I dimenticati. Chi sono, cosa fanno e da dove arrivano i minori

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I dimenticati. Chi sono, cosa fanno e da dove arrivano i minori
Marcello G. , " I dimenticati. Chi sono, cosa fanno e da dove arrivano i minori accolti nei servizi
residenziali calabresi". MINORIGIUSTIZIA, 2011, Vol. 1, pp. 168-189
I dimenticati. Chi sono, cosa fanno e da dove arrivano i minori accolti nei
servizi residenziali calabresi
di Giorgio Marcello e Sabina Licursi1
A quell’epoca, James Nightshade, che abitava al 97 di
Oak Street, aveva tredici anni, undici mesi e ventitré
giorni. Il ragazzo che abitava alla porta accanto, William
Halloway, aveva tredici anni, undici mesi e ventiquattro
giorni. Entrambi stavano per raggiungere i quattordici
anni: già i quattordici anni tremavano nelle loro mani.
E poi vi fu quella settimana d’ottobre in cui divennero
adulti di un colpo e non furono mai più giovani …
Ray Bradbury, Il popolo dell’autunno
1 Premessa
Sara, Francesca, Jessica, Marco, Stefano, Filippo, Andrea, Mirco … questi e tanti altri i nomi possibili dei
bambini e dei ragazzi che, indipendentemente dalla loro età anagrafica, diventati adulti di un colpo, si
trovano fuori dalla loro famiglia, inseriti in servizi di accoglienza. Un evento specifico di violenza o
abbandono, oppure lunghi periodi di disagio: tutti i minori accolti sono accomunati da esperienze di
sofferenza e tutti sono coinvolti in un progetto, che ha come suo obiettivo il loro rientro a casa. Nella realtà,
inserimenti tardivi, permanenze troppo lunghe e insuperabili difficoltà nel recupero dei rapporti con la
famiglia, bloccano le storie di questi minori. Attorno a molti di loro si crea il silenzio, come oggetti smarriti
che nessuno rivendica, possono rimanere per anni in una condizione di indeterminatezza: presenti nei
servizi, nelle scuole, nella società ma dimenticati.
Fare ricerca su questi bambini e ragazzi non è la stessa cosa che dare loro la parola, ma è il segno di un
interesse verso la loro condizione e le specificità che la caratterizzano. L’obiettivo è quello di realizzare una
ricerca-azione, ossia di andare oltre la fase di indagine e comprensione del fenomeno per arrivare alla
progettazione di interventi specifici sulla realtà studiata. La finalità è, infatti, quella di mettere in
discussione il sistema dell’accoglienza, individuandone eventuali elementi patologici ed elaborando delle
soluzioni alternative insieme agli attori coinvolti: istituzioni politiche, enti gestori, operatori del sociale,
minori e famiglie. Per la realizzazione della prima fase dello studio ci siamo serviti degli strumenti classici
della ricerca sociologica. Le informazioni disponibili sull’accoglienza dei minori in Calabria non erano, infatti,
esaustive. La riorganizzazione formale dei servizi degli ultimi decenni e la presenza fra gli enti gestori di
alcuni soggetti del terzo settore, di certo più significativa rispetto al passato, hanno imposto un’attenta
ricostruzione della realtà. Per raccogliere le informazioni necessarie abbiamo predisposto la realizzazione di
un’indagine totale con questionario. Abbiamo, cioè, contattato tutti i servizi accreditati presenti sul
territorio regionale. La consapevolezza che il tema dell’accoglienza può essere affrontato da più angolature
e che coinvolge interessi differenti, ci ha spinti verso la costruzione di un apparato di rilevazione complesso,
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L’articolo propone alcune delle questioni affrontate in una ricerca svolta presso il Dipartimento di Sociologia e
Scienza Politica, avente ad oggetto i servizi di accoglienza ai minori allontanati dalle famiglie e la conoscenza delle
condizioni di questi ultimi, prima e dopo l’ingresso nei servizi. La committenza di questa ricerca è della Regione
Calabria e, nello specifico, del Dipartimento Politiche Sociali. Il paper è da considerarsi il frutto di un lavoro di
riflessione e di sintesi collettivo. Comunque, è possibile attribuire la stesura dei paragrafi 2, 3 e 5 a Sabina Licursi, dei
paragrafi 4, 6 e 7 a Giorgio Marcello e del paragrafo 1 ad entrambi.
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ossia un sistema adeguato a raccogliere informazioni sui servizi, sugli enti gestori e sui minori accolti. Invece
che un solo questionario, abbiamo quindi optato per la predisposizione di cinque questionari differenti.
Nella situazione più frequente è quindi accaduto che ogni intervistatore ha somministrato allo stesso
responsabile del servizio un questionario per rilevare le informazioni sull’ente gestore, un questionario per
ogni servizio gestito (in alcuni casi ci sono oltre cinque servizi in capo ad uno stesso ente gestore) e un
questionario per ogni minore accolto (in regime residenziale o semiresidenziale). La fase di
somministrazione ha pertanto richiesto una elevata disponibilità da parte dei responsabili dei servizi e, di
frequente, più di un incontro. Non sempre, tuttavia, è stato possibile reperire informazioni complete; non
sono poche le mancate risposte anche rispetto a dati sociografici dei minori o alle informazioni necessarie
per ricostruire il background familiare; spesso, sono state riscontrate incongruenze nel passaggio dalla
compilazione del questionario relativo all’ente gestore a quello dei servizi. Quest’ultimo è un risultato
inatteso che prova, comunque, la necessità di indagare approfonditamente la realtà variegata dei soggetti
giuridici che entrano nell’accoglienza ai minori, senza confondere la loro identità con quella dei servizi che
gestiscono, poiché, appunto, non sempre correttamente sovrapponibili.
2 Un quadro sintetico degli enti gestori e dei servizi
In Calabria, gli enti autorizzati alla gestione di servizi residenziali e semiresidenziali sono 94. Quasi il 60% di
essi ha sede nella provincia di Cosenza e poco meno del 30% in quella di Reggio Calabria, lasciando
chiaramente emergere una disomogenea distribuzione dei servizi di accoglienza sul territorio regionale.
Con riferimento alla loro forma giuridica possiamo notare che 49 sono enti religiosi, 19 sono associazioni,
18 sono cooperative sociali e i restanti 8 sono fondazioni. I servizi offerti vanno dalla casa famiglia al centro
diurno. Molti degli enti– 54 su 94 – gestivano in precedenza istituti per minori e sono stati interessati, in
tempi diversi, da un processo di riconversione. Processo che non ha impedito la concentrazione nelle
medesime strutture di molti servizi, cui è seguita una gestione centralizzata del personale. La legge
regionale 5 del 1987, che ha disciplinato i servizi socio-assistenziali, e il relativo regolamento regionale di
attuazione hanno determinato in Calabria una riconversione solo formale degli istituti educativiassistenziali (Solinas, Marcello, 2001). Ad esempio, molte comunità di tipo familiare attualmente esistenti
sono concentrate in spazi e strutture abitative che in precedenza ospitavano istituti tradizionali. Un
adattamento formale che non ha avviato pratiche di reale deistituzionalizzazione dell’accoglienza, negando
di fatto il diritto del minore alla famiglia, secondo quanto disposto sia dalla Legge 184 del 1983 che dalla
Legge 149 del 2001 (Marcello, 2005).
I servizi che accolgono i minori in regime residenziale sono complessivamente 80. La tipologia organizzativa
prevalente è quella della casa famiglia; quella meno diffusa è rappresentata dai centri socio-educativi
(complessivamente quattro, facenti capo al medesimo ente gestore e frutto di una riconversione multipla
di un ex istituto per minori che ha dato vita oltre che ai quattro centri socio-educativi a carattere
residenziale, anche a ben sette centri diurni a ciclo semiresidenziale). È possibile distinguere tra i servizi
che, sin dagli anni Settanta, si costituiscono come esperienze di accoglienza innovativa e alternativa
all’istituzionalizzazione (perlopiù gruppi appartamento e qualche casa famiglia) (AA.VV, 1973), gestiti
prevalentemente da soggetti nonprofit, e quelli formalmente di più «recente» costituzione ma derivanti in
prevalenza dalla riconversione di grandi istituti assistenziali.
La provincia con il maggiore numero di servizi è quella cosentina, seguita dalla provincia di Reggio Calabria.
Alla disomogeneità della distribuzione territoriale si lega lo scarto esistente fra strutture pienamente
utilizzate, corrispondenti a circa il 30% di quelle accreditate, e servizi formalmente abilitati ad accogliere un
numero di minori compreso tra 10 e 12, ma di fatto vuoti, pari a circa 1 su 10. Ancora una situazione molto
differenziata emerge rispetto alla frequenza degli incontri e delle relazioni che i servizi hanno con le
istituzioni del territorio (tribunale per i minori, servizi sociali territoriali, istituzioni scolastiche, parrocchie o
altre agenzie educative). Di rilievo è poi l’informazione relativa al numero degli educatori coinvolti nella
erogazione del servizio; numero che, a parità di bambini e ragazzi presenti nelle strutture di accoglienza, è
interessato da una estrema variabilità. Una constatazione, quest’ultima, che si riflette ovviamente anche
sulla programmazione degli interventi, del loro monitoraggio e sulla stessa qualità dell’accoglienza.
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3 Chi sono i minori allontanati dalle famiglie
I minori residenti presso i servizi del territorio regionale sono 386, fra questi ci sono anche minori affidati ai
responsabili di alcuni servizi semiresidenziali (si tratta perlopiù di bambini e ragazzi già accolti da istituti che, nel processo di riconversione, si sono trasformati in centri diurni – e per i quali non sono state trovate
risposte alternative).
Possiamo subito evidenziare che si tratta prevalentemente di preadolescenti e adolescenti: oltre il 70% ha
un’età compresa tra gli 11 e i 18 anni. Sicuramente è questa l'età in cui compare o diventa più acuta la
percezione dei disagi e dei problemi che possono interessare i contesti familiari dei minori e,
probabilmente, è questa l'età in cui più di frequente si verificano episodi conflittuali o di devianza che fanno
esplodere situazioni già gravemente compromesse. Tuttavia, ciò non significa che tutti i minori o la maggior
parte di loro entrano nei servizi da adolescenti. Colpisce, inoltre, la presenza di bambini molto piccoli: sono
17 ad avere tra 0 e 5 anni e 70 quelli che hanno tra 6 e 10 anni. I minori appartenenti alla prima classe di
età non dovrebbero essere presenti nei servizi o almeno non in quelli non strutturati secondo le
caratteristiche proprie di una comunità familiare. Infatti, la legge 149/2001, volta a tutelare il diritto del
minore ad una famiglia (quella naturale o, quando questo non sia possibile, una sostitutiva, affidataria o
adottiva), prevede al comma 2 dell’articolo 2 che “per i minori di età inferiore a sei anni l’inserimento può
avvenire solo presso una comunità di tipo familiare”. Il divieto di inserire in servizi di accoglienza minori con
meno di 6 anni era previsto anche dalla legge 5/1987, di fatto superato da una delibera del consiglio
regionale del 1990 (Solinas, Marcello, 2001). Nei servizi residenziali calabresi, accade quindi che i minori
possono approdare anche quando sono così piccoli e rimanervi per lunghi periodi di tempo.
Nei servizi sono presenti 16 ragazzi/e che hanno superato i 18 anni. Si tratta di 10 maschi e 6 femmine, tutti
di nazionalità italiana. Solo 2 di loro sono accolti nel servizio da meno di un anno, mentre 9 lo sono da non
meno di 6 anni (4 da oltre 11 anni). Fra questi non-più-minori sono presenti: un ragazzo accolto nel servizio
da almeno un anno che è stato dichiarato adottabile; 4 ragazzi per i quali non sembrano esserci possibilità
di un rientro in famiglia e fra questi 2 sono presenti da almeno 11 anni, uno da almeno 6 anni e un altro da
almeno 3 anni; per un ragazzo non è prevedibile una data di rientro in famiglia ed è presente nel servizio da
almeno 6 anni; per 7 ragazzi – che, lo ricordiamo, hanno superato i 18 anni – è stimato un rientro in famiglia
nel medio o lungo periodo e 2 di loro sono presenti da almeno 11 anni. Queste informazioni sembrano
descrivere una situazione paradossale, difficile da interpretare utilizzando i criteri che dovrebbero guidare
l'accoglienza e la progettazione personalizzata atta a tutelare il diritto del minore ad una famiglia.
I minori accolti sono prevalentemente maschi; le femmine sono relativamente di più solo nelle classi di età
0-5 e 11-14 anni. Rispetto al passato (Solinas, Marcello, 2001) la prevalenza di maschi costituisce una
novità, soprattutto con riferimento ai minori con più di 14 anni. Prima della riconversione degli istituti e
soprattutto fino a che i servizi di accoglienza sono stati offerti prevalentemente da religiose, la collocazione
dei maschi è stata più difficoltosa. Negli istituti retti da congregazioni di suore, infatti, per statuto venivano
ospitati fino al conseguimento della licenza elementare e, con qualche eccezione, fino alla conclusione delle
scuole medie inferiori. Oggi l’integrazione – anche se minima – di personale laico nei servizi gestiti da enti
religiosi e la presenza di servizi gestiti da cooperative sociali e associazioni consente una maggiore
soddisfazione del bisogno di accoglienza dei minori di sesso maschile in età adolescenziale.
Con riferimento alla nazionalità dei minori accolti, possiamo notare che si registra un aumento della
presenza di minori stranieri rispetto al passato. Infatti, al 2003 in Calabria era presente un solo minore
straniero su 246, sul territorio nazionale gli stranieri erano 452 su un valore totale di 2633 minori (Istituto
degli Innocenti, 2004)2. Complessivamente, nel 2008, in Calabria sono 50 (poco più del 10% del totale) i
bambini e ragazzi stranieri accolti nei servizi residenziali. Provengono prevalentemente dal Marocco, dalla
Romania e dall’Albania. Rispetto alla loro condizione al momento dell’ingresso nel servizio, possiamo
notare che solo 15 su 50, ossia il 30%, vivevano con entrambi i genitori. Il 34% di loro viveva con uno solo
dei genitori, ben il 16% viveva con una famiglia adottiva (6 casi su 50) o affidataria (2 casi su 50) e il 12% in
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È opportuno precisare che la ricerca cui facciamo riferimento ha preso in considerazione solo gli Istituti per minori,
ossia quelle strutture così definite dall’Istat in funzione della loro finalità (presidi residenziali socio educativi in grado
di accogliere un alto numero di ospiti – 12 o più – le cui prestazioni sono in prevalenza educative, ricreative e di
assistenza tutelare). In Calabria al 2003 sono presenti 30 Istituti, in Italia 215.
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un servizio di accoglienza. Al momento i servizi in cui è maggiore il numero di minori stranieri accolti sono
quelli della provincia di Cosenza (in cui sono presenti 26 minori stranieri) e della provincia di Reggio Calabria
(in cui sono presenti 23 minori stranieri), anche se in termini relativi, ossia rapportando il numero di minori
stranieri al numero complessivo di minori accolti, sono i servizi della provincia di Crotone quelli in cui si
registra l'incidenza maggiore. È facile immaginare che la presenza di minori stranieri, provenienti da paesi
diversi per cultura, lingua, religione, richieda un’attenzione particolare e che la progettazione nei loro
confronti abbia bisogno di interventi specifici che potrebbero richiedere altrettanto specifiche competenze.
Non abbiamo, tuttavia, conferme circa l’esistenza di percorsi di accoglienza dedicati a tali esigenze.
La provincia di Reggio Calabria e quella di Cosenza costituiscono i territori in cui sono maggiori i casi di
bambini e ragazzi allontanati dalle famiglie e accolti nei servizi: si tratta, rispettivamente, di 160 e 147
minori. Le altre province non sono, tuttavia, isole felici. Infatti, il rapporto tra il numero di minori presenti
nei servizi e la popolazione provinciale con non più di 18 anni (Istat, 2001) ci consente di notare che
l’incidenza maggiore della residenzialità si registra nella provincia di Catanzaro. In questo territorio per ogni
1000 residenti che non superano i 18 anni poco meno di 3 vivono in strutture di accoglienza. Nella provincia
di Reggio Calabria lo stesso valore è pari a 1,2, in quella di Cosenza a 0,9, in quella di Crotone a 0,6 e in
quella di Vibo Valentia a 0,2.
Non sempre i minori sono inseriti in servizi della provincia di appartenenza. Se più del 90% dei bambini e
ragazzi cosentini e reggini trova un’accoglienza in servizi collocati sugli stessi territori provinciali, i minori
provenienti dalle altre province conoscono una maggiore “mobilità”. Il dato non è necessariamente da
leggere in termini negativi, ma certamente la collocazione in servizi distanti dalla famiglia di origine può
rendere più difficile il lavoro di recupero dei rapporti con il retroterra familiare e allungare i tempi necessari
ad un rientro a casa. Per queste ragioni la raccomandazione del Comitato dei ministri degli Stati membri
dell'Unione Europea, Rec (2005)5 del 16 marzo 2005 sui diritti dei minori che vivono in strutture
residenziali, rileva l'importanza di una collocazione del minore in un contesto ambientale che sia più vicino
possibile a quello di origine. Lo scopo principale è naturalmente quello di consentire ai genitori di esercitare
per quanto possibile il ruolo genitoriale e di favorire una più celere ricomposizione delle relazioni familiari
(Pregliasco, 2007).
È stato possibile ricostruire la condizione rispetto all’istruzione solo per 366 minori; tra i 20 di cui non
abbiamo informazioni solo 5 hanno meno di 6 anni. Per queste mancate risposte, quindi, non ci sono
sempre spiegazioni che attengono all'età pre-scolare dei minori; si tratta, spesso, di vere e proprie lacune
che i responsabili dei servizi non ci hanno aiutato a colmare o non hanno saputo farlo. Complessivamente,
oltre la metà dei minori presenti sta completando l’obbligo e più del 30% frequenta una scuola superiore.
Nessuno è iscritto all’università fra quanti hanno compiuto i 18 anni. 10 ragazzi non hanno completato
l’obbligo e non frequentano alcuna scuola, mentre 17 hanno completato l’obbligo e non hanno proseguito
gli studi. 12 minori, che hanno fra i 15 e i 18 anni, frequentano un corso di formazione professionale, che, in
alcuni casi, si aggiunge all’impegno scolastico vero e proprio. Fra i bambini sotto i 6 anni, 11 su 13
frequentano la scuola dell’infanzia e 2 sono già entrati nella scuola primaria.
Dai dati disponibili emergono alcune indicazioni sui ritardi scolastici. Fra i minori che stanno completando
l’obbligo (195) sono 52 (più del25%) quelli che hanno ripetuto almeno un anno. 13 di loro hanno un ritardo
di 2 anni, 4 di loro un ritardo di 3 anni e 5 un ritardo di 4 o più anni.
Complessivamente sono 116 i minori che frequentano le superiori. La scelta della scuola da frequentare
ricade prevalentemente sugli istituti professionali (poco meno del 50% dei casi) e su quelli tecnici (nel 26%
dei casi). I dati sulle ripetenze ci dicono che i percorsi scolastici dei bambini e ragazzi di cui ci stiamo
occupando sono in non pochi casi accidentati. Sono complessivamente 43 i minori che hanno ripetuto
almeno un anno alle superiori, ossia il 37% del totale. 33 sono maschi e 13 femmine; i primi sono quelli che
ripetono con maggiore frequenza più di un anno. Complessivamente, sono 5 quelli che hanno ripetuto 3
anni e 9 quelli che ne hanno ripetuto 2. In tutto gli anni ripetuti sono 62: una perdita non da poco in termini
di opportunità di crescita e di risorse impiegate. I ritardi scolastici introducono un altro aspetto
interessante, ossia la frequenza con cui si riscontra l’affiancamento di molti minori da parte di un
insegnante di sostegno. Sui 311 minori inseriti in un percorso formativo (scuola dell’obbligo o scuola
superiore) sono 81 – pari al 26% - quelli seguiti da un insegnante di sostegno. Il 25% di loro svolge le attività
scolastiche solo in parte in aula con gli altri studenti, mentre il 6% si ferma per tutta la durata delle lezioni in
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un’altra aula. Non sono chiare le ragioni di queste scelte, che sembrano contraddire gli stessi obiettivi del
sostegno scolastico, ossia l'integrazione scolastica dell'alunno diversamente abile. Sappiamo, però, che le
situazioni di handicap conclamato – ossia dichiarate fra le cause che hanno determinato l’allontanamento
del minore dalla famiglia – sono 16 e che 14 di questi minori hanno l’ausilio di un insegnante di sostegno.
Negli altri casi, quindi, il sostegno è probabilmente motivato dall'esistenza di condizioni penalizzanti di
disagio sociale, culturale o familiare.
Ci sono 27 minori accolti nei servizi che non frequentano alcuna scuola e alcuni di loro non hanno neanche
terminato le scuole medie. Sappiamo che solo 9 di loro lavorano. Dei restanti 18 minori, 3 frequentano un
corso di formazione professionale e gli altri trascorrono, prevalentemente, le loro giornate svolgendo
attività di animazione, religiose e colloqui individuali con personale esperto sia all’interno che all’esterno
dei servizi.
Complessivamente sono inseriti in un percorso lavorativo 24 minori; 15 lavorano all’esterno della struttura
e 2 all’interno. 7 minori lavorano per alcuni periodi dell’anno. Ristorazione, commercio ed edilizia sono i
settori in cui trovano prevalentemente occupazione; la mansioni sono quelle di cameriere/a o cuoco/a,
commesso/a, operaio/a. Le indicazioni che siamo riusciti ad avere circa il tipo di contratto di lavoro non
sono esaustive; spesso i responsabili dei servizi non sanno se l’assunzione è regolare o meno e se il
contratto è a tempo determinato o indeterminato. Comunque, da quanto abbiamo rilevato, è possibile
evincere una certa diffusione (almeno 10 casi su 24) di lavoro in nero e di contratti a tempo determinato
(almeno 5 casi su 24).
4 Caratteristiche delle famiglie
I dati presentati nei paragrafi precedenti lasciano desumere l’esistenza di grossi problemi sul piano della
qualità dell’accoglienza residenziale offerta ai minori considerati. La lunga permanenza nei servizi
residenziali è il segno evidente che l’attività di accoglienza non è stata accompagnata da una progettazione
socio-educativa congruente.
Le informazioni relative alla situazione in cui il minore si trovava al momento dell’ingresso nel servizio
lasciano trasparire evidenti difficoltà delle famiglie di appartenenza. Notiamo infatti che in 159 casi manca
la figura paterna e in 59 quella materna. Il dato fornisce una conferma ulteriore alle ipotesi formulate in
precedenza circa il background familiare dei bambini e ragazzi accolti. Ci troviamo di fronte assai spesso a
situazioni di sgretolamento (totale o parziale) del nucleo familiare originario. Sembra che l’area sociale
interessata sia quella del disagio grave, piuttosto che quella della precarietà (o vulnerabilità). La
separazione tra coniugi affiora come la motivazione principale per l’assenza sia del padre che della madre.
Sono pure numerosi i casi in cui il padre è ignoto (il 5,7% del totale), deceduto (10,1%) o detenuto (3,1%).
In ordine alla età dei genitori, i responsabili dei servizi residenziali intervistati non sono stati in grado di
fornire informazioni esaustive, e le mancate risposte sono numerose. Dai dati che siamo riusciti a
recuperare, si nota che l’età dei padri è compresa in oltre il 76% dei casi tra i 40 e i 59 anni. Il 10% di essi ha
superato i sessant’anni. Per le madri, invece, la concentrazione maggiore si ha nelle classi 30-39 (31,6%) e
40-49 anni (45,1%). Di esse, quasi il 10% ha un’età compresa tra i 20 e i 29 anni.
Dalle informazioni disponibili, la differenza di età tra i genitori risulta spesso significativa. In più del 20%
delle situazioni censite, infatti, questa differenza è compresa tra i 10 e i 19 anni; in 10 casi supera i 20 anni.
Non abbiamo altri elementi per poter evidenziare un nesso di causalità diretta tra la differenza di età dei
genitori dei ragazzi accolti e i fenomeni che determinano l’allontanamento di essi da casa. La frequenza con
cui il dato ricorre fa tuttavia intuire che lo scarto anagrafico tra i coniugi può rappresentare un elemento
che alimenta l’instabilità delle relazioni familiari.
I nuclei familiari che subiscono l’allontanamento dei figli sono solitamente numerosi. Infatti, solo per una
percentuale minima di bambini e ragazzi accolti non viene segnalata la presenza di fratelli o sorelle. Nel
46% dei casi, i minori presenti nei servizi residenziali calabresi hanno tre o più fratelli. Si tratta di un dato
interessante, anche in considerazione delle più recenti rilevazioni Istat (2009) sulla povertà. Esse mostrano
infatti che, come nota la Saraceno (2009), negli ultimi anni “vecchi divari si sono ampliati e specifici gruppi
hanno aumentato la propria vulnerabilità”. L’incidenza della povertà relativa nel Mezzogiorno (23,8%),
infatti, è quasi cinque volte superiore a quella relativa al resto del Paese (4,9%). In Calabria tale percentuale
raggiunge quasi il 29%. Quello che però più ci interessa porre in rilievo, ai fini della nostra ricerca, è che
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l'incidenza della povertà, sia relativa che assoluta, è aumentata soprattutto tra le famiglie numerose, in
particolare quelle con due o più figli, specie se minori: al Sud la povertà relativa incide sul 28% delle coppie
con due figli (8,2% al centro, 6,9 al nord), e sul 36,6% delle coppie con tre o più figli (11,2% al Nord). Ne
consegue che la povertà tra i minori è aumentata più che tra gli adulti. Un fenomeno per nulla contrastato,
nel nostro paese, da misure quali assegni per i figli di tipo universalistico e non riservate solo alle famiglie di
lavoratori dipendenti a basso reddito. “Il fenomeno della povertà minorile nel nostro paese”, sottolinea
ancora la Saraceno (2009), “è grave ed ha caratteri di persistenza, quindi effetti di lunga durata sulle
chances di vita, maggiori che per gli adulti”. E si tratta di una urgenza che riguarda soprattutto il
Mezzogiorno, e la Calabria in particolare. Per le loro caratteristiche, i minori e le famiglie di cui ci stiamo
occupando sono particolarmente esposti a tali dinamiche.
La legge 149 stabilisce che le condizioni di povertà materiale non possono pregiudicare l’esercizio del diritto
del minore alla sua famiglia, per cui non si può disporre l’allontanamento da casa per queste ragioni. Nelle
situazioni che stiamo considerando, la presenza di più fratelli non solo fa crescere il rischio di esposizione
alla povertà dei nuclei familiari problematici, ma costituisce la cartina al tornasole di un quadro di instabilità
generata da fattori multidimensionali, ovvero materiali e relazionali insieme, che contribuiscono in modo
decisivo a determinare l’allontanamento dei bambini e ragazzi coinvolti.
Per quanto concerne i minori oggetto della nostra indagine, rileviamo che quasi sempre il loro
allontanamento da casa coinvolge anche gli altri fratelli e sorelle eventualmente presenti. Il 61,2% dei
minori considerati ha infatti uno o più fratelli accolti nello stesso servizio residenziale che lo ospita (45,1%),
oppure in un altro analogo (16,1%). A questo riguardo, sarebbe utile recuperare ulteriori elementi per
capire se la collocazione di gruppi di fratelli in uno stesso servizio o in servizi distinti segue una logica di
tutela e di promozione dei minori coinvolti e delle loro famiglie, o è dettata dalla pura e semplice
disponibilità di posti dei servizi contattati. Non mancano i casi di accoglienza (di altri fratelli o sorelle)
secondo le modalità dell’affidamento familiare (9,1%) o dell’adozione (2,1%). Anche in questo caso, ci
chiediamo come mai bambini appartenenti ad uno stesso nucleo vengono presi in carico dai servizi del
territorio secondo modalità che danno luogo ad interventi così diversificati, che presuppongono (come nel
caso di un fratello collocato in un servizio residenziale e di un altro che va in adozione) letture delle
difficoltà familiari decisamente incompatibili.
Tra le informazioni raccolte attraverso i questionari, quelle relative al background culturale e sociale delle
famiglie di origine sono rilevanti soprattutto per quello che non dicono: nella stragrande maggioranza dei
casi, il dato è risultato non reperibile dai documenti posseduti dai/dalle responsabili dei servizi di
accoglienza. Questa indicazione lascia intravedere, sia pure in filigrana, quanto sia scarsa l’attenzione per il
retroterra dei minori, per la loro storia pregressa; e, di conseguenza, quanto debole sia la progettazione
individuale costruita con riferimento ad ognuno dei bambini accolti. Una buona progettazione deve
raccogliere e tener conto del maggior numero possibile di informazioni, sia relative al minore che alla sua
famiglia. Spesso, invece, capita che i responsabili dell’accoglienza siano chiamati in causa “al buio”, e
sollecitati a realizzare attività di presa in carico “a scatola chiusa”. La coltre di disinformazione che copre i
soggetti responsabili, a diverso titolo, dell’accoglienza non sempre, poi, si dirada nel corso del tempo.
La qualità delle informazioni che siamo riusciti a raccogliere sul titolo di studio e sulla condizione lavorativa
dei padri e delle madri è molto condizionata dalla elevata percentuale di mancate risposte. Sia pure parziali,
i dati recuperati offrono sostegno ulteriore alle ipotesi già formulate in ordine alla debolezza delle realtà
familiari considerate. I genitori dei bambini accolti dispongono di una scarsa dotazione di capitale culturale
e sono posizionati ai margini del mercato del lavoro. Tra i genitori di cui abbiamo informazioni più precise,
troviamo collocati su un livello di istruzione medio alto solo 13 padri (10 diplomati e tre laureati) su 124, e
11 madri (8 diplomate e 3 laureate) su 155. In quasi tutti gli altri casi considerati, essi non hanno alcun
titolo di studio (una madre su tre è in queste condizioni), oppure hanno una istruzione bassa ( il 60% circa,
sia dei padri che delle madri). Anche la situazione occupazionale dei genitori non è delle migliori. Basta
notare che quasi il 40% dei padri e il 68% delle madri non hanno alcuna occupazione. Tra i 78 padri e le 50
madri la cui posizione lavorativa risulta contrattualizzata, solo la metà dei padri e il 40% delle madri ha un
contratto regolare.
Sono adulti in condizione di marcata perifericità sociale. Le ultime rilevazioni Istat, già ricordate,
dimostrano che per le famiglie in cui gli adulti hanno bassa istruzione e sono in cerca di lavoro, aumenta in
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modo esponenziale il rischio di povertà (sia assoluta che relativa). Si tratta proprio delle caratteristiche dei
genitori di cui abbiamo informazioni più dettagliate.
Come abbiamo già più volte evidenziato, i dati su cui stiamo riflettendo aiutano a tratteggiare il profilo di
figure genitoriali multiproblematiche, la cui inadeguatezza sul piano educativo è spesso generata da un mix
di precarietà economica e lavorativa e di difficoltà relazionali.
5 Prima dell’accoglienza
Proviamo di seguito a ricostruire la condizione in cui i minori vivevano al momento dell’inserimento nel
servizio. Nella tabella 1 riassumiamo le informazioni raccolte. Esse consentono anche di mettere a fuoco
alcune caratteristiche del background familiare dei minori. Il primo dato da evidenziare è che una fetta
considerevole di minori accolti, pari a poco più del 20%, al momento del collocamento nei servizi
residenziali si trovava già fuori dal proprio nucleo familiare di origine. A leggere con attenzione si nota che
esistono situazioni molto diverse: ci sono 11 minori che vivevano con altri parenti (che potrebbero essere i
nonni, ad esempio) e 43 minori che arrivano da altri servizi residenziali (altre strutture, comunità familiari,
comunità di pronta accoglienza, comunità educativa, comunità di accoglienza per madri con figli) e, quindi,
da precedenti esperienze di istituzionalizzazione; ancora, ci sono quelli che si portano dietro il fallimento di
un’esperienza di adozione o di affido, complessivamente 21. Esperienze differenti che necessiterebbero di
modalità differenziate di accoglienza.
Tabella 1 – Condizione del minore al momento dell’ingresso nel servizio
Con la
famiglia
d’origine
79,0%
Fuori dalla
famiglia
d’origine
21,0%
ass.
%
viveva con i genitori
162
42,0
viveva con uno dei due genitori
143
37,0
11
12
9
19
6
9
5
4
6
2,8
3,1
2,3
4,9
1,6
2,3
1,3
1,1
1,6
386
100,0
viveva con altri parenti
viveva con una famiglia adottiva
viveva con una famiglia affidataria
viveva in un'altra struttura
viveva in una comunità familiare
viveva in una comunità di pronta accoglienza
viveva in una comunità educativa
viveva in una comunità di accoglienza per madri con figli
altro
di cui
1 è stato affidato dalla nascita ad un servizio di accoglienza
1 è stato lasciato in ospedale alla nascita
1 viveva in un campo profughi
1 è un profugo afgano giunto solo in Italia
1 è un minore senza fissa dimora
1 viveva in un istituto penitenziario
Totale
FONTE: Nostra elaborazione
Fra i minori che al momento dell’ingresso nel servizio vivevano con la famiglia di origine (complessivamente
305), sono poco meno di 40 su 100 quelli che vivevano con un solo genitore. Anche in questo gruppo di
minori, quindi, vi sono quanti hanno già sperimentato fragilità e difficoltà familiari.
Nell'indicazione altro, scelta per definire la condizione di 6 minori, ritroviamo specificazioni che fanno tutte
supporre uno stato di abbandono del minore. A questa specificità delle loro condizioni non corrisponde un
breve periodo di permanenza nel servizio. Al contrario, uno di questi minori è presente da oltre 15 anni, un
altro da un periodo compreso tra 6 e 10 anni, altri due da un periodo compreso tra 3 e 5 anni e, infine,
ancora altri due da un periodo compreso tra 1 e 2 anni.
L’informazione sulla condizione del minore al momento dell'ingresso nel servizio non varia in maniera
significativa al variare del genere dei minori. Rispetto all’età, invece, alcune differenze possono essere
evidenziate. Innanzitutto, sono in prevalenza i più grandi quelli che provengono da un contesto diverso
dalla famiglia d’origine. In particolare, fra i minori appartenenti alle classi di età 11-14 e 15-18 sono
7
maggiormente diffuse le esperienze fallimentari di affidamento e di adozione. Tra i minori più piccoli sono
maggiormente presenti quanti arrivano da famiglie monogenitoriali, quindi segnate da connotati di
indebolimento strutturale inequivocabili.
Nel loro complesso le informazioni riportate nella tabella 1 danno spessore all’ipotesi che l’accoglienza
residenziale abbia assunto negli ultimi anni i connotati di un intervento “da ultima spiaggia”, che viene
disposto con riferimento a situazioni familiari già seriamente compromesse. Aggiungiamo che, una volta
entrati nei servizi residenziali, l’accoglienza di questi minori si caratterizza prevalentemente come continua
e assidua.
Tabella 2 – Permanenza dei minori nel servizio in anni.
meno di 1 anno
tra 1 e 2 anni
tra 3 e 5 anni
tra 6 e 10 anni
tra 11 e 15 anni
oltre 15 anni
Totale
ass.
72
101
131
56
16
2
378
%
19,0
26,7
34,7
14,8
4,2
0,5
100,0
FONTE: Nostra elaborazione
In oltre 1/3 dei casi (si veda la tabella 2) le permanenze hanno una durata compresa tra i 3 e i 5 anni e poco
più di 1/4 dei minori è presente nei servizi da un periodo compreso tra 1 e 2 anni. Solo per questi ultimi e
per i 72 minori accolti nei servizi da meno di un anno possiamo notare che non è stata superata ancora la
soglia "critica" dei due anni di permanenza, così intesa anche dalla legge 149 del 2001; soglia oltre la quale
la permanenza nel servizio evidenzia un potenziale fallimento del progetto individuale e, quindi, del
recupero dei rapporti con la famiglia. Complessivamente, quasi il 20% dei bambini e ragazzi vive lontano dal
proprio contesto familiare e ambientale di origine da almeno 6 anni. Tra questi, 56 minori vivono in una
struttura da un periodo compreso tra 6 e 10 anni, 16 ragazzi da almeno 11 anni, 2 da oltre 15 anni: si tratta
di situazioni abnormi, che rivelano l’assenza di una progettazione. È possibile già evidenziare che esistono
delle vere paralisi istituzionali: minori che arrivano nei servizi con situazioni familiari e personali spesso
molto compromesse, tendenzialmente inaffrontabili con gli strumenti di cui dispongono i servizi e che
questi si limitano a contenere. L’obiettivo primario di recuperare la relazione con i familiari, infatti, è spesso
condizionato dall’assenza, pregressa rispetto all’ingresso nel servizio, dello stesso nucleo genitoriale e
parentale più stretto. Soprattutto in questi casi la lunga permanenza può assumere una connotazione
patologica: non si caratterizza come risolutiva della condizione di disagio in cui si trova il minore, ma, al
contrario, può diventare il segno che i servizi assumono un ruolo di custodia.
Esistono, ancora, altre situazioni estreme corrispondenti ai casi in cui i minori sono nei servizi da un periodo
corrispondente più o meno alla loro età. Innanzitutto, sono 3 i minori presenti nei servizi da almeno 6 anni
che hanno un’età compresa tra 6 e 10 anni; a loro si aggiungono 2 minori presenti da almeno 11 anni e che
hanno un’età compresa tra 11 e 14 anni e 1 minore ospitato da oltre 15 anni che ha tra i 15 e i 18 anni.
Complessivamente sei minori che potrebbero essere entrati nei servizi subito dopo la nascita o addirittura
esservi nati e mai ritornati in famiglia. Possiamo aggiungere che la metà dei bambini che ha fra 0 e 5 anni è
nei servizi da non meno di 1 anno e il 25% degli stessi da non meno di 3 anni. Quasi il 40% dei bambini che
hanno fra 6 e 10 anni è nei servizi da non meno di 3 anni. La situazione non è diversa per i minori che hanno
superato i 10 anni. Infatti, poco meno del 20% dei ragazzi che hanno fra gli 11 e i 14 anni è nei servizi da
non meno di 6 anni. Sembra davvero che “il tempo della vita dei minori non è il tempo delle nostre
istituzioni” (Resta, 2004, p. 46): bambini e ragazzi passano anni in attesa che per loro (ma non sempre in
loro rappresentanza) sia individuata una strada, lungo la quale si incamminano con molto ritardo e non
sempre.
8
6 Ingresso nel servizio, motivazioni, attività
I servizi sociali del territorio e il Tribunale per i Minori sono le due istituzioni che giocano un ruolo
fondamentale nelle storie di allontanamento dei minori dal proprio ambiente familiare. Il collocamento nei
servizi residenziali può essere disposto su iniziativa del servizio sociale – spesso dietro sollecitazione delle
famiglie interessate – e successivamente ratificato dal giudice competente. È questa l’ipotesi
dell’affidamento amministrativo. Può anche accadere che i servizi sociali siano coinvolti in seconda battuta,
in seguito cioè ad un provvedimento dell’autorità giudiziaria, come solitamente accade nelle circostanze in
cui sono molto gravi le difficoltà della famiglia di origine. Nei casi di cui ci stiamo occupando, gli
allontanamenti avvengono in larga misura su provvedimento dell’autorità giudiziaria. Questo dato rafforza
ulteriormente l’ipotesi relativa al carattere multidimensionale delle difficoltà che colpiscono i nuclei
familiari censiti.
Quando il giudice interviene, in più del 30% dei casi considerati (quelli relativi alla condotta pregiudizievole
dei genitori, alla decadenza dalla potestà, all’adottabilità e all’abbandono), lo fa per disporre
allontanamenti con poche o nulle possibilità di ritorno dei minori a casa. Il dato conferma il carattere
“estremo” delle accoglienze di cui ci stiamo occupando. Si tratta di interventi di natura emergenziale, che
proprio per questo dovrebbero essere accompagnati da una progettualità in grado di esplicitare tempi e
modalità di accoglienza. E, soprattutto, di chiarire se e in che misura il minore allontanato potrà mai
recuperare una relazione significativa con la sua realtà familiare e il suo ambiente di provenienza. A questo
riguardo constatiamo invece come siano evanescenti le prospettive di futuro dei minori accolti. Dei 19
minori dichiarati in stato di abbandono, ad esempio, solo due sono presenti nei servizi da meno di un anno,
tutti gli altri hanno sulle spalle dai tre ai dieci anni di permanenza.
A supporto di quanto già ipotizzato, può essere utile considerare quanto pesino gli indicatori di disagio
grave della famiglia sui motivi dell’ingresso dei minori nei servizi. In particolare, notiamo che la voce
“degrado familiare”3 viene indicata come rilevante quasi nel 44% dei casi, e quella inerente alla “precarietà
della struttura familiare” nel 38,8%. Il dato è ancora più pesante, se teniamo conto che le motivazioni
indicate come “altro” sono riportabili nella maggior parte dei casi alle due sopra indicate.
Anche le situazioni di dipendenza e/o di disagio psichico di uno o di entrambi i genitori incidono sugli
allontanamenti in misura non banale.
A causa dell’inadeguatezza grave dei genitori naturali, il collocamento dei minori nei servizi assume il
significato di un vero e proprio sradicamento. Basti pensare al fatto che meno della metà (43,5%) dei
bambini e ragazzi considerati incontra settimanalmente i propri familiari. In tutti gli altri casi, gli incontri
avvengono una volta al mese (15,3%), oppure solo in occasione delle festività principali (12,7%). Per 37
minori questi incontri non avvengono mai.
Quando i contatti con i familiari sono previsti, avvengono in molti casi (47,2%) presso la stessa struttura che
accoglie. Senza che vi sia cioè la possibilità di tenere vivi i collegamenti con gli ambienti di provenienza.
Sono relativamente poche rispetto al totale (21%) le situazioni in cui i ragazzi si recano in maniera
autonoma presso l’abitazione di un proprio familiare. Anche con riferimento a questo aspetto, pesano
molto le mancate risposte – 58 in tutto (15%) – le quali opacizzano il dato, rendendolo di più incerta
interpretazione, e danno un’idea dell’approssimazione con cui quanti hanno la responsabilità
dell’accoglienza trattano una informazione così importante per la vita e per il futuro dei minori accolti.
La gravità dei problemi che condizionano le famiglie naturali e il carattere sradicante degli interventi di
allontanamento a cui i minori censiti vengono sottoposti affiorano anche dalle informazioni relative alle
prospettive di futuro dei bambini e ragazzi accolti.
Quando si afferma che le possibilità di rientro in famiglia sono nulle (8,8%) , oppure non prevedibili (36,7%)
o probabili solo nel medio o lungo periodo (51,1%), tali dichiarazioni rappresentano l’ammissione implicita
della mancanza di una progettazione adeguata. Il dato precedente, incrociato con quelli relativi alla durata
del periodo di permanenza nella struttura e alle motivazioni dell’allontanamento, ci dice che l’accoglienza
dei minori allontanati dalla famiglia viene completamente delegata ai servizi residenziali della nostra
3
Parliamo di degrado familiare per riferirci a situazioni di promiscuità della vita di coppia e/o di violenza fisica o
psicologica soprattutto sui minori, mentre utilizziamo l’espressione precarietà della famiglia per intendere una
situazione di evidente indebolimento del tessuto familiare.
9
regione, che sono chiamati a farsene carico fino a quando è necessario. In altri termini, le organizzazioni
impegnate in questo tipo di servizio non si limitano a prestare una prima accoglienza, funzionale alla
predisposizione di un progetto di periodo medio o lungo, ma si fanno carico del minore che viene loro
affidato finché persiste il bisogno. Se l’accoglienza è sine die, come capita nella maggior parte delle
situazioni censite, essa viene portata avanti senza soluzione di continuità, a tempo indeterminato, secondo
modalità schiacciate sul qui e ora, priva di ancoraggi con il passato del bambino (la sua storia, il suo
retroterra familiare, l’ambiente di provenienza), e senza una progettualità che guardi al futuro della
persona accolta.
Nelle 33 situazioni in cui non c’è alcuna possibilità che il minore rientri in famiglia, le ragioni sono in 23 casi
da attribuirsi al mancato superamento delle cause che hanno portato all’allontanamento dalla famiglia e in
10 a motivazioni diverse, come l’assenza dei genitori, l’avvio delle procedure per dichiarare lo stato di
adottabilità, il raggiungimento della maggiore età e il rifiuto di rientrare in famiglia da parte del minore
accolto.
Non risulta prevedibile il tempo necessario per il rientro del minore in famiglia per ben 138 volte. Spesso, in
114 casi, la ragione è nuovamente da ricercare nel mancato superamento delle cause che hanno portato
all’inserimento del minore nel servizio. In una sola circostanza è da attribuirsi alla situazione di handicap del
minore di cui la famiglia non riesce a farsi carico. Altre volte le ragioni sono da ricercarsi in un troppo
recente inserimento nel servizio (che non ha ancora gli strumenti per una valutazione adeguata) o in una
situazione di grave precarietà familiare (in alcune circostanze si tratta di una vera e propria assenza delle
figure genitoriali) o, ancora, nell’avvio di procedure giudiziarie non ancora concluse.
Quando il rientro del minore nella famiglia di origine è previsto nel medio o lungo periodo significa, in
maniera più precisa, che il 71% di loro rientrerà probabilmente in famiglia entro i due anni, il 13,1% in un
periodo compreso tra i due e i tre anni, il 12% tra i tre e i cinque anni e il 3,5% fra più di cinque anni.
Incrociando l’informazione relativa agli anni di permanenza dei minori nei centri residenziali con quella
inerente alle loro possibilità di rientro a casa, viene fuori che quest’ultima opportunità non è attualmente
prefigurabile per 181 di essi, che pure risultano accolti nei servizi da anni, alcuni da oltre un decennio.
Per i bambini e i ragazzi per i quali invece appare possibile il ritorno a casa, tale prospettiva non è però
percorribile nell’immediato. Molti di essi (il 64%) sono lontani da casa da almeno tre anni. Alcuni – 41 in
tutto – hanno già vissuto periodi di permanenza che vanno dai 6 ai 15 anni. Nonostante ciò, la possibilità
del rientro a casa entro i due anni, che rappresentano il limite fisiologico di durata di tutte le accoglienze in
base alla 149, è prevedibile solo per una parte dei minori considerati.
7 La debolezza delle strategie di contrasto all’istituzionalizzazione e della
progettazione educativa
In base ai dati finora commentati, ci sembra di poter affermare che l’accoglienza residenziale così come
viene portata avanti in Calabria non costituisce una efficace strategia di contrasto alla istituzionalizzazione,
ma si configura piuttosto come una sorta di istituzionalizzazione di ritorno.
Il riconoscimento del diritto del minore alla famiglia non prefigura la mera sostituzione del soggetto
chiamato ad accogliere: il tradizionale istituto con la famiglia naturale, o quella affidataria. La vera
deistituzionalizzazione dell’accoglienza si verifica nel contesto di ambienti in cui gli adulti di riferimento
cercano di stabilire con i bambini e i ragazzi ad essi affidati relazioni non mediate da ruoli rigidamente
tipizzati. Questo accade quando il rapporto tra bambini e adulti significativi si snoda secondo i modi
dell’incontro “diretto” (Berger, Luckmann, 1969); quando cioè gli adulti in questione riescono a “centrarsi
sull’altro”, a mettersi totalmente in gioco, uscendo dalla gabbia dei ruoli e dei significati pre-definiti,
coinvolgendosi con tutta l’intelligenza e l’affettività di cui sono capaci.
Relazioni del genere vanno vissute innanzitutto all’interno della famiglia naturale. Questa è la ragione per
cui, in caso di difficoltà, devono esser poste in essere tutte le strategie necessarie ad evitare che i bambini
siano allontanati dalle famiglie di appartenenza, e a far sì che queste ultime siano adeguatamente
sostenute nelle loro responsabilità genitoriali. Quando l’affidamento ad altre famiglie o a comunità di tipo
familiare risulta inevitabile, i soggetti (formali e informali) impegnati nelle attività di cura devono muoversi
entro il quadro di una progettualità che tenga alta la qualità dell’accoglienza, e che preveda tutte le
10
iniziative in grado di reintegrare (in tempi ragionevolmente brevi) i genitori naturali nell’esercizio delle loro
funzioni educative.
In questa prospettiva, assumono una importanza strategica le azioni orientate a favorire l’empowerment
delle famiglie naturali. Si tratta di misure che si propongono di dare priorità alla ritessitura dei rapporti
considerati pregiudizievoli per i bambini e i ragazzi, evitandone l’allontanamento da casa e supportando in
maniera appropriata le relazioni familiari. Esse si concretizzano nella forma di interventi flessibili, non
standardizzati, il cui contenuto viene definito in rapporto al bisogno specifico di bambini e famiglie in
difficoltà. La legge 285/1997 già prevedeva esplicitamente talune di queste forme nuove di supporto e
accompagnamento, come l’affido diurno e l’educativa domiciliare, che ormai “si sono diffuse e consolidate
in diverse parti del Paese e non sono più a esito imprevisto” (Belotti, 2007, p. 98). Un documento del
Coordinamento nazionale dei servizi per l’affido (2006) ne descrive dettagliatamente alcune, come il
vicinato solidale, il sostegno ai nuclei monoparentali. A questo riguardo, sarebbe interessante capire se i
servizi sociali competenti abbiano promosso o sostenuto interventi del genere, a supporto delle famiglie dei
minori oggetto della nostra ricerca. Interventi che sono tanto più necessari, quanto più sono marcate le
difficoltà che colpiscono il nucleo familiare.
L’obiettivo di questi interventi è quello di sostenere i genitori naturali, o gli adulti di riferimento, nella scelta
di assumere nei confronti dei figli (o dei bambini e dei ragazzi loro affidati) la responsabilità di una relazione
educativa significativa. Il presupposto imprescindibile dei percorsi di empowerment delle famiglie,
soprattutto di quelle in difficoltà, non è la presenza di “terapeuti del disagio”, ma l’ascolto delle famiglie
stesse. Questo tipo di ascolto permette di superare la visione della famiglia come destinataria di aiuti da
parte delle istituzioni del welfare, oppure come acquirente di prestazioni nel mercato dei servizi. E
permette anche di considerare tutte le realtà familiari, comprese quelle gravate da problemi, come
portatrici di risorse, da riconoscere, sostenere e valorizzare nell’ambito di reti di vicinanza, da tessere
innanzitutto nel basso, senza trascurare l’apporto, pure importante, dei servizi pubblici.
Da questo punto di vista, l’accompagnamento delle famiglie naturali costituisce un aspetto centrale del
processo di deistituzionalizzazione dell’accoglienza, che non può dirsi ancora pienamente compiuto.
Quando l’allontanamento dei bambini è inevitabile, si impone la necessità di progettare e porre in essere
adeguate strategie di contrasto alla istituzionalizzazione.
La prima dimensione di contrasto è quella riguardante la centralità delle relazioni sociali nella costruzione di
ogni progetto di accoglienza. Un progetto del genere va elaborato mettendo al centro le relazioni familiari
in cui i minori sono coinvolti, cercando anche di valorizzare quelle che si sviluppano al di fuori di essa,
all’interno dei mondi di vita quotidiana (il vicinato, la scuola, i gruppi dei pari, ecc.). Il sostegno a questi
rapporti permette infatti di “configurare un intervento che trova sostegno non solo all’interno della vita
familiare o della vita quotidiana della struttura residenziale, ma anche all’esterno, consolidando e
valorizzando allo stesso tempo le relazioni sociali tra generazioni e tra pari e non solo familiari o di cura”
(Belotti, 2007, p. 95).
Il carattere sradicante dei percorsi di accoglienza praticati dai servizi residenziali regionali appare in
evidente contrasto con il principio della centralità delle relazioni. Non c’è traccia di interventi a supporto
dei genitori prima dei provvedimenti di allontanamento dei minori. Come emerge dai dati a nostra
disposizione, gli interventi a sostegno della genitorialità previsti per le famiglie di origine dei minori accolti –
e realizzati per lo più dai servizi sociali del territorio - appaiono decisamente pochi, sia rispetto al numero
dei bambini e ragazzi interessati, sia in ordine alla gravità dei profili di inadeguatezza più volte evidenziati.
Nel quadro di una efficace strategia di contrasto alla istituzionalizzazione, è significativa anche la qualità
delle relazioni che si stabiliscono tra le persone interessate dall’intervento – i genitori e i figli, in particolare
– e gli operatori che lo progettano o lo pongono in essere. Questa sottolineatura è importante, in quanto “il
contrasto all’istituzionalizzazione non sta tanto nell’assicurare una protezione di tipo fisico, alimentare o
scolastico, già garantita a suo tempo dagli stessi istituti, ma nella personalizzazione di un rapporto
relazionale significativo e stabile anche con gli adulti e i professionisti del sociale che hanno
temporaneamente, dal punto di vista fattuale, i compiti della realizzazione della presa in carico” (ibidem).
Da questo punto di vista, appare ancora più grave l’incertezza relativa al numero degli operatori presenti
nei servizi residenziali, alla loro qualificazione professionale, al loro inquadramento contrattuale.
11
La seconda dimensione di contrasto è quella che passa attraverso la costruzione di interventi personalizzati,
tutte le volte in cui un servizio si coinvolge nella vicenda di un bambino o una famiglia in difficoltà.
Interventi di questo genere presuppongono la capacità di impostare un “progetto quadro”, tenendo conto
della specifica situazione relazionale del bambino e della sua famiglia presi in carico dai servizi sociali, e
“ricercando in via prioritaria la collaborazione con il bambino e i suoi familiari per la sua definizione e
operatività” (ibidem, p. 97). La stesura del progetto quadro spetta ai servizi sociali competenti. Esso
dovrebbe innanzitutto prevedere una stima attendibile dei tempi che occorrono per una efficace ritessitura
dei legami tra il bambino e la famiglia di origine. Se questa valutazione non è praticabile, come accade per
la maggior parte dei minori di cui ci stiamo occupando, sarebbe opportuno darsi tempi di verifica e di
ricalibratura del progetto. In ogni modo, è importante che nel tempo dell’inserimento residenziale siano
adottate tutte le misure necessarie a “facilitare, sostenere o mantenere le relazioni di vita quotidiana dei
soggetti allontanati” (ibidem, p. 102), tenendo presente che l’obiettivo di fondo di ogni accoglienza
residenziale è quello di favorire il rientro dei bambini nelle rispettive famiglie nel più breve tempo possibile.
Nelle pagine precedenti, abbiamo messo in evidenza la difficoltà di rispettare questa condizione nei casi di
cui ci stiamo occupando.
Il progetto quadro serve anche ad esplicitare in che modo si distribuiscono i compiti di cura e di
accompagnamento tra i diversi soggetti, formali (servizi del territorio, consultori, tribunale per i minori,
scuole, ecc.) e informali (la famiglia naturale, le reti di vicinato, i gruppi dei pari, parrocchie, ecc.), coinvolti
nel percorso di accoglienza. In altri termini, esso chiarisce in che modo ognuno di questi soggetti si fa
concretamente carico – nell’ambito delle sue specifiche competenze e possibilità operative – dei minori
allontanati e delle loro famiglie in difficoltà. L’accoglienza si muove nella prospettiva di una
deistituzionalizzazione autentica se non produce nuove deleghe, ma si costruisce nell’ambito di reti di
corresponsabilità in cui si muovono diversi soggetti, con l’obiettivo di produrre risposte differenziate, in
base ai bisogni dei bambini da accogliere e delle loro famiglie in difficoltà (Zappa, 2008, p. 8).
Nei casi che stiamo considerando, la frequenza dei contatti tra responsabili e operatori dell’accoglienza, da
una parte, e gli altri soggetti istituzionali non sembra tale da poter configurare la densità di una rete del
genere. Emerge un collegamento discreto dei servizi residenziali con gli istituti scolastici e con le parrocchie
(e le altre agenzie educative del territorio). Il 40% circa dei responsabili intervistati afferma però di non aver
alcun contatto con il tribunale per i minori, e solo uno su quattro dichiara di interagire con i servizi sociali
del territorio una o più volte al mese. I dati disponibili ci fanno intravedere non una rete tra soggetti
corresponsabili, ma una trama di collegamenti laschi, che produce deleghe in bianco a quanti si occupano
degli aspetti concreti e quotidiani dell’accoglienza.
La terza dimensione di contrasto all’istituzionalizzazione è quella inerente al contenuto degli interventi da
attuare con riferimento a bambini, ragazzi e famiglie in difficoltà.
Il supporto alla famiglia naturale, di cui si è già detto, è l’intervento a cui dare sempre priorità, allo scopo di
prevenire lo sradicamento dei bambini e dei ragazzi da casa propria.
Quando l’allontanamento è inevitabile, l’intervento a cui dare priorità è l’affidamento familiare. Tuttavia,
continuano ancora ad essere di più i minori accolti in strutture residenziali rispetto a quelli affidati a
famiglie disponibili.
Si pone perciò l’esigenza di curare la qualità dell’accoglienza residenziale, verificando nel concreto la
sussistenza di aspetti fondamentali come quelli, ad esempio, che hanno a che fare con l’organizzazione dei
luoghi, dei tempi e degli spazi, con la competenza degli operatori.
Per quanto riguarda i minori oggetto della nostra indagine, i dati ci dicono che le attività che scandiscono i
ritmi della loro vita quotidiana si svolgono soprattutto all’interno del servizio in cui sono accolti, fatta
eccezione per la frequenza scolastica, che avviene normalmente in istituti scolastici esterni.
Un altro segno di scarsa osmosi con l’esterno è costituito dal fatto che il perimetro delle strutture abitative
rappresenta un limite non facilmente valicabile. I minori accolti che non possono allontanarsi
autonomamente dal servizio sono 193, ossia il 50% del totale. Solo per una minoranza di essi è prevista la
possibilità di muoversi autonomamente per andare a scuola, trascorrere il tempo libero, incontrare amici o
compagni di classe.
All’interno delle strutture abitative, i bambini e i ragazzi presenti si collocano più come fruitori passivi dei
servizi di cui sono destinatari, che come corresponsabili della gestione di ambienti e attività comuni. Il loro
12
coinvolgimento attivo è sollecitato in modo significativo solo in ordine alla pulizia delle stanze e degli
ambienti comuni. La stessa cosa non accade rispetto ad altri aspetti importanti della vita quotidiana di una
comunità familiare, come occuparsi dei più piccoli, preparare da mangiare o fare la spesa.
All’interno del progetto quadro si colloca il “progetto educativo individualizzato”, la cui elaborazione
compete ai responsabili e agli operatori dei servizi residenziali, e si occupa in modo specifico del
bambino/ragazzo e degli aspetti educativi dell’accoglienza. Esso stabilisce, per ogni minore accolto, quali
sono gli obiettivi da raggiungere sul piano educativo e dell’integrazione sociale e scolastica, e quali sono gli
strumenti per conseguirli. La stesura di questo progetto presuppone la trasmissione dal servizio sociale
competente ai responsabili delle comunità di accoglienza di tutte le informazioni relative ai minori, alla
famiglia e all’ambiente di provenienza. Tale documento costituisce la base essenziale di un lavoro orientato
a tessere attorno ad ognuno dei bambini accolti una trama di relazioni significative, dense, capaci di
restituire loro affetto e fiducia nelle proprie possibilità. Quanto più è complicata la condizione dei minori e
dello loro famiglie, tanto più è necessario predisporre un progetto individualizzato che sappia fare i conti
con tale complessità.
A questo proposito, vale la pena evidenziare il fatto che una porzione considerevole dei bambini e ragazzi di
cui ci stiamo occupando manifesta condizioni di disagio non irrilevanti. Molti di essi pongono in essere
comportamenti aggressivi, e sperimentano difficoltà sul piano delle relazioni con i pari e con gli adulti di
riferimento. Sono numerosi anche i casi in cui sono presenti disturbi di natura patologica.
La qualità del progetto individuale rappresenta la cartina al tornasole più attendibile della qualità
dell’accoglienza offerta nei servizi residenziali. La progettazione che dovrebbe accompagnare e orientare
l’accoglienza di minori con le difficoltà appena evidenziate dovrebbe essere particolarmente curata. Forse
dovrebbe anche suggerire la necessità di una differenziazione sul piano degli interventi, che tenga conto
della molteplicità, della eterogeneità e della gravità dei bisogni manifestati dai minori considerati.
Alla luce di queste ultime considerazioni, colpisce molto il dato per cui nel 21,5% del casi non viene fornita
alcuna indicazione relativa al progetto individuale.
Nelle situazioni in cui il progetto individuale viene approntato, la verifica periodica di esso viene affidata
otto volte su dieci ai componenti della équipe che opera all’interno del servizio, mentre quasi mai è
previsto che ad essa prendano parte gli altri soggetti, formali ed informali, tra cui si dovrebbe ripartire la
corresponsabilità dell’accoglienza.
La debolezza della progettazione educativa è il segno più evidente del carattere segregante delle comunità
residenziali calabresi. Siamo di fronte al riprodursi della vecchia istituzionalizzazione in forme nuove solo
dal punto di vista della denominazione formale del servizio. All’interno di queste realtà, i bambini e i ragazzi
non vengono accolti, ma ricoverati. Esse ci appaiono non tanto come comunità familiari, in grado di
promuovere il diritto dei minori accolti alla famiglia, ma come contenitori dei “dimenticati” dell’assistenza,
di “vite di scarto” che non si vogliono vedere e che non si sa come integrare.
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