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RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
LA TRUFFA ASSICURATIVA
CASS. PEN. SEZ. II, 17-12-2013, N. 1856 (RV. 258012)
LA MASSIMA
L'art. 642 cod. pen., strutturato come una norma penale mista
del tutto peculiare, prevede nei suoi commi primo e secondo cinque
diverse fattispecie di reato - in particolare, il danneggiamento dei
beni assicurati e la falsificazione o alterazione della polizza, nel
comma primo; la mutilazione fraudolenta della propria persona, la
denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o
alterazione della documentazione relativi al sinistro, nel comma
secondo - che, ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere
fra loro. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il
concorso di reati nel caso di fraudolenta distruzione della cosa
propria e di fraudolenta esagerazione del danno). (Annulla in parte
con rinvio, App. Trani, 21/10/2009)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASUCCI Giuliano - Presidente Dott. DE CRESCIENZO Ugo - Consigliere Dott. DAVIGO Piercamill - Consigliere Dott. RAGO Geppi - rel. Consigliere Dott. VERGA Giovanna - Consigliere ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
UNIPOL ASS.NI S.P.A.;
avverso la sentenza del 26/04/2012 pronunciata dalla
Corte di Appello di Bari nei confronti di:
S.L. nata il (OMISSIS);
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino
Rago;
udito il Procuratore Generale in persona della dott.ssa
Maria Giuseppina Fodaroni che ha concluso per
l'annullamento con rinvio;
uditi i difensori avv.ti Merlini Maurizio (per la parte
civile ricorrente) che ha concluso per l'accoglimento del
ricorso e l'avv.to Stefano Dardes che ha concluso per il
rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 26/04/2012, la Corte di Appello
di Bari, in riforma della sentenza pronunciata in data
21/10/2009 dal giudice monocratico del Tribunale di
Trani, assolveva, ex art. 530 cod. proc. pen., comma 2 S.L.
dal reato di cui all'art. 642 cod. pen. (capo sub A: "perchè,
al fine di conseguire l'indennizzo relativo alla polizza
assicurativa contratta tra la Newline Textile di S.L. e la
Unipol Ass.ni spa, distruggeva mediante incendio parte
del materiale presente presso il capannone della
suindicata ditta, nonchè parte degli infissi e delle strutture
murarie") - in esso assorbito il reato di tentata truffa
(capo sub B:
"perchè con artifici e raggiri costituiti dall'indicare
nella denuncia di incendio e nella "situazione merci
danneggiate" presentate alla Unipol, danni superiori a
quelli effettivamente prodotti dall'incendio verificatosi il
(OMISSIS) presso il capannone della Newline-Textile,
compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad
indurre in errore la Unipol al fine di procurarsi un
ingiusto vantaggio ai danni della compagnia di
assicurazioni") - perchè il fatto non sussiste.
Il giudice di primo grado aveva ritenuto la
colpevolezza dell'imputata sulla base di tre elementi
indiziari: a) la presenza di tracce di benzina nei reperti
esaminati: il suddetto accertamento si era fondato sulle ct.
degli ing. V. e C. incaricati dalla Unipol; b) il fatto che
non si fosse verificato alcun cortocircuito riguardante
l'impianto elettrico; c) la mancanza di segni di effrazione
sui serramenti esterni di accesso al capannone.
La Corte di Appello, invece, assolse l'imputata
sostenendo che:
- le C.t. non potevano essere ritenute attendibili sia
perchè di parte, sia perchè avevano presentato
conclusioni perplesse;
- insufficiente appariva anche l'ulteriore elemento
della mancanza di segni di effrazione in quanto gli
inquirenti avevano "omesso di verifica re chi, oltre alla S.,
fosse in possesso delle chiavi di accesso all'opificio e
quindi potesse entrarvi liberamente") - il primo giudice
aveva ingiustamente svalutato le deposizioni dei testi Va.,
Ca. e D.T. - che avevano dichiarato di aver visto prima
dell'incendio nel magazzino tessuti pregiati - sulla base di
una apodittica affermazione secondo la quale "il tessuto
di più elevato valore commerciale ... sia stato riposto
altrove la sera dell'incendio per evitare che venisse
danneggiato dalle fiamme";
- infine, il reato di cui agli artt. 56 e 640 cod. pen.,
costituendo un'ipotesi criminosa speciale rispetto a quello
di cui all'art. 642 cod. pen., doveva in questo ritenersi
assorbito.
2. Avverso la suddetta sentenza, la Unipol Ass.ni spa,
a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per
cassazione ai soli effetti della responsabilità civile
dell'imputata, deducendo i seguenti motivi:
2.1. violazione degli artt. 15, 640 e 642 cod. pen.: la
ricorrente, pur condividendo l'affermazione della natura
speciale del reato di cui all'art. 642 cod. pen. rispetto a
quello di cui all'art. 640 cod. pen., sostiene che, nel caso di
specie, la Corte avrebbe omesso "di considerare la
diversità dei fatti e delle condotte oggetto di
contestazione nei distinti capi d'imputazione, ciascuno
dei quali idoneo ad integrare diverse fattispecie di reato",
con ciò, quindi, dovendosi ritenere un concorso di reati e
non di norme.
In realtà, la condotta contestata alla S. come tentata
truffa, integrerebbe comunque la fattispecie autonoma di
cui all'art. 642 cod. pen., comma 2 e, quindi, concorrente
con quella già contestata di cui all'art. 642 cod. pen.,
comma 1 in quanto le condotte contestate all'imputate
sono due ed autonome l'una dall'altra: a) la fraudolenta
distruzione della cosa propria; b) la fraudolenta
esagerazione del danno.
La Corte, quindi, avrebbe dovuto procedere alla
riqualificazione giuridica della fattispecie, ma non
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO
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dichiarare l'assorbimento del reato sub B) in quello sub
A).
2.2. manifesta illogicità della motivazione: la
ricorrente sostiene che l'affermazione di inattendibilità
delle CTP effettuata dalla Corte territoriale, sarebbe
apodittica in quanto priva di motivazione, tanto più che
la Corte non aveva considerato che le attività di
accertamento, fattuale e tecnico, svolte dai consulenti
della parte civile, peraltro acquisite ex art. 493 c.p., comma
3 e art. 555 cod. proc. pen. con il consenso delle parti,
furono compiute nella sede extraprocessuale della ed
perizia assicurativa con la partecipazione e nel pieno
contraddittorio del perito della S..
La ricorrente, poi, osserva che la Corte era pervenuta
ad una sentenza di assoluzione sulla base di una
valutazione non solo parcellizzata delle prove ma anche
errata perchè contrastante con le risultanze probatorie.
Infatti:
a) non era vero che l'esito della Ct, in ordine al
rilevamento di tracce di benzina, fosse perplesso, come
poteva desumersi sia dalla lettura della Ct sia dalle
dichiarazioni rese in dibattimento dal prof. V.;
b) era pacifico, comunque, che l'incendio avesse
avuto origine dolosa in quanto la stessa Corte non aveva
confutato le conclusioni alle quali era giunto il Ct ing. C.;
c) in modo contraddittorio ed illogico era stato
superato l'indizio costituito dal fatto che non erano stati
rinvenuti segni di effrazione sui serramenti di accesso al
capannone;
d) la Corte non aveva considerato come, a fronte di
una richiesta di indennizzo pari ad Euro 467.551,84, il
riscontro merceologico sui residui dell'incendio effettuato
dal p.i. B. nell'ambito della perizia assicurativa nel
contraddittorio con il perito della ditta assicurata, avesse
accertato la sostanziale difformità tra la tipologia ed il
valore della merce rappresentata dalla S. e quella invece
effettivamente presente al momento dell'incendio ed
andata distrutta in quanto non solo non era stata
rinvenuta traccia della merce di pregio (Euro 115.545,00),
ma quella presente era diversa e tale da non superare
l'importo di Euro 61.100,00. E, tale omessa motivazione,
risultava tanto più grave a fronte della motivazione
addotta dal tribunale di Trani.
3. Con memoria depositata il 03/09/2013, la S., a
mezzo del proprio difensore, ha confutato punto per
punto il ricorso della Unipol spa, sostenendo ed
illustrando le ragioni per le quali la sentenza appellata
doveva ritenersi corretta con conseguente infondatezza
del ricorso.
Motivi della decisione
1. violazione degli artt. 15. 640 e 642 cod. pen.: la
doglianza è fondata per le ragioni di seguito indicate.
La costante giurisprudenza di questa Corte, come ha
già rilevato la Corte territoriale, ritiene che "l'art. 642 cod.
pen. - che punisce la fraudolenta distruzione della cosa
propria - costituisce un'ipotesi criminosa speciale rispetto
al reato di truffa di cui all'art. 640 cod. pen.: nel primo,
infatti, sono presenti tutti gli elementi della condotta
caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento
specializzante, il fine di tutela del patrimonio
dell'assicuratore": Cass. 2506/2003 Rv. 227890; Cass.
4352/1997 Rv.
207438; Cass. 4828/1994 Rv. 201184.
La ricorrente, pur non contestando il suddetto
principio di diritto, ha obiettato che le condotte
contestate all'imputata, in realtà, sono due ed autonome
l'una dall'altra: a) la fraudolenta distruzione della cosa
propria (art. 642 cod. pen., comma 1); b) la fraudolenta
esagerazione del danno (art. 642 cod. pen., comma 2):
quindi, più che dichiarare l'assorbimento del reato di
tentata truffa in quello di cui all'art. 642 cod. pen., la Corte
avrebbe dovuto procedere alla riqualificazione giuridica
dei fatti e ritenere il concorso fra le due fattispecie di cui
all'art. 642 cod. pen., commi 1 e 2.
1.1. L'art. 642 cod. pen. prevede cinque ipotesi
delittuose:
a) il danneggiamento dei beni assicurati: primo
comma, nella parte in cui prevede "distrugge, disperde,
deteriora od occulta cose di sua proprietà";
b) la falsificazione od alterazione della polizza o della
documentazione richiesta per la stipulazione di un
contratto di assicurazione: primo comma, seconda parte;
c) la mutilazione fraudolenta della propria persona:
secondo comma prima parte nella parte in cui prevede:
"cagiona a sè stesso una lesione personale o aggrava le
conseguenze della lesione personale prodotta da
infortunio";
d) la denuncia di un sinistro non avvenuto: secondo
comma nella parte in cui prevede "denuncia un sinistro
non accaduto";
e) la falsificazione o alterazione della documentazione
relativi al sinistro: comma 2, ultima parte nella parte in
cui prevede:
"distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di
prova o documentazione relativi al sinistro".
Ora, all'imputata, nel capo sub a) è stata contestata la
condotta del danneggiamento dei beni assicurati prevista
nell'art. 642 c.p., comma 1, prima parte: "distruggeva
mediante incendio parte del materiale presente presso il
capannone della suindicata ditta, nonchè parte degli
infissi e delle strutture murarie"; al capo sub b), le è stata,
invece, contestata la condotta di aver denunciato "danni
superiori a quelli effettivamente prodotti dall'incendio
verificatosi il (OMISSIS) presso il capannone della
Newline- Textile" in modo da indurre "in errore la
Unipol al fine di procurarsi un ingiusto vantaggio ai danni
della compagnia di assicurazioni".
La seconda delle condotte contestate, come appare
evidente, rientra nella quinta fattispecie prevista dall'art.
642 cod. pen. ed esattamente in quella con la quale il
soggetto attivo "falsifica, altera documentazione relativi al
sinistro".
Il problema, quindi, che pone l'art. 642 cod. pen. è
duplice:
a) in che rapporti si pone con la truffa;
b) se e in che misura le varie fattispecie previste nei
due commi dell'art. 642 cod. pen. possano o no concorrere.
1.2. Quanto ai rapporti fra l'art. 642 cod. pen. e l'art.
640 c.p. (o artt. 56 e 640 cod. pen.), deve ribadirsi il
tradizionale citato orientamento giurisprudenziale: fra le
due norme vi è un rapporto di specialità, in quanto l'art.
642 cod. pen., a ben vedere, ha la stessa struttura dell'art.
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640 cod. pen., in cui, però, gli interessi tutelati (patrimonio
dell'assicuratore: Cass. 12210/2007 Rv. 236132; Cass.
22906/2012 Rv. 252997), il soggetto attivo (per le ipotesi
che presuppongono la stipula di un contratto e, quindi, la
qualifica di soggetto assicurato), e l'elemento materiale
dei raggiri e degli artifizi, sono costituiti da elementi
speciali rispetto a quelli generici previsti per il reato di
truffa. In particolare, le condotte previste dall'art. 642 cod.
pen. vanno ritenute null'altro che particolari artifizi e
raggiri previsti espressamente dal legislatore e che, quindi,
caratterizzano e differenziano il suddetto reato da quello
della truffa.
1.3. Il fatto, però, che fra il reato di truffa e quello di
cui all'art. 642 cod. pen. vi sia un rapporto di specialità, non
significa che fra le cinque ipotesi previste dall'art. 642 cod.
pen. non vi possa essere concorso - materiale o formale ove l'agente ponga in essere una o più delle condotte
criminose previste dalla suddetta norma.
Sul punto, peraltro, è opportuno preliminarmente
precisare se il concorso sia ammissibile solo fra le ipotesi
previste nei commi 1 e 2 o anche fra le ipotesi previste
all'interno di ciascun comma.
La questione va risolta appurando quale sia la natura
giuridica da riconoscere alla disposizione incriminatrice di
cui all'art. 642 cod. pen che rappresenta un chiaro
esempio di norma penale mista.
Come è noto, la dottrina maggioritaria e la
giurisprudenza di questa Corte distinguono, all'interno
del più ampio genus denominato "norma penale mista",
le cd. norme a più fattispecie (o norme miste alternative)
dalle cd. disposizioni a più norme (o norme miste
cumulative).
Le norme a più fattispecie descrivono una pluralità di
condotte fungibili, con le quali può essere integrata in via
alternativa un'unica norma incriminatrice: in definitiva, il
reato astrattamente previsto è uno solo, ma in concreto
lo stesso può venire realizzato indifferentemente da una
o più delle condotte tipizzate dalla norma, senza che la
modalità di esecuzione - naturalisticamente unitaria o
plurima - incida sul carattere, invariabilmente unitario, del
reato posto in essere dal reo.
Al contrario, le disposizioni a più norme contengono
tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie
legislativamente previste;
ciò in quanto le diverse condotte, lungi dall'essere tra
loro equipollenti ed alternative, non rappresentano
semplicemente una diversa manifestazione modale della
medesima fattispecie criminosa, bensì costituiscono
differenti elementi materiali di altrettanti reati.
La distinzione è foriera di rilevanti conseguenze
applicative, giacchè, nel primo caso, l'eventuale
realizzazione congiunta di più condotte lascia intatto il
carattere unitario del reato; nel secondo caso, invece, la
violazione di ciascuna fattispecie implica l'integrazione di
altrettante ipotesi di reato, ognuna dotata di una
autonoma rilevanza, determinando pertanto l'operatività
della disciplina in materia di concorso di reati.
1.4. Tanto premesso, lo sguardo deve volgersi
all'individuazione dei criteri discretivi, che consentano di
discernere le ipotesi nelle quali si versi in una, anzichè
nell'altra specie di norma penale mista.
La tematica dell'unità o pluralità di reati è stata
affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo
ad altre norme incriminatrici presenti nel codice penale o
in leggi speciali, le quali, al pari dell'art. 642 cod. pen., sono
(o erano) costruite mediante l'inserimento, in un unico
articolo, di una molteplicità di condotte materiali.
Si pensi, anzitutto, a quel costante orientamento
giurisprudenziale, in base al quale "l'art. 216, n. 1, L. Fall.
è una norma a più fattispecie, in quanto le condotte da
essa previste sono ad un tempo plurime, alternative,
equipollenti e tra loro fungibili, sicchè quando ci si
riferisce ad una pluralità di "fatti" non si richiede la
contestuale presenza di più fattispecie diverse descritte
negli artt. 216 e 217 ma la reiterazione della condotta,
comunque sussumibile in entrambe o in ciascuna delle
due ipotesi, con la conseguenza che anche fatti dello
stesso tipo, e riferibili alla stessa ipotesi di bancarotta,
sono sufficienti ai fini dell'applicazione di quella
circostanza aggravante": ex plurimis Cass. 8327/1998 rv
211367; SSUU 21039/2011 Rv. 249667.
Principi di analogo tenore sono stati altresì enunciati,
in materia di stupefacenti, in relazione al D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73 il quale, secondo un indirizzo consolidato e
ribadito anche in tempi recenti (Cass. 9477/2009 Rv.
246404; Cass. 36523/2008 Rv. 242014;
Cass. 22588/2005, Rv. 232094; Cass. 230/2000 Rv.
215175) "costituisce norma a più fattispecie tra loro
alternative. Con la duplice conseguenza: da un lato, della
configurabilità del reato allorchè il soggetto abbia posto
in essere anche una sola delle condotte ivi previste; e,
dall'altro, per quanto qui interessa, dell'esclusione del
concorso formale di reati quando un unico fatto concreto
integri contestualmente più azioni tipiche alternative, nel
qual caso le condotte illecite minori perdono la loro
individualità e vengono assorbite nell'ipotesi più grave".
Sul punto, si è peraltro precisato che, affinchè le
condotte illecite minori perdano la loro individualità e
vengano assorbite nell'ipotesi più grave, occorre che si
verifichino le seguenti circostanze: a) che si tratti dello
stesso oggetto materiale; b) che le attività illecite minori
siano compiute dallo stesso soggetto che ha commesso
quelle maggiori o dagli stessi soggetti che ne rispondono
a titolo di concorso; c) che le condotte siano contestuali e
cioè si verifichi il susseguirsi di vari atti, sorretti da un
unico fine, senza apprezzabili soluzioni di continuità.
Qualora, invece, le differenti azioni tipiche siano
distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico,
esse costituiscono più violazioni della stessa disposizione
di legge e quindi distinti reati; unificabili eventualmente
per la continuazione, se commessi dallo stesso soggetto o
dagli stessi soggetti in concorso, in presenza del disegno
criminoso unitario: Cass. 230/1999 RV 215175;
Cass. 25276/2002 Rv. 222013; Cass. 22588/2005 Rv.
232094; Cass. 9477/2009 Rv. 246404; Cass. 8163/2009
Rv. 246211.
Sulla problematica in esame sono, poi, intervenute
anche le SSUU le quali, con la sentenza n 22902/2001,
Tiezzi, rv 218871, in relazione all'ormai abrogato art. 12
del D.L. n. 143 del 1991 conv. in L. n. 197 del 1991, nella
dichiarata consapevolezza della difficoltà di rinvenire
criteri univoci di risoluzione del problema, ritennero di
impostarlo "essenzialmente alla stregua di una corretta
interpretazione letterale e logica" della disposizione,
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puntualizzando che "in linea di massima si può ritenere
valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle
varie condotte ipotizzate, configuranti uno o più reati a
seconda che costituiscano ontologicamente diverse
manifestazioni esteriori di una sola situazione di fatto
rivestente lo stesso disvalore sociale, ovvero
rappresentino
situazioni
strutturalmente
fenomenicamente e cronologicamente distinte anche in
relazione alle offese arrecate".
L'esame della suddetta giurisprudenza, consente,
quindi, di concludere che il riconoscimento della natura
di norma a più fattispecie viene rimesso al riscontro
cumulativo di un'identità oggettiva (devono avere uno
stesso oggetto materiale), soggettiva (devono essere
compiute dallo stesso soggetto), cronologica (devono
essere contestuali) e psicologico-funzionale (devono
essere indirizzate verso un unico fine) tra le diverse
condotte penalmente sanzionate.
Soltanto ove la verifica abbia esito positivo è possibile
affermare che ci si trova al cospetto di un unico titolo di
reato, cosicchè il reo, anche laddove abbia commesso
plurime violazioni della medesima norma, sarà chiamato
a rispondere di un solo illecito, sebbene integrato sotto
l'aspetto materiale da una pluralità di condotte.
Al di fuori del perimetro così delineato, ciascuna
violazione della disposizione incriminatrice si tradurrà, al
contrario, in altrettanti reati quante siano state le
condotte effettivamente realizzate dall'agente.
1.5. Ciò chiarito, può affermarsi che l'art. 642 cod. pen.
si configura quale norma penale mista del tutto peculiare,
giacchè accorpa in sè sia la qualifica di disposizione a più
norme (nel rapporto tra le condotte previste nei commi 1
e 2) sia quella di norma a più fattispecie (in riferimento
alle condotte previste all'interno di ciascun comma).
Come precisato dalle SSUU cit., l'esegesi del dettato
normativo deve condursi alla stregua degli ordinari
canoni ermeneutici, affidandosi cioè a quei criteri che
orientano la comune attività d'interpretazione.
A completamento di questo primo momento
d'indagine, segue, poi, la necessaria verifica in ordine alla
sussistenza dei predetti presupposti fattuali di affinità tra
le diverse condotte tipiche in concreto realizzate, alla cui
ricorrenza
soltanto
è
subordinato
l'effettivo
riconoscimento della natura di norma a più fattispecie
nonchè la valutazione normativa delle stesse in guisa di
azione unitaria.
Nessuna indicazione può, invero, trarsi dal profilo
sanzionatorio, il quale, essendo prevista la stessa pena sia
nel primo che nel comma 1, risulta nella specie del tutto
neutro ai fini che ci occupano.
Neppure la previsione formale di un'aggravante solo
nel comma 2 si rivela decisiva, trattandosi di una mera
imprecisione di tecnica legislativa, che deve
ragionevolmente essere corretta in sede ermeneutica
mediante la riferibilità della stessa a tutte le ipotesi ex art.
642 cod. pen. (cfr. Cass., 13 novembre 2003, n. 2506, Rv.
227891).
Quanto alla relazione che intercorre tra i due commi,
deve escludersi un rapporto di alternatività formale tra le
condotte tipizzate nel primo e nel secondo comma,
rappresentando piuttosto fattispecie di reato differenti e
dotate di autonoma rilevanza penale.
Indice sintomatico della infungibilità delle diverse
ipotesi criminose appare, in primis, la netta separazione
delle stesse in due commi distinti; collocazione che, pur
non potendo assurgere ad elemento in sè solo decisivo,
evidenzia in modo plastico una diversità ontologica tra le
varie condotte sanzionate.
Segnatamente, da un raffronto strutturale delle cinque
differenti ipotesi delittuose emergono, infatti, tre gruppi
di condotte, distinti già dal punto di vista fenomenico:
uno, comprensivo di comportamenti che si sostanziano
in atti violenti su cose o persone (ipotesi sub a e c); un
altro, concernente fatti di falso materiale (ipotesi sub b ed
e); ed infine, un ultimo, che include esclusivamente una
condotta di falso ideologico (ipotesi sub d).
Ora, ciascun comma dell'art. 642 cod. pen. incrimina,
con una corrispondenza quasi perfetta, una soltanto delle
condotte - fenomenologicamente distinte - incluse in
ognuno dei suddetti gruppi:
in particolare, il comma 1 punisce le ipotesi sub a) e
b), mentre il comma 2 quelle sub c), d), e).
Se ne desume che la collocazione dei vari
comportamenti è il frutto di una meditata scelta
legislativa, come a voler distribuire, in due autonomi titoli
di reato, ipotesi criminose eterogenee, da tener anche
prima facie separate in diversi commi.
Il che trova conferma nella intitolazione della norma
in questione, peraltro rimasta significativamente invariata
a seguito della riforma apportata con la L. n. 273 del 2002,
la quale ha affiancato alle tradizionali ipotesi sub a) c) le
altre attualmente sanzionate;
difatti, già la locuzione "e" contenuta nella rubrica
("Fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e
mutuazione fraudolenta della propria persona") certifica
la voluntas legis, ribadita in occasione della novella, di
prevedere due differenti fattispecie delittuose, e non un
unico titolo di reato (presumibilmente, la "frode
assicurativa") alternativamente realizzabile da una
qualsiasi delle cinque condotte tipiche.
Ad ulteriore sostegno, si osservi che le diverse ipotesi
comprese in ciascun comma divergono altresì sia sotto
l'aspetto oggettivo, sia per disvalore sociale.
A ben vedere, infatti, nell'ambito del secondo gruppo
diverso è l'oggetto su cui cade il fatto di falsità materiale:
nell'ipotesi sub b) "una polizza o la documentazione
richiesta per la stipulazione di un contratto di
assicurazione", mentre nell'ipotesi sub c) "elementi di
prova o documentazione relativi al sinistro".
Inoltre, che il terzo gruppo di condotte sia costituito
da un fatto di falsità ideologica previsto unicamente nel
comma 2 è coerente con la sistemazione delle varie
fattispecie operata dalla riforma del 2002, la quale, ha
accentrato le tre ipotesi delittuose di cui al comma 2 sul
comune presupposto di un sinistro, reale o solo
falsamente denunciato.
Ma la differenza tra le varie ipotesi si coglie
maggiormente all'interno del primo gruppo.
Benchè tutte le ipotesi delittuose ivi previste siano
dirette a protezione dell'unico bene giuridico del
patrimonio dell'ente assicurativo, è evidente che gli atti di
danneggiamento dei beni assicurati e gli atti violenti sulla
persona del danneggiato esprimano un grado di
riprovazione diverso, più o meno intenso a seconda
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dell'oggetto materiale su cui incide la condotta
fraudolenta, sicchè la collocazione in due commi distinti
pare tesa proprio a valorizzare tale distanza (dis)valoriale.
Coniugando, quindi, il suddetto profilo oggettivo con
quello teleologia?, è del tutto comprensibile e logico che
fatti aventi oggetti materiali diversi, oltre che connotati da
una carica di disvalore sociale variabile, siano stati
collocati in due distinti commi, proprio a valorizzarne la
distanza anche in termini di intensità lesiva; con la
coerente conseguenza che, allorquando siano state
realizzate più condotte tipiche previste dai due commi,
devono ritenersi integrati illeciti autonomi, la cui
individualità non può certo essere assorbita in presenza di
situazioni
ontologicamente
ed
oggettivamente
eterogenee, anche in relazione alle offese arrecate.
Detta ricostruzione non è stata scalfita neppure dalla
novella del 2002, la quale, nell'introdurre un ampliamento
delle condotte punibili in ambedue i commi, ha soltanto
reso più complessa la struttura dell'art. 642 cod. pen.,
attribuendo a ciascun comma la natura di norma a più
fattispecie.
L'introduzione di ulteriori condotte punibili assume
rilievo per la soluzione non tanto del problema del
rapporto tra le condotte previste nei commi 1 e 2, quanto
del separato problema del rapporto tra le condotte
tipiche di ciascun comma.
Vigente la versione originaria risalente al Co.Ro., le
uniche due condotte ivi sanzionate si ponevano in
relazione di alterità formale, con la conseguenza che,
essendo infungibili a causa della differente carica di
disvalore sociale connessa alla diversità del loro oggetto
materiale, l'art. 642 cod. pen. costituiva unicamente una
disposizione a più norme.
Come sopra chiarito, tale qualificazione va
confermata anche in seguito alla riforma normativa, con
la puntualizzazione che l'alternatività formale, che prima
concerneva solo le ipotesi di danneggiamento dei beni
assicurati e di mutilazione della propria persona, va oggi
estesa al rapporto tra le nuove ipotesi contemplate
rispettivamente nel primo e nel secondo comma, in
ragione della difformità oggettiva che caratterizza le
stesse.
In riferimento alla seconda problematica (rapporto tra
le condotte tipiche di ciascun comma), giova rilevare che
il legislatore della riforma, pur potendo modificare
l'impianto normativo dell'art. 642 cod. pen., ha ritenuto di
confermare la separazione delle fattispecie in commi
distinti.
La scelta legislativa, evidentemente, è stata ispirata da
un intento preciso: quello, cioè, di accorpare ipotesi
omogenee, da un lato, e di tenere separate ipotesi
eterogenee, dall'altro.
Nella ricerca dei tratti comuni alle varie fattispecie
soccorre il comma 2, il quale contiene un ventaglio di
condotte affini quanto al loro presupposto fattuale, atteso
che tutte postulano l'esistenza, reale o falsamente
denunciata, di un sinistro. Sinistro che, invece, non è
richiesto per la realizzazione delle fattispecie di cui al
comma 1, posto che esse o prescindono da un siffatto
evento oppure si pongono in epoca cronologicamente
anteriore allo stesso.
Che, poi, l'evento lesivo sia realmente avvenuto, sia
stato oggetto di una falsa denuncia ovvero, pur essendosi
verificato, le conseguenze siano state meno gravi di quelle
artatamente aggravate o gli elementi probatori o
documentali dello stesso siano stati fraudolentemente
distrutti, alterati o precostituiti, non riveste alcun rilievo;
ciò che conta, e che rende le condotte truffaldine del
comma 2 espressione di una situazione identica dal punto
di vista ontologico, fenomenico e cronologico, è che i
comportamenti fraudolenti siano tutti successivi ad un
sinistro, sia o no questo realmente accaduto.
Di conseguenza, le condotte ivi previste
rappresentano ontologicamente diverse modalità di
esecuzione alternative di un medesimo illecito, e la
violazione di due o più di esse non da luogo ad una
pluralità di reati in concorso - ed eventualmente in
continuazione - tra loro, bensì ad un unico titolo di reato:
si può, quindi affermare che i due commi dell'art. 642 cod.
pen. costituiscono, ciascuno, una norma a più fattispecie.
Applicando i suddetti principi alla concreta fattispecie
in esame, deve allora concludersi che la condotta
contestata all'imputata al capo sub b) integra, in realtà,
l'ipotesi criminosa di cui all'art. 642 cod. pen., comma 2 che
concorre con quella contestata al capo sub a).
Pertanto, la sentenza impugnata dev'essere annullata
alla stregua del seguente principio di diritto: "l'art. 642 cod.
pen. si configura quale norma penale mista del tutto
peculiare, giacchè accorpa in sè sia la qualifica di
disposizione a più norme (nel rapporto tra le condotte
previste nel primo e nel secondo comma) sia quella di
norma a più fattispecie (in riferimento alle condotte
previste all'interno di ciascun comma). Di conseguenza,
poichè ciascun comma prevede ipotesi diverse di reato,
ove ne ricorrano gli estremi fattuali, le medesime
concorrono fra di loro" 2. manifesta illogicità della
motivazione: fondata deve ritenersi, infine, anche la
seconda censura dedotta dalla ricorrente.
2.1. Sul punto, in via preliminare, è opportuno
rammentare due principi di diritto.
Innanzitutto, quello secondo il quale "in tema di
motivazione della sentenza, il giudice di appello che
riformi totalmente la decisione di primo grado ha
l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio,
alternativo, ragionamento probatorio e di confutare
specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione
della prima sentenza, dando conto delle ragioni della
relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la
riforma del provvedimento impugnato": SSUU
33748/2005 Rv. 231679.
In secondo luogo, in tema di valutazione della
consulenza tecnica di parte, ex art. 233 cod. proc. pen.,
questa Corte di legittimità ha enunciato i seguenti
principi:
a) la consulenza di parte, che è atto delle indagini
preliminari, assume funzione probatoria, assimilabile alla
perizia, quando la stessa sia acquisita dal giudice con il
consenso delle parti, ovvero, in caso di dissenso, si
proceda all'audizione del consulente: Cass. 10918/1992
Rv. 192881; Cass. 7663/2004 Rv. 230824; Cass.
3986/2011 Rv. 251746;
b) in tema di valutazione della prova, atteso il
principio della libertà di convincimento del giudice e della
insussistenza di un regime di prova legale, il presupposto
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO
5
RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
della decisione è costituito dalla motivazione che la
giustifica. Ne consegue che il giudice può scegliere, tra le
varie tesi prospettate dai periti e dai consulenti di parte,
quella che maggiormente ritiene condivisibile, purchè
illustri le ragioni della scelta operata (anche per rapporto
alle altre prospettazioni che ha ritenuto di disattendere) in
modo accurato attraverso un percorso logico congruo
che il giudice di legittimità non può sindacare nel merito:
Cass. 46359/2007 Rv.
239021.
Alla stregua dei suddetti principi di diritto, non resta
che verificare se la Corte territoriale ad essi si sia attenuta
e, quindi, se le censure dedotte dalla ricorrente parte
civile siano o no fondate.
2.2. Come si è già anticipato, la Corte ha totalmente
riformato la sentenza di condanna di primo grado,
assolvendo l'imputata, sebbene ex art. 530 cod. proc. pen.,
comma 2 con la formula "perchè il fatto non sussiste",
ritenendo, in pratica che:
- le C.t. non potevano essere ritenute attendibili sia
perchè di parte, sia perchè avevano presentato
conclusioni perplesse;
- insufficiente appariva anche l'ulteriore elemento
della mancanza di segni di effrazione in quanto gli
inquirenti avevano "omesso di verificare chi, oltre alla S.,
fosse in possesso delle chiavi di accesso all'opificio e
quindi potesse entrarvi liberamente";
- il primo giudice aveva ingiustamente svalutato le
deposizioni dei testi Va., Ca. e D.T. - che avevano
dichiarato di aver visto prima dell'incendio nel magazzino
tessuti pregiati - sulla base di una apodittica affermazione
secondo la quale "il tessuto di più elevato valore
commerciale ... sia stato riposto altrove la sera
dell'incendio per evitare che venisse danneggiato dalle
fiamme".
Ora, quanto alla valutazione delle C.T. - acquisite agli
atti con il consenso di tutte le parti - e all'esame dei
consulenti tecnici, avvenuto nel giudizio di primo grado,
la motivazione addotta dalla Corte territoriale (pag. 6-7),
per confutare l'esito delle medesime, va ritenuta perplessa
e, sostanzialmente carente ed apodittica.
Infatti, a fronte dell'amplissima motivazione addotta
sul punto dal primo giudice, il quale, con argomenti
tecnici - desunti dalle Consulenze tecniche degli ingg. V.
e C. - aveva concluso che l'incendio aveva avuto
sicuramente natura dolosa ed era stato appiccato con
benzina per autotrazione (cfr pag. 3 ss della sentenza di
primo grado), la Corte territoriale, da una parte, sembra
non mettere in discussione la circostanza che l'incendio
ebbe natura dolosa, ma, dall'altra, poi, in modo
contraddittorio, ritiene che le Consulenze tecniche siano
inattendibili, sostenendo, in modo pressochè apodittico,
che le suddette Consulenze tecniche avevano addotto
conclusioni "incerte, confuse e non appaganti", facendo
leva, da una parte, su brani estrapolati dalla C.t. dell'ing.
V. e, dall'altra, su una pretesa illegittimità delle modalità
di prelevamento dei campioni esaminati, laddove, l'esatto
contrario risulta dalla sentenza di primo grado nella
quale, da una parte, si da atto della correttezza dei prelievi
eseguiti e, dall'altra, si afferma che l'ing. V. aveva
concluso, anche in sede dibattimentale, "che erano state
riscontrate nei campioni numerose molecole che avevano
consentito di accertare la presenza di benzina per
autotrazione (le cui molecole sono diverse dalla cd.
benzina per smacchiare) nelle immediate vicinanze dei
punti in cui erano stati prelevati i campioni" (pag. 4
sentenza di primo grado).
E' del tutto evidente, quindi, che la Corte territoriale
ha violato il costante principio di diritto sopra richiamato
(SSUU 33748/2005 Rv. 231679), in quanto, ha
completamente riformato la motivazione addotta dal
primo giudice, senza confutare specificamente i più
rilevanti argomenti della motivazione della prima
sentenza, e senza dar conto delle ragioni della relativa
incompletezza o incoerenza. Al contrario, la Corte ha
addotto una motivazione perplessa e contraddittoria, in
quanto, pur dichiarando di volersi adeguare ai principi di
diritto in ordine alla valutazione della C.T. di parte (cfr
pag. 3-4 della sentenza impugnata in cui vengono
richiamati i principi rammentati innanzi al 2.1. sub b),
poi, di fatto, li ha disattesi sulla base di una preconcetta
inattendibilità della C.t.
di parte, senza spiegare, sulla base di quali elementi
scientifici e fattuali le conclusioni delle Consulenze
tecniche degli ingg.
V. e C., non fossero attendibili contrariamente a
quanto ritenuto dal primo giudice.
Nello stesso vizio, la Corte, incorre, poi, quando,
dopo aver considerato - sia pure obtorto collo - la natura
dolosa dell'incendio, conclude affermando che non vi era
la prova che fosse stata la S. ad appiccarlo perchè "ben
poteva essere stato appiccato da parte di un qualsiasi
soggetto operanti dall'interno del capannone" e che
l'accusa aveva omesso di "verificare chi, oltre a lei ndr: la
S., fosse in possesso delle chiavi di accesso all'opificio e
quindi potesse entrarvi liberamente".
Sul punto, deve osservarsi, alla stregua della lettura
della sentenza di primo grado e dei motivi di appello
dedotti dalla stessa S., che la questione delle chiavi in
possesso di altre persone diverse dall'imputata (e dal di lei
marito), non era mai stata neppure dedotta come
semplice allegazione: non si vede, quindi, per quali
ragioni il P.M. avrebbe dovuto indagare su un fatto che
neppure la difesa aveva mai prospettato. Da ciò
consegue, che la motivazione addotta sul punto dalla
Corte, deve ritenersi incongrua ed illegittima in quanto si
fonda su un argomento del tutto ipotetico privo di ogni
qualsivoglia minimo riscontro probatorio.
Ugualmente manifestamente illogica e contraddittoria
è la motivazione nella parte in cui, nel riformare la
sentenza di primo grado, la Corte sostiene che vi
sarebbero seri dubbi sulla natura della merce incendiata.
Sul punto, questa Corte si limita ad osservare che, a
fronte della motivazione con la quale il primo giudice, alla
stregua di un rigoroso esame degli atti processuali, aveva
concluso che sussistevano tutti gli elementi della tentata
truffa (cfr pag. 5 ss della sentenza di primo grado), la
Corte di Appello liquida la questione in poche battute
(pag. 8, par. 5.5.) in quanto, senza alcun esame di tutto il
complesso compendio probatorio indicato dal primo
giudice, sostiene che esisterebbero "seri dubbi sulla
ricostruzione operata dal primo giudice" in quanto aveva
svalutato "le deposizioni testimoniali dei testi Va., Ca. e
D.T.".
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO
6
RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
Ma, la Corte territoriale, non si è avveduta che, in
realtà, il primo giudice, non aveva affatto svalutato le
suddette testimonianze, ma, molto più semplicemente,
non le aveva ritenute utili alla decisione in quanto
"nessuno dei testi indicati dalla difesa ( Va., C. e D.T.) è
stato poi in grado di fornire indicazioni certe sulla
tipologia e qualità dei tessuti presenti nel capannone la
sera dell'incendio".
La Corte, poi, tace completamente sulla
documentazione fiscale, sulla C.t. del perito industriale
B., sulla stima dell'ing. c. e cioè su tutto quel complesso
compendio probatorio che il primo giudice aveva
esaminato.
In conclusione, il ricorso della parte civile dev'essere
accolto integralmente e la sentenza, sia pure ai soli effetti
civili, dev'essere annullata con conseguente rinvio davanti
al giudice civile al quale spetterà rivalutare integralmente
tutta la vicenda e, quindi, stabilire, sia pure ai soli effetti
civili: a) se la S. si sia resa colpevole dei fatti di cui ai capi
sub b) e c) dell'imputazione, alla stregua del principio di
diritto di cui al precedente 1.5.; b) in caso affermativo,
liquidare l'eventuale danno subito dalla costituita parte
civile.
Spese al definitivo.
P.Q.M.
ANNULLA la sentenza impugnata ai soli effetti civili,
con rinvio al giudice civile competente per valore in
grado di appello per nuovo giudizio; Spese al definitivo.
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2014
TRUFFA CONTRATTUALE
CASS. PEN. SEZ. FERIALE, 03-09-2013, N. 51760 (RV.
258068)
LA MASSIMA
In tema di truffa contrattuale, l'ingiusto profitto, con correlativo
danno del soggetto passivo, consiste essenzialmente nel fatto
costituito dalla stipulazione del contratto, indipendentemente dallo
squilibrio oggettivo delle rispettive prestazioni; ne consegue che la
sussistenza o meno della circostanza aggravante del danno
patrimoniale di rilevante gravità deve essere valutata con esclusivo
riguardo al valore economico del contratto in sé, al momento della
sua stipulazione, e non con riguardo all'entità del danno risarcibile,
che può differire rispetto al valore, in ragione dell'incidenza di
svariati fattori concomitanti od anche successivi rispetto alla stipula.
(Rigetta, App. Milano, 10/01/2013)
LA SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE FERIALE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DUBOLINO Pietro - Presidente Dott. IZZO Fausto - Consigliere Dott. BARBARISI Maurizio - Consigliere Dott. ANDREAZZA Gastone - Consigliere Dott. BELTRANI Sergio - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.L. N. IL (OMISSIS);
C.P.W. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 1946/2012 CORTE
APPELLO di MILANO, del 10/01/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/09/2013 la
relazione fatta dal Consigliere Dott. SERGIO
BELTRANI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
Enrico Delehaye, che ha concluso per il rigetto del
ricorso;
Udito il difensore della parte civile Z.L., che si è
riportato alla propria memoria in atti ed alle conclusioni
scritte che ha definito, chiedendo dichiararsi
inammissibile il ricorso, o comunque il suo rigetto;
Udito il difensore degli imputati, che si è riportato al
ricorso, chidendone l'accoglimento.
Svolgimento del processo
1. La Corte d'appello di Milano, con la sentenza
indicata in epigrafe, ha confermato, quanto
all'affermazione di responsabilità penale e civile, la
sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 1
luglio 2011, che aveva dichiarato gli odierni ricorrenti
colpevoli di concorso in truffa aggravata, condannandoli
- ritenute per entrambi le circostanze attenuanti generiche
equivalenti alla contestata aggravante - alle pene per
ciascuno ritenute di giustizia, condizionalmente sospese,
oltre alle statuizioni accessorie, anche di natura civilistica.
La Corte di appello ha riformato la sentenza di primo
grado limitatamente a queste ultime, disponendo la
condanna degli imputati anche alla rifusione delle spese
patite dalla parte civile Z. nel giudizio civile
originariamente intentato, poi abbandonato a seguito
dell'opzione per l'azione civile in sede penale.
2. Avverso tale provvedimento, hanno proposto
congiuntamente ricorso per cassazione gli imputati,
personalmente, deducendo i motivi di seguito enunciati
nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come
disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
1 - erronea applicazione della legge penale (lamentano
in proposito l'improcedibilità ed improseguibilità
dell'azione penale per difetto di querela, non risultando
configurabile la circostanza aggravante di cui all'art. 61
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO
7
RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
c.p., n. 7, per le ragioni già indicate nell'atto di appello, cui
la Corte di appello non avrebbe risposto, limitandosi a
riportare una decisione giurisprudenziale di legittimità;
citano a sostegno del proprio assunto una decisione
giurisprudenziale di merito);
2 - revoca tacita dell'atto di costituzione di parte civile
ex art. 82 c.p.p., comma 2, e conseguente nullità delle
statuizioni in favore della parte civile (lamentano in
proposito che la Corte di appello non avrebbe offerto
alcuna dimostrazione della sussistenza e della consistenza
dei danni morali liquidati e comunque che la medesima
azione civile era stata inammissibilmente coltivata dalla
parte civile anche in sede civile);
3 - erronea applicazione della legge penale, nonchè
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione
(lamentano in proposito la carenza del dolo e dei raggiri
ed artifizi necessari a configurare la c.d. truffa
contrattuale, nonchè l'assenza del danno);
4 - erronea valutazione delle circostanze ex art. 133
c.p., quanto al mancato riconoscimento del beneficio della
non menzione.
Hanno concluso chiedendo l'annullamento della
sentenza impugnata, con le conseguenti statuizioni, anche
ex art. 129 c.p.p., senza rinvio, ovvero con rinvio quanto
alle statuizioni civili; in subordine, hanno sollevato
questione di legittimità costituzionale degli artt. 74, 75 e
82 c.p.p., per contrasto con gli artt. 24 e 25 Cost., nella
parte in cui ammettono la contemporanea prosecuzione
della stessa azione civile in sede civile e penale.
In data 5 agosto 2013 la parte civile costituita ha
depositato memoria difensiva con la quale ha chiesto
dichiararsi inammissibile o comunque rigettarsi il ricorso.
3. All'odierna udienza pubblica, le parti presenti
hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte
Suprema ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato
mediante lettura in udienza.
Motivi della decisione
Il ricorso è, nel suo complesso, infondato e va
rigettato.
1. E' necessario premettere che il giudice d'appello
non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni
svolte nell'impugnazione, giacchè le stesse possono essere
disattese per implicito o per aver seguito un differente
iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la
ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., sez. 6^, n.
1307 del 26 settembre 2002, dep. 14 gennaio 2003,
Delvai, rv. 223061).
In presenza di una doppia conformare affermazione
di responsabilità, va, peraltro, ritenuta l'ammissibilità della
motivazione della sentenza d'appello per relationem a
quella della decisione impugnata, sempre che le censure
formulate contro la sentenza di primo grado non
contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già
esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello,
nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli
elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è
tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite
dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia
soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute
esatte e prive di vizi logici, non specificamente e
criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di
primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a
vicenda, confluendo in un risultato organico ed
inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento
per giudicare della congruità della motivazione, tanto più
ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure
con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo
grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi
prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicchè
le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito
costituiscano una sola entità (Cass. pen., sez. 2^, n. 1309
del 22 novembre 1993, dep. 4 febbraio 1994, Albergamo
ed altri, rv. 197250; sez. 3^, n. 13926 del 1 dicembre
2011, dep. 12 aprile 2012, Valerio, rv. 252615).
1.1. Inoltre, secondo consolidato orientamento di
questa Corte Suprema (per tutte, Sez. 6^, n. 34521 dell'8
agosto 2013, rv.
256133), è inammissibile per difetto di specificità il
ricorso che riproponga pedissequamente le censure
dedotte come motivi di appello (al più con l'aggiunta di
frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente
assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza
impugnata) senza prendere in considerazione, per
confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi
di appello non siano stati accolti.
2. Ciò premesso, deve ritenersi che il ricorso sia, nel
suo complesso, infondato, poichè un motivo è infondato,
gli altri generici e manifestamente infondati.
2.1. Il primo motivo è infondato.
Deve premettersi che la c.d. truffa contrattuale si
realizza per il solo fatto che il deceptus sia addivenuto
alla stipula di un contratto che altrimenti, in difetto dei
raggiri ed artifizi posti in essere dal deceptor, non
avrebbe stipulato.
La Corte di appello (f. 4), nel ritenere la
configurabilità, nel caso di specie, della circostanza
aggravante di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n. 7, ha fatto
corretta applicazione dell'orientamento di questa Corte
Suprema (Sez. 2^, sentenza n. 12027 del 23 settembre 23 dicembre 1997, CED Cass. 210457; Sez. 5^, sentenza
n. 7193 del 13 gennaio - 27 febbraio 2006, CED Cass.
233633), che il collegio condivide ed intende ribadire,
secondo il quale, coerentemente con la predetta
premessa:
"in tema di truffa contrattuale, l'ingiusto profitto con
correlativo danno del soggetto passivo consiste
essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del
contratto, indipendentemente dallo squilibrio oggettivo
delle rispettive prestazioni; ne consegue che la sussistenza
o meno della circostanza aggravante del danno
patrimoniale di rilevante gravità deve essere valutata con
esclusivo riguardo al valore economico del contratto in
sè, al momento della sua stipulazione, e non con riguardo
all'entità del danno risarcibile, che può differire rispetto al
predetto valore, in ragione dell'incidenza di svariati
fattori, concomitanti od anche successivi rispetto alla
stipula".
Ed, in fatto, è il ricorrente a limitare l'odierna
doglianza alla citazione di un non condivisibile (non
esaminando adeguatamente la struttura della c.d. truffa
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO
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RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
contrattuale) precedente di merito, senza contestare la
rilevante gravità del danno cagionato dalla parte civile ove
si debba - come appena chiarito - fare riferimento
all'uopo al valore del contratto stipulato (pari nel caso di
specie a 120.000 Euro).
2.2. Il secondo motivo è, in entrambe le sue
articolazioni, generico e manifestamente infondato.
2.2.1. La Corte di appello (f. 4) ha espressamente
affermato di ritenere corretta la quantificazione del danno
(inteso nella sua globalità, e quindi anche con riguardo a
quello morale), all'evidenza rifacendosi alle ampie e
condivise argomentazioni della sentenza di primo grado,
che riporta in premessa, ed a quelle della parte civile, pure
in precedenza riportate dalla Corte di appello.
2.2.2. E' d'altro canto pacifico che l'azione civile de
qua, inizialmente intentata dinanzi al giudice civile, sia
stata trasferita, come consentito, nella odierna sede
penale, e non viceversa (come previsto dalla richiamata
disposizione di cui all'art. 82, comma 2, c.p.p.).
Invero, gli stessi ricorrenti a f. 8 del ricorso riportano
un chiarissimo passo della ordinanza all'uopo emessa in
data 13 luglio 2011 dal giudice civile assegnatario del
procedimento
scaturito
dall'originario
esercizio
dell'azione civile in sede civile; d'altro canto, anche nella
conclusiva sentenza civile del 19 agosto 2012, allegata al
ricorso, si legge inequivocabilmente che "il Tribunale di
Lodi... ai sensi dell'art. 75 c.p.p., ha accertato la rinuncia
agli atti del giudizio civile da parte della Z.", non
valorizzando quindi il comportamento processuale
dell'avv. BRIGIDA cui i ricorrenti hanno fatto insistito
riferimento.
Ciò rende la doglianza dei ricorrenti manifestamente
infondata, ed al tempo stesso all'evidenza manifestamente
infondata anche la questione di costituzionalità
conclusivamente sollevata dai ricorrenti, perchè gli artt.
74, 75 ed 82 c.p.p., non consentono la contemporanea
prosecuzione della stessa azione civile in sede civile e
penale, e nel caso di specie questa situazione non si è
verificata.
2.3. Il terzo motivo è generico e manifestamente
infondato.
Il ricorso ripropone pedissequamente o quasi le
censure dedotte come motivo di appello (con l'aggiunta
di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente
assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza
impugnata) senza prendere adeguatamente in
considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù
delle quali il relativo motivo di appello non è stato
accolto.
Peraltro, nel caso di specie, la Corte di appello, con
rilievi esaurienti, logici e non contraddittori, come tali
incensurabili in questa sede, ha adeguatamente illustrato
le ragioni poste a fondamento dell'affermazione di
responsabilità degli imputati in ordine alla truffa ascritta
loro, valorizzando (anche previo richiamo per relationem
della sentenza di primo grado, come si è già premesso
essere fisiologico in presenza di una doppia conforme
affermazione di responsabilità) le plurime dichiarazioni
testimoniali e le risultanze documentali acquisite (f. 1 ss.),
dalle quali ha desunto la configurabilità degli elementi
costitutivi della ritenuta truffa contrattuale (sotto il
profilo della materialità e dell'elemento psicologico, in
relazione ai raggiri ed artifizi consistiti nell'aver
dolosamente taciuto alla Z. - danneggiata per il sol fatto
di essere addivenuta alla stipula di un contratto che
altrimenti non avrebbe stipulato - le effettive condizioni
dell'immobile oggetto di compravendita inter partes), ed
affermando conclusivamente che "i fatti storici sono
sostanzialmente ammessi dallo stesso difensore e di
nessun interesse (oltre che non provato) è che C.L. non
vi avesse abitato, posto che per conoscere i difetti di un
bene non è necessario il fatto di avervi effettivamente
abitato".
2.4. Il quarto motivo è generico e manifestamente
infondato.
Ancora
una
volta,
il
ricorso
ripropone
pedissequamente o quasi le censure dedotte come motivo
di appello (con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti
contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della
correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in
considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù
delle quali il relativo motivo di appello non è stato
accolto.
Invero, la Corte di appello, con rilievi esaurienti,
logici e non contraddittori, come tali incensurabili in
questa sede, ha adeguatamente illustrato le ragioni poste a
fondamento del diniego del beneficio della non menzione
(l'unico beneficio costituente oggetto di appello, come si
evince dal riepilogo dei motivi di appello riportato a f. 2
della sentenza impugnata, la cui completezza non è stata
contestata dai ricorrenti), valorizzando (f. 5) in particolare
"la mancanza di ravvedimento", "l'insidiosità della
condotta" e "l'intensità del dolo" quali elementi ostativi
alla concessione del chiesto beneficio.
3. Il conclusivo rigetto, nel complesso, del ricorso
comporta, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed alla
rifusione delle spese patite dalla parte civile costituita, che
si liquidano come da dispositivo, secondo i nuovi
parametri introdotti dal D.M. 20 luglio 2012, n. 140.
3.1. Deve, in proposito, rilevarsi che, come chiarito
dalla Corte Suprema di Cassazione (Sez. un., sentenza n.
17405 del 2012), in tema di spese processuali, agli effetti
del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, il quale ha dato
attuazione al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2,
convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri,
cui devono essere commisurati i compensi dei
professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali,
sono da applicare ogni qual volta la liquidazione
giudiziale intervenga in un momento successivo alla data
di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al
compenso spettante ad un professionista che, a quella
data, non abbia ancora completato la propria prestazione
professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto
inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in
vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione
omnicomprensiva di "compenso" la nozione di un
corrispettivo unitario per l'opera complessivamente
prestata.
E' pur vero che, ai sensi dell'art. 13, comma 10, della
ancora successiva L. n. 247 del 2012, "Oltre al compenso
per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia
dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in
sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO
9
RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e
contributi eventualmente anticipati nell'interesse del
cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie,
la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al
comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e
documentazione delle spese vive". Il citato comma 6
della medesima disposizione stabilisce che "i parametri
indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia,
su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'art. 1,
comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o
successivamente il compenso non sia stato determinato
in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione
consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei
compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è
resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose
previste dalla legge". Tuttavia, non risultando ancora
emanato il decreto di cui alla citata L. n. 247 del 2012, art.
13, comma 6, la disposizione di cui al comma 10 del
medesimo articolo di legge deve ritenersi allo stato in
concreto non operante.
3.2. Le spese sostenute dalla parte civile vanno,
pertanto, liquidate come da dispositivo, con riguardo ai
soli compensi, in difetto della documentazione di esborsi
rimborsabili; non è dovuto il rimborso di spese
"forfettarie" o "generali"; sono dovuti gli accessori di
legge (IVA e CPA).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione
delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che
liquida in complessivi Euro duemila, più accessori come
per legge.
Così deciso in Roma, udienza pubblica, il 3 settembre
2013.
Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2013
CASS. PEN. SEZ. II, 06-12-2013, N. 51882 (RV. 258106)
LA MASSIMA
In tema di truffa, ricorre l'aggravante di cui all'art. 640,
comma secondo, n. 1, cod. pen., qualora il fatto sia commesso in
danno della società Lottomatica spa, che, pur se costituita come
società di capitali, svolge attività accessoria e meramente strumentale
rispetto all'Azienda autonoma monopoli di Stato, della quale è
concessionaria per la rete telematica e titolare unica dei nulla osta
all'esercizio degli apparecchi di gioco lecito, con il compito di
assicurare che la rete telematica contabilizzi le somme giocate, le
vincite ed il prelievo erariale unico e per tale ragione riveste la
qualifica di agente contabile, assoggettata di conseguenza al controllo
della Corte dei Conti. (Rigetta, Trib. lib. Bologna, 06/03/2013)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARMENINI Secondo Libero - Presidente Dott. IANNELLI Enzo - Consigliere Dott. CASUCCI Giuliano - rel. Consigliere Dott. IASILLO Adriano - Consigliere Dott. DI MARZIO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.S. N. IL (OMISSIS);
I.D. N. IL (OMISSIS);
avverso l'ordinanza n. 243/2013 TRIB. LIBERTA' di
BOLOGNA, del 06/03/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott.
CASUCCI GIULIANO;
sentite le conclusioni del PG Dott. CESQUI
Elisabetta, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con ordinanza in data 6 marzo 2013, il Tribunale di
Bologna, sezione per il riesame, ha confermato
l'ordinanza del GIP del Tribunale di Modena, con la
quale era stata disposta la misura cautelare degli arresti
domiciliari nei confronti di C.S. e I.D., perchè
gravemente indiziati di aver commesso le truffe aggravate
ai danni dello Stato di cui ai capi B, D ed F perchè,
simulando di essere tecnici della Lottomatica si
introducevano abusivamente nel sistema informatico
delle singole ricevitorie ed effettuavano giocate abusive
per Euro 151.001 presso la Tabaccheria (OMISSIS),
Euro 83.723 presso la ricevitoria " (OMISSIS)" ed Euro
79.350 presso la ricevitoria "(OMISSIS)" andando poi a
riscuotere i tagliandi vincenti presso altre ricevitorie.
Il Tribunale confermava il giudizio di sussistenza della
gravità indiziaria, in particolare quello relativo alla
correttezza della qualificazione giuridica non potendo
essere accolta la tesi difensiva secondo la quale si sarebbe
trattato di truffe semplici in quanto il danno sarebbe
ricaduto sui titolari delle singole ricevitorie.
Ed invero il danno provocato allo Stato è quello
derivante dalla abusiva effettuazione delle giocate senza
pagamento del corrispettivo, a nulla rilevando che quanto
richiesto dai Monopoli di Stato sia stato poi pagato dal
titolare della ricevitoria.
Sussisteva l'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 7; la
circostanza che la truffa di cui al capo F si fosse arrestata
a livello di tentativo (per avere la Lottomatica bloccato la
riscossione di eventuali vincite legate alle giocate
effettuate presso la ricevitoria " (OMISSIS)") era priva di
rilievo posto che per le altre ipotesi di reato la
consumazione si era realizzata.
La misura cautelare in atto era adeguata alle esigenze
cautelari ravvisate nel pericolo di reiterazione.
Contro tale decisione hanno proposto tempestivo
ricorso gli indagati, che ne hanno chiesto l'annullamento
per i seguenti motivi: - erronea applicazione della legge
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 10
RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
penale perchè la perdita patrimoniale è stata subita dalle
ricevitorie, ai titolari delle quali l'Amministrazione
Autonoma dei Monopoli di Stato ha intimato il
versamento di quanto dovuto in riferimento alle giocate
effettuate presso i loro sportelli ed ha avviato il
procedimento di revoca della concessione. La
Lottomatica s.p.a., essendo mera creditrice delle somme
relative agli importi giocati, non può essere vittima del
reato in questione. In ogni caso è una società privata; manifesta illogicità della motivazione per la parte in cui
l'ordinanza impugnata ha confermato la sussistenza
dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 7, perchè gli
importi incassati sono stati di Euro 22.057 conseguiti a
seguito degli incassi dei tagliandi emessi dalla Tabaccheria
"(OMISSIS)"; Euro 18.240 ed Euro 9.360 conseguiti con
l'incasso dei tagliandi emessi dalla ricevitoria (OMISSIS).
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è dedotto in maniera
inammissibile attraverso la indicazione di una serie di
elementi di natura fattuale, come tali non verificabili in
questa sede e comunque in contraddizione tra di loro. Da
un lato infatti si afferma che l'Amministrazione
Autonoma dei Monopoli di Stato (da ora in avanti
AAMS), accertato dal riscontro del rendiconto
settimanale comunicatole dalla Lottomatica s.p.a. il
mancato versamento dell' importo risultante a debito dal
relativo estratto conto, avrebbe provveduto ad intimare ai
ricevitori tramite raccomandata il versamento di quanto
dovuto entro il termine di cinque giorni, offrendo quindi
una rappresentazione di tipo fattuale che pone l'AAMS,
indiscutibilmente ente pubblico, come il soggetto offeso
dal reato che, come tale, si è attivato direttamente per il
recupero del dovuto (oggetto del profitto del reato), di
guisa che la Lottomatica apparirebbe relegata ad un ruolo
servente di mero gestore del sistema.
Dall'altro lato si afferma che la Lottomatica è una
società privata controllata dal gruppo De Agostini e
quotata nella Borsa Italiana.
Il provvedimento impugnato ha invece affermato che
le truffe hanno avuto come persona offesa i Monopoli di
Stato ed ha escluso che il danno sia stato sofferto dai
titolari delle singole ricevitorie, lasciando intendere che la
questione posta nella sede di merito fosse questa, non già
la natura pubblica o privata della Lottomatica.
Nè il ricorso deduce omessa risposta a doglianze
difensive svolte in sede di merito, in modo da consentire
in questa sede di verificare la sussistenza del vizio di
mancanza di motivazione. Allo stato non risulta
l'erroneità della decisione impugnata che riconduce il
danno direttamente ai Monopoli di Stato e quindi ad ente
pubblico.
Vale inoltre rammentare che le Sezioni Unite civili di
questa Corte hanno ripetutamente affermato che la
società Lottomatica s.p.a., concessionaria dell'Azienda
Autonoma dei Monopoli dello Stato per la rete telematica
e titolare unico dei nulla osta all'esercizio degli apparecchi
e congegni per il gioco lecito, avendo la stessa il compito
di assicurare che la rete telematica affidatale contabilizzi
le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico,
nonchè la trasmissione periodica di tali informazioni al
sistema centrale e di eseguire il versamento del prelievo
erariale unico relativo agli apparecchi collegati alla rete
telematica affidatale, riveste la qualifica di agente
contabile.
Da tanto consegue la sussistenza della giurisdizione
della Corte dei Conti in materia di responsabilità
contabile (del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 74 e del
R.D. 23 maggio 1924, n. 827, artt. 178 e 610), stante il
carattere pubblico dell'ente per il quale tale soggetto
agisce e del denaro o del bene oggetto della sua gestione,
mentre resta irrilevante, oltre che l'eventuale assenza, da
parte di quel soggetto, di contestazione della
responsabilità stessa, il titolo in base al quale la gestione è
svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico
impiego o di servizio, in una concessione amministrativa,
in un contratto e perfino mancare del tutto, potendo il
relativo rapporto modellarsi indifferentemente secondo
gli schemi generali, previsti e disciplinati dalla legge (Cass.
SU civ. 1.6.2010 n. 13330; conf. Cass. SU Civ. 4.12.2009
n 25495).
Nelle pronuncie riportate, pur non essendo
specificato se la Lottomatica sia una società c.d. in house,
sia da comunque atto che essa è incaricata di svolgere
attività accessoria, marginale e meramente strumentale
rispetto alla prestazione di servizio di interesse
economico di carattere generale svolto dalla AAMS, in
una posizione di subordinazione gerarchica, sicchè, se
pur costituita formalmente come società di capitali, non
appare essere "destinata (se non in via del tutto marginale
e strumentale) allo svolgimento di attività imprenditoriale
a non di lucro così da dover necessariamente operare al
di fuori del mercato" e sembra agire "in totale assenza di
un potere decisionale suo proprio" (cfr. Cass. S.U. Civ.
8.10 - 25.11.2013).
2. Il secondo motivo di ricorso è infondato. La
circostanza che le giocate risultate vincenti siano di
importo inferiore rispetto al valore complessivo delle
giocate effettuate, attraverso il fraudolento inserimento
nel sistema informatico gestito dalla Lottomatica, non
elimina che il profitto ingiusto sia pari all'importo
complessivo delle giocate ottenute fraudolentemente. La
riscossione delle giocate vincenti si pone come evento
ulteriore.
3. Il ricorso deve in conseguenza essere rigettato, con
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento
delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2013
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 11
RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
CASS. PEN. SEZ. II, 29-09-2009, N. 41498 (RV. 244943)
B.V.
Non è configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della
persona offesa dal reato di truffa in relazione ad una società per
azioni incaricata del servizio di raccolta, smaltimento e gestione
complessiva dei rifiuti a norma dell'art. 23, D.Lgs. n. 22 del
1997, in quanto la natura pubblica del servizio prestato e delle
funzioni svolte assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica
dei soggetti agenti, secondo la concezione funzionale oggettiva accolta
dagli artt. 357 e 358 cod. pen.. (Annulla senza rinvio, Trib. lib.
Palermo, 06 aprile 2009)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASUCCI Giuliano - Presidente
Dott. GENTILE Mario - Consigliere
Dott. FUMU Giacomo - Consigliere
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere
Dott. MANNA Antonio - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
B.V., nata a (OMISSIS);
avverso l'ordinanza del Tribunale di Palermo, in data
6.4.2009 depositata il 9.4.2009;
Sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere
Dott. Davigo Piercamillo;
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore
Generale, Dott. PASSACANTANDO Guglielmo, il
quale ha concluso chiedendo che l'ordinanza impugnata
sia annullata senza rinvio;
Udito il difensore della ricorrente, Avv. Pellegrino
Stefano, il quale ha concluso per l'accoglimento del
ricorso.
Osserva:
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con ordinanza del 16.3.2009, il Giudice per le
indagini preliminari presso il Tribunale di Marsala rigettò
la richiesta di revoca della misura interdittiva del divieto
di esercitare attività di impresa per mesi 2 disposta nei
confronti di B.V., indagata per il reato di truffa aggravata
in danno di Belice Ambiente S.p.A., qualificata come ente
pubblico, siccome partecipata da vari Comuni e dalla
Provincia Regionale di Trapani, nonchè esercente il
pubblico servizio di raccolta, smaltimento e gestione
complessiva dei rifiuti in A.T.O. (Ambito territoriale
ottimale) presso i Comuni che la partecipavano.
Avverso tale provvedimento l'indagata propose
appello ma il Tribunale di Palermo, con ordinanza del
6.4.2009, depositata il 9.4.2009, rigettò l'appello e
confermò il provvedimento impugnato.
Ricorre per cassazione il difensore dell'indagata
deducendo:
1. violazione di legge in quanto Belice Ambiente
S.p.A. sarebbe una società di diritto privato, anche se
soddisfa anche esigenze pubblicistiche; ricondotto il fatto
all'ipotesi di truffa di cui all'art. 640 c.p., comma 1, la
misura interdittiva non è consentita;
2. vizio di motivazione in ordine al mancato esame
delle doglianze svolte nei motivi di appello in relazione
alle conclusioni del consulente tecnico di parte; in
particolare la società Sicilia verde aveva stipulato non un
contratto di appalto, ma un contratto di noleggio a caldo,
sicchè non era tenuta ad altro che a fornire un autocarro
ed un conducente.
Il primo motivo di ricorso è fondato.
Non vi è dubbio che le società costituite ai sensi del
D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 23, siano finalizzate alla
realizzazione di un servizio pubblico.
Infatti il cit. art., i primi 4 commi stabiliscono: "1.
salvo diversa disposizione stabilita con legge regionale, gli
ambiti territoriali ottimali per la gestione dei rifiuti urbani
sono le province, in tali ambiti territoriali ottimali le
province assicurano una gestione unitaria dei rifiuti
urbani e predispongono piani di gestione dei rifiuti,
sentiti i comuni, in applicazione degli indirizzi e delle
prescrizioni del presente decreto.
2. per esigenze tecniche o di efficienza nella gestione
dei rifiuti urbani, le province possono autorizzare gestioni
anche a livello sub - provinciale purchè, anche in tali
ambiti territoriali sia superata la frammentazione della
gestione.
3. I comuni di ciascun ambito territoriale ottimale di
cui al comma 1, entro il termine perentorio di sei mesi
dalla delimitazione dell'ambito medesimo, organizzano la
gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di efficienza, di
efficacia e di economicità. 4. i comuni provvedono alla
gestione dei rifiuti urbani mediante le forme, anche
obbligatorie, previste dalla L. 8 giugno 1990, n. 142, come
integrata dalla L. 23 dicembre 1992, n. 498, art. 12".
Il cit. art., comma 4 stabilisce che:
"per le finalità di cui ai commi 1, 2 e 3 le province,
entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in
vigore della presente legge, coordinano, sulla base della
legge regionale adottata ai sensi della L. 8 giugno 1990, n.
142, e successive modificazioni, le forme ed i modi della
cooperazione tra gli enti locali ricadenti nel medesimo
ambito ottimale, nei casi in cui la forma di cooperazione
sia attuata per gli effetti della L. 8 giugno 1990, n. 142, art.
24, le province individuano gli enti locali partecipanti,
l'ente locale responsabile del coordinamento, gli
adempimenti ed i termini previsti per l'assicurazione delle
convenzioni di cui alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 24,
comma 1, dette convenzioni determinano in particolare le
procedure che dovranno essere adottate per
l'assegnazione del servizio di gestione dei rifiuti, le forme
di vigilanza e di controllo, nonchè gli altri elementi
indicati alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 24, comma 2,
decorso inutilmente il predetto termine le regioni e le
province autonome provvedono in sostituzione degli enti
inadempienti".
Il testo della L. 23 dicembre 1992, art. 12 (interventi
urgenti in materia di finanza pubblica), che ha integrato la
L. n. 142 del 1990, stabilisce:
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 12
RASSEGNA TRUFFA CONTRATTUALE E ASSICURATIVA
"1. le province e i comuni possono, per l'esercizio di
servizi pubblici e per la realizzazione delle opere
necessarie al corretto svolgimento del servizio nonchè
per la realizzazione di infrastrutture ed altre opere di
interesse pubblico, che non rientrino, ai sensi della
vigente legislazione statale e regionale, nelle competenze
istituzionali di altri enti, costituire apposite società per
azioni, anche mediante gli accordi di programma di cui al
comma 9, senza il vincolo della proprietà maggioritaria di
cui alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22, comma 3, lett. e), e
anche in deroga a quanto previsto dalla L. 2 aprile 1968, n.
475, art. 9, comma 1, lett. d), come sostituita dalla L. 8
novembre 1991, n. 362 art. 10, gli enti interessati
provvedono alla scelta dei soci privati e all'eventuale
collocazione dei titoli azionari sul mercato con procedure
di evidenza pubblica, l'atto costitutivo delle società deve
prevedere l'obbligo dell'ente pubblico di nominare uno o
più amministratori e sindaci. nel caso di servizi pubblici
statali locali una quota delle azioni può essere destinata
all'azionariato diffuso e resta comunque sul mercato".
Tuttavia, ad avviso del Collegio, ciò significa soltanto
che le persone che amministrano tali società o che
operano per le stesse abbiano la qualità di incaricati di
pubblico servizio e - talora - di pubblici ufficiali, ai sensi
degli artt. 357 e 358 cod. pen., ma non che tali società,
costituite nelle forme della società per azioni, siano enti
pubblici ai sensi e per gli effetti dell'art. 640 c.p., comma 2,
n. 1.
Infatti questa Corte ha escluso che la qualità di ente
pubblico, ai sensi e per gli effetti dell'art. 640 c.p., comma
2, n. 1, permanesse in capo a società che svolgono servizi
pubblici od i cui amministratori e dipendenti hanno
talora la qualità di pubblici ufficiali.
Così è stato affermato che:
- Il delitto di truffa in danno delle Ferrovie dello Stato
è punibile a querela, non potendosi configurare, in
ragione della natura privatistica (società per azioni) del
soggetto passivo, l'aggravante di cui all'art. 640 cpv. cod.
pen., n. 1 (Cass. Sez. 2 sent. n. 5028 del 17.3.1999 dep.
20.4.1999 rv 213154);
- Con la trasformazione dell'ente pubblico economico
"Poste Italiane" in società per azioni, non è più
configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica
della persona offesa dal reato di truffa, in quanto la
natura eventualmente pubblica del servizio prestato
assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei
soggetti agenti, secondo la concezione funzionale
oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen. (Cass. Sez.
2A sent. n. 8797 in data 11.2.2003 dep. 24.2.2003 rv
223664);
- Con la trasformazione dell'ente pubblico economico
"Azienda Trasporti Milano" in società per azioni non è
più configurabile l'aggravante inerente alla natura
pubblica della persona offesa dal reato di truffa, in
quanto la natura eventualmente pubblica del servizio
prestato assume rilievo esclusivamente ai fini della
qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione
funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen.
(Cass. Sez. 2 sent. n. 35603 del 23.6.2004 dep. 27.8.2004
rv 229728);
- In tema di truffa in danno dell'E.N.E.L., per effetto
della trasformazione di questo da ente pubblico in società
per azioni ad opera del D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 15,
conv. in L. 8 agosto 1992, n. 359, non è più configurabile
l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona
offesa dal reato, con la conseguenza che non può
procedersi d'ufficio ma a querela di parte. (Cass. Sez. 5
sent. n. 38071 del 5.4.2005 dep. 19.10.2005 rv 233073.
Fattispecie nella quale la Corte, d'ufficio, ha rilevato la
mancanza di querela ed ha annullato senza rinvio il capo
concernente la condanna per il reato di truffa, eliminando
la relativa pena);
- Con la trasformazione dell'ente pubblico economico
"Azienda Torinese Mobilità" in società per azioni non è
più configurabile l'aggravante inerente alla natura
pubblica della persona offesa dal reato di truffa, in
quanto la natura eventualmente pubblica del servizio
prestato assume rilievo esclusivamente ai fini della
qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione
funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen.
(Cass. Sez. 2 sent. n. 7226 del 7.2.2006 dep. 27.2.2006 rv
233158, citata anche nel provvedimento impugnato e nel
ricorso).
Le ragioni addotte dal Tribunale attengono pur
sempre alla natura del servizio prestato e delle funzioni
svolte, ma non sono determinanti per giungere ad
affermare una diversa natura giuridica del soggetto, che
rimane una società di diritto privato, pur con talune
deroghe rispetto alla comune disciplina.
Deve quindi essere confermato l'orientamento
giurisprudenziale fin qui seguito.
Ricondotta la fattispecie all'ipotesi di truffa semplice,
ne consegue che l'ordinanza interdittiva non poteva
essere emessa ai sensi dell'art. 287 cod. proc. pen., non
essendo la pena edittale superiore nel massimo a tre anni.
Il primo motivo di ricorso deve pertanto essere
accolto con conseguente annullamento senza rinvio
dell'ordinanza impugnata, di quella di primo grado e di
quella impositiva della misura.
La soluzione adottata rende superfluo l'esame del
secondo motivo di ricorso.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata, quella di
primo grado e quella impositiva della misura interdittiva.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29
settembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2009
AVV. GIULIANO VALER – 8 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO IL PATRIMONIO 13