Umanizzazione delle cure

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Umanizzazione delle cure
Anno 17, numero 4 – ottobre-dicembre 2012
CORP-1066312-0000-EMD-NL-12/2014
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Colloquia
4/12
Umanizzazione
delle cure
22 Notti di guardia
28 ONCOMovies:
dal cinema
alle storie
vere dei
pazienti
3
Colloquia
Anno 17
|
N. 4
|
ottobre-dicembre 2012
Periodico trimestrale riservato alla classe
medica edito in collaborazione con
Indice
FOCUS UMANIZZAZIONE DELLE CURE
L’altra metà del cielo 3
Manuela Campanelli
Assistere le persone con condizioni croniche 5
Gavino Maciocco
Il Progetto HuCare 8
(Humanization of Cancer Care in Italy)
Intervista a Rodolfo Passalacqua, Caterina Caminiti
Le cure psichiatriche: 10
consenso e alleanza terapeutica
Luigi Ferrannini, Paolo F. Peloso
Tre parole della sanità: 12
debole, fragile, vulnerabile
Marco Geddes da Filicaia
Quando comunicare è difficile. 14
Dal trattamento oncologico alle cure palliative
Enrico Aitini, Luciano Orsi, Pier Paolo Vescovi
Visto dal paziente. 16
Sulla comunicazione diseguale
Lucia Fontanella
LA MEDICINA E LE ARTI
Notti di guardia 22
A cura di Giuseppe Naretto, Mauro Medaglia
LA MSD SI RACCONTA
ONCOMovies: dal cinema 28
alle storie vere dei pazienti
A cura del Team Oncology, MSD
Nausea e vomito da chemioterapia
Intervista a Domenica Lorusso
29
LE RUBRICHE
SALUTE ED ECONOMIA
di Federico Spandonaro
Le recenti manovre economiche e l’evoluzione del SSN 20
A cura di Daniela d’Angela, Cristina Giordani, Barbara Polistena
SECONDO ME...
di Giacomo Milillo
Umano, troppo umano 18
A cura di Giacomo Milillo, Giuliano Bono
A DIRE IL VERO
di Tullio De Mauro
Chimicità 27
L’ULTIMA PAROLA
di Giuseppe De Rita
L’esplosione della soggettività del paziente 31
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Anno 17 N. 4 – ottobre-dicembre 2012
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Le immagini:
Alice Neel (1900-1984)
In copertina: The Family (John Gruen,
Jane Wilson and Julia), 1970
Pag. 3 Richard, 1969
Pag. 4 Nancy, 1980
Pag. 5 The Soyer Brothers, 1973
Pag. 8 Franck O’Hara, 1960
Pag. 10 David Bourdon
and Gregory Battcock, 1970
Pag. 12 Isabel Bishop, 1974
Pag. 15 Portrait of Sam, 1958
Pag. 16 Elenka, 1936
Georg Baselitz (1938)
Pag. 18 Wir daheim, 1996
Yves Laloy (1920-1999)
Pag. 31 Tête à la Spirale
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pubblicate.
Il contributo di G. Maciocco è apparso il 23 giugno 2011 su Salute Internazionale. L’intervista a R. Passalacqua e Caterina Caminiti è stata pubblicata su CASCO – Current Advances in Supportive Care in Oncology, n. 2:2011. Il testo di L. Ferrannini e Paolo F. Peloso è un estratto dall’articolo “I trattamenti senza consenso in psichiatria e in medicina tra
norme, culture e pratiche. Appunti per una discussione”, pubblicato su Noos 1:2012. Il contributo di M. Geddes è apparso su Ricerca&Pratica 5:2012 nella rubrica Le parole della
sanità, a cura dello stesso Geddes. L’articolo di E. Aitini, L. Orsi e P.P. Vescovi è stato pubblicato su Recenti Progressi in Medicina 2:2012. Il contributo di L. Fontanella è un estratto
dal volume La comunicazione diseguale. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2011.
focus
Umanizzazione delle cure
L’altra metà
del cielo
Passare dal “fare” all’”essere” sembra un controsenso
per velocizzare un salto culturale che riporti
la persona in primo piano rispetto alla malattia di cui
soffre. Eppure solo esercitando le proprie capacità
di farsi prossimo si diventa più sensibili ai bisogni
degli altri. E il cammino verso una sanità più umana
si accorcia.
MANUELA CAMPANELLI*
U
na volta fare il medico era senz’altro più semplice di
quanto lo possa essere oggi. Molti ostacoli, dettati dal
rapporto con il paziente, venivano superati con la sapiente arte
del non dire, soprattutto se si trattava di un tumore maligno.
Piuttosto che comunicarlo all’interessato si preferiva adottare la
strategia del glissare, dello sfumare o del nascondere la realtà.
Malati eccellenti che non seppero di avere il cancro infatti non
mancano. Uno di questi è stato Papa Giovanni XXIII. Secondo
alcune fonti glielo dissero due giorni prima di morire. Per
l’opinione pubblica soffriva di “gastropatia”, che non era certo
una diagnosi precisa.
Erano tempi diversi. Oggi c’è una legge da rispettare che
obbliga a dare risposte precise al malato che domanda lo stato
della propria salute: chi mente, o comunica in modo
consapevole una diagnosi errata, va incontro a un’omissione o
rifiuto d’ufficio. In altre parole è perseguibile legalmente.
Ma c’è di più. Alla terza riga del decreto è specificato che
“il paziente ha diritto all’informazione, che costituisce
un’integrazione alla prestazione sanitaria”. La terapia non è
dunque fatta solo di farmaci, ma anche di parole messe
sapientemente insieme in un adeguato colloquio.
La cura per farsi “umana” ha dunque bisogno della
comunicazione, cioè di un “tempo di mezzo”, di un momento
dedicato che si fa largo tra il frastuono della vita di chi la dà e
di chi la riceve. Per metterla in pratica a regola d’arte il medico
dovrebbe sedersi, ascoltare il suo assistito, fargli percepire la
sua partecipazione per l’accaduto e parlargli più volte e a più
riprese con cognizione di causa man mano che gli esami
mettono in evidenza il problema. In questo modo il paziente
capirebbe da solo di avere una neoplasia, una demenza, una
malattia neurodegenerativa senza circoscrivere questa
conoscenza a un momento preciso. Parlargli in seguito di
tumore, Alzheimer o Parkinson sarebbe normale.
Ma quante volte il dialogo diventa un’intesa reciproca che
metta medico e paziente a proprio agio? Ancora troppo
poche. La letteratura dimostra che un malato oncologico su tre
ha un disagio psicologico che non trova un interlocutore. Chi è
stato medico ed è diventato paziente per via di una seria
malattia che l’ha catapultato all’improvviso dall’altra parte
della barricata non ha dubbi: il tono e le parole con cui si
conduce oggi il colloquio sono ancora spesso lasciate
all’istintiva sensibilità del medico. E questo non basta.
Per traghettare verso una medicina diversa che promuova
l’idea che non c’è solo un corpo che soffre e che ha bisogno di
cure, ma anche una mente e un cuore da prendere in carico,
diverse teorie sono state pensate. Gianni Bonadonna, il
famoso oncologo dell’Istituto dei Tumori di Milano colpito da
ictus, ha per esempio chiesto per mezzo del suo libro “Medici
umani, pazienti guerrieri” (2008, Baldini, Castoldi e Dalai), un
COLLOQUIA 3
Focus Umanizzazione delle cure
|
L’altra metà del cielo
Il Progetto HuCare (HUmanization in CAncer caRE), terminato a settembre di quest’anno, ha previsto per
esempio di affidare a ogni paziente oncologico un infermiere di riferimento: nelle 29 strutture oncologiche
che hanno adottato questo nuovo modello di assistenza l’incidenza del disagio psico-sociale dei malati
ricoverati o in chemioterapia è sceso dal 34 al 10%.
nuovo esame per i giovani medici: quello di umanità. Lui e altri
due primari-malati, Sandro Bartoccioni e Francesco Sartori,
autori tutti e tre del libro “Dall’altra parte” (2006, Bur), hanno
invocato una rivoluzione in Medicina per promuovere la
“cultura del conforto” che dà ai bisogni umani del paziente pari
dignità e importanza del sapere scientifico.
Il riportare l’attenzione sulla persona nella sua totalità
(la medicina classica e medioevale si avvaleva già di un
approccio olistico, come testimoniano gli scritti d’Ippocrate e di
Ildegarda di Bingen proclamata quest’anno Dottore della Chiesa
Universale da Papa Benedetto XVI) è diventato dunque un tema
di grande attualità. Il Progetto HuCare (HUmanization in CAncer
caRE), terminato a settembre di quest’anno, ha previsto per
esempio di affidare a ogni paziente oncologico un infermiere di
riferimento: nelle 29 strutture oncologiche che hanno adottato
questo nuovo modello di assistenza l’incidenza del disagio
psico-sociale dei malati ricoverati o in chemioterapia è sceso dal
34 al 10%. La legge sulle cure palliative e la terapia del dolore,
varata il 15 marzo 2010, ha finalmente riconosciuto il dolore
cronico come una vera e propria malattia e sancito il diritto di
ogni cittadino a essere curato da esso, indipendentemente da
età, tipo di malattia, luogo di nascita e ceto sociale. Nella
maggior parte delle Terapie Intensive regionali è inoltre in
corso un graduale processo di apertura ai famigliari, che
allarga le fasce orarie di visita e abolisce l’uso di camici, cuffie
e soprascarpe. La nuova branca della medicina di Genere cerca
di assicurare all’uomo e alla donna farmaci adeguati alle loro
caratteristiche: l’umanizzazione delle cure passa infatti anche
attraverso la personalizzazione delle terapie.
Iniziative importanti che, sebbene spesso frenate nella loro
attuazione dai limiti attuali di spesa e dai risicati budget di cui
si dispone, hanno dato al tema di una medicina più a misura
d’uomo una dimensione collettiva. Ciononostante il giro di
boa che ribalti una volta per tutte il circolo vizioso, dettato da
un sistema sanitario e sociale che fa adeguare la persona alla
sua offerta piuttosto che modularsi sui suoi bisogni, si fa
attendere.
I nuovi media, da Internet ai tablet, agli smartphone e ai
social network, potrebbero velocizzare una maggior presa di
coscienza? Forse solo in parte. Il giornalismo oggi va di corsa e
sembra non avere tempo di fermarsi per approfondire
tematiche complesse come l’umanizzazione delle cure.
Le innovative tecnologie lo hanno fatto diventare senz’altro
più fruibile (gli internauti in Italia sono aumentati in tre anni di
oltre il 25%, passando da 16 a 20 milioni) ma al contempo lo
hanno reso più frenetico penalizzandone in parte la qualità e
la continuità dei contenuti. Se la comunicazione si è fatta da
un lato più versatile, dall’altro è diventata più breve,
istantanea, frammentata. Prendiamo per esempio Twitter: i
suoi messaggi sintetici composti al massimo di 140 caratteri
possono aiutare, secondo voi, i cittadini a sapere e a capire le
problematiche che si celano dietro l’umanizzazione delle cure?
La cultura del sollievo, dell’aiuto, del conforto dovrebbe in
realtà avvalersi di un percorso interiore che porti ognuno di
noi, compresi i pazienti, gli operatori sanitari e i rappresentanti
delle Istituzioni, a pensare non solo alla vita ma anche un po’
alla sua fine. Sigmund Freud diceva che la vita senza la morte
è come un film americano, cioè insipido, insignificante. E non
gli si può certo dare torto. Oggi si consumano i propri giorni
senza mai occuparsi del morire: ci si danna per pianificare ogni
cosa tranne ciò che ci metterà di più alla prova. Ecco, prima di
cimentarsi nell’esercizio di riumanizzare la medicina varrebbe
forse la pena di passare dal “fare” all’”essere” per creare i
presupposti di relazioni personali più autentiche. Il resto
verrebbe più facilmente da sé.
*Giornalista scientifico.
La nuova branca della medicina di Genere cerca di assicurare all’uomo e alla donna farmaci adeguati alle loro
caratteristiche: l’umanizzazione delle cure passa infatti anche attraverso la personalizzazione delle terapie.
4 COLLOQUIA
focus
Umanizzazione delle cure
Assistere le persone con condizioni
croniche
Sta emergendo un generale consenso internazionale
sul fatto che per migliorare l’assistenza alle persone
con condizioni croniche è necessario un approccio
più ampio. È necessario sollevare l’orizzonte
del sistema sanitario dalla malattia alla persona
e alla popolazione.
GAVINO MACIOCCO*
Modelli assistenziali innovativi
in un documento canadese
L’approccio focalizzato sulla persona (person-focused care)
Il documento del Canadian Academy of Health Sciences,
“Transforming care for Canadians with chronic health
conditions”1, rappresenta un contributo importante e originale
nella letteratura scientifica interessata alla gestione delle
malattie croniche. Per tre motivi.
1. Per un motivo (apparentemente) lessicale. Nel titolo infatti il
focus non sono, come abitualmente avviene, le malattie ma
le persone (“Canadians”) e lo stesso termine “malattia”
(“disease”) è sostituito da un più generico “chronic health
conditions”. In realtà non è questione di lessico: il
documento infatti sposa l’approccio focalizzato sulla
persona (person-focused), rispetto all’approccio dominante
focalizzato sulla malattia (disease-focused).
2. Altro elemento di grande “richiamo” è la composizione del
panel di esperti incaricati di fornire al governo canadese le
raccomandazioni sul tema: oltre a un nutrito e qualificato
gruppo di esponenti canadesi, figurano nel panel i più
importanti innovatori nel campo delle cure primarie: da
Ed Wagner (MacColl Institute for Healthcare Innovation) a
Raymond J. Baxter (Kaiser Permanente), con un contributo
speciale di Barbara Starfield.
3. Il documento mette a disposizione dei lettori una bibliografia
completa e veramente esauriente, presentata in modo
organico e ragionato. Per chi è interessato ad approfondire il
tema una vera miniera, da non perdere.
Il documento tratta una molteplicità di questioni dalla
definizione di “chronic health conditions” all’impatto di queste
sull’economia e sulla sostenibilità di un sistema sanitario
pubblico (come quello canadese), dal concetto di “personfocused care” alla necessità che questo concetto si incardini
nelle politiche dei sistemi sanitari (non solo quello canadese).
Tratteremo qui solo un aspetto, peraltro uno dei più
approfonditi: quello dei modelli assistenziali innovativi.
Il punto di partenza è il seguente: sta emergendo un
generale consenso internazionale sul fatto che per migliorare
l’assistenza alle persone con condizioni croniche è necessario
un approccio più ampio (a more comprehensive approach).
“È necessario sollevare l’orizzonte del sistema sanitario dalla
malattia alla persona e alla popolazione”.
I modelli assistenziali innovativi
Chronic Care Model
Il Chronic Care Model (CCM) (figura 1), capostipite dei
modelli innovativi, elaborato da Ed Wagner, si basa su sei
fondamentali elementi2,3.
1. Le risorse della comunità. Per migliorare l’assistenza ai
pazienti cronici le organizzazioni sanitarie devono stabilire
solidi collegamenti con le risorse della comunità: gruppi di
volontariato, gruppi di auto aiuto, centri per anziani
autogestiti.
COLLOQUIA 5
Focus Umanizzazione delle cure
|
Assistere le persone con condizioni croniche
Figura 1. Chronic Care Model.
Informed,
activated
patient
Productive
interactions
Prepared,
proactive
practice team
Improved outcomes
2. Le organizzazioni sanitarie. Una nuova gestione delle
malattie croniche dovrebbe entrare a far parte delle priorità
degli erogatori e dei finanziatori dell’assistenza sanitaria. Se
ciò non avviene difficilmente saranno introdotte innovazioni
nei processi assistenziali e ancora più difficilmente sarà
premiata la qualità dell’assistenza.
3. Il supporto all’auto-cura. Nelle malattie croniche il paziente
diventa il protagonista attivo dei processi assistenziali. Il
paziente vive con la sua malattia per molti anni; la gestione
di queste malattie può essere insegnata alla maggior parte
dei pazienti e un rilevante segmento di questa gestione – la
dieta, l’esercizio fisico, il monitoraggio (della pressione, del
glucosio, del peso corporeo, ecc.), l’uso dei farmaci – può
essere trasferito sotto il loro diretto controllo. Il supporto
all’auto-cura significa aiutare i pazienti e le loro famiglie ad
acquisire abilità e fiducia nella gestione della malattia,
procurando gli strumenti necessari e valutando regolarmente
i risultati e i problemi.
4. L’organizzazione del team. La struttura del team
assistenziale (medici di famiglia, infermieri, educatori) deve
essere profondamente modificata, introducendo una chiara
divisione del lavoro e separando l’assistenza ai pazienti acuti
dalla gestione programmata ai pazienti cronici. I medici
trattano i pazienti acuti, intervengono nei casi cronici difficili
e complicati, e formano il personale del team. Il personale
non medico è formato per supportare l’auto-cura dei
pazienti, per svolgere alcune specifiche funzioni (test di
laboratorio per i pazienti diabetici, esame del piede, ecc.) e
assicurare la programmazione e lo svolgimento del follow-up
dei pazienti. Le visite programmate sono uno degli aspetti più
significativi del nuovo disegno organizzativo del team.
5. Il supporto alle decisioni. L’adozione di linee guida basate
sull’evidenza forniscono al team gli standard per fornire
un’assistenza ottimale ai pazienti cronici. Le linee guida sono
rinforzate da un’attività di sessioni di aggiornamento per tutti
i componenti del team.
6. I sistemi informativi. I sistemi informativi computerizzati
svolgono tre importanti funzioni: 1) come sistema di allerta
che aiuta i team delle cure primarie ad attenersi alle linee
guida; 2) come feedback per i medici, mostrando i loro livelli
di performance nei confronti degli indicatori delle malattie
6 COLLOQUIA
Le sei componenti del CCM sono interdipendenti, costruite
l’una sull’altra. Le risorse della comunità – per esempio le
attività di una palestra – aiutano i pazienti ad acquisire abilità
nell’auto-gestione. La divisione del lavoro all’interno del team
favorisce lo sviluppo delle capacità di addestramento dei
pazienti all’auto-cura da parte degli infermieri. L’adozione di
linee guida non sarebbe attuabile senza un potente sistema
informativo che funziona da allerta e da feedback dei dati.
Come obiettivo finale Il CCM vede un paziente informato
che interagisce con un team preparato e proattivo, con lo
scopo di ottenere cure primarie di alta qualità, un’utenza
soddisfatta e miglioramenti nello stato di salute della
popolazione.
Il CCM è stato adottato dall’OMS e largamente introdotto
nelle strategie d’intervento dei sistemi sanitari di diversi paesi,
dal Canada all’Olanda, dalla Germania al Regno Unito.
Il Regno Unito, adottando integralmente il modello, ne ha
modificato l’impianto grafico4 (figura 2).
Expanded Chronic Care Model
Un gruppo di ricercatori canadesi ha proposto una versione
allargata (“expanded”) del CCM, dove gli aspetti clinici sono
integrati da quelli di sanità pubblica, quali la prevenzione
primaria collettiva e l’attenzione ai determinanti della salute; gli
outcome non riguardano solo i pazienti ma le comunità e
l’intera popolazione5.
Kaiser Permanente’s risk stratification model
Kaiser Permanente ha integrato il modello di Ed Wagner con
una particolare attenzione alla stratificazione del rischio e una
Figura 2. National Health Service Social Care and Chronic
Disease Management Model.
Delivery system
Infrastructure
Case
management
Better outcomes
Community
resources
Decision support
tools and clinical
information
system
Desease
management
Supported
self care
Health and social
care system
environment
Promoting
better health
Creating
Health system
Supporting
Community
Resources
Health care organization
and Policies
Self-management Delivery Decision
Clinical
support
system support infprmation
design
systems
croniche, come i livelli di emoglobina A1c e di lipidi;
3) come registri di patologia per pianificare la cura
individuale dei pazienti e per amministrare un’assistenza
“population-based”. I registri di patologia – una delle
caratteristiche centrali del CCM – sono liste di tutti i pazienti
con una determinata condizione cronica in carico a un team
di cure primarie.
Empowered
and informed
patients
Prepared and
proactive health
and social care
teams
Focus Umanizzazione delle cure
|
Assistere le persone con condizioni croniche
Figura 3. Kaiser Permanente’s risk stratification model.
Population management
More than care and care management
Deciding the right approach
Level 3
As people develop more one chronic condition (co-morbidities),
It is important to have
their care becomes disproportionately more complex and difficult
the information and knowledge
for them, or the health and social care system, to manage.
to be able to carry out
Level 3
This calls for case management – with a key worker (often a nurse)
a risk-stratification on local
actively managing and joining up care for these people.
Highly complex
populations to identify those
patients
who are most at risk.
Case Management
Level 2
High risk patients
Care Management
Level 1
70-80% of a Chronic Care
Management population
Level 2
Disease/care management, in which multidisciplinary teams
provide high quality evidence based care to patients,
is appropriate for the majority of people at this level.
This means proactive management of care, following agreed
protocols and pathways for managing specific diseases.
It is underspinned by good information systems – patient
registries, care planning, shared electronic health records.
Level 1
With the right support many people can learn to be
active participants in their own care, living with
and managing their conditions. This can help them
to prevent complications, slow down deterioration,
and avoid getting further conditions.
The majority of people with chronic conditions
fall into this category – so even small
improvements can have a huge impact.
Health promotion
differenziazione delle strategie d’intervento in relazione ai
differenti livelli di rischio (figura 3).
Patient Centered Medical Home
Il modello si basa sul fatto che la persona ha un medico di
riferimento che si fa carico dei suoi problemi di salute,
garantendo il coordinamento, la continuità e la globalità degli
interventi; la persona ha accesso a un team assistenziale
interprofessionale che dispone di avanzati strumenti informativi;
il miglioramento della qualità del servizio e la sicurezza del
paziente sono gli obiettivi-chiave del team6.
Questi modelli assistenziali hanno in comune molti elementi
che qui elenchiamo.
1. Il passaggio da un’assistenza “reattiva” a un’assistenza
“proattiva”.
2. Un’assistenza basata sulla popolazione, sulla stratificazione
del rischio e su differenti livelli di intensità assistenziale.
3. Il riconoscimento che le cure primarie devono essere il punto
centrale (Hub) dei processi assistenziali con forti
collegamenti con il resto del sistema.
4. L’erogazione di un’assistenza focalizzata sui bisogni
individuali della persona, nel suo specifico contesto sociale.
5. La presenza di sistemi informativi evoluti.
6. Poter far leva sulla partecipazione comunitaria.
7. Investire sull’auto-gestione dei pazienti e dei caregivers.
8. Disporre di linee guida in grado di tener conto della comorbilità.
9. Basarsi su team multiprofessionali che puntano al
miglioramento continuo.
Bibliografia
1. Nasmith L, Ballem P, Baxter R, et al. Transforming care for
Canadians with chronic health conditions: Put people first, expect
the best, manage for results. Ottawa, ON, Canada: Canadian
Academy of Health Sciences, 2010.
2. Wagner EH. Chronic disease management: what will it take to
improve care for chronic illness? Eff Clin Pract 1998; 1: 2-4.
3. Bodenheimer T, Wagner EH, Grumbach K. Improving primary care
for patients with chronic illness. JAMA 2002; 288: 1775-9.
4. From An NHS and Social Care Model for Improving Care for People
with Long Term Conditions (The NHS and Social Care Long Term
Conditions Model section, 1) by the Department of Health, 2010.
5. Barr VJ, Robinson S, Marin-Link B, et al. The expanded chronic care
model: an integration of concepts and strategies from Population
Health Promotion and the Chronic Care Model. Healthc Q 2003; 7:
73-82.
6. American College of Physicians. The Advanced Medical Home: A
Patient-Centered, Physician-Guided Model of Health Care. January
22, 2006.
*Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze;
promotore e coordinatore del progetto
Salute Internazionale, www.saluteinternazionale.info
COLLOQUIA 7
focus
Umanizzazione delle cure
Il Progetto HuCare
(Humanization of Cancer Care in Italy)
Quando parliamo di cure più umane ci riferiamo in buona parte
anche a terapie di supporto. Molte delle cure psicosociali sono
di “supporto” alle cure tradizionali antineoplastiche. Basti pensare
al sostegno psicologico per ridurre l’ansia e la depressione,
ma anche al ruolo chiave dell’informazione e dell’educazione
dei malati e dei familiari.
Intervista a RODOLFO PASSALACQUA*, CATERINA CAMINITI**
L
a maggior parte dei malati di cancro
soffre di disagio psicologico e di
problemi sociali che rendono più difficile
affrontare la malattia e aderire ai
trattamenti.
Numerosi studi forniscono
raccomandazioni basate su evidenze per
aiutare il personale sanitario a
identificare i malati più vulnerabili, così
da offrire loro un appropriato supporto
psicosociale.
Malgrado le raccomandazioni
scientifiche, circa il 30-40% dei pazienti
non riceve cure basate su evidenze. Da
qui la necessità di individuare strategie
che favoriscano la traduzione dei risultati
della ricerca in pratica clinica.
Negli ultimi 10 anni sono stati
condotti diversi studi per individuare
strategie volte a favorire il cambiamento
del comportamento professionale, ma
una metanalisi ha evidenziato che anche
il contesto sociale, organizzativo ed
economico è un importante ostacolo
all’adozione di interventi basati su
prove3.
Con “contesto” si intende, tra l’altro:
• mancato supporto da parte della
Direzione;
• disaccordo all’interno dell’équipe;
• ambiente sfavorevole
all’apprendimento;
• carico di lavoro eccessivo;
• non consapevolezza dei problemi;
• assenza di procedure, risorse e spazi
adeguati.
8 COLLOQUIA
Come nasce e perché
il progetto HuCare?
Il progetto HuCare, Humanization in
Cancer Care, vuole promuovere la
umanizzazione dell’assistenza offerta ai
pazienti oncologici in Italia. La letteratura
dimostra che una proporzione
considerevole di pazienti con cancro
sviluppa disagio psicologico (ansia e/o
depressione) in conseguenza della
malattia o delle cure, che spesso i
pazienti non ricevono informazioni
sufficienti circa i diversi aspetti della loro
malattia e delle cure per una
impreparazione dei sanitari a comunicare
in modo efficace. Inoltre, i malati e le
loro famiglie si trovano ad affrontare
difficoltà di natura sociale che richiedono
supporti specifici (es. alloggio, trasporto,
intervento dell’assistente sociale),
problemi essenziali che però
frequentemente rimangono irrisolti,
anche perché raramente segnalati dagli
utenti stessi. La dimensione psicosociale
della malattia risulta strettamente
correlata alla dimensione medica: di fatti,
è stato dimostrato che influenza
molteplici aspetti quali i sintomi, la
capacità di affrontare la malattia, il
coinvolgimento decisionale del paziente,
il suo grado di soddisfazione e l’adesione
terapeutica.
Quali sono gli obiettivi
e come si sviluppa il progetto?
Il progetto intende migliorare lo stato
psicosociale dei pazienti attraverso
l’implementazione negli ospedali di
interventi di dimostrata efficacia,
selezionati già da una task-force
dell’AIOM sin dal 2006. Le tre grandi
aree su cui si è interviene sono: il
miglioramento della comunicazione e
della relazione tra paziente e operatori
sanitari, la soddisfazione dei bisogni
informativi dei malati, il rilevamento
tempestivo e routinario del disagio
psicologico e dei bisogni sociali, un
nuovo ruolo degli infermieri di oncologia.
Lo studio, che si è appena concluso,
ha avuto la durata di tre anni, e ha visto
la partecipazione di 33 oncologie situate
prevalentemente in Lombardia.
La metodologia seguita è quella
descritta in letteratura per gli studi di
implementazione, in cui
fondamentalmente si attua un’attenta
Focus Umanizzazione delle cure
analisi del contesto di ogni centro e un
diretto coinvolgimento di tutti gli
operatori, al fine di identificare le barriere
all’introduzione degli interventi previsti e
condividere le possibili soluzioni da
adottare. Durante l’attuazione dello studio
sono stati forniti ai centri diversi tipi di
supporto da parte di infermieri, psicologi e
sociologi del Gruppo di Coordinamento
del progetto e strumenti di lavoro
indispensabili per favorire il cambiamento.
Per i centri partecipanti, il progetto ha
rappresentato una grande opportunità di
intraprendere un processo di
miglioramento verso l’umanizzazione
dell’assistenza, ponendo al centro anche i
bisogni informativi e psicosociali dei
pazienti.
Relativamente alla prima grande
area, in che modo il progetto
HuCare vuole favorire la
comunicazione medico-paziente?
Fondamentalmente attraverso due
interventi di dimostrata efficacia: la
formazione alla comunicazione per gli
oncologi e per gli infermieri e la lista di
domande per i pazienti. La letteratura
dimostra che le abilità comunicative dei
|
Il Progetto HuCare (Humanization of Cancer Care in Italy)
Una ulteriore area critica sembra
essere, come dicevate, quella
dell’informazione al paziente e
della sua educazione...
Nonostante la maggior parte dei
pazienti oncologici desideri ricevere
informazioni accurate sui diversi aspetti
dalle malattia, troppo spesso questo
bisogno rimane inascoltato. Si sa che le
informazioni devono essere date non solo
dal medico ma anche dall’infermiere che
è spesso anche la figura più vicina al
malato. Il progetto mira a garantire la
corretta informazione ed educazione dei
pazienti tramite l’attuazione di un
percorso fatto da tre interventi specifici:
1. l’infermiere di riferimento, incaricato
di accogliere il paziente in reparto,
analizzare e rispondere al suo
bisogno, orientarlo e assicurare che
segua tutte le procedure previste dal
protocollo;
2. l’istituzione del PIS (Punto Informativo
e di Supporto), ossia uno spazio fisico
gestito da personale infermieristico
specializzato al quale deve essere
garantito l’accesso a tutti i nuovi
pazienti almeno per un primo
colloquio;
Le tre grandi aree su cui si è interviene sono: il miglioramento
della comunicazione e della relazione tra paziente e operatori sanitari,
la soddisfazione dei bisogni informativi dei malati, il rilevamento
tempestivo e routinario del disagio psicologico e dei bisogni sociali,
un nuovo ruolo degli infermieri di oncologia.
professionisti sanitari possono essere
apprese, e che l’effetto della formazione
perdura nel tempo. Il progetto ha previsto
un corso di formazione per oncologi
finalizzato al miglioramento delle loro
competenze comunicative. Per quanto
riguarda invece la lista di domande,
bisogna considerare che i pazienti sono
spesso reticenti a fare domande al medico.
È stato dimostrato che l’uso di una lista di
possibili domande consegnata al paziente
prima della visita con l’oncologo porta a
un miglioramento della comunicazione
secondo indicatori oggettivi e soggettivi. Il
progetto ha previsto l’uso presso tutti i
centri di una lista di domande validata in
Italia secondo le indicazioni della
letteratura.
3. la formazione per infermieri ossia
l’attuazione di un programma
formativo rivolto agli infermieri dei
centri aderenti al fine di migliorare la
relazione col paziente e la gestione dei
bisogni informativi.
Che ruolo hanno le terapie di
supporto nel contesto di una
cura più umana alla persona
sofferente di tumore?
Quando parliamo di cure più umane ci
riferiamo in buona parte anche a terapie
di supporto. Molte delle cure psicosociali
sono di “supporto” alle cure tradizionali
antineoplastiche. Basti pensare al
sostegno psicologico per ridurre l’ansia e
la depressione, ma anche al ruolo chiave
del’informazione e dell’educazione dei
malati e dei familiari. Un malato istruito e
adeguatamente informato è in grado di
gestire molto meglio gli effetti collaterali
della terapia: dalla nausea/vomito alle
complicanze intestinali (talora molto gravi
e pericolose per la vita) a quelle infettive.
Ma non solo, come riportato in vari studi,
l’informazione ha anche lo scopo di
preparare i pazienti al loro percorso di
cura, favorire l’adesione terapeutica,
aiutarli ad adeguarsi alla nuova situazione
e ove possibile facilitare la guarigione. Per
tale motivo, nel nostro progetto HuCare è
stata introdotta la figura del l’infermiere di
riferimento, che fornisce indicazioni e
consigli, soprattutto riguardo aspetti
attinenti alla vita quotidiana, come i
sintomi, la gestione degli effetti collaterali
del trattamento, le questioni familiari,
ecc., dedicando al paziente il tempo
necessario e utilizzando un linguaggio
appropriato alle sue capacità di
comprensione, contribuendo così anche a
rinforzare e chiarire quanto riferito
dall’oncologo durante la visita.
Nella vostra esperienza, con
quale frequenza il malato soffre
disagi evitabili per la mancata
somministrazione di terapie
specifiche?
Almeno 1/3 dei pazienti con cancro ha
disagi che potrebbero essere evitabili o
nettamente ridotti nelle loro conseguenze
se adeguatamente trattati. Quello che
rileviamo più spesso è la mancata
educazione dei malati e dei caregiver alla
prevenzione e gestione delle complicanze.
Faccio due esempi: un malato che arriva
in ospedale dopo 3-4 giorni di diarrea e
stomatite da chemioterapia, con grave
disidratazione e squilibrio elettrolitico
oppure un altro caso in cui insorge febbre
dopo 8-10 giorni dalla terapia (dovuta al
calo dei globuli bianchi), senza aver
iniziato cure tempestive. Le conseguenze
spesso gravissime di entrambe queste
situazioni (purtroppo frequenti nella
pratica clinica) sarebbero ridotte o
annullate solo con una migliore
informazione e comunicazione fra sanitari
e fra loro e i pazienti.
*Oncologia Medica, Istituti Ospitalieri
di Cremona; **Ricerca e Innovazione,
Azienda Ospedaliero-Universitaria
di Parma.
COLLOQUIA 9
focus
Umanizzazione delle cure
Le cure psichiatriche: consenso
e alleanza terapeutica
Lavorare dentro il mondo interno del paziente, dentro il contesto
e dentro il sistema curante vuol dire aprire spazi di senso e di speranza
per la cura e nella cura.
LUIGI FERRANNINI*, PAOLO F. PELOSO*
Trattamento senza consenso
e malattia mentale
La libertà di cura – hanno scritto
recentemente Ciliberti e Alfano1 –
“rappresenta una dimensione cruciale della
medicina e, in generale, di una società
democratica, e certamente non può
configurarsi un consenso responsabile
avulso da una dimensione di libertà,
benché non sia facile analizzare la
complessa e varia modulazione in cui
avviene la scelta della cura,
particolarmente in pazienti che abbiano
condizioni di grave prostrazione e siano
contrassegnati dall’angoscia,
dall’inquietudine, dalla disperazione o
anche da una consapevolezza
intermittente”.
Nuove e più differenziate forme di
“non consenso/rifiuto del trattamento”
rappresentano oggi l’aspetto più
movimentato della psichiatria sotto il
profilo culturale, tecnico e – forse –
legislativo, attraverso il riferimento e la
legittimazione di nuovi strumenti e
procedure, basate sul principio di
autodeterminazione (l’”adulto
competente” può decidere di non curarsi)
e di beneficialità (il soggetto ha il diritto di
decidere, ma anche di avere accesso alle
cure, e di sapere che le cure che gli
vengono proposte sono di comprovata
efficacia), nella cui ottica bisognerebbe
sviluppare ricerche in tema di outcome a
lungo termine dei trattamenti prolungati
senza consenso, e di qualsiasi altra forma
di obbligatorietà di cura.
Si tratta dello spostamento delle
relazioni di cura da un rapporto
paternalistico a uno contrattualistico, con
10 COLLOQUIA
la centralità di aspetti multifattoriali
(relazionale/psicologico, influenza della
cultura, della spiritualità, dei fattori di
contesto). Si innesta, per questa via, il
ridimensionamento della “lettura
psicopatologica” del rifiuto delle cure
come caso specifico e da dimostrare, e
non come cornice onnicomprensiva,
attraverso una nuova visione dei disturbi
psichiatrici e del rapporto tra
psicopatologia e persona.
Una nuova attenzione a questi
problemi apre inoltre la tematica del rifiuto
al trattamento ad un approccio
multidisciplinare e multiprofessionale,
consentendo un intreccio, una
integrazione e il confronto con le altre
discipline (psicologia, antropologia, etica,
sociologia, diritto, ecc.) e le altre
“specialità” mediche (neurologia, geriatria,
oncologia, nefrologia, cure palliative, ecc.).
I paradigmi portanti si complessizzano
e si intrecciano: la malattia mentale
(“ti devi curare perché non capisci che ti
serve”), ma anche la malattia infettiva
(“ti devi curare per non danneggiare gli
altri”), la malattia oncologica, nefrologica,
endocrino-metabolica
(“ti devi curare altrimenti muori”), la
Focus Umanizzazione delle cure
malattia degenerativa (“ti curiamo per il
tuo bene, anche se tu non ne sei
consapevole”) ed altro ancora.
Il punto centrale resta quello di
raccogliere per quanto possibile la volontà
del soggetto, connessa tuttavia alla sua
capacità (reale o presunta) di valutare
correttamente le necessità ed i rischi, a
tutela della sua salute ma anche di quella
di soggetti terzi.
Non a caso, in questo quadro ha avuto
una scarsa influenza il paradigma della
tossicodipendenza (per una connotazione
di vizio, prima che di malattia), affrontata
attraverso forme soft di costrizione al
trattamento spesso attivate dall’evento
reato e da misure di tipo amministrativo
(vedi Legge 485/75 e successiva
legislazione specifica); senza dimenticare
alcune recenti forme soft di accertamento
sanitario obbligatorio (ASO), come il
controllo dell’alcolemia con l’etilometro e
la visita specialistica sul posto in
riferimento a problemi di guida.
Quindi si conferma la centralità del
paradigma dell’”adulto competente”
(sa quello che vuole e fa quello che deve…
ma allora come ci comportiamo con i
minori?), mentre restano ambiguità sul
processo decisionale: chi decide? Quando
decide? Con chi decide? Per cosa decide?
Si apre, per questa via, una nuova
riflessione per la costruzione di una “clinica
del rifiuto/non consenso/non adesione al
trattamento” in ogni tipo di malattia che
riguarda, infatti, il 70% dei trattamenti
sanitari, assumendo come punto di
partenza i limiti e i bias della clinica – dalla
diagnosi ai trattamenti –, sempre in bilico
tra onnipotenza ed impotenza, e
lavorando per rendere possibile – non solo
formalmente – il passaggio dalla non
coscienza della malattia alla
consapevolezza, che è dimensione al
contempo razionale ed emotiva.
Consenso informato, relazione,
empatia
In questa prospettiva la questione del
consenso informato, in particolare nel
contesto della cura dei soggetti “deboli”
sul piano della possibilità decisionale, si
intreccia in modo complesso con nuove
dimensioni della relazione di aiuto:
dall’empatia al tema del controtransfert
come capacità di comprendere cosa si
muove dentro il medico di fronte al rifiuto
|
Le cure psichiatriche: consenso e alleanza terapeutica
di un trattamento da parte del paziente.
Si comprende quindi come il problema
del rifiuto dei trattamenti non possa mai
essere affrontato soltanto come una
questione di carattere burocratico e
giuridico2.
Antonio Maria Ferro, nell’affrontare
recentemente il tema del consenso alle
cure3, ha fatto riferimento alla “clinica del
rifiuto” contrapponendola alla “clinica
dell’oggettivazione” per sottolineare come
questo aspetto – certo uno dei più
complessi – del nostro lavoro richieda
“abilità e competenze cliniche da un lato e
dall’altro un assetto psichico dell’operatore
e/o dell’équipe abbastanza sicuri e ben
curati” perché, come il paziente, “anche
noi potremmo rischiare di restare chiusi,
estranei, inospitali in modo irritante o
addirittura violento. In realtà, per ospitare
in noi questi pazienti, così refrattari a
condividere lo spazio per una relazione
d’aiuto, è necessario prima di tutto
rendere possibile in noi lo spazio
dell’ospitalità e per questo occorre una
cultura della psichiatria rispettosa e curiosa
per l’altro da noi, anche nelle sue
irriducibili differenze e talvolta
incomprensibilità”. “Spero di riuscire a
trasmettere” – prosegue – “come sia
complesso questo lavoro verso l’alleanza
terapeutica: talvolta parte della stessa
terapia verte proprio su questo percorso
che non può esaurirsi con un atto come
l’eventuale TSO (…). La clinica del rifiuto
non riguarda solamente la capacità di
comprendere la sofferenza psichica e la
sua gravità, come la sofferenza espressa
dall’ambiente/entourage del paziente, ma
anche la capacità di comprendere cosa si
muova dentro di noi e come tolleriamo
questa grave frustrazione al nostro
desiderio di aiutare, curare”.
Lavorare dentro il mondo interno del
paziente, dentro il contesto e dentro il
sistema curante vuol dire, quindi, aprire
spazi di senso e di speranza per la cura e
nella cura.
Alcuni bioeticisti, come Francesco
D’Agostino, intervenendo al Congresso
della Società Italiana di Psichiatria (SIP) di
Roma del 2009 hanno segnalato con forza
il rischio di una scissione, proprio in merito
al consenso ai trattamenti sanitari, tra il
piano giuridico e il piano etico del
problema. Il primo muove a partire da una
dilatazione interpretativa dell’art. 32 della
Costituzione sui principi di
autodeterminazione, di dignità e rispetto
della persona, e di libertà di cura pur senza
risolvere alcuni nodi – divenuti oggi
centrali – come quello di chi e come deve
valutare l’autodeterminazione, e quindi la
competenza, della persona, a maggior
ragione in situazioni di limite delle capacità
mentali (anche se non di totale
sospensione/soppressione), che stanno
aprendo un nuovo orizzonte giuridico,
normativo ed applicativo (il diritto dal
basso e l’ampliamento della dimensione
del sostegno nella concezione di Paolo
Cendon4). Il secondo ruota intorno a una
questione di fondo: tra diritto ed etica chi
ha il primato? Cioè: l’etica deve appiattirsi
sul diritto e quindi è il diritto che definisce
spazi, confini e contenuti della dimensione
etica, oppure l’etica è indipendente dal
diritto e può (o deve?) antagonizzare la
prospettiva giuridica, aprendo spazi
autonomi?
Malattie quindi, ma anche storie,
contesti, funzionamento di personalità e
persone con caratteristiche non omogenee
sotto il profilo clinico ed esistenziale.
Il problema centrale sembra in questo
caso quello di lasciare aperti spazi di
attenzione sul singolo caso, di valorizzare
le specificità (il diritto “leggero” di cui parla
ancora Cendon) senza rinunciare all’equità
e alla certezza dei diritti e delle garanzie
(“uguali per tutti”); garanzie imprescindibili
per un quadro normativo coerente.
Bibliografia
1. Ciliberti R, Alfano L. Il diritto di rifiutare i
trattamenti sanitari tra esigenze di
controllo e istanze di libertà, abstract del
XIII Congresso Nazionale della Società
Italiana di Psichiatria Forense, Alghero,
28-30 maggio 2010; pp. 64-6.
2. Soricelli E (ed). Il consenso informato
nelle situazioni d’urgenza psichiatrica.
Genova: ERGA Edizioni, 2000.
3. Ferro AM. Le cure senza consenso nei
DCA: la “clinica del rifiuto”. Psichiatri
Oggi 2010; 12: 5-7.
4. Cendon P. Un altro diritto per i soggetti
deboli, l’amministrazione di sostegno e la
vita di tutti i giorni. In: Ferrando G (ed).
L’amministrazione di sostegno. Una
nuova forma di protezione per i soggetti
deboli. Milano: Giuffrè Editore, 2005;
pp. 21-68.
*Dipartimento di Salute Mentale
e Dipendenze, ASL 3 “Genovese”.
COLLOQUIA 11
focus
Umanizzazione delle cure
Tre parole della sanità:
debole, fragile, vulnerabile
Un servizio sanitario, in cui sia stata sviluppata la capacità di ascolto,
la cultura della narrazione e del dialogo, la capacità di osservazione,
ha la potenzialità di identificare il soggetto vulnerabile e di predisporre
quindi un percorso appropriato.
MARCO GEDDES DA FILICAIA*
I
l termine debole, deriva dal latino
debilis, con un ‘de’ sottrattivo + un
secondo elemento che deriverebbe da
bálam (forza – in sanscrito), da cui il
significato “privo di forza”. Plauto e
Cicerone lo usano in senso di menomato
nel fisico, mutilato, invalido; significati
che ora si sono attenuati. Da debole
deriva, ovviamente, debilitato, che ha
come primo significato proprio la
mancanza di forza fisica, e il medico
latino Aulo Cornelio Celso scriveva, nel
De Medicina “… nelle articolazioni… se
sono sezionati i nervi… ne consegue
una debilitas”.
Debole è largamente in uso nella
sanità dell’Otto e Novecento, con
molteplici accezioni. Un inno mariano,
assai diffuso anche negli anni Cinquanta
recitava “… per i miseri implora
perdono, per i deboli implora pietà!”.
Non sono sicuro che i miseri fossero
coloro che si comportavano in modo
spregevole o semplicemente gli indigenti
(di ciò colpevoli?), mentre con il termine
12 COLLOQUIA
debole ci si riferiva al carattere o forse
alla salute.
Debole, nella medicina ottocentesca,
si riferisce non solo alla persona, ma
anche all’organismo o a una sua parte. La
debolezza viene così a caratterizzare non
tanto il sintomo, ma acquisisce lo status
nosologico di una vera e propria
patologia.
Vi è la debolezza di stomaco; si
supponeva che consistesse in un
rilassamento della tunica muscolare che
porta ad una diminuzione dell’attività di
quest’organo che dura per mesi ed anni,
senza pericolo, ma con rari e oscillanti
sintomi1. In sostanza si tratta di stomaci
“svogliati” per i quali Pellegrino Artusi
consigliava un cibreo, che è “un intingolo
semplice, ma delicato e gentile,
opportuno alle signore di stomaco
svogliato e ai convalescenti”2.
La debolezza coinvolge anche le
capacità mentali; il debole di mente è –
affermava il clinico francese Charcot –
una forma meno accentuata di imbecillità
e sotto tale classificazione potevano
rientrare i bambini che “… vanno a
scuola a malincuore: si fanno notare
specialmente per la debolezza della
memoria… specialmente debole è la
facoltà di giudizio; essi sono l’eco
automatico delle idee, delle opinioni
che sentono dire intorno a sé, ma sono
poi incapaci di apprezzarle
ragionatamente per loro conto”3. Per
tale debolezza un libro di rimedi sanitari
domestici consigliava “Ogni mezz’ora
due sorsi di tè d’assenzio, oppure
tintura d’assenzio (per giorno 6
cucchiaini). Vino di rosmarino o vino
vermut due bicchieri al giorno”4. Tutto
ciò non va confuso – ovviamente – con il
“pensiero debole”, che si presenta come
una forma particolare di nichilismo,
introdotto in filosofia da Gianni Vattimo!
Vi è poi il debole di cuore. Tale era, ad
esempio, Eleonora di Toledo, moglie del
Granduca di Toscana Cosimo I, come si
può apprezzare salendo uno degli scaloni
di Palazzo Vecchio a Firenze, la cui
andatura è particolarmente dolce – nel
senso che l’altezza degli scalini è assai
ridotta – proprio perché riservata alla
granduchessa affetta da tale debolezza.
Si trattava di insufficienza cardiaca, una
sindrome per la quale un noto cardiologo
dava consigli sul Corriere della Sera di vari
anni fa (11 novembre 1996) sotto il
titolo, appunto, di… “Qualche
suggerimento per chi è debole di
cuore”.
Ormai desueto il termine debole nelle
accezioni finalizzate a definire una
specifica patologia, resta ovviamente
quale aggettivazione di un sintomo: ha il
polso debole, ha il respiro debole…
Tuttavia la disponibilità di strumenti che
rilevano i diversi parametri ha reso meno
comune questa terminologia qualitativa,
riducendo spesso anche la capacità di
osservazione e ascolto del medico, a
favore della registrazione di quanto gli
strumenti rilevano.
Fragile è invece un termine
attualmente assai diffuso. Il termine
“fragile” assume molteplici significati, sia
nella lingua italiana sia nei percorsi sociali
e assistenziali. Fragile deriva dal latino
Focus Umanizzazione delle cure
fragilis, da frangere e significa delicato,
debole, friabile, frangibile; il contrario di
robusto, durevole, resistente.
Il dizionario indica come primo
significato: facile a rompersi, e porta due
esempi: il vetro è un materiale fragile;
l’ossatura delle persone anziane è
molto fragile.
Vi è una fragilità sociale e una fragilità
biologica; nell’ambito assistenziale
entrambe concorrono, spesso in misura
sinergica, a definire le problematiche
della persona che si rivolge al servizio
sanitario.
La fragilità sociale è frequente nella
popolazione in povertà, ma non coincide
totalmente con tale categoria.
La povertà fa riferimento a una
condizione di privazione economica e
mancanza di risorse materiali. La fragilità
sociale sottende anche l’esclusione da
benefici e servizi cui normalmente le
persone e le famiglie hanno accesso; dà
quindi rilievo e valore alla rete di relazioni
che la persona sviluppa intorno a sé e al
rischio di intraprendere, anche a seguito
delle problematiche di salute, un
percorso di impoverimento e di rottura
dei legami sociali.
La fragilità biologica è una sindrome
fisiologica caratterizzata da ridotta riserva
funzionale e resistenza agli stress,
provocata da un declino di più sistemi
fisiologici, perdita di omeostasi e
conseguente instabilità clinica e tendenza
a manifestazioni peggiorative di salute.
Il termine “fragile” (in inglese frailty) è
mutuato dalla geriatria e delinea tale
condizione, anche attraverso specifici
biomarcatori, in particolare della struttura
e della forza muscolare (citochine, indici
di infiammazione, ecc.). Tuttavia nella
pratica clinica si fa riferimento ad una
serie di parametri quali: perdita di peso
(circa 4,5 kg in un anno); affaticamento
in almeno 3 giorni la settimana; riduzione
della forza muscolare; ridotta attività
fisica; riduzione della velocità del
cammino (più di 7 secondi a percorrere 4
metri e mezzo), stato cognitivo. La
possibilità di rilevare tali parametri, da
parte del curante, è affidata ad una
capacità di ascolto e di osservazione del
paziente stesso.
A conferma di una maggiore
sensibilità agli stress e di una ridotta
omeostasi, recenti studi rilevano che i
|
soggetti fragili sono maggiormente
influenzati dagli inquinanti atmosferici,
con una più marcata riduzione della
funzionalità respiratoria, a confronto di
soggetti di uguale sesso ed età5. Tuttavia
è in occasione di un ricovero, per il
riacutizzarsi di una malattia cronica o per
un evento accidentale, che il paziente
fragile rischia di diventare vulnerabile.
Il termine vulnerabile deriva dal latino
vulnus (ferita), e significa quindi feribile,
danneggiabile, indifeso. È evidente che
un soggetto fragile è vulnerabile, ma
anche un soggetto “forte” può essere
vulnerabile, come appare evidente
dall’esempio che fornisce il dizionario:
Achille era vulnerabile solo nel tallone.
Tre parole della sanità: debole, fragile, vulnerabile
individuare le problematiche complessive
della persona ricoverata, rapportandosi
con i familiari e i servizi territoriali,
trasformando il ricovero da momento di
rischio a occasione di opportunità per
invertire o rallentare il percorso verso
l’accentuazione della fragilità.
William Osler, il grande clinico autore
del più diffuso testo di medicina
dell’epoca moderna, sollecitava i medici
a concentrare la loro attenzione, la loro
capacità di introspezione, sulle
caratteristiche complessive del paziente,
poiché, « […] it is more important to
know what sort of patient has a
disease than to know what sort of
disease a patient has»6.
Un soggetto fragile, anche in occasione di un ricovero ospedaliero,
potrebbe trovare l’opportunità della messa a punto di una serie di strategie
volte a contenere o far regredire, seppure parzialmente, lo stato di fragilità;
strategie che si attuano e si sviluppano nell’ambito della successiva
assistenza extra ospedaliera.
Con ciò vogliamo richiamare
l’attenzione sul fatto che anche un
paziente non anziano, che non è
definibile fragile, può essere vulnerabile
dalle prestazioni ospedaliere; la comparsa
di delirium acuto in un paziente con
deficit cognitivi subclinici; un farmaco in
un paziente con allergie; una diagnosi
invasiva in paziente in trattamento con
anticoagulanti; un ricovero di paziente
immunodepresso; una poliprescrizione
farmacologica in un paziente con
insufficienza d’organo, ecc.
Un servizio sanitario, in cui sia stata
sviluppata la capacità di ascolto, la
cultura della narrazione e del dialogo, la
capacità di osservazione, ha la
potenzialità di identificare il soggetto
vulnerabile e di predisporre quindi un
percorso appropriato.
Un soggetto fragile, anche in
occasione di un ricovero ospedaliero,
potrebbe trovare l’opportunità della
messa a punto di una serie di strategie
volte a contenere o far regredire, seppure
parzialmente, lo stato di fragilità;
strategie che si attuano e si sviluppano
nell’ambito della successiva assistenza
extra ospedaliera.
Queste strategie sono possibili se nel
corso di ricovero si ha la capacità di
Bibliografia
1. Reissing C. Il libro d’oro della salute.
Milano: Vallardi, 1908.
2. Artusi P. La scienza in cucina e l’arte di
mangiar bene; pei tipi dell’Editore Landi,
1891.
3. Charcot J-M. Trattato di Medicina. Torino:
UTET, 1897.
4. La medichessa di casa. Dr.ssa Jenny
Springer. Casa editrice Triestina, 1933.
5. Società italiana di Gerontologia e Geriatria.
Forum sulla fragilità dell’anziano. G
Gerontol 2006; 54: 260-70.
6. Fried LP, Ferrucci L, Darer J, Williamson JD,
Anderson G. Untangling the concepts of
disability, frailty, and comorbility:
implication for improved targeting and
care. J Gerontol A Biol Sci Med Sci 2004;
59: 255-63.
7. Fried LP, Tangen CM, Walston J, et al.
Frailty in older adults: evidence for a
phenotype. J Gerontol A Biol Sci Med Sci
2001; 56: M146-M56.
8. Eckel SP, Louis TA, Chaves PH, et al.
Modification of the association between
ambient air pollution and lung function by
frailty status among older adults in the
cardiovascular health study. Am J
Epidemiol 2012; 176: 214-33.
9. Osler W. Remark on specialism. Boston
Med Surg J 1892; 126: 457-9.
*Medico di Sanità Pubblica.
COLLOQUIA 13
focus
Umanizzazione delle cure
Quando comunicare è difficile
Dal trattamento oncologico alle cure palliative
Generalmente, quando il medico comunica una cattiva notizia cerca
di rendere il paziente emozionalmente partecipe di una dimensione
più attiva e progettuale: tenta un atteggiamento propositivo, lo aiuta
a proseguire il dialogo, prospettando il più realisticamente possibile
pur parziali aspettative terapeutiche, alternative che consentano
una convivenza con la malattia che, anche se faticosa, riceva
la consolazione della speranza.
ENRICO AITINI*, LUCIANO ORSI**, PIER PAOLO VESCOVI***
L
a valutazione della qualità di vita di
un paziente affetto da patologie
gravi ed invalidanti è un obiettivo
abituale nell’ambito di studi clinici
controllati, così come nella pratica
medica quotidiana. Di tale valutazione
anche la relazione medico-paziente è
divenuta parte integrante. Da alcuni
anni, in particolare, la stretta
collaborazione tra l’oncologo medico ed
il medico palliativista in una filosofia di
presa in carico simultanea (“the
simultaneous care” degli autori
anglosassoni) ha portato a maturare un
rapporto con il paziente neoplastico
caratterizzato da una visione globale del
bisogno di cura: accanto
all’identificazione dei bisogni clinici,
l’attenzione si è concentrata non solo
sulle modalità della comunicazione e
sulle esigenze relazionali, ma anche su
quelle sociali, sugli aspetti etici, sulle
istanze della spiritualità; in una parola:
sulla “biografia” della persona malata1-4.
Si configura una relazione di cura
continuativa che accompagni il paziente
durante tutta la malattia e lo affianchi
ancor più intensamente nelle fasi critiche
in cui si aggravano problemi non solo di
natura sanitaria, ma anche psicologica,
familiare e sociale, nonché di
adattamento allo stress e alle mutevoli
condizioni cliniche.
Le diverse fasi della malattia
costituiscono un banco di prova difficile
14 COLLOQUIA
sia clinico che comunicativo: il paziente
si trova ad affrontare all’inizio un
impatto particolarmente angosciante al
momento della diagnosi, impatto che lo
diventa ancor di più nel caso di recidiva
o di progressione e può assumere toni
drammatici allorché si evidenzia
l’impossibilità di proseguire trattamenti
specifici. Sono fasi che non trovano una
soluzione preconfezionata; ogni
comportamento deve essere modellato
sul singolo paziente alla luce degli effetti
sia fisici sia psicologici. Le difficoltà sono
anche del medico, che ha maturato
attenzione e sensibilità nella
comunicazione di una cattiva notizia
nell’odierno contesto culturale: un
contesto che presenta impreviste
oscillazioni tra un’apodittica fede nel
potere della medicina e un mai risolto
terrore di quello che molti, ancor oggi,
definiscono «male incurabile». Medici,
psicologi, sociologi, filosofi hanno
evidenziato come la rimozione del
pensiero della morte porti con sé
l’impossibilità di restituire dignità ad un
evento che fino ai primi decenni del
secolo scorso era in genere percepito
nella sua naturalità come parte
integrante della vita. Per poter sostenere
una comunicazione leale con il paziente
che versa in gravi condizioni, il medico
deve far sua la consapevolezza della
propria finitudine, della necessità di
relazionarvisi, intendendola non solo
come evento biologico, ma anche
esistenziale. Purtroppo questa
consapevolezza tende ad essere
patrimonio dimenticato da un mondo
irretito dalla tentazione di esiliare la fine
dell’esistenza dietro le quinte della vita
sociale.
Generalmente, quando il medico
comunica una cattiva notizia cerca di
rendere il paziente emozionalmente
partecipe di una dimensione più attiva e
progettuale: tenta un atteggiamento
propositivo, lo aiuta a proseguire il
dialogo, prospettando il più
realisticamente possibile pur parziali
aspettative terapeutiche, alternative che
consentano una convivenza con la
malattia che, anche se faticosa, riceva la
consolazione della speranza. Tuttavia, i
medici mostrano non di rado serie
difficoltà e una non celata riluttanza nel
parlare con i loro pazienti della fase
conclusiva della vita, là dove, invece,
dovrebbero essere consapevoli che loro
compito è anche quello di aiutare il
malato a non farsi sopraffare
dall’angoscia della finitudine5.
Il livello di istruzione dei pazienti è
oggi generalmente incrementato
dall’utilizzo di mezzi informatici, di
internet e dalla diffusione attraverso i
mass-media di informazioni relative a
molte malattie, utilizzo che ha
consentito un accesso molto più ampio,
anche se a volte impreciso, ad
informazioni riservate in passato alla sola
arte medica. Il malato è oggi in grado di
percepire l’opportunità del trattamento
palliativo, ma se il passaggio a questa
fase non è sorvegliato da particolare
attenzione, egli diviene preda
dell’angosciante pensiero che la qualità
della sua vita sia ormai irrimediabilmente
compromessa; angoscia non di rado
amplificata dal nucleo familiare. A
rendere più drammatica e difficile questa
fase contribuisce l’inevitabile distacco da
Focus Umanizzazione delle cure
alcune figure professionali che hanno
accompagnato il malato durante la
storia clinica: non saranno loro a
prendersi cura di lui in quest’ultima fase.
Nel paziente e nella sua famiglia
sopravviene un sospetto di “abbandono
terapeutico”: reazione conseguente è
spesso quella di un rifiuto ad accedere in
strutture dedicate, non di rado temute
come luoghi di ghettizzazione. Il tempo
della vita che, anche nelle fasi gravi di
malattia, è percepito come
tendenzialmente privo di limiti, appare in
questi momenti senza appello concluso,
trasformandosi in una sentenza di fine
imminente. Di fronte al rifiuto del
paziente e della famiglia, l’oncologo può
trovarsi spesso disarmato, sorpreso da
una complessità emozionale che
coinvolge più persone; e alle irrazionali
aspettative del malato e dei parenti può
sentire forte la tentazione di rispondere
abbandonando un dialogo che soffre
come irrealistico. Per la stessa ragione a
volte tende erroneamente ad alimentare
impossibili recuperi terapeutici ed
infondate speranze (il che può in parte
spiegare l’incremento di richieste per
ulteriori trattamenti francamente illusori,
nella fase conclusiva della vita6-8).
|
Quando comunicare è difficile
(Sorge, tuttavia, un interrogativo:
possiamo noi arrogarci il diritto di
togliere l’ultima speranza a chi vuol
mantenerla quale unico, sottile filo di
conforto esistenziale? Se la stessa
Costituzione della Repubblica e i codici
deontologici hanno attribuito al paziente
il diritto di decidere se accettare o meno
una terapia, perché non dovrebbe
essergli concesso, dopo aver offerto una
informazione realistica, il diritto di
“sperare nell’insperabile”, di privilegiare
un’illusione consolatrice piuttosto che un
doloroso realismo?).
Se, da un lato, le attuali possibilità
terapeutiche hanno raggiunto livelli
impensabili fino a qualche decennio fa, a
tal punto da allontanare sempre più
l’ombra della fine – misura dell’umano
limite – d’altro canto, esse hanno
contribuito a modificare i modi, le forme
e il significato individuale e sociale del
morire. Là dove – nel momento della
non-speranza – a volte anche una
semplice carezza, una parola, un silenzio
d’ascolto possono essere in grado di
ridimensionare la solitudine di
un’esistenza che si conclude.
Bibliografia
1. Maguire P, Pitceathly C. Key
communication skills and how to acquire
them. B Med J 2002; 325: 697-700.
2. Fallowfield L, Jenkins V. Communicating
sad, bad, and difficult news in medicine.
Lancet 2004; 363: 312-9.
3. Aitini E, Aleotti P. Breaking bad news in
oncology: like a walk in the twilight? Ann
Oncol 2006; 17: 359-60.
4. Aitini E. Breaking bad news in oncohematology: new hope, new words? Leuk
Lymphoma 2011; 53: 328-9.
5. Aitini E, Cetto GL. A good death for cancer
patients: still a dream? Ann Oncol 2006;
17: 733-4.
6. Snow A, Warner J, Zilberfein F. The
increase of treatment options at the end of
life: impact on the social work role in an
inpatient hospital setting. Soc Work Health
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7. Giorgi F, Bascioni R. Another infusion of
hope. J Clin Oncol 2009; 27: 1722-3.
8. Aitini E, Adami F, Cetto GL. End of life in
cancer patients: drugs or words? Ann
Oncol 2010; 21: 914-5.
*Struttura Complessa di Oncologia Medica
ed Ematologia; **Struttura Complessa di
Cure Palliative; ***Dipartimento Medico;
Ospedale Carlo Poma, Mantova.
COLLOQUIA 15
focus
Umanizzazione delle cure
Visto dal paziente.
Sulla comunicazione diseguale
“L
ungamente richiesto…”, così
iniziano molti testi, soprattutto in
certe epoche. È un esordio strategico,
perché ti solleva da tante responsabilità.
Io sarei tentata di dire qualcosa di
simile, perché è proprio dall’interesse e
dalla sollecitazione di un medico, e poi di
più medici e infermieri, che mi sono
messa a raccontare esperienze e
riflessioni professionali.
Sono medici e infermieri che non solo
ti curano e ti salvano, ma che si chiedono
anche se lo hanno fatto nel modo
migliore possibile. E per avere una risposta
servono davvero anche i racconti dei loro
pazienti e un po’ di analisi dei fatti.
Chi lavora con un pubblico dovrebbe
unire alla competenza specifica del
Io, malato, ho il diritto di essere
ben accudito, e medici
e infermieri hanno il dovere
di farlo, se poi guarisco prima
o dopo è affar mio.
LUCIA FONTANELLA*
proprio lavoro la capacità di controllare,
sempre, il modo in cui lavora. Un
pubblico fragile, vulnerabile, come quello
dei malati merita, più ancora di altri,
attenzioni particolari, che molto spesso
mancano.
Guariremmo anche meglio e più in
fretta se fossimo meglio accuditi? Per
molti il nodo è lì, e certo è una questione
fondamentale, ma io che ho un brutto
carattere ne faccio prima di tutto una
questione di diritti: io, malato, ho il diritto
di essere ben accudito, e medici e
infermieri hanno il dovere di farlo, se poi
guarisco prima o dopo è affar mio.
Detto questo è difficile che una
degenza all’insegna dell’attenzione e
della gentilezza rallenti o intralci una
guarigione.
Al Pronto Soccorso,
per prudenza…
Sono andata al Pronto Soccorso
perché il mal di pancia era bruttissimo,
strano. A quasi sessant’anni uno di mal di
pancia ne ha avuti, di vario genere,
compresi i figli. E non si sbaglia.
Erano le nove del mattino. Non ho
dovuto aspettare molto. Il medico
avvicinandosi mi ha detto che c’era molta
influenza intestinale in giro, ma gli ho
detto che non poteva essere. Poi ho
capito che voleva tastarmi la pancia e gli
ho bloccato le mani. “Mi fa troppo
male”. “Se non le va, poteva starsene a
casa”. Ha riprovato, ma senza volere
gliele ho di nuovo bloccate. Se ne è
tornato alla scrivania e mi ha mandata a
fare una radiografia, mi pare.
Doveva essere un ottimista, perché
sulla cartella ha scritto “netto
miglioramento della sintomatologia”
(10:39), e vi assicuro che non gliel’ho
suggerito io. Al ritorno mi ha detto che
andando di corpo avrei risolto il problema
e dunque purga e clistere. “Il clistere no!”
ha suggerito il mio buon senso (leggo
con attenzione Salute). “Allora se ne torni
a casa”.
La purga, un liquido arancione, l’ho
posata sotto il letto, ma al clistere non
sono sfuggita (lui però è sfuggito alla
cartella clinica).
“Si trattenga più che può. Il bagno è
là”.
Focus Umanizzazione delle cure
Immaginate di avere un male che vi
toglie il fiato e le forze, di sospettare che
non vi stiano curando come devono, ma
di essere più ancora preoccupati di come
fare a trascinarvi fino in bagno.
Dopo tre faticosissimi e inutili
trasferimenti in bagno ho chiamato
un’infermiera. “Sono passate due ore e
non succede niente. Non è che fra un po’
esce tutto dalle orecchie?”. L’ironia in
ospedale funziona raramente, il
messaggio è caduto nel vuoto.
Io sono contraria alle raccomandazioni.
È una questione di principio. Se avessi
detto di essere la zia del dottor …, sono
certa che non sarebbe finita così
(l’esperienza però mi ha insegnato che
non devono essere considerate
“raccomandazioni”, ma semplici e utili
“segnalazioni”, del tutto lecite).
Fortunatamente il buon senso, di
nuovo, mi ha suggerito di chiedere a mio
marito di farlo avvertire, quel mio nipote.
Ma non era in ospedale e non si riusciva a
trovarlo.
È arrivato alle cinque, mi ha visto e ha
capito che le cose andavano molto male.
Con garbo, per non urtare il collega, ha
|
operarti subito”.
L’avevo detto io che quello che era
entrato con il clistere stava per uscire
dalle orecchie!
Avevo un male indicibile e ho chiesto
che mi tagliassero la camicia da notte,
senza farmi muovere di un centimetro.
Un infermiere si è messo al lavoro e ha
fatto tanti pezzi. Lo vedevo sezionare gli
orsetti della mia camicia con grande
cura, senza farmi spostare.
L’anestesista si è presentata e mi ha
fatto delle domande. Come peso mi
sono tolta 10 chili, non so perché; per il
resto scuotevo la testa perché stavo
davvero per non capire più niente. Ho
firmato un consenso totalmente
disinformato, ma non mi interessava per
niente.
Ho sentito ancora il chirurgo che
chiedeva 10 litri di … e ho pensato
“vorrà mica farmeli bere, questo qui”.
Poi mio nipote si è messo a parlare di
una partita con qualcun altro e io ho
pensato che non l’avrebbe mai fatto se
io fossi stata davvero mezza morta, e mi
sono rasserenata. Mi ha chiesto il
permesso di assistere all’operazione.
I linguisti la chiamano comunicazione diseguale. Si trova soprattutto in certi
ambienti: l’ospedale, la scuola, il tribunale (la caserma…). Ma anche in tante
famiglie in cui le cose non vanno come dovrebbero. Diseguale perché in
quegli ambienti le persone non hanno lo stesso potere, e tutto ciò che
accade ne risente. Anche quello che viene detto. E fatto.
chiesto una TAC.
“Beva questa” mi ha detto
un’infermiera porgendomi una bottiglia
d’acqua da un litro e mezzo.
“Mi sa che sto per morire. Credo che
non la berrò”.
“Scenda e salga lì”.
“Le ho detto che sto per morire…”.
Mi hanno issato di malavoglia (ho
capito perché molto tempo dopo, anche
se la spiegazione è semplice: spostare i
malati spacca la schiena e soprattutto le
donne di una certa età, con la schiena già
rotta, fanno davvero molta fatica. Perché
glielo fanno fare?).
Al ritorno al Pronto Soccorso ho
trovato tanta gente gentile e premurosa:
mio nipote, un chirurgo, un’anestesista,
diversi infermieri.
“Ti si è perforato l’intestino. Devono
La comunicazione diseguale
I linguisti la chiamano comunicazione
diseguale. Si trova soprattutto in certi
ambienti: l’ospedale, la scuola, il
tribunale (la caserma…).Ma anche in
tante famiglie in cui le cose non vanno
come dovrebbero.
Diseguale perché in quegli ambienti le
persone non hanno lo stesso potere, e
tutto ciò che accade ne risente. Anche
quello che viene detto. E fatto.
È per questo che quando il medico
per due volte mi ha detto che se non mi
andava così potevo tornarmene a casa io
non gli ho detto di vergognarsi, non ho
chiamato il primario, altri medici, gli
alpini, o che so io. Non l’ho fatto perché
stavo male, perché ero preoccupata,
impaurita, perché c’era un’infermiera
disadatta come il medico, che non è
Visto dal paziente. Sulla comunicazione diseguale
intervenuta e si è fatta gli affari suoi,
regola d’oro ovunque. Ero, come quasi
tutti i malati, in una situazione di grande
svantaggio.
Questa è la comunicazione diseguale.
Come può succedere una cosa del
genere, e in posti così importanti per la
nostra società? È molto semplice.
Prendiamo l’ospedale. Alcuni ci lavorano,
magari da tanto tempo, e più il tempo
passa e più pensano davvero che quel
posto sia loro, che quella gente che arriva
lì per essere visitata e curata sarebbe
anche una bella cosa che non arrivasse
per niente. Intanto sono troppi, poi sono
dei perfetti estranei, hanno i parenti,
vogliono ciò che non si può o non si vuole
fare. Invadono uno spazio non loro. Ma il
mondo dell’ospedale (come quello della
scuola) ha imparato a difendersi: lo spazio
lo presidia, il tempo te lo concede quando
e come vuole, ti parla quando e come
vuole.
Nella comunicazione diseguale si
riscontra in particolare uno sbilanciamento
nel possesso dello spazio, del tempo, della
lingua.
Le altre cause di diseguaglianza sono
banali: tu, medico o infermiere, stai bene,
hai il camice e ti muovi in uno spazio che
conosci bene, io sto male, anche molto
male, sono solo, e non soltanto non ho il
camice, ma per forza di cose mi hanno
tolto anche i vestiti, tutto mi è estraneo e
mi spaventa. Tu puoi muoverti, e mi giri
attorno guardandomi dall’alto, e io sto
qua, distesa, e ti guardo dal basso in alto,
come il più derelitto dei bambini. Sono
spaventato, confuso. Puoi farmi quello
che vuoi.
Attore comunicativo passivo, debole,
soggetto a pressione psicologica.
Ma come può succedere una cosa del
genere? L’ospedale non è di tutti? Un
luogo pubblico in cui ciascuno ha un ruolo
di reciproca utilità, nel pieno rispetto di
tutti? Io, malato, non sono forse la vostra
ragione d’essere, caro dottore e caro
infermiere?
*Si è occupata, durante i suoi anni
di lavoro all’Università di Torino,
di materie filologiche e linguistiche,
in particolare per quanto riguarda
la formazione degli insegnanti.
Autrice di “La comunicazione
diseguale”. Roma: Il Pensiero
Scientifico Editore, Roma, da cui
questo contributo è estratto.
COLLOQUIA 17
SECONDO ME...
di Giacomo Milillo*
Umano, troppo umano…
La medicina non è solo scienza, ma anche necessità di dare risposte,
persino quando queste non sono chiarite dalla scienza. È relazione
tra persone in un sistema di valori, in un contesto sociale dato
dall’ambiente in cui il soggetto vive, ha esperienze e credenze.
A cura di GIACOMO MILILLO*, GIULIANO BONO**
D
al momento che per natura siamo
umani, se si pone il problema
dell’umanizzazione significa che qualcuno
ci ha disumanizzato, che qualcuno ha fatto
sì che la cura prestata all’individuo malato
fosse disumanizzante, cioè non adatta ad
un essere umano. Si accusa il progresso
scientifico che, avendo messo a
disposizione terapie sempre più efficaci,
avrebbe fatto venir meno il bisogno di
cura: come se la diffusione delle
automobili avesse provocato il massacro
dei cavalli. Come è possibile che la
produzione di farmaci, come gli antibiotici,
che negli anni Cinquanta ha portato ad
una svolta mai vista nell’aspettativa di vita
degli esseri umani sconfiggendo le malattie
18 COLLOQUIA
infettive, abbia cambiato anche il
paradigma del rapporto tra malato è
curante ? È come se le automobili fossero
state usate per mettere sotto i cavalli, e
non per migliorare la nostra possibilità di
spostamento. In realtà la progressiva
spersonalizzazione della relazione di cura è
stata dovuta all’uso della tecnica, e il
progresso scientifico non ha colpe. È come
se l’invenzione della lampadina dovesse
essere considerata deleteria, perché
qualcuno ci obbliga a tenerle accese
sempre, con l’insonnia generalizzata che
ne consegue. Gli antibiotici non sono
dannosi, è l’uso dissennato, cioè privo di
senso, smoderato, inappropriato, che ha
fatto sì che, già a pochi anni dalla loro
commercializzazione, comparissero
resistenze batteriche. Il nodo sta nella
nostra struttura economico-sociale, per cui
un’invenzione, per essere buona, deve
essere duplicata ancora e ancora
all’infinito, senza senso. E se viene
prodotta deve essere consumata. E su
questo i medici non ci possono far nulla,
semmai possono intervenire come
cittadini. Negli anni ‘70 si teorizza il
superamento del medico tradizionale, egli
diventa un “tecnico della salute”:
la conoscenza tecnica delle malattie e dei
farmaci adatti prevale sull’attenzione per il
malato. Si utilizza il paradigma delle
malattie infettive ( se c’è in corso una
epidemia ciò che è necessario è avere a
disposizione e distribuire rapidamente
l’antidoto) per ogni malessere.
Piuttosto i medici sono stati attratti
dalla facilità di apprendimento e di
utilizzazione del progresso tecnico e
scientifico: paradossalmente ciò che
sembra difficile, l’apprendimento e
l’insegnamento del risultato scientifico,
è molto più facile della formazione di un
professionista competente e capace di
prendersi cura dell’altro che soffre.
Insegnare il sapere sembra sempre più
difficile, mentre è più difficile formare al
saper essere. Il sapere medico viene
ridotto interamente alla oggettività, alla
misurabilità dei fenomeni, alla ricerca del
determinismo delle cause, come se la
medicina fosse una scienza esatta, e non
l’applicazione della scienza ad un
soggetto, con tutta l’incertezza che la
pratica clinica sempre si porta dietro, con
una fallibilità ineliminabile. La
responsabilità dei medici viene tirata in
campo dalla medicalizzazione della
società, cioè la convinzione che esista un
rimedio per ogni stato di malessere,
insoddisfazione o disagio. Certo che su
questo versante è intervenuta
pesantemente l’industria che per la
vendita pubblicizza prodotti che
dovrebbero avere un impatto sulla salute,
ma ci stanno anche le esagerate promesse
di clinici e ricercatori che enfatizzano
risultati e osservazioni preliminari e
propongono da giornali di divulgazioni e
talk show televisivi, con sorrisi accattivanti
e sicurezza onnipotente, “una pillola per
ogni problema”. Se c’è una pillola per ogni
problema, il problema diventa una
malattia, non serve alcuna attenzione per
Secondo me...
il soggetto che presenta il problema, basta
avere un bagaglio sempre più ampio di
pillole. Un’altra conseguenza della
medicalizzazione sta nell’abbassare la
soglia del rischio, senza sapere se ciò si
tradurrà in un vantaggio per il paziente.
Ad esempio val la pena di trattare una
modesta ipertensione, quella che supera di
poco il valore di 140/90? Sarebbe
certamente utile se permettesse di ridurre
la probabilità di avere un ictus, ma una
recente revisione sistematica del Cochrane
Center ci informa che anche se si controlla
l’ipertensione lieve non cambiano la
mortalità, l’incidenza di malattie
coronariche o di ictus. Bisogna intervenire
sugli stili di vita, molto più difficile che
distribuire pillole.
L’umanizzazione è la risposta alla
progressiva spersonalizzazione del
rapporto terapeutico all’interno di una
medicina che si vorrebbe sempre più
tecnologica e scientifica. Pensiamo che sia
perdente pensare l’umanizzazione come
un insegnamento a latere delle altre
discipline, creando un’altra figura di
specialista esperto di umanizzazione.
Non basta essere gentili, educati, buonisti
per risultare automaticamente più umani.
È un problema di metodo nella formazione
dei medici, quelli esistenti e quelli futuri:
accanto alla competenza tecnica e
scientifica (se non c’è competenza non c’è
professionista) è necessaria una
preparazione culturale all’ascolto, alla
relazione, alla comunicazione, alla
“attenzione antropologica” come dice Ivan
Cavicchi.
I bisogni primari dell’uomo sono sempre
stati il sollievo dal dolore o dal sentirsi
male, controllo della paura della morte,
che ogni malessere evoca, desiderio di
allontanarla. Si chiede aiuto al medico
(un’altra persona, non un tecnico) quando
non ci si sente più in grado di prendersi
cura da soli della propria persona. Quindi
per aiutarsi tra persone umane occorre
capirsi, creare relazioni. La relazione
medico-paziente è un modo di conoscere
il malato e i suoi problemi. La medicina
non è solo scienza, ma anche necessità di
dare risposte, persino quando queste non
sono chiarite dalla scienza. È relazione tra
persone in un sistema di valori, in un
contesto sociale dato dall’ambiente in cui
il soggetto vive, ha esperienze e credenze.
Il professionista della salute deve imparare
a distinguere il sé dall’altro: molte cose che
si attribuiscono al malato appartengono
spesso alle convinzioni, agli automatismi di
chi lo sta osservando. Solo l’ascolto
empatico permette di uscire dal sé e
avvicinarsi all’altro. Empatia è la capacità di
mettersi nei panni dell’altro, senza provare
le stesse emozioni, la comprensione di ciò
che l’altro sta sentendo e che fa fatica ad
esprimere, l’accettazione senza giudizio.
L’empatia è una abilità che si può
imparare. Così come si può imparare a
comunicare. La comunicazione della
diagnosi è già terapia, è il presupposto
dell’alleanza per curare: se capisco il mio
stato, accetterò le terapie, sarò in grado di
|
Umano, troppo umano
a fianco dei cittadini che ossequioso verso
le regole dettate da protocolli e da percorsi
diagnostici-terapeutici, utili ma concepiti
nell’astratto bisogno di metterci dentro
tutte le possibilità, obbligato ad una
osservazione globale della persona. Per
questo può risultare più umano, se rifiuta la
sudditanza ad una scienza che si vorrebbe
esatta, ma che esatta non può essere, se è
consapevole che la sua professione è
un’altra medicina una disciplina legata alla
scienza sì, ma necessariamente e
oggettivamente diversa dalla cardiologia
ospedaliera, dalla gastroenterologia
ospedaliera, dalla pneumologia ospedaliera
e da tutte le altre.
Il sapere medico viene ridotto interamente alla oggettività, alla
misurabilità dei fenomeni, alla ricerca del determinismo delle cause,
come se la medicina fosse una scienza esatta, e non l’applicazione
della scienza ad un soggetto, con tutta l’incertezza che la pratica
clinica sempre si porta dietro, con una fallibilità ineliminabile.
decidere quali terapie scegliere (diritto
inalienabile di ogni cittadino). La
comunicazione crea un ponte tra le
persone e permette a chi soffre di uscire
dalla solitudine, di controllare l’angoscia di
sentirsi male senza rimedio: la
comunicazione mi fa sentire curato, non
solo la prescrizione di un farmaco. Tra il
benessere clinico, che il medico
presuppone per il paziente, e il benessere
che solo il paziente conosce ed è in grado
di accettare, far suo, esiste uno spazio,
talora divergente, che va riempito col
dialogo. Il medico è un interprete e un
traduttore delle potenzialità della
medicina. La tecnica ci aiuta a fare
diagnosi di malattia, ma soltanto un
medico come persona può darci la
diagnosi del malato. Al di fuori della
traumatologia e delle emergenze, la
malattia non è una entità concreta
esistente al di fuori e al di sopra
dell’ammalato.
La medicina generale o di famiglia da
sempre privilegia la persona rispetto alla
malattia e pone al centro la relazione
medico-paziente non solo nei proclami
deontologici e nei convegni, ma anche
nell’attività clinica quotidiana. Il medico di
medicina generale vive nel territorio, lo
stesso dei suoi assistiti, è abituato di fatto a
risolvere problemi e non solo malattie, più
Il nostro sistema sanitario riconosciuto
dagli organismi internazionali uno dei
migliori al mondo è stato costituito proprio
secondo principi di universalità, di bene
comune e le unità sanitarie erano
predisposte a produrre cure, terapie,
assistenza, ma anche giustizia,
uguaglianza, rispetto, umanità, non
un’impresa, copiata dal mondo
manifatturiero, ma un servizio. Le leggi di
riforma degli anni ‘90 le hanno
trasformate in aziende con scopi di
risparmio economico, con l’obiettivo di
produrre dei beni economici: spese e costi.
Quindi l’oggettivazione più assoluta,
dove è più facile tagliare gli operatori di
salute (medici e infermieri), che sprechi e
abusi, dovuti alla medicalizzazione della
società e a interessi di lobby che nulla
hanno a che vedere col benessere dei
cittadini. Uno strumento in più e quaranta
infermieri in meno: quale umanizzazione
può favorire una nuova Risonanza
Magnetica Nucleare? Ben sapendo, come
affermato dalla Società Italiana di
Radiologia recentemente, che circa la
metà degli esami fatti è inutile?
*Segretario Generale Nazionale
della Federazione Nazionale Medici di
medicina generale (Fimmg); **medico
di medicina generale, Fimmg, Torino.
COLLOQUIA 19
SALUTE ED ECONOMIA
di Federico Spandonaro*
Le recenti manovre economiche
e l’evoluzione del SSN
Nonostante esistano numerose inefficienze allocative, il sistema sanitario
italiano si dimostra decisamente “sobrio”, e questo andrebbe
maggiormente riconosciuto. (...)
A cura di DANIELA D’ANGELA**, CRISTINA GIORDANI***, BARBARA POLISTENA**
Il contesto economico-finanziario
La crisi economica che si è palesata nel
2011, ma che è nata in precedenza ed è
tuttora in corso, non ha risparmiato la
Sanità.
Il gap in termini di spesa sanitaria totale
italiana rispetto all’Europa è evidente, e
tende a crescere: 26,1% (16,9% nel 1990)
rispetto agli altri Paesi di EU6 (Belgio,
Germania, Francia, Lussemburgo e Paesi
Bassi), 18,7% (+4,1% nel 1990) rispetto a
EU12. Va peggio sul versante della spesa
pubblica: -25,9% (-10,2% nel 1990) rispetto
a EU6, -17,9% (+10,9% nel 1990) rispetto a
EU12 (figura 1).
In Italia la spesa sanitaria rappresenta il
9,6% del PIL nel 2009, quota inferiore
rispetto alla media dei Paesi OECD: ma il
dato sul PIL dice poco, se non che ogni
Paese può permettersi di allocare sulla Sanità
una quota simile di risorse.
Il vero problema del nostro Paese è, in
effetti, la stagnazione economica, perché
più prolungata e profonda che negli altri
Paesi europei: il gap del PIL italiano rispetto
a EU12, che era positivo (+2,3%) nel 1990,
è arrivato ad essere del -5,6% nel 2010
(-9,9% rispetto ad EU6); stagnazione
peraltro aggravata dal forte debito pubblico,
che toglie risorse che potrebbero invece
sostenere un rilancio dell’economia
necessario al mantenimento dei livelli di
assistenza attuali.
Secondo le stime dell’VIII Rapporto
Sanità del CEIS, nel prossimo triennio la
quota di spesa pubblica ex post non si
modificherà significativamente, attestandosi
al 7,3-7,5% del PIL. Questo anche perché la
crisi si è dimostrata molto più grave del
previsto e quindi sarà il PIL a non
20 COLLOQUIA
raggiungere i valori preventivati.
Per far fronte alla crisi, già durante
l’estate del 2011 il Governo era intervenuto
con la manovra finanziaria (D.L. n. 98/2011),
programmando di fatto un arretramento
dell’intervento pubblico in Sanità di quasi
mezzo punto percentuale di PIL; in pratica
circa € 8 mld. in meno sui finanziamenti da
erogare nel triennio 2012-2014.
Da una simulazione effettuata dal CEIS
Sanità sull’effetto della manovra sui bilanci
delle famiglie, in particolare quello dovuto
all’inasprimento dei ticket (stimato in € 2
mld.), emerge che si creerebbero oltre
42.000 nuove famiglie impoverite per le
spese sanitarie; per contenere l’iniquità
dell’impatto, è stata ipotizzata una
applicazione progressiva dei ticket, con un
inasprimento del 5% per le famiglie più
povere (lasciando esenti solo quelle povere),
fino ad arrivare al 30% per le più ricche: in
tal caso, le nuove famiglie impoverite si
ridurrebbero a 7.500.
I dati disponibili riferiti al 2009, anno
della prima crisi finanziaria, evidenziano che,
a fronte di una riduzione del PIL del 3%
rispetto all’anno precedente, si è
determinata una riduzione dei consumi delle
famiglie più che proporzionale (-6,8%) e una
riduzione ancora maggiore della spesa
sanitaria privata out of pocket delle famiglie
(-7,6%). A dimostrazione della difficoltà in
cui si imbattono le famiglie, si è anche
riscontrata una riduzione del numero di
famiglie che hanno sostenuto spese
sanitarie: circa 102.000 in meno.
Il Documento di Economia e Finanza
(DEF) del 2012 e successivamente il D.L. n.
95/2012 (c.d. Spending Review) e il D.L. n.
158/2012 (Patto di stabilità) hanno
comunque programmato a partire dal 2012
e fino al 2014 ulteriori tagli progressivi alle
spese sanitarie. In particolare, i tagli
riguardano la voce ‘beni e servizi’, con una
riduzione del 5% (circa € 1,5 mld. in meno
rispetto al 2011), degli oneri dei contratti di
fornitura (ad esclusione dei farmaci), una
Figura 1. Differenziali di spesa e PIL, Italia vs. Europa, anno 2009.
Italia vs EU6
Italia vs EU12
0,0%
-5,0%
-10,0%
-15,0%
-20,0%
-25,0%
-30,0%
PIL pro-capite
Spesa sanitaria totale pro-capite
Spesa sanitaria pubblica pro-capite
Fonte: VIII Rapporto Sanità CEIS.
Salute ed Economia
riduzione di acquisto di prestazioni di
ricovero ed ambulatoriali dai privati
accreditati, dello -0,5%, -1,0% e -2,0%,
rispettivamente nel 2012, 2013 e 2014;
ancora tagli sulla spesa per farmaci e
dispositivi medici: è prevista un’ulteriore
riduzione dei tetti di spesa per la
farmaceutica, ospedaliera e territoriale,
nonostante il nostro Paese abbia un valore
di spesa farmaceutica pro capite inferiore
del 20% rispetto alla media dei Paesi OECD,
e del 17% rispetto a quella media europea;
anche per i dispositivi medici, per i quali, con
la manovra finanziaria del 2011, era stato
introdotto per la prima volta un tetto di
spesa (pari al 5,0% del FSR), è stata prevista
un’ulteriore riduzione con un abbassamento
della soglia al 4,9% nel 2013 e al 4,8% nel
2014.
Alla luce delle misure previste dagli ultimi
provvedimenti legislativi, nel 2013, avremo
quindi € 17 mld. in meno di risorse (-13%)
per il SSN, rispetto a quanto previsto nel
DPEF del 2008 (figura 2).
A questo punto si pone il problema della
sostenibilità futura dei costi sanitari,
derivanti dall’invecchiamento della
popolazione. Il tema è sempre al centro del
dibattito, alimentato da previsioni
sostanzialmente catastrofiche, soprattutto
da parte di organismi internazionali.
La popolazione invecchierà per effetto
della scarsa fecondità ma anche
dell’allungamento della vita media, ma ciò
non comporterà necessariamente un
problema di sostenibilità; infatti, le evidenze
disponibili mostrano una progressiva
|
Le recenti manovre economiche e l’evoluzione del SSN
posticipazione dell’insorgenza delle malattie,
con la conseguenza che il periodo di
“assorbimento delle risorse” rimane
sostanzialmente invariato. Inoltre, come
evidente dalle recenti scelte in tema di
requisiti pensionistici, si allunga la vita
lavorativa, il che comporta un “guadagno
netto” per l’individuo e quindi la Società.
Va comunque considerato che
l’allungamento della vita può aumentare il
numero di eventi acuti, e che alcune
patologie croniche dipendono dagli stili di
vita errati (obesità e diabete, patologie
cardiovascolari) che si manifestano sempre
più precocemente. Inoltre, grazie alle
innovazioni e alle maggiori aspettative della
popolazione, l’assistenza costa sempre di
più.
Conclusioni
Le differenze evidenziate in termini di
spesa sanitaria totale e di PIL tra l’Italia e la
media EU6 e EU12 sono eclatanti e dato che
lo stato di salute della popolazione italiana è
quanto meno non secondo a quello medio
europeo, è difficile pensare che
sull’assistenza sanitaria italiana gravi un
tasso di inefficienza economica rilevante,
che giustifichi le ulteriori riduzioni di spesa
previste dagli ultimi provvedimenti legislativi.
Nonostante esistano numerose
inefficienze allocative, il sistema sanitario
italiano si dimostra decisamente “sobrio”, e
questo andrebbe maggiormente
riconosciuto. Sembra invece che il dibattito
sulla Sanità italiana sia viziato da un
ideologismo che, non considerando
Bibliografia
1. Spandonaro F. Executive summary. VIII
Rapporto Sanità CEIS Opzioni di Welfare
e integrazione delle politiche, 2012.
2. Polistena B. La spesa sanitaria:
comparazioni internazionali, previsioni
ed efficienza. VIII Rapporto Sanità CEIS,
2012.
3. d’Angela D. Indicatori di performance:
aggiornamenti sull’impatto equitativo
della crisi finanziaria. VIII Rapporto
Sanità CEIS, 2012.
4. Giordani C. Il finanziamento della sanità:
comparazioni internazionali, investimenti
in conto capitale ed effetti della crisi
finanziaria. VIII Rapporto Sanità CEIS,
2012.
Figura 2. I tagli alle risorse per la Sanità nel triennio 2012-2014.
135.000
5. Corte dei Conti, Rapporto 2012 sul
coordinamento della finanza pubblica,
Maggio 2012.
130.000
125.000
120.000
-1,8 mld € -2,0 mld €
115.000
110.000
-0,9 mld € -0,6 mld € -1,0 mld €
105.000
100.000
95.000
l’evidenza numerica dei fenomeni, ritiene
inefficiente la Pubblica Amministrazione e,
di conseguenza, la Sanità pubblica e in
generale il sistema di welfare.
Il sistema pare abbia sinora tenuto, sia
razionalizzandosi, sia attuando la leva
dell’amministrazione dei prezzi; ma questa
strada non è percorribile all’infinito, anzi,
potrebbe avere effetti indesiderati in settori
economici che avrebbero, invece, la
potenzialità per contribuire al rilancio
dell’economia del Paese, quali ad esempio
l’industria farmaceutica e dei dispositivi
medici.
Quindi in questo periodo di scelte
necessarie non si può più rimandare una
chiara decisione su quali siano i settori
strategici per il rilancio dell’economia del
Paese e in particolare se quello sanitario sia
uno di questi.
Resta fondamentale la valutazione:
nessuna programmazione e nessuna
organizzazione può raggiungere i suoi
risultati senza un’adeguata accountability.
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
─ DPEF 2008 ─ DPEF 2009 ─ DEF 2012
─ D.L. n.95/2012 (Spending Review) ─ D.L. n.95/2012 (Spending Review)
Fonte: rielaborazione dati Corte dei Conti.
6. D.L. n. 95. Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica con
invarianza dei servizi ai cittadini, Luglio
2012.
7. D.L. n. 158. Disposizioni urgenti per
promuovere lo sviluppo del Paese
mediante un più alto livello di tutela
della salute, Settembre 2012.
*Università di Roma Tor Vergata;
**CEIS Sanità, Università di Roma
Tor Vergata e 4 Health Innovation;
***CEIS Sanità, Università di Roma
Tor Vergata.
COLLOQUIA 21
La Medicina e le Arti
Notti
di guardia
Il blog nottidiguardia.it è nato
nell’agosto del 2008 dal bisogno
di alcuni operatori sanitari di
condividere storie, immagini,
emozioni che avessero come
centro il lavoro in ospedale.
Un lavoro che non conosce
orari, che non si adatta ai
calendari e che si trascina con
ostinata continuità tra reparti,
corridoi, sale d’aspetto, sale
operatorie, pronto soccorso.
Le poche decine di lettori del
blog si sono rapidamente
moltiplicati. Molti lettori sono
diventati autori, e i racconti
hanno presto tracimato i confini
dell’ospedale per arrivare sulla
strada, negli hospice, in case di
riposo, nei paesi di guerra.
Le notti di guardia non sono
solo più quelle degli operatori,
ma sono diventate anche
quelle dei pazienti, che
quotidianamente devono fare
i conti con la malattia.
Ad oggi le visite al blog arrivano
a 15.000 passaggi al mese,
gli autori sono quasi un
centinaio, ma lo spirito è rimasto
sempre lo stesso, e cioè quello
di raccogliere esperienze di vita,
di lavoro, di malattia,
e nella condivisione dar loro
spessore.
A cura di GIUSEPPE NARETTO*
e MAURO MEDAGLIA*
22 COLLOQUIA
La Medicina e le Arti
Solo di notte
Scritto da massimolegnani
il 01 Dicembre, 2012
Di giorno si balbetta, ma le parole
nella notte si fanno tonde e calde,
piccole pagnotte dal buon odore alle
narici, pietre di fiume smussate all’acqua
e tiepide di sole da tenere in mano e da
sgranare come grani di rosario, bocce di
ferro che rotolano precise sul liscio della
terra dietro l’osteria fino a raggiungere il
pallino.
Di notte le parole ci fanno tutti
complici, amici solidali, quasi amanti per
quanto sconosciuti. Siamo le talpe
semicieche che trovano nel buio sorrisi e
gesti dove non potevano sapere finché
c’era la luce a nascondere emozione.
(…)
Nella penombra delle stanze ti è più
facile essere sereno sedendoti sul bordo
di un letto sfatto di paura. Guardi negli
occhi gonfi che non vedi questa mamma
che boccheggia sotto il macigno di una
diagnosi. Lei tace accarezzando lenta il
suo bambino che finalmente dorme,
miniera inesaurita di dolore, tu usi
silenzio e vicinanza, parli, poco, stai in
ascolto anche se tutto apparentemente
tace. E con questi due strumenti che
possono sembrare miseri, poco più che
due cucchiai di fronte a una montagna,
scavi un cunicolo fino al cuore della
donna, che almeno possa respirare. E col
respiro il pianto che assecondi muto,
perché occorre dare il tempo giusto ad
ogni lacrima, che lenta cada come
sangue sporco di terra da una ferita
aperta che non devi avere fretta di
richiudere. E dopo parli in bisbiglio
caldo, divaghi, infili qualche fesseria
accettando il rischio di essere frainteso,
e infine torni al sodo, che è quello il
punto da smussare. Tu non sei giudice
che possa fare sconti sulla pena, ma la
pena la puoi dividere per due. (…)
Così per qualche ora oscura e chiara
diventi il Cristo minimo che allevia la
comunanza del dolore e riaddormenta
con le dita sulla fronte.
Poi torna la luce e con la luce i capi e
i bravi e i belli, quelli con il sapere in
tasca e le parole in bocca da utilizzare in
giro per tenere le distanze e accrescere
la gloria. “Notte tranquilla, nulla di
nuovo” dici, che tanto a certa gente è
inutile spiegare. Ma mentre te ne vai,
vedi una mamma sul limitare della
stanza che incomincia con te a tessere la
tela di sorrisi e di fiducia, da non disfare
nella notte.
massimolegnani
Notte in Hospice
Scritto da TNT69
il 06 Aprile, 2012
Silenzio, luci soffuse, il rumore del
condizionamento.
Dopo aver finito il giro ci si sofferma
davanti al computer, si abbassano le
luci. Ci si scalda con un the caldo, ci si
racconta un po’, la vita, le esperienze, ci
si conosce o si discute degli eventi
lavorativi. A volte si ricordano pazienti
particolari, quelli che ci hanno insegnato
qualcosa, ognuno ne ha uno diverso.
Poi si gira per vedere se tutti riposano,
chi dorme, chi è sedato. In qualche
stanza qualche parente si ferma a fare
compagnia al proprio caro.
Nel corridoio si mischiano i differenti
respiri, come una musica. Poi un silenzio
strano, lieve, un senso di pace.
|
Notti di guardia
È tangibile, nessun campanello che
suona, tutti dormono come non
volessero disturbare o farsi sentire.
Una presenza palpabile. È la Morte che
aleggia, si aggira nel reparto, è tangibile,
ma non fa paura, allevia le sofferenze, e
sai dove potrebbe andare e vai dove
pensi di trovarla. (…)
Assistere una persona che muore è
come assistere ad un parto, testimoni di
un passaggio, la fine di una vita terrena
e l’inizio di qualcos’altro, ignoto, ma
non temuto. Un mistero, un dono.
Grazie a voi che ho accompagnato in
questi dieci anni di Hospice.
TNT69
Non lo so
Scritto da Bruno
il 25 Aprile, 2012
emozioni / 5 Commenti
Non è molto che lavoro in terapia
intensiva ed ancora non riesco, e non so
se ci riuscirò mai, a mantenere una certa
distanza da te, che dall’altra parte del
letto dove abbiamo messo tua moglie
mi subissi di domande a cui non so dare
risposte.
Non riesco a darti risposte, (…) non
perché non conosca i meccanismi che
A destra Blue walk, Giuseppe Naretto,
Ospedale San Giovanni Bosco, Torino
A sinistra Notti, Marco Vergano,
Ospedale San Giovanni Bosco, Torino.
COLLOQUIA 23
La Medicina e le Arti
|
Notti di guardiaLa Medicina e le Arti
hanno portato tua moglie da una banale
febbre alla morte cerebrale, passando
attraverso una meningite fulminante;
non riesco a darti risposte perché tu e
tua moglie avete la mia età ed è difficile
capire e farti capire come si possa morire
per una febbre a trent’anni. (…)
Forse il mio guscio è ancora troppo
morbido, ma 5 minuti dopo le tue
parole mi sommergono come un fiume
giallo e denso nel quale non riesco a
stare a galla, ma solo ad affondare
sempre di più.
Ed il tuo dolore diventa anche mio,
in un secondo i corsi su comunicazione
diagnosi infauste, supporto ai parenti,
distacco professionale, vengono
cancellati come petali di ciliegio da un
colpo più forte di vento.
Non riesco a guardarti negli occhi mi
vergogno troppo.
Non posso neanche immaginare
quanto tu stia male. (…)
Mi chiedi cosa ne sarà della tua vita
di domani, come farai col vostro figlio di
4 anni, a cosa starà pensando tua
moglie in questo momento, se può
sentire la tua voce, se può percepire il
tuo bacio sulla fronte.
Non lo so.
Mi dispiace. (…)
Esco dalla stanza, ma non riesco a
smettere di pensare a quanto fragile sia
il filo che tiene due persone che si
amano insieme.
Finisco la guardia, tu hai deciso con
un gesto di infinito amore di far vivere
tua moglie nel corpo di altre persone
che stanno male. (…)
Sento qualcosa dentro che non sarà
più come prima, come se tu avessi
scritto direttamente sulla mia anima.
Bruno
Tra Me e T(h)e
Scritto da Bellerophontes
il 26 Giugno, 2012
Ci sono momenti, camminando per
il girone infernale (…) del pronto
soccorso di un grande ospedale in cui,
uscendo per la tua meritata e nociva
sigaretta delle tre del mattino, un
attimo prima dell’alba, ma ancora
troppo vicino alla notte, la scienza si
arrende all’umanità, alla paura di chi
soffre, segretamente intersecata alla
tua di fallire.
C’era V.
Siriano, lineamenti nobili, antichi,
gentile nel parlare, seguito dai servizi
psichiatrici. (…)
La sua bottiglietta di the era caduta
nel canale e lui a ruota per recuperarla,
fa caldo hai sete e l’acqua serve due
volte quando cammini in un paese che
non conosci, di cui non conosci la
lingua, e dove molte persone avranno
approfittato della tua situazione per
toglierti quella già poca fiducia,
incarcerati dai buoni, sfruttati dagli
stronzi.
V. voleva solo la sua bottiglietta di
the; quando i pompieri lo hanno
estratto dal canale la brandiva come un
trofeo. (…)
Io e te, V., condividiamo più del
99,5% dei nostri geni, delle nostre vie
biochimiche, della nostra fisiopatologia.
A sinistra Passi, Giuseppe Naretto,
Ospedale San Giovanni Bosco, Torino.
A fronte L’anestesista, Dan Barbu,
Ospedale San Giovanni Bosco, Torino
24 COLLOQUIA
Lo condividiamo anche con il povero
vecchio dall’ospizio col suo bel tappeto
di batteri nelle urine, con il professore
con la colica renale, con il tossico che
ha bisogno di un po’ di metadone,
morfina, contramal, tachidol,
che comunque non gli daremo.
Ma tu non hai bisogno di questo:
una coperta di lana, i vestiti in sala
lavaggio e, meglio del diazepam,
qualcuno che si siede al tuo letto ed è
disposto ad ascoltarti, instaurare un
rapporto umano semplicemente
dandoti di che coprirti ed un the caldo,
come solo le infermiere dolci e
bellissime di certi ps sanno fare. Dormi
V., io sto smontando dalla notte, un
tuo ultimo sguardo, lungo, silenzioso,
il tuo sorriso ha il sapore della
gratitudine, il mio… beh il mio non lo
so, dimmelo tu.
Bellerophontes
Come dire
Scritto da Herbert Asch
il 22 Gennaio, 2009
(…)
Tutto quel che hanno detto dal 118
è che arriva un trauma da un grosso
incidente. (…)
È una donna giovane tutta
confezionata a puntino, sulla tavola
spinale con la metallina dorata e le
cinghie che la fasciano, monitorizzata,
intubata, sedata, ventilata.
Il collega che l’accompagna (…) mi
lascia le consegne: grosso incidente,
scontro tra auto e furgone, più altri
veicoli coinvolti. (…)
Mi dice anche che vicino a lei, nel
prato, c’era un bambino 4-6 anni,
morto, che viaggiava con lei. (…)
Due ore dopo suonano alla porta,
un magrebino piccino, dimesso, la
camicia abbottonata senza cravatta,
una giacca modesta.
Gli chiedo chi è, chi cerca, ma già
sospetto.
– Mia moglie è qui? Mi hanno detto
che l’hanno portata qui, ha avuto un
incidente.
L’italiano è incerto, parlo
lentamente cercando di capire se riesce
a comprendere.
Gli spiego che c’è una signora, ma
non siamo proprio sicuri di chi sia, non
La Medicina e le Arti
dovrebbe avere grosse cose, abbiamo
fatto degli esami, però è meglio per
sorvegliarla, aspettiamo che si svegli.
Lui dice se può vederla che può
riconoscerla.
Lo faccio passare, poi si volta e mi fa
la domanda che non volevo sentire:
– e mio figlio? … Anche lui è qui?
Nicchio che non so, che hanno
portato solo lei, ma lui è ancora più
inquieto:
– allora dov’è, dove l’hanno
portato?!
Dico che mi sarei informato, che
intanto se voleva vedere la signora…
Lui va avanti, io passo al bancone,
telefono in centrale 118 per sapere il
bambino dove l’han portato.
Mi dicono che è nelle camere
mortuarie dell’ospedale vicino al luogo
dell’incidente, a una cinquantina di
chilometri da noi.
Intanto il nostro ha riconosciuto la
moglie. (…) Lo rassicuriamo che tra
poco pensiamo di svegliarla, la teniamo
lì per sicurezza, per sorvegliarla meglio.
– E mio figlio?
– Mi hanno detto che lo hanno
portato all’ospedale vicino al posto
dove hanno avuto l’incidente. (…)
Lui si avvia verso la porta, dove lo
aspetta un altro parente o un amico.
Poi mi richiamano.
Vado alla porta
– Ma mio figlio come sta?
– Non so, non mi hanno detto, forse
è meglio che chieda laggiù.
Non me la sento di essere io a dare
la notizia, non voglio essere io
accidenti!
Parlano ancora tra loro.
– L’ospedale è distante e adesso
non abbiamo la macchina: ci sono
autobus per arrivare là?
– Non saprei, credo sia lunga…
Non so cosa dire e capisco il
dramma che sta vivendo questo
poveretto. Non voglio neanche che,
nell’incertezza delle condizioni si
precipiti magari su un taxi, nella nebbia,
per una situazione che, ormai, non ha
più nessuna urgenza.
– Vuole che proviamo di nuovo a
telefonare?
– Lei può?
– Venga dentro. Proviamo. Tiro in
lungo, ma non so cosa fare.
Telefono al Pronto Soccorso dell’altro
ospedale, mi informo sui feriti, e se ci sia
effettivamente anche un bambino di sei
anni morto.
Mi confermano…
L’omino è di fronte a me, e scruta il
mio volto in attesa di notizie.
Ovviamente della telefonata non ha
|
Notti di guardia
capito un accidente, sono stato
volutamente scarno di parole.
Metto giù.
Gli sguardi si incrociano.
Lui parte per primo, ma ha
cominciato a capire:
– Ma… è morto?
Stringo la bocca con una smorfia e
COLLOQUIA 25
La Medicina e le Arti
Dall’alto
La mano che cura,
Giuseppe Naretto,
Marco Vergano
Ospedale
San Giovanni Bosco,
Torino;
Luci e ombre,
Giuseppe Naretto,
Marco Vergano
Ospedale
San Giovanni Bosco,
Torino.
26 COLLOQUIA
|
Notti di guardia
La Medicina e le Arti
accenno appena con la testa.
Adesso ha capito anche lui, senza
errore.
Ed io preferirei essere, di gran lunga,
improvvisamente nella melma più
fonda per un’intubazione difficile, un
paziente instabile, una diagnosi
insidiosa o impossibile ecc. ecc. ecc.
Herbert Asch
La fine del mondo
Scritto da il guardiano
il 04 Ottobre, 2008
Il giovane dottore arrivò in pronto
soccorso che il consulto era già
cominciato. Il medico di guardia, il
radiologo, il chirurgo vascolare erano
tutti davanti alla TAC. Il referto era
chiaro: aneurisma dell’aorta
addominale in fase di rottura. Il giovane
dottore chiese se si andava in sala.
La risposta arrivò secca dal chirurgo.
Ovviamente si andava in sala.
Ma nessuno si muoveva da lì. Il fatto è
che la signora sapeva dell’aneurisma, e
2 anni prima aveva rifiutato
l’intervento. La signora aveva dei
problemi? chiese il giovane dottore.
Era depressa? Demente? O cosa? No,
niente. 84 anni, senza parenti.
Bisognava solo convincerla. Mancava il
consenso firmato.
La paziente era in sala emergenze.
(…)
Tranquilla, respirava bene, la
pressione era stabile. Una nonnina dagli
occhi vivaci, un po’ sofferenti.
Il giovane dottore la salutò, lei rispose.
Le chiese come stava. Aveva male alla
pancia. Il giovane dottore le
somministrò un analgesico, lei
ringraziò. Poi dopo qualche minuto di
silenzio iniziarono a parlare. La nonnina
era ben conscia di quanto era successo.
Sapeva che l’aneurisma prima o poi si
sarebbe rotto, ma lei non aveva voluto
farsi operare. Non voleva morire in
ospedale. Tutti le avevano detto che se
si rompeva sarebbe morta, lì, su due
piedi, senza neanche accorgersene.
E questo in fondo la tranquillizzava.
Così quando le era venuto quel mal di
pancia terribile, mai più pensava
all’aneurisma. Se avesse sospettato che
era quello, se ne sarebbe stata a casa,
così nessuno l’avrebbe operata. Ma
|
Notti di guardia
quei dottori là volevano operarla a tutti
i costi. E lei non voleva farli arrabbiare.
Il giovane dottore la rassicurò sul fatto
che se lei era contraria all’intervento,
nessuno avrebbe potuto operarla.
Se voleva poteva anche ritornarsene a
casa. A queste parole lo sguardo della
nonnina si accese di una nuova luce.
Davvero poteva tornarsene a casa?
E morire nel suo letto? E vedere per
l’ultima volta le sue amiche?
Certamente. Non era una cosa
semplicissima, bisognava organizzarsi,
ma era assolutamente possibile.
Quando il giovane dottore tornò dai
suoi colleghi, e spiegò la situazione,
nessuno lo prese sul serio. Nessuno
pensò che era ragionevole lasciare
perdere e fare in modo che la nonnina
se ne tornasse a casa a morire nel suo
letto. Ma il giovane dottore rimase
fermo nella sua posizione: lui non
avrebbe mai addormentato una
persona perfettamente sana di mente,
orientata nel tempo e nello spazio, che
rifiutava, in maniera del tutto
ragionevole, un intervento che, in
quelle condizioni, ha una mortalità
elevatissima, e un rischio altrettanto
elevato di complicanze future. (…)
Con il cellulare (…) la nonnina
chiamò due sue amiche (…) e un vicino
di casa. (…)
Raccontò loro tutto quello che era
successo e invitò tutti a casa sua per
un’ultima partita a carte. Poi firmò i
fogli. Il giovane dottore aspettò che la
caricassero sull’ambulanza. (…)
Ho pensato un sacco di volte al
giovane dottore e alla nonnina. Ho
pensato a queste due persone che
percorrono un tratto di strada insieme.
Quella strada che porta all’orizzonte.
Un giovane, figlio di tutti i figli, e una
vecchia, madre di tutte le madri, che
arrivati là dove il mondo finisce, di
fronte al buio cosmico, si salutano.
Lei per continuare, mite e coraggiosa,
il suo cammino verso l’infinito, lui per
tornare, chino e impotente sui suoi
passi, e negli occhi le tracce di un
nuovo stupore.
il guardiano
*Medici anestesisti rianimatori,
Ospedale San Giovanni Bosco,
Torino.
A DIRE IL VERO
di Tullio De Mauro*
Chimicità
ambiamenti in atto in varie
tecnologie e nelle applicazioni che
hanno sul nostro vivere fanno affiorare
nell’orizzonte del parlare una nuova
parola, chimicità in italiano, chemicity in
inglese. La si cerca per ora invano nei
dizionari su carta, anche aggiornati.
La Princeton University però si incarica di
pescare nella rete le parole più nuove,
i neologismi, e generosamente le offre
cercando anche di darne una prima
sistemazione e definizione. E così nel suo
Big dictionary on line registra la parola,
la qualifica come “medical” e la definisce
in modo molto generale: “lo stato di
possedere proprietà chimiche”. Intesa
così, la chimicità sarebbe qualcosa che
appartiene a ogni atomo, molecola,
aggregato di molecole nel vasto cosmo.
L’uso che però si fa della parola sembra
leggermente diverso. Dalla cosmesi al
trattamento di materiali la parola appare
per indicare non le proprietà chimiche di
ciò che si trova in natura, un organismo
vivente, il corpo umano, la pelle oppure
un legname, ma per indicare piuttosto e
più restrittivamente solo le proprietà
chimiche di additivi, sostanze,
medicamenti che si aggiungono a ciò che
si trova in natura. Quest’uso ristretto
appare in molte pagine in rete e così di
recente (10 dicembre 2012) ha adoperato
la parola un mobiliere di Cantù nella
trasmissione televisiva di Corrado Augias
Le Storie. Diario italiano dicendo che il
legno dei suoi mobili “non ha chimicità”,
è cioè utilizzato così come natura lo offre
senza trattamenti aggiuntivi.
C
*Già Ordinario di Linguistica generale,
Università “La Sapienza”, Roma;
autore di “Grande dizionario italiano
dell’uso”. 2a ed. riveduta e ampliata,
8 voll. con docking station, Torino: UTET.
“Grande dizionario italiano dei sinonimi
e contrari”, 2 voll., Torino: UTET, 2010.
COLLOQUIA 27
La MSD si racconta
ONCOMovies: dal cinema
alle storie vere dei pazienti
Da “paziente” a “persona”: lo sguardo della macchina da presa
può cambiare la comunicazione in oncologia.
A cura di TEAM ONCOLOGY, MSD
O
NCOMovies® è un progetto ideato
con l’obiettivo di richiamare
l’attenzione dei medici oncologi e dei
pazienti sull’importanza della Qualità di
Vita durante la chemioterapia,
utilizzando la forza del linguaggio
cinematografico, catalizzatore da sempre
di emozioni.
Negli ultimi 60 anni della storia del
cinema, oltre 80 film si sono occupati di
cancro: l’idea portante di ONCOMovies®
è quella di valorizzare questo grande
patrimonio di immagini e di storie per
illustrare la vita reale del paziente in
terapia, quello che accade oltre e al di
fuori delle porte dell’ospedale, così da
cogliere tutti gli aspetti che la persona
con tumore affronta durante il percorso
di cura e che possono sfuggire
all’osservazione del medico.
ONCOMovies® si sviluppa
parallelamente su due filoni: uno
dedicato all’oncologo e l’altro al
paziente.
L’oncologo, attraverso il sito
www.oncovip.it, ha la possibilità di
vedere quattro trailer contenenti scene di
film famosi che affrontano le tematiche
della Qualità di Vita dei pazienti
oncologici durante la terapia,
commentati dagli specialisti. I video
vogliono richiamare l’attenzione del
medico su quattro tematiche specifiche:
‘Sessualità e Tumore’, ‘Nausea e
Vomito’, ‘Buona e cattiva
comunicazione’, ‘Il senso della vita’,
problematiche molto sentite ma spesso
sottaciute dai pazienti.
Anche il paziente, tramite il sito
www.nonausea.it, ha a disposizione un
trailer a lui dedicato. Scene tratte da film
memorabili, anch’esse commentate da
28 COLLOQUIA
un board interdisciplinare, hanno
l’obiettivo di accrescerne la
consapevolezza sull’importanza di un
dialogo aperto con il proprio oncologo,
per la corretta gestione degli effetti
collaterali della chemioterapia che
impattano la propria Qualità di Vita.
Con ONCOMovies®, inoltre, i pazienti
da protagonisti in classici del cinema
diventano autori di nuove storie: le loro.
Fino al 30 gennaio 2013, i pazienti
potranno inviare al sito www.nonausea.it
le loro testimonianze, che diventeranno
lo spunto narrativo per la realizzazione di
un corto cinematografico.
Il cortometraggio, promosso da Salute
Donna e SIPO, sarà realizzato, con il
supporto di MSD, in collaborazione con il
Festival Internazionale del
Cortometraggio di Roma e presentato nel
corso dell’edizione 2013 del Festival.
La MSD si racconta
Nausea e vomito
da chemioterapia
Le terapie di supporto coerenti alle linee guida migliorano
sensibilmente la Qualità di Vita dei pazienti.
Intervista a DOMENICA LORUSSO*
Il cinema ci ha aiutato a vedere
due tra i più temuti effetti
collaterali della chemioterapia:
nausea e vomito. Sappiamo che
questo aspetto riguarda dal 30%
a oltre il 90% dei pazienti.
Quando e con che frequenza si
manifestano? Che impatto hanno
sulla loro Qualità di Vita?
La nausea e il vomito sono alcuni tra
gli effetti collaterali più temuti e patiti
dalle pazienti, al pari e spesso peggio
della caduta dei capelli. Rispetto alla
Qualità di Vita, gli studi ormai sono
molto chiari: ripetute evidenze
scientifiche ci dicono che il vomito da
chemioterapia è il sintomo che ha il più
alto grado d’impatto sulla Qualità di Vita
delle pazienti affette da cancro e sullo
svolgimento delle loro attività
quotidiane.
L’effetto è molto dipendente non solo
dal tipo di chemioterapia utilizzato,
perché non tutti i farmaci hanno lo
stesso potenziale emetogeno, ma anche
da altre caratteristiche personali come lo
stato emotivo, il sesso femminile e storie
precedenti di emesi durante la
gravidanza.
Il vomito detto acuto può insorgere in
modo acuto durante la somministrazione
del trattamento chemioterapico o entro
le successive 24 ore; il vomito detto
ritardato si manifesta a distanza di più di
24 ore dalla chemioterapia; in tal caso è
più difficile da gestire perché la paziente
è nella maggior parte dei casi a casa, e
spesso la nausea è tale da impedirle di
alimentarsi e bere e assumere compresse
per bocca. Il terzo tipo di vomito è
definito anticipatorio poiché insorge
prima dell’inizio dei cicli successivi di
chemioterapia e sembra manifestarsi su
base psicogena, è cioè legato al ricordo
che l’inconscio trattiene del malessere
legato al precedente ciclo di
chemioterapia, spesso stimolato dal
setting in cui la paziente si ritrova.
Oggi sappiamo che se agiamo bene sul
vomito acuto, con le terapie adeguate,
otteniamo risultati anche contro il
vomito tardivo e psicogeno.
Nella sua esperienza, in che
misura le terapie di supporto per
nausea e vomito aiutano
l’oncologo nella gestione del
protocollo terapeutico?
L’applicazione delle terapie di
supporto secondo linee guida è molto
Tabella riassuntiva delle raccomandazioni delle principali linee guida nazionali ed internazionali (ASCO, MASCC-ESMO, NCCN,
AIOM) per il trattamento della nausea e vomito sulla base della chemioterapia somministrata.
HEC
AC
CINV Acuta
MEC
CINV Acuta
CINV Ritardata
CINV Ritardata
CINV Acuta
CINV Ritardata
MASCCESMO1
Aprepitant +
setron + dex
Aprepitant +
dex
Aprepitant +
setron + dex
Aprepitant
palonosetron +
dex
dex
ASCO2
Aprepitant +
setron + dex
Aprepitant +
dex
Aprepitant +
setron + dex
Aprepitant +
dex
palonosetron +
dex
dex
NCCN3
Aprepitant +
setron + dex
± lorazepam
Aprepitant +
dex
± lorazepam
Aprepitant +
setron + dex
± lorazepam
Aprepitant +
dex
± lorazepam
setron + dex
± lorazepam
(Aprepitant
in pzz. selezionati)
setron o dex
o Aprepitant
± lorazepam
AIOM4
Aprepitant +
setron + dex
Aprepitant (o setron
o metoclopramide
+ dex
Aprepitant +
setron + dex
Aprepitant
palonosetron +
dex
dex
COLLOQUIA 29
La MSD si racconta
|
Nausea e vomito da chemioterapia
importante, non solo ai fini del
miglioramento della Qualità di Vita della
paziente, cosa peraltro fondamentale,
ma anche rispetto alla possibilità
dell’oncologo di gestire al meglio il
protocollo terapeutico.
Una nausea di grado 3 impone,
infatti, la riduzione di dose della
successiva chemioterapia, con le
conseguenze che un non mantenimento
dell’intensità di dose potrebbe avere
sull’outcome oncologico. Inoltre, una
paziente che vomita per giorni a casa
deve spesso, durante l’episodio acuto,
essere ricoverata per la necessaria
idratazione; se poi gli episodi si ripetono,
a lungo termine possono provocare un
peggioramento delle condizioni cliniche
generali che rendono molto difficile e
spesso impossibile la prosecuzione della
terapia.
Da un sondaggio di Salute Donna
onlus e SIPO tra più di 850
persone affette da tumore
emerge che a circa il 92% è stata
prescritta una terapia contro
nausea e vomito, ma più del 65%
degli intervistati riferisce che la
nausea permane come l’effetto
A
lmeno 2.300.000 italiani
oggi convivono con una
diagnosi di tumore, e circa due
terzi dei pazienti soffrono degli
effetti collaterali associati alla
chemioterapia, vomito e nausea,
non adeguatamente contrastati
con terapie di supporto.
A raccontare le difficoltà e i
problemi dei pazienti in terapia è la
ricerca ‘L’impatto dei trattamenti
oncologici sulla qualità di vita dei
pazienti’, condotta su oltre 850
pazienti e promossa da Salute Donna
Onlus (www.salutedonnaweb.it)
e dalla Società Italiana di PsicoOncologia (www.siponazionale.it)
nell’ambito del progetto
ONCOMovies®.
L’indagine nasce con l’obiettivo
di valutare, in modo dettagliato,
l’impatto dei trattamenti
chemioterapici sulla Qualità di Vita
30 COLLOQUIA
collaterale maggiormente
percepito. Può spiegarci questa
discrepanza?
Il sondaggio coglie una problematica
che è determinante per aiutare davvero
le persone con tumore a gestire e
controllare al meglio gli effetti collaterali
della chemioterapia, tra i quali la nausea
è quello che maggiormente deteriora la
loro Qualità di Vita. Indica cioè che alle
persone in cura che riferiscono di soffrire
di nausea pur avendo ricevuto terapie di
supporto contro questo effetto
collaterale non sono stati prescritti
farmaci coerenti con le linee guida
aggiornate.
È infatti fondamentale per il buon
esito delle terapie di supporto che esse
siano quelle indicate dalle linee guida,
scelte cioè attraverso il rigoroso vaglio di
studi clinici, e che dunque siano prescritti
quei farmaci, e non altri, che sono stati
in grado di dimostrare la loro efficacia.
È stato recentemente pubblicato
uno studio osservazionale (PEER)
che ha valutato la risposta di
1128 pazienti in chemioterapia
che seguono o meno la profilassi
antiemetica coerente con le linee
dei pazienti e sulle loro attività
quotidiane, la frequenza d’uso
delle terapie di supporto e le
modalità di comunicazione tra
oncologi e pazienti su questi
aspetti determinanti per un
percorso terapeutico ottimale.
Il quadro che emerge dalla voce
dei pazienti è chiaro: i trattamenti
per le malattie oncologiche
incidono negativamente sulla
Qualità di Vita, già messa a dura
prova dalla malattia. Gli effetti
collaterali più devastanti sono
nausea e vomito.
Dalla stessa indagine sembra
emergere che non sempre ai
pazienti siano somministrate le
terapie di supprto indicate dalle
linee guida: infatti gli oncologi
prescrivono un trattamento
antiemetico nel 91,8% dei casi,
ma, nonostante ciò, il 65,4% dei
guida (GCCP), basata su
antiemetici di nuova generazione,
come aprepitant: può illustrarci i
risultati?
Dallo studio sono emersi due dati
molto importanti: il primo è che
l’applicazione delle linee guida nel
controllo della nausea e del vomito da
chemioterapia avviene solo nel 55% per
la fase di emesi acuta, nel 46% per il
vomito tardivo e nel 29% in tutto lo
studio. Un dato sconcertante, perché ci
dice che ancora oggi gli oncologi non
sono sufficientemente sensibilizzati al
controllo di questo tipo di tossicità.
L’altro dato importante dello studio è
che, confrontando il gruppo di pazienti
sottoposti all’appropriata profilassi
antiemetica secondo linee guida con il
gruppo cui non era somministrata la
terapia antiemetica adeguata, si assisteva
a una significativa riduzione della nausea
e del vomito nel primo gruppo, che si
traduceva in una riduzione del numero di
accessi e visite specialistiche ospedaliere
nei 5 giorni successivi alla
somministrazione della chemioterapia.
*Dirigente Medico I livello Unità Operativa
di Oncologia ginecologica, Fondazione IRCCS
Istituto Nazionale Tumori di Milano.
pazienti continua a soffrire dei
debilitanti e mortificanti effetti di
nausea e vomito.
Questi risultati, del resto, sono
confermati da quanto emerge
dall’ampio studio osservazionale
prospettico PEER (Pan European
Emesis Registry), che ha arruolato
1128 pazienti in 8 Paesi europei,
compresa l’Italia. Lo studio ha
comparato i risultati ottenuti
impostando la profilassi per nausea
e vomito da chemioterapia
secondo linee guida, con quelli
ottenuti dalla somministrazione di
una terapia non coerente con esse:
nella fase di emesi acuta la
somministrazione dei farmaci antinausea e vomito coerenti con le
linee guida avviene solo nel 55%
dei casi.
La voce dei pazienti, così come
emersa dall’indagine, chiede che la
cura della malattia si focalizzi in
maniera integrata su due aspetti: il
prolungamento della sopravvivenza
e il miglioramento della Qualità di
Vita. Da ciò deriva l’auspicio che il
trattamento oncologico ottimale
preveda l’associazione della
migliore chemioterapia, con le
migliori terapie di supporto
disponibili. •
L’ULTIMA PAROLA
di Giuseppe De Rita*
L’esplosione della soggettività
del paziente
Non si può dimenticare che
la società moderna, valorizzando
l’idea del “il corpo è mio”, induce
il paziente ad essere partecipe
o almeno cosciente di quel che
nel corpo avviene e del modo
in cui il suo corpo è trattato.
quasi banale, in questi ultimi anni,
È constatare il profondo cambiamento
della figura del paziente; e verificare
quanto egli si stia trasformando in
soggetto del rapporto di cura, lontano da
quella configurazione un po’ passiva e
quindi fragile che per secoli gli era stata
propria. L’esplosione della soggettività
del paziente è infatti il fenomeno più
impressivo (e anche più sostanziale) di
questi decenni.
Non è comunque fenomeno
puramente settoriale, visto che tutta la
società moderna è segnata da un
riferimento quasi ossessivo al primato
della coscienza individuale, della libertà
personale, del “diritto di essere se stessi”.
Con una diffusa propensione a riferire
ogni componente della vita al “foro
interno”: la vita è mia, il lavoro è mio,
l’azienda è mia, il tempo è mio, il figlio è
mio, il corpo è mio. Anche il corpo,
perché (come ha spiegato più volte
Umberto Galimberti) quello che è
veramente nostro è solo e solamente il
corpo; perché quello che possiamo o
vogliamo esprimere passa tutto attraverso
il corpo; perché quello che siamo, nelle
gioie e nei dolori, si esprime nel corpo.
La alta soggettività del sistema sociale
trova in altre parole il suo campo di forza
non tanto negli spazi intellettuali e
coscienziali, ma specialmente nella
consapevolezza e gestione del nostro
corpo. Si capiscono allora i fenomeni di
soggettività sanitaria da più parti
segnalati, come la propensione a “farsi in
proprio una prima diagnosi”; la tendenza
a prescriversi autonomamente un
farmaco (lo fa quasi il 40% degli
italiani); la propensione a divorare ogni
strumento di comunicazione (televisivo,
giornalistico, editoriale) che porti il
singolo a conoscere e capire i propri
disagi e anche le proprie eventuali
malattie; l’abitudine a consultare sempre
più spesso i social network e il web, per
avere o prime informazioni sui propri
sintomi o immediata conferma delle
diagnosi del proprio medico; la diffusa
rincorsa a cure e medicine alternative,
espressamente calibrate su logiche
ampiamente personalizzate;
la sperimentazione del fitness per
garantirsi personale qualità della vita e
prevenzione da varie patologie;
l’attenzione agli stili di vita come veri
cardini della salute fisica individuale.
Possiamo avere qualche dubbio sulla
correttezza di alcune di queste scelte, ma
esse sono nei fatti, e occupano uno
spazio crescente, a conferma ed
articolazione concreta del soggettivismo
con cui oggi gli uomini guardano alla
propria salute. Un soggettivismo che in
più porta spesso i pazienti a ragionare
non tanto in termini di “bisogno” di
cura quanto in termini di “desiderio” di
star bene o di guarire rapidamente.
La psiche e il linguaggio segnano già con
tale passaggio un implicito cambiamento
di paradigma.
Quanto giuoca questo crescente
soggettivismo del paziente nel rapporto
con il proprio medico e con il sistema
sanitario? È ancora possibile parlare del
paziente come oggetto fragile nella
dinamica sanitaria, dove egli porta spesso
una intensa carica di desideri, di
domande squisitamente soggettive,
di attese? La fragilità è, per lunga storia
della salute, una componente essenziale
di ogni uomo nel momento in cui gli
arrivano addosso sintomi negativi,
malanni e paure. E di fronte a tale
fragilità tutto l’orgoglio alimentato dalla
alta soggettività è destinato ad incrinarsi.
Ma non si può dimenticare che
comunque la società moderna,
valorizzando l’idea del “il corpo è mio”,
induce il paziente ad essere partecipe o
almeno cosciente di quel che nel corpo
avviene e del modo in cui il suo corpo è
trattato. Ne deriva una doppia
conseguenza: una torsione “olistica” della
medicina moderna, e un rapporto
tendenzialmente bi-direzionale fra
medico e paziente. Da un lato infatti il
paziente vuole essere guardato nella sua
complessa unitarietà, come un caso
particolare e specifico, quasi unico,
rifiutando di essere visto come portatore
di una pura ripetizione di una patologia
di massa; e vuole quindi un riferimento
del suo stato di malattia alla sua più
generale struttura e congiuntura della
sua personalità e della sua vita (nelle
quali si intrecciano fattori diversi: da
quelli psicologici, a quelli alimentari,
di stile di vita, di stress, ecc.). Per strade
impreviste il soggettivismo ha avuto
come contropartita lo sviluppo di un
approccio olistico.
Ed è a questa evoluzione della cultura
medica che si collega l’altro tema oggi
all’onor del mondo: la tensione ad un
rapporto tendenzialmente bi-direzionale
fra medico e paziente. Per carità, nessuno
può mettere in dubbio la inevitabile
asimmetria che rende distinti il sapere e
l’esperienza del medico dalla generica
cultura del paziente; ma non c’è dubbio
che oggi i loro rapporti non sono più di
dipendenza psicologica. Sono volti a
capire insieme, a dialogare sulle cose da
fare, a scambiare opinioni sui risultati via
via conseguiti. È questa la vera e
profonda umanizzazione delle cure,
lontano da paternalismi e buona volontà
di ogni tipo; ed è un processo che a quel
che è dato di capire, non si ferma qui.
*Segretario Generale Fondazione Censis.
COLLOQUIA 31
APPASSIONATI ALLA VITA
CI SONO MOMENTI CHE VALGONO ANNI DI RICERCA.
Ogni giorno portiamo la passione per la vita nei nostri laboratori,
nei nostri uffici, negli ospedali, nelle vostre case.
Lavoriamo per migliorare la salute attraverso
la ricerca e lo sviluppo di farmaci e vaccini innovativi.
Il nostro impegno raggiunge tutti, anche attraverso programmi
umanitari di donazione e distribuzione di farmaci.
Per assicurare ad ogni singola persona un futuro migliore.
www.univadis.it www.contattamsd.it [email protected] www.msd-italia.it 09-13-MSD-2011-IT5849-J
Be well.