mustang - L`Eterno Ulisse

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mustang - L`Eterno Ulisse
i viaggi
de
ETERNOULISSE
L’
ERNESTO DE ANGELIS
RIGEL LANGELLA
MUSTANG
SCRIGNO SEGRETO DELL’HIMALAYA
Edizioni Ludica Snc
Bandiere di preghiera
Chorten
Possano tutti i viaggiatori trovare la felicità,
in qualsiasi luogo si rechino,
e qualunque sia lo scopo del loro viaggio
possano essi realizzarlo, senza alcuno sforzo.
Shantideva,
Bodhisattvacharyavatara, X, 23
Pianta
dell’Upper Mustang
ERNESTo DE ANGELIS
RIGEL LANGELLA
MUSTANG
SCRIGNo SEGRETo DELL’HIMALAYA
Stupa
EDIZIONI LUDICA
ISBN 978-88-908640-5-6
Lo MANTANG:
PoLvERE E bELLEzzA
NELL’ULTIMo REGNo HIMALAYANo
L’ardua inerpicata in dieci tappe di Rigel Langella e Ernesto De Angelis
nella regione dell’Alto Mustang, testimoniata da un formidabile corredo di immagini
in questo libro prezioso e incantevole, ha tutte le caratteristiche di ciò che in India
si definisce «guado» (tirtha), in senso sia fisico che simbolico. Infatti ciò che conta
per il viaggiatore non è tanto la mèta da raggiungere, per strabiliante che sia
nel minuscolo regno pietroso di Lo Mantang, ma il camminare stesso con la sottile
metamorfosi di chi lo compie, arrendendosi agli stenti, alle fatalità, alle sorprese (spesso
spiacevoli) di un’avventura il cui compenso è apprendere a ‘guardare’
con occhi nuovi, a rivivere un secondo battesimo della mente e del cuore.
Da occidentali, avvezzi a dare al corpo gli agi essenziali senza i quali la molestia cresce
di giorno in giorno in maniera esponenziale, il viaggio nella «Piana delle aspirazioni
dello spirito» (questo significa nella lingua locale Lo Mantang), mette
a durissima prova la resistenza di tali aspirazioni: può mai esserci spiritualità – si
domandano gli autori – nel lezzo del letame, nella promiscuità dei nativi con polli,
mucche, cavalli e yak, nell’incapacità dei monaci di discriminare il valore originale dei
dipinti sulle pareti dei fatiscenti monasteri rispetto a quello delle icone restituite
a nuova bellezza da un valoroso restauratore italiano che da una simile esperienza
ha visto la propria vita trasformata? In queste remote plaghe dove la polvere si avvita
in turbini accecanti e il cielo è vicinissimo, la spiritualità non è un’astrazione rarefatta
e invetriata alla nostra maniera, ma una miscela suppurante e sublime di afrori e profumi,
dove superstizioni millenarie su dèmoni e malefizi convivono accanto alle pratiche
di concentrazione impassibile di bodhisattva oramai ben rari perfino sulle pendici
himalayane, e le ruote di preghiera nel loro volgersi incessante parificano le acque
della vita e della morte.
Se si volesse azzardare un paragone, mentre il viaggio fatidico di Dante si scandì
intimante e reciso tra inferno,purgatorio e paradiso, nello scrigno non più segreto
di Lo Mantang, arreso al turismo in alta quota, i tre piani di esperienza sembrano
fondersi e confondersi rendendo l’ avventura dei due ricercatori italiani sulle orme
di Giuseppe Tucci ancora più straniante e arcana.
Grazia Marchianò
bhaktapur, fregio templare con Naga
Introduzione
M
entre nell’aria umida dell’autunno cerco di rimettere insieme le mie impressioni sul Mustang mi ritrovo a ricomporre schegge di memoria.
Per raccontare come quella restricted area sia divenuta ciò che è oggi ho cercato di leggere tutto quanto
ho trovato sull’argomento, per confrontare la mia
esperienza con le informazioni messe insieme e
poco a poco è cominciata a emergere un’immagine
più compiuta. In fondo ha ragione Tucci nel dire che
i paesi, soprattutto quelli meno conosciuti, sono
come le persone: bisogna presentarli. Ma cominciamo dall’inizio.
Mettendo in ordine i libri della biblioteca ho trovato
una vecchia guida turistica dal nome evocativo tanto
che, sebbene non utilizzabile, ho deciso di conservarla: Viaggio all’Eden. Ossia il modo per arrivare
dall’Europa a Kathmandu via Istanbul, quindi via
terra. Un tipico libro Anni Settanta, quando tanti
“figli dei fiori” andavano, tornavano e qualche volta
restavano: a lungo, per sempre o per l’eternità.
Quello che mi rattrista, sfogliando il libro, è che qualsiasi adolescente, bombardato dalle tragiche e ricorrenti immagini che arrivano da Iran, Iraq,
Afghanistan e Pakistan possa legittimamente pensare
che si tratti di una storia dell’epoca di Marco Polo…
perché dai tempi del Milione e degli avventurosi
mercanti di Venezia, questo viaggio o questo sogno
sembrano essere diventati irrealizzabili. Basta leggere le tappe salienti del viaggio nel regno proibito
dell’Asia: Teheran, Herat, Kandahar, Kabul e così
via, quella che una volta, appena quarant’anni fa, era
una scia di speranza in un mondo di pace e fratel-
bhaktapur, skyline della città avvolta dalla bruma dell’alba e la stessa inquadratura alla luce del tramonto
lanza universale, è diventata una lunga scia di sangue. Sembra davvero un’epoca remota quella in cui
tutto ciò accadeva. Dato che ora –e chissà per quanti
anni– non potrà accadere più.
Comunque la meta finale: Kathmandu, è sempre lì.
Anche se va detto che il quadrato ben evidenziato da
una bella crocetta, al centro della mappa ormai ingiallita della vecchia guida, non esiste più o meglio
non indica più niente: era l’ambasciata italiana,
chiusa da anni per i tagli alle spese.
Ancora oggi, però, molti di quegli italiani che si
erano trasferiti in Nepal, per la presenza dell’Ambasciata, aprendo negozi e ristoranti o addirittura piccoli caseifici, perché senza il giusto formaggio, la
maggior parte delle ricette della nostra gastronomia
sarebbe improponibile, sono rimasti e altri sono poi
arrivati. Insomma, in Nepal sono ancora tanti gli italiani che vanno e qualcuno ci resta pure, non solo ristoratori, gestori di piccoli alberghi, guide turistiche,
ma anche restauratori, volontari e qualche avventuriero.
Facile scovarli, tra passa parola di viaggiatori e internet. Così nel giro di quattro anni sono finita in
Nepal per ben tre volte. Non un record perché andando ti capita di incontrare persone che “svernano”
periodicamente: il negoziante fiorentino in cerca di
articoli sfiziosi da rivendere al centro commerciale
di lusso nel periodo natalizio, la scrittrice romana che
aiuta i bambini di Pokhara, l’ex ristoratore torinese
che insegna il mestiere di pizzaiolo ai ragazzi dell’orfanatrofio e così via.
Per questo scelgo la Casa nepalina di Bakthapur, gestita da Francesco, non per il prezzo (sopra la media)
né per il servizio (più o meno nella media), ma perché la sera, nella corte interna o attorno al tavolo comune, dove viene servita la cena, si gusta il caffè
fatto con la moka, si incrociano tante storie, tanti
volti, tante avventure. Un crocevia dove inevitabilmente finiscono, volenti o nolenti, i viaggiatori indipendenti perché trovano contatti, fanno tappa,
lasciano bagagli, organizzano trek estremi o escursioni o semplicemente visitano la Valle e comprano
pashmine.
Già: Viaggio all’Eden, non solo per i paradisi artificiali, ma perché quella di Kathmandu era davvero la
Valle degli Dei.
La vaLLe degLi dei. e dintorni n 9
CApIToLo I
La valle degli Dei
e dintorni
N
epal: «paese arcaico di contadini e artigiani,
come un paese incantato tra queste montagne
altissime – atmosfera medievale – vallata aperta tutta
a terrazze di riso d’un verde tenerissimo commovente, con attorno i monti più verdi più cupi e un
cielo azzurro intenso con nuvole luminose, gloriose,
altissime –sulle colline i paesi di mattoni con i cocuzzoli dei templi che sporgono– natura molto dolce,
tanti animali, uccelli, scimmie, cani, topi –lo spirito
religioso della gente che lavora con dio in testa– il
miscuglio di buddhismo e induismo –i nepalesi piccoli montanari e fieri, molto più liberi degli indiani–
l’atteggiamento più libero delle donne –la gente serena, nessuna tensione o vibrazione negativa– le tibetane più libere di tutte, con divorzio, tanti mariti,
figli da chi vogliono».
È un brano tratto da un diario di viaggio dei mitici
Anni Settanta e riportato nella vecchia guida ingiallita. Anche l’immagine del libro che evocava Il viaggio all’Eden è ingiallita. oggi Kathmandu è una delle
metropoli più inquinate del mondo, il traffico è caotico, e se la guida sarebbe in teoria a sinistra, secondo
la regola anglosassone, la regola è l’ovunque. ovunque c’è un varco, ovunque c’è un buco, ovunque c’è
una scala o un marciapiede o un senso vietato l’autista nepalese si infila. Non certo con serenità ma con
prepotenza e tracotanza. Strombazzando smodatamente. Le risaie sono scomparse, seppellite dalle
case, che non capisci come stiano in piedi, perché
l’invenzione del filo a piombo sembra non aver valicato la catena himalayana. I ponteggi sono realizzati
con canne di bambù dove i muratori si arrampicano
come possono e meglio non chiedersi con quali mani
possano lavorare.
Bhaktapur, scuola tradizionale di pittura
Tutti girano con mascherine davanti la bocca, all’uso
giapponese, ma invano. Le moto rombano, i bus ansimano, i camion indiani arrancano, tutti lasciandosi
dietro nuvole nere, dense e oleose. Alla sera in hotel
lo smog ti viene fuori a cubetti, perfino dalle orecchie
e molto oltre…
Il cielo è grigio e sperare di vedere almeno una delle
1.300 montagne, alte più di seimila metri, dal crinale
della valle è ormai una chimera. Furbi ed efficienti i
venditori ambulanti aspettano lo scemo di turno che,
dopo aver percorso più di 30 km di curve a gomito,
arriva invano al punto panoramico di Nagarkot, sepolto nelle brume perenni. Sono lì per vendergli a
100 rupie un poster delle montagne che la nebbia cela
perennemente, anche in ottobre, il mese in cui un
tempo l’aria era sempre tersa e pulita, alla fine del
monsone. Al tempo in cui volavano gli aquiloni.
10 n La vaLLe degLi dei. e dintorni
Il Nepal è un paese poverissimo e il lusso di preservare l’ambiente non può permetterselo, ma considerato che l’unica industria del paese è quella turistica,
che lo rifornisce di valuta pregiata, forse potrebbe almeno provarci.
Ci aveva provato Bhaktapur –o meglio ci aveva provato la Germania che ne aveva sostenuto i costi– a
creare un’isola pedonale nel paese medievale, sottratto a un inesorabile declino da un restauro certosino. È durato un battito d’ali.
Sul National Geographic del novembre Duemila, si
leggeva che se un tempo il Nepal era sinonimo d’evasione, oggi è la dimostrazione che non si può sfuggire
Bhaktapur, durbar square invasa dalle moto
nella zona interdetta al traffico
ai problemi dei nostri tempi, con un’eccezione: Bhaktapur. Dalla descrizione della città si capisce quanto
sia ormai d’antiquariato anche questo riferimento,
perché i paesi “giovani” cambiano in fretta: “Bhaktapur è talmente ricca di meraviglie architettoniche e
artistiche che è stata dichiarata dall’onu patrimonio
dell’umanità. Eppure questi tesori, compresa la famosa pagoda a cinque piani di Bhaktapur (la più alta
del Nepal), continuano a soffrire l’abbandono e il degrado ambientale. per affrontare il problema, il Consiglio comunale della città ha adottato una strategia
concreta: al contrario di Kathmandu, dove la crescita
incontrollata ha prodotto un’aria irrespirabile e un
traffico caotico, a Bhaktapur i motori a combustione
interna sono stati banditi dal centro storico, e vige il
divieto di abbattere le vecchie case in stucco e legno
per far posto a nuovi edifici in cemento”.
Le cupole dorate del Tempio Nyatapola o del palazzo
reale sono sempre rilucenti, immagini fiabesche ben
note anche in occidente per aver ospitato il set di Piccolo Buddha, ma offuscate dalla crisi d’identità di un
paese duttile, che oscilla tra medioevo e modernità.
Un paese, come mi diceva Krishna in un buon italiano, che schiacciato tra i giganti d’oriente, India e
Cina, è come l’imbottitura di un panino: piccola e sottile, ma buona, così buona che tutti vorrebbero mangiarsela in un sol boccone…
Nel mio secondo viaggio mi sono piazzata davanti al
posto di polizia di Durbar Square, che controlla implacabilmente che ogni visitatore abbia lasciato il suo
obolo e pagato il biglietto d’accesso alla città, con tariffe diverse per i differenti paesi di provenienza. Attorno al cartello con il disco rosso e la striscia bianca
del divieto d’accesso, appoggiato a una transenna arrugginita, c’era un ininterrotto andirivieni di motociclette. Mi sono fermata a fotografare, così
insistentemente e a lungo, ritraendo dalla mia improvvisata postazione ZTL almeno tre motocicli al minuto, accompagnandomi con una mimica eloquente,
che il poliziotto è dovuto uscire dal suo letargico torpore, affrontare il caldo della piazza, per fare un
cenno svogliato a un motociclista, che dopo aver affrontato la scala d’accesso (sì, proprio una lunga scalinata in salita che dal parcheggio dei pullman turistici
conduce alla porta d’ingresso), non poteva capacitarsi
di dover tornare indietro. Solo che appena mi sono girata soddisfatta è passato imperturbabile, e molto più
soddisfatto di me. E il poliziotto, vi chiederete? Me
lo chiedo ancora pure io, che avevo la voglia di inseguirlo dentro la sua garitta, dissuasa solo dalla prospettiva delle prigioni locali.
Ho sempre avuto la voglia di scrivere all’Ambasciata
Tedesca, che aveva sponsorizzato il restauro a condizione tra l’altro –almeno così mi è stato detto– di
creare un’isola pedonale nel centro storico, ma credo
che non possano ignorare il fatto.
Quindi passeggiare a Bhaktapur è come rischiare la
vita tra i negozietti di Thamel, dove, ogni volta che
scendi un gradino, rischi l’amputazione del piede. Mi
dicono che la regola, ossia il divieto d’accesso, sia
stata infranta per le pressioni dei commercianti che
chiedevano di poter rifornire di merci i propri negozi
in certe fasce orarie. ora sui mattoncini rossi che pavimentano a spina di pesce le strade medievali, come
a Certaldo Alta e in tanti borghi toscani, sfrecciano
moto, auto, trattori, pullmini, a ogni ora del giorno e
della notte, strombazzando all’impazzata per chiedere
strada dove strada neppure c’è, tra trambusto e sporcizia, dissestando il manto stradale, aprendo voragini
e facendo crollare stucchi e intonaci. Mentre nei dépliant distribuiti ai turisti, il Consiglio comunale, presieduto dagli ex-maoisti ormai al potere, si vanta della
sua opera di preservazione dell’habitat, di restaurare
palazzi, di distribuire gratuitamente mattoni per non
Bhaktapur, durbar square studenti e insegnanti
con la divisa del college,
in visita alla cittadella medievale
12 n La vaLLe degLi dei. e dintorni
modificare lo stile newari… mentre all’intorno orribili palazzine in cemento si moltiplicano e le risaie
arretrano, cambiando lo skyline di una città medievale, scandito da tetti, terrazzi e pagode. Come ovunque, perché quella che era una zona rurale oggi ospita
almeno due dei trenta milioni di abitanti del paese.
Durbar square è sempre uno spettacolo, non solo
d’arte e cultura, ma di colori e sorrisi. Le scolaresche
che vengono in gita, sciamano tutte in divise colorate, alunni e docenti. I negozi sono sempre affollati,
nelle vie s’incontrano riveriti bramini chiamati a celebrare la puja, sempre accompagnati da una processione di musici e dai devoti con le offerte rituali,
uomini spesso di alta cultura, capaci di leggere i testi
vedici e parlare correntemente il sanscrito, la lingua
sacra tramandata in famiglia, di generazione in generazione.
Bhaktapur, madre e figlio al mercato (alto)
Bhaktapur, Pujari,
bramini con le offerte per la puja (sx in basso)
Scuola di musica newari (dx in basso)
MuStang, Perché n 13
CApIToLo II
Mustang, perché?
D
ell’Everest si dice: because it is there. Si va, si fatica, si rischia, semplicemente perché c’è ed è là.
Impassibile e impossibile, sembra sfidare il nostro anelito di travalicare tutte le Colonne d’Ercole che la vita o
meglio i suoi condizionamenti ci impongono.
Del Mustang si può dire lo stesso. In verità, a parte la
predilezione per i piccoli regni himalayani, l’interesse
impellente è sorto in me assieme all’allarme per la costruzione della strada voluta dalla Cina, che unendo il
Tibet all’India, avrebbe rotto l’atavico isolamento dell’ultima restricted area del pianeta. Una preoccupazione
condivisa dall’ultimo re e pure da fondazioni, associazioni e gruppi ambientalisti in tutto il mondo. Il timore
di vedere trasformata la piccola capitale di questo minuscolo regno, con l’apertura dei famigerati karaoke per
camionisti cinesi (si scrive: karaoke, si legge: bordello,
in un paese dove la prostituzione è reato), come accaduto in Tibet, rende le notti insonni a tanti e non solo
buddhisti.
Si tratta, in effetti, di una zona a ingresso limitato. Secondo le regole poste dal Governo nepalese, dopo
l’apertura del 1992, vennero ammessi appena duecento
forestieri per anno. Da allora il numero dei visti fu aumentato a mille l’anno, in tutto il mondo, con i visitatori
sempre accompagnati da una guida abilitata e da un ufficiale di collegamento non essendo consentito viaggiare da soli.
In Mustang si erano rifugiati i cavalieri Kampa, i partigiani della resistenza tibetana all’occupazione cinese,
dopo l’occupazione del 1959. Qui si addestravano e da
qui partivano per azioni di guerriglia contro le truppe di
Mao. La resistenza tibetana finì ufficialmente nel 1974,
quando il Dalai Lama chiese ai patrioti tibetani di deporre le armi, ma il Mustang rimase precluso agli stranieri ancora per lungo tempo.
Ricordo che, sulla via del ritorno, uscendo da Lo Mantang mi chiedevo come potessero vivere e dove potessero nascondersi questi figli del vento. Un numero
enorme (sembra più di 5mila) per una terra così povera
di risorse, dove la sopravvivenza è tanto difficile. poi
dalla direzione opposta alla nostra vidi improvvisamente arrivare al galoppo, sul sentiero scosceso e friabile, un cavaliere che cavalcava senza sella, lieve come
uno spirito errante, un cavallo non ferrato. Mi fermai
per guardarne le fattezze e ammirarne l’abilità, ma avvicinatosi a noi scartò verso la sua sinistra, affrontando
una discesa ripidissima, e sparì definitivamente alla nostra vista, in un attimo, così come era apparso, diretto
Dio sa dove…
Il visto è molto, molto costoso il che, unito al fatto che
manchino strade, telefono, luce, computer e tanto di più
fa sì che per entrare non ci sia proprio una ressa.
Un viaggio del genere comincia immancabilmente seduti davanti al pC a mettere insieme le tante tessere di
un mosaico che rappresenta l’aspirazione a ritrovare il
paradiso perduto, il sogno di Morgana. Innanzitutto si
cerca di consultare e scaricare una mappa dettagliata,
l’andamento altimetrico del percorso e i diari di viaggio:
spesso più accurati e affidabili di tanti reportage giornalistici e, in genere, molto entusiasmanti e contagiosi.
Si curiosa tra le foto, si cerca di indovinare l’età dei
trekkers. Su un sito inglese si trova perfino il dettaglio
del percorso in rosso, tratteggiato sopra la foto di una
specie di precipizio. Comunque sembrano tutti sorridenti, contenti, in buona salute e neppure giovanissimi.
Libri e guide sul Mustang, considerato che in pratica
non c’è domanda, quindi mercato, sono molto rari.
Nelle guide del Nepal, si trova al massimo qualche
riga. Sulla Lonely planet o Routard neppure quella.
L’unica guida in italiano risulta ormai esaurita da anni.
Allora ti arrampichi sullo scaffale più alto, impervio e
impolverato della tua biblioteca e vai a ricercare i resoconti di Giuseppe Tucci, immaginando che da allora
sarà tutto cambiato.
carovana di muli che ridiscende in direzione di Jomsom
La seconda fase, dopo che il dado è tratto e hai preso la
decisione di cacciarti in un’avventura più grande di te, è
la ricerca di un’agenzia in loco per il viaggio. Cominci a
cercare, scrivere. E aspetti. Con l’agenzia e la guida bisogna avere la fortuna che il coraggio di andare meriterebbe. Ma non sempre è così. oggi la richiesta di
trekking è una voce importante nelle entrate turistiche
del Nepal e molti improvvisati agenti di Kathmandu pensano che basti saper camminare per poter accompagnare,
ma non è affatto così…
Gironzolando per le vie di Thamel si può vedere quanto
numerose siano le agenzie vere o autoproclamatesi specialiste in trekking, all’incirca due-trecento, ma Reinhold
Messner –non a caso– si è sempre affidato a un ex-colonnello dell’esercito buthanese e non ai pur numerosi
tour operator nepalesi.
Non bisogna dimenticare che la storia delle “genti del
riso”, gli agricoltori delle fertili vallate di fondo valle, è
diversa da quella delle “genti dell’orzo”, tibetani degli
altipiani, differenti per lingua, etnia, conoscenza della
montagna, empatia con il genius loci. Questo, però, l’ho
saputo dopo.
gregge di capre diretto al mercato di Jomsom.
dalla pregiata lana del ventre si ricava la pashmina
L’imponente mole del versante nord
del Nilgiri che domina
il campo d’atterraggio di Jomsom
Alba a Ghasa
Avventurieri e studiosi. In più di seicento anni solo
qualche decina di stranieri era passata per il Mustang: un paio di cappuccini italiani sulla via di
Lhasa alla fine del XVII secolo, un monaco giapponese nel 1899 e qualche avventuriero e studioso
come Giuseppe Tucci in questo secolo (Tiziano Terzani, In Asia, 336).
Ghiacciai e praterie. Il trapasso nel nuovo paesaggio
è graduale. Le foreste si fanno più rade, le conifere
punteggiano i pendii facili, il fiume riposa, quasi voglia prender lena per la prossima corsa, in valli larghe e vi si attarda placido e innocuo. Il cielo stanco
dell’uggia che lo intristiva splende terso di un turchino così intenso che sembra calare velami azzurri
sulle montagne, le rocce cominciano ad avere i riflessi dell’oro con venature verdi. I ghiacciai ammiccano sopra a noi e riscaldano la propria solitudine
sotto la carezza del sole… L’afa delle valli anguste
ed umide cede al saltellare di venti freschi (Giuseppe
Tucci, Tra giungle e pagode, 93).
Siamo in Tibet. A Marpa le ultime tracce del Nepal
scompaiono, siamo in pieno Tibet (Giuseppe Tucci,
Tra giungle e pagode, 99).
Memorie labili. Le mie memorie del Mustang sono
labili e a Kathmandu facilmente si disperdono.
Quando tento di riportare alla mente il tempo trascorso lì, riesco solo a percepire frammenti… Del
Mustang nulla sapevo. A malapena conoscevo il
Nepal. Ero cresciuta negli Stati Uniti ed ero tornata
in patria da appena un anno. Sapevo che il Mustang
è uno dei 75 distretti del Nepal e che si estende da
sud a nord dell’Himalaya. Sapevo pure che la zona
dell’Upper Mustang è una delle ultime aree del pianeta a essere “restricted”, ossia off-limits per gli
stranieri. Ovviamente conoscevo pure i soliti stereotipi sulle vallate remote, i regni tibetani e i leopardi
delle nevi. E sapevo ancor meglio che si potevano
incontrare sequestratori, ma l’idea di una comunità
tagliata fuori dalla civiltà moderna stuzzicava la mia
fantasia (Manjushree Thapa, Mustang Both in
fragments, 15).
a JoMSoM n 17
CApIToLo III
A Jomsom
L
e tappe di avvicinamento ci hanno portato da Kathmandu a pokhara, per tentare poi di raggiungere Jomsom. Mentre prenotavo il viaggio e il relativo
biglietto aereo, che è la prima cosa da fare, considerato che la rotta pokhara-Jomsom è coperta da piccoli
aerei ad elica che trasportano al massimo venti persone, leggevo le notizie di disastri aerei ricorrenti.
“Rotta della morte”: con le notizie sull’ultimo velivolo della Agni Air caduto in maggio. E se malauguratamente digiti: aeroporto di Jomsom, il
collegamento internet ti rovescia addosso tutte le foto
del disastro, con pezzi di aereo e di vittime compresi.
Il volo è brevissimo, 18 minuti per percorrere 80 kilometri, ma in quegli 80 kilometri si deve superare l’Himalaya. Se uno sapesse prima cosa l’aspetta forse
cercherebbe di prendersi qualche giorno in più per farsela a piedi… In realtà l’aereo percorre la stretta valle
sinuosa, adagiata sui fianchi dell’Annapurna, Machupucchare e Nilghiri a destra, Dilghiri a sinistra, da cui
si sprigiona il terribile e implacabile vento del Mustang. Quindi i voli sono operativi solo entro le 9 del
mattino, se non piove, non c’è nebbia o neve o nuvole
basse e così via. In pratica sono più le volte che non
si parte che quelle in cui si riesce a decollare. poi ci si
mettono pure gli scioperi, come nel nostro caso, che
hanno bloccato sistematicamente l’aeroporto di pokhara per tutto il mese a causa della rivendicazione di
una nuova pista o qualcosa del genere, con gli scioperanti sotto un baldacchino, musica tradizionale e
ghirlande di fiori al collo che sembrava un festival
folk ed eri portato a solidarizzare, anziché imprecare.
L’idea di arrivare in jeep tutto sommato mi piaceva,
considerato il vantaggio di avere un giorno in più per
aeroporto di Pokhara (alto), davanti a noi emerge dalle nubi la vetta del
Machupucchare (basso) da aggirare via terra. Seduti sui gradini cerchiamo
di intuire i passi e le frane che dovremo affrontare
18 n A Jomsom
acclimatarsi alla quota elevata e allontanarsi gradatamente dal paesaggio lussureggiante di pokhara per salire verso le aspre giogaie.
purtroppo, però, il periodo monsonico aveva lasciato dietro di sé molte frane e la strada diretta
era ancora impercorribile, così si è resa necessaria una lunga deviazione. Che ci ha portati attraverso Ghasa e Dana fino a Marpha. Dovevamo
partire alle 7 del mattino e arrivare alle 7 e 20.
Siamo partiti alla stessa ora, ma arrivati solo alle
13 del giorno successivo! per fare appena 80 kilometri, ma che kilometri e che strada, risalendo
il corso della terribile Kali Gandaki, il fiume che
dà la vita (mele, albicocche, grano) e la morte
(frane, inondazioni e siccità) al piccolo reame
del Mustang, dal clima temperato freddo, ma
arido, con appena 250 mm di precipitazioni
l’anno. Anche se il monsone, con i cambiamenti
climatici in atto, ora si protrae più a lungo e riesce a superare la barriera himalayana, un tempo
impenetrabile.
Un’altra curiosità del Mustang: in Nepal non esiste più la monarchia, dopo il massacro reale del
1 giugno 2001, ma il Mustang conserva il suo
amato Raja, sebbene ormai vecchio e malato.
Jigme palbar Bista, che formalmente deteneva
solo il rango di ufficiale dell’esercito nepalese, è
il venticinquesimo discendente diretto del fondatore della dinastia, che giunse qui dal Tibet nel
XIV secolo. Invece il Raja è sempre stato il centro e il perno di riferimento per la popolazione.
Nel 1951 quando i cinesi entrarono in Tibet il
Mustang chiuse le sue frontiere a nord e nel 1959,
quando l’esercito cinese invase il Tibet, trovò il
verso ghasa, monconi di ponti
spazzati via dalla corrente (alto) e profondo
guado da superare in jeep (basso)
a JoMSoM n 19
Mustang ormai annesso al Nepal e per non violare
lo statuto internazionale di nazione neutrale (cuscinetto naturale tra i due giganti asiatici), dovette
rispettare la sovranità di Kathmandu, arrestandosi
praticamente alle porte di Lo Mantang che è a
poche ore di cammino dal Tibet, appena cinque o
sei. Qui, come ovunque in montagna, non ci sono
kilometriche ma le distanze possono essere misurate solo in ore di cammino. Così quando un trekker torna a casa non sa e non può rispondere alla
prima domanda che inevitabilmente chi è abituato
a usare l’auto gli pone: ma quanti kilometri hai
percorso?
Quando arriviamo a Ghasa siamo a pezzi, abbiamo dovuto cambiare tre veicoli, superare a
piedi due frane con i bagagli al seguito, cercare
mezzi di fortuna oltre l’interruzione della strada
per poter proseguire e, alla fine, correre per non
farci sorprendere dal buio su una strada ormai deserta e sotto una pioggerella gelata.
Di un percorso del genere mi resta il senso di
freddo, umido e oscurità incombente. E neppure
una foto. Mi rilasso all’arrivo a Ghasa, una città
medievale, con le mura, le porte con le immancabili ruote di preghiera, la strada lastricata – una
rarità da queste parti– sotto la quale scorre al centro la fognatura, come nelle città romane. La guesthouse è dalla parte opposta. La stanza affaccia
sul terrazzo comune, ha il bagno in camera e
sopra di noi la luna piena si alza in cielo, tra sbuffi
di nebbia, illuminando le pendici già innevate dei
monti. Il candore della neve è opalescente. Il silenzio è assoluto, rotto solo dal fragore del fiume
Basso Mustang,
una frana interrompe la strada,
per proseguire il cammino verso nord si procede a piedi
in cerca di un altro mezzo di trasporto.
Per ben tre volte abbiamo dovuto effettuare tali deviazioni
20 n A Jomsom
che scorre fremente e instancabile tra le rocce nere.
Kali Gandaki significa Ganga (Gange) nera, un’altra
manifestazione – ma inquietante – della grande dea
madre. Il fiume corre impetuoso da oltre 4mila a
2mila 800metri d’altezza, scavandosi il canyon più
profondo del mondo, quindi il fondo valle rimane
sempre in quota.
Cominciamo già a incontrare i primi asceti e sadhu
che, dalle calde pianure dell’India, si inerpicano sui
fianchi delle più alte montagne del mondo per arrivare a Muktinath, luogo di pellegrinaggio sacro
a induisti e buddhisti, all’interno del Santuario naturale dell’Annapurna. per un fenomeno vulcanico
fiammelle di metano si levano dalla superficie
dell’acqua, suscitando il senso del numinoso. Camminano con la ciotola, il dhoti, coperti da uno
scialle e ai piedi un paio di sandali. Null’altro, talora una pelle di tigre.
Anche le pochissime cose che portiamo con noi (15
kili di bagaglio per due persone, per una permanenza
di 15 giorni, comprese provviste, medicine, attrezzatura fotografica e ricambi vari) sembrano eccessive.
parlano per noi e ci etichettano già come una presenza “invasiva”, nonostante il nostro voler incedere
in punta di piedi. Credo che nessun occidentale sia o
possa essere davvero eco-compatibile.
Scopro che procediamo esattamente sulla strada percorsa da Tucci che, proprio a Dana, si era dovuto lasciare dietro una parte consistente della carovana di
yak, perdendone a lungo le tracce. Quell’anno, parliamo del 1952, finite le piogge già in ottobre cominciò subito a cadere la neve, a riprova che con
la montagna non si può scherzare né programmare.
Davanti al nostro alloggio un gruppo di occidentali
pratica yoga, ombre quasi furtive che armeggiano
con il loro materassino, mentre il buio della notte
schiarisce appena, prima del levar del sole, ultime
retroguardie della pacifica invasione degli hippies.
Al mattino il sole splende e davanti ai nostri occhi
comincia a delinearsi l’antico regno del Mustang, sul
quale aleggia sempre una vena leggendaria di mitica
Shangri-là.
“Mustang? E io che pensavo fosse solo una macchina!”,
ricordo che scriveva su un blog un viaggiatore catapultato quasi suo malgrado qui, in capo al mondo. Davvero,
se pronunci quella parola, tutti pensano a un cavallo o a
un’auto. E se dici che ci sei stato, anche la persona più
colta o più ferrata in geografia, non riesce a dissimulare
un lampo d’incertezza, frugando affannosamente nei meandri della memoria. Mustang è come Carneade!
Giuseppe, il mio simpatico amico materano mi ripete
sempre: ma che vai a fare in posti che nessuno sa dove
siano? Uzbekistan e Via della Seta, Mustang e Via del
sale, Doha e Via dell’incenso. Meglio dire India, Cina,
New York e si sa subito di cosa si parla! Se torno in Ba-
dana, Sadhu proveniente a piedi dall’india e diretto a Muktinath
al posto di blocco che controlla l’accesso all’upper Mustang
a JoMSoM n 21
silicata, vado dal mio vecchio barbiere di Matera e
dico che sono stato a Khiva neppure mi chiedono: ma
che hai visto? pensano che sia un nuovo negozio o
pub di Roma e non ci faccio neppure bella figura!
Anche mia madre, in modo decisamente non politically correct, esprimeva lo stesso dissenso: con tante
meraviglie in Europa, con città belle come parigi,
Londra, Vienna, fari di civiltà e cultura, andare in
mezzo ai “basibazù”…Termine che non ho mai capito
donde venisse e a chi potesse, sia pur indistintamente,
riferirsi. purtroppo non mi è mai venuto in mente di
chiederlo, quando avevo tempo di farlo, occupata com’ero a difendere con veemenza la mia scelta di
“Eterno Ulisse”. Ho poi tentato perfino di lanciare
una ricerca su internet, ma invano. Sullo schermo mi
appare una scritta sconsolante e categorica: “la ricerca
non ha prodotto risultati in nessun documento”.
Ma perché vergognarsi, poi? Del resto tante volte,
quando da quelle parti ti salutano con l’immancabile:
Where are you from? ho risposto: Italia, Roma ed ho
visto la stessa espressione vacua sul volto del mio occasionale interlocutore, che non aveva la minima idea
della collocazione geografica di quello che secondo
noi è il centro del mondo occidentale.
E ancora, almeno a tardiva discolpa della mia mamma:
Bothia, la parola con cui i nepalesi indicano la popolazione del Mustang ha un’accezione dispregiativa e
significa: “sporco, selvaggio”, come spiega Terzani.
Il che dovrebbe mettere in allarme, almeno un po’…
Da parte loro le popolazioni di montagna chiamano
Rongba le genti di pianura, sedentarie e considerate
non libere.
Provincia di Pokhara, ultimi villaggi nepalesi,
caratterizzati dalla tipica animazione sulle strade
Ghasa,
la luna piena
sembra sorgere
quasi a fatica
dagli Ottomila
Impressioni fugaci. La mia prima fugace impressione
del Mustang la ebbi a Pokhara, in una orribile sala
dell’aeroporto con polvere e cartacce sparpagliate
ovunque sul pavimento. Un debole raggio di sole filtrava attraverso i vetri sporchi della finestra, sulle persone che si affrettavano con messaggi e saluti
dell’ultimo momento (Manjushree Thapa, Mustang
Both in fragments, 21).
Valicare l’Himalaya. In pochi minuti superammo
senza riguardo l’Himalaya che isola il Mustang dal
resto del Nepal. Il lato occidentale del Machhapuchhare, Nilgiri e Annapurna che si trovano sul lato destro, era blu ed etereo. A sinistra l’impassibile
Dhaulagiri scintillava al sole del mattino. Superammo
i ghiacciai e le foreste di pini e ginepri divenivano sempre più rade. Vallate aride apparivano mentre planavamo verso nord e le montagne si chiudevano alle
nostre spalle (Manjushree Thapa, Mustang Both in
fragments, 23).
Maestà inviolata. Di fronte, arcigno nella sua maestà
inviolata, ci saluta ormai prossimo il Macchapucchar,
“le code di pesce”, due piramidi immani che ad un
tratto divaricando danno il nome alla montagna: fra
le gole indoviniamo la strada che ci attende (Giuseppe
Tucci, Tra giungle e pagode, 78).
In marcia verso Dana. Il luogo è una vera stretta,
segna un confine naturale: d’un tratto ci troviamo
sotto alle grandi catene del Dhaulagiri e dell’Annapurna in mezzo alle quali dovremo svicolare… Gli
uomini si avvicinano al campo intabarrati come cospiratori… A pochi chilometri in linea d’aria dai
ghiacciai le campagne sembrano giardini: vicino
all’oro dei mandarini ciondolano al vento pompelmi
grossi come cocomeri (Giuseppe Tucci, Tra giungle
e pagode, 91).
Immani rotolii di macigni. La marcia fino a Lete è
lunga; il sentiero capriccioso e difficile e spesso interrotto da frane costeggia il corso della Gandaki che si
fa varco tra immani rotolii di macigni e non potendo
divellere o trascinare l’ostacolo si tuffa nei vuoti e scivola sotterranea per riapparire improvvisa e più rabbiosa. Poi a poco a poco il sentiero, cosa insolita,
migliora: non è più una traccia solcata per l’uso nei
punti dove la natura offre minore resistenza; è curato,
qualche volta scavato nel sasso… Cinque torrenti che
scavano ferite profonde sul fianco dei monti ci sbarrano il cammino; arriviamo a Lete che è già notte
(Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode, 92).
Incrocio di culture. Le case di stile nepalese non arrivano fin quassù, diversi sono l’architettura e il materiale: sono fatte con sassi sovrapposti, il tetto è
piatto e coperto di legna e di erba secca. Già si scorgono i primi segni del Tibet, senonché al grigiore
delle pietre manca l’allegria della casa tibetana festosa di colori; le finestre e le porte imitano ancora
lo stile nepalese, ma l’estrema onda dell’artigianato
nevarico vi giunge moribonda. Si vede che siamo al
limite di una cultura e che un’altra sta per cominciare. I contrafforti del Dhaulagiri a sinistra e dell’Annapurna a destra tagliano il cielo: la pioggia di
ieri è stata neve, la prima neve sulle montagne che
chiudono la valle (Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode, 92-93).
Che pretese! Il bramino, professore di scuola, che
manifestava evidente disagio nel rivolgersi a noi
rungba, ci disse: “il funzionario governativo che
è arrivato pochi mesi fa da Kathmandu è morto
di polmonite. Che volete? Pretendeva di lavarsi
tutti i giorni!”… (Manjushree Thapa, Mustang
Both in fragments, 43).
cappella votiva sulla strada di Lo Mantang, con offerta rituale di khata, sciarpe di seta o cotone
a chhuSang n 25
CApIToLo IV
A Chhusang
È
tempo di rimetterci in marcia e non di fantasticare, perché la nostra guida cerca di infilarci
dentro uno sgangherato pullmino con le gomme più
lisce di una zucca. Alla richiesta della jeep promessa,
iniziano gli screzi che si protrarranno persino oltre la
fine del viaggio.
Comunque alla fine, dopo aver risalito fino alle sorgenti almeno cinque rami o affluenti diversi della Gandaki, arriviamo nella nostra Terra promessa, lì dove
finiscono le strade, come se quelle finora percorse fossero tali, appena graffi accennati sul fianco instabile e
ghiaioso della montagna. Jomsom inganna perché è
molto allegra, piena di ristorantini, botteghe, venditori
ambulanti di frutta, soprattutto mele e albicocche fresche e secche, secondo stagione, oltre all’immancabile, onnipresente chincaglieria cinese, portata a spalla
dal fondo valle. Si capisce subito che a Jomsom arrivano tutti: alpinisti e trekkers, mercanti e pellegrini,
europei e tantissimi indiani. Venne anche il re del
Nepal a inaugurare il nuovo aeroporto ampliato e per
l’occasione lastricarono l’unica strada che attraversa
il villaggio. Così l’effetto è, nell’insieme, rassicurante
e piacevole. Il sole splende, il cielo è blu cobalto, le
nuvole che si alzano perennemente dai ghiacciai sono
sbuffi bianchi e soffici, il Nilgiri un poster sullo sfondo
che sembra specchiarsi nel suo dirimpettaio Daulagiri.
Tutto sembra perfetto. Gli hotel hanno nomi esotici o
internazionali: Marco polo, om’s Home, Moonlight.
C’è addirittura un resort con piscina coperta. Sulla
strada donne di origini tibetane (Bothia) e appartenenti
alla popolazione originaria (Thakali) accoccolate a
terra vendono mercanzie, attirando viaggiatori e passanti con grida e acuti richiami.
Dopo esserci rifocillati con una tazza di zuppa di noo-
Pokhara, la strada lastricata che attraversa
la città è l’unica dell’intera regione
dle ci mettiamo in marcia. In fondo al paese c’è un
grande parcheggio di scambio, dove i pellegrini scendono dai pullmini per prendere le jeep e ci sentiamo
quasi defraudati. In effetti la maggior parte delle persone è diretta a Muktinath, dove si può arrivare anche
in jeep, ma questa località si trova a est, rispetto all’antica Via del Sale diretta a Lo Mantang. Anche noi ne
percorriamo così un tratto per recuperare qualcosa almeno del giorno perduto.
La prima parte del percorso è pianeggiante e costeggia
il corso del fiume, ora diviso in bracci fangosi e poco
profondi, ma che durante il monsone deve essere spaventoso, a giudicare dalla larghezza e profondità delle
pareti del canyon. Del resto la Kali Gandaki, che dai
confini del Tibet arriva a gettarsi nel Gange, scava il
canyon più profondo del mondo, che noi dovremo costeggiare, guadare, traversare, scavalcare, salendo e
ammoniti, fossili marini della Kali gandaki e sale himalaiano
scendendo innumerevoli volte, anche se ora non ce ne
rendiamo minimamente conto. La corrente, anche se
il fiume sembra in secca, è comunque impetuosa.
Tucci racconta dei famosi e arditi traghettatori, una
casta specializzata e insolita in una popolazione di
montagna, resi poi inutili dalla costruzione di qualche
ponte in ferro o dei micidiali ponti tibetani. Dopo tanti
scossoni, sussulti, strapiombi, guadi e cascate non
vedo l’ora di mettermi in marcia, di sentirmi sulle mie
gambe, di misurare le mie forze.
Il vento ci segue e ci precede, terribile, implacabile e
puntuale come un orologio svizzero. Fortunatamente
all’andata è alle nostre spalle e pur nel disagio ci
spinge, agevolando la marcia. Sulle nostre teste il rumore del pietrisco che si sgretola e si polverizza, sul
sentiero molte pietre abbastanza grandi cadute da
poco. La fatica è subito grande e si procede lentamente ma dobbiamo assolutamente arrivare prima del
buio, mentre il villaggio, come un miraggio, sembra
allontanarsi, tanto più ci avviciniamo. Una parte del
percorso si snoda in mezzo a piramidi di terra, un
sentiero tutto in frana con una pendenza da capogiro,
facendo lo slalom tra gli inghiottitoi che precipitano
alla base del pinnacolo, qualche centinaio di metri
più in basso.
pericoli e insidie del percorso sono talmente tanti che
dimentico quella che mi preoccupava maggiormente:
il fatto di soffrire di vertigini! Semplicemente me ne
dimentico, avendo ben altre preoccupazioni, sopra la
testa e sotto i piedi. Il terreno è polveroso e incoerente. Imparo subito a non fidarmi dei sassi per fermare il piede perché rotolano e sgusciano sotto i piedi,
peggio di uno skateboard. L’altezza rende il respiro
corto. Così non riesco a fare la prima cosa che mi ripromettevo di fare: cercare le famose ammoniti all’interno dei sassi neri tondi. Molte pietre finiscono
per spaccarsi naturalmente rotolando nella corrente
vorticosa e facilmente si rinvengono frammenti di
preistoriche creature degli abissi marini, disperse sul
cammino. Il corallo che adorna il collo delle donne e
le orecchie degli uomini tibetani proviene anch’esso
da depositi fossili che, dal fondo di chissà quale
Atlantide perduta, sono finiti sulle vette himalayane
Lo Mantang, “lavastoviglie”; Samar, “lavatrice”, i pubblici abbeveratoi sono utilizzati per tutti gli usi in Mustang
per lo scontro di cento-centocinquanta milioni di anni
fa, tra India e Cina che, a quanto pare, si è sempre giocato da queste parti.
Ci dirigiamo verso l’altipiano che è sopra Kagbeni, da
dove lo sguardo si infila per la prima volta a frugare
dentro la restricted area. Ci fotografiamo a vicenda
sotto il cartello ammonitore, ma il paesaggio, davanti
o dietro al cartello non cambia. Tutto quello che riusciamo a vedere sono colline aride e calanchi che si
stagliano contro il cielo blu all’orizzonte. Sotto di noi
i campi di grano, orzo e buckwheat, un particolare tipo
Kagbeni, campi terrazzati, faticosamente coltivati a cereali
e ortaggi, soprattutto patate e cipolle, in ristrette oasi,
riparate dai venti e dalle frane
Kagbeni, ingresso alla restricted area,
sullo sfondo la profonda gola scavata dalla Kali gandaki
di grano saraceno che in questo particolare ecosistema
cresce anche a 3mila e 4mila metri, risplendono di
oro e rosa. Queste oasi, nelle quali sono adagiati i
piccoli villaggi e le cittadine, si formano per la canalizzazione delle acque del fiume, in punti dove il
terreno è pianeggiante, lì i campi sono protetti dalle
frane e dal terribile vento d’alta quota: davvero oasi
lussureggianti in mezzo al deserto.
Tangbe è il primo villaggio che visitiamo, con il suo
chorten dipinto in bianco, nero e rosso, i colori rituali.
L’ultima jeep che ho visto è rimasta in panne sul letto
del fiume e da qui in poi tutti quelli che vogliono procedere oltre debbono confidare solo nelle loro gambe.
Sulla carta sembra che il cammino resti in quota, intorno ai 3mila metri di altezza, ma non è affatto così,
la carta indica solo l’altezza dei villaggi, che sono
sempre in quota, in genere in posizione difensiva
sopra a uno sperone sul fiume, quindi ogni volta occorre salire e ridiscendere.
Quando arriviamo al villaggio il nostro hotel è sempre dall’altra parte. Hotel è una parola grossa e pure
guesthouse è una parola grossa. Da qualche anno il
governo, per sostenere l’economia delle popolazioni
del distretto ha deciso di alloggiare i trekkers nelle
case private o nei campi tendati fissi. Un tempo si organizzavano solo spedizioni con bestie da trasporto
per portare tutto l’indispensabile, dall’attrezzatura di
campeggio alle vettovaglie, compreso il combustibile.
In teoria una scelta accettabile e vantaggiosa per
a chhuSang n 29
Fenomeni di erosione sulla strada da Kagbeni a chhusang,
ove si vede il dislivello dall’altipiano sovrastante da discendere a piedi tra le piramidi di terra
tutti: per gli escursionisti che possono
dormire al chiuso anziché in tende che il
vento strappa rabbiosamente da terra,
per la gente del posto che trae da questa
attività ricettizia un incremento di reddito, in una terra dove la vita è davvero
dura, infine, la possibilità di interagire,
conoscere altri viaggiatori, scambiare
alla sera esperienze e pure qualche parola con la gente del posto.
In teoria, però. In pratica queste decisioni
prese sulla carta non tengono in alcun
conto la mancanza totale d’infrastrutture
minime di accoglienza. Si tratta di rifugi
con vari tipi di alloggio: fuori il campo
tendato, dentro qualche camera, al piano
terra la cucina, dove le guide e i portatori
si ammassano per dormire sulle panche
di legno coperte da vecchi tappeti o –
dove c’è – anche nella sala da pranzo comune. per tutti, a volte anche venti o
trenta persone, un solo bagno. Ma bagno
è una parola ancora troppo grossa. Una
stanza con un buco a terra, solo un buco
a terra, in un lerciume indicibile. Neppure
un lavabo e per lavarmi i denti debbo recarmi alla fontana del paese, vicino al
fiume, e contendere la cannella ai muli,
alle pecore, alle capre, entrando dentro la
vasca rettangolare di cemento con i piedi.
La stanza contiene due letti, in realtà sono
tavolacci di legno sui quali sono gettati
dei vecchi, polverosi tappeti. Null’altro:
né una mensola né un appoggio di sorta e
neppure lenzuola o asciugamani o un
chiodo, almeno un chiodo. Ci ingegniamo a sospendere le giacche sui bastoncini telescopici incrociati. poi
utilizziamo i teli da bagno, che non ci ser-
30 n A Jomsom
viranno più, per isolare i sacchi a pelo dal letto, ma
di più non si può fare e dopo una giornata del genere,
incrostati di polvere e sudore, con i capelli stoppacciosi, sembriamo da subito dei deportati.
Il cibo poi è all’altezza della maison: crudo perché
manca legna e combustibile e nel fornello viene gettato sterco essiccato. La cuoca con la stessa mano prepara i cibi e poi attizza il fuoco…per arrivare alla sala
da pranzo attraversiamo il cortile costellato da tracce
di animali, disseminate ovunque le deiezioni di muli
e cavalli che accompagnano le carovane, accampate
dietro la casa.
Impariamo subito qualche accorgimento per sopravvivere e ordiniamo patate e uova sode, che almeno
hanno buccia e guscio, provvidenziale tetrapack fornito da Madre Natura, ma se non proprio crudi, sono
sempre poco cotti e risultano parimenti poco commestibili, perché, così in alto e con minore pressione atmosferica l’acqua non bolle a 100°, ma a temperature
di molto inferiori, addirittura a 86° a 4mila metri.
Alle mie rimostranze la guida risponde: mountaneriiiing!. E io immancabilmente replico: di tua sorella!
Cerco di spiegargli che un conto è adattarsi e altro è
vivere da bestie con vitto e alloggio da bestie, come
in nessun carcere di paese civile sarebbe immaginabile. Ma i nepalesi avranno mai visto una stalla in Toscana? Forse mi sono allontanata troppo in fretta da
Kathmandu e la musica dei bar di pokhara risuona ancora nelle orecchie. per la mia tendenza a provare
tutto quanto un luogo a me sconosciuto possa offrire,
per colazione assieme a the verde e un misero ovetto,
ordino il pane di buckwheat, erbacea bellissima a vedersi con i fiori dai riflessi rosa, un tipo di grano saraceno che si è adattato a vivere a queste altezze e in
un clima molto arido, assicurando alle popolazioni
autoctone la sopravvivenza. Nonostante il suo nome
non è un grano, il fagopyrum esculentum, ma un’erbacea e non si pensi a nulla che possa ricordare i pizzoccheri della Valtellina. Macinata viene usata per
Bambino di etnia bhotia
fare un pancake, chiamato gyang, che è poi quello che
mi servono a colazione: ossia una sorta di bassa crepe
poco cotta, ricavata mescolando steli d’erba verde
brillante triturata, impastati con acqua e forse un
poco di farina. Arrivo tenacemente al terzo boccone,
ma è impossibile procedere oltre, nonostante tutta la
fame e la buona volontà. Comunque poteva andare
peggio: una specialità locale prevede che l’impasto
sia amalgamato anche con sangue… La pianta, che
cresce nei luoghi aridi, nel resto del mondo si usa
come foraggio. Qui ci fanno un pane. Insomma: ho
mangiato una scopa!
Il posto, però, è di una bellezza struggente, i cieli di
un blu lapislazzulo che sembra possano esistere solo
nella fantasia dei pittori, le pietre incise sono lì da secoli, a proteggere noi viandanti e io le sfioro delicatamente con le dita. Qualcosa o qualcuno mi sosterrà.
Barriera insormontabile. L’Himalaya sembrerebbe una
barriera insormontabile fra due mondi: invece diciotto
passi, aprendo un varco fra quelle eruzioni di ghiacci,
hanno così avvicinato il Tibet al Nepal che quello quasi
stringe in questo e lentamente vi dilaga arrestandosi d’un
tratto, appena il terreno scivoli troppo in basso e i venti si
riscaldino per l’alito torrido che soffia dal sud; allora l’invasione è cessata e i Tibetani si sono fermati. Ma in questa
zona intermedia sgocciolata furtiva oltre i confini, gelida e
serena, essi stanno ancora a loro agio e vi si sono, come si
dice, imposti (Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode, 101).
Primordiale bellezza. La natura è di una primordiale bellezza. Tutt’attorno le montagne sembrano piegarsi, creare
delle cupole, delle torri, distendersi in pareti piatte e levigate
o ergersi come le canne di un impressionante organo da ciclopi. Nell’assoluto silenzio, che pare quello del cosmo, si
ha l’impressione d’essere il primo essere umano a muoversi
sulla Terra dopo il Big-bang. Solo la vista di una minuscola
lucertola color sabbia o la vaga, lontanissima silhouette di
un cavaliere su un crinale ci ricordano che siamo ancora
in questo mondo (Tiziano Terzani, In Asia, 331).
Irraggiungibili pilastri del cielo. Oltrepassata Marpha, cominciamo a lasciare alle spalle il Dhaulagiri (8130 m) e
l’Annapurna: li avevamo visti due mesi prima, nell’improvvisa e fugace apparizione di un’alba tempestosa, subito
Piramidi di terra, l’erosione
crea sculture fantastiche ed effimere
dopo la partenza da Kathmandu, irraggiungibili pilastri che
puntellano il cielo; a poco a poco avanzando, ci eravamo
insinuati in mezzo a loro su noi precipiti, l’uno a destra e
l’altro a sinistra, con la colata dei ghiacciai e più in basso
con l’arruffato e impenetrabile intreccio dei boschi; poi di
marcia in marcia faticosamente siamo andati oltre. Ora non
li scorgiamo più (Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode,
101).
Nepal o Nevada? A causa dell’altitudine provavo una
strana sensazione di galleggiamento e di stordimento, mentre arrancavo sul sentiero. Il vento cominciava a penetrare
nelle ossa. Ero disorientata dal luogo
che avevo raggiunto e confusa perché
non vedevo nulla che sembrasse il
“vero” Nepal – quello che nella mia
mente aveva smaglianti campi terrazzati e foreste verdi, punteggiate
da piccoli villaggi. Dov’era il
Nepal di cui, da bambina, avevo
letto nei libri di testo?...Questo posto era Santa Fe,
Nevada, Mongolia,
Tibet! (Manjushree
Thapa, Mustang Bhot
in fragments, 25)
chorten e pietre mani
CApIToLo IV
Da Chhusang a Samar
M
entre arranchiamo verso nord, si diradano gli
incontri e il cammino è segnato da pietre mani
con incise immagini buddhiste e mantra: Om mani
padme Hum. Ne fotografo molte lungo il greto del
fiume, ancora nello stesso posto in cui le lasciò Tucci
e provo emozione al pensiero dei tanti pellegrini e
viandanti che, nel corso dei secoli, hanno sfiorato
con la mano o con lo sguardo le formule di protezione bisbigliandole al vento o nel buio. Me ne ricorderò nei momenti ancora più difficili che mi
attendono. Quando non so più cosa fare, ripeto l’antico mantra facendo pranayama, respirazione yoga,
mentre il cuore batte così forte che sembra quasi
uscire dalle orecchie, pensando alle generazioni e generazioni di viandanti che nella formula hanno preso
rifugio e trovato quiete. Di solito le pietre mani sono
Segnaletica stradale
gola interdetta al transito ove nidificano varie specie
protette di aviofauna
34 n DA ChhusAng A sAmAr
ammassate in gran numero, dove sentieri o meandri
di fiumi s’incrociano: qui per i buddhisti – o meglio
per il retaggio animista bonpo, molto radicato nelle
superstiziose popolazioni di montagna – sono all’opera gli spiriti malevoli che possono confondere il
viandante e portarlo fuori strada. E fuori strada, significa morte certa. Sotto un antico chorten vedo una
scritta moderna e chiedo con curiosità e rispetto alla
guida cosa significhi: “Hotel con docce calde”, risponde impassibile. Un cartello pubblicitario, insomma. Decisamente irrispettoso.
Una parte del cammino si percorre sulla massicciata
della strada in costruzione, una vera tortura per le caviglie e le ginocchia, ma a vedere i tratti già franati
penso che la montagna rimarrà inviolata e probabilmente la strada non si farà mai. Sfortunatamente in
alcuni punti le frane hanno travolto frutteti, magri pascoli e stenti campicelli che generazioni e generazioni
di agricoltori hanno strappato con tenacia al fianco
della montagna, alla neve, alla polvere, al vento. Superiamo il foro nella roccia da cui esce la Kali Gandaki, superiamo il ponte metallico. Incrociamo
carovane che discendono la valle in senso opposto, ci
inerpichiamo per un massacrante sentiero a gradoni
dissestati, superiamo tratti del sentiero reso percorribile da travicelli di legno infilati – Dio sa come –
nel fianco franante della montagna, ci infiliamo in
un sentiero scavato per metà nella roccia, ma tutto
in discesa verso l’abisso. Imparo a guardare solo i
piedi e a mettere in pratica la prima, essenziale, fondamentale regola del Cammino di Santiago di Compostela: o cammini o parli. o cammini o guardi. Se
vuoi guardare devi fermarti, ma se mi fermo forse
non riesco più a muovermi e così di questa parte del
tragitto non posso godermi neppure il ricordo racchiuso in una foto.
Superiamo il Taklam La e il Dajori La, e in breve arriviamo a quota 3.800 circa. Il suffisso “La” indica il
passo, segnato sempre da bianche pietre rotonde, la-
Samar, hotel annapurna
sciate dai viandanti e dalle bandiere sulle quali sono
stampate le formule di preghiera. Le bandiere sono
bianche, rosse, gialle, verdi e blu e sono poste su aste
o stese da un estremo all’altro dell’abisso, perché il
vento scuotendole porti nell’etere il bisbiglio della
preghiera.
Arriviamo presto a Samar, situata a 3.660 metri
s.l.m., un villaggio medievale con le sue porte d’accesso protette da una torre di guardia, all’ingresso le
ruote di preghiera sempre oliate e ben funzionanti, le
strade acciottolate su cui risuonano i passi di agili cavalli, cavalcati con maestria da abili cavalieri, senza
sella o con un tappeto ripiegato. Samar, significa:
“argilla rossa”, in effetti si vedono lungo il cammino
colate che attraversano come vene scoperte, il grande
da chhuSang a SaMar n 35
tra chhusang e Samar, superamento del passo prima di arrivare al villaggio. La tradizione vuole che si aggiunga un ciottolo bianco
al mucchio che sostiene il palo con le bandiere di preghiera: se il mucchio è basso, anche il passo non è difficile!
corpo delle montagne. Le venature d’argilla sembrano quasi sgocciolare dalle montagne e giustificano
le credenze locali che vi vedono il sangue rappreso
dai mostri sconfitti dal grande taumaturgo venuto dal
Tibet: padmasambhava.Quando arrivo all’Hotel Annapurna non riesco a trattenere qualche lacrima: per
bagno un’unica stanza con un buco in terra. Neppure
un lavabo all’interno. però dalla finestra della nostra
piccola camera, sdraiata sul letto, vedo i riflessi del
sole calante, illuminare in lontananza le ultime propaggini del ghiacciaio dell’Annapurna che a lungo risplendono di bagliori rossastri, anche nel buio,
mentre sorge a rischiarare la notte, la luna ormai
piena.
Comunque mi organizzo – non so come – e mi lavo,
faccio il bucato, lo stendo e il sole caldo lo asciuga
prima di nascondersi presto dietro le cime. Sulla veranda al primo piano, mentre aspetto con i piedi all’aria che la biancheria, ossia il mio unico ricambio,
asciughi, scrivo sul Moleskine, finché non arriva la
bella Tara a fare conversazione. Una tibetana fiera con
la pelle del bel volto che sembra letteralmente “conciata”, per l’altezza, il sole, il vento che la fa sembrare
molto più anziana dei suoi trent’anni. Quando mi ha
chiesto: «ma quanti anni ho, secondo te?» per non fare
gaffe ho detto ipocritamente: «venti o venticinque!».
E lei ha riso incredula. Tara ha i parenti oltre frontiera,
ma non mi dice molto sulla situazione del vicino
Tibet, solo che dal Mustang possono andare oltre confine senza difficoltà.
Paesaggio lunare. Entriamo trasognati in un paesaggio lunare. Il distacco dal Nepal, dall’India, è assoluto: le rocce assumono riflessi e forme irreali,
splendono di luci strane, come in certe pallide immagini del sogno. Lasciamo ora la valle della Gandaki e
ci arrampichiamo sui fianchi del monte seguendo un
sentiero tortuoso e difficile; dove il terreno e la roccia
non danno presa, l’uomo ha gettato ponticelli sospesi
nel vuoto. Alle luci del tramonto, dopo una marcia di
dieci ore arriviamo a Samar, poche case appollaiate in
una gola racchiusa fra due groppe di monte aureolate
dalle rovine di templi e castella: la roccia rossa come
sangue sotto gli ultimi guizzi del sole ha improvvise iridescenze di rubino; la temperatura scende a meno due
(Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode, 105).
Paesaggio desolato. Col passare dei giorni ci si rende
conto che questo paesaggio desolato è punteggiato da
innumerevoli, sconosciute, piccole Cappelle Sistine
del buddhismo e che, nelle gompa frustate dal vento,
si conservano collezioni di tanka, che farebbero invidia ai migliori musei del mondo. I più risalgono al
XIV e XV secolo, l’età d’oro del Mustang, quando le
carovane che dal Tibet portavano il sale al nord dell’India attraversavano questo paese e gli pagavano i
loro tributi (Tiziano Terzani, In Asia, 333).
Da Samar a Ghiling. Da Samar la strada per Ghiling
si biforca… Il sentiero scivola fra dune, si insinua in
corridoi e labirinti spettrali, scende a Ghiling intirizzita sotto i venti chiassosi e sparsa su vasti campi
d’orzo (Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode, 107).
Religione e superstizione sono da sempre state parte
della vita nel Mustang e ovunque si vedono piccole
pile di sassi, che qualche pellegrino, con estrema semplicità, ha eretto in onore degli dèi, o un imponente
chorten, un reliquiario, posto nel centro di una valle
o sul valico tra due montagne. All’ingresso di ogni villaggio che la carovana attraversa ci sono file di piccole ruote per la preghiera; altre sono sulle soglie
delle case e alle fontane dove l’acqua le fa girare,
moltiplicando con ogni rotazione la preghiera scritta
all’interno (Tiziano Terzani, In Asia, 332).
Segnaletica toponomastica di Samar (“argilla rossa”),
graffita sulla porta d’ingresso al villaggio
DA sAmAr A ghemi n 37
CApIToLo VI
Da Samar a Ghemi
p
otrei chiamarlo il giorno più lungo, camminiamo
da mattina a sera. Dopo il primo tratto in ripida
salita riusciamo a prendere il ritmo e “a passetto”,
come dice Ernesto, arriviamo al primo vero passo.
Non che gli altri non lo fossero, ma erano meno impervi e qui, poiché a questo mondo tutto è relativo,
fino a 3.500 m e oltre si parla semplicemente di “colline”. primo passo, dunque, il Bhena La, ma di una
lunga serie…
Dopo, con la giusta respirazione, aiutandoci con i
bastoncini telescopici, indispensabili come una terza
e quarta gamba, affrontiamo il secondo, Yamda La
con maggiore facilità. La difficoltà, giova ripeterlo,
non è determinata solo dalle altezze, ma dal dover
seguire il sentiero lungo il capriccioso e imprevedibile percorso che si scavano i tanti e continui torrenti
che scendono precipiti dai ghiacciai perenni, per immettersi nel letto della Gandaki. In mancanza di
strada e ponti occorre ogni volta risalirli – non dico
fino alla sorgente, ma quasi – ossia finché non si
trova un passaggio propizio al guado, che nella sta-
verso ghemi, iniziano i guadi, non troppo difficili nella stagione secca
gione secca non presenta difficoltà eccessive, anche
se occorre saltare su massi instabili e sdrucciolevoli,
nel punto in cui la corrente si quieta in uno slargo pianeggiante, prima dell’immancabile cascata sottostante con cui riprende foga.
Il pranzo ci ritempra, siamo ormai al Syangboche La,
e proseguiamo ancora e affrontiamo un altro passo, a
più di 4.000 metri il Nyi La, che era quello da me più
temuto, sia per l’altezza, che affatica il cuore e la respirazione di per sé, sia perché arriva dopo una lunga
marcia, ma che alla fine si rivela il più facile. Intanto
il vento che sale dal fondovalle s’infila vorticando nei
pali metallici di un vecchio impianto di elettrificazione e crea una musica come di canne d’organo che
ci accompagna rompendo il silenzio talora amico ma
talora pesante di queste giornate infinitamente lunghe, in cui Humesh, la guida che per legge bisogna
avere e pagare, non si degna di rivolgerci la parola.
Quest’area, incastonata tra le montagne più alte del
pianeta, ha una tradizione culturale davvero unica e
tanto antica che contribuisce a rendere il luogo pieno
di magia e magnificenza. Chiunque sarebbe affascinato dal sentirsi esploratore in simili lande remote e
inaccessibili. Decidiamo di non sostare a Ghiling, circondata da campi d’orzo ora piacevolmente dorato,
che dopo la visione di tante rocce grigie e aspre, ammalia il nostro sguardo come una tenera carezza. Andare a Ghiling significa ridiscendere a valle e tornare
pure leggermente indietro, su un tratto di strada cinese
in costruzione. Un percorso che, a mio avviso, è infinitamente più disagevole delle vecchie mulattiere. Il
problema è che con l’euforia della strada in costru-
conformazione geologica del terreno (in alto),
caratterizzata da instabili depositi alluvionali,
dove l’intervento maldestro delle ruspe cinesi per
l’apertura della strada (in basso)
ha già causato ingenti danni ai villaggi,
ai campicelli coltivati delle oasi e al sentiero esistente
Bandiere da preghiera immancabili su ogni passo da valicare
zione le antiche rotte carovaniere sono molto trascurate. Un tempo erano i signorotti locali, capi clan feudali, che controllavano il commercio sulla Via del
Sale, a farsi carico della loro costante manutenzione,
dopo ogni monsone. oggi, con la frontiera del Tibet
chiusa, le carovane non passano più e l’interesse a
mantenere la strada transitabile non è più avvertito da
chi ne avrebbe le risorse. La sorte dei turisti, che potrebbero ben rappresentare un’interessante fonte alternativa di entrate, è del tutto indifferente al governo
nepalese, al pari della sorte della popolazione locale.
E così si va come si può.
per questo, con un certo rammarico, non abbiamo potuto procedere sulla stessa strada percorsa da Tucci,
la deviazione che passava per le Grotte di Chungsi,
che le guide dei gruppi tedeschi e francesi che incontriamo la sera a cena mi dicono concordemente essere
in deplorevole stato e dal fondo molto sdrucciolevole.
Sono comunque euforica e dopo dieci ore di marcia
arriviamo a Ghemi. Altra discussione perché mi rifiuto
di alloggiare nel lodge con stalla, anzi nella stalla con
lodge: ripeto che posso adattarmi ma continuo a spiegare che voglio vivere e mangiare in un posto per esseri umani e non per animali. Il fatto è che, date le
distanze e la fatica, non si può prenotare l’alloggio
perché non si sa in quale villaggio si riesca ad arrivare
e quando.
E alla sera, spossato dalla fatica, devi pure girare,
zaino in spalla, per cercarti un rifugio, con la minaccia
che mentre tu giri altri possano prendere la stanza e
chorten
resti senza. Le agenzie danno un fondo spese alle
guide, che cercano di risparmiare il più possibile, per
portarti nei posti migliori: ovviamente per loro e le
loro tasche. Questa volta non mi lascio intimorire, proprio perché sono particolarmente stanca. Lasciamo il
campo tendato e troviamo alloggio nel vecchio
gompa, trasformato in guesthouse, decisamente più
dignitosa. Nella sala di preghiera è rimasto un solo
monaco. Sulle pareti affreschi antichi con immagini
del Buddha e ai lati dell’altare libri preziosi su foglie
di palma. Lo spazio lasciato libero dai seggi dei monaci è ora occupato da vetrine usate come bancarelle,
perché i proprietari hanno trasformato le celle dei monaci in stanze e la sala di preghiera in shop.
I prezzi qui sono spaventosi, per il normale tenore di
vita orientale e pure occidentale: più di sette euro per
un bricco di the, fino a tre-quattro euro per una bottiglietta di acqua potabilizzata. Neanche a piazza di
Spagna da Babinghton si spende tanto, con porcellane
e argenterie e deliziosi biscottini compresi, ma vuoi
mettere l’autenticità di un tavolo di plastica unto con
sopra un thermos cinese, tutto ammaccato? A questo
punto capisco che occorre mettere in atto ogni possibile strategia difensiva e dosando l’Amuchina, alla
meno peggio, comincio a potabilizzarmi da sola l’acqua delle fontane, con la spesa di quattro litri di acqua
bollita al giorno posso fare un altro viaggio! Dai rubinetti pende sempre uno straccio bianco: per filtrare
la polvere, dicono. Un rimedio peggiore del male,
penso tra me, ma bevo lo stesso. E alla fine non mi
succede niente di male.
Il panorama è struggente, il silenzio assoluto e ab-
ghemi, “colazione da tiffany”, sul terrazzo del royal choede
biamo la forza e l’ispirazione giusta per fotografare
la valle sotto la luna. Non riesco a fare la doccia non
solo per lo sporco, ma anche per il freddo, causato
dall’altezza crescente. Comincio a intaccare pesantemente la scorta di salviettine detergenti e di barrette
energetiche. Vorrei uscire, dato che siamo al centro
del villaggio, ma non arrivo neppure alle scale esterne
per quanto è dannatamente buio dentro le strette
strade, piombate al calare repentino della sera, nell’oscurità più tetra che si è insinuata da padrona tra
le mura delle case, addossate l’una all’altra.
Allora vado a visitare con rispetto il vecchio monaco
che, tutto solo, da almeno tre ore recita preghiere
ininterrottamente, suona il suo tamburo, dà fiato alle
trombe, mentre nel cortile riparano motori e motociclette, al primo piano cucinano, al secondo dor-
miamo. Al mattino su quel bel terrazzo che si apre sull’ampia vallata facciamo pure colazione e le ombre
della notte oscura del mio umor nero si dileguano. Mi
spazzolo la marmellata di fichi portata a spalla fin
quassù e mi sembra l’occasione giusta per farlo assieme a un pancake cotto in maniera accettabile e alle
solite uova e patate bollite.
Intanto penso a come mettere in allarme la comunità
buddhista europea per salvare il salvabile di quanto rimasto nei pochi armadi ancora pieni di libri avvolti
nella seta gialla. penso alle mail da spedire, alle persone colte da contattare, alle cose giuste da dire per
preservare questo patrimonio dell’umanità e il cervello gira a mille. poi la guida mi spiega che il Royal
Choede, dove abbiamo alloggiato, era effettivamente
un monastero e si chiama così perché appartiene al cu-
gino del Raja. Un anziano signore dal portamento elegante, che pur confondendosi tra i contadini del luogo,
non è certo povero, appartenendo alla nobiltà feudale
che possiede case, terreni e mandrie.
Al posto dei monaci ora ci sono turisti, ospitati nella
guesthouse trasformando semplicemente le celle in alloggi, e resta quel vecchio monaco a sgolarsi salmodiando da solo, forse per rassicurare la gente del
villaggio che dentro è tutto come sempre. E lui il “cugino regale” in cucina, la sera, gira la ruota da preghiera, magari come un pallottoliere, contando i
dollari che sono entrati in giornata al posto dei mantra.
Forse sono cattiva, non so. Comunque, il cervello si
ferma di colpo, non gira più, frenando come un vecchio 78 giri mandato a 33. Mi chiedo dove mai siano
finiti i tesori rituali come i vajira usati nel culto, le
statue preziose, i bronzi dorati che dentro celano
sempre pietre preziose, i turchesi e i coralli, le tanka
da srotolare a seconda delle feste liturgiche, che certo
riempivano le vetrine ora vuote, stipate di souvenir
e paccottiglia cinese di latta e plastica, venduta come
un gioiello di Bulgari a caro prezzo…Spero con tutto
il cuore che, in nome della fede dei padri, siano al sicuro e spero che qualcuno mi dica dove e se è vero.
Ghemi, ampia veduta sulla valle dal terrazzo del Monastero Royal Choede,
da dove si vede il lungo cammino percorso
DA ghemi A tsArAng e ifine A Lo mAntAngå n 43
43 n DA sAmAr A ghemi
Bandiere di preghiera. Sventolano
sulla cima di pali conficcati per
terra banderuole di stoffa bianca
con impresse formule di preghiere;
come nel Tibet, lungo la strada sfilano muriccioli sopra i quali sono
adagiate lastre di pietra con iscrizioni e figure del Buddha. In fondo
alla valle decine di grotte foracchiano la roccia a picco; sulle vette
si stagliano nel cielo le rovine di un
tempio (Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode, 94).
Cassaforte colma di tesori. Quello
che in Tibet è stato distrutto, quello
che i cinesi hanno bruciato o fatto
a pezzi, là nel Mustang è rimasto
intatto. Qui le antiche arti e le tradizioni dei tibetani sono sopravvissute nella loro forma originaria.
Allo stesso modo del mitico Shangri-la, il Mustang è una cassaforte
colma di tesori (Tiziano Terzani, In
Asia, 333).
Il ciortèn magico. Da Samar la
strada per Ghiling si biforca: noi
prendiamo la più breve e faticosa
perché ci porta a una grotta famosa. I Tibetani la chiamano il
Ranciung ciortèn: “il ciortèn da se
stesso nato”, cioè miracolosamente apparso. L’antro deve questo nome ad un grosso pilastro
naturale di forma rotonda che
sorge nel suo mezzo, quasi a sorreggere il peso della volta (Giuseppe Tucci, Tra giungle e
pagode,106-107).
Flora d’alta montagna, improvvise e inattese fioriture:
“il giardino dello gnomo”
DA sAmAr A ghemi n 45
CApIToLo VII
Da Ghemi a Tsarang
e infine a Lo Mantang
G
hemi è veramente un luogo sacro, una magnifica cittadella medievale collocata, più o meno,
al centro della regione. Uscendo dalla città una lunga
serie di cilindri da preghiera ci fa rallentare il cammino per adempiere volenterosi al rituale propiziatorio. All’interno dei cilindri ruotanti, vengono
inseriti dei mantra, formule sacre e di preghiera. Far
girare la ruota equivale alla ripetizione di un infinito
rosario che, grazie al movimento devoto, si propaga
nell’aria, spandendo la sua positiva vibrazione che
trascende la sfera della fisicità e pure della comprensione puramente razionale.
Appena fuori del villaggio, su un altipiano ventoso,
ci troviamo di fronte il Muro Mani più lungo del Mustang da percorrere sempre rigorosamente a sinistra
e tenendolo sulla propria destra. Questa la deambulazione canonica dei buddhisti, in senso orario, mentre i seguaci del bon fanno al contrario, quindi per
meglio fotografare, senza aggiungere al contakilo-
ghemi, ruote di preghiera
metri-bio, rappresentato dalle mie sventurate caviglie, altre distanze opzionali, dico alla guida, che si
agita subito e mi sbraita dietro per superstizione, che
mi sono improvvisamente convertita allo sciamanesimo e così mi lascia perdere, ormai rassegnato alla
breve convivenza che volge alla fine con reciproca
soddisfazione. All’intorno argille rosse e perfino blu.
pranziamo a Tsarang, che ci si prospetta dinnanzi in
posizione elevata. Il nome del villaggio, situato a
3.560 m s.l.m., significa: “cresta di gallo” e forse da
questo toponimo (nomen omen: un nome, un destino), gli vengono le disavventure, raccontate da
altri precedenti e più celebri viaggiatori, che non gli
fanno proprio onore.
Dopo un pranzetto energetico con gli insostituibili
noodle in zuppa, con rapida salita giungiamo proprio
al “monastero delle galline”. Lo chiamo così ricordando un aneddoto narrato da Tucci, secondo cui le
galline covavano in mezzo a tanka arrotolate, dipinti
su seta del XIV-XV secolo. per salvarne qualcuna si
privò lui delle scarpe da montagna e il suo medico
dell’orologio da polso. Ma i volatili debbono essere
ghemi,
muro mani più lungo della regione
46 n DA ghemi A tsArAng e infine A Lo mAntAng
tsarang, ostello e sullo sfondo il monastero con i resti
della torre di guardia
il karma nero del Monastero di cui era abate, all’epoca, il figlio del Raja. Anche Terzani riferisce che
nei dormitori del monastero di Tsarang gli uccelli
avevano fatto il nido sopra uno splendido affresco
del 1400, in cui il dio della morte, tiene la ruota della
vita fra le sue zampe e si appresta a divorarla.
Così, arrampicandomi pensierosa verso il forte che
sta per collassare, arrivo al monastero dipinto di
rosso, vedo alcuni monaci che si affaccendano con
alcuni trekkers americani e decido di… non entrare.
Motivo? Non ho ancora digerito la condizione di
conservazione del Monastero “regale” di Ghemi e
siccome anche questo ho letto che apparteneva a
membri della nobiltà feudale, temo che potrei ancora
avere la forza di dare in escandescenze.
proseguiamo fino a Lo Mantang e in un giorno copriamo ben due dure tappe, per recuperare il giorno
Ponte tibetano
sulla Kali gandaki,
ad ogni passo le oscillazioni danno il capogiro
perso a causa del volo cancellato. più ci affrettiamo,
però, più siamo in ritardo. A un certo punto mi viene
da pensare, con repentina illuminazione, che guida
e agenzia, abbiano immaginato/sperato/auspicato
che ci saremmo fermati, di certo stroncati, al primo
o, al massimo, al secondo giorno e così hanno preparato un programma di viaggio di pura fantasia. E
questo spiegherebbe anche un certo atteggiamento
ostruzionistico, del tutto immeritato, considerata
l’immenso sforzo che mettiamo nell’affrontare e superare le difficoltà oggettive, ossia quelle che non
dipendono da cattiva volontà. Del resto i diari di
viaggio che si leggono su internet li scrivono quelli
che arrivano e non certo quelli che si sono arresi, ovviamente. E giunta ormai alla mèta comincio a pensare che saranno anche una buona percentuale, ma
non c’è modo, almeno per me, di vedere quanti si
registrano alla partenza e quanti all’arrivo. In effetti
dal passo di Lo (Lo La) a 3.950 metri, ultimo della serie ufficiale di otto e di molti altri minori,
si vede finalmente la “Piana delle aspirazioni dello Spirito”, mentre il sole declina rapidamente
l’agenzia ha pure sbagliato ad apporre le foto sui nostri permessi, così dobbiamo tenerci sempre alla larga
dal check-post, delegando la guida all’incombente,
mentre il posto di controllo è un luogo interessante
dove incontrare altri “pellegrini” e assumere informazioni fresche e di prima mano sul percorso, le sue
attrattive, le sue difficoltà.
Arriviamo a Lo Mantang con il buio che ci insegue,
senza neppure fare la rituale sosta al passo Lo La che
sovrasta la vallata ove sorge la capitale. Anzi, mentre
la sera cala velocemente e scende il freddo che intirizzisce le ossa, non c’è tempo neppure per sostare
brevemente ad aprire lo zaino per prendere la giacca
a vento.
Il giorno precedente ci eravamo rincuorati leggendo
indicazione stradale,
con le distanze in linea d’aria
Lo Mantang, la new guesthouse, esterno.
Le nuove abitazioni, costruite fuori della cinta muraria,
occupano le poche aree prima destinate ai campi coltivati
il cippo con scritta a mano la distanza che ci separava
dalla capitale: 20 km. Sotto tra parentesi, però, era
aggiunto in blu: arial distance. Insomma 20 kilometri
sì, ma in linea d’aria. Quanti ne avremo percorsi effettivamente, tra un saliscendi e l’altro, un’erta salita
e una precipite discesa, chi può dirlo?
Il lodge è appena fuori della cinta muraria e alle nostre spalle si stendono i campi verdeggianti dell’oasi.
La strada che costeggia le mura è larga e al tramonto
rientrano i cavalieri al galoppo, destreggiandosi elegantemente sulla groppa di questi focosi destrieri al
centro della strada affollata, per farsi ammirare. Rientrano anche i contadini, in realtà si vede solo un covone enorme di riso da cui spuntano un paio di piedi.
Bambini che si sono attardati a giocare sono ancora
in giro con la divisa blu della scuola. Tutto questo ci
scorre davanti agli occhi come un film, inconsapevolmente, senza quasi esserne partecipi. Siamo troppo
stanchi, aneliamo solo alla camera con bagno interno
che ci è stata promessa, per questo abbiamo sopportato una fatica così grande e il piede destro è ormai
new guesthouse interno, la hall. il locale d’ingresso viene
sempre utilizzato come spaccio di derrate e deposito
di selle e utensili
bluastro, ma possiamo finalmente prendere una doccia e togliere la polvere ormai incrostata dai capelli.
Abbiamo guadato torrenti e scalato molti passi, tanto
che neppure li ricordo più. La parte finale del cammino non era difficile, si procedeva in quota sull’altipiano, il sentiero agevole, ma il percorso è stato
lunghissimo.
Arrivati a Lo Mantang non è finita perché anche in
città bisogna entrare da destra, seguire il percorso rituale attraverso la porta d’accesso alla cittadella murata, per cui ci allontaniamo dalla mèta facendo un
giro tortuoso per arrivare infine nel nostro alloggio:
New Guesthouse. La tipica casa quadrata, bassa a un
piano, sempre con il legno sul tetto, anche se moderna, e il letame immancabile (che Tucci chiamava
pudicamente: “erba”), al centro il cortile su cui si
aprono direttamente le stanze come nella casa romana. Al posto della hall con la reception, si attraversa, come normalmente avviene, il piccolo spaccio
di bevande, dolciumi, scarpe e rimedi vari, tra cui
vaselina, spaghi, cerotti e pure sacchi di riso. perfino
Lo Mantang, per l’accesso in città non si procede dritti,
ma bisogna seguire il giro delle mura da deambulare
in direzione oraria, tenendo le mura alla propria destra
sulle fiancate del camion che appartiene al gestore un
dipinto raffigura padmasambhava con la sua docile
tigre al guinzaglio. Qui arriva una strada da nord, il
Tibet è appena dietro la collina e si può raggiungere
il confine anche a cavallo o in jeep, ma non ho nessuna nostalgia delle dogane cinesi nei territori occupati. Così si trovano in vendita tutti i prodotti della
tigre asiatica, compresa l’ottima Lhasa beer, dissetante e ricca di sali minerali, che costa meno della
bottiglietta da un quarto di acqua depurata. I negozi
sono talmente ben forniti che in uno spaccio in centro
campeggia la scritta: “qui si vende carta igienica”, un
genere introvabile e di lusso in tutta la regione, ma il
negozio è chiuso. Nel cortile davanti alla stanza sono
ammucchiate selle da cavallo, panni stesi, moto e perfino le biciclette di un gruppo tedesco che non riesco
a capire come diavolo siano potuti arrivare pedalando. In effetti, dopo aver preso confidenza, confesseranno che buona parte del tragitto è stata percorsa
con la bici in spalla che, tutto sommato, pesa meno
del nostro zaino mentre i portatori con i cavalli tra-
un monaco si protegge dalla polvere davanti al monastero le mura
degli edifici sacri sono sempre dipinte di rosso
sportavano il loro bagaglio. La stanza è buona abbiamo addirittura piastrelle per rivestimento, certo
grazie all’influsso cinese che però ha portato pure la
moda del braccio della doccia a nord-est e dello scarico dell’acqua a sud-ovest, come abbiamo visto
spesso in Tibet: ma perché? L’acqua è stiepidita dal
pannello solare e va benissimo così, anche la cena è
fresca e mangiamo di gusto e mi trovo a constatare
che quando la stanza è buona e pulita anche il cibo è
più fresco e sano. Rilassata, sento finalmente la tensione sciogliersi: ce l’abbiamo fatta, ma l’effetto del
dormire ad alta quota si fa sentire nell’arsura costante,
ma poco danno.
Attonita visione. Con una marcia breve, un po’ meno di quattro ore, siamo a Mustang,
la capitale di questa provincia estrema; dalla cima di un passo dominiamo tutta la valle
ampia leggermente digradante verso oriente, cosparsa di case e villaggetti e punteggiata
dal rosso dei monasteri. Qualche salice macchia di un verde pallido i campi su cui avvizziscono le stoppie ingiallite. A quattromila metri l’orzo cresce ancora prosperoso e
con lo yak e le pecore assicura alle genti la vita. Tutto all’intorno montagne dorate inarcandosi sorreggono il cielo di un azzurro irreale; a destra, a perdita d’occhio, si rotolano
le cime ghiacciate che splendono con la lucentezza fredda delle pietre preziose; a nord
la catena si abbassa, in ondulazioni dolci, sulle quali s’aprono i passi che congiungono
il Tibet con il Nepal. Era una di quelle bellezze assolute che gli occhi non bastano ad
abbracciarle tutte: i particolari vaniscono confondendosi ed una interiore improvvisa
attonita visione, salendo dal profondo, accoglie quell’immensità la quale incanta e attira
come un abisso di luce (Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode, 112).
Lo Mantang,
appena dietro
le colline
che circondano
la piana si arriva
al confine con
il tibet
Rovine 1. La strada da Ghiling a Charan /Tsarang) passa per luoghi un giorno molto
più abitati di quello che oggi non siano. Le maggiori rovine sono a Kami, ma si sparpagliano dappertutto, di castelli, di case e di templi; si sono salvati dalla distruzione soltanto gli innocui ciortèn ed i muriccioli con le preghiere (Giuseppe Tucci, Tra giungle e
pagode, 109).
Rovine 2. Dopo due passi – siamo già oltre i quattromila metri – scendiamo a Charang,
raccolta intorno alle pericolanti mura del castello e al severo, intatto, massiccio monastero; ma oggi nei suoi androni squallidi e malsicuri s’aggira ozioso l’abate, figlio minore del re di Mustang…Pendono dai pilastri che sorreggono il tetto antiche,
pregevolissime tanka tibetane e nepalesi, come nessun museo possiede (Giuseppe Tucci,
Tra giungle e pagode, 109).
Rovine 3. Nella casa dell’abate si passa da una cappella ad un’altra; in una cesta
stanno gettate alla rinfusa diecine di tanka sulle quali covano le galline che tutto
hanno imbrattato: ne sfilo qualcheduna e mi piange il cuore che coteste opere
d’arte siano destinate a fine così miseranda (Giuseppe Tucci, Tra giungle
e pagode, 111).
Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA n 51
CApIToLo VIII
Lo Mantang, la città fortificata
“p
iana delle aspirazioni dello spirito”: questo significa Lo Mantang, oggi toponimo della sola
capitale, mentre un tempo questo nome-appellativo
era attribuito a tutto il regno di Lo (del Sud) e Mustang ne era la capitale. Negli antichi manoscritti, si
leggeva: «Il Mustang è il paese della completa felicità, dove tutto ciò che è ambito o necessario è a portata di mano, dove i sudditi sfavillano come stelle e
lo spirito si diletta nella contemplazione del re». Al-
meno così riferisce Tiziano Terzani. Quando ho posto
una specifica domanda al lama Tsering Tashi, direttore della scuola per giovani monaci del monastero
nazionale, mi ha risposto che i manoscritti del Mustang contengono solo testi religiosi e non cronache
storiche del regno. poiché di persona non posso verificare, mi limito a riferire entrambe le versioni.
Comunque non è questo il punto. Il fatto è che procedendo verso la capitale ho compreso che non avrei
trovato una realtà troppo differente da quanto visto
fino allora. Insomma s’intraprende l’impresa avendo
nel cuore il mito di Orizzonti perduti, si sogna di raggiungere una terra di felicità, si cammina con fatica
nel silenzio assoluto, preparando lo spirito a cogliere
Lo Mantang, la principale via d’accesso alla cittadella fortificata con gli edifici medievali, in primo piano l’immancabile abbeveratoio
52 n Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA
il frutto segreto di un mistero nascosto, si arriva,
infine, condividendo l’analisi di Tiziano Terzani:
«avvicinandosi l’immagine si smitizza e il viaggiatore finalmente capisce: il senso della ricerca
sta nel cammino fatto e non nella meta; il fine
del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare» (Tiziano Terzani, In Asia, 334).
Se guesthouse è una parola grossa per gli alloggi
che ci hanno ospitato durante il cammino, anche
capitale è una parola ridondante per la meta che
ci siamo prefissa e abbiamo raggiunto in cinque
giorni di marce forzate. Questo piccolo villaggio
di un migliaio di persone con poche famiglie è
una grande stalla a cielo aperto. Impossibile
scansare le deiezioni perché essendo più ricchi
gli abitanti possiedono più animali: un tappeto,
una moquette – direi – formatasi con tempo e
pazienza grazie all’impegno costante di muli,
cavalli, yak, mucche, pecore, capre e galline.
Confesso che immaginavo un luogo più civilizzato, entrando nell’antico Regno di Lo, che dava
il nome a tutta la vasta zona e non solo alla capitale, un tempo più estesa degli attuali 363.958
ettari del distretto che ricade nella giurisdizione
nepalese. Non certo per la crisi d’astinenza da
centro commerciale o zapping compulsivo, ma
per l’esigenza imprescindibile d’igiene basilare.
poi vedo la casa del Raja e capisco. La particolarità dell’edificio è di essere il più alto di tutti:
quattro piani, come nessun altra dimora del
regno. Costruito anch’esso in fango è cadente,
malmesso e addirittura pendente. Davanti all’edificio non possono mancare le tradizionali
ruote di preghiera, sul soffitto legna e teschi,
come ovunque. Un cartello appeso a un palo,
mezzo staccato dal vento impetuoso, avverte che
da qualche mese sono sospese le udienze: il vecchio raja, che al momento della nostra visita
aveva 81 anni, è ormai ammalato e non si alza
Lo Mantang, il palazzo reale, il più alto dell’intera regione,
l’avviso appeso sul pilastro di sinistra avvertiva
che il raja era gravemente malato e le visite sospese
Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA n 53
Lo Mantang, di fronte al palazzo reale si trova l’ufficio turistico,
dove debbono registrarsi tutti i trekkers, che riescono ad arrivare
alla méta. Sul muro è affisso il codice di comportamento ecologico
più dal letto. Mi ricordo che anche Giuseppe Tucci
dice di non aver potuto incontrare il suo predecessore
regnante a quel tempo.
Stesa sul letto, ripensavo proprio alle parole di Tucci,
secondo il quale il sentimento preponderante che ti
assale è un certo senso di squallore. La stessa cosa
ho poi letto nel libro, acquistato a pokhara appena
prima della partenza, scritto da Manjushree Thapa,
giornalista nepalese, cresciuta negli USA, dopo la
sua visita in Mustang per sensibilizzare la popolazione alla tutela del patrimonio artistico conservato
nei monasteri. Dice, senza perifrasi, di aver effettuato
un secondo viaggio in Mustang proprio per verificare
il senso di desolazione che l’aveva assalita nel corso
della sua prima esperienza di viaggio. Lo stesso Ter-
zani definisce il paesaggio “desolato”, sebbene con
il passare dei giorni l’occhio si addestri a scoprire
meraviglie nascoste, dalle incisioni sulla pietra a inattese fioriture d’alta quota.
Le foto, i libri, le guide non ti possono preparare a
quanto ti trovi davanti in termini di vita minuta, ordinaria, disagi logistici, problemi tecnici, per così
dire. La quintessenza è rappresentata dalla piazza
del palazzo reale. Innanzitutto non è una piazza, essendo poco più larga di una via. Al centro un canale
di scolo, a cielo aperto. Di fronte la fontana, non
certo decorativa o monumentale, ma il solito abbeveratoio basso, una vasca quadrata in cemento con
i bordi rialzati, per il consolidato uso “promiscuo”
tra bipedi e quadrupedi. A terra l’immancabile
strato compatto di paglia e letame. Ho letto che secondo un’antica superstizione spazzando le strade
potrebbero essere risvegliati gli spiriti maligni che
poi inseguono chi si mette in viaggio: molto pittoresco, ma poco pratico. Comunque, di fatto,
quando il Raja si allontanava dalla capitale, nessuno più puliva le strade e così si sono disabituati
definitivamente, a quanto pare, anche se il re, all’epoca, non correva rischi dato che sfortunatamente era definitivamente allettato.
Di fronte a questa “reggia” si trova l’Ufficio Turistico, dove tutti i viaggiatori vengono controllati e
registrati. Hanno anche internet, che non funziona,
ma è carissimo. A lato della porta un cartello ricorda diritti e doveri di chi entra nella zona ristretta, una sorta di decalogo ambientale che può
costituire un primo passo per un’opera di sensibilizzazione e tutela del Circuito dell’Annapurna, ancora tutta da costruire.
Su tutti i siti ufficiali del Ministero del turismo nepalese si legge che i permessi di accesso alla restricted area sono limitati a mille l’anno, ma spulciando
la statistica pubblicata a Lo Mantang, nel 2012 sono
arrivati almeno 3mila forestieri, il che porta valuta
54 n Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA
pregiata al governo centrale ma – come sull’Everest
– mette a rischio un fragilissimo ecosistema. L’apertura del paese al turismo si vede che è devastante, si
percepisce in diretta, senza bisogno di trattati antropologici. Significa che i turisti sono il 20% della popolazione, in assenza totale di strutture e
infrastrutture. Nel 2012 i permessi di accesso all’Everest hanno fruttato ben 7milioni di dollari, solo
nel primo semestre, ma non sembra che vengano
reinvestiti per eliminare almeno le immondizie, ossia
la plastica che non è riciclabile, come gli altri rifiuti
organici di cui almeno si nutrono gli animali. E anche
qui accade la stessa cosa, perché fuori dei villaggi
più grandi incontriamo le prime discariche di bottiglie che vengono ammucchiate e poi, probabilmente,
bruciate. Se le etichette apposte sulla plastica invitano il consumatore occidentale a riciclare i contenitori con la raccolta differenziata, qui la figurina
didascalica si limita a spiegare che il contenitore
deve essere schiacciato prima di buttarlo. Insomma,
quel fragilissimo sistema autarchico di sopravvivenza che aveva funzionato per millenni si è irrimediabilmente incrinato, senza portare al paese nessun
progresso. Forse si può trovare il superfluo, per chi
può permetterselo, ma il necessario manca oggi più
di prima.
Tornando alla nostra statistica sono i francesi al
primo posto, quanto a presenze, seguiti da USA,
Germania e Italia. Quando lo dico tutti immancabilmente restano stupiti, forse perché non abbiamo
la fama di camminatori, mentre non ci difetta una
grande tradizione di esplorazione, non solo alpinistica ma anche culturale, a cominciare proprio dal
grande Tucci che questi selci, come si dice a
Roma, se li era ribattuti davvero tutti...per finire
con Messner.
Qualcuno arriva anche da Cambogia e Myanmar, ma
immagino siano monaci pellegrini, come i tanti, ben
dotati di Ray Ban e Nikon, che incrociamo sui sen-
Lo Mantang, il lama tsering tashi,
davanti alla scuola di formazione monastica di cui è direttore.
gli edifici, compresa la rete idrica,
sono stati realizzati con il contributo
del governo di new delhi,
Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA n 55
Lo Mantang, aula della scuola di formazione monastica
tieri, più che turisti.
I Bhotia, gente di etnia tibetana, sono molto operosi:
commerciano, coltivano, allevano, s’ingegnano e
trafficano, come tutte le popolazioni di confine. Sui
tetti ci sono pannelli solari, parabole e tutti hanno il
loro cellulare di ultima generazione all’orecchio,
compresi i monaci, ma non ci sono scope né uno
spazzolone “mocio” per pulire dentro e fuori casa, e
questo è intollerabile. Chi spazza, tenendo in mano
direttamente la corta scopetta, in pratica alza polvere
e sposta il pattume, non usando manico né paletta.
Un’amica che faceva parte del personale diplomatico, mi raccontava che chi partiva per tornare in Italia veniva corteggiato con mesi di anticipo per
ereditare un manico di scopa. E la cosa peggiore che
poteva capitare in casa di europei era un manico di
scopa spezzato, perché non sono facili da trovare né
da importare, neppure nella “valigia diplomatica”!
Qualche volta, prima di rassegnarmi, ho chiesto alla
guida di far pulire il bagno impraticabile.
Una scena indicibile: arrivava solerte la nonna di
casa, tenendo in mano solo la mitica scopetta, la pas-
sava in terra e in cielo e in ogni luogo e dopo era pure
peggio di prima. La volta in cui sono fuggita a gambe
levate, è stato quando dopo la pulizia della latrina è
passata direttamente ai pentoloni a terra in cortile…
La mitica scopetta è anche il giocattolo preferito dai
piccoli mocciosi: mentre la mamma che gestisce l’alloggio sfaccenda in cucina loro giocano con la scopetta (sempre quella di prima) in cucina o in sala da
pranzo “battezzando” tutto quello che trovano! Last
but not least, la mamma suddetta cucina avendo a
fianco del braciere in terracotta un cesto di sterco con
cui attizza la fiamma, mentre spadella con le stesse
mani, ovviamente. prima di aprire le case private
all’accoglienza turistica un corso di formazione all’uso della scopa con manico, del mocio, ricavato
anche da vecchi stracci, e di presidi igienici forse era
d’obbligo e assolutamente a costo zero.
Questo ciò che ho cercato, prima educatamente e poi
meno, di spiegare alla nostra ineffabile guida che mi
ripeteva: è così la montagna! No, la montagna non è
così. E quando la rabbia mi ribolliva dentro gli dicevo: è così un accidente! Il concetto era quello di
luogo inidoneo al consesso civile: not for human
beings, but for animals.
Qui ho avuto la mia rivincita perché appena arrivati
al centro monastico della capitale veniamo accolti dal
direttore del centro Tsering Tashi, considerato un
lama reincarnato, il quale apre il discorso con un’affermazione anche più colorita: this is a zoo, a land
for animals, not for human beings…Hai capito?
Guardo la guida sperando abbia compreso che il
senso della frase non è certo offensivo, ma accorato.
Il Governo indiano ha aiutato a costruire gli alloggi
dei monaci e degli ottanta novizi che frequentano la
scuola. Non solo, ha pure fornito pompe e cisterne
per dotare l’edificio di acqua e servizi igienici. In un
reportage degli Anni Novanta ho letto che quando faceva molto freddo nelle cucine del gompa si accendeva un fuoco in terra, i monaci più anziani sedevano
56 n Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA
Lo Mantang, altare con offerte tradizionali e non …
compresa la scatola di Pringles
accoccolati vicino alla fiamma, i giovani più indietro
e si lasciava che il fumo uscisse dal tetto aperto!
Entriamo nelle classi, visitiamo il piccolo museo
pieno di oggetti rari, preziosi e pure curiosi, compreso – pare – un teschio di yeti, ma tutti ammucchiati e impolverati. Il Lama dice che senza risorse
non possono fare di più, stendono qualche telo di plastica e aspettano tempi migliori. per i testi buddhisti
su foglie di palma è stato avviato un progetto di scansione al pC, appena agli inizi, ma sono in pochi a saperlo usare, la corrente manca spesso e i testi salvati
sono tanti, fortunatamente.
parliamo anche dei restauri in corso da parte di un
simpatico ragazzo italiano: Luigi Fieni che, oltre a
condurre le periodiche campagne di restauro, cerca
di formare una squadra di giovani restauratori del
posto, grazie al finanziamento erogato da una fondazione buddhista statunitense.
Si legge che viene da Roma, in realtà è di Cisterna
di Latina e non mi viene in mente niente che possa
essere più agli antipodi di una città dell’ex-palude
pontina con l’Upper Mustang. Davvero scherzi del
Pilastro in legno di tek,
la struttura lamellare d’epoca suscita curiosità
e ammirazione da parte dell’ingegnere
Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA n 57
Statua del Buddha del futuro (Jampa chempo),
nella sala di preghiera del Jampa gonpa
Lo Mantang, giovane novizio sul terrazzo del monastero ove
non mancano le deiezioni stese ad asciugare
destino. Lama Tashi, direttore del centro di formazione monastica, dice che il restauratore italiano è
bravo e assai stimato, ma questo si capisce dal risultato del restauro. Certo, è finito lassù, dove trascorre
lunghi mesi ogni anno, per un puro caso. La storia
sembra un aneddoto: aveva appena completato gli
studi quando ha risposto sul web alla ricerca di personale specializzato di una Fondazione americana, si
è affrettato a rispondere, ma solo dopo aver spedito
il curriculum è andato a vedere dove sarebbe andato
a finire. La leggenda dice che dopo aver visto il pun-
capitello scolpito con immagine terrifica.
i “protettori” sono raffigurati
sempre con grande potenza espressiva
Lo Mantang, dal terrazzo del monastero la vista spazia sulle colline circostanti,
anche se sembra strano parlare di “colline” per alture di oltre 4.000 metri.
Sul colle del re e sul colle della regina, che si trovano di fronte alla città, a nord verso l’altipiano tibetano,
sorsero le prime fortificazioni da cui partì l’espansione del regno di Lo
tolino sperso tra i più possenti Seimila, Settemila e
ottomila del mondo abbia esclamato: “ma in che
guaio mi sono cacciato?”.
Alcune pareti, al momento della nostra visita, erano
ricoperte da uno spesso strato d’intonaco, operazione
preliminare alla ripulitura. Altre pareti, una volta pulite e completata l’opera di restauro, sono gloriose,
splendide, radiose. purtroppo è molto buio ma
quando le pupille si adattano all’oscurità e si dilatano
abbastanza da permettere di intravedere qualcosa, i
capolavori che sono sulle pareti sembrano danzare.
per un tibetologo deve essere l’estasi, perché i dipinti
non sono oleografici come certi santini buddhisti
contemporanei oppure le sculture in burro dai colori
del marzapane, ma pieni di forza, carichi di simboli
difficili da decifrare, capaci di trasmettere un senso
di reverenza e ammirazione davanti al mistero che
svelano e nascondono.
per poter procedere all’opera di restauro le immagini sacre sono state oggetto di un rito di sconsacrazione, poi una volta ultimato il restauro
conservativo di scuola occidentale, che prevede
zone grigie, lì dove la pittura è divenuta illeggibile,
Lama e re non erano per niente soddisfatti. Così,
suo malgrado, il restauratore italiano ha dovuto
completare gli affreschi con le parti mancanti del
dipinto e solo allora le immagini sono state riconsacrate e tutti gli abitanti del regno di Lo, erano finalmente felici e contenti.
La fatica immensa, i disagi, la mancanza di respiro
in quota, le mille palpitazioni e le tante paure sono
finalmente ripagate dall’essere arrivati in tempo per
vedere questi scrigni preziosi di meraviglie, rimasti
intatti dal XIV-XVI secolo, posare lo sguardo sulle
pitture che ricordano le gesta del taumaturgo padmasambhava, nonostante tutto quello che può essere accaduto nel corso dei secoli per ingiuria dell’uomo e
oltraggio del tempo. I pilastri di teak come saranno
stati portati fin qui dalle remote jungle indiane? Con
quale fede e quale forza e quale coraggio questi mistici e mitici costruttori avranno superato le impervie
giogaie, guadato i flutti impetuosi della Kali Gandaki, quando non c’erano neppure i traballanti ponti
tibetani? La tecnica costruttiva è paragonabile a
quella modernissima del legno lamellare, con pezzi
assemblati assieme per formare gli alti e snelli pilastri: davvero non abbiamo inventato nulla. Giustamente è fatto divieto di fotografare, così tutta
l’emozione resta rannicchiata stretta stretta nel
cuore e resta il premio meritato per chi si è inerpicato sin lì: non trasmissibile, non riproducibile, non
condivisibile. In teoria, perché in pratica, sul sito
internet di Fieni, che ha documentato tutte le fasi
del restauro, si gustano meraviglie: amplessi divini
e terrifiche visioni.
Dopo l’ammirazione arriva la costernazione, perché
il lama ci dice che il restauratore non può fermarsi
troppo perché il governo nepalese pretende anche da
lui l’odioso balzello del visto più costoso del mondo:
$ 500,oo ogni dieci giorni.
Allora il discorso si allarga ed entrato in confidenza
ci dice: che dei tanti soldi che i trekkers pagano alla
popolazione locale non arriva una rupia; che il Governo non tiene in considerazione alcuna il buddhismo, fregandosene altamente di investire risorse per
preservare questo patrimonio dell’umanità, ancora
più unico e prezioso dopo la distruzione sistematica
dei monasteri tibetani da parte degli occupanti cinesi;
che le condizioni igieniche della popolazione sono
Lo Mantang, choede Monastery, ingresso al campus
che ospita il noviziato e il Museo
spaventose – e questo l’avevamo capito da soli –
basti pensare che in tutta la regione, impervia e priva
di collegamenti, non esiste un solo ospedale (e se ci
penso mi dico ancora: brrr!), in caso d’emergenza c’è
solo un elicottero privato che costa 7mila dollari a
volo, se è libero, dato che i magnati russi hanno preso
il vezzo di prenderlo in affitto per fare giretti di piacere, appena qualche dispensario nei monasteri,
un’altissima mortalità infantile.
però siamo arrivati e camminiamo leggeri per le
strade del “regno dei venti”, calpestate da poche persone al mondo, dove la gente sorride, schiva e piena
di dignità, dove la vita è scandita da gesti e rituali ancestrali, tramandati da generazioni di sapienti.
I monasteri di Lo Mantang
All’interno della cinta muraria si possono visitare tre
monasteri e un museo. In realtà non si tratta di un
Lo Mantang, ingresso al tupchen Monastery (esterno)
museo vero e proprio, ma di una stanza ove vengono
raccolti, in attesa di tempi migliori, oggetti sacri,
libri su foglie di palma, reperti di varia natura.Lo
sforzo di conservazione, conseguente alla presa di
coscienza del gravissimo problema, è concreto. All’apertura delle frontiere al mondo, la prima richiesta
del Raja fu di aiuto per la conservazione del patrimonio religioso e culturale. Ancor prima di chiedere
cibo o medicine, perché un popolo senza identità culturale è destinato comunque a languire e soccombere. per comprendere appieno la portata dello
sforzo intrapreso occorre riferire quanto documentò
l’orientalista Giuseppe Tucci, nel suo ultimo viaggio
di ricognizione e esplorazione in Mustang:
«Il grande tempio di Tugcèn (T’ugs rje c’en po) sta
per crollare: nell’atrio intimidiscono, ma con un cipiglio che non convince, le barocche statue dei quattro Lokapala, i protettori dei quattro punti cardinali,
insediati in ogni tempio per proteggerlo dalle potenze
demoniache: sono quattro, uno per ogni punto cardinale, e ciascuno è responsabile della parte alla sua
vigilanza affidata. Nella cella medita Sakyamuni e
Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA n 61
sono di ottima mano e buona epoca: sotto, in lettere
d’oro, una lunga iscrizione ne illustra il contenuto e
ricorda sia il re, sia i nobili che a proprie spese provvidero all’opera insigne, sia i nomi dei pittori. Un
lama intelligente e volenteroso si mette al lavoro per
farmene una copia accurata».
Affreschi in pericolo si trovano, però, in tutti i templi
e il lavoro non manca:
«L’altro tempio è dedicato a Ciampa, Maitreya. Era
a due piani, ma il piano superiore è già in completa
rovina: crepe minacciose fendono anche le pareti
della grande cappella inferiore; a sinistra della porta
gli affreschi, della stessa epoca e degli stessi artisti
che lavorarono nel tempio precedente, raffigurano
Dorgesempà (rdo rje sems dpa’), Metabarba (me lta
abar ba), il mandala di Dorgesempà e a destra Gitengompo (aijg rten mgon po). Le pitture sono talmente annerite, in qualche punto già cancellate
dall’acqua stillante dal soffitto, che è impossibile fotografarle. Anche questi due insigni monumenti del
miglior periodo di Mustang sono dunque destinati a
scomparire. È gran ventura che io sia arrivato in
tempo per raccogliere ancora le superstiti memorie»
(Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode, 115-116).
veduta dal terrazzo verso il confine tibetano
gli fanno cerchio Avalokitesvara, Bodhisattva misericordioso e soccorrevole, sceso nell’inferno per redimere i dannati e sempre pronto a venire in aiuto a
chi lo invochi con fede sincera, Vaisvarana, dio della
ricchezza, e l’immancabile padmasambhava».
Anche la descrizione sullo stato di conservazione
degli affreschi, rende meglio di qualsiasi fotografia,
con il potere evocativo della parola, la gran mole di
lavoro e la grave responsabilità che si è assunto,
ormai da oltre un decennio, il restauratore italiano:
«Gli affreschi che corrono all’intorno sulle pareti
Dragkar-Thegcen Ling Gonpa
Il Monastero fu eretto durante il regno del primo re
di Lo, Ama pal, e dal discepolo Ngorchen Kunga
Sangpo, alla fine del XIII secolo. È il principale monastero della capitale ed è la residenza dei monaci e
dei lama di più alto lignaggio nonché il centro ufficiale delle attività religiose del Mustang, in quanto
ospita la scuola per giovani monaci Shree Mahakaruna Sakyapa che, al momento della nostra visita, a
fine 2012, erano ottanta.
Il museo monastico
All’interno del monastero una grande stanza è stata
adibita a museo, fondato nel 2008 dallo Student Wel-
62 n Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA
fare Committee di Tsechen con lo scopo di conservare e tramandare gli antichi e preziosi reperti, raccolti da diversi monasteri dell’Upper Mustang, in
particolare provenienti da Choede. Di particolare interesse le maschere, di diversi colori e fattezze, indossate dai monaci durante le danze rituali eseguite
in determinate ricorrenze religiose, come Tenchi,
Yartung ed altre. Il Museo conserva testi sacri buddisti, risalenti a oltre duemila anni, incisi e dorati su
legno.
Di grande interesse le scritture Bonpo, la religione
che ha preceduto il buddismo, risalenti a ben tremila anni fa. La principale attrazione rimane, per
i curiosi, la zanna di mammuth, rinvenuta nella
zona, che doveva essere molto differente da come
appare ora, di certo ricoperta da praterie e foreste
lussureggianti.
Jampa Gonpa
Fu costruito all’inizio del XIV secolo, durante il
regno di Angon Sangpo, il secondo figlio di Ama pal.
Il monastero è un esempio unico della grande architettura del passato. La particolarità risiede negli antichi mandala tantrici, dipinti in oro sulle pareti, del
primo e secondo piano, raffiguranti divinità appartenenti alla tradizione iconografica di tutte le sette del
buddismo tibetano. La grande sala di preghiera è affrescata con un doppio registro di mandala, alternati
con mandala di minori dimensioni. La grande statua
di Jampa Chenpo (il Buddha del Futuro), è in posizione di meditazione e si innalza dal piano terra al
primo piano. Le mura del monastero, che come altrove sono dipinte in rosso e danno all’edificio
l’aspetto di austera fortezza, sono spesse un metro e
ottanta.
Tupchen Gonpa
Questo monastero fu costruito durante il regno del
terzo re di Lo, Tashi Gon, alla fine del XV secolo.
Lo Mantang, monaci godono il sole caldo del pomeriggio fuori delle mura
Le pareti e il soffitto della sala di preghiera sono ricoperte di oro, argento e colori naturali. Le pareti dipinte mostrano diverse immagini del Buddha e di
altre divinità, in diverse posizioni. Le travi di legno
e il soffitto della sala sono incisi con mantra. Nell’età
d’oro di Lo Mantang, il monastero era il centro principale di tutte le attività spirituali del regno. L’atrio
ospita statue di grandi dimensioni dei quattro protettori: Dhristrarastra, associato al Nord-Est; Baishnawan, associato al Nord-ovest; Birudhak, associato al
Sud-Est; Birupaksha, associato al Sud-ovest, posti
su alti basamenti. La sala principale, chiamata Dhukhang, è partita in navate da possenti e snelli pilastri
lignei, in stile indiano, con un magnifico soffitto e
pareti affrescate. Vi sono anche statue d’argilla di
Chenresing (Avalokitesvara), Jampi Yang ( Manjushree) e Guru Rinpoche (padmasambhava). La statua
Lo Mantang, studentesse della scuola di medicina tradizionale
davanti al dormitorio femminile
di Thupchen, realizzata in bronzo dorato, sfiora con
la testa il soffitto.
La scuola di medicina tradizionale
Mentre la sera scende rapida vediamo che altri viaggiatori, incontrati nel nostro lodge, ci salutano cordialmente, attirando la nostra attenzione agitando le
braccia. Stanno facendo il giro delle mura e ci esortano a seguirli.
Li raggiungiamo attraverso un dedalo inestricabile di
viuzze e cortili, entriamo in case private, attraversiamo porte e portoni finché, arrampicandoci su scale
primitive, ricavate da un unico grande tronco, raggiungiamo le sommità dei terrazzi e finalmente le
mura di fango imbiancato. Lo sguardo spazia tutt’intorno e la sensazione di pienezza e di appagamento è
indescrivibile. Ridiscendendo attraverso una scala ri-
pida, entriamo in un cortile e passiamo attraverso la
Scuola di medicina tradizionale. Anche se questo è
un nome evocativo la realtà che ci troviamo di fronte
non è all’altezza delle aspettative. Nel cortile sotto
le mura sono ricavati degli alloggi, dormitori uguali
alle nostre camere, divisi per maschi e femmine. La
scuola è frequentata da bambini anche molto piccoli
e da adolescenti. Le condizioni igieniche sono le solite che ormai conosciamo bene. I bambini si lavano
alla fontana sulla strada, perché nella scuola non c’è
acqua, stendono il bucato sui tetti, sopra al legno e
al letame messo ad essiccare. Vengo a sapere che imparano a riconoscere fiori e piante da usare a scopo
medicinale e poiché molti vengono da villaggi lontani, alloggiano nei dormitori comuni, non potendo
affrontare le distanze che separano le loro case dalla
capitale.
Lo La,
Bandiere di preghiera
spinte dal forte vento,
creano un arco
sulla strada
che ridiscende alla
Piana delle aspirazioni
dello Spirito
Visione. Dopo cinque giorni di marcia, a
volte a piedi, a volte a cavallo, improvvisamente, in mezzo a una piana circondata da colline brulle e giallastre, appare Lo Mantang. Con
le sue tre gompa dipinte di rosso, le mura di fango
bianche di calce e i due salici giganteschi, la città
pare intatta come il giorno della sua fondazione
(Tiziano Terzani, In Asia, 334).
Spiriti maligni. L’intera vita di Lo Mantang gira intorno al suo monarca (…) La sua presenza irradia
protezione sulla città. Il tetto del suo palazzo è coperto di teschi e corna d’animali, di pietre scolpite
con iscrizioni magiche o d’immagini del Buddha in
meditazione. Quando il re lascia Lo Mantang, per
molti giorni nessuno può usare una scopa per evitare
che, spazzando, si sollevino spiriti maligni che potrebbero seguirlo sul suo cammino (Tiziano Terzani,
In Asia, 334).
Meta di sogno. In una valle lontana, dietro le vette
ghiacciate dell’Himalaya, vive un re d’altri tempi.
Il suo castello è di pietre e fango, i suoi tesori
sono pecore e cavalli. Il suo
unico guardiano è un mastino
dal pelo nerissimo. I suoi sudditi sono appena 4500, ma il
suo regno accende la fantasia di
ogni viaggiatore ancora in
cerca di un’ultima meta di
sogno (Tiziano Terzani, In Asia,
328).
suLLA viA DeL ritorno n 65
CApIToLo IX
Sulla via del ritorno
º
A
rrivare non è stato facile, ma ora siamo felici, ci
sentiamo rilassati, possiamo fare – almeno un
po’ – i turisti. Gironzolare, guardare qualche vetrina
di souvenir, scambiare chiacchiere con i venditori seduti, in attesa di acquirenti, davanti alla porta, visitare
templi e musei. Anche se quando ritrovi un brandello
di “civiltà occidentale” in qualche spaccio della capi-
tale, servita da nord attraverso la frontiera cinese, transitabile anche con 4 x 4, ti rendi conto di come il viaggiatore medio vada in cerca di cose di cui non sentivo
affatto la mancanza e di cui si potrebbe benissimo fare
a meno: alcolici, birre, popcorn e la solita Coca Cola.
proprio questo, però, ci ricorda prepotentemente che
bisogna tornare indietro e la strada è comunque a saliscendi, inoltre avremo il vento contrario, sempre.
Decidiamo così di fermarci due notti, ma un solo giorno
per avere il tempo di tornare indietro nonostante il mio
alluce ormai colore blu-puffo. Insomma occorre calcolare che essendo già stanchi possa verificarsi qualche
inconveniente che rallenti il percorso. Infine, siamo già
Syanboche, la proprietaria dell’hotel daulagiri con le due figlie davanti alla guesthouse dove stazionano le carovane
Kagbeni, la tempesta di sabbia oscura in pochi minuti la vallata risalendo il canyon (alto), dopo l’improvvisa tempesta torna a splendere il sole
sui ghiacciai dove è già caduta la prima neve autunnale ( basso)
tsarang, rovine del forte
a martedì e l’aereo è prenotato per il sabato successivo. Non riesco a capire come l’agenzia potesse proporre un soggiorno a Lo Mantang di tre notti,
ripartendo solo il mercoledì mattina, delle due l’una:
o non c’erano mai stati prima loro o pensavano che
non saremmo mai arrivati alla mèta noi! Impieghiamo,
infatti, più di cinque ore per coprire lo stesso percorso
che all’andata ci aveva richiesto appena tre ore di marcia. Inoltre bisogna calcolare che queste tappe non
hanno possibilità intermedie, ossia o copri le 6-8 ore
di marcia nel tempo regolamentare oppure resti all’aperto. Un percorso arduo, oggi come ai tempi di
Tucci.
Non so come ma arriviamo a Syanboche, Hotel Daulagiri, un vero e proprio caravanserraglio in un villaggio formato da appena due case, una di fronte all’altra,
che servono per il cambio dei cavalli. Infatti le carovane
sono accampate nel cortile-stalla e le bestie da trasporto
sulla strada davanti la porta, tanto di notte nessuno può
muoversi, e con l’andirivieni tra dentro e fuori al buio
pesto, lo strato di letame si distribuisce uniformemente,
mentre le figlie gemelle del gestore, che avranno all’incirca un anno, gattonano felici sul sentiero, improvvisando le prime capriole tra letame e zampe di cavalli.
Domanda: come si chiamerà la “Santa pupa” dei buddhisti? Forse Avalokitesvara dalle mille braccia, per
riacchiappare tutti quelli che sono in pericolo, perché
con le due normalmente in dotazione ai santi occidentali, qui ci può fare davvero poco…
Durante la discesa assistiamo a uno spettacolo inatteso,
la migrazione delle rarissime gru dal collo nero, dagli
altipiani tibetani. Uno stridore remoto, ma acutissimo,
Kagbeni, manifestazioni di superstizione popolare per scacciare dalla città e dalle case gli spiriti malvagi, un evidente retaggio bonpo.
immagine apotropaica, teschi di montone e ginepro
quasi suono di sirena, ci spinge a strizzare gli occhi e
dietro le colline vediamo uno stormo che compone figure ardite, gridando con versi acutissimi. Ben presto
compaiono cinque nibbi dall’enorme apertura alare che
volteggiano minacciosi sopra lo stormo, ma volando
compatte e gridando, le gru fanno desistere gli aggressori, sparendo dietro le colline al confine tibetano.
Da Syanboche arriviamo a Chhusang, una tappa massacrante, in discesa, come in salita, con una parte del
sentiero a gradoni franati, una parte scavata come una
tagliata etrusca, ma tutto sconnesso, friabile, e scivoloso. A volte sono distese bianche, altre volte colate di
minerali rossi che giustificano la leggenda antica: il
sangue dei demoni, sconfitti da padmasambhava, che
cavalcando tigri e sconfiggendo dragoni feroci, da una
parte all’altra dell’Himalaya, fece trionfare il buddhismo sulle antiche credenze bonpo. Torniamo a pranzo
all’Annapurna hotel, che ora mi sembra una reggia, torniamo a dormire a Chhusang, pernottiamo nello stesso
caravanserraglio e ritroviamo la grande Rosemary, garbatissima e colta newyorkese pluriottantenne, che non
so come, ci precede sempre.
Da Chhusang raggiungiamo Kagbeni, posta alla confluenza del fiume che da Muktinath si getta nella Gandaki, e partiamo presto per evitare il vento che oggi ci
troveremo frontale. precauzione inutile, perché anticipa
l’orario. Già dalle 10 inizia a tormentarci, mi punto sui
bastoncini, quando arrivano le raffiche mi piego in
avanti, addirittura in certi passaggi debbo mettermi in
ginocchio o girarmi, per non farmi spostare di peso.
Nonostante il piede sempre più blu, gli occhi lacrimanti, dobbiamo accelerare il passo perché se il vento
anticipa vuol dire che c’è in giro una perturbazione, in
effetti il cielo non è turchese intenso, come di solito,
ma velato.
Le rassicurazioni della guida mi impensieriscono ancora di più, perché non sa o non dice mai la verità.
Come Dio vuole arriviamo, non possiamo telefonare
diffuse manifestazioni di superstizione popolare: pali, corna di yak incise con formule rituali
né usare internet perché c’è un black-out, la prima avvisaglia della perturbazione che arriva in valle, azzannandola come un cane rabbioso. per fortuna arriviamo
nel lodge appena in tempo, ma in meno di un niente
tutto si spegne, anche la luce del crepuscolo, solitamente radiosa e arriva la temuta tromba d’aria.
Mulinelli di polvere finissima si alzano dal fondo valle
e, attraverso il largo letto del fiume, arrivano sulle case
del paese, azzerando quasi del tutto la visibilità. La polvere mi scricchiola tra i denti, anche chiusa in camera
e infilata dentro il sacco a pelo. La pioggia sferzante
batte sui vetri, e la casa in legno scricchiola e geme,
fortunatamente non dura molto, però quando si dissolve la nebbia, la polvere e la buriana si allontana, ci
avvediamo che sui passi che ci siamo lasciati alle spalle
è caduta la prima neve. Abbiamo avuto fortuna. Un
tempo, quando le frontiere tibetane erano aperte gli abitanti del Mustang, lasciavano in inverno, quando ogni
lavoro era impossibile, case e villaggi. Riprendevano
le loro usanze nomadi e, attraverso la Via del Sale, se
ne andavano a commerciare sugli altipiani tibetani,
dove potevano anche far pascolare le loro mandrie. ora
i vecchi restano nei villaggi, con una scorta di granaglie
e carne essiccata, e i giovani scendono a pokhara a lavorare come camerieri o nelle pianure indiane e spesso
non tornano indietro.
Già dall’epoca del viaggio di Terzani, nel 1995, gli abitanti lamentavano la rottura di secolari equilibri: il
vento che soffia sempre più forte, le piogge che non arrivano in tempo o arrivano troppo impetuose e devastanti. oggi molti villaggi si spopolano per la siccità
oppure vengono devastati dalle inondazioni e anche un
documentario realizzato da Stefano Ardito per il
CNR sottolinea la portata rovinosa dei cambiamenti
climatici sul Tetto del Mondo. per i vecchi abitanti
la colpa è dei turisti. ovviamente il cambiamento climatico è globale, ma forse gli dei sono davvero arrabbiati.
a
70 n suLLA viA DeL ritorno
Le misteriose grotte celesti, oggetto di recenti esplorazioni archeologiche che hanno svelato sepolture di 1500 anni fa
Appena finisce la buriana andiamo a vedere il monastero Kag Chode Thupten Samphel Ling, fondato nel
1429 dal maestro tibetano Tenpai Gyaltsen, fino a
pochi anni addietro non visitabile. ora stanno lavorando per ampliare i dormitori dei monaci, con due
ali simmetriche davanti al tempio. per entrare è richiesta un’offerta di cento rupie (circa un euro), registrata coscienziosamente su un libro contabile che
controfirmiamo. Nel foglio che ci viene consegnato
l’abate Khenpo Tenzin Sangpo assicura che i nostri
soldi saranno spesi oculatamente e conclude assicurandoci preghiere per finire il viaggio e ritornare a
casa sani e salvi…
Le popolazioni locali, in balia di elementi naturali così
imprevedibili e scatenati, sono molto superstiziose, teschi e corna di animali campeggiano sui tetti o piantati
su alberi calcinati, davanti le case. Un piccolo focolare
di terracotta viene utilizzato in ogni casa, per bruciare
suLLA viA DeL ritorno n 71
l’incenso himalayano, che profuma di ginepro e
scacciare così gli onnipresenti spiriti malvagi. Davanti a ogni chorten si crea immancabilmente una
rotatoria perché nessun viandante omette di rispettare la ferrea regola della giusta deambulazione, in
senso orario. Su ogni passo s’innalzano alti pali in
legno dove sventolano le bandiere di preghiera, lasciate consumare al vento e rinnovate all’inizio di
ogni nuovo anno lunare. Alla base, ogni viandante
depone una pietra bianca e rotonda, al momento di
superare il valico. Anche noi ci siamo ritualmente
uniformati, pur consapevoli di quanto il buddhismo
tibetano abbia dovuto inculturasi, recependo l’ancestrale cultura sciamanica delle credenze bon.
Visitiamo il gompa e il giovane monaco che ci porge
i biglietti d’ingresso e perfeziona l’inglese leggendo
una Lonely planet, ci invita per il mattino successivo
a partecipare alla funzione dell’alba, precisando che
non ci sarà richiesto alcun pagamento supplementare. Non abbiamo neppure portato con noi l’apparecchio fotografico, vuoi per proteggerlo dal vento
impetuoso e dalla polvere insidiosa per i delicati
meccanismi elettronici, vuoi perché sappiamo che
vige il divieto di fare foto. Nonostante ciò il monaco
ci guarda gentilmente e incuriosito dice: «ma non
volete fotografare?».
Così alle cinque del mattino chiediamo la sveglia,
ci alziamo per essere alle sei al monastero, partiamo
per tempo ma lungo le vie del villaggio già risuonano i colpi cupi del gong che richiama alla preghiera, sempre più ravvicinati, poi inizia il suono dei
tamburi cui si uniscono le trombe e le profonde voci
gutturali dei monaci che salmodiando hanno già ini-
Le cavità rupestri
rappresentano uno dei più grandi misteri archeologici
del mondo
Jomsom, la pista sterrata di atterraggio per bimotori, la cui rotta si snoda serpeggiante nella vallata tra i contrafforti degli ottomila
ziato le litanie. Ci togliamo gli scarponi e sediamo a
gambe incrociate, in un angolo, sui tappeti stesi lungo
le pareti perimetrali della sala di preghiera, vicino ai
bambini-novizi che sono terribilmente incuriositi dalla
nostra presenza e si voltano continuamente a guardarci.
I monaci ordinati siedono invece su basse panche in
legno allineate in due file, una di fronte all’altra, al centro della sala. Sono una ventina in tutto, dovrebbero essere di più ma per perfezionare gli studi, debbono
recarsi in India o a Kathmandu, sotto la guida di maestri qualificati e molti non tornano indietro. La descrizione di Tucci è sempre efficace e dà perfettamente
l’idea dello svolgimento della cerimonia. Durante una
pausa viene servito the al burro e farina d’orzo che ven-
l’ingresso alla pista,
con le “indispensabili”
ruote di preghiera
nilgiri
gono impastati assieme con le dita, per preparare la
tsampa. Torniamo sul tetto del monastero per un ultimo
sguardo d’insieme alla valle che stiamo per lasciarci
alle spalle. La luce è quella gloriosa con il cielo tersissimo, di un color cobalto che ho visto altrove solo negli
altipiani tibetani, e le cime innevate di nuovo visibili a
chiudere strettamente la valle a sud. La luminosità evidenzia rovine lontane di castelli che, crollando poco a
poco, si confondono con la stessa terra di cui erano costruiti.
Una parte del cammino si snoda costeggiando ripide
pareti rocciose, foracchiate da aperture come formaggio svizzero. Sono le stesse grotte che Tucci esplorò
senza risultato. Invece, scavi archeologici, recenti e più
approfonditi, stanno riportando alla luce tracce di civilizzazione fin dall’epoca preistorica, anche per questo
ai turisti è fatto assoluto divieto di entrarvi.
Da questo punto in poi, durante la stagione secca c’è
un tratto di strada che si può percorrere in jeep, lungo
il letto secco del fiume, che in questa stagione si divide
in tanti meandri. Vorrei prendere una jeep collettiva,
delle tante che dal campo d’aviazione portano i pellegrini indiani o nepalesi, induisti o buddhisti, parimenti
devoti al luogo sacro a Vishnu, avanti e indietro da
Muktinath. per un fenomeno vulcanico, fiammelle di
metano si elevano sopra le acque del lago. In effetti,
nella zona sgorgano anche acque calde termali, residuo
degli sconvolgimenti della crosta terrestre, tanto che sul
greto del fiume “peschiamo” le famose ammoniti, anch’esse nere, segni dell’indescrivibile e inimmaginabile
sollevamento che ha portato dal fondo del mare a ottomila metri di altezza la catena himalayana. piccoli
segni, forse, ma molto significativi della potenza infinita e inarrestabile della natura.
Comunque le jeep che passano sono piene e dobbiamo
farcela a piedi. Arriviamo infine a Jomsom che, nonostante la sua unica strada, mi sembra una metropoli. In
effetti quando si scende dall’aereo ci si stupisce di
74 n suLLA viA DeL ritorno
trovarsi, in relativamente poco tempo e breve distanza,
in un mondo così diverso dal resto del Nepal. Solo al
ritorno da Lo Mantang, però, si comprende appieno
quanto Jomsom sia del tutto differente dal resto della
regione, con i suoi cartelli stradali, una base militare,
sedi di partiti politici, negozi ben forniti.
Sulla testa ronzava per tutta la mattina l’elicottero
rosso di soccorso che ho visto per almeno tre volte atterrare e decollare. Sulla strada una barella trasporta
un nepalese con un braccio tutto steccato e al bar incontriamo un russo con la testa fasciata.
La sera l’hotel si riempie di pellegrini indiani che non
ci fanno chiudere occhio, sono in perenne fila nell’unico bagno, dove ingannano il tempo chiacchierando: la nostra stanza ha l’accesso direttamente dalla
sala da pranzo del primo piano che, a sua volta, si affaccia sia sul terrazzo (senza ringhiere) sia sul cortile
interno del piano terra e tutto rimbomba.
Anche questa sera black-out e da giorni non riesco più
a comunicare. Ce ne andiamo per fatti nostri in un ristorantino davvero carino, arredato con gusto: lanternini di carta di riso e simpatico servizio all’americana
sui tavoli, addirittura un centrotavola con un fiore,
tanto che ora mi sembra si stare all’Harris bar. Rientrati
nella civiltà spazzoliamo di gusto un röstli e una torta
di mele, dopo tante barrette, integratori, frutta secca e
scatolette che ci hanno assicurato, però, la sopravvivenza.
Davanti al cancello dell’aeroporto ci sono le ruote di
preghiera, ci andiamo fin dalla sera a farle girare con
apparente ironia, ma con intima devozione.
La mattina, pruriginosi per gli ospiti indesiderati, portati dai pellegrini tanto numerosi che hanno trascorso
la notte sulle panche e i pavimenti del cortile, penetrati
anche dentro il nostro sacco a pelo, ritroviamo la cara
Rosemary e – non so perché – mi sento sicura e speranzosa che la preghiera dell’abate Sangpo: for your
safe journey back to home, si realizzi, nel rivedere lei
e il suo sorriso di viaggiatrice imperturbabile. L’aereo
suLLA viA DeL ritorno n 75
parte regolarmente, l’unica hostess ci offre batuffoli
di cotone per le orecchie e caramelline economiche,
esattamente come avevo letto nel resoconto di viaggio, scritto nel 1990 dalla giornalista nepalese Manjushree Thapa, salita anche lei sempre su un piccolo
e simpatico Twin otter – speriamo non sia proprio lo
stesso – che ci riporta a pokhara nei programmati 18
minuti di volo. Le propaggini rocciose dei ghiacciai
dell’Annapurna che fiancheggiamo, fotografando felici come giapponesi impazziti, lasciano il posto ad
alte gobbe montagnose, ricoperte di vegetazione tropicale lussureggiante, pur sempre a 3.000-3.500 metri
di altezza. Sullo sfondo il lago di smeraldo comincia
ad occhieggiare, ingrandendosi sempre di più sotto di
noi, finché appare la pista dell’aeroporto e con qualche sussulto e sobbalzo atterriamo sani e salvi dopo
12 giorni, almeno 100 kilometri (in linea aerea) percorsi e nove passi saliti e discesi all’andata e altrettanti al ritorno, 80 ore di marcia, un tasso d’ossigeno
perennemente ridotto del 40% almeno.
Di tutti i propositi di bisboccia non se ne fa niente.
Appena arrivati facciamo una ricca colazione, gustando caffè, latte, marmellata, burro, pane bianco,
frutta, tutti sapori dimenticati da giorni. Dopo vado
in camera, mi doccio e stra-doccio e dormo fino al
pomeriggio.
Mi sveglio, mi rivesto con abiti freschi di bucato e
cerco di uscire, arrivo al cancello del giardino, sbircio
il lago e torno indietro, la testa mi gira vorticosamente
(forse non sono più abituata a stare così in basso!).
Allora mi ributto sul letto, le fresche lenzuola pulitissime mi accolgono avvolgenti, sono così spossata che
non riesco neppure a pranzare e cenare, mi sveglierò
direttamente la mattina successiva, dopo altre venti
ore di sonno!
da new York a Lo Mantang,
rosemary una grande e coraggiosa viaggiatrice
76 n Lo mAntAng, LA Città fortifiCAtA
Oasi lussureggianti. Kagbeni è il più meridionale dei villaggi
Bhotia del Mustang. Presenta caratteri tipicamente tibetani
nell’architettura delle case, dei chorten e dei gomba il cui accesso era stato precluso ai turisti, dopo un furto di qualche
anno fa. Vagabondammo nel dedalo di vie del villaggio e raggiungemmo l’affollata stazione di polizia… Dopo ci incamminammo verso l’altipiano che sovrasta Kagbeni, da dove
potevamo guardare verso nord in direzione della restricted
area. Tutto quello che potemmo vedere erano aride colline
scure e rocce che si dissolvevano nel blu all’orizzonte. Sotto
di noi c’erano i campi di cereali e di buckwheat, che splendeva in rosa e oro. Irrigate grazie a canali di pietra, erano
oasi coltivate, assurdamente lussureggianti in pieno deserto
(Manjushree Thapa, Mustang Both in fragments, 26).
Uomini e bestie. Durante la nostra assenza il cortile del lodge
si era riempito di mucche, capre e polli. Bikas ed io ci sedemmo sulla veranda, fuori della stanza e ascoltavamo i loro
muggiti, belati e pigolii… Quella prima sera il ricordo di Kathmandu era ancora vivo nella mia mente e nei sensi. Mi sembrava irreale trovarmi a Kagbeni, un villaggio di cui non
avevo mai sentito parlare prima, a sedere sulla veranda del
lodge, circondata da un folle andirivieni di animali nel cortile… (Manjushree Thapa, Mustang Both in fragments, 2627).
Ritorno in Mustang. Bikas ed io tornammo in Mustang esattamente un anno dopo, con un altro amico di Kathmandu. Percorremmo lo stesso sentiero che avevamo seguito la prima
volta. Questa volta, tuttavia, venivo per parlare con gli abitanti dei villaggi sulla possibilità di restaurare i gomba di Lo
Manthang. Sinceramente, però, il mio interesse personale era
quello di verificare il senso di desolazione ricavato dalla mia
prima esperienza, di immergermi nell’estensione della diseguaglianza in cui è strutturata la realtà nepalese (Manjushree
Thapa, Mustang Both in fragments, 37)
Grotte celesti. Sventolano sulla cima di pali conficcati per
terra banderuole di stoffa bianca con impresse formule di pre-
Bandiere di preghiera
si stagliano
contro il blu cobalto del cielo
ghiera; come nel Tibet, lungo la strada sfilano muriccioli
sopra i quali sono adagiate lastre di pietra con iscrizioni
e figure del Buddha. In fondo alla valle decine di grotte foracchiano la roccia a picco; sulle vette si stagliano nel
cielo le rovine di un tempio; ma sulle pareti mozze l’intonaco rosso, che distingue gli edifici sacri dalle case, non
si è ancora dato per vinto. L’esplorazione delle grotte alla
quale subito ci accingiamo con ascesa difficile non rivela
nulla: nessuna traccia di pittura è visibile; deserta tebaide
di dimenticate comunità di anacoreti in questa inaccessibile solitudine ritiratesi a meditare (Giuseppe Tucci, Tra
giungle e pagode, 94).
Liturgia complessa. La cerimonia si compie in due tempi:
in un primo momento sorbiamo tutti insieme, accoccolati
per terra nella terrazza prospiciente il tempio, il tè (tè tibetano con burro, sale e soda) che, seguendo la consuetudine dei pellegrini tibetani, appena giunto, ho
offerto, con lauto obolo, alla comunità;
segue poi lo sciabden, ufficio religioso vero e proprio, al quale tutti
partecipiamo. I miei compagni guardano sottecchi i
monaci seduti ciascuno davanti
al proprio tavolino, alto poco più d’un palmo
da terra, intenti a recitare in coro, con voce nasale, le
litanie e stanno pronti a ripetere ogni gesto che essi facciano come se essi medesimi siano iniziati agli stessi misteri. Ma la liturgia è troppo complessa…(Giuseppe Tucci,
Tra giungle e pagode, 99).
Incenso. Il ginepro è la pianta sacra dei bonpò: il fumo del
ginepro bruciato allontana le forze malefiche; per questo
motivo anche il Buddhismo non vi ha rinunciato e se ne
serve nei riti di esorcismo e nelle liturgie popolari cui si dà
il nome di sang (Giuseppe Tucci, Tra giungle e pagode,
107).
Se lungo il cammino
non doveste incontrare un maestro o un amico
allora è meglio proseguire da soli
perché non c’è compagnia nella stoltezza
indice
Lo Mantang: polvere e bellezza nell’ultimo regno himalayano (grazia Marchianò),
6
introduzione .................................................................................................................................
7
caPitoLo i
La valle degli Dei e dintorni ...........................................................................................................
9
caPitoLo ii
Mustang, perché?,............................................................................................................................ 13
caPitoLo iii
A Jomsom ........................................................................................................................................ 17
caPitoLo iv
A Chhusang ..................................................................................................................................... 25
caPitoLo v
Da Chhusang a Samar .................................................................................................................... 33
caPitoLo vi
Da Samar a Ghemi .........................................................................................................................
37
caPitoLo vii
Da Ghemi a Tsarang e infine a Lo Mantang ..................................................................................
45
caPitoLo viii
Lo Mantang, la città fortificata.......................................................................................................
i monasteri di Lo Mantang .............................................................................................................
dragkar-thegcen Ling gonpa ........................................................................................................
il Museo monastico .........................................................................................................................
Jampa gonpa...................................................................................................................................
tupchen gonpa ...............................................................................................................................
Scuola di medicina tradizionale ......................................................................................................
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61
61
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caPitoLo iX
Sulla via del ritorno ........................................................................................................................ 65
Avvertenza. La traslitterazione dei nomi, segue quella usata dai singoli autori citati nei brani di antologia. Per Lo Mantang (in luogo di Lo
Manthang) e tsarang (in luogo di charang) abbiamo scelto quella usata da tucci e terzani, anziché altre utilizzate da autori anglofoni.
Perché andare:
1.Perché il paesaggio è cangiante e struggente, i silenzi assoluti, le
montagne maestose, le testimonianze iconografiche del buddismo
tibetano uniche e preziose
2.Perché si è messi a confronto con se stessi, le proprie capacità e risorse interiori
3.Perché è l’ultima restricted area del pianeta poche persone al mondo
hanno visitato questa regione
e voi potreste essere una di quelle
4.Perché è un angolo di mondo autentico da vedere prima che la globalizzazione cambi rapidamente i luoghi e le persone
5.Perché vi accompagna un montanaro Bothia che conosce e ama i
luoghi e le persone che incontrate, vi intrattiene con i canti e le leggende del Mustang che presto saranno dimenticate
Perché non andare:
1.Perché il paesaggio è bello, ma il trekking in quota pericoloso per
l’altezza e la conformazione del terreno
2.Perché è meglio non rischiare di conoscere i propri limiti di resistenza fisica, psicologica e cardiaca in un posto senza alcun tipo
di assistenza sanitaria
3.Perché, a causa della chiusura improvvisa e senza preavviso delle
frontiere tibetane, i tour operator nepalesi dirottano sconsideratamente i turisti diretti a Lhasa in Mustang. È come mandare in
alto adige chi volesse visitare roma!
4.Perché non ci sono strutture né infrastrutture minime d’accoglienza turistica e le condizioni igieniche sono estremamente precarie
5.Perché vi accompagna un Rongba, un nepalese di pianura, che
viene da Kathmandu non è abituato all’altezza ed è scocciato di
faticare in montagna e spera magari che vi sloghiate almeno una
caviglia…
II Avvertenza. Questo libro non è una guida, ma un reportage di viaggio, che vuole trasmettere le emozioni di due persone non troppo giovani e non troppo allenate. con un ritmo lento, si può fare. Sentieri, strade, accoglienza cambiano rapidamente e secondo le stagioni.
tuttavia vorremmo evidenziare le ragioni da meditare per affrontare o meno il viaggio, altrimenti, leggendo il libro, potete ricavare la
soddisfazione di conoscere questi luoghi senza dovervi spostare di casa
Grafica e impaginazione:
Daniela Teodoru
Antonio Guenci
Ludica Edizioni
in collaborazione con la Collana Quaderni
del Centro Internazionale di Studi Borgiani
GLI AUTORI, con questo reportage di
viaggio, rendono partecipi i lettori
dell’ardua inerpicata nell’Alto Mustang,
testimoniata da un formidabile corredo di
immagini. Un libro prezioso e incantevole,
che ha tutte le caratteristiche di ciò che in
India si definisce «guado» (tirtha), in
senso sia fisico che simbolico.
Infatti ciò che conta per il viaggiatore non
è tanto la mèta da raggiungere, per
strabiliante che sia nel minuscolo regno
pietroso di Lo Mantang, ma il camminare
stesso con la sottile metamorfosi di chi lo
compie, arrendendosi agli stenti, alle
fatalità, alle sorprese (spesso spiacevoli)
di un’avventura il cui compenso è
apprendere a ‘guardare’ con occhi nuovi,
a rivivere un secondo battesimo della
mente e del cuore.
In queste remote plaghe dove la polvere si
avvita in turbini accecanti e il cielo è
vicinissimo, la spiritualità non è
un’astrazione rarefatta e invetriata alla
nostra maniera, ma una miscela
suppurante e sublime di afrori e profumi,
dove superstizioni millenarie su dèmoni e
malefizi convivono accanto alle pratiche di concentrazione impassibile di
bodhisattva oramai rari perfino sulle
pendici himalayane e le ruote di preghiera,
nel loro volgersi incessante, parificano le
acque della vita e della morte.
Ernesto de Angelis e Rigel Langella,
compagni di avventure e disavventure, in
viaggio e nella vita, vivono tra i Castelli
Romani e il litorale. Hanno fondato
insieme il CISB (Centro Internazionale di
Studi Borgiani). Nel cassetto il sogno di un
biglietto one way. Diversi per formazione:
l’uno ingegnere, l’altra avvocato per
necessità, giornalista e saggista, per vera
passione con molte pubblicazioni al suo
attivo. Insieme si incontrano e scontrano
sui sentieri del mondo e delle idee. Insieme
hanno già pubblicato il volume fotografico:
Sette passi in Tibet. Cronache di spiriti
erranti, resoconti di viaggio nelle aree di
cultura tibetana, giunto alla sua seconda
edizione.
€ 8,00
ISBN 978-88-908640-7-0