pressochè apodittico, che le suddette Consulenze tecniche avevano addotto conclusioni "incerte, confuse e non appaganti", facendo leva, da una parte, su brani estrapolati dalla C.t. dell'ing. V. e, dall'altra, su una pretesa illegittimità delle modalità di prelevamento dei campioni esaminati, laddove, l'esatto contrario risulta dalla sentenza di primo grado nella quale, da una parte, si da atto della correttezza dei prelievi eseguiti e, dall'altra, si afferma che l'ing. V. aveva concluso, anche in sede dibattimentale, "che erano state riscontrate nei campioni numerose molecole che avevano consentito di accertare la presenza di benzina per autotrazione (le cui molecole sono diverse dalla cd. benzina per smacchiare) nelle immediate vicinanze dei punti in cui erano stati prelevati i campioni" (pag. 4 sentenza di primo grado). E' del tutto evidente, quindi, che la Corte territoriale ha violato il costante principio di diritto sopra richiamato (SSUU 33748/2005 Rv. 231679), in quanto, ha completamente riformato la motivazione addotta dal primo giudice, senza confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, e senza dar conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza. Al contrario, la Corte ha addotto una motivazione perplessa e contraddittoria, in quanto, pur dichiarando di volersi adeguare ai principi di diritto in ordine alla valutazione della C.T. di parte (cfr pag. 3-4 della sentenza impugnata in cui vengono richiamati i principi rammentati innanzi al 2.1. sub b), poi, di fatto, li ha disattesi sulla base di una preconcetta inattendibilità della C.t. di parte, senza spiegare, sulla base di quali elementi scientifici e fattuali le conclusioni delle Consulenze tecniche degli ingg. V. e C., non fossero attendibili contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice. Nello stesso vizio, la Corte, incorre, poi, quando, dopo aver considerato - sia pure obtorto collo - la natura dolosa dell'incendio, conclude affermando che non vi era la prova che fosse stata la S. ad appiccarlo perchè "ben poteva essere stato appiccato da parte di un qualsiasi soggetto operanti dall'interno del capannone" e che l'accusa aveva omesso di "verificare chi, oltre a lei ndr: la S., fosse in possesso delle chiavi di accesso all'opificio e quindi potesse entrarvi liberamente". Sul punto, deve osservarsi, alla stregua della lettura della sentenza di primo grado e dei motivi di appello dedotti dalla stessa S., che la questione delle chiavi in possesso di altre persone diverse dall'imputata (e dal di lei marito), non era mai stata neppure dedotta come semplice allegazione: non si vede, quindi, per quali ragioni il P.M. avrebbe dovuto indagare su un fatto che neppure la difesa aveva mai prospettato. Da ciò consegue, che la motivazione addotta sul punto dalla Corte, deve ritenersi incongrua ed illegittima in quanto si fonda su un argomento del tutto ipotetico privo di ogni qualsivoglia minimo riscontro probatorio. Ugualmente manifestamente illogica e contraddittoria è la motivazione nella parte in cui, nel riformare la sentenza di primo grado, la Corte sostiene che vi sarebbero seri dubbi sulla natura della merce incendiata. Sul punto, questa Corte si limita ad osservare che, a fronte della motivazione con la quale il primo giudice, alla stregua di un rigoroso esame degli atti processuali, aveva concluso che sussistevano tutti gli elementi della tentata truffa (cfr pag. 5 ss della sentenza di primo grado), la Corte di Appello liquida la questione in poche battute (pag. 8, par. 5.5.) in quanto, senza alcun esame di tutto il complesso compendio probatorio indicato dal primo giudice, sostiene che esisterebbero "seri dubbi sulla ricostruzione operata dal primo giudice" in quanto aveva svalutato "le deposizioni testimoniali dei testi Va., Ca. e D.T.". AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 6 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA Ma, la Corte territoriale, non si è avveduta che, in realtà, il primo giudice, non aveva affatto svalutato le suddette testimonianze, ma, molto più semplicemente, non le aveva ritenute utili alla decisione in quanto "nessuno dei testi indicati dalla difesa ( Va., C. e D.T.) è stato poi in grado di fornire indicazioni certe sulla tipologia e qualità dei tessuti presenti nel capannone la sera dell'incendio". La Corte, poi, tace completamente sulla documentazione fiscale, sulla C.t. del perito industriale B., sulla stima dell'ing. c. e cioè su tutto quel complesso compendio probatorio che il primo giudice aveva esaminato. In conclusione, il ricorso della parte civile dev'essere accolto integralmente e la sentenza, sia pure ai soli effetti civili, dev'essere annullata con conseguente rinvio davanti al giudice civile al quale spetterà rivalutare integralmente tutta la vicenda e, quindi, stabilire, sia pure ai soli effetti civili: a) se la S. si sia resa colpevole dei fatti di cui ai capi sub b) e c) dell'imputazione, alla stregua del principio di diritto di cui al precedente 1.5.; b) in caso affermativo, liquidare l'eventuale danno subito dalla costituita parte civile. Spese al definitivo. P.Q.M. ANNULLA la sentenza impugnata ai soli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per nuovo giudizio; Spese al definitivo. Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2013. Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2014 TRUFFA CONTRATTUALE CASS. PEN. SEZ. FERIALE, 03-09-2013, N. 51760 (RV. 258068) LA MASSIMA In tema di truffa contrattuale, l'ingiusto profitto, con correlativo danno del soggetto passivo, consiste essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del contratto, indipendentemente dallo squilibrio oggettivo delle rispettive prestazioni; ne consegue che la sussistenza o meno della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità deve essere valutata con esclusivo riguardo al valore economico del contratto in sé, al momento della sua stipulazione, e non con riguardo all'entità del danno risarcibile, che può differire rispetto al valore, in ragione dell'incidenza di svariati fattori concomitanti od anche successivi rispetto alla stipula. (Rigetta, App. Milano, 10/01/2013) LA SENTENZA REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE FERIALE PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DUBOLINO Pietro - Presidente Dott. IZZO Fausto - Consigliere Dott. BARBARISI Maurizio - Consigliere Dott. ANDREAZZA Gastone - Consigliere Dott. BELTRANI Sergio - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: C.L. N. IL (OMISSIS); C.P.W. N. IL (OMISSIS); avverso la sentenza n. 1946/2012 CORTE APPELLO di MILANO, del 10/01/2013; visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/09/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI; Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Enrico Delehaye, che ha concluso per il rigetto del ricorso; Udito il difensore della parte civile Z.L., che si è riportato alla propria memoria in atti ed alle conclusioni scritte che ha definito, chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso, o comunque il suo rigetto; Udito il difensore degli imputati, che si è riportato al ricorso, chidendone l'accoglimento. Svolgimento del processo 1. La Corte d'appello di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato, quanto all'affermazione di responsabilità penale e civile, la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 1 luglio 2011, che aveva dichiarato gli odierni ricorrenti colpevoli di concorso in truffa aggravata, condannandoli - ritenute per entrambi le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante - alle pene per ciascuno ritenute di giustizia, condizionalmente sospese, oltre alle statuizioni accessorie, anche di natura civilistica. La Corte di appello ha riformato la sentenza di primo grado limitatamente a queste ultime, disponendo la condanna degli imputati anche alla rifusione delle spese patite dalla parte civile Z. nel giudizio civile originariamente intentato, poi abbandonato a seguito dell'opzione per l'azione civile in sede penale. 2. Avverso tale provvedimento, hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione gli imputati, personalmente, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1: 1 - erronea applicazione della legge penale (lamentano in proposito l'improcedibilità ed improseguibilità dell'azione penale per difetto di querela, non risultando configurabile la circostanza aggravante di cui all'art. 61 AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 7 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA c.p., n. 7, per le ragioni già indicate nell'atto di appello, cui la Corte di appello non avrebbe risposto, limitandosi a riportare una decisione giurisprudenziale di legittimità; citano a sostegno del proprio assunto una decisione giurisprudenziale di merito); 2 - revoca tacita dell'atto di costituzione di parte civile ex art. 82 c.p.p., comma 2, e conseguente nullità delle statuizioni in favore della parte civile (lamentano in proposito che la Corte di appello non avrebbe offerto alcuna dimostrazione della sussistenza e della consistenza dei danni morali liquidati e comunque che la medesima azione civile era stata inammissibilmente coltivata dalla parte civile anche in sede civile); 3 - erronea applicazione della legge penale, nonchè contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (lamentano in proposito la carenza del dolo e dei raggiri ed artifizi necessari a configurare la c.d. truffa contrattuale, nonchè l'assenza del danno); 4 - erronea valutazione delle circostanze ex art. 133 c.p., quanto al mancato riconoscimento del beneficio della non menzione. Hanno concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata, con le conseguenti statuizioni, anche ex art. 129 c.p.p., senza rinvio, ovvero con rinvio quanto alle statuizioni civili; in subordine, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 74, 75 e 82 c.p.p., per contrasto con gli artt. 24 e 25 Cost., nella parte in cui ammettono la contemporanea prosecuzione della stessa azione civile in sede civile e penale. In data 5 agosto 2013 la parte civile costituita ha depositato memoria difensiva con la quale ha chiesto dichiararsi inammissibile o comunque rigettarsi il ricorso. 3. All'odierna udienza pubblica, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte Suprema ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza. Motivi della decisione Il ricorso è, nel suo complesso, infondato e va rigettato. 1. E' necessario premettere che il giudice d'appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell'impugnazione, giacchè le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., sez. 6^, n. 1307 del 26 settembre 2002, dep. 14 gennaio 2003, Delvai, rv. 223061). In presenza di una doppia conformare affermazione di responsabilità, va, peraltro, ritenuta l'ammissibilità della motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicchè le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., sez. 2^, n. 1309 del 22 novembre 1993, dep. 4 febbraio 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250; sez. 3^, n. 13926 del 1 dicembre 2011, dep. 12 aprile 2012, Valerio, rv. 252615). 1.1. Inoltre, secondo consolidato orientamento di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. 6^, n. 34521 dell'8 agosto 2013, rv. 256133), è inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti. 2. Ciò premesso, deve ritenersi che il ricorso sia, nel suo complesso, infondato, poichè un motivo è infondato, gli altri generici e manifestamente infondati. 2.1. Il primo motivo è infondato. Deve premettersi che la c.d. truffa contrattuale si realizza per il solo fatto che il deceptus sia addivenuto alla stipula di un contratto che altrimenti, in difetto dei raggiri ed artifizi posti in essere dal deceptor, non avrebbe stipulato. La Corte di appello (f. 4), nel ritenere la configurabilità, nel caso di specie, della circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n. 7, ha fatto corretta applicazione dell'orientamento di questa Corte Suprema (Sez. 2^, sentenza n. 12027 del 23 settembre 23 dicembre 1997, CED Cass. 210457; Sez. 5^, sentenza n. 7193 del 13 gennaio - 27 febbraio 2006, CED Cass. 233633), che il collegio condivide ed intende ribadire, secondo il quale, coerentemente con la predetta premessa: "in tema di truffa contrattuale, l'ingiusto profitto con correlativo danno del soggetto passivo consiste essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del contratto, indipendentemente dallo squilibrio oggettivo delle rispettive prestazioni; ne consegue che la sussistenza o meno della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità deve essere valutata con esclusivo riguardo al valore economico del contratto in sè, al momento della sua stipulazione, e non con riguardo all'entità del danno risarcibile, che può differire rispetto al predetto valore, in ragione dell'incidenza di svariati fattori, concomitanti od anche successivi rispetto alla stipula". Ed, in fatto, è il ricorrente a limitare l'odierna doglianza alla citazione di un non condivisibile (non esaminando adeguatamente la struttura della c.d. truffa AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 8 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA contrattuale) precedente di merito, senza contestare la rilevante gravità del danno cagionato dalla parte civile ove si debba - come appena chiarito - fare riferimento all'uopo al valore del contratto stipulato (pari nel caso di specie a 120.000 Euro). 2.2. Il secondo motivo è, in entrambe le sue articolazioni, generico e manifestamente infondato. 2.2.1. La Corte di appello (f. 4) ha espressamente affermato di ritenere corretta la quantificazione del danno (inteso nella sua globalità, e quindi anche con riguardo a quello morale), all'evidenza rifacendosi alle ampie e condivise argomentazioni della sentenza di primo grado, che riporta in premessa, ed a quelle della parte civile, pure in precedenza riportate dalla Corte di appello. 2.2.2. E' d'altro canto pacifico che l'azione civile de qua, inizialmente intentata dinanzi al giudice civile, sia stata trasferita, come consentito, nella odierna sede penale, e non viceversa (come previsto dalla richiamata disposizione di cui all'art. 82, comma 2, c.p.p.). Invero, gli stessi ricorrenti a f. 8 del ricorso riportano un chiarissimo passo della ordinanza all'uopo emessa in data 13 luglio 2011 dal giudice civile assegnatario del procedimento scaturito dall'originario esercizio dell'azione civile in sede civile; d'altro canto, anche nella conclusiva sentenza civile del 19 agosto 2012, allegata al ricorso, si legge inequivocabilmente che "il Tribunale di Lodi... ai sensi dell'art. 75 c.p.p., ha accertato la rinuncia agli atti del giudizio civile da parte della Z.", non valorizzando quindi il comportamento processuale dell'avv. BRIGIDA cui i ricorrenti hanno fatto insistito riferimento. Ciò rende la doglianza dei ricorrenti manifestamente infondata, ed al tempo stesso all'evidenza manifestamente infondata anche la questione di costituzionalità conclusivamente sollevata dai ricorrenti, perchè gli artt. 74, 75 ed 82 c.p.p., non consentono la contemporanea prosecuzione della stessa azione civile in sede civile e penale, e nel caso di specie questa situazione non si è verificata. 2.3. Il terzo motivo è generico e manifestamente infondato. Il ricorso ripropone pedissequamente o quasi le censure dedotte come motivo di appello (con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere adeguatamente in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali il relativo motivo di appello non è stato accolto. Peraltro, nel caso di specie, la Corte di appello, con rilievi esaurienti, logici e non contraddittori, come tali incensurabili in questa sede, ha adeguatamente illustrato le ragioni poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità degli imputati in ordine alla truffa ascritta loro, valorizzando (anche previo richiamo per relationem della sentenza di primo grado, come si è già premesso essere fisiologico in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità) le plurime dichiarazioni testimoniali e le risultanze documentali acquisite (f. 1 ss.), dalle quali ha desunto la configurabilità degli elementi costitutivi della ritenuta truffa contrattuale (sotto il profilo della materialità e dell'elemento psicologico, in relazione ai raggiri ed artifizi consistiti nell'aver dolosamente taciuto alla Z. - danneggiata per il sol fatto di essere addivenuta alla stipula di un contratto che altrimenti non avrebbe stipulato - le effettive condizioni dell'immobile oggetto di compravendita inter partes), ed affermando conclusivamente che "i fatti storici sono sostanzialmente ammessi dallo stesso difensore e di nessun interesse (oltre che non provato) è che C.L. non vi avesse abitato, posto che per conoscere i difetti di un bene non è necessario il fatto di avervi effettivamente abitato". 2.4. Il quarto motivo è generico e manifestamente infondato. Ancora una volta, il ricorso ripropone pedissequamente o quasi le censure dedotte come motivo di appello (con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali il relativo motivo di appello non è stato accolto. Invero, la Corte di appello, con rilievi esaurienti, logici e non contraddittori, come tali incensurabili in questa sede, ha adeguatamente illustrato le ragioni poste a fondamento del diniego del beneficio della non menzione (l'unico beneficio costituente oggetto di appello, come si evince dal riepilogo dei motivi di appello riportato a f. 2 della sentenza impugnata, la cui completezza non è stata contestata dai ricorrenti), valorizzando (f. 5) in particolare "la mancanza di ravvedimento", "l'insidiosità della condotta" e "l'intensità del dolo" quali elementi ostativi alla concessione del chiesto beneficio. 3. Il conclusivo rigetto, nel complesso, del ricorso comporta, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese patite dalla parte civile costituita, che si liquidano come da dispositivo, secondo i nuovi parametri introdotti dal D.M. 20 luglio 2012, n. 140. 3.1. Deve, in proposito, rilevarsi che, come chiarito dalla Corte Suprema di Cassazione (Sez. un., sentenza n. 17405 del 2012), in tema di spese processuali, agli effetti del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, il quale ha dato attuazione al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di "compenso" la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata. E' pur vero che, ai sensi dell'art. 13, comma 10, della ancora successiva L. n. 247 del 2012, "Oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 9 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive". Il citato comma 6 della medesima disposizione stabilisce che "i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'art. 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge". Tuttavia, non risultando ancora emanato il decreto di cui alla citata L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 6, la disposizione di cui al comma 10 del medesimo articolo di legge deve ritenersi allo stato in concreto non operante. 3.2. Le spese sostenute dalla parte civile vanno, pertanto, liquidate come da dispositivo, con riguardo ai soli compensi, in difetto della documentazione di esborsi rimborsabili; non è dovuto il rimborso di spese "forfettarie" o "generali"; sono dovuti gli accessori di legge (IVA e CPA). P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro duemila, più accessori come per legge. Così deciso in Roma, udienza pubblica, il 3 settembre 2013. Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2013 CASS. PEN. SEZ. II, 06-12-2013, N. 51882 (RV. 258106) LA MASSIMA In tema di truffa, ricorre l'aggravante di cui all'art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen., qualora il fatto sia commesso in danno della società Lottomatica spa, che, pur se costituita come società di capitali, svolge attività accessoria e meramente strumentale rispetto all'Azienda autonoma monopoli di Stato, della quale è concessionaria per la rete telematica e titolare unica dei nulla osta all'esercizio degli apparecchi di gioco lecito, con il compito di assicurare che la rete telematica contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico e per tale ragione riveste la qualifica di agente contabile, assoggettata di conseguenza al controllo della Corte dei Conti. (Rigetta, Trib. lib. Bologna, 06/03/2013) REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CARMENINI Secondo Libero - Presidente Dott. IANNELLI Enzo - Consigliere Dott. CASUCCI Giuliano - rel. Consigliere Dott. IASILLO Adriano - Consigliere Dott. DI MARZIO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: C.S. N. IL (OMISSIS); I.D. N. IL (OMISSIS); avverso l'ordinanza n. 243/2013 TRIB. LIBERTA' di BOLOGNA, del 06/03/2013; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. CASUCCI GIULIANO; sentite le conclusioni del PG Dott. CESQUI Elisabetta, che ha chiesto il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo Con ordinanza in data 6 marzo 2013, il Tribunale di Bologna, sezione per il riesame, ha confermato l'ordinanza del GIP del Tribunale di Modena, con la quale era stata disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di C.S. e I.D., perchè gravemente indiziati di aver commesso le truffe aggravate ai danni dello Stato di cui ai capi B, D ed F perchè, simulando di essere tecnici della Lottomatica si introducevano abusivamente nel sistema informatico delle singole ricevitorie ed effettuavano giocate abusive per Euro 151.001 presso la Tabaccheria (OMISSIS), Euro 83.723 presso la ricevitoria " (OMISSIS)" ed Euro 79.350 presso la ricevitoria "(OMISSIS)" andando poi a riscuotere i tagliandi vincenti presso altre ricevitorie. Il Tribunale confermava il giudizio di sussistenza della gravità indiziaria, in particolare quello relativo alla correttezza della qualificazione giuridica non potendo essere accolta la tesi difensiva secondo la quale si sarebbe trattato di truffe semplici in quanto il danno sarebbe ricaduto sui titolari delle singole ricevitorie. Ed invero il danno provocato allo Stato è quello derivante dalla abusiva effettuazione delle giocate senza pagamento del corrispettivo, a nulla rilevando che quanto richiesto dai Monopoli di Stato sia stato poi pagato dal titolare della ricevitoria. Sussisteva l'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 7; la circostanza che la truffa di cui al capo F si fosse arrestata a livello di tentativo (per avere la Lottomatica bloccato la riscossione di eventuali vincite legate alle giocate effettuate presso la ricevitoria " (OMISSIS)") era priva di rilievo posto che per le altre ipotesi di reato la consumazione si era realizzata. La misura cautelare in atto era adeguata alle esigenze cautelari ravvisate nel pericolo di reiterazione. Contro tale decisione hanno proposto tempestivo ricorso gli indagati, che ne hanno chiesto l'annullamento per i seguenti motivi: - erronea applicazione della legge AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 10 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA penale perchè la perdita patrimoniale è stata subita dalle ricevitorie, ai titolari delle quali l'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato ha intimato il versamento di quanto dovuto in riferimento alle giocate effettuate presso i loro sportelli ed ha avviato il procedimento di revoca della concessione. La Lottomatica s.p.a., essendo mera creditrice delle somme relative agli importi giocati, non può essere vittima del reato in questione. In ogni caso è una società privata; manifesta illogicità della motivazione per la parte in cui l'ordinanza impugnata ha confermato la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 7, perchè gli importi incassati sono stati di Euro 22.057 conseguiti a seguito degli incassi dei tagliandi emessi dalla Tabaccheria "(OMISSIS)"; Euro 18.240 ed Euro 9.360 conseguiti con l'incasso dei tagliandi emessi dalla ricevitoria (OMISSIS). Motivi della decisione 1. Il primo motivo di ricorso è dedotto in maniera inammissibile attraverso la indicazione di una serie di elementi di natura fattuale, come tali non verificabili in questa sede e comunque in contraddizione tra di loro. Da un lato infatti si afferma che l'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (da ora in avanti AAMS), accertato dal riscontro del rendiconto settimanale comunicatole dalla Lottomatica s.p.a. il mancato versamento dell' importo risultante a debito dal relativo estratto conto, avrebbe provveduto ad intimare ai ricevitori tramite raccomandata il versamento di quanto dovuto entro il termine di cinque giorni, offrendo quindi una rappresentazione di tipo fattuale che pone l'AAMS, indiscutibilmente ente pubblico, come il soggetto offeso dal reato che, come tale, si è attivato direttamente per il recupero del dovuto (oggetto del profitto del reato), di guisa che la Lottomatica apparirebbe relegata ad un ruolo servente di mero gestore del sistema. Dall'altro lato si afferma che la Lottomatica è una società privata controllata dal gruppo De Agostini e quotata nella Borsa Italiana. Il provvedimento impugnato ha invece affermato che le truffe hanno avuto come persona offesa i Monopoli di Stato ed ha escluso che il danno sia stato sofferto dai titolari delle singole ricevitorie, lasciando intendere che la questione posta nella sede di merito fosse questa, non già la natura pubblica o privata della Lottomatica. Nè il ricorso deduce omessa risposta a doglianze difensive svolte in sede di merito, in modo da consentire in questa sede di verificare la sussistenza del vizio di mancanza di motivazione. Allo stato non risulta l'erroneità della decisione impugnata che riconduce il danno direttamente ai Monopoli di Stato e quindi ad ente pubblico. Vale inoltre rammentare che le Sezioni Unite civili di questa Corte hanno ripetutamente affermato che la società Lottomatica s.p.a., concessionaria dell'Azienda Autonoma dei Monopoli dello Stato per la rete telematica e titolare unico dei nulla osta all'esercizio degli apparecchi e congegni per il gioco lecito, avendo la stessa il compito di assicurare che la rete telematica affidatale contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico, nonchè la trasmissione periodica di tali informazioni al sistema centrale e di eseguire il versamento del prelievo erariale unico relativo agli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, riveste la qualifica di agente contabile. Da tanto consegue la sussistenza della giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità contabile (del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 74 e del R.D. 23 maggio 1924, n. 827, artt. 178 e 610), stante il carattere pubblico dell'ente per il quale tale soggetto agisce e del denaro o del bene oggetto della sua gestione, mentre resta irrilevante, oltre che l'eventuale assenza, da parte di quel soggetto, di contestazione della responsabilità stessa, il titolo in base al quale la gestione è svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, in una concessione amministrativa, in un contratto e perfino mancare del tutto, potendo il relativo rapporto modellarsi indifferentemente secondo gli schemi generali, previsti e disciplinati dalla legge (Cass. SU civ. 1.6.2010 n. 13330; conf. Cass. SU Civ. 4.12.2009 n 25495). Nelle pronuncie riportate, pur non essendo specificato se la Lottomatica sia una società c.d. in house, sia da comunque atto che essa è incaricata di svolgere attività accessoria, marginale e meramente strumentale rispetto alla prestazione di servizio di interesse economico di carattere generale svolto dalla AAMS, in una posizione di subordinazione gerarchica, sicchè, se pur costituita formalmente come società di capitali, non appare essere "destinata (se non in via del tutto marginale e strumentale) allo svolgimento di attività imprenditoriale a non di lucro così da dover necessariamente operare al di fuori del mercato" e sembra agire "in totale assenza di un potere decisionale suo proprio" (cfr. Cass. S.U. Civ. 8.10 - 25.11.2013). 2. Il secondo motivo di ricorso è infondato. La circostanza che le giocate risultate vincenti siano di importo inferiore rispetto al valore complessivo delle giocate effettuate, attraverso il fraudolento inserimento nel sistema informatico gestito dalla Lottomatica, non elimina che il profitto ingiusto sia pari all'importo complessivo delle giocate ottenute fraudolentemente. La riscossione delle giocate vincenti si pone come evento ulteriore. 3. Il ricorso deve in conseguenza essere rigettato, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2013. Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2013 AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 11 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA CASS. PEN. SEZ. II, 29-09-2009, N. 41498 (RV. 244943) B.V. Non è configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona offesa dal reato di truffa in relazione ad una società per azioni incaricata del servizio di raccolta, smaltimento e gestione complessiva dei rifiuti a norma dell'art. 23, D.Lgs. n. 22 del 1997, in quanto la natura pubblica del servizio prestato e delle funzioni svolte assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen.. (Annulla senza rinvio, Trib. lib. Palermo, 06 aprile 2009) REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CASUCCI Giuliano - Presidente Dott. GENTILE Mario - Consigliere Dott. FUMU Giacomo - Consigliere Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere Dott. MANNA Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: B.V., nata a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del Tribunale di Palermo, in data 6.4.2009 depositata il 9.4.2009; Sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere Dott. Davigo Piercamillo; Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, Dott. PASSACANTANDO Guglielmo, il quale ha concluso chiedendo che l'ordinanza impugnata sia annullata senza rinvio; Udito il difensore della ricorrente, Avv. Pellegrino Stefano, il quale ha concluso per l'accoglimento del ricorso. Osserva: Svolgimento del processo - Motivi della decisione Con ordinanza del 16.3.2009, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Marsala rigettò la richiesta di revoca della misura interdittiva del divieto di esercitare attività di impresa per mesi 2 disposta nei confronti di B.V., indagata per il reato di truffa aggravata in danno di Belice Ambiente S.p.A., qualificata come ente pubblico, siccome partecipata da vari Comuni e dalla Provincia Regionale di Trapani, nonchè esercente il pubblico servizio di raccolta, smaltimento e gestione complessiva dei rifiuti in A.T.O. (Ambito territoriale ottimale) presso i Comuni che la partecipavano. Avverso tale provvedimento l'indagata propose appello ma il Tribunale di Palermo, con ordinanza del 6.4.2009, depositata il 9.4.2009, rigettò l'appello e confermò il provvedimento impugnato. Ricorre per cassazione il difensore dell'indagata deducendo: 1. violazione di legge in quanto Belice Ambiente S.p.A. sarebbe una società di diritto privato, anche se soddisfa anche esigenze pubblicistiche; ricondotto il fatto all'ipotesi di truffa di cui all'art. 640 c.p., comma 1, la misura interdittiva non è consentita; 2. vizio di motivazione in ordine al mancato esame delle doglianze svolte nei motivi di appello in relazione alle conclusioni del consulente tecnico di parte; in particolare la società Sicilia verde aveva stipulato non un contratto di appalto, ma un contratto di noleggio a caldo, sicchè non era tenuta ad altro che a fornire un autocarro ed un conducente. Il primo motivo di ricorso è fondato. Non vi è dubbio che le società costituite ai sensi del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 23, siano finalizzate alla realizzazione di un servizio pubblico. Infatti il cit. art., i primi 4 commi stabiliscono: "1. salvo diversa disposizione stabilita con legge regionale, gli ambiti territoriali ottimali per la gestione dei rifiuti urbani sono le province, in tali ambiti territoriali ottimali le province assicurano una gestione unitaria dei rifiuti urbani e predispongono piani di gestione dei rifiuti, sentiti i comuni, in applicazione degli indirizzi e delle prescrizioni del presente decreto. 2. per esigenze tecniche o di efficienza nella gestione dei rifiuti urbani, le province possono autorizzare gestioni anche a livello sub - provinciale purchè, anche in tali ambiti territoriali sia superata la frammentazione della gestione. 3. I comuni di ciascun ambito territoriale ottimale di cui al comma 1, entro il termine perentorio di sei mesi dalla delimitazione dell'ambito medesimo, organizzano la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di efficienza, di efficacia e di economicità. 4. i comuni provvedono alla gestione dei rifiuti urbani mediante le forme, anche obbligatorie, previste dalla L. 8 giugno 1990, n. 142, come integrata dalla L. 23 dicembre 1992, n. 498, art. 12". Il cit. art., comma 4 stabilisce che: "per le finalità di cui ai commi 1, 2 e 3 le province, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, coordinano, sulla base della legge regionale adottata ai sensi della L. 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni, le forme ed i modi della cooperazione tra gli enti locali ricadenti nel medesimo ambito ottimale, nei casi in cui la forma di cooperazione sia attuata per gli effetti della L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 24, le province individuano gli enti locali partecipanti, l'ente locale responsabile del coordinamento, gli adempimenti ed i termini previsti per l'assicurazione delle convenzioni di cui alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 24, comma 1, dette convenzioni determinano in particolare le procedure che dovranno essere adottate per l'assegnazione del servizio di gestione dei rifiuti, le forme di vigilanza e di controllo, nonchè gli altri elementi indicati alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 24, comma 2, decorso inutilmente il predetto termine le regioni e le province autonome provvedono in sostituzione degli enti inadempienti". Il testo della L. 23 dicembre 1992, art. 12 (interventi urgenti in materia di finanza pubblica), che ha integrato la L. n. 142 del 1990, stabilisce: AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 12 RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA "1. le province e i comuni possono, per l'esercizio di servizi pubblici e per la realizzazione delle opere necessarie al corretto svolgimento del servizio nonchè per la realizzazione di infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico, che non rientrino, ai sensi della vigente legislazione statale e regionale, nelle competenze istituzionali di altri enti, costituire apposite società per azioni, anche mediante gli accordi di programma di cui al comma 9, senza il vincolo della proprietà maggioritaria di cui alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22, comma 3, lett. e), e anche in deroga a quanto previsto dalla L. 2 aprile 1968, n. 475, art. 9, comma 1, lett. d), come sostituita dalla L. 8 novembre 1991, n. 362 art. 10, gli enti interessati provvedono alla scelta dei soci privati e all'eventuale collocazione dei titoli azionari sul mercato con procedure di evidenza pubblica, l'atto costitutivo delle società deve prevedere l'obbligo dell'ente pubblico di nominare uno o più amministratori e sindaci. nel caso di servizi pubblici statali locali una quota delle azioni può essere destinata all'azionariato diffuso e resta comunque sul mercato". Tuttavia, ad avviso del Collegio, ciò significa soltanto che le persone che amministrano tali società o che operano per le stesse abbiano la qualità di incaricati di pubblico servizio e - talora - di pubblici ufficiali, ai sensi degli artt. 357 e 358 cod. pen., ma non che tali società, costituite nelle forme della società per azioni, siano enti pubblici ai sensi e per gli effetti dell'art. 640 c.p., comma 2, n. 1. Infatti questa Corte ha escluso che la qualità di ente pubblico, ai sensi e per gli effetti dell'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, permanesse in capo a società che svolgono servizi pubblici od i cui amministratori e dipendenti hanno talora la qualità di pubblici ufficiali. Così è stato affermato che: - Il delitto di truffa in danno delle Ferrovie dello Stato è punibile a querela, non potendosi configurare, in ragione della natura privatistica (società per azioni) del soggetto passivo, l'aggravante di cui all'art. 640 cpv. cod. pen., n. 1 (Cass. Sez. 2 sent. n. 5028 del 17.3.1999 dep. 20.4.1999 rv 213154); - Con la trasformazione dell'ente pubblico economico "Poste Italiane" in società per azioni, non è più configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona offesa dal reato di truffa, in quanto la natura eventualmente pubblica del servizio prestato assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen. (Cass. Sez. 2A sent. n. 8797 in data 11.2.2003 dep. 24.2.2003 rv 223664); - Con la trasformazione dell'ente pubblico economico "Azienda Trasporti Milano" in società per azioni non è più configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona offesa dal reato di truffa, in quanto la natura eventualmente pubblica del servizio prestato assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen. (Cass. Sez. 2 sent. n. 35603 del 23.6.2004 dep. 27.8.2004 rv 229728); - In tema di truffa in danno dell'E.N.E.L., per effetto della trasformazione di questo da ente pubblico in società per azioni ad opera del D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 15, conv. in L. 8 agosto 1992, n. 359, non è più configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona offesa dal reato, con la conseguenza che non può procedersi d'ufficio ma a querela di parte. (Cass. Sez. 5 sent. n. 38071 del 5.4.2005 dep. 19.10.2005 rv 233073. Fattispecie nella quale la Corte, d'ufficio, ha rilevato la mancanza di querela ed ha annullato senza rinvio il capo concernente la condanna per il reato di truffa, eliminando la relativa pena); - Con la trasformazione dell'ente pubblico economico "Azienda Torinese Mobilità" in società per azioni non è più configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona offesa dal reato di truffa, in quanto la natura eventualmente pubblica del servizio prestato assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen. (Cass. Sez. 2 sent. n. 7226 del 7.2.2006 dep. 27.2.2006 rv 233158, citata anche nel provvedimento impugnato e nel ricorso). Le ragioni addotte dal Tribunale attengono pur sempre alla natura del servizio prestato e delle funzioni svolte, ma non sono determinanti per giungere ad affermare una diversa natura giuridica del soggetto, che rimane una società di diritto privato, pur con talune deroghe rispetto alla comune disciplina. Deve quindi essere confermato l'orientamento giurisprudenziale fin qui seguito. Ricondotta la fattispecie all'ipotesi di truffa semplice, ne consegue che l'ordinanza interdittiva non poteva essere emessa ai sensi dell'art. 287 cod. proc. pen., non essendo la pena edittale superiore nel massimo a tre anni. Il primo motivo di ricorso deve pertanto essere accolto con conseguente annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata, di quella di primo grado e di quella impositiva della misura. La soluzione adottata rende superfluo l'esame del secondo motivo di ricorso. P.Q.M. Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata, quella di primo grado e quella impositiva della misura interdittiva. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 settembre 2009. Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2009 AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 13