La pena di morte nel mondo musulmano

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La pena di morte nel mondo musulmano
Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli
LA PENA DI MORTE NEL MONDO
MUSULMANO (*)
Abdullahi Ahmed An-Na'im
Secondo Amnesty International, la varietà delle politiche relative alla
pena di morte nei paesi in cui i musulmani sono la maggioranza (da ora
in poi: "paesi a maggioranza musulmana") è simile a quella degli altri
paesi e va dall'abolizione totale all'applicazione abituale. Da un lato, nove
paesi in cui i musulmani sono almeno il novanta per cento della
popolazione, come Gibuti, il Senegal e la Turchia, hanno completamente
abolito la pena di morte. Altri dodici paesi a larga maggioranza
musulmana, come l'Algeria, il Mali, la Mauritania e il Marocco, sono degli
"abolizionisti di fatto" in cui l'ultima esecuzione ufficiale risale a quindici
o venti anni or sono. In contrasto con questi ventuno paesi abolizionisti,
diciassette paesi a maggioranza musulmana continuano ad applicare la
pena di morte. Nel 2007, per esempio, il maggior numero di esecuzioni si
sono avute in Iran (almeno 317), in Arabia Saudita (almeno 143) e in
Pakistan (almeno 135). Poiché una simile variètà di posizioni si ritrova
anche in molti paesi non a maggioranza musulmana, fra cui la Cina e gli
Stati Uniti, le politiche sulla pena di morte non possono essere attribuite
in modo diretto o esclusivo all'islam in quanto tale, né spiegate da esso.
Questo però non significa che non ci siano rilevanti correlazioni.
In questa prospettiva, mi propongo di indagare se ci sia in qualche forma
o misura una relazione fra la previsione della pena di morte nella shari'a
(la legge religiosa dell'islam) e l'applicazione di questa pena nei paesi a
maggioranza musulmana. Anche se è probabilmente vero che l'islam è
uno dei fattori che influenzano le politiche pubbliche e la legislazione nei
paesi a maggioranza musulmana, esso non è il solo fattore che determina
il diritto e la prassi delle autorità, indipendentemente dal carattere
"islamico" dello stato affermato dalle élite dominanti di paesi come l'Iran
e l'Arabia Saudita. Il fatto che il carattere islamico sia riaffermato in
questi due paesi, nonostante le loro teologie e ideologie diametralmente
opposte e nonostante il contrasto fra le loro culture e i loro regimi
politici, mette a nudo l'incoerenza e l'indeterminatezza della nozione di
"stato islamico". È anche vero che i musulmani interpretano e praticano
l'islam in maniere estremamente diverse, ma questo non inficia la
rilevanza dell'islam per le politiche pubbliche, comprese le politiche
penali, nelle diverse società. Di conseguenza il mio scopo è
semplicemente quello di presentare qui un quadro di riferimento
provvisorio per comprendere questa relazione in generale, senza la
pretesa di arrivare a conclusioni definitive con riferimento a paesi
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specifici. Spero che questo quadro di riferimento sia utile a tutti coloro
che apprezzano nel campo politico e sociale le analisi contestuali e
approfondite, ciò che è necessario per comprendere il problema che mi
propongo di affrontare.
La principale tesi che intendo sostenere è che si debba tener conto dei
principi e della politica penale della shari'a per comprendere la posizione
formale e la prassi dei paesi a maggioranza musulmana in tema di pena di
morte. Va notato però che questa non è necessariamente una
caratteristica peculiare dei paesi musulmani perché la religione è
similmente rilevante per le politiche pubbliche e per la legislazione di
ogni società umana. In altre parole, anche se l'islam e la shari'a sono
probabilmente rilevanti per questioni come la pena di morte, occorre
evitare generalizzazioni sull'" eccezione islamica", in senso positivo o
negativo, fatte da musulmani o da altri. Le società musulmane non sono
buone o cattive semplicemente per via dell'islam, e le loro opinioni e le
loro politiche su questioni come la pena di morte vanno comprese
attraverso una rigorosa analisi sociologica, come si farebbe per qualsiasi
altra società. L'islam è rilevante per questa analisi, ma non è un fattore
determinante esclusivo in alcuna società musulmana.
Per chiarire meglio il concetto e l'ambito di questo saggio, vorrei far
notare che l'uso del termine shari'a invece di "diritto islamico" è parte
integrante della mia tesi e del mio approccio, come spiegherò in seguito.
L'islam come religione non si riduce alla shari'a come sistema normativo,
anche se il contenuto della shari'a varia dalle questioni di fede e di rito
all'etica e ai rapporti sociali, fino al diritto. Tutti i principi della shari'a
sono obblighi religiosi per i musulmani ovunque si trovino, secondo
l'opinione che ognuno ha del carattere di questi principi e del loro
significato per la vita quotidiana. Tuttavia, questi principi non sono di per
sé "diritto positivo" e quando sono dichiarati legge dello stato ciò
avviene per volontà politica dello stato e non per volontà delle autorità
religiose dell'islam in quanto tale.
Rinuncio anche alla comoda brevità dell'aggettivo "islamico" con
riferimento a paesi o stati, per non far credere che nelle politiche e nella
prassi dei paesi a maggioranza musulmana vi sia qualcosa di
coerentemente e specificamente "islamico". Con ciò non intendo
sostenere che l'islam o la shari'a non siano rilevanti in alcun senso, ma
sostengo semplicemente che tale rilevanza va chiarita invece di assumere
l'esistenza di un significato universalmente accolto di questa relazione.
Invece di "paesi islamici" preferisco parlare di paesi a maggioranza
musulmana o del "mondo musulmano" come regione geografica e
demografica. In questo contesto l'affiliazione religiosa della maggioranza
della popolazione è un identificatore migliore per non dimenticare la
realtà dell'estrema diversità teologica, culturale e politica delle
popolazioni musulmane su scala globale. Se è appropriato tenere conto
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del fatto demografico che la maggioranza della popolazione nei paesi del
mondo musulmano si identifica come musulmana, è fuorviante assumere
che fra queste popolazioni vi siano staticamente uniformità teologica o
culturale e unità politica.
Alla luce di queste osservazioni la tesi centrale di questo saggio si
potrebbe riassumere come segue. Tutti i paesi del mondo musulmano
sono stati sovrani "nazionali": ciò è stabilito dalle costituzioni nazionali
ed essi sono riconosciuti come tali dagli altri stati in base al diritto
internazionale. Questi paesi riproducono al loro interno la varietà di
ideologie e di regimi politici del mondo in generale, andando dalle
monarchie assolute come l'Arabia Saudita alle monarchie costituzionali
come la Giordania e il Marocco, fino alle repubbliche come l'Indonesia, il
Mali e la Turchia. I loro regimi politici riflettono una simile varietà
globale, andando dai regimi dispotici come quello dell'Uzbekistan alle
democrazie liberali come il Senegal. Culturalmente e sociologicamente i
paesi a maggioranza musulmana sono più affini ai paesi confinanti che ad
altri paesi a maggioranza musulmana in altre parti del mondo. Per
esempio, il Bangladesh e il Pakistan hanno più cose in comune con
l'India che con il Mali o il Senegal. I problemi sociologici dei grandi
centri urbani con popolazioni prevalentemente musulmane, come Il
Cairo in Egitto e Karachi in Pakistan, sono simili a quelli dei centri
urbani con popolazioni non musulmane, come Johannesburg in
Sudafrica e Bangkok in Thailandia.
Più in generale, i paesi del mondo musulmano condividono per lo più
con altri stati postcoloniali in Africa e in Asia condizioni di instabilità
politica, sottosviluppo economico, debolezza delle istituzioni giuridiche e
altri problemi correlati. A mio parere, i vari paesi del mondo musulmano
sono modellati e condizionati più dal colonialismo e dai rapporti
neocoloniali che dall'islam o dall'unità panislamica dell'umma. Questo vale
per i paesi a maggioranza musulmana che non sono stati formalmente
colonie, come l'Iran, l'Arabia Saudita e la Turchia, non meno che per i
paesi che hanno sofferto un lungo dominio coloniale come l'Algeria,
l'Indonesia e il Senegal. Di conseguenza, anche se i paesi a maggioranza
musulmana conformano il loro diritto e la loro prassi ai rispettivi sistemi
costituzionali e politici, come gli altri stati sovrani, il modo in cui
esercitano il potere sovrano è modellato più dall'esperienza coloniale e
dalla situazione postcoloniale che dall'islam.
Tuttavia, anche se dal punto di vista strettamente giuridico l'islam o la
shari'a sono rilevanti per la pena di morte soltanto in un'esigua minoranza
di paesi a maggioranza musulmana, questa relazione può avere più
influenza in gran parte di questi paesi dal punto di vista della
legittimazione culturale della pena di morte. Come si notava prima,
poiché l'informazione precisa sulla percentuale di musulmani nella
popolazione di un dato paese è spesso un dato politicamente molto
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sensibile, possiamo fare riferimento solo a numeri approssimativi. Dei
circa cinquanta paesi a maggioranza musulmana oggi nel mondo, solo sei
o sette dichiarano di applicare i principi della shari'a nel diritto penale, e
per lo più li applicano solo parzialmente. L'Iran e l'Arabia Saudita
mostrano forse il maggior rigore nell'applicazione delle norme penali
della shari'a; il Sudan viene subito dopo dal punto di vista formale, ma in
pratica è molto più lontano di quello che dichiara il regime islamista; gli
Emirati Arabi Uniti, l'Oman, il Pakistan, lo Yemen e alcuni stati nel nord
della federazione nigeriana dichiarano di attenersi a un'applicazione
parziale. Il diritto penale dei quaranta paesi rimanenti non suppone né
pretende in alcun modo di applicare i principi penali della shari'a, né
tanto meno di essere determinato dalla sua struttura. In altre parole, la
shari'a è la base del diritto penale o è parzialmente incorporata in esso
all'incirca nel dieci per cento dei paesi musulmani, e non ha alcun ruolo
formale o esplicito nei sistemi penali del restante novanta per cento del
mondo musulmano contemporaneo. Nondimeno, è probabile che la
shari'a abbia un'influenza indiretta sulla prassi e sulle politiche penali,
specialmente in tema di pena di morte, in un numero molto maggiore di
paesi a maggioranza musulmana. Per comprendere questi due aspetti
diversi della rilevanza della shari'a sul tema della pena caitale può essere
utile iniziare con una rassegna dei fondamentali principi penali della
shari'a in quanto tali, con particolare riguardo alle norme relative alla
pena di morte.
1. La natura della shari'a e i suoi rapporti con il diritto statale
Ciò che si chiama comunemente shari'a è il prodotto di un processo
lento, graduale e spontaneo di interpretazione del Corano, e della
raccolta, verifica e interpretazione della Sunna (racconti delle tradizioni
del Profeta) durante i primi tre secoli dell'islam. (1) Il Corano è
considerato universalmente dai musulmani come la prima fonte della
shari'a, ma solo ottanta versetti circa, su più di seimila, hanno quello che
potremmo chiamare un "contenuto giuridico". La Sunna è un'autorità
religiosa inferiore al Corano ma è una fonte pratica più importante
perché ha un contenuto molto più esteso e più particolareggiato del
Corano. D'altra parte, mentre l'esattezza del testo coranico è accettata
universalmente, ci sono profonde divergenze sull'autenticità dei racconti
della Sunna e sulla loro relazione con il Corano. È pacifico che ci sia stata
una massiccia produzione di racconti della Sunna falsamente attribuiti al
Profeta per promuovere posizioni teologiche, politiche o di altro genere,
ma non c'è molto accordo su quali racconti siano autentici, in contrasto
con altri a cui è attribuito un grado variabile di autorevolezza. Ai racconti
della Sunna si assegnano gradi variabili di autenticità o di incertezza
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secondo la qualità della loro successione e secondo lo stile della
narrazione (isnad) sulla base di fattori come la credibilità della fonte o il
grado di unanimità o di frequenza con cui sono riportati.
Questi processi ebbero luogo fra studiosi e giuristi che svilupparono
proprie metodologie per classificare le fonti, derivare regole specifiche da
principi generali e così via. Questo aspetto tecnico del loro lavoro ha
preso il nome di usul al-fiqh, che significa "scienza dei fondamenti della
comprensione umana" (fiqh) delle fonti divine della shari'a. Fra questi
antichi studiosi vi erano disaccordi e dispute anche sulla metodologia
oltre che sulle dottrine e i principi sostantivi. Inoltre, anche se si ammette
generalmente che questi studiosi fondatori operarono in modo
indipendente dalle autorità politiche del tempo, il loro lavoro non può
essere rimasto isolato dalle condizioni prevalenti della loro comunità, in
contesti sia locali sia più ampiamente regionali. Di conseguenza, vi
furono fin dall'inizio notevoli disaccordi fra gli studiosi, che
successivamente diedero luogo alla formazione di scuole di pensiero
separate (madhahib) e persistettero anche fra gli studiosi della stessa
scuola e non solo fra scuole diverse.
Nel discorso islamico si suole distinguere fra shari'a e fiqh. Come spiega
Bernard Weiss, per esempio, "il diritto della shari'a è il prodotto della
legislazione (shari'a), il cui autore ultimo (shari'a) è Dio. Il diritto del fiqh
consiste di interpretazioni giuridiche i cui autori (faqih) sono gli esseri
umani". (2) Questa distinzione può essere utile tecnicamente per indicare
che alcuni principi o regole, in confronto ad altri, si fondano più sul
pensiero speculativo che non sul supporto testuale del Corano o della
Sunna. Ma non significa che i principi o regole considerati come shari'a
invece che come fiqh siano il prodotto diretto della rivelazione perché il
Corano e la Sunna non possono essere compresi o avere rilevanza per il
comportamento umano se non attraverso lo sforzo di esseri umani
fallibili. "Anche se il diritto è di origine divina, la costruzione effettiva del
diritto è un'attività umana e i suoi risultati rappresentano la legge di Dio
compresa dagli uomini. Poiché il diritto non scende già pronto dal cielo, è
l'interpretazione umana della legge - il fiqh (letteralmente:
'comprensione') degli uomini - che assume valore normativo per la
società". (3)
I giuristi e gli studiosi fondatori della shari'a o del fiqh conoscevano bene
la natura controversa della loro materia ed avevano presenti i rischi di
imporre una visione che poteva rivelarsi errata. Di conseguenza
accettavano pienamente la diversità delle opinioni, cercando di
aumentare il consenso fra loro e fra le loro comunità. Per questo
compito si affidavano all'idea che tutto ciò che è accettato per consenso
(ijma) unanime dei giuristi (o della più ampia comunità musulmana,
secondo alcuni giuristi) fosse da ritenersi vincolante per tutte le future
generazioni di musulmani. (4) Anche in questo caso, tuttavia, le molte
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difficoltà pratiche di applicare questa idea furono chiare fin dall'inizio.
Per coloro che volevano limitare la forza vincolante del ijma al consenso
fra un gruppo ristretto di giuristi, i problemi erano i criteri per
identificare questi giuristi e l'accertamento delle loro opinioni. Se invece
l'autorità del ijma proveniva dal consenso della più ampia comunità
musulmana, rimaneva il problema di stabilire e accertare che si fosse
formato un consenso in una qualsiasi materia. In ogni caso, sia nel caso
che il consenso autorevole fosse quello di un gruppo di studiosi, sia nel
caso che fosse invece della comunità nel suo insieme, è ovvio
domandarsi perché l'opinione di una generazione dovrebbe vincolare le
generazioni seguenti. Inoltre, qualunque risposta a queste domande si
voglia accettare, essa sarà sempre il prodotto del giudizio umano.
In altre parole, le norme della shari'a non possono essere derivate dal
Corano o dalla Sunna se non per mezzo dell'intelletto umano, e questo
implica naturalmente sia l'inevitabilità delle differenze di opinione sia la
possibilità dell'errore, fra gli studiosi o nella comunità in generale.
Tuttavia, proprio perché obbedire alla shari'a è considerato un dovere
religioso dei musulmani, un credente non può essere vincolato se non da
quella che ritiene personalmente un'interpretazione valida dei testi
rilevanti del Corano e della Sunna. Tuttavia, data la diversità di opinioni
fra i giuristi musulmani, qualunque cosa lo stato decida di imporre come
diritto positivo è destinata a essere considerata come un'interpretazione
errata delle fonti islamiche da alcuni cittadini musulmani. In relazione
all'amministrazione della giustizia, il problema di fondo è chi e come
possa propriamente e legittimamente comporre i conflitti di opinione per
determinare il diritto positivo da applicare in un caso concreto.
La forte risposta della tradizione a questo problema è sempre stata che
"ogni musulmano era assolutamente libero di seguire la scuola
[giurisprudenziale] di sua scelta e che ogni tribunale musulmano era
tenuto ad applicare il diritto della scuola a cui apparteneva la parte. Non
solo, ma era generalmente ammesso che un individuo avesse il diritto di
cambiare la sua scuola di diritto in un caso concreto". (5) Il diritto delle
parti di scegliersi il giudice valeva per i casi penali oltre che per quelli
civili. In realtà la distinzione fra casi penali e casi civili era sconosciuta
agli studiosi della shari'a in epoca precoloniale, e tutte le cause erano
promosse da privati, sia che chiedessero la punizione di un reo sia che
rivendicassero un risarcimento. Come osserva Knut Vikor:
la shari'a non conosce il concetto di pubblica accusa e cioè l'idea che lo
"stato" rappresenti la comunità e prenda l'iniziativa di punire i criminali.
Questa è una prerogativa di chi ha subìto il danno, non di un terzo
esterno, né del qadi come rappresentante della comunità o dello stato.
Questo è un principio fondamentale della shari'a, che ha vaste
implicazioni sul suo modo di funzionare come diritto e sui tipi di casi
portati davanti alle sue corti. (6)
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L'opinione tradizionale che i credenti possano scegliere la scuola
giurisprudenziale che preferiscono poteva essere ragionevole o
addirittura necessaria dal punto di vista della libertà di coscienza, ma
poneva difficoltà all'amministrazione centralizzata della giustizia in base a
leggi uniformi di applicazione generale, come vorrebbero gli ordinamenti
giuridici moderni. Anche se le parti di una controversia civile possono
scegliere il diritto da applicare in un arbitrato stragiudiziale, questa libertà
di scelta non vale normalmente nei tribunali statali e certamente non nei
casi penali.
Naturalmente questa difficoltà nel rapporto fra la shari'a e il diritto statale
non è nuova, ma aveva delle conseguenze pratiche modeste in epoca
premoderna perché l'amministrazione della giustizia era largamente
decentrata e limitata alla capitale di un impero regionale, e forse a una o
due altre città. Lo stato interveniva nell'amministrazione quotidiana della
giustizia solo con la nomina di giudici formatisi nelle varie scuole a cui
apparteneva la popolazione locale, e le parti sceglievano il giudice che
preferivano. Questa situazione continuò nell'impero ottomano fino
all'introduzione del Mecelle verso la metà dell'Ottocento, e
successivamente fino all'adozione di codici della famiglia in gran parte
dei paesi a maggioranza musulmana. Sopprimendo la libertà previgente
dei musulmani di scegliere la scuola giurisprudenziale cui aderivano, lo
stato si attribuiva l'autorità "nell'interesse dell'uniformità, di scegliere una
fra le varie regole ugualmente autorevoli e di ordinare ai suoi tribunali di
applicare quella regola a esclusione di ogni altra; la regola era scelta
semplicemente per la sua desiderabilità sociale e i codici recepivano le
varianti ritenute più adatte ai principi e alle condizioni attuali della
comunità". (7)
Questo processo di codificazione era ovviamente necessario per venire
incontro agli imperativi della certezza e dell'uniformità della legislazione
nazionale, ed era anche auspicabile per rendere possibile la
partecipazione popolare alla legislazione. Tuttavia, come ho spiegato più
approfonditamente altrove, (8) è altrettanto ovvio che la shari'a non è
oggi il diritto vigente in alcun paese a maggioranza musulmana. Ogni
volta che un principio della shari'a è recepito o comunque applicato come
diritto dello stato, diviene volontà politica coercitiva dello stato e non il
diritto religioso dell'islam. Cioè, va obbedito perché lo esige lo stato e
non a causa di un credo o di un obbligo religioso. L'applicazione statale è
volontà dei governanti anche perché sono loro a decidere quali aspetti
della shari'a imporre o no, e a scegliere la definizione dei concetti giuridici
e quale interpretazione della shari'a recepire nel diritto a scapito di altre.
Tuttavia, la percezione persistente fra i musulmani è che nella gran parte
dei paesi a maggioranza musulmana la shari'a sia il diritto dello stato nel
campo della famiglia, ma lo sia solo in poche situazioni in campo penale,
come si notava in precedenza. È questa forte percezione che è rilevante
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per lo status della pena di morte nel mondo musulmano nonostante il
"fatto analitico" che la shari'a in quanto tale non è e non può essere il
diritto dello stato. Come argomenterò in seguito, tuttavia, l'ambiguità del
ruolo della shari'a per il diritto statale odierno può essere utile per
mettere in discussione lo status attuale della pena di morte. Per valutare
le prospettive realistiche di questo tipo di argomento, è necessario
dapprima capire la vera natura e la forza del fondamento della pena di
morte nella shari'a.
2. I principi penali della shari'a
I primi giuristi musulmani non distinguevano fra morale e diritto, né fra i
diversi aspetti del diritto della shari'a, ma gli studiosi moderni hanno
applicato queste distinzioni degli ordinamenti giuridici europei per
costruire categorie corrispondenti nella giurisprudenza islamica. In
questo modo essi hanno sviluppato una teoria del diritto penale fondata
su tre principali categorie di reato: hudud, jinayat e ta'zir. La prima
categoria consiste di alcuni specifici reati le cui pene, hudud (al singolare
hadd), sono prescritte rigorosamente dal Corano o dalla Sunna. Il tratto
distintivo dei reati appartenenti a questa categoria è che, non appena
l'autorità ne venga a conoscenza, l'accusato deve essere processato se ci
sono prove sufficienti per sostenere l'accusa e, se condannato, deve
subire la rigorosa punizione coranica. In altre parole, né l'autorità statale
né la vittima hanno alcun potere discrezionale dopo la scoperta del
crimine e la pena è immutabile. I reati appartenenti alla seconda categoria
sono detti jinayat (al singolare jinaya): atti che causano lesioni fisiche e
punibili con il qisas, il taglione, o con il pagamento di un diya, un
compenso monetario. Le pene ammissibili per questa categoria di reati
sono anch'esse prescritte dal Corano o dalla Sunna, ma l'azione penale è
discrezionale e così pure il capo di imputazione e la pena da infliggere in
caso di condanna. La terza categoria, i ta'zir, fa riferimento al potere
discrezionale del governante (o del giudice) di punire comportamenti
riprovevoli. (9)
Tuttavia, fra le varie scuole della giurisprudenza islamica vi sono alcune
ambiguità e gravi divergenze sulle fonti autorevoli di questi principi e
sull'interpretazione di queste fonti. (10) Per esempio, c'è ambiguità sui
criteri per individuare le immutabili hudud e sul modo di identificarle. La
maggioranza dei giuristi fondatori definiva hudud le pene prescritte
specificamente dal Corano o dalla Sunna per sette reati: il furto (sariqa), la
rapina (hirabah), i rapporti sessuali extramatrimoniali (zina), la falsa accusa
di zina (qadhf), il consumo di alcol o sostanze stupefacenti (sukr), la
ribellione (albagh) e l'apostasia (riddah). Una dottrina alternativa considera
hudud solo le pene specifiche e immutabili prescritte dal Corano per i
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reati di furto, rapina, fornicazione e falsa accusa di fornicazione. Perciò,
limitando le hudud ai delitti capitali puniti dal solo Corano, questa dottrina
elimina tre dei sette delitti elencati dagli studiosi tradizionali.
Un altro esempio di disaccordo significativo nella formulazione dei
principi penali della shari'a riguarda l'apostasia che è condannata dal
Corano senza prescrivere alcuna punizione in questa vita. L'apostasia è
stata classificata dalla maggior parte dei giuristi tradizionali come un hadd
punibile con la morte come prescritto dalla Sunna, ma questa opinione
viola il diritto fondamentale alla libertà di religione sancito da più di
cento versetti del Corano. Appoggiandosi all'autorità superiore del
Corano per difendere la libertà di coscienza, alcuni studiosi musulmani
moderni hanno sostenuto che l'apostasia non è affatto un crimine, né
tanto meno un reato capitale di hadd. I fautori di questa posizione
tentano di spiegare gli esempi di pena di morte imposta dal Profeta
collegandoli alle circostanze specifiche di ciascun caso riportato.
L'esclusione della Sunna dalle fonti di hudud può anche ridurre la
punizione immutabile a cento frustate in tutti i casi di fornicazione,
invece della lapidazione di una persona sposata condannata per questo
reato come prescritto dalla Sunna. (11)
Anche se è possibile elaborare argomenti teologici di questo genere, è
improbabile che incontrino un consenso generalizzato fra i musulmani a
causa dell'alta considerazione in cui tengono la Sunna come fonte di
doveri religiosi, perché sia il Corano sia la Sunna sottolineano il dovere di
obbedire a Dio e al Profeta. (12) Secondo l'opinione di gran lunga
dominante fra i musulmani, essi possono cercare una giustificazione
razionale che li aiuti a comprendere la saggezza di quello che Dio e il
Profeta hanno decretato, ma l'obbligo di obbedire a questi comandi
rimane, indipendentemente dall'esistenza o dall'adeguatezza di tale
giustificazione. Come mostrano con chiarezza gli esempi che vedremo,
questo forte senso del dovere può valere anche rispetto alla validità in
linea di principio della pena di morte in quanto ordinata dal Corano o
dalla Sunna, anche quando è possibile un'opinione o un'interpretazione
alternativa in materia.
Per esempio, il versetto 24:2 del Corano stabilisce che un uomo e una
donna colpevoli di zina (rapporto sessuale extramatrimoniale) siano
flagellati con cento frustate. Anche se il Corano non menziona la pena di
morte per questo crimine, la dottrina dominante nelle scuole di
giurisprudenza islamica ritiene che la Sunna del Profeta prescriva la morte
per una persona sposata colpevole di zina. Tuttavia, l'applicazione
legittima della pena per questo reato, flagellazione o morte, è
rigorosamente limitata da requisiti probatori molto stringenti: o la
testimonianza particolareggiata e categorica di quattro uomini degni di
fede o la confessione volontaria e confermata dell'accusato, che alcune
scuole esigono sia ripetuta per quattro volte. (13) Questa combinazione
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di rigore punitivo e di difficoltà probatoria sembra indicare un intento
deterrente più che la prospettiva realistica dell'applicazione abituale di
questa pena. Ironicamente, la natura sensazionalistica di questo crimine e
la sua stretta correlazione con l'oppressione delle donne (è raro che un
uomo sia condannato per questo crimine) tendono ad attrarre
fortemente l'attenzione dei media anche se è difficile che una condanna
risponda a tutti i requisiti della shari'a. In altri termini, l'applicazione
attuale della pena per la zina è considerata comunemente come qualcosa
di tipicamente "islamico", anche se da un esame più attento risulta avere
poco a che fare con l'islam.
Il Corano non prescrive alcuna punizione umana per la riddah
(l'apostasia), ma tutte le scuole principali della giurisprudenza islamica
ammettono che la Sunna prescriva la pena di morte per questo reato. Di
nuovo, l'applicazione legittima di questa pena è limitata dai requisiti
probatori e dall'obbligo di dare tempo alla persona di pentirsi dopo la
condanna, ma anche qui con i soliti disaccordi fra le scuole. Per esempio,
le scuole zaydita, safi'ita e malikita affermano il dovere religioso di fare
uno sforzo per correggere l'apostata e impongono un'attesa di tre giorni
fra la condanna per apostasia e l'esecuzione. Anche la scuola hanafita
segue la linea di favorire il ritorno dell'apostata alla fede, ma ritiene che la
lunghezza del periodo di attesa sia a discrezione dell'imam. (14)
La punizione del hirabah (tradotto comunemente come rapina a mano
armata) prescritta dai versetti 5:33-34 del Corano è severa e terrificante:
"La ricompensa di coloro che fanno la guerra a Dio e al Suo Messaggero
e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi,
che siano loro tagliati la mano e il piede da lati opposti o che siano esiliati
sulla terra". Come nei casi precedenti, gli studiosi musulmani hanno
cercato di ridurre al minimo l'applicazione della pena di morte
analizzando con cura la descrizione del reato per identificare quattro
categorie di atti che "seminano la corruzione sulla terra". La pena di
morte, essi stabiliscono, si applica solo se l'accusato ha assassinato la
vittima nell'atto di commettere il crimine. (15) La natura religiosa di
questo reato e la propensione a evitare la pena coranica si riflettono
anche nella prassi di consentire al reo di sfuggire alla pena di morte
consegnandosi spontaneamente alle autorità e pentendosi prima
dell'arresto.
Il baghy (ribellione) è un altro crimine punibile con la pena di morte
secondo l'opinione comune degli studiosi islamici, i quali sostengono
però che la sua ratio è promuovere la riconciliazione fra le parti più che
punire o eliminare il dissenso. (16) Anche in questo caso ci sono notevoli
contrasti fra le scuole, ma la tendenza è quella di ridurre l'ambito di
applicazione della pena di morte. Per esempio, le scuole zahirita e
malikita affermano che il rifiuto di obbedire a un ordine illegittimo del
governante non costituisce il reato di baghy. Mentre alcune scuole
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richiedono che la ribellione abbia motivazioni politiche o religiose, la
scuola malikita afferma che la motivazione deve essere di natura religiosa
perché vi sia il reato. (17) L'uso della forza contro i ribelli è consentito
"solo per ridurli all'obbedienza". (18) Quando la rivolta è finita, non è più
consentita l'uccisione o l'esecuzione dei ribelli catturati. (19)
I reati esaminati finora sono comunemente riconosciuti dai musulmani
come casi di hudud in cui il governante deve perseguire il reo appena ha
notizia del crimine. Esiste invece un potere discrezionale relativamente
alle altre due categorie di crimini riconosciute dalla shari'a. Nei casi di
qisas (omicidio e lesioni fisiche) la vittima (o i suoi parenti in caso di
omicidio) ha il potere discrezionale di decidere sull'azione penale e sulla
punizione da infliggere. I ta'zir possono essere puniti discrezionalmente
dal governante sulla base del suo potere e dovere di proteggere la pace
pubblica e di correggere i rei. La pena di morte è ammessa per alcuni
qisas e, secondo alcune scuole, anche per alcuni ta'zir, ma sono preferibili
pene meno gravi. (20)
A proposito del qisas, il versetto 2:178 del Corano prescrive la pena del
taglione (la morte del colpevole) per l'omicidio o le lesioni, e afferma che
la rappresaglia della famiglia della vittima è un diritto fondamentale, ma il
perdono sarebbe una scelta migliore. Inoltre i giudici sono incoraggiati a
giudicare secondo i valori e lo spirito della legge rivelata. Di conseguenza
la giurisprudenza islamica circoscrive la pena di morte ai casi di omicidio
premeditato e incoraggia gli eredi della vittima a perdonare o ad accettare
un compenso monetario (diya) per l'omicidio invece del qisas. (21) La
giurisprudenza islamica distingue vari tipi di qisas per l'omicidio secondo
le intenzioni e il comportamento dell'omicida. Per esempio, mentre la
scuola malikita ammette il qisas per l'omicidio volontario e colposo, la
scuola hanafita classifica le pene in base all'intenzione specifica e
ammette la pena capitale solo per l'omicidio "volontario". Le scuole
hanbalita e safi'ita consentono alla famiglia della vittima di scegliere fra il
taglione e il compenso monetario. In contrasto con questa flessibilità, i
giuristi hanafiti e malikiti seguono un principio più rigoroso che vieta il
compenso monetario nei casi di omicidio volontario ma consente alla
famiglia di perdonare l'assassino e ricevere un risarcimento civile. (22)
Le pene ta'zir (discrezionali) sono inflitte generalmente in tre situazioni:
quando il Corano o la Sunna proibiscono un atto senza indicare la pena;
quando la colpevolezza è probabile ma le prove disponibili non
soddisfano i requisiti tecnici; quando il sovrano ritiene che punire un atto
sia nell'interesse pubblico. (23) I giuristi non sono concordi
nell'ammettere che la pena capitale possa essere inflitta come ta'zir.
Sebbene la maggioranza delle scuole affermi che la pena di morte non è
una pena ta'zir legittima, alcune la permettono in casi eccezionali. Le
scuole hanafita e malikita permettono di infliggere la pena di morte ai
criminali recidivi o abituali anche se il crimine in sé non autorizzerebbe la
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condanna a morte. È chiaro però che non c'è un'autorità coranica o un
consenso degli studiosi che obblighino a infliggere la pena di morte in
alcun caso di reato ta'zir.
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Note
*. Da P. Costa (a cura di), Il diritto di uccidere, Feltrinelli, Milano 2010, pp.
137-51.
1. N.J. Coulson, A History of Islamic Law, University of Edinburgh Press,
Irvington 1964; A.A. An-Na'im, Toward an Islamic Reformation: Civil
Liberties, Human Rights and International Law, Syracuse University Press,
Syracuse 1990, cap. 2.
2. B. Weiss, The Spirit of Islamic Law, University of Georgia Press, Athens
(GA) 1998, p. 120.
3. Ivi, p. 116. Corsivo nell'originale.
4. Ivi, p. 120-2.
5. N.J. Coulson, Conflicts and Tensions in Islamic Jurisprudence, The University
of Chicago Press, Chicago 1969, p. 34.
6. K. Vikor, Between God and the Sultan: A History of Islamic Law, Oxford
University Press, Oxford-New York 2005, p. 174.
7. N.J. Coulson, Conflicts and Tensions in Islamic Jurisprudence, cit., pp. 35-36.
8. A.A. An-Na'im, Islam and the Secular State: Negotiating the Future of
Sharia, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2008, cap. 1 e cap. 2.
9. A.A. An-Na'im, Toward an Islamic Reformation, cit., pp. 104-105. Per una
discussione della recezione dei crimini hudud nel contesto moderno (lo
stato di Kelantan nella Federazione della Malaysia), si veda M. H. Kamali,
Punishment in Islamic Law, Institut Kajian Dasar, Kuala Lumpur 1995.
10. R. Postawko, Towards an Islamic Critique of Capital Punishment, "UCLA
Journal of Islamic & Near Eastern Law", 1 (2002), p. 285.
11. A.A. An-Na'im, Toward an Islamic Reformation, cit., pp. 108-109.
12. Si veda ad esempio il versetto 33:36, che si può tradurre così:
"Quando Dio e il Suo Inviato [il Profeta] hanno decretato qualcosa, non
è bene che il credente o la credente scelgano a modo loro. Chi
disobbedisce a Dio e al Suo Inviato è palesemente sulla strada sbagliata".
13. R. Postawko, Towards an Islamic Critique of Capital Punishment, cit., p.
289.
14. S.M. Safwat, Offences and Penalties in Islamic Law, "Islamic Quarterly",
26 (1982), p. 168; R. Postawko, Towards an Islamic Critique of Capital
Punishment, cit., p. 293.
15. S.M. Safwat, Offences and Penalties in Islamic Law, cit., pp. 164-65; R.
Postawko, Towards an Islamic Critique of Capital Punishment, cit., p. 296.
16. K.A. El Fadl, Ahkam Al-Bughat: Irregular Warfare and the Law of
Rebellion in Islam, in J. T. Johnson & J. Kelsay (a cura di), Cross, Crescent and
Sword: The Justification of War in Western and Islamic Tradition, Greenwood
Press, New York 1990, pp. 149, 151.
17. Ivi, pp. 156-8.
18. J. Schacht, An Introduction to Islamic Law, Clarendon Press, Oxford
1964, p. 187.
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19. A. El Fadl, Ahkam Al-Bugat, cit., p. 162.
20. R. Postawko, Towards an Islamic Critique of Capital Punishment, cit., p.
301.
21. Ivi, p. 302.
22. J.N.D. Anderson, Homicide in Islamic Law, "Bulletin of the School of
Oriental and African Studies", 13 (1951), p. 811.
23. N.J. Coulson, A History of Islamic Law, cit., pp. 53-61.
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