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STORIA DEI FARI
“Tutti vogliono prevedere e sapere come sarà il mondo nell’anno 2000 – scriveva la
Rivista del Touring Club Italiano nel maggio 1904 – ed una tale curiosità tormenta
anche il signor Louis de Meurville…In quanto alle ferrovie egli dice che esse, di qui a
cent’anni, non potranno più sostenere la lotta contro gli automobili, se non si
trasformeranno completamente, con uno scartamento assai più grande, con vetture
assai più larghe, nelle quali, senza sentire la menoma scossa, si possa leggere, scrivere,
mangiare, dormire, farsi la barba e trovare il bar, la biblioteca e il bagno; e tutto
questo colla velocità di 150 km/h…Ci saranno delle strade riservate agli automobilisti,
fatte a bella posta, inclinate nelle svolte, incrociantisi con altre strade, solo mediante
soprapassaggi e sottopassaggi; la velocità degli automobili non sarà inferiore ai 100
chilometri all’ora; né quella degli omnibus e delle vetture sarà mai minore dei 50
chilometri; e si costruiranno tante e tante strade per le vetture, ciclisti, pedoni che non
resterà più alcun terreno per coltivare il grano”.
Era lungimirante, questo sconosciuto indagatore del futuro, e per molte cose potremmo
riconoscerci nelle sue parole. Era così facile, cent’anni fa, prevedere cosa sarebbe
successo relativamente ad un oggetto in così rapida evoluzione come l’automobile?
Se prendiamo per esempio uno dei tanti, tantissimi, componenti dell’ automobile, il
proiettore (chiamato anche, come vedremo impropriamente faro), né le lampade a
scarica di gas allo xeno, sul mercato dal 1991, che garantiscono un’intensità luminosa
più che raddoppiata rispetto a quelle della generazione precedente, né il sofisticato
sistema messo a punto dalla Bosch per regolare l’assetto dei fari (sensori ad ultrasuoni
piazzati sul muso e sulla coda della vettura, che rilevano la distanza della carrozzeria
dalla strada, e una centralina elettronica che misura l’inclinazione della macchina),
sembrano diretti discendenti dei fari ad acetilene di appena ottant’anni prima. Troppo
grande la distanza anche concettuale, e troppo rapida l’evoluzione perché su questo
argomento il signor de Meurville potesse avere delle intuizioni!
Dunque, almeno per quanto riguarda il sistema di illuminazione, il “futuro del passato”,
ciò che si vagheggiava e si ipotizzava per il duemila cent’anni fa, può servire a poco.
Infatti, all’inizio della locomozione motorizzata, il problema non si pose proprio. Era
già un dramma guidare una vettura di giorno, con tutti gli imprevisti, le pannes, le
difficoltà di una automobile del 1890, perché complicarsi la vita guidandola anche di
notte! Da non trascurare il dettaglio, non insignificante, che le stesse strade erano buie, e
non certo asfaltate, perciò i pericoli e le insidie della circolazione erano pressoché
insormontabili. Ragion per cui sulle prime vetture furono montati semplicemente i
classici fanali delle carrozze a cavalli, magari costruiti da Henri e Francois Ducellier,
che già dal 1830 a Parigi conducevano la loro attività di produzione di fari a olio per
carrozze. Erano scatole di lamiera protette sul davanti da lastre di vetro, nelle quali
ardeva una lampada ad olio o una candela: l’indispensabile per essere visti in caso di
sosta.
L’”essere visti” è infatti l’unica funzione che può assolvere un faro, e difatti i “fari”
sugli scogli del mare servono proprio a questo, non certo ad illuminare il mare. Bastò
poco, dunque, perché il faro delle carrozze a cavalli si rivelasse in tutta la sua
inadeguatezza: bastò che la velocità delle automobili aumentasse, e soprattutto crescesse
l’ansia dello chauffeur di usare la sua vettura in tutte, o quasi, le situazioni. Ecco la
nascita del proiettore, cioè di apparecchi che mediante specchi o lenti convogliano il
flusso luminoso della sorgente di luce entro un angolo ristretto e diretto in una
determinata direzione. La sorgente di luce non poteva più essere la candela, troppo
debole. La soluzione fu trovata trasferendo in campo automobilistico una tecnologia
sfruttata in campo militare e nelle miniere: l’utilizzo del gas acetilene (carburo
d’idrogeno), scoperto nel 1836, che brucia all’aria con fiamma molto luminosa e che,
con aria o ossigeno, forma miscele esplosive. Questo sistema aveva avuto dei pionieri:
Louis Blériot a Parigi e la Salsbury Company di Londra fin dal 1899 iniziarono a
costruire proiettori per auto a gas di acetilene. In America la Prest-o-Lite di Indianapolis
trovò la maniera di comprimere l’acetilene in bombola a bassa pressione, per poi
scioglierlo in acetone; in Europa, invece dal 1904 si diffuse la consuetudine di
combinare il carburo di calcio con l’acqua. Con tutti gli inconvenienti che si possono
immaginare: l’acqua gelava facilmente, spesso si verificavano incendi o addirittura
esplosioni. Il generatore era generalmente fissato al predellino destro della vettura, e
comprendeva il serbatoio dell’acqua e la camera di reazione, entrambi smontabili. Il
meccanismo funzionava per non più di quattro ore, dopodiché occorreva smontare e
ripulire tutto, compresi gli specchi e gli schermi di vetro, le lenti, le superfici
paraboliche, cioè tutto ciò che concorreva alla propagazione della luce, oltre che alla
formazione della sorgente luminosa. Un lavoraccio! Eppure, da quando si diffuse,
questo sistema fu salutato con sollievo e durò per oltre un decennio.
I produttori erano tanti: la Fratelli Carello di Torino, che costruiva lanterne, fari e fanali
dal 1876, la Rejna-Zanardini di Milano, la Ing. Troubetzkoy di Milano, la Ducellier di
Parigi, la Elma e la Blériot, entrambe francesi, la Charles Salsbury, operante in
Inghilterra fin dal 1806, la Rushmore, sempre britannica, e in Germania, a partire dal
1902, la Dietz.
Come spesso succede, il progresso arrivò facendo ricerche in tutt’altro campo. Tanto
per cominciare, non se ne poteva più della manovella: gli chauffeurs sognavano un
avviamento automatico, ossia elettrico. Una volta che si riuscì a installare sulla
automobile un impianto elettrico, diventò un gioco da ragazzi collegarvi il sistema di
illuminazione.
Fu in campo militare, ovviamente, che si era sperimentato per la prima volta l’uso dei
proiettori elettrici. Durante la guerra di Crimea (1853-1856) la flotta francese ne fece
uso, i primi nella storia, così da impedire al nemico di ricostruire ciò che avevano
bombardato durante il giorno. E i francesi non se ne dimenticarono anche quando si
trattò di difendere Parigi durante l’assedio del 1870. Da questo al faro elettrico per auto
la strada fu però lunghissima. Il primo brevetto per un proiettore elettrico fu conseguito
dalla Bassée & Michel di Parigi nel 1899, ma non ebbe seguito immediato. Due anni
dopo Charles Vender Vent, a Londra, montò su un’automobile un proiettore elettrico
laterale. E cominciarono a vedersene di serie su alcune Daimler del 1902. Fu però nel
1908 che la Hella, casa tedesca di parti staccate, costruì il suo primo proiettore anteriore
elettrico, con riflettori parabolici. Non era molto luminoso (la sua luminosità
equivaleva a quella di 21 candele) ma per lo meno non necessitava di pulizia, non si
spegneva se c’era vento e non sfrigolava. Solamente comunque nel 1910 circa si arrivò
a risolvere il problema principale, quello del filamento. Quello delle prime lampadine
era di carbone e non reggeva certo i sobbalzi che le asperità delle strade, e le
sospensioni di allora, causavano alla guida. Si dovette passare dai filamenti in tantalio
ed osmio (1905) per giungere a quello in tungsteno. Ma i problemi non si esaurivano lì:
un’altra difficoltà scaturiva dal fatto che sulle automobili allora non vi erano né batterie
né generatori, perciò la corrente era assicurata da pile o da batterie autonome, che si
scaricavano presto. Vi fu chi inventò la dinamo, e ne aprofittò il solito Louis Blériot,
nome molto ricorrente in questa storia. Il famoso pioniere dell’aviazione francese, lo
stesso anno in cui trasvolò la Manica, ossia il 1909, l’aveva installata sulla sua auto,
precorrendo di tre anni la Cadillac, la prima marca automobilistica che installò di serie i
fanali anteriori elettrici sulle proprie auto.
Il più era fatto: ora non si trattava che si attendere il progressivo estendersi
dell’illuminazione elettrica su tutte le auto, il che avvenne verso la metà degli anni
venti. In realtà esisteva ancora uno spinoso problema: si era riusciti a far luce, questo sì,
ma non ad impedire che la luce dell’uno abbagliasse l’altro. Per risolvere l’inghippo si
escogitò di tutto. Nel 1905 fu brevettato un sistema antiabbagliamento consistente in un
otturatore da apporre sul fascio centrale di luce, conosciuto sul mercato come
“Autoclipse”; tre anni dopo Salsbury presentò un faro con il vetro a prismi orizzontale
sulla metà superiore; Hella invece ideò un fanale anteriore dotato di cavo Bowden in
grado di mettere la sorgente di luce fuori fuoco in caso di incrocio con un’altra
macchina. E poi ancora, fari girevoli e orientabili di lato al momento del bisogno; fari
collegati al volante, così da proiettare sempre la luce all’interno della curva; due coppie
di proiettori di cui una laterale e la seconda escludibile in caso di incrocio. Una delle
soluzioni più diffuse consisteva in un commutatore che, manovrato nel monmento in cui
si incrociavano altre vetture, inseriva nel circuito una resistenza in grado di assorbire
parte della corrente e perciò di ridurre l’intensità luminosa della lampada. Si pensò
anche (1921) ad un riflettore che poteva essere inclinato in basso o in alto dal
conducente, in modo da alzare o abbassare il fascio di luce. Due anni prima, nel 1919,
Bosch aveva però individuato la strada giusta, sperimentando una lampada a due
filamenti. Solamente nel 1924 questa intuizione giunse a compimento, e venne
realizzata la lampada a doppio filamento, in cui il fascio di profondità, ossia la luce
necessaria ad illuminare la strada, si ottenne accendendo il filamento posto al di sotto
del punto focale del riflettore; il fascio di incrocio, ossia la luce in grado di farsi vedere
dall’altro, senza abbagliarlo, accendendo il filamento posto al di sopra. Era nato il
proiettore moderno.
Nei decenni venti e trenta, le ulteriori modifiche furono spesso di carattere estetico, più
che sostanziale. Il proiettore per esempio assunse sempre più spesso una forma a goccia,
seguendo le tendenze aerodinamiche del tempo; non fu più realizzato in ottone bensì
cromato o dello stesso colore della carrozzeria; inoltre, lentamente, fu incorporato dal
cofano, dal quale era finora sempre rimasto distinto. La linea stilistica andava infatti in
direzione di una progressiva integrazione in un tutto unico delle varie parti anteriori
dell’automobile: paraurti, parafanghi, fari, cofano. Il faro però fino a quel momento
aveva conservato caratteristiche ben precise: quella di essere tondo, e di essere in
coppia. Con gli anni cinquanta, si verificò la seconda grande rivoluzione nella storia dei
fari. Cominciarono a vedersene di tutte le forma, anche quadrata o rettangolare, e
soprattutto in duplice coppia. Cos’era capitato?
Eravamo rimasti alla invenzione di una lampada in grado di commutare il fascio di luce
da abbagliante ad anabbagliante. Una sola lampada assolveva dunque alla funzione di
fornire la luce di profondità e quella di incrocio. Com’è ovvio, il risultato non poteva
essere perfetto. La posizione ideale per il filamento utilizzato per il fascio di profondità
è nel punto focale del riflettore, mentre per il fascio d’incrocio il filamento deve avere
una estremità in corrispondenza del fuoco e l’altra spostata in avanti lungo l’asse. Uno
solo dunque può trovarsi nella esatta posizione, a scapito del rendimento dell’altro.
Ecco perché nel 1952 comparvero su vetture americane i quattro proiettori. Non tanto
per una questione di estetica o di moda ma per far sì che per ognuno dei due servizi
fosse prevista una specifica coppia di fanali. E anche la forma cambiò, passando da
quella circolare a quella, come si è detto, quadrata o rettangolare, grazie ad uno
“snellimento” delle parti periferiche del riflettore parabolico.
Sembrava fosse stato inventato tutto, e invece moltissimo doveva ancora arrivare. Per
esempio (1955) il faro asimmetrico, ossia un faro che sparava sul lato destro della
carreggiata un fascio più luminoso di luce. Questo sembrava potesse garantire una
maggiore sicurezza soprattutto per quanto riguarda gli eventuali pedoni o ciclisti che
occupano il lato destro della strada. Poi arrivarono i fari orientabili in funzione dello
sterzo, ossia gli occhi della Déesse, della Citroen DS, una delle vetture più
rivoluzionarie in assoluto della storia dell’automobile. Si trattava di un faro che variava
l’orientamento del fascio luminoso a seconda della posizione delle ruote anteriori,
seguendo la traiettoria della curva. Non ebbe seguito, perché complesso, costoso e
pesante. Ma non finisce qui. Nel 1958 si sperimentarono, in campo aeronautico, le
prime lampade alogene, e nel 1962 sulla Ferrari vittoriosa a Le Mans con
Gendebien/Hill sono montati dei fari allo iodio. E’ questa infatti la grande novità, che si
afferma in Italia nella seconda metà degli anni sessanta. Ne parla La Stampa in un
articolo di Ferruccio Bernabò nel giugno 1966, che li definisce “un importante
contributo ai problemi della sicurezza” in quanto migliorano notevolmente la visibilità
notturna, senza i tipici fenomeni di deterioramento della classica lampadina ad
incandescenza: annerimento del bulbo, assottigliamento del filamento. Ma…doveva
ancora arrivare il computer, negli anni ottanta e novanta. Ed eccoci alla terza
rivoluzione. Fari piccoli, ribassati e grintosi, proiettori poliellittici, caratterizzati cioè dal
ridottissimo ingombro verticale, nei quali ad un riflettore elissoidale è abbinata una
lente. Fari, per intenderci, calcolati al computer, sia sotto l’effetto ottico sia sotto
l’effetto estetico, in tutte le loro caratteristiche, grazie alla versatilità del nuovo
strumento di lavoro. La libertà di progettazione, con il sistema CAD, computer-aideddesign, è quasi illimitata, perché permette di verificare l’efficacia e la resa di ogni
soluzione ancora nella fase preliminare. La varietà di sagome che ne scaturisce è
enorme. Oggi il fascio luminoso che esce dalla parabola è già orientato: il vetro esterno,
che fino a poco tempo fa doveva assicurare angoli di rifrazione ben precisi, non svolge
più alcuna funzione ottica. E’ spesso soltanto uno schermo, perciò può essere inclinato
come si desidera, cosa favorita anche dai nuovi materiali impiegati, per esempio il
policarbonato. Si diffondono perciò i cosiddetti fari “in forma”, così chiamati non
perché obbediscono all’imperativo della nostra società che ci vuole tutti magri, ma
perché seguono fedelmente il disegno delle lamiere. Sono i nostri occhi meccanici, un
po’ spoetizzati rispetto a quelli “a scomparsa”, misteriosi, intriganti, delle auto sportive
di trent’anni fa. Ma forse ci faranno vedere meglio, cosa di cui c’è sempre bisogno.
Donatella Biffignandi
Museo dell’Automobile