In fuga da Caporetto. L`odissea della grande ritirata nel
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In fuga da Caporetto. L`odissea della grande ritirata nel
In fuga da Caporetto Stefano Gambarotto Enzo Raffaelli con la collaborazione di Roberto Dal Bo In fuga da Caporetto L’odissea della grande gitirata nel racconto del tenente Vincenzo Acquaviva Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - Comitato di Treviso 2007 In fuga da Caporetto. L’odissea della grande ritirata nel racconto del tenente Vincenzo Acquaviva 1 edizione 2007 copyright © 2007 Stefano Gambarotto - Enzo Raffaelli - Roberto Dal Bo ISTRIT Via Sant’Ambrogio in Fiera, 60 31100 - TREVISO email: [email protected] Grafica e impaginazione di Stefano Gambarotto. Le immagini fotografiche risalenti alla grande guerra che illustrano il presente volume, provengono dai seguenti archivi: Servizio Fotografico dell’Esercito Italiano, Museo della 3a Armata di Padova, Museo della Guerra di Rovereto, Museo del Risorgimento di Treviso, Kriegsarchiv Wien. L’editore è comunque a disposizione degli eventuali aventi diritto. I materiali con i quali è stato realizzato il capitolo intitolato: «Una visita all’itinerario storico di Caporetto», provengono dall’Ente per il Turismo di Kobarid e dal Museo di Kobarid. Caporetto, cronologia di un attacco ben riuscito Il non voler credere ad ogni costo Il maresciallo Hindenburg, comandante dell’esercito tedesco, in un suo libro autobiografico, scrive che la decisione di agire contro l’Italia sull’Isonzo venne presa solo dopo l’esito dell’11ª battaglia, con la quale il nostro esercito era giunto «all’orlo estremo» della difesa di Trieste. A quel punto gli austro-ungarici, che avevano respinto con ampio dispendio di uomini e mezzi le precedenti undici offensiva italiane, manifestarono il loro timore sul possibile, infausto, esito di un altro attacco. Scrive in proposito il generale Roberto Bencivenga1: «Purtroppo, era precisamente la sensazione di avere inflitto un così duro colpo all’Austria, il motivo per il quale il generale Cadorna poté formarsi il preconcetto che una offensiva imponente degli Imperi Centrali contro la nostra fronte non fosse da attendere sul finire dell’anno 1917».2 L’occupazione dell’altopiano della Bainsizza, con la profonda penetrazione all’interno, doveva essere completata con la conquista dell’ Hermada, altura strategicamente importante che dominava il golfo di Trieste, cosa che non riuscì alla 3a armata. Il Comando supremo riteneva che si era comunque riusciti ad insinuare nello stato maggiore imperiale il dubbio di non essere in grado di resistere ad una successiva offensiva. Ma l’esperienza delle sanguinose battaglie isontine, la perdita di uomini in quantità inaccettabile, a fronte dei risibili risultati ottenuti, non era servita da ammaestramento ai capi del nostro esercito. E ciò a fronte di una direttiva dello stesso comando supremo – del novembre 1916 – che stabiliva come in caso di un attacco che non riuscisse a sfondare il fronte nemico fin dal primo momento, non conveniva insistere perché le perdite dell’attaccante crescevano col consolidarsi della resistenza dell’avversario. La direttiva in questione era rivolta ai Comandanti di armata i quali erano invitati a tenere conto di quel punto critico in cui le perdite di uomini e materiali superavano i vantaggi di modeste, e non influenti, occupazioni territoriali. Così non fu, e quando l’undicesima offensiva venne finalmente sospesa, il 28 agosto, il tributo pagato dai nostri soldati risultò assai elevato.3 Nonostante l’evidenza dei numeri, la forte resistenza degli austriaci e il fatto che essi conservassero il possesso di molte, vantaggiose, posizioni del fronte, Cadorna si convinse che dopo la Bainsizza, il nemico aveva ricevuto un colpo tale da tramortirlo a lungo. Inoltre la stagione era a favore dell’Italia: non si era mai visto attacco su un 5 fronte montano alla vigilia dell’inverno. Dunque Cadorna non pensava ad una offensiva in grande stile alla fine del 1917. Non lo credeva possibile né sul fronte trentino – che è sempre stato quello che più lo preoccupava dopo l’esperienza del 1916 – né su quello dell’Isonzo per i motivi appena detti. A riprova del pensiero del generalissimo c’è quella piccola frase inserita in una lettera inviata al comandante della 2a armata Capello, il 20 ottobre, quindi alla vigilia di Caporetto. Scrive Cadorna: «V.E. tenga presente che se nel venturo anno si pronunciasse uno sforzo imponente degli Imperi centrali […]». Ciò non significa che il Comando supremo escludesse del tutto la minaccia nemica, infatti, in una direttiva del 18 settembre, a fronte di notizie dei servizi di informazione4, Cadorna decide di rinunciare «alle progettate operazioni offensive e di concretare […] predisposizioni per la difesa ad oltranza, affinché il possibile attacco ci trovi validamente preparati a rintuzzarlo». Gli indizi di ciò che stava per accadere Per paradosso, il servizio informazioni della 1ª armata, quella più lontana dal settore Giulio, continuava ad avvertire che gli imperi centrali stavano preparando una massiccia offensiva e non sul fronte trentino nonostante tutti i trucchi messi in opera dal nemico per mascherarla, compresa la visita dell’imperatore Carlo in quell’area. Cadorna però non credeva all’offensiva isontina e il suo capo dell’ufficio situazione, per piaggeria o altro, finiva per assecondarlo. Eppure i segnali c’erano tutti e ben evidenti. Erano giunte segnalazioni sullo spostamento di truppe dal fronte trentino; una divisione bavarese era stata trasportata nel settore meridionale della regione; la 12ª divisione tedesca era partita dall’Alsazia per il nostro fronte e una quindicina di divisioni austro-ungariche erano state spostate dal fronte orientale su quello italiano. Alla luce di tutto ciò, verso la fine di settembre, l’ufficio situazione del Comando supremo - finalmente - cominciava a considerare che non si poteva escludere a priori la possibilità di un’offensiva nemica. Riteneva però il fronte dell’Isonzo escluso da gravi pericoli mentre in Trentino potevano verificarsi attacchi a carattere dimostrativo. L’ottimismo pervicace del Comando supremo comincia infine a barcollare i primi giorni di ottobre quando le notizie di un attacco nemico arrivano copiose. Scrive dunque l’ufficio situazione: «[…] qualora giungessero sul medio Isonzo le forze segnalate […] si potrebbe concludere per probabile l’offensiva sul medio Isonzo allo scopo di riprendere in tutto o in parte l’altipiano della Bainsizza». L’aiu6 Il generale Luigi Cadorna, ritratto al proprio tavolo di lavoro, in una famosa immagine. Museo del Risorgimento di Treviso 7 to tedesco era comunque ancora giudicato «molto limitato». Il 9 ottobre, con un telegramma al Comando supremo a Udine, il comando della 2ª armata a firma di Capello avvisa che alcuni disertori hanno confermato le notizie – già note e conclamate – di «un’offensiva sul fronte dell’armata» ed era accertata la presenza di truppe germaniche.5 Le notizie giungono ormai senza soluzione di continuità: sono segnalati ufficiali osservatori di artiglieria tedeschi nella conca di Plezzo, artiglierie e bombarde sul rovescio dello Sleme. C’è tutto il necessario per capire che l’offensiva sarà scatenata tra Plezzo e Tolmino, settore del fronte tenuto dai Corpi IV e XXVII dell’armata di Capello e notoriamente debole. Ma – scriverà Cadorna più tardi – secondo lui «Mancavano tutti quegli indizi che potevano indiscutibilmente assicurare l’approssimarsi di una grande operazione». Insomma, Cadorna riteneva gli «indizi» insufficienti perché i movimenti di truppe e artiglierie non erano vicini al fronte ma nelle «retrovie lontane».6 Il 20 il Comando della 2ª armata comunicava le notizie che un ufficiale disertore di origine Ceka aveva fornito, ossia che i tedeschi avrebbero sferrato l’attacco nella piana di Tolmino con obiettivo il massiccio del Kolovrat.7 Il giorno dopo si presentano alle nostre linee del Vodil altri due ufficiali disertori che confermano tutto aggiungendo che il fronte d’attacco previsto spaziava da Tolmino al mare con inizio il 25. Il 22, una stazione radio sullo Sleme intercettò notizie circa la data dell’inizio dell’offensiva: il tiro di distruzione dei grossi calibri dell’artiglieria nemica sarebbe cominciato il 24 alle 2 di notte. Alla fine al Comando supremo di Udine, ma anche a Cormons sede di comando del generale Capello, tutti si convinsero che dall’altra parte si faceva sul serio, molto sul serio. Si cercò allora di correre ai ripari, «ma la sorpresa strategica era riuscita».8 Il piano d’attacco austro-tedesco Il Comando supremo austro-Ungarico, dopo la perdita dell’altopiano della Bainsizza, temeva di non essere grado, con le sole proprie forze, di reggere ad un altro colpo d’ariete. A Vienna si riteneva necessario un contrattacco sul fronte dell’Isonzo per ricacciare indietro gli italiani. Il piano era stato abbozzato già dopo la 10ª battaglia e prevedeva un massiccio e vigoroso attacco dalla testa di ponte di Tolmino. Gli austriaci volevano fare tutto da soli contro lo storico «nemico ereditario». L’imperatore Carlo aveva chiesto agli alleati tedeschi la sostituzione di alcune divisioni schierate sul fronte orientale con altrettante tedesche per rinforzare il fronte d’attacco sull’Isonzo. I Germanici, pur concordando per l’offensiva, non accettarono la soluzio8 I protagonisti: nella foto superiore il generale Konrad Kraft von Dellmensingen col capo di stato maggiore Wilhelm von Willisen. In basso da sinistra a destra i generali von Below e Alfred Krauss, comandante del gruppo omonimo, che attaccò da Plezzo. 9 Schieramento delle unità della 2a Armata Italiana sul fronte Tolmino-Plezzo - mattino del 24 ottobre 1917 IV Corpo d’Armata - gen. Alberto Cavaciocchi Alpini Btg. di 1° linea:S. Dalmazzo, Dronero, Albergian; Btg. di rincalzo: Saluzzo, Mondovì, Valchisone; Btg di 2° linea e riserva: Monviso, Ceva, Argentera, Belluno. Fanteria Btg. di 1° linea: 6 della Brigata Friuli, 6 della Brigata Genova, 5 della Brigata Enna, 3 della Brigata Caltanisetta, 4 della Brigata Alessandria; Btg. di rinclazo: 1 della Brigata Etna, 3 della Brigata Caltanisetta, 2 della Brigata Alessandria; Btg. di 2° linea e riserva: 6 della Brigata Foggia, 2 del 280 Rgt. Fanteria. Bersaglieri Btg. di 2° linea e riserva: 3 del 9 Rgt. e 3 del 2 Rgt. Il IV corpo d’Armata aveva in linea 27 battaglioni di prima linea, 9 di rincalzo e 19 di seconda e terza linea. La forza totale era di 55 battaglioni, per la quasi totalità dei tali schierati sulla sinistra dell’Isonzo. Furono tagliati fuori nelle prime 10 ore di battaglia. XXVII Corpo d’Armata - gen. Luigi Capello Alpini (Vicenza, M. Berico, Morbegno, Adige) X Gruppo Alpini. 3 battaglioni di 1° Linea, 1 di rincalzo. Fanteria Btg. di 1° linea: 5 della Brigata Spezia, 5 della Brigata Taro; Btg. di rincalzo; 1 della Brigata Spezia; Btg. di 2° linea e riserva: 6 della Brigata Puglie, 6 della Brigata Napoli. Il XXVVII corpo d’Armata aveva in linea sulla destra dell’Isonzo 13 battaglioni di 1° linea, 2° di rincalzo e 12 in 2° linea. In totale 27 battaglioni dei quali buona parte furono catturati nelle prime 10 ore di battaglia. VII Corpo d’Armata - gen. Luigi Bongiovanni Fanteria Btg. di di 2° linea: 6 della Brigata Salerno, 6 della Brigata Arno, 6 della Brigata Elba, 6 della Brigata Firenze. Bersaglieri Btg. di 2° linea: 6 della IV Brigata Bersaglieri. Le unità del VII corpo d’Armata. schierate sulla 3° Linea in corrispondenza della sal- 10 11 ne proposta: inviarono invece il generale Krafft von Dellmensingen a fare una gita (così la chiamò lui stesso) sull’Isonzo per verificare la possibilità di un’offensiva efficace. Il generale, esperto della guerra in montagna,9 condusse a termine la sua missione tra il 2 e il 6 settembre concludendo laconicamente la sua spedizione con la frase «si può fare». Krafft riteneva l’impresa non facile, ma era comunque convinto che la resistenza italiana fosse superabile e che bisognava intervenire in considerazione «della seria situazione degli austriaci». Hinderburg approvò il piano contro l’Italia superando qualche perplessità da parte di Erich Ludendorff, Capo di stato maggiore generale dell’esercito, che preferiva attaccare in Moldavia. Fu deciso di costituire un’armata – la 14ª - composta da 7 divisioni germaniche, selezionate tra le migliori per la guerra in terreno montano con un corredo di artiglieria di tutto rilievo e 8 austro-ungariche anch’esse scelte tra le migliori. Al comando dell’Armata fu designato il prussiano Otto von Below, imposto dai tedeschi agli alleati che avevano un mente di affidare il comando al generale Alfred Krauss. Capo di Stato maggiore venne designato il generale Krafft von Dellmensingen. Il piano austriaco prevedeva un’azione dalla testa di ponte di Tolmino lungo lo Judrio sino a minacciare lo schieramento della 2ª armata italiana. La cosa non si presentava facile perché esisteva il concreto pericolo di un contrattacco sul fianco, qualora la rottura del fronte dalla parte di Plezzo non fosse stata completa. I comandanti austroungarici pensavano di aggirare la conca di Plezzo dalla parte del monte Nero, scendendo a Ternova e superando l’Isonzo. Von Below proponeva invece un obiettivo più vasto, assumendo come direttrice d’attacco la linea montuosa a destra del Natisone. L’inconveniente del piano derivava dal fatto che, facendo perno su Tolmino, la conversione che doveva compiere l’ala destra dello schieramento d’attacco si rivelava maggiore proprio quando il terreno diventava più montuoso e difficile. «Krafft – Scrive Piero Pieri – apportò ai progetti in discussione una modificazione geniale e per noi fatale: una mossa da Tolmino, lato nord, risalente l’Isonzo in modo da giungere più facilmente a Caporetto e alla stretta di Saga, senza attraversare il fiume, non solo, ma da infilare senz’altro la valle del Natisone all’ampia stretta di Staro Selo. In tal modo i due attacchi a Tolmino e a Plezzo, nella prima concezione alquanto slegati, venivano strettamente coordinati con un unico obiettivo, e la nostra ala sinistra presa in una terribile morsa».10 12 Il generale Luigi Cadorna col comandante del XXVII corpo d’Armata Pietro Badoglio. Da sinistra il generale Luigi Capello, comandante della 2a Armata e Pietro Badoglio 13 E tra Plezzo e Tolmino si aprì una voragine… Il corso dell’Isonzo era controllato dagli italiani dalla conca di Plezzo, dove il fiume sbocca dalle montagne fino al mare, con l’esclusione della testa di ponte trincerata di Tolmino che aveva resistito a tutti gli attacchi dell’agosto 1917. «Tra Plezzo e Tolmino c’è un triangolo sbilenco, di cui due lati sono formati dall’Isonzo, che scorre prima per 8 chilometri da Plezzo verso sudovest fino alla stretta di Saga (da cui si può arrivare al bacino del Tagliamento), poi piega verso sud-est verso Tolmino, passando per la cittadina di Caporetto (30 chilometri). L’altro lato del triangolo è l’alta catena nord-sud da Plezzo a Tolmino, con il monte Nero e il Merzli (circa 25 chilometri in linea d’aria)».11 La linea del fronte seguiva la catena montuosa da Plezzo a Tolmino e poi superava l’Isonzo con l’altopiano della Bainsizza e il Carso. Sul primo tratto era schierato il IV corpo al comando del generale Alberto Cavaciocchi (56 battaglioni e 450 pezzi di artiglieria). A Tolmino, di fronte alla testa di ponte austriaca la 19ª divisione del XXVII corpo di Badoglio.12 Alle spalle dei due corpi in prima linea il VII corpo comandato dal generale Luigi Bongiovanni.13 Dietro questo corpo,14 quasi più nulla fino a Udine, sede del Comando supremo le cui riserve erano dislocate verso Palmanova tutte orientate alla Bainsizza così come la maggioranza delle forze italiane. In merito alla disposizione delle truppe sul terreno, il generale Bencivenga scrive: « Alla sera del 23 ottobre, lo schieramento delle nostre forze tradiva la sorpresa strategia nella quale era caduto il Comando supremo. Lo schieramento infatti, non rispondeva a nessun disegno da parte nostra, né difensivo né controffensivo. Basterebbe il semplice rilievo che la densità delle forze sulla fronte Giulia andava crescendo da Plezzo al mare, cioè in ragione inversa della forza naturale delle posizioni e del loro apprestamento difensivo e nella ragguardevole proporzione di 1 a 4, per escludere che rispondesse alle esigenze di difesa Plezzo - Tolmino».15 Il fronte d’attacco scelto dall’armata Austro-Germanica presentava il tracciato di un saliente con il vertice al Monte Nero. Vertice del saliente giudicato forte, lati del saliente vulnerabili: di fatto lo sfondamento di uno dei lati del saliente avrebbe provocato l’aggiramento del vertice. I tratti più deboli del saliente erano indicati dalla natura del terreno, a nord in corrispondenza della stretta di Saga e del passo di Za Kraju; da est la breccia poteva essere individuata dalla valle dell’Isonzo da Tolmino a Caporetto. 14 L’attacco Nella notte del 24 ha inizio la preparazione d’artiglieria, con granate a gas, che durerà quattro ore e un tiro di distruzione, con grossi calibri, che proseguirà per sole due ore, - ma si rivelerà di una violenza e una di precisione devastanti.16 L’attacco nemico, Scrive Piero Pieri: «Al Rombon era respinto sanguinosamente, in conca di Plezzo, grazie a potenti emissione di gas, la prima linea era sfondata, e poscia anche la seconda, ma il nemico si fermava di fronte alla terza linea antistante alla stretta di Saga; nella zona fra Krasij e Vrsic, l’attacco era contenuto sulla linea di resistenza ad oltranza, e così pure al Monte Rosso, e di fronte al Mrzli era fermato dalle retrostante linea del Pleka. In complesso dunque la testa di ponte del Monte Nero aveva resistito tutta quanta. Ma in fondo valle e contro quasi tutte le posizioni davanti alla testa di ponte di Tolmino, dove l’attacco tedesco condotto da 4 grosse divisioni fu particolarmente violento, le difese degli esili reparti della 19ªdivisione, non sostenuti dal tiro della nostra artiglieria, venivano su larghi tratti travolte: il IV corpo era preso alle spalle, e il VII corpo in parte avviluppato, in parte ridotto ad agire con contrattacchi slegati, tardivi di fronte a un nemico molto superiore di numero, e che applicava con grande abilità la tattica dell’infiltrazione e dell’aggiramento, giungendo con mitragliatrici alle spalle dei nostri, provocando disordine e scoramento in truppe, stanche, nuove dei posti, non addestrata per nulla alla battaglia manovrata […]».17 La 12ª divisione Slesiana risale il fondo valle dell’Isonzo di corsa, passa in mezzo alle linee del XXVII Corpo senza che nessuno se ne avveda e, in perfetto orario sulla tabella di marcia preventivata, alle tre del pomeriggio le sue avanguardie sono alle prime case di Caporetto. Tutti sono colti di sorpresa e nel marasma che ne segue, il generale Farisoglio, comandante di una delle divisioni del IV Corpo viene catturato, unitamente al suo capo di Stato maggiore nell’abitato del piccolo paese mentre cerca di allontanarsi. All’inizio della battaglia Caporetto – posizione strategica del nostro schieramento – era difeso solo da due reggimenti a fronte dell’intera 34ª divisione che doveva esserci e invece non c’era. «Orbene – scrive Bencivenga – questi due reggimenti,18 quando già il nemico era da mezz’ora a Selisce, cioè a circa 4 chilometri un linea d’aria da Caporetto, sono mandati: uno a Saga, l’altro a guarnire la posizione del Volnik, la quale faceva sistema con quella del Monte Nero a protezione della conca della Drezenca». Qualcuno si accorse che a Caporetto non c’era rimasto nessuno e rimandò uno dei reggimenti indietro verso Selisce, lungo la sponda sinistra dell’Isonzo. Così, quando i tedeschi corsero verso Caporetto lungo la sponda destra del fiume, non c’era15 no reparti per tentare di sbarrargli il passo e poterono piombare sulle nostre posizioni di artiglieria schierata immediatamente a est di Idersko. Di fronte a Tolmino le cose non andarono meglio: dietro la 19ª del XXVII Corpo di Badoglio c’erano due brigate la Elba, del VII e la Puglie del XVII. Ognuno dei Comandi in questione dette ordini alle proprie unità senza coordinarsi con l’altro creando confusione e sovrapposizioni. Il VII Corpo poi, che nelle intenzioni del Comando supremo e della 2ª armata, avrebbe dovuto fungere da riserva tattica e tenere i collegamenti con i due corpi avanzati (VIII e XVII) mancò completamente tate compito per la lontananza di alcune unità e per uno schieramento giudicato semplicemente errato. L’abbandono della stretta di Saga Ad aggravare la situazione sulla sinistra della 2ª armata si aggiunse l’incredibile decisione di abbandonare la stretta di Saga. Un primo ordine di lasciare l’importante posizione fu dato intorno alle 16 dal comandante interinale dell’armata. «A quale criterio si ispirasse il generale Montuori, il quale per il comando che rivestiva doveva essere in grado di rendersi conto delle conseguente strategiche che sarebbero derivate da tale abbandono, non si riesce a comprendere. Per fortuna quest’ordine non arrivò a destinazione, ma più tardi, e cioè alle 18, fu il comandante della 50ª divisione, il generale Giovanni Arrighi, che di sua iniziativa diede l’ordine per l’abbandono della stretta di Saga e per il ripiegamento sulla fronte M.Guarda, Valle Uccea, Privi Hum, M.Stol. […] La stretta di Saga costituiva una delle porte più pericolose per noi […] la sua difesa doveva essere considerata alla stregua dei forti di sbarramento, i quali non possono essere abbandonati senza l’ordine esplicito del comando cui spetta la condotta delle operazioni». L’abbandono frettoloso, inspiegabile tatticamente, della stretta di Saga meravigliò lo stesso generale Krafft il quale osservò che per la difesa della stretta, formata da una gola rocciosa larga quanto la strada, sarebbero bastati un pugno di uomini e una sola mitragliatrice. Lo stesso generale tedesco non finiva di meravigliarsi. Ad esempio non riuscì mai a comprendere perché gli italiani, alla vigilia dell’attacco, non avessero abbandonato le posizioni più avanzate e vulnerabili.19 Il ritiro dalla stretta di Saga comportò la perdita di tutte le truppe del IV Corpo, che dopo la distruzione del ponte di Caporetto e di Serpenizza rimasero imbottigliate e senza via di fuga. Inoltre – come osserva Bencivenga - «aprì la porta al nemico per realizzare un grande successo in campo strategico».20 16 L’attacco inizia alle 2 del mattino del 24 ottobre. Epicentro dell’azione è il paese di Caporetto. 1: Tolmino: le truppe tedesche seguono il corso dell’Isonzo. L’artiglieria italiana non apre il fuoco e nessuno difende la strada del fondovalle che porta diritta a Caporetto. In poche ore la 12 divisione slesiana conquista il paese. 2: Plezzo. Il primo corpo d’Armata del generale Krauss scende attraverso la valle dell’Isonzo e supera la stretta di Saga. Non gli sarà facile riuscirvi. Il IV corpo d’Armata di Cavaciocchi si difende infatti per gran parte della giornata in modo accanito. Alle ore 15 del 24, nonostante i tedeschi abbiano già raggiunto Caporetto, la linea di difesa a oltranza del IV corpo è, di fatto, ancora intatta. Le truppe di Krass non riescono a passare. Tra le 15 e le 18 però accade un fatto incredibile: la difesa crolla e non per opera del nemico. Senza consultare il loro diretto superiore, i generali Arrighi e Farisoglio,comandanti rispettivamente della 50 e della 43 divisione, ordinano alle loro forze di ritirarsi. Le truppe di Krauss, nelle prime ore del 25, superano la stretta di Saga senza sparare un colpo. 17 La gravità della situazione non viene compresa… A Udine – sede del Comando di Cadorna - occorrono delle ore perché ci si renda conto della realtà che si stava delineando sul campo. Il colonnello Gatti - aggregato al comando supremo in qualità di storico - nella pagina del suo diario del 24 scrive che alle 18 (quando i tedeschi erano a Caporetto dalle 15 e, di fatto, l’intero IV corpo d’armata era perduto) «Sua Eccellenza Cadorna», uscendo per poco dal suo ufficio, lo chiama. Il generalissimo «è tranquillo, sorridente» e, tra l’altro gli dice: «[…] non sappiamo, con sicurezza dove sono i nemici. Quindi non possiamo nemmeno inferire che cosa possano fare». Tuttavia – scrive Gatti - «È indiscutibile, che alle 18, il generale Cadorna ha il pensiero diviso fra queste due possibilità: che il nemico faccia un “bluff” davanti a Tolmino, e attacchi in un altro punto, per esempio nel Carso, e che il nemico faccia sul serio davanti a Tolmino. Non è ben convinto che si possa attaccare da Tolmino a Caporetto. “Ci sono tre catene in mano nostra, dice: come fa [l’avversario] a sboccare, sotto il tiro delle nostre artiglierie? Per esempio pigliamo la conca di Tolmino: come fa ad andare contro la formidabile posizione nostra[…] se le nostre artiglierie dominano strade di Volzana e dell’Isonzo?». Il colonnello, tranquillizzato dal suo Capo che nulla di grave poteva avvenire in quel che restava del giorno fatidico, subito dopo cena, va a divertirsi: «…niente di nuovo – annota sul suo diario – vado al cinematografo». Gatti torna al Comando intorno alle 22 e lo trova illuminato a giorno e in gran fermento. Ci sono tutti, il vice di Cadorna generale Porro e i vari colonnelli della segreteria in piena agitazione. Si avvicina con un certo timore a Porro e chiede come vanno le cose. Porro, in linea con il ferreo ottimismo del suo capo, risponde: «non benissimo». Poi gli snocciola i dati conosciuti della situazione. Altro che «non benissimo»... Non ci sono notizie della 43ª e 50ª divisione del IV Corpo d’armata, è ormai certa la perdita del Monte Piatto, dello Jeza e del Globocak. Si contano forse 20.000 prigionieri e tutti i cannoni perduti. […] Scrive Gatti sbalordito dalle notizie: «Guardo in faccia tutti. Il nemico, approfittando della nebbia, ha fatto fare ad alcuni suoi reparti 22 chilometri, per monti difficilissimi. I nostri se li son visti arrivare alle spalle. Il IV Corpo non ha resistito neanche un minuto. Il XXVII è stato anch’esso superato subito alla sinistra. Anzi, il IV Corpo accusa il XXVII di aver permesso all’avversario di filare dai ponti di Tolmino, per costone fino a Luico e Idersko, in modo da essere sulla destra dell’Isonzo, e alle spalle dei nostri.[…] Il capo ha detto che ritirerebbe tutto sul Tagliamento. La cosa è mostruosa e inconcepibile».21 18 Ripensamenti ed errate valutazioni Dunque, già dalla sera del 24 i giochi sembravano fatti. Il Comando supremo ha mobilitato quasi ogni riserva disponibile. Il giorno dopo il Comando della 2ª armata getta tutte le truppe che erano rimaste in inutili tentativi. La situazione è ormai compromessa e già definita, le sorti della battaglia decise. Cadorna aveva previsto già alla sera del 24 la necessità di ritirarsi dietro il Tagliamento, ordinando alle due armate 2ª e 3ª, di predisporre per la rimessa in efficienza di quella linea. Non si era ormai più in grado di tamponare la falla creatasi per la rottura del fronte, né si poteva pensare che truppe battute, avvilite, distrutte, sulle quali lo stesso Cadorna aveva espresso giudizi taglienti, potessero arginare il dilagare del nemico. Il generale sembra convincersi della ineluttabilità della manovra in ritirata e ordina alla 3ª armata - poco coinvolta nei combattimenti e dunque quasi intatta, di trasferire subito sul Piave le artiglierie di grosso calibro meno mobili e quindi d’intralcio durante il ripiegamento. Poco dopo aver preso tale decisione, che sembrava oggettivamente inevitabile22 il generalissimo cambia idea23 optando per la difesa ad oltranza. Perché? Dal diario del colonnello Gatti traspare con chiarezza che l’ipotesi di una ritirata dietro il Tagliamento è vista, nella cerchia del comando supremo, come una immane tragedia. Dopo aver combattuto, con risultati alterni, undici battaglie sull’Isonzo costate centinaia di migliaia di uomini, aver conquistato il S.Michele, Gorizia, il Sabotino e la Bainsizza e proprio quando sembrava che con un altro sforzo gli italiani sarebbero giunti a Lubjana, l’abbandono di tutto doveva sembrava una bestemmia. Cadorna, nel mutare le proprie decisioni e tentare la difesa ad oltranza, può essere stato condizionato psicologicamente dall’umore che percepiva tra i suoi collaboratori. Il comandate supremo cerca allora conferme sentendo il sostituto di Capello generale Montuori24 il quale avalla senza riserve il pensiero del capo sulla possibilità di resistere con il solo abbandono dell’altopiano della Bainsizza. Dunque è deciso: resistenza ad oltranza sulla linea Montemaggiore-Korada «fino all’ultimo uomo» tuona il generalissimo. Questo è il nuovo verbo: tutte le riserve disponibili sono gettate nella fornace. La riserva è per definizione un’aliquota di forza a disposizione di un comandante da utilizzare per contrastare azioni di sorpresa da parte del nemico. «L’insieme di tali forze viene anche detto forze libere, poiché sono svincolate da precisi compiti». Ma tali forze devono essere alla mano, ossia impiegabili immediatamente in caso di bisogno e tutte, non a spizzico come invece avvenne. Abbiamo già accennato al VII Corpo che era una riserva 19 solo nella testa di Cadorna. C’è da chiedersi se il generale abbia mai valutato seriamente le reali capacità di intervento di quel Corpo d’armata che, all’inizio della battaglia, si trovava ancora in fase di costituzione. Ad esso «mancava l’attributo essenziale d’una riserva, ossia la mobilità».26 Le riserve della mastodontica 2ª armata, erano sottostimate nel caso di una battaglia difensiva.27 Ma il vero problema stava nel fatto che le unità erano tutte orientate alla conca di Gorizia e alla Bainsizza e a protezione degli sbocchi a sud della testa di ponte di Tolmino e non invece alla sinistra dell’armata, già debole di per sé. L’ordine di battaglia della 2ª armata dimostra il sovradimensionamento organico dell’unità. Troppo grossa - al limite della governabilità - guarniva un arco di fronte eccessivamente ampio. L’armata è definita unità complessa in grado di condurre autonomamente una battaglia offensiva o difensiva, ma è pur sempre un comando tattico che deve essere in grado di seguire - senza interventi esterni – tutti gli avvenimenti che accadono sull’arco di fronte che presidia e di provvedere immediatamente. Era in grado di fare questo la elefantiaca armata di Capello? Gli avvenimenti hanno dimostrato che non lo era. Secondo molti storici la smisurata grandezza della 2ª armata è una delle cause della scarsa reazione dopo l’attacco del 24 ottobre. Il settore di fronte tenuto da Capello avrebbe dovuto consigliare la divisione in tre parti: un’armata tra Plezzo e Tolmino, un’altra sull’altopiano della Bainsizza, la terza a difesa di Gorizia.28 Durante lo svolgimento della battaglia fu avvertito il bisogno di dividere la grande unità in tre comandi: l’ala sinistra, il centro e l’ala destra.29 Scrive il Pieri sulla dislocazione delle riserve: «Dunque riserve d’armata non rispondenti né per forza né per dislocazione alle esigenze della difesa dal punto di vista tattico, e un comando d’armata troppo lontano e oberato, per poter avere l’esatta e tempestiva sensazione del loro impiego. Non meno, e forse più inadeguate le riserve del Comando supremo. Non già venti o ventidue divisioni, ma otto o nove, oltre una sulla fronte trentina (114 battaglioni in tutto). Non solo, ma le riserve erano dislocate in due nuclei, fra Cividale e Cormons l’uno, presso Palmanova l’altro, ossia troppo a sud e troppo vicino alle prime linee. Il che è quanto dire, non utili in campo strategico. Così che la disposizione delle riserve del Comando supremo non valeva per nulla a correggere la cattiva dislocazione di quelle della 2ª armata. Esse inoltre erano per lo più inquadrate in brigate, e non in divisioni e Corpi d’armata, ed eran formate […] dalle brigate logore, mandate nelle retrovie per ricostituirsi».30 20 21 La ritirata Quando Cadorna ordina la resistenza fino all’ultimo uomo sulla linea Montemaggiore-Korada era ormai troppo tardi. Quella linea stava per essere aggirata. Alla sera del 26 le truppe (poche) appena giunte sgomberarono in fretta.31 Fu solo nell’apprende questa notizia che Cadorna decise la ritirata al Tagliamento. Tra un ordine, un contrordine, un ripensamento si sono perse 36 ore. Già nel pomeriggio del 27 le avanguardie nemiche occupano Cividale scendendo per la strada principale del Pulfero. Nelle stesse ore il Comando supremo lascia Udine e si trasferisce direttamente a Treviso, non dietro il Tagliamento, come sarebbe stato logico per coordinare l’afflusso dell’esercito in ripiegamento. L’ordine di ritirata assegna i ponti della Delizia alla 3ª armata, ponti fino allora a disposizione della 2ª. Tale decisione costringe le truppe che erano state più provate dai combattimenti ad una marcia obliqua nella pianura friulana con il pericolo di essere attaccati sul fianco. Inoltre Montuori decide di usare i corpi della Bainsizza per proteggere il fianco della 3ª che sta abbandonando il Carso. Decisione discutibile in quanto a questo scopo erano già schierati i reparti superstiti del dell’VIII corpo per cui – scrive Pieri - «quattro corpi della 2ª armata venivano così trattenuti per garantire il deflusso di altrettanti Corpi formanti la 3ª armata». Insomma un fiancheggiamento del fiancheggiamento. Ma Cadorna, ritenendo ormai la 2ª armata in sfacelo concentra tutta l’attenzione al salvataggio della 3ª la quale già il 28 mattina si trova tutta sulla destra dell’Isonzo. Nelle stesse ore la linea di retroguardia sul Torre è sfondata e in breve i tedeschi giungono a Udine. A quel punto i tre Corpi della 2ª rischiano di essere tagliati fuori. Il generale Montuori, anziché aggregarli alla 3ª per passare il Tagliamento sugli stessi suoi ponti, prescrive il ripiegamento «ad arco intorno alla breccia per rinsaldare i monconi» ossia una marcia nella pianura friulana in direzione nord-ovest fino a Pinzano con il fianco minacciato dal nemico. Dopo un certo tempo Montuori si convince dell’errore e chiede al Comando supremo a Treviso di consentire il passaggio dei tre Corpi sui ponti di Codroipo. Da Treviso viene però il veto: «È di supremo interesse condurre in salvo almeno la terza Armata che si conserva salda ed efficiente!». Nella confusione generale si inserisce l’episodio dei ponti di Codroipo difesi da un velo di truppe dei resti dell’VIII Corpo. Le avanguardie nemiche, già alla sera del 29 sono al Tagliamento. Il fiume non è guadabile a causa della piena, allora scendono sulla sponda sinistra aggirando, con la solita tattica, la difesa dei ponti. Questa situazione costringe in fretta e furia a far brillare le mine già predisposte. 22 Alle 13 del 30, quando con un gran boato saltano i ponti, interi Corpi d’armata sono ancora sulla sinistra del fiume. Il nemico cattura un gran numero di prigionieri e ingente bottino. Scrive il Pieri: «il ritardo di trentasei ore nell’ordine di ritirata generale e la rinuncia da parte del Comando supremo a guidare con mano ferma il ripiegamento dietro il Tagliamento[…] facevano sì che la rotta contenibile dapprima in limiti relativamente modesti, assumesse l’aspetto di un vero disastro, che il numero dei prigionieri salisse a cifre impressionanti e le perdite di materiali divenissero gigantesche» In pratica l’efficienza operativa del nostro esercito risultò quasi dimezzata. Tragici errori Il successo e la rottura del fronte dell’armata di von Below tra Plezzo e Tolmino non era, di per sé, un fatto irreparabile. L’attaccante ha il vantaggio di scegliere il punto e l’ora dell’attacco, di impiegare uomini e mezzi in misura tale da surclassare e sorprendere il difensore: se gli stati maggiori pianificano l’azione seriamente la probabilità del successo iniziale dell’attacco è molto alta. Sta a chi si difende preparare le misure per contenere i danni dell’attacco e porvi rimedio. In una guerra di posizione, con linee continue, ciò è possibile predisponendo un tipo di difesa «elastica» con linee difensive predisposte e collegate fra di loro e un uso sapiente e oculato dello schieramento e dell’impiego delle riserve. Cosa che a Caporetto non è avvenuta. Ma come abbiamo visto – i danni maggiori di quell’attacco si verificarono per evidenti errori di analisi di chi aveva la responsabilità del comando, a cominciare naturalmente dall’alto, ossia da Cadorna e da Capello, non dimenticando naturalmente Badoglio. Troppi gli sbagli commessi: la fuga incontrollata ai ponti del Tagliamento con la perdita di interi Corpi d’armata rimasti in mano al nemico, le due belle divisioni della Carnia lasciate isolate e dunque perse, il doloroso sacrificio della brigata «Bologna» che schierata a difesa dei ponti a Ragogna, se li vide saltare sotto il naso e non rimase a quei valorosi che la resa; l’ordine di ripiegamento dato troppo tardi alle truppe del Cadore che consentì all’allora tenente Rommel di catturare oltre 10.000 prigionieri mentre nessuno aveva pensato di difendere seriamente la Valcellina e il Vajont. A tutto questo si aggiunga l’astio dimostrato nei confronti di coloro che più avevano subìto in quei giorni, ovvero i Corpi superstiti dell’armata di Capello, che si vollero «punire» impedendo loro di servirsi della più agevole via di ritirata costituita dai ponti di Codroipo, assegnati invece alla 3a armata del duca D’Aosta. Infine, il repentino trasferimento – 23 che aveva quasi l’aria di una fuga - del Comando supremo prima a Treviso e poi a Padova, troppo lontano dai fatti per rendersi conto di quanto stava accadendo in Friuli e maturare giuste decisioni. Tutti questi sono ottimi motivi per dare un giudizio negativo sull’operato dei vertici dell’esercito, pur non dimenticando che la situazione, in quei drammatici frangenti era oggettivamente difficile. Le ultime ruote del carro… Ma i soldati? Che c’entravano i soldati? Perché tentare di attribuire loro responsabilità che erano invece di altri? Dopo la tragedia di Caporetto chi sta in alto pensa di potersi liberare delle proprie colpe scaricandole sulle ultime ruote del carro. Si parla allora di tradimento, di reparti arresisi vilmente e senza combattere, di sciopero militare… Scrive in proposito Giorgio Rochat: «Per lungo tempo non ci sono informazioni su cosa succede davvero tra Caporetto e il Piave, ma soltanto i Bollettini di Cadorna (di cui possiamo misurare l'assoluta inattendibilità) e resoconti giornalistici parziali e censurati. La prima ricostruzione della battaglia è fornita dal Comando supremo alla fine della primavera del 1919 e viene subito sommersa dalle accuse e polemiche che si scatenano al momento dell'abolizione della censura (governo Nitti). Seguono l'inchiesta su Caporetto, le accuse dei reduci, le aspre polemiche tra generali, le campagne giornalistiche eccetera. Insomma, dal 1917 al dopoguerra, finché il tema brucia, ognuno può credere quello che vuole, peggio di quanto ha autorevolmente detto Cadorna è impossibile. I Bollettini infamanti di Cadorna sono una mossa politica. Fino a Caporetto Cadorna non aveva dimostrato molta stima dei suoi soldati, aveva sempre richiesto una disciplina più dura (invece di preoccuparsi della propaganda e delle condizioni di vita in trincea), senza però arrivare a dare loro la colpa degli insuccessi. Il suo nemico era il governo, il disfattismo, i moderati. Le dimensioni della sconfitta richiedono una ricerca di responsabilità più drammatizzata e politicamente più spendibile, e Cadorna non esita a denunciare i suoi soldati come colpevoli del disastro.32 Quelle trentasei ore perse annullarono anche la possibilità della resistenza su Tagliamento. La corsa iniziata a Caporetto, drammatica e disordinata al punto da essere considerata una vera e propria disfatta di quelle che raramente consentono di risollevarsi avrà termine, come per miracolo, dietro il Piave, il Grappa e l'altopiano di Asiago. 24 25 Note 1 Bencivenga, Roberto, La sorpresa strategica di Caporetto, Appendice al «Saggio critico sulla nostra guerra», Udine, 1997. 2 Ibidem, pag.15. 3 Le perdite subite dall'esercito italiano nel coso dei dodici giorni dell'11ª battaglia dell'Isonzo furono: morti circa 19.000; feriti oltre 89.000; dispersi (tra i dispersi vanno considerati: morti per tiri di artiglieria e comunque i corpi non ritrovati subito dopo la battaglia, i prigionieri catturati dal nemico e anche gli eventuali disertori) 35.000 circa. Gli austro-ungarici persero circa 85.000 uomini tra morti, feriti e dispersi. In totale i due eserciti contrapposti persero quasi 230.000 uomini. La notevole differenza nella perdita subita dai i due eserciti conferma l'assunto che l'attaccante - in una battaglia frontale - lascia sul campo quasi il doppio degli uomini di chi difende. Caporetto, per la particolarità dello svolgimento degli avvenimenti, fu una eccezione. 4 In una informativa del 14 settembre veniva scritto che la Germania e l'Austria avevano il grosso delle loro forze verso la frontiera Svizzera. Secondo gli informatori tale fatto poteva indicare l'intenzione di nascondere dei movimenti di truppe fuori del normale. 5 Le informazioni provenivano da un allievo ufficiale di nazionalità Serba, di sentimenti antiaustriaci, catturato la sera del 9. L'uomo riferì che a Bischoflack vi erano numerosi comandi e truppe tedesche presenti sin dal 18 settembre che lavorano alla costruzione di linee ferrate normali e a scartamento ridotto (Decauville). Grandi quantitativi di uomini e treni carchi di materiali e munizioni erano presenti nelle stazioni della linea Assling-Grahovo. 6 Nella nota 5 si è evidenziato lo sforzo che i tedeschi stavano compiendo per potenziare le linee ferroviarie verso Tolmino. Tale sforzo, una volta portato a termine, avrebbe consentito un veloce trasferimento al fronte di uomini e mezzi . 7 L'ufficiale riferisce che l'offensiva doveva già essere in corso, ma fu rimandata al 26 a causa del maltempo. 8 Bencivenga, Roberto, La sorpresa strategica di Caporetto, op. cit., pag.32 9 Nel 1915 il generale Krafft, ufficiale d'artiglieria, era stato inviato sul fronte delle Dolomiti anche se la Germania non era ancora in guerra con l'Italia. Egli era considerato il maggior esperto dell'esercito tedesco per la guerra in montagna. 10 Pieri, Piero, L'Italia nella prima Guerra mondiale, Torino, 1965, p.141. 11 Isnenghi, Mario - Rochat, Giorgio, La Grande Guerra 1914 - 1918, Firenze, 2000, p. 374. 12 Le altre 3 divisioni del XXVII erano sulla sinistra dell' Isonzo. 13 Il VII corpo, non ancora organicamente ben definito, al 24 ottobre era composto da una trentina di smilzi battaglioni senza artiglieria. 14 Le scarse e disomogenee unità che presidiavano le retrovie non avevano apprestamenti difensivi. Erano praticamente accampate «perché il loro compito era di alimentare il combattimento sulla linea del fronte» (Rochat) e non predisposti alla difesa. 15 L'affermazione del Bencivenga circa lo schieramento italiano giudicato non adatto alla controffensiva non trova conferma in diversi storici come Pieri, Caviglia, Rochat e altri. La stessa relazione ufficiale italiana ritiene lo schieramento italiano predisposto alla controffensiva. E' per questo motivo che il grosso dell'armata di Capello, comprese le 3 divisioni del corpo di Badoglio gravitavano verso la Bainsizza. 16 L'artiglieria germanica, contrariamente alla nostra, ma anche a quella austriaca, non face- 26 va tiri di aggiustamento nei giorni precedenti l'attacco. Veniva sparata una sola granata fumogena sull'obiettivo prestabilito, gli osservatori valutavano il risultato e, a tavolino, si correggevano i dati di tiro. Prima dell'inizio del fuoco i dati venivano ancora corretti tenendo conto, della velocità del vento, della vivacità delle polveri e di quant'altro fosse necessario. Da ciò l'estrema precisione ed efficacia dei tiri. Nella lunga esperienza della guerra italo-austriaca i fanti drizzavano gli orecchi quando i tiri di aggiustamento del nemico si facevano più frequenti, era il segno che presto ci sarebbe stato un attacco. Vittorio Emanuele, che aveva il suo quartiere generale a Udine, poco distante dal comando Supremo girava da un posto all'altro del fronte, armato di binocolo e macchina fotografica, per valutare i tiri di aggiustamento dell'artiglieria: e telefonare le sue impressioni a Cadorna. 17 Pieri, Piero, L'Italia nella prima Guerra mondiale, op. cit. p. 156. 18 Erano della brigata «Foggia» che era formata da tre reggimenti anziché da due come la generalità delle brigate di fanteria dell'esercito Italiano. 19 Krafft Von Dellmensingen, Der Durchbruc am Isonzo, Berlino 1929. Ed italiana, 1917 Lo sfondamento dell'Isonzo a cura di Gianni Pieropan, Milano 1981. 20 Bencivenga, Roberto, La sorpresa strategica di Caporetto, op.cit. pag.82. 21 Gatti, Angelo. Caporetto, dal diario di guerra inedito, a cura di Alberto Monticone, Bologna 1964. Il Diario di Gatti è stato recentemente ripubblicato, sempre dalla casa editrice Il Mulino di Bologna. Si noti come il Comando supremo, fin dal primo giorno, attribuisca la responsabilità maggiore dell'accaduto al IV Corpo che «non ha resistito neanche un minuto», mentre al XXVII di Badoglio, solo le accuse riferite dal generale Cavaciocchi, comandante del IV, senza commento. 22 Lo stesso Capello al mattino del 25, prima di lasciare il Comando per essere ricoverato all'ospedale di Padova, aveva consigliato a Cadorna, prima verbalmente poi per iscritto, di ritirarsi sul Tagliamento per sottrarsi «allo stretto contatto e alla pressione nemica sotto la protezione d'una strenua difesa di retroguardie». 23 Lo stesso giovane aspirante Acquaviva - nel diario che segue - apprende la decisione del ripiegamento come qualcosa di inaudito, da stentare a credere. 24 Montuori era il vice di Capello quando assume il comando della 2^ armata ad interim. È singolare che Montuori accetti e condivida la retromarcia di Cadorna circa la ritirata al Tagliamento quando verosimilmente, poche ore prima, aveva condiviso con Capello l'ipotesi contraria. 25 Busetto, R. Il Dizionario Militare, Bologna, 2004. 26 Pieri, Piero. La Prima Guerra Mondiale 1914 -1918, Problemi di Storia Militare, Roma, 1987, p. 261. (La prima edizione fu pubblicata a Torino nel 1947) dalla facoltà di Magistero dell'università. 27 Un quinto della forza anziché la metà. La sottostima delle riserve tenute alla mano dal comando dell'armata di Capello conferma l'ipotesi che non si prevedeva un attacco di quelle proporzione sull'ala sinistra. 28 Pieri, Piero, La prima Guerra…, op. cit. p. 261. 29 I termini ala sinistra, centro ecc. hanno un richiamo vagamente calcistico. Sarebbe interessante verificare quale delle due discipline ha copiato l'altra: la scienza militare o il calcio? 30 Pieri, Piero, La prima Guerra…, op. cit.. La lezione di Caporetto circa la costituzione delle forze di riserva servì da lezione. Infatti nelle due successive battaglie d'arresto su Piave e su Grappa, in particolare nella battaglia del solstizio. Le riserve furono costituite da gran- 27 di unità omogenee. 31 Sulla caduta di Montemaggiore il Pieri registra il parere espresso dallo storico militare Viktor Schemfil, allora comandante del battaglione di Kaiser-jäger che ne occupò la cima, il quale asserisce che il ritiro delle nostre truppe fu troppo frettoloso e che la situazione non era compromessa per gli italiani. 32 Rochat, Giorgio, Ufficiali e soldati - L'esercito italiano dalla prima alla seconda guerra mondiale, Udine, 2000, pp. 61-62. Il testo fa riferimento agli Atti del convegno internazionale svoltosi a Kobarid (Caporetto) il 25 ottobre 1997. 28 Ottobre 1917 Come e perché arrivai la sera del 14 ottobre 1917 a Pec'1, è inutile dire. Il perché è saputo, il come è raccontato in due lettere scritte a mio cugino Sandro Postolis. In ogni modo, riassumendo brevemente il viaggio dirò che partii alla mezzanotte del giorno dieci da Napoli. Mi fermai la giornata a Roma aspettando il direttissimo della sera per Udine. Da qui andai a Cormons poi a Cervignano, quindi a Palmanova dove finalmente mi seppero dire dove si trovava il 47° da campagna: il quindici mattina venivo destinato alla 6a batteria ed una guida mi ci accompagnava.2 Quivi il capitano Mazzarella mi offriva il caffè del benvenuto alle ore nove di mattina. La 6a batteria, formata da quattro cannoni da 75 Krupp modello 19063 era situata poco avanti ed a destra di Pec, sulla destra del Vipacco, e da quel punto si vedeva ancora a destra quasi alle spalle, il Nad Loghem, poi procedendo in avanti il Volkoniak col suo trincerone a Z e col Tamburo, più avanti ancora il dosso Faiti nostro ed il Faiti Hrib loro. Avanti ancora, poi le quote 149 nord, 96, 94 e 149 sud. Poi, lontane, quote di cui non si era ancora cominciato a parlare. Insieme alla batteria c'era pure il comando del 2° gruppo, composto dal capitano Biemonte, dal tenente Marinaro e dal tenente Negretti. Gli ufficiali della batteria erano il capitano Mazzarella, i sottotenenti Peratoner e Morabito e gli aspiranti Curcio col sottoscritto. Il primo inconveniente appena giunto in batteria fu la mancanza di una branda per potervi riposare. Io vi ero giunto convinto di trovarne, ed invece mi sentii dire che quella era una cosa alla quale avrei dovuto pensare io. Raccapricciai all'idea di dover dormire per terra, ma per fortuna riuscii a far saltar fuori una branda molto rudimentale che si portò, quando fu l'ora di dormire, alla baracca che fungeva da sala da pranzo. A Pec' c'erano una quindicina di baracche di legno, tutte defilate alla vista ed al tuo venire situate in una località chiamata Valloncello. I pezzi erano mascherati da frasche ed anzi cosi bene che mai furono scoperti. Se arrivò qualche colpo nelle vicinanze furono colpi corti inviati alla batteria inglese situata dietro di noi. Di questi pezzi di medio calibro conserverò sempre curio29 so ricordo a causa dei disegni rotondi fatti a colori gialli, rossi e bleu mischiati insieme. La batteria era completa di serventi, operai e tutto. Qualunque cosa occorresse c'era un operaio capace di farla, era realmente una batteria, come suol dirsi, in gamba. C'erano pure sarti e calzolai che lavoravano sempre per conto di ufficiali e soldati. Nei primi giorni dormii nella sala da pranzo, il che fu abbastanza noioso, perché occorreva aspettare che il capitano finisse più di una partita a scacchi col suo avversario favorito, il tenente Marinaro. Ma erano due principianti e ne facevano di tutti i colori. Ricordo anzi che una sera il capitano voleva rispondere ad uno scacco al re dando scacco al re avversario. E fin verso le undici si prolungava il gioco. Per fortuna però dopo due giorni, essendosi fatto in batteria un posto libero, presi il posto di questo ufficiale nel baracchino in cui già riposava l'aspirante Negretti. Questo era un bel baracchino, ben difeso contro la pioggia e contro le eventuali schegge di qualche granata nemica; vi era un tavolino per scrivere, una sedia di paglia comodissima, trovata chissà dove, un piccolo tabouret con scatole di burro, miele, marmellata, the, ecc. Ogni giorno c'era «five o clock» fra noi due.4 La parete di fondo era coperta da un gran tricolore e le laterali da trofei nemici. C'erano fucili nemici, pinze, tagliafili, pugnali, un elmetto, cartucce di mitragliatrice, bombe a mano, tutta roba presa in prima linea. Poi c'era pure una mensoletta con libri e riviste. Intanto diedi l'incarico al ciclista che andava e veniva fra Pec' e Gradisca di comprarmi diverse cose, fra cui una branda da campo, un materassino, un cuscino, una coperta ed altre cosarelle. Ma l'Unione Militare5 per il momento non ne era provvista, di modo che prima di riceverle, occorse aspettare parecchio tempo, e riuscii ad averle pochi giorni prima che cominciasse la ritirata. Ma procediamo con ordine. Mi misi abbastanza rapidamente al corrente delle cose più importanti, e buscai pure diversi cicchetti per la mia incapacità. Ma capisco che i primi tempi debbono essere così. Una delle cose su cui il capitano si compiaceva, per cosi dire, a sfrocoliarmi era il mio grande appetito. In principio avevo preso il vizio di fare complimenti, ma ben presto capii che, come si dice, "le jeu n'en valait pas la chandelle", ragion per cui mi misi a 30 La piana di Gorizia vista dalla trincea italiana - Museo del Risorgimento di Treviso - San Grado di Merna in un olio su tela del pittore Luigi Zago 31 divorare a quattro palmenti. Ed ogni tanto il capitano si informava se io avessi sempre lo stesso appetito. Certo che quella vita all'aria aperta mi faceva bene Cominciai quindi a familiarizzarmi con le granate in arrivo ed in partenza, a riconoscerne dal fischio il calibro, conobbi le linee nostre e le linee nemiche, potei osservare diversi attacchi respinti subito dal nostro fuoco di sbarramento Imparai a non chiudere gli occhi ed a tapparmi le orecchie allo scoppio dei colpi in partenza conobbi la febbre degli sbarramenti. Uno dei divertimenti della giornata era il cannoneggiamento degli aeroplani nemici che si spingevano ad esplorare sulle nostre linee, ed i duelli aerei. Conobbi l'ansia nel sentire i bossoli esplosi in aria cadere, e dai quali occorreva ripararsi, imparai le segnalazioni con i razzi ed il nome dei monti che ci interessavano. E dopo che ebbi fatto un po' di questa scuola, il ventiquattro mattina andai all'osservatorio numero 4. Con questo nome era indicata una casa già colpita da cannonate nostre e nemiche, ma oramai lasciata in pace. Solo sul tetto era stata aperta una feritoia, dietro la quale c'erano alcune assi su cui era una sedia. La casa era proprio sui bordo del Vipacco, un po' più indietro della batteria, e un po', più indietro di San Grado di Merna. Di li si poteva osservare bene tutto il tratto della linea nemica che ci interessava. Vi montavano di guardia due ufficiali, di solito aspiranti, a turno di una settimana, ed un tenente che cambiava ogni sera. Oltre sei uomini di cui due telefonisti e quattro guardafili. Montai la guardia però solamente una notte, perché fui preso da febbre di modo che dovetti tornare in batteria. Ma gli avvenimenti non mi permisero di stare molto a guardare il letto, perché il giorno seguente, il ventisei, gli austriaci iniziarono una forte azione dimostrativa che poi, dato il tradimento e la ritirata della 2a armata, si mutò in risolutiva.6 Già la notte dal venticinque al ventisei il nemico tentò di impadronirsi di sorpresa della nostra linea sul Volkoniak, ma appena salito il razzo matto che durante la notte era il segnale che chiedeva lo sbarramento, i nostri pezzi avevano aperto il solito fuoco temibile ed efficace. L'attacco durò più a lungo del solito, ma fu finalmente respinto. I1 47°compiva fino in fondo il suo dovere, mentre altri reggimenti macchinavano il tradimento e si 32 La confluenza dell’Isonzo con il Vipacco - Museo del Risorgimento di Treviso - In posa vicino a un cannone «Krupp» da 75 - Museo del Risorgimento di Treviso - 33 Caricamento del pezzo - Museo del Risorgimento di Treviso - Appostamento di artiglieria - Museo del Risorgimento di Treviso - 34 Scavo di una trincea nella roccia carsica con l’ausilio del martello pneumatico - Museo del Risorgimento di Treviso - 35 preparavano a colpire la vita di una intera nazione.7 La mattina del ventisei il bombardamento nemico cominciò furioso sul versante di destra del Faiti. Si udiva l'intero fuoco delle batterie avversarie, si vedeva salire il fumo delle esplosioni. Tre volte durante la giornata si rinnovavano gli attacchi sul Faiti, tre volte furono respinti. I pezzi funzionavano freneticamente, si consumò più di un migliaio di colpi. Ogni tanto si arrestava per qualche guasto un pezzo e si doveva ripararlo sotto il fuoco che oramai anche gli austriaci tiravano. Anche diversi 305 si mischiarono, ma per fortuna scoppiarono lontani, pur lasciando su di noi tutta la terra smossa dall'esplosione. I serventi si inebriavano, io stesso non capivo più niente e, vicino ad un pezzo, facevo da servente onde avere un fuoco rapido e preciso. E se il nemico avesse attaccato sul nostro fronte non sarebbe passato. Troppi reticolati, troppe trincee formidabili avevamo costruite e, soprattutto, la 3a armata era costituita da solidi soldati veterani del Carso, che lo avevano conquistato palmo a palmo bagnandolo col loro sangue. Il solo San Michele era costato morti su morti per gas asfissianti! Noi resistevamo, ma già il nemico aveva sfondato a Tolmino ed avanzava minacciandoci di aggiramento. Era inutile restare, e già i grossi8 e medi calibri avevano cominciato a ritirarsi, così la mattina del 27 solo l'artiglieria da campagna era rimasta in linea. E nella notte del 27 gli austriaci avevano tentato e con successo l'attacco al Faiti. Successo che però era costato loro molte perdite, che ancora funzionava lo sbarramento. Ricorderò sempre lo spettacolo di quella notte: i pezzi di tutte le batterie sparavano e sulla linea nemica si succedevano continuamente le fiammelle delle nostre esplosioni. La zona ne era quasi illuminata. Ma anche l'artiglieria nemica non taceva e batteva le nostre linee, interdiceva l'avvicinarsi dei rincalzi. Ricordo che una granata colpì in pieno una nostra riserva di razzi incendiandola, e fu un fuoco di artifizio colossale che si elevò nella notte e rischiarava la lotta. Razzi matti, a pioggia d'argento, tricolori, rossi, verdi e castagnole, a fumata, illuminanti, tutti scoppiavano dando uno spettacolo fantastico. Sembrava un fuoco di chiusura di una festa gigantesca. E poi scomparso questo fuoco ricomparvero le fiammelle a saltellare qua e là, per 36 Soldato italiano vittima del gas sul San Michele - Museo del Risorgimento di Treviso - 37 Due fanti con la maschera antigas a imbuto Camiciani-Pesci, pittoresca quanto poco efficacie - Museo del Risorgimento di Treviso 38 Fronte carsico. La didascalia vergata a mano dall’autore di questo scatto recita: «Macchina per fare i gas catturata agli austriaci» - Museo del Risorgimento di Treviso - 39 terra e per aria. Il frastuono delle esplosioni era intollerabile, il colpo dei proiettili in partenza riempiva la testa, si sentivano i proiettili fischiare in aria, continuamente, sulle nostre teste, ai nostri fianchi. Ma la fanteria aveva già ricevuto l'ordine della ritirata, ed abbandonò in mano al nemico la linea di trincee che essa occupava. E però i nostri pezzi continuavano a tirar raffiche sulla trincea occupata, in modo che il nemico, per non continuare a subir perdite grandissime, dovette rientrare nelle sue trincee, nei suoi ricoveri. Giunse il mattino del 27 ottobre. Niente ancora sapevamo dell'accerchiamento che cominciava, ma fiutavamo qualcosa di insolito ed eravamo inquieti. I pezzi sparavano, ma più calmi, tanto per impedire al nemico di avanzare troppo in fretta e di ricevere incalzi. L'alzo a poco a poco diminuiva. Non battevamo più a 52 ettometri, ma a 47, 46, 45, 30…. Alle quattordici il capitano fu chiamato al Comando di reggimento ed alle sedici tornò in batteria avvisando che bisognava abbandonare la posizione, che quindi ognuno preparasse la propria roba, le proprie cassette che sarebbero state caricate sul carro bagagli. Ordine di distruggere tutto ciò che non si sarebbe potuto portar via. I serventi ai pezzi preparassero l'affardellamento agli avantreni. I pezzi continuassero a sparare fino all'ultimo minuto in maniera da consumare la riserva di proiettili, e si levassero gli inneschi a quelli che non si sarebbero potuti sparare. Fu per tutti un colpo. Bisognava proprio ritirarsi? Il 47° doveva abbandonare la posizione? Dopo aver messo per primo i pezzi sul San Michele doveva ora abbandonare la difesa del Faiti? Ma che era successo? E dove si andava? A queste due ultime domande il capitano non volle rispondere.9 Erano stati dati gli ordini e bisognava eseguirli. Feci preparare le mie cassette e la mia roba all'attendente ed a colpi di piccone buttammo giù e rompemmo quel che bisognava lasciare. Preziosamente conservammo il tricolore che ornava il fondo del nostro baracchino. Povera bandiera! Doveva cadere pure lei in mano al nemico con tutto il bagaglio! Intanto cominciava a calar la notte e gli avantreni ancora non arrivavano. Il capitano era in pensiero, che avanti a noi non c'era più fanteria e gli austriaci avanzavano liberamente e potevano capitare da un momento all'altro. E già 40 quasi si stava decidendo a far saltare i pezzi quando arrivò il carro bagaglio ed i quattro avantreni per i quattro pezzi. Si caricarono in fretta e furia le cassette e quanto altro si poteva. I pezzi continuavano a sparare a 18 ettometri. Il primo fini di sparare, si attaccò e via. Poi il secondo, poi il terzo. Fino all'ultimo si fece fuoco. I primi tre già marciavano ed il quarto continuava. Finalmente anche quest'ultimo cessò il fuoco, fu attaccato e via. La posizione era abbandonata e la ritirata cominciava. Fu un momento terribile ed angoscioso per tutti ed ancora non immaginavamo la portata del disastro. Si credeva che si sarebbe trattato tutt'al più di una ritirata di pochi chilometri. Se si avesse saputo! Intanto mi avvicinai all'aspirante Curcio che veniva dal collegamento in prima linea col comando di brigata e gli domandai: - Si può sapere dove si va ? - In confidenza, non dirlo a nessuno per amor di Dio, pare che la cosa sia grave. - Che dici ? - Che la linea di difesa è al Tagliamento. Credetti di aver sentito male.10 - Vuoi dire, al più al più, all'Isonzo. - No, al Tagliamento. - Ma il Tagliamento è in Italia e c'è più di 100 chilometri. Diventi matto? Con tutte le posizioni che abbiamo? Solo a San Michele si può resistere come si vuole, e tu… - Sai che stiamo per essere accerchiati se non si scappa e presto ? - Ma che è successo, spiegati. - Gli austriaci hanno sfondato al di sopra. Pare per tradimento… E marciano su Udine, se già non vi sono. Tu sai com'è la nostra linea e vedi che bisogna arrivare al Tagliamento. Restai annichilito. No, non poteva essere vero! Ce ne andavamo cosi. Lasciare tutto quel suolo ormai sacro e redento? Era la fine dell'Italia? Perdere in poche ore quello che si era acquistato in tre anni di lotta, di sacrifici, di sangue... Si era arrivati cosi vicini alla meta, a Trieste, ed ora... Intanto avevamo passato Pec' ed eravamo nel Vallone. Il Vallone bruciava. Le baracche bruciavano. I depositi 41 bruciavano, le munizioni, cataste di munizioni scoppiavano. La fanteria scappava, buttava fucili, maschere, tascapani, zaini, tutto e scappava. Dove, dove andava? Le granate incendiarie nemiche illuminavano a tratti la strada cosi fortemente che pareva esser giorno. Era uno spettacolo fantastico, indescrivibile I cavalli trottavano, i serventi erano seduti sui pezzi. Io credevo di sognare. E dal Vallone ad un certo punto svoltammo e prendemmo la strada che saliva a Cotici. I cavalli cominciarono ad andare al passo, ad un certo punto si fermarono. Non potevano più andare avanti. Erano già stanchi per aver trasportato due giorni prima grossi calibri. Intanto urgeva salire. Non essendovi altro modo si staccavano le pariglie da un pezzo e si attaccavano all'altro. Cinque pariglie per pezzo. Così ad uno ad uno salirono i pezzi. Intanto i nemici sparavano giù nel Vallone. Una granata ammazzò un conducente, due cavalli e due serventi. Al tenente Negretti ammazzò il cavallo e lo feri al braccio, gli squarciò il petto forandogli un polmone e spostandogli il cuore. Non l'uccise. E dire che due giorni prima Negretti aveva rifiutato la licenza che gli era stata data per esami, per essere al suo posto. Lo misero in quello stato sul pezzo, e via. E quando fummo su a Cotici, portammo i pezzi giù in una dolina, li mettemmo in posizione e cominciammo a sparare su Pec' e su San Grado di Merna. Erano le ventitre. 42 Note 1 Si tratta del paese di Peci nel goriziano, frazione del comune di Savorgna. L’aspirante ufficiale Vincenzo Acquaviva Coppola è assegnato al 47° Reggimento artiglieria da campagna che col 45°, formava la coppia di reparti d’artiglieria della 31^ divisione, costituita dalle brigate Torino e Lecce. La divisione era al comando del magg. gen. Gandolfo che la sera del 25 ottobre sarebbe poi stato sostituito dal generale De Angelis. L’unità era inquadrata nell’XI Corpo della 3a Armata e schierata sul Carso. 3 I reggimenti di artiglieria da campagna erano armati con cannoni Krupp da 75 trainati da cavalli. 4 L’ora del the, secondo l’uso britannico. L’Unione militare era un’organizzazione commerciale patrocinata dall’esercito. Oltre allo smercio di vari generi di vestiario e di altro materiale, essa aveva l’esclusiva per la vendita di accessori militari ed anche di uniformi. La caratteristica dell’Unione militare riguardava il pagamento della merce che poteva essere rateizzato e trattenuto direttamente dallo stipendio. 6 In realtà l’attacco della 14a armata era iniziato la notte del 24 e, già sulla sera del 25, le sorti della battaglia erano decise. E’ singolare che il giovane aspirante non ne sapesse nulla, perchè XI corpo, di cui il suo reggimento faceva parte, era a contatto d’ala con il XXIV, l’ultimo della 2a aramata di Capello. Il riferimento al «tradimento e alla ritirata della 2a armata sembra essere stato aggiunto in seguito. 7 Anche in questo caso il riferimento a reggimenti che avevano «tradito la vita di un’intera nazione» è certamente frutto dei comunicati del Comando supremo sui «Reparti della 2a armata vilmente arresisi». 8 L’osservazione sul ritiro dei grossi calibri è riferita all’ordine del Comando supremo del 25. Le artiglierie dovevavno essere trasferite dietro il Piave. 9 Anche in questo caso nessuna notizia viene comunicata al giovane aspirante che ra pur sempre uno dei responsabili della batteria. Inizia la ritirata «ma dove si anadava»? Era nella mentalità dei comandi: la bassa forza meno sapeva e meglio era. 10 Quando Acquaviva finalmente conosce la destinazione della ritirata pronuncia: «credevo di aver capito male». La reazione del colonnello Angelo Gatti, nell’apprendere della decisione del ritiro sul Tagliamento è simele, cfr. pag 12. 2 43 44 Condizioni di vita in una trincea sul Carso - Museo del Risorgimento di Treviso - Batteria di un reggimento di artiglieria da campagna armata con cannoni «Krupp» da 75 - Museo del Risorgimento di Treviso - Fronte del Carso. Ripari per depositi di artiglieria - Museo del Risorgimento di Treviso_ 47 Il ponte sul Vipacco ormai distrutto - Museo del Risorgimento Treviso - 48 28 ottobre 1917: la ritirata di Caporetto All'una del 28 ottobre il capitano riceveva d'urgenza 1'ordine di ripartire e passare l'Isonzo, che gli austriaci erano nel Vallone e si accingevano a salire a Cotici. La nostra fanteria si era gia tutta ritirata, ed era inutile che noi restassimo in quella posizione. Ma quando si trattò di togliere i pezzi da quella dolina allora furono dolori I cavalli stanchi, non riposati, non vi riuscivano, malgrado i loro sforzi. Con cinque pariglie attaccate non si riusciva a sorpassare certi ostacoli. E fu d'uopo che gli stessi serventi aiutassero a forza di braccia il pezzo ad andare avanti. Era un grappolo umano attorno al cannone. Finalmente i pezzi furono incolonnati sulla strada, e via. Intanto era pure cominciato a pioviccicare. E da quel minuto, per tre giorni di seguito non ci lasciò, la pioggia, ora debole, ora dirotta, un minuto di requie. Piovve durante tutta la ritirata in continuazione, dal mattino alla sera, dalla sera al mattino, spietatamente. E se l'acqua da un lato ci aiutò impedendo agli aeroplani nemici di mitragliarci e bombardarci lungo la via, decuplicò per lo meno lo strapazzo. Da Cotici per giungere all'Isonzo la via è in discesa. I cavalli adesso non avevano altro compito che di aiutare i pezzi. Non faticavano più tanto e trottavano. E via e via e via. La strada si svolgeva come un nastro di fuoco. Questa è la parola giusta. Ogni baraccamento, ogni magazzino, ogni appostamento, qualunque cosa potesse bruciare, bruciava. Nel ritirarsi gli italiani distruggevano tutto ciò che non potevano lasciare per non abbandonarlo al nemico. E non vi era stato bisogno di ripetere la raccomandazione. Tutto bruciava. Ed andammo illuminati dagli incendi. La via scendeva, scendeva. I cavalli trottavano facilmente. I serventi seduti ai pezzi cercavano di proteggersi contro la pioggia. Io a cavallo non potevo fare altro che bagnarmi. Che cosa noiosa sentirsi l'acqua correre lungo il collo e le orecchie! Arrivammo cosi al ponte di Pec' sull'Isonzo. Era ancora intatto per ricevere i fuggiaschi, ma già eran pronte nelle travature le cartucce di gelatina che fra poco l'avrebbero fatto saltare. Il genio era pronto a darvi con i fili elettrici l'accensione al momento opportuno, ed altre cartucce disponevano affinché l'opera di distruzione 49 L’abitato di Caporetto nel 1916 durante il periodo di occupazione italiana - Servizi fotografici dell’Esercito Italiano - 51 fosse più completa e più difficile e maggiore perdita di tempo costasse al nemico la ricostruzione. Alcune mitragliatrici si tenevano pronte a funzionare contro qualche pattuglia più ardita o dotata di altri mezzi che avesse voluto avvicinarsi. Ed il nostro reggimento fu l'ultimo a passare, che nessuno più restava sull'opposta riva. Poche ore dopo - due o tre - anche il ponte di Pec' saltava. Da ponte di Pec' arrivammo a Gradisca e la traversammo frettolosamente. Già ne cominciava la distruzione. Proseguimmo e la colonna si fermò al bivio di Villanova. Qui il capitano con altri ufficiali si recò a Farra onde vedere se vi fosse altro da salvare e a indicare la via ai cassoni ed ai carri che forse li attendevano. Scesi da cavallo e cominciai a sgranchirmi le gambe, passeggiando lungo la colonna. Ma improvvisamente la pioggia aumentò di violenza. Cercai quindi un prossimo ricovero, ed opportunamente scorsi una casa vicino la quale la batteria si era fermata. Entrai nella stanza a pianterreno che mi si apriva davanti. Ma mi dovetti fermare sulla soglia, che era impossibile andare avanti. Buttati in terra, alla rinfusa, l'un sopra l'altro, in un groviglio indistricabile di braccia e gambe mi apparvero, alla luce di un cerino numerosi soldati di fanteria. Forse stanchi, dispersi, prostrati dal sonno, visto il luogo coperto ne avevano approfittato non pensando più al nemico incalzante. Nessun ufficiale era tra loro, o nel gruppo non se ne distinguevano. Ma non penso ce ne fossero! E li dormivano, impavidi, noncuranti. Li lasciai nella loro ignavia. Fui più fortunato in un'altra stanza, dove già avevan preso il rifugio altri ufficiali. Era una stalla ancora puzzolente per quanto vuota di animali e dalla paglia calda emanava un tanfo di bestia e di sporco. Ma altro non c'era e fu necessario accontentarsi. Non potendosi sedere in terra ci appoggiammo ai muri. Poi ci facemmo portare, per mezzo di alcuni soldati, delle pietre dalla strada e su quelle ci sedemmo. Un pezzetto di candela dava una scarsa luce oscillante. I più tacevano. Alcuni scambiavano le loro idee sottovoce, quasi con un terror religioso. Su tutti incombeva l'onta della ritirata. In tutti il cuore era serrato dall'angoscia. Come gli altri mi racchiusi tutto nei miei pensieri e cosi mi venne la stanchezza e chiusi un po' gli occhi. Per poco però, che in breve ritorna52 Il corso dell’Isonzo nei pressi di Plezzo - novembre 1917 - Kriegspressequartier - Il corso dell’Isonzo e, in basso a sinistra il paese di Tolmino - novembre 1917 - Kriegspressequartier - 53 rono quelli che erano andati a Farra. Rifacemmo la via fatta e ripassammo per Gradisca. Ora anche Gradisca ardeva tutta. Poche case non erano state incendiate. Il resto era stato dato in preda alle fiamme. Dall'Unione Militare uscivano alcuni soldati che avevano sfidato le fiamme a vedere se vi fosse restato niente. Altri ne entravano e uscivano carichi di derrate alimentari. I più avevano bottiglie. Avevano gettato zaino, fucile, tascapane per poter prendere di più. Rompevano subito una bottiglia onde bere immediatamente. Ed erano liquori violenti che bevevano. E altri ancora entravano a cercare e poi altri, simili a demoni, si lanciavano sotto le fiamme, neri, fantastici. Poi di colpo cadde il tetto con frastuono immenso, e parve schiacciare il fuoco sotto il suo peso. Ma ben presto le fiamme ricomparvero rosseggianti. Delle urla convulse ne uscivano poi, ad un tratto, saltò fuori un uomo con le vesti in fiamme, folle, urlante. Si buttò in una pozzanghera, rotolandosi e restò li, tragico, illuminato dalle fiamme, nella notte. Ed ancora dalla casa veniva un grido, un urlo spasmodico che ci accompagnò nel cammino, finché tacque. Rapidamente sfilammo in mezzo ai bagliori. Dovunque i soldati, buttate via le armi e tutto, si davano al saccheggio poi, carichi scappavano, lasciando cadere qua e là ciò che non avevano potuto assicurarsi bene. Ed ancora avanti. In fondo, dietro a noi si vedevano ogni tanto vampate e si udivano scoppi. Altra munizione che saltava. La pioggia continuava fitta, insistente, lenta ed inesorabile. Poi un colpo terribile, un fragore spaventoso, una fiammata più intensa nell'alba che nasceva. Il ponte di Sagrado, il meraviglioso ponte costruito dal nostro genio e su cui si stava finendo di stendere una linea ferroviaria, era saltato in aria. Nessun legame più esisteva attraverso l'Isonzo come le terre strappate brano a brano e di nuovo in possesso dei nemici. 54 La 3a Armata prende lentamente la via del Piave 55 Passano i vincitori.Gli austriaci nei pressi del Tagliamento - Kriegspressequartier - Sopra: un carro italiano. A destra: l’abitato di Caporetto in una cartolina dell’ epoca - Museo del Risorgimento di Treviso - 56 29 ottobre 1917 Adesso cominciava più chiaro il giorno, portando nuovo vigore. La pioggia non cessava, le redini erano diacce, dal berretto molle l'acqua mi colava nel collo. I serventi seduti ai pezzi cercavano posizioni meno scomode, qualcuno ne scendeva e proseguiva a piedi. Qualche altro mordeva un pezzo di pagnotta trovata nel tascapane o prudentemente conservata. I cavalli andavano al passo. I pezzi erano sporchi di fango. Gli ufficiali, silenziosi, badavano che tutto procedesse in regola. Ora la luce meglio illuminava il disordine della ritirata. Per i campi camminavano frettolosi dei soldati dispersi, non guardando nessuno, quasi diffidenti. Alcuni erano ancora armati, ma i più si erano liberati di ogni peso. Lungo i fossati costeggianti la via, qua e là nei campi si vedevano fucili, elmetti, zaini, maschere e tascapani buttati frettolosamente. Molti zaini erano li intatti, altri sfibbiati e da dentro ne era stato tolto quel che più premeva il proprietario. Più di un soldato si avvicinava a questi zaini, non perdeva tempo ad aprirlo, ma lo spaccava con un colpo di baionetta, frugava frettolosamente, ne tirava fuori qualcosa, lo aggiungeva al bottino già fatto e continuava la strada. Uno di questi sbandati mi passò vicino, mi guardò, poi con un atto di dispregio si levò il fucile a tracollo e lo buttò via, poi mi riguardò in faccia e fece per continuare la via. Estrassi la pistola dalla fondina e gliela spianai contro, arrestando il cavallo: - Raccogli - gli intimai. - Pesa - fu la risposta. - Raccogli, perdio, o ti sparo. Ero fermamente deciso a freddarlo se non avesse obbedito. Vedevo rosso, volevo sfogarmi contro qualcuno. Il soldato capì e raccolse l'arma con un gesto di odio. Se fossimo stati a tu per tu forse, anzi certo, me lo avrebbe spianato contro. - Cammina avanti a me, di corsa, altrimenti... L'uomo correva avanti, poi continuò a passo, guardando di traverso. Colse il momento buono e si dileguò a buttare via il fucile. Che potevo mai fare? Feci finta di non accorgermene. La strada comin57 ciava a diventare più animata. Da ogni sbocco affluivano colonne di uomini, di carri, di salmerie, di corvées. La strada a poco a poco si riempiva. Ai due lati carreggi, al centro pedoni, la colonna si allungava sempre più, non se ne vedeva oramai la fine. Ad ogni incrocio era un affaticarsi per mettervisi. I1 nostro reggimento aveva avuto ordine assoluto di non far passare nessuno attraverso, onde non interrompere la colonna. I cavalli di un pezzo erano a contatto con la volata del precedente. Io ero stato incaricato di questo servizio fra il quarto pezzo della mia batteria ed i cavalli di ricambio che la seguivano. Con l'autorizzazione di impiegare qualunque mezzo per non far passare nessuno attraverso. Dovevo mantenere il collegamento. La marcia si faceva sempre più difficoltosa. Ci avvicinavamo a Romans, ed ormai tutta la via era una colonna in marcia. Cominciavano gli alt. Bastava che un meschino carretto si arrestasse per fermare tutta la colonna. Niente era più irritante di ciò. Ogni dieci metri una fermata che si prolungava per un pezzo. Poi altri due passi e di nuovo fermi. Quando si camminava per dieci minuti di seguito, era miracolo. E bisognava fare presto. Si cominciò a buttare nei fossati della via tutto ciò che poteva interrompere la marcia. Cadeva un cavallo? O si rialzava subito o si tagliavan le tirelle e si buttava via la bestia. Se gli altri riuscivano a tirare, bene, altrimenti si tagliavano anche a loro le tirelle e si rovesciava il carro fuori la strada. Si guastava il motore ad un camion? Via nei fossi. Ci si legava una fune, venti soldati si attaccavano e compivano l'operazione. L'autocarro restava lì, buttato su di un fianco con le ruote per aria. Accanto i soldati facevan ressa per prendere quanto vi fosse di buono. Giunti ad un chilometro circa da Romans, la colonna fu arrestata fuori città. Si sparsero immediatamente molte voci. Alcuni dicevano che gli austriaci avevano già occupato il paese, altri reputavano invece che si tornasse indietro a difendere l'Isonzo, altri ancor altro dicevano, quando si venne a sapere che eran li li per saltare i depositi di munizioni nel paese. Infatti in Romans vi erano grandi depositi di munizioni per ogni calibro, ed importava non lasciarle in mano nemica. Trasportare non si potevano. Unica via era quella di distruggere. Ad un tratto parve che la strada si sprofon58 «Si guastava il motore ad un camion? Via nei fossi. Ci si legava una fune, venti soldati si attaccavano e compivano l'operazione..» . Nella foto, il recupero di un mezzo incicentato. - Museo del Risorgimento Treviso - «Si cominciò a buttare nei fossati della via tutto...» Nella foto, carriaggi della seconda armata abbandonati. 59 dasse. Tremò il terreno e passò un fragore enorme. Il deposito principale era saltato. Un fumo in colonna si alzò dal luogo dell'esplosione e attraverso questo si vedeva materiale che cadeva o saliva ancora. Alcuni rottami furon trasportati vicino la colonna e più d'uno rimase ferito. Alla prima esplosione ne succedevano altre meno intense. Erano depositi secondari che subivano la stessa sorte del primo. Non si sapeva a che paragonare lo spettacolo. Cosi, con le munizioni, pure Romans venne distrutta e la colonna, riprendendo poi la marcia, non poté passare per l'abitato. La pioggia che pareva cessata un istante, riprendeva. Ero stanco di stare a cavallo, era ben mezzogiorno. Ne scesi, affidai le redini ad un servente e mi posi a camminare. Avevo i muscoli indolenziti ed in principio dovetti sforzarli, poi mi trovai meglio ed anzi provai un certo sollievo. Non sentivo fame né sonno, ma automaticamente camminavo senza osar di pensare. I serventi stavan rosicchiando delle gallette e vuotavano scatolette di carne. Me ne offersero, ma rifiutai. Accanto a me avanzavano soldati di ogni arma e di ogni specialità. Fangosi, stanchi, camminavano. A tratto a tratto qualcuno si buttava nei campi, si metteva sotto un albero e si riposava, ma frequente era lo spettacolo di soldati ubriachi che eran cascati lì di traverso e russavano smaltendo la sbornia. Quanti ne avran trovati in quello stato gli austriaci. Vergogna, vergogna! Si vedevano anche i primi profughi. A piedi, in bicicletta, su carrozzini, su carrette, carichi di quanto avevan potuto prendere, uomini, donne, bambini, camminavan sotto l'acqua. Gli uomini ancora validi a piedi, le donne ed i bimbi - poveri piccoli - si trascinavano penosamente. Più d'una teneva in braccio un piccolino e con l'altra mano se ne trascinava dietro un altro. I più grandicelli avevano infilato attraverso un bastone un fagottino e se l'erano posto in spalla. Oh! Che strazio vedere quei piccolini che si trascinavano per la via stanchi, buttando le gambette di qua e di là, e che sarebbero caduti in terra se non fossero stati trattenuti per la mano dalla mamma o dal fratello maggiore. Oh! Quegli occhi smarriti, le figure stralunate delle donne, delle madri che andavano senza saper dove, senza saper quando fermarsi, e non voler cadere nelle mani degli austriaci! E le povere creature che si 60 «Si vedevano anche i primi profughi. A piedi, in bicicletta, su carrozzini, su carrette, carichi di quanto avevan potuto prendere...» 61 lamentavano! Una bimbetta si era buttata giù, non voleva, non poteva più camminare, piangeva, aveva fame e la mamma col fratellino più grande ed un altro in braccio si era buttata in ginocchio nel fango implorando ancora uno sforzo alla piccoletta esausta. Ed essa più non poteva, e la mamma voleva proseguire. Pallida, stravolta si alzò e fece per andarsene. La piccola la guardò un poco allontanarsi seria, poi scoppiò in singhiozzi gridando: - Mamma, mamma! La mamma si fermò, si voltò e le corse incontro, se l'abbracciò stretta e si mise a piangere con lei. I soldati non osavano guardare. Mi parve il simbolo dell' Italia che doveva abbandonare le terre conquistate e volli vincere il segno di malaugurio. Passava un carretto da battaglione con degli arnesi da cucina, delle bottiglie e biancheria. Fermai il conducente. - Sei solo? - Signorsì. - I1 battaglione? L'uomo alzò le spalle. - Butta giù quella roba e prendi quella donna con i bambini. I1 soldato vide, ci pensò un po' su, poi prese la piccola in braccio, la mise sulla carretta, aiutò la donna a salirvi col ragazzo, poi buttò via delle cassette. La donna mi guardò come per ringraziarmi, ma io non seppi sostenere quello sguardo che era un rimprovero e, raggiunto il cavallo, ci salii sopra col cuore stretto. In quale punto della via sarà stata rovesciata poi la carretta? Che ne è stato dei fuggiaschi? Sono essi in terra amica o nemica? E quanti altri casi simili vidi senza poterli soccorrere! E quante maledizioni si sono volte contro di me, contro di noi, contro i soldati d' Italia? Io non osavo guardare gli strazi e le miserie che si incontravano ad ogni passo. Nell'altra colonna, sull'altro margine della strada, camminava una carretta borghese tirata da un muletto, carica di gente e di masserizie. Tutta la famiglia era li. Il nonno, la mamma, i piccoli: due. Poi pentole, biancheria, uno di quei cesti per far camminare i bambini, una sedia a rotelle, due materassi, dei sacchetti di provviste, tutto era caricato sul carretto. La donna guidava. I1 vecchio fumava taci62 turno una pipa. Uno dei piccoli dormiva avvolto in una coperta, l'altro nascondeva sotto un mantellone più grande di lui un pezzo di pane ed ogni tanto, giulivo, ci dava dentro un morso. Chiamava i soldati che passavano vicino. Alcuni gli rispondevano. I1 vecchio si levò la pipa di bocca. - Non potrete arrivare al Tagliamento. Sarà per voi necessità fermarvi. - Chi lo sa? - Rispose un ardito. - Ma perché vi ritirate? - Mannaggia la Russia! - Fu la risposta.11 Questa è ora l'imprecazione caratteristica del soldato italiano. Non dice più: mannaggia Cecco Beppe; non tira più in ballo Guglielmone; non bestemmia il turco, no, ma la Russia. Dotato di una psicologia e di un intuito finissimo egli ha subito capito - forse prima degli uomini politici - che la Russia con la sua rivoluzione ha contribuito enormemente alla nostra rovina. Fin dal primo momento della ritirata corse questa imprecazione, in gran parte giusta. Nella Russia impersona la viltà, il tradimento, la dissolutezza, l'infamia. Il rancio è cattivo? La stagione è bruna? Piove? I1 servizio è gravoso? La sentinella deprime? I1 superiore dà gli arresti? Le scarpe sono rotte? Si è malvestiti? Si soffre il freddo? I1 nemico attacca? - Mannaggia la Russia! Si passava vicino un ospedaletto da campo. Sulla soglia un dottore e due infermieri aiutavano dei feriti, dei malati a salire su un camion della Croce Rossa. Continuavano fino all'ultimo la loro opera di pietà. Caricarono i più gravi, quelli che non si potevano muovere. Agli altri… Chi vuole andare se ne vada - disse il dottore a quelli altri che guardavano. Noi restiamo - aggiunse poi guardando in volto le due compagne nell'opera, con la bianca tunica della Croce Rossa, che segnava sul petto una profonda ferita. I volti stanchi, ci guardavano passare, muti, rimproverando. I soldati si erano ritirati, ma essi restavano al loro posto a prestar le loro cure ai bisognosi. Davano l'esempio del dovere a chi aveva tradito. Ed anche l'ospedaletto scomparve nella via. Ancora si vedeva il tetto rosso crociato, poi svanì dietro gli alberi della strada. Un cavallo con la gamba rotta 63 L’avantreno di una batteria da campagna italiana calibro 75 caduto in mani tedesche completo del munizionamento - Museo della Guerra di Rovereto - 64 La fanteria austro-ungarica supera il Tagliamento su una passerella di circostanza. 65 ed il fianco squarciato nitriva dolorosamente sul margine della strada, guardava con occhi velati dall'agonia e cercava ancora di sollevarsi. Anche quello scomparve per dar luogo a nuova visione di orrori. Su un carretto carico di soldati c'erano delle masserizie rubate chi sa dove. In una cassetta da ufficiale rotta un fante frugava buttando nella strada tutta la biancheria inutile. Poi gettò pure la cassetta. Ma aveva conservato solamente un paio di gambali ed un pastrano che mise subito. Più avanti, incolonnata, era una sezione di artiglieria di montagna. Gli otto muli eran portati a mano dai conducenti. Avanti, su un muletto un giovane tenentino. Sul mulo portacofani era stato legato un bimbetto. Domandai spiegazioni. - Come si trova lì? - Stava seduto a terra e piangeva. Aveva perduto tutti. I soldati l'avevano raccolto. Il piccolo - tre anni al più - ora era tutto felice di andare a cavallo, e batteva con la manina il collo della bestia. Dove era la mamma, che forse impazziva per la perdita della sua creatura? Oppure era stato abbandonato volontariamente? Tra le due colonne di carri, attraverso i pedoni, si faceva strada una motocicletta con side-car. Un soldato alla guida, una donna sul car. Era avvolta in un fitto velo, non se ne distingueva la fisionomia. I soldati a cui passava vicino o non ci badavano o esclamavano e facevano proposte oscene. E la motocicletta passò. L'acqua continuava, implacabile. I1 pastrano era divenuto di piombo e, sotto, la giacca era zuppa. Sotto la giacca la camicia e la maglia erano pure esse pregne d'acqua. Dal berretto l'acqua mi scendeva nel collo ed io sentivo la goccia che, lenta e fredda, mi entrava fra la maglia e la carne e, a poco a poco, mi inumidiva tutta la schiena, mi bagnava le reni e scendeva, scendeva. Dalla sella, l'acqua mi bagnava le natiche, correva lungo le cosce fino ai piedi. Le scarpe, le calze erano diacce, le fasce perdevano il colore. Ad essermi gettato in un bagno, completamente vestito, mi sarei forse bagnato meno. I1 petto era freddo, ma prevedevo il momento in cui nemmeno davanti sarei stato risparmiato. Cercavo di muovermi in sella il meno possibile, onde non rimuovere in altre parti del corpo il contano con la maglia, cambiata in spugna. Le redini divenivano sem66 Novembre 1917. Colonna tedesca avanza lungo le strade del Friuli occupato - Kriegspressequartier - In questa cartolina dell’epoca si invoca Dio affinché punisca l’Italia traditrice.Tedeschi, bosniaci, austriaci e ungherese marciano insieme. 67 pre maggiormente coriacee e mi stancavano orribilmente le mani. Pensavo che mi avvicinavo a Palmanova, e speravo che lì ci saremmo fermati, per lo meno la notte. Lì avrei potuto cambiarmi. Non pensavo né a mangiare, né a dormire, pensavo solamente a poter indossare dei panni asciutti. Avrei trovato certamente qualche negozio da saccheggiare. Ecco, io mi vedevo, con una straordinaria chiarezza di particolari, avvicinarmi al negozio, dove già altri soldati saccheggiavano tumultuanti fra grida e bestemmie. I vetri erano infranti, la porta scardinata, i soldati all'ingresso si accapigliavano. Ed ora io pure mi trovavo fra loro, a forza di urla, gomitate, spintoni mi facevo largo, entravo fra la calce nel negozio. Gli stai rotti, i cassetti rovesciati e la biancheria buttata a terra, calpestata. Pure io volevo la mia parte. E li, nel mucchio, fra gli urti e le bestemmie, tiravo fuori una camicia, una maglia, una mutanda, delle calze. Ma un altro le vuole e debbo scappare col prezioso fardello. E via in una casa, in una stanza, mi spoglio, metto la biancheria asciutta. Oh che sollievo! Non sentirsi più bagnare le carni al più piccolo movimento, sentirsi caldo... Ma dovetti tornare alla realtà dalla quale mi ero per un momento allontanato. Ci avvicinavamo a Versa, stavamo per raggiungerla. E lì la colonna subì un'altra fermata della quale mi seppi spiegare la ragione soltanto quando ci trovammo in paese. In mezzo alla via principale due case bruciavano. Occorreva aspettare, profittare del momento, e passare con la massima celerità. Fu ordinato agli uomini di smontare dai pezzi ed ai conducenti di tenersi pronti. Ed io, affidato il cavallo ad un servente, raggiunsi altri ufficiali che si riparavano sotto il portone di una casa. Uno specialmente colpi la mia attenzione perché era vestito in modo da potersi infischiare della pioggia. Sul berretto aveva un cappuccio di gomma, addosso un lunghissimo impermeabile che lo proteggeva magnificamente, ai piedi comodi stivaloni, oltre ancora delle caloches. Un soldato gli manteneva un magnifico cavallo. Ma ciò da cui non potevo staccare lo sguardo era l'impermeabile, che avrei pagato qualunque prezzo. Certo lui aveva la giacca asciutta, non subiva il freddo della maglia diaccia. Certo i suoi piedi non erano bagnati come i miei. Perché non avevo pure io messo gli stivaloni invece di 68 lasciarli nella cassetta? Ed il mio pensiero correva ancora a Palmanova, dove speravo di potermi cambiare. Rivolsi lo sguardo alle due case che bruciavano. Come doveva essere caldo quel fuoco! Poterne avere un pochettino accanto a sé per riscaldarsi un po', asciugarsi. Oh che sollievo sarebbe stato sentir la fiamma scottare le mani, il dorso! Mi sarei levato il pastrano, l'avrei mantenuto verso la fiamma a farlo asciugare e fargli cacciar tutta l'acqua che conteneva. Perché non gettarsi tra le fiamme? Mi tornava alla memoria l'uomo che a Gradisca era sfuggito all'Unione Militare al fuoco che lo martoriava, per soccombere egualmente allo strazio delle bruciature. I1 mio orecchio sentiva la voce di colui il quale era rimasto sotto le macerie infiammate; orrenda, straziante, simile a quella di un dannato. Chi sa per quale collegamento di idee mi venne alla mente la nota favola del Gozzi: l'acqua, il fuoco e l'onore. «Dove c'è verde, una volta che mi avrete perso, lì mi troverete», diceva l'acqua; «il fumo indicherà la mia presenza», aggiungeva il secondo; ma il terzo ammonitore, avvertiva: «a me non perdete, che mai più mi troverete». L'onore, dove era più, l'onore del soldato italiano? E formulavo nella mia mente chimeriche invenzioni nemiche, così terribili che avevano fiaccato e prostrato il saldo cuore di coloro i quali, a palmo a palmo, avevano conquistato l'asprissimo Carso. Intanto, approfittando dei successivi momenti favorevoli, i pezzi della mia batteria avevano superato la zona pericolosa senza incidenti. Ricominciai a camminare, poi rimontai a cavallo. Avevo le gambe intormentite, i muscoli mi dolevano e le ginocchia più non facevano forza. Credo che se il cavallo avesse avuto uno scarto improvviso mi avrebbe immediatamente buttato in terra. Ci avvicinavamo ad un ponticello. Lì un carabiniere in servizio avvertì che i pezzi da campagna non vi potevano passare sopra. Bisognava attraversare l'alveo del fiumiciattolo che vi scorreva sotto. Così scendemmo nell'acqua con i pezzi e tutto. I1 fondo era ghiaioso e si passò abbastanza facilmente. Risalimmo sulla strada. Poco appresso la colonna aveva una strozzatura. Una trattrice che trascinava una batteria da 149 prolungati s'era guastata. Non ci si era ancora decisi a rovesciare tutto nel fossato e la colonna subiva un ritardo. L'un dietro l'altro i quattro cales69 si stavano immobili, contornati dai serventi muti, fatalisti, riparati sotto un telo da tenda. I congegni di puntamento rilucevano, gli otturatori erano stati ricoperti dalle loro cuffie, le volate spalancavano la loro bocca verso il nemico. Mute non più parlavano il linguaggio terribile, non più il proiettile doveva tormentare le rigature, non più la carica di lancio avrebbe sporcato l'anima. La batteria era lì, condannata. Attorno al volano del motore invano si affannavano due meccanici a riconoscere la natura del guasto. L'uno smontava il carburatore, l'altro si affannava intorno alle candele dei cilindri. E la macchina possente taceva, inutilmente le quattro gole si protendevano verso il nemico. E si passò ancora oltre. Nuovi spettacoli si svolgevano sotto ai miei occhi. Ora era un gruppetto di case di contadini, i quali si affaccendavano a mettere in salvo quel che possedevano. Giù nel cortile, intorno a due carri ai quali erano stati attaccati robusti buoi, era un ammonticchiarsi di cassette, di masserizie, di arnesi da lavoro, di utensili. Da una finestra una donna stava gettando un materasso, gridando agli uomini di fare attenzione. Giù, essi si affaccendavano a caricare i carri disordinatamente, senza regola, mossi unicamente dal desiderio di salvare quanta più roba potevano nel minor tempo possibile. Tutto rovesciavano sul carro, affrettatamente quel che veniva loro fra le mani, senza discernimento di opportunità e di convenienza. Cadde il materasso in una pozza d'acqua, infangandosi. Gli uomini non ci badarono neppure e cosi lo sollevarono buttandolo su di un canestro di biancheria. Tutta la vita intima della famiglia si svelava su quei carri. Erano abiti da festa, erano scarpe rotte, era biancheria sporca, erano bacili con treppiedi, erano materassi, spalliere di letto, erano reti elastiche che stavano su quei carri. Davanti l'uscio di casa un vecchio, canuto ed immobile, seduto su di una sedia, impugnando un nodoso bastone sul quale si poggiava, guardava fisso nel vuoto con gli occhi senza luce. Davanti a lui una bimbetta cullava a mo' di bambola un fagottello, accennando con la voce una qualche canzone, forse una ninna nanna, innocente, inconscia e tranquilla. Guardava curiosamene negli occhi il nonno. Ambedue vicini al limitare della vita, ambedue prossimi al niente, li di fronte erano il passato e l'avvenire, l'uno 70 «Pensavo che mi avvicinavo a Palmanova, e speravo che lì ci saremmo fermati....» Un reparto italiano avanza lungo le vie della città - Museo del Risorgimento di Treviso - Palmanova: si trasporta un ferito - Museo del Risorgimento di Treviso - 71 terribile e muto, l'altra ilare e sorridente. Attraversammo un paesucolo. Alcune donne affacciate guardavano, chè la curiosità aveva già vinto la paura, lo sfilare della colonna. Guardavano e si comunicavano le loro impressioni, tranquillamente, come se tutto si svolgesse secondo l'ordine naturale delle cose. Più avanti una, sulla soglia dell'uscio, guardava sogghignante, forse lieta della catastrofe, forse prevedendo e desiderando il ritorno degli austriaci. E già più di un soldato la guardava fisso, per modo che ella ricompose il volto e si ritiro in casa. Più avanti due donne, l'una dalla finestra, l'altra dalla strada, si interpellavano vivacemente su un argomento che, dato il dialetto, non compresi. Ma sui volti di ambedue si scorgeva la grande ansietà di notizie, onde potersi regolare se fosse il caso di scappare anche loro oppure no. Passammo oltre. Davanti una bottega di tabaccaio, sprangata, tumultuavano altri soldati, cercando di rompere l'uscio e chiedendo ad alta voce, accompagnando con bestemmie le parole, da fumare. Ed allo strepito s'era affacciato un giovinotto, biondastro, pallido, timoroso, che disse con voce insicura essere il tabacco finito e non poteva quindi, con gran dispiacere, contentare nessuno. Dal gruppo sottostante si levarono grida. - Austriaco! - Dacci da fumare! - Le vuole conservare per sè! - O darle al nemico. Il giovane, ancor più pallido, si ritrasse e chiuse le finestre. Un soldato raccolse un sasso e lo gettò contro i vetri. Un ufficiale a cavallo gli saltò addosso e gli avventò una scudisciata. - Canaglia! Via! Cupo, torvo, si rivolse il soldato. I compagni scapparono. - Dove hai il fucile? Via, che ti sparo! Ed avvicinò la mano alla pistola. Non volle il soldato ubbidire al superiore e cacciata la baionetta che ancor conservava si avventò al superiore. Ecco, io chiudo gli occhi ed ancora rivedo la scena tragica. Vedo la lama abbassarsi fulminea, colpendo l'ufficiale alla gamba, vedo l'arma spianata sulla testa del soldato, odo il colpo. E l'aggressore si rovesciò fulminato sulla via. Una donna, ad una fine72 stra, cacciò un grido altissimo e scomparve nel vano. Dietro il vetro rotto si affacciò ancora il volto del giovane biondo, bianco cadaverico, guardò la vittima e di nuovo si ritrasse. L'ufficiale, perdendo sangue, si allontanò rapido. Quattro soldati raccolsero il cadavere e lo portarono fuori della via. E tutto era finito, tutto continuava come se nulla fosse accaduto, solo una chiazza rossa in terra, che la pioggia lentamente diluiva. Ora avevamo raggiunto la piazza. La chiesa, il municipio, la scuola stavano li raggruppate, abbandonate dal prete, dal sindaco, dal maestro. Con le porte aperte offrivano ricovero ed i soldati ne avevano approfittato e vi si erano accampati. Nella chiesa i banchi erano stati tolti e trasportati nella piazza. Ardevano senza che la pioggia lenta riuscisse a spegnerli. Intorno si accalcavano i soldati e vi protendevano il corpo e gli indumenti. Più d'uno s'era levato la giacca e la teneva sospesa ad asciugare, bagnandosi ancor più la maglia e la camicia. Alcuni seduti su pietre o su legni, s'eran levate le scarpe per asciugarle, oppure avevan teso le gambe al fuoco. Ed quando i banchi che si succedevano nel rogo, stavan per finire, si apparecchiavano quelli della scuola. Il municipio forniva scartafacci che pure finivano nella vampa. La mania di distruggere dominava e non avrebbe risparmiato niente. Ormai li, in quel punto, sempre, fin quando ci sarebbe stato da bruciare qualcosa, sarebbe arso il fuoco, inestinguibile. Ed ai soldati succedevano i soldati, ognuno portando il proprio contributo ad alimentare la fiamma. Oltrepassata la piazza, dopo pochi metri il paesello finiva, ricominciava la strada e, finalmente, poiché ci si avvicinava a Palmanova, la colonna sboccava nella grande strada provinciale. Qui ancor più intenso era il traffico, ancor maggiore era il disordine. Chi poteva correre si staccava dalla colonna e procedeva per conto proprio. Gli autocarri sfilavano rapidi. I camions, le automobili della Croce Rossa si succedevano. In una di queste, in un gruppo di alti ufficiali, c'erano pure due signore. Lo chaffeur era stato abolito, solo il meccanico era stato conservato, ed era seduto su di un predellino. Un maggiore di cavalleria reggeva il volante. In una limousine passò un generale, intorno a lui diverse cassette. I soldati guardavano curiosamente, cercando di scoprire chi fosse. Ancora una 73 Palmanova: danni prodotti dal conflitto - Museo del Risorgimento di Treviso - Palmanova: funerale ai caduti italiani asfissiati sul San Michele - Museo del Risorgimento di Treviso 74 Palmanova: un ferito viene evacuato sul treno ospedale - Museo del Risorgimento di Treviso 75 volta la colonna si era arrestata e la nostra batteria si trovava davanti un ospedaletto da campo abbandonato. Entravano i soldati e vi uscivano recando divise nuove, coperte, biancheria. Pure dei serventi del mio pezzo, approfittando della sosta e dell'occasione entrarono a vedere se potessero acchiappar niente, e dopo un buon quarto d'ora ne uscirono, rivestiti da capo a fondo, asciutti. Ne acchiappai uno e lo rimandai dentro a prendere per me due coperte, un paio di scarpe ed un paio di calze. Mi accontentò subito e ritornò col fardello. Gli consegnai il cavallo, mi sedetti su di un pezzo e mi cambiai scarpe e calze. Poi ritornai in sella, misi una coperta sulle cosce a guisa di plaid, e l'altra intorno al corpo. Stavo meglio. Domandai ad un soldato una galletta e la sgranocchiai con piacere. Poi mi si avvicinò il ciclista che aveva razziato chi sa dove delle bottiglie di liquore, me ne offrì. Accettai. Non domandai nemmeno che fosse e bevvi. Sentii la gola bruciare. Era cognac. Che importava? Ne bevvi certo più di un bicchierino, ma quel caldo improvviso che mi occupò tutto il petto, mi ristorò enormemente. E ne avrei bevuto anche di più se una certa prudenza non mi avesse trattenuto. Mi sentii rinvigorire. Poi ci rimettemmo in marcia. Calava ormai la sera, il cielo si oscurava in una tinta livida. Le nuvole ancora incombevano sul nostro capo e si stracciavano in forme fantastiche. Alle nostre spalle si vedeva una striscia di azzurro slavato. Ma davanti, ad occidente, grossi nuvoloni oscuri, plumbei, nascondevano il sole che tramontava. Il fango della strada sembrava più sporco, i grossi platani che la costeggiavano avevano un aspetto triste, smorto, sotto la pioggerella fine che cascava lenta, svogliata, fredda. Che era in Italia, quali passioni avevan suscitato la notizia della catastrofe? Non era sospeso il ritmo della vita? Nessun sconvolgimento politico era accaduto? E l'Italia era ancora un regno oppure regnava l'anarchia e la rivoluzione dilagava tremenda? Vittorio Emanuele di Savoia era ancora Re o era stato rovesciato? E chi aveva avuta tanta fede in sé da stringere in pugno le redini di un carro corrente verso un abisso? Era il distruttore Giolitti che si ergeva dalla rovina, fiero della sua opera distruttrice? O mani più degne, più pure avevan stretto il timone del naviglio così tremendamente pericolante?12 E 76 poi il mio pensiero si volgeva alla casa lontana, dove certo non avevano mie notizie, e nell'angoscia dell'ora ignoravano quale fosse la mia sorte. Da quattro o cinque giorni già non dovevano ricevere la mia posta, e quantunque comprendendo che in simili momenti non potesse funzionare, pur dovevano essere in un'orribile ansia. Che era di me? Ero morto, ferito, prigioniero? Ed io mi immaginavo i miei fare le più folli e svariate congetture sul mio conto, or credendomi salvo, or credendomi perduto per sempre. La mamma, la mia cara mamma che faceva? Che poteva fare, ignorando in così tragico momento ove io fossi? Ecco, io la vedevo piangente, disperata, racchiudendo in sè il dubbio atroce, confondendo la sventura della patria con la possibile mia. E papà ed i fratelli riuscivano a consolarla, a distrarla dalle idee che forzatamente la dovevano ossessionare? Io sapevo di essere sulla via della salvezza, ma ella come poteva apprenderlo? E per quanto tempo ancora doveva restare senza mie notizie, attendendo d'ora in ora, di minuto in minuto, un mio rigo che potesse renderla consapevole della mia avventura? A me poco importava di non aver notizie da casa, sapevo che lì niente poteva succedere, e che i miei erano al sicuro, ma essi non potevano avere la stessa sicurezza sul mio conto. E nello stesso tempo, quale era la madre italiana che non subisse le stesse ansie, la stessa tortura? E a contrapposizione immaginavo la gioia, il giubilo che doveva essere in Austria, dove certo era giunta la notizia della nostra disfatta, del nostro ripiegamento. Oh! Finalmente l'Italia traditrice aveva avuto la sorte che le spettava, e scontava il fio dei suoi delitti. Quanti erano i cannoni toltici, quanti i prigionieri, quali erano le cifre esatte del colossale bottino? E l'inseguimento continuava, nuove cifre si sarebbero aggiunte, nuovi territori sarebbero stati occupati. Dove più avrebbe potuto il soldato italiano arrestare le schiere vincitrici? Certo il Kaiser inviava telegrammi di congratulazioni al fedele alleato, ripromettendosi una pronta pace con noi onde poter sollecitamente schiacciare la Francia. Certo egli vedeva compiersi il sogno della sua egemonia europea, vedeva i popoli soggiogati al suo megalomane sogno. Attendi, Kaiser, attendi Imperatore di Austria, troppo le vostre mani grondano di sangue, una miss Cavel 77 Le distruzioni della guerra non risparmiano nulla - Museo del Risorgimento di Treviso - 78 ed un Cesare Battisti reclamano la giustizia divina, troppo alto gridano i bimbi e le donne del Belgio e della Serbia perché quel Dio che voi invocate non si debba rivolgere tremendo contro di voi. Temete il giorno della riscossa. Ci accostavamo sempre di più a Palmanova, la strada, quantunque molto larga, era sempre terribilmente ingombra. Nella confusione della ritirata, sorpresi quando meno se lo aspettavano, gli alti comandanti non avevano pensato, non potevano pensare, ad organizzare bene i servizi logistici. Non avevano pensato ad indicare alle diverse specialità le varie strade da seguire. Le fanterie avrebbero potuto procedere per le strade di campagna, l'artiglieria leggera e i piccoli carreggi avrebbero potuto seguire le strade secondarie, e la strada principale avrebbe dovuto essere riservata solo al grosso carreggio ed alle grosse artiglierie. Invece, sprovvisti di carte13, tutti si affollavano sopra un'unica via, cercandosi di sopravanzare gli uni con gli altri, non badando alla confusione che ne nasceva, pur di fare più presto, più presto di guadagnare strada. Si vedevano soldati di fanteria montati su cavalli trovati chi sa dove, buttarsi in corsa lungo i campi, come se il nemico fosse lì dietro loro incalzante. Ed a poco a poco le ombre calavano ed apparve prossima ad una svolta di via, Palmanova. La città fortificata del nostro confine, la prima grande città nostra, con le mura bastionate che tanto aveva combattuto durante la guerra d'indipendenza, stava per essere abbandonata in mano al nemico. E prima di essere lasciata, anche lì i depositi, i magazzini più grandi, erano stati dati alle fiamme. Dalla porta principale verso la frontiera, si convergeva il movimento dei pedoni, dei fanti che vi si precipitavano dentro. Pensai che con i nostri pezzi avremmo faticato ad entrarci, attraverso la calca, e che lì più che altrove sarebbe stata necessità assoluta il mantenere il collegamento. Una volta entrati ci saremmo fermati o ne saremmo subito usciti per la porta opposta? Sarebbe stato follia arrestarsi in quell'inferno, anche per poche ore. Chi avrebbe trattenuto i soldati dall'ubriachezza e dal saccheggio? L'autorità dei superiori sarebbe bastata ad impedire agli uomini di sbandarsi? Non era forse più opportuno sottrarli ad una tentazione che sarebbe stata più forte di loro? Fra 79 breve avrei avuto una risposta alle mie domande, alle mie incertezze. Nella notte meglio si scorgevano le fiamme. Tutta la città bruciava. Ed io rividi la tranquilla Palmanova di tredici giorni prima. La casa dove avevo pernottato ritornando da Cervignano. Rivedevo il comando di stazione dove avevo fatto bollare il foglio di viaggio, rivedevo il comando di tappa, con la statua a ricordo dei marinai d'Italia. Rivedevo lo stanzone dove avevamo depositato le cassette, rivedevo il baraccamento dove avevo trovato la branda col pagliericcio e le tre coperte che mi avevano tenuto caldo tutta la notte. Ricordavo il volto del soldato che la mattina mi aveva svegliato, mi aveva pulito le scarpe, mi aveva portato il bacile per lavarmi. Rivedo ancora il meschino caffè vicino al comando di tappa, dove ci avevano fatto pagare un franco e mezzo una tasca di latte e caffè con due fette di pane, tutto mi tornava lucido alla memoria, chiaro, preciso. E poi lì al comando di tappa ci avevano fatto trovare un camion, e di lì eravamo partiti per il fronte, il quindici mattina, avevamo raggiunto Gradisca, e di lì poi a Farra. Da Palmanova a Gradisca avevamo impiegato un'ora e mezza di camion, ed ora era trascorsa una giornata, quattordici ore per rifare la stessa strada. Ciò può dare un'idea della lentezza e dell'ingombro in cui erano le strade. Ci avvicinavamo alla porta, dove continuava la ressa dei carri e degli uomini. Credevo che vi saremmo entrati pure noi fra breve e già ripensavo alla maniera di procurarmi dei panni asciutti. Di nuovo accarezzavo questa idea che già certamente i soldati pensavano alla prossima rapina, quando, a poche decine di metri svoltammo e pigliammo una strada che costeggiava la città. Da qui maggiormente si poteva vedere l'opera del fuoco in Palmanova. Da ogni parte rosseggiavano fiamme nella notte. Era lo stesso spettacolo di Gradisca, ma più grande, più disastroso, più terrificante. La pioggia era cessata e si era levato un leggero vento che aveva portato nuovo ardore alle fiamme, le alimentava, le faceva aumentare. La città sarebbe stata distrutta tutta? Oh quante ricchezze perse! Mi avvidi che come me, anche altri guardavano lo spettacolo grandioso. No, non era possibile pensare ad altro, Palmanova attirava l'attenzione di tutti, ognuno non poteva distaccare lo sguardo dalla città in fiam80 «...Palmanova. La città fortificata del nostro confine, la prima grande città nostra, con le mura bastionate...». Da sinistra in alto: civili su carro nelle vie della città. Al centro:danni sugli edifici. In basso: trasporto di materiale d’artiglieria. A destra: la piazza della cittadina. - Museo del Risorgimento di Treviso - me che continuava ad ardere. Senza dubbio quel che succedeva a Palmanova doveva succedere pure nelle altre città che si erano dovute abbandonare al nemico. Eran le principali città del Friuli che ardevano, che erano distrutte e che si sarebbero cedute al nemico sotto forma di rovine fumanti. Dove si sarebbe fatto resistenza al nemico? Ed unico argine alle orde nemiche, vedevo il Tagliamento. Ci allontanavamo sempre più. Ad un certo punto ci trattenemmo con tutto il reggimento in un campo vicino alla strada. Lì si era deciso di fare un alt durante la notte, non tanto per riposare gli uomini quanto le bestie che lavoravano dalla sera precedente. Fu stabilito un turno di guardia fra gli ufficiali per ciascuna batteria, ed a me toccò il quarto turno, verso la mattina. Così intanto mi potevo riposare. Smontai finalmente da cavallo, gli feci trovare un po' di paglia e di fieno lì vicino, lo feci poi abbeverare, lo legai vicino ad un pezzo ed io mi andai a stendere sul poggiapiedi di un avantreno. Mi avvoltolai in una coperta bagnata naturalmente come le altre e malgrado i panni bagnati e la posizione scomoda non tardai a cascare più che in un sonno in un profondo torpore. Mi accorsi solo di un soldato che per difendermi dalla pioggia che ricominciava a cascare, mi coprì la testa ed il corpo con un telo da tenda. Poi più nulla. Non a lungo durò il mio riposo, che prontamente nacque l'allarme. Da informazioni assunte si era saputo che il nemico, sempre incalzante, si avvicinava a Palmanova, occorreva quindi riprendere la marcia per non cadere prigionieri. In pochi minuti tutto fu pronto, dovetti riprendere il mio posto a cavallo e l'incarico di mantenere il collegamento. Mi sentivo di nuovo male, avevo freddo, per la schiena mi correvano i brividi, ma feci forza a me stesso. Ci rimettemmo in marcia nella notte alta. Il buio era squarciato ancora dietro di noi dalle fiamme che continuavano ad ardere Palmanova. E a poco a poco anche quelle si persero in lontananza ed il buio fu completo. Penosamente la colonna avanzava, spesso soffermandosi. In quei brevi minuti i cavalli riposavano un poco, ed io sentivo che il mio era stanco, e mi accorgevo che fra poco non mi avrebbe potuto più portare. E come avrei fatto? Mi rassegnai all'inevitabile che non doveva essere molto lontano. Anche i cavalli dei pezzi erano orri82 bilmente stanchi. Le povere bestie non ne potevano più, erano circa quarant'otto ore che lavoravano, mal riposate e mal nutrite, bisognava cambiare in continuazione le pariglie e attaccare quelle di riserva, le quali però erano stanche anche loro. E tutto questo cagionava un gran ritardo. E si proseguiva così a forza, faticatamente. E ancora ci voleva un bel po' di tempo prima di arrivare al Tagliamento. La notte era fredda, umida, il pastrano e le coperte bagnate non mi riparavano gran che. Andai in cerca del ciclista per farmi dare un po' di liquore se ne avesse ancora. Lo trovai che s'era tirato su la coda di un pezzo con la sua macchina. Gli domandai del cognac, ma oramai l'aveva finito, ma frugando nel tascapane trovò dello Strega e ne bevvi con abbondanza. Così ripresi un po' di calore ed un po' di forza. Ma non fu che breve ristoro, troppo ero stanco, ed il sonno mi prese lo stesso a cavallo, non so come facessi, certo ogni tanto senza sapere ne come né quando, mi trovavo con la testa sul collo del cavallo, lì lì per cadere. La povera bestia seguiva automaticamente la colonna, fermandosi quando si fermava, proseguendo quando proseguiva. Io la lasciavo fare, affidandomi completamente. Quando ci fermavamo, io mi stendevo sulla bestia, e restavo lì, senza capire più nulla; appena muoveva un passo, era una scossa, mi sentivo cadere, mi svegliavo di soprassalto, stringevo di nuovo le ginocchia, afferravo le redini, e così fra veglia e sonno, facevo un altro pezzo di strada. Poi mi riprendeva il sonno, facevo un altro pezzetto di via dormendo, fin quando un nuovo scossone mi svegliava bruscamente. E si tirava avanti. Ma ad un certo punto nemmeno il cavallo si sentì più di camminare. M'ero ancora addormentato, quando sentii di scendere, come se il terreno mi cedesse sotto. Non feci a tempo a riscuotermi che mi sentii per terra e mi accorsi che ero steso accanto al cavallo, ed una gamba mi era restata sotto il corpo La colonna si era fermata ed il cavallo, non fidandosi più a stare in piedi, si era lasciato andare in terra trascinandomi con sé. Strappai il piede schiacciato da sotto la bestia e la costrinsi a rimettersi in piedi. Ci rimontai, si fece un altro pezzo di via, ma ad una nuova fermata si ripeté l'inconveniente di prima. Io mi ero di nuovo svegliato in terra. 83 Capii che non si poteva più continuare così e poiché il cavallo non voleva rialzarsi, gli feci togliere sella e finimenti, misi tutto su di un pezzo, mi ci misi sopra pure io e lo abbandonai. Mi ero messo sul seggiolo di tiro, a cavalcioni. La posizione non era certo comoda, ma la stanchezza era tale che non feci discorsi, ma mi appoggiai col capo sull'otturatore e mi addormentai così mentre il pezzo camminava. Certo non caddi per miracolo, non mi accorsi più se si camminava, se si era fermi, di quel che succedeva. Potevano arrivare gli austriaci che non me sarei accorto nemmeno. Note 11 «Mannaggia la Russia». Il riferimento è alla richiesta di armistizio, con conseguente uscita dalla guerra, della Russia, il cui esercito era considerato tra i più forti d’Europa. Dunque se i temibili tedeschi erano venuti a dar man forte agli austriaci la «colpa» - secondo la voce delle trincee - era della Russia. 12 Il lungo sorso di cognac bevuto dal giovane Acquaviva produce un risveglio sfrenato della sua fantasia. Sono passate in rassegna tutte le ipotesi più catastrofiche che possono capitare all’Italia fino alla peggiore - e vagamente esilarante - di vedere «il distruttore Giolitti che ergeva dalla rovina». Ricordiamo che Giolitti era contrario all’intervento dell’Italia in guerra. 13 E’ la prova del marasma causato dalla totale mancanza di una seria pianificazione. La manovra in ritirata di un esercito è - tra tutte - la più difficile da compiere perchè avviene sotto la minaccia del nemico quasi a contatto. Il fatto che gli ufficiali non fossero provvisti di carte stradali è emblematico. Il 47° reggimento riesce ad arrivare al Piave, se non con tutti i soldati, con tutti i cannoni (anzi, uno in più) perchè ben diretto. Il colonnello Sabato aveva ordinato esplicitamente di non lasciare passare nessuno attraverso la colona proprio per non frazionarla, cosa che avvenne anche se con fatica. 84 30 ottobre 1917 Mi svegliai sul far del giorno, sempre nella medesima posizione. Cercai di ricordarmi come mai non ero più a cavallo, e così dopo un po' di tempo ebbi la spiegazione dell'arcano. Guardai in giro: non vedevo più bene, vedevo tutto confuso, non distinguevo bene. Credetti in principio che fosse la cattiva luce, ma poi mi balenò un'idea. Portai le mani al naso e mi accorsi che avevo perso le lenti. Sfido io! E chi sa dove erano restate! Per fortuna avevo in tasca quelle a stanghetta, le cercai. La custodia in cartone era infradicita. Veniva via a pezzi. Ma per fortuna le lenti erano sane e le misi subito. Sentivo un gran freddo addosso e non sapendo come fare a riscaldarmi decisi di fare un po' di strada a piedi. Saltai giù dal seggiolo, e mi sentii i piedi gelare: tutta l'acqua che avevo nelle scarpe si faceva sentire. Ma che si poteva fare? Bisognava rassegnarsi eroicamente, e fu proprio quel ch'io feci. A poco a poco si rifaceva giorno, un giorno di pioggia e di freddo. Non pioveva ancora, ma non avrebbe ancor tardato molto. Avevo fame. Cercai se qualche servente avesse niente da darmi, ma non trovai nemmeno un po' di gallette. Tutte le provviste erano finite e bisognava contare sul caso. Mancavano pure le sigarette. A me non faceva impressione, ma più di uno ci soffriva veramente. Chi aveva ancora un po' di tabacco lo conservava gelosamente, più d'uno si frugava nel taschino ove era solito portare il pacchetto di sigarette per rinvenire un po' di tabacco rimasto sulla fodera. E quel che si trovava, per quanto poco, era sempre sufficiente. Si avvoltolava in un po' di carta qualsiasi e si fumava con evidente soddisfazione. Io guardavo e, per quanto possibile, mi divertivo. Ma quel che cercavo di trovare era un cavallo, in maniera da avere un mezzo di trasporto, perché i pezzi eran già troppo carichi, ed i cavalli da tiro troppo stanchi per sovraccaricarli. Cavalli se ne vedevano, ma tutti malridotti, e pensavo che non sarebbe stato facile trovar quanto volevo, ma la fortuna mi aiutò che ad un certo punto vidi un soldato di fanteria su di un bel cavallino ancora fresco. Lo feci subito fermare. - Dove hai rubato questo cavallino? 87 La piazza di Udine ingombra di prigionieri italiani 88 - E' del mio tenente... - Scendi subito, mascalzone! Il tuo tenente va su un basto? Ed infatti il soldato aveva messo un basto come sella. - Scendi subito, o ti faccio buttar giù dai miei soldati. Il soldatino cercò di svignarsela dando una botta al cavallo, ma non fece in tempo che gli afferrarono le redini, ed a forza lo facemmo scendere... Feci gettare via il basto, gli feci mettere la sella inglese, e via di nuovo a cavallo. La colonna si stendeva sempre chilometri e chilometri avanti a noi. E dappertutto c'era confusione, saccheggio, anzi questo era aumentato. I1 giorno precedente ne avevo visto pochi casi, ma ora ogni casa era invasa dai soldati, i quali bagnati ed affamati, non si facevano scrupolo di entrare a saccheggiare nelle case abitate o disabitate. I padroni avevano un bel protestare, potevano assicurare in mille modi che non avevano più niente, le scuse non valevano, ed opporsi sarebbe stato follia, ché oramai ognuno pensava: quel che si lascia qui diventa austriaco. Meglio dunque che ce ne serviamo noi. E così prendevano tutto quel che faceva loro comodo. Tutto pigliavano, biancheria borghese, abiti, cappelli, qualunque cosa purché fosse asciutta. Uno scappava con un paio di mutandine ricamate, l'altro aveva una lobbia, un altro ancora si era impossessato di una camicia tutta merletti e nastri e di una dozzina di fazzoletti e di una giacca borghese, un altro ancora cercava di salvare un cappotto. Ma i più si affollavano nelle cucine e nelle dispense, a cercare commestibili, patate, pan secco, qualunque cosa si potesse mettere sotto i denti e potesse diminuire i crampi allo stomaco. Uno scappava con un sacchetto di fagioli, inseguito da altri tre o quattro. Un sacco di farina era stato sventrato lì sulla soglia ed i soldati cercavano di riempir le gavette. La cantina doveva essere stata già vuotata a giudicar dal vino buttato li davanti. Poi si fece strada uno che portava in spalla un grosso orologio a pendolo, e si fermò in un campo lì vicino a guardarlo e restò li in contemplazione senza saper più cosa farne. Un fante che gli passava vicino lo sfasciò con un calcio, poi guardò l'altro in faccia. Si fissarono un po', poi scoppiarono a ridere tutti e due ed insieme entrarono nella casa. Tutti o quasi erano ormai disarmati, pochi 89 avevano conservato il fucile, e forse l'avrebbero buttato pure loro. Chi più ci badava? Oramai il disastro era fatto, come lo si sarebbe più potuto rimediare? Che importava un fucile più, uno meno? Oramai gli austriaci potevano continuare la loro bella avanzata. Non ci sarebbe stato più nessuno che li avrebbe potuti fermare. E poi non vi erano anche i tedeschi? Quelli eran terribili, nessuno ci poteva contro. Chi li vedeva, scappava. E poi armati cento volte meglio di noi. Ora si era per istrada, tanto valeva continuarla, magari fino a Roma, fino a Palermo. E così la pace si sarebbe fatta, subito, ognuno sarebbe ritornato a casa, niente più trincee, fatiche, strapazzi, ferite e forse pure la morte! E poi la colpa era nostra. Perché non si era fatta la pace quando ce l'aveva offerta l'Austria e quando noi eravamo sul Carso, sulla Bainsizza? Volevamo andare a Trento, a Trieste, e perché no? Pure a Vienna. Tanto era il soldato che moriva. Che importava ai generali, al Re che ne moriva uno? Tanto, lui la pelle l'aveva al sicuro, faceva il suo discorso, ogni tanto «viva l'Italia, abbasso l'Austria» e andate a farvi ammazzare.14 Ora si, che lo doveva fare il discorso. Questa era una bella avanzata ad andare indietro. E che importava perdere quello che si era conquistato, e magari il Veneto, il Piemonte, la Lombardia? Tanto, comandati dall'uno, o dall'altro sempre bisognava obbedire. E la Russia l'aveva capito. Aveva finito di fare la guerra, tutti stavano bene, e se la godevano. Ma c'era la rivoluzione! Macché, quelle erano storie che raccontavano i superiori per far mettere paura, per non far fare lo stesso a noi. Ma i tedeschi non gettavano forse i cartellini, i manifestini nelle nostre trincee, dicendo che i russi eran trattati bene, ognuno faceva il comodo suo come prima? E poi che gusto avrebbero avuto a mentire? Chi ne poteva sapere di più, noi che stavamo così lontano o loro che ci trattavano cosi da vicino? Ma il Belgio, ma Cesare Battisti? Tutte balle, dette cosi, forse pure avvenute, perché no, ma noi non ne avevamo forse fucilato qualcuno dei loro? E dunque di che ci lamentavamo? Noi a loro e loro a noi, a chi tocca, tocca. E poi ci doveva essere l'accordo fra i nostri generali e quelli austriaci, perché altrimenti nessuno avrebbe potuto cacciare gli italiani da dove stavano. Si scherzava forse? Di lì nemmeno il Padre90 Da sinistra in alto: soldati tedeschi in un momento di riposo (Museo del Risorgimento di Treviso); in basso: un carro germanico durante l’avanzata nei pressi di Tolmino. A destra: i tedeschi a Udine (Kriegsarchiv Wien) 91 terno li avrebbe cacciati. Dunque? C'era stato l'accordo, altro se c'era stato! Era stato fatto cosi, si era fatta la ritirata, per gettare polvere negli occhi degli inglesi. Perché l'Austria avrebbe detto, anzi lo aveva detto sicuramente, che voleva lasciarci Trieste e stare con noi da buoni amici. Si poteva continuare la ritirata, anzi, più durava, e più presto la pace si sarebbe fatta, ed ognuno sarebbe ritornato più presto a casa. Così ragionava il soldato, ad alta voce, e tutte queste frasi si sentivano fra i discorsi che correvano, e sul disastro comune credeva di vedere la propria salvezza. La pioggia era cessata, anzi pareva che il sole volesse spuntare fra le nuvole, ed invocavo ardentemente un raggio caldo che mi avrebbe risollevato. La speranza mi aiutava, ed anche gli uomini attendevano. Avevo fame, e non c'era niente da mangiare. Avevo domandato ai soldati se avessero qualche resto di galletta, qualunque cosa. Non avevo trovato che un po' di zucchero, in un sacchetto rubato chi sa dove. Sotto l'acqua si era fuso, formava una pasta scura, mischiata con i fili del sacchetto. Non ci feci proprio caso, presi una manciata e l'ingoiai. Sarebbe sempre stato qualche cosa, e così per una mezz'ora continuai a mangiar zucchero, poi il dolce mi disgustò e lasciai andare. Ne diedi pure un po' al mio nuovo cavallino, che andava che era un piacere. Chi sa se l'avrei potuto conservare? Mi sarebbe piaciuto mantenerlo. Ma in quel momento la mia attenzione fu distratta da uno spettacolo che forse in condizioni ordinarie avrebbe mossa la mia ilarità. C'era un carretto rovesciato: due o tre soldati del genio, vi si erano infilati dietro e stavan frugando. E la cerca andò bene, ché ne uscì carico di sigarette. Fu un attimo. Come se si fossero dati la parola gli uomini dei pezzi saltaron giù con quelli che camminavano a piedi. Si gettarono all'assalto, a chi faceva più presto. Non cercai di trattenerli, sarebbe stata fatica inutile. C'era da fumare, chi ci aveva potuto contro? Ed in un baleno furono sulla carretta, l'un sopra l'altro, a grida, a urti, a gomitate, a pugni. Non si vedevan più che gambe e braccia agitarsi freneticamente. Dal mucchio si elevò una mano brandendo un pacco di Macedonia, ma non resse un secondo, che gli altri lo ghermirono, ruppero l'involucro e si gettarono a prendere a volo o a raccogliere i pacchetti. Poi da li 92 si alzò un servente della mia batteria, un omaccione alto, forte e muscoloso, con in mano un sacchetto. Quella era una buona preda! Oh perché tutta per lui? Ed avvenne la lotta, che ognuno voleva parte del bottino. E lui lo difendeva, si apriva il passo buttandosi su altri con tutto il peso del corpo. Ma sarebbe stato vinto se per lui non avessero tirato più di un pugno gli altri artiglieri della batteria che l'aiutarono ad aprirsi un varco, faticosamente. Ma alfine il sacchetto fu in salvo e portato a volo su un pezzo, dove fu fatta un po' di distribuzione. Me ne feci dare cinque pacchetti. Gli altri continuarono a far preda, e successivamente vennero fuori delle scatolette di carne, delle gallette, delle bottiglie. E fu lotta continua finché, vuotato il carretto, vi restarono intorno gli ultimi arrivati, i quali si misero a raccogliere quanto era caduto sul campo della lotta. Con due gallette, una scatoletta di carne ed un po' di vermouth mi rimisi in forze. Ne sentivo proprio il bisogno, e mi trovai molto meglio. Ora si che si poteva continuare a camminare E la marcia continuava, in disordine, chi poteva fare più presto, meglio. Si sentiva la minaccia degli austriaci alle spalle e nelle condizioni in cui si era, significava esser fatti prigionieri. Si poteva mettere pure il pezzo in batteria lì, sulla strada, o nei campi vicini, ma esaurita la piccola riservetta di munizioni che si aveva, non avevamo nemmeno i moschetti. Ed il sacrificio sarebbe stato inutile. Solo la rapidità ci poteva salvare. All'ingresso di un paesello fecero viva impressione quattro mitragliatrici appostate all'imbocco della strada con i caricatori già pronti. Non si aveva che a schiacciare il bottone ed i colpi sarebbero partiti. Dunque erano veramente così vicini da giustificare simili preparativi, oppure erano preparativi un po' prematuri? Ma certo nelle prime case del villaggio era entrata la fanteria e le sistemava a difesa. In ogni modo si passò rapidamente oltre. Nel villaggio grande scompiglio. Coloro che non ne erano ancor partiti si accingevano a farlo con la maggior fretta possibile. Su carretti trovati chi sa dove, i borghesi caricavan quel che veniva loro sotto mano. Uno stava lì lì per partire. C'era attaccato un asinello. Una donna e due bambini seguivano a piedi. E quando ebber varcato la soglia dell'orticello che era posto davanti alla casa, i due piccoli si 93 «Una donna e due bambini seguivano a piedi. E quando ebber varcato la soglia dell'orticello che era posto davanti alla casa, i due piccoli si voltarono, ed accennando il saluto con la mano dissero: Addio casina, addio, addio!» Nella foto: profughi italiani lasciano le loro case - Museo della Guerra di Rovereto - 94 voltarono, ed accennando il saluto con la mano dissero: - Addio casina, addio, addio!» E partiron trascinati dalla donna, ed allentandosi ogni tanto si rivoltavano, guardando indietro e ripetendo il saluto. E nel momento che pensavo quante volte questa scena si doveva essere ripetuta, sentii dirmi: - Mi faccia passare! Mi rivolsi, era un capitano di fanteria, con degli uomini, che cercava di attraversare la strada. Se la colonna fosse stata ferma, l'avrei accontentato interrompendo per un istante il collegamento. Ma si era in moto, e si correva il rischio di rimanere distaccati. E poi avevo avuto in proposito altri ordini precisi. - Non si può passare. Aspetti che sia passata la colonna. - Non protesti, obbedisca. - Rifiuto, signor capitano. - Lei non disobbedisca ai superiori! - Obbedisco a qualcuno più elevato di lei! - La vedremo. E si buttò fra la testa del mio cavallo ed il pezzo che mi precedeva. Io spronai la bestia e le feci fare un salto in avanti. Il capitano fu urtato e fece un salto indietro. - Ah perdio! E posò la mano sulla pistola. La impugnò contro di me. Visto come si mettevano le cose non posi tempo in mezzo ed impugnai la mia, spianandogliela contro. La consegna l'avevo. Ci guardammo un attimo negli occhi. Aspettavo che partisse il colpo. Ma non successe nulla. I1 capitano restò indietro e la colonna continuò a sfilare. A mano a mano che si procedeva divenivano più frequenti questi tentativi di interruzione. Soldati ed ufficiali di ogni arma cercavano continuamente di passare. Mi parevano che volessero farlo a bella posta per aumentare il disordine, ma risolsi di non darla vinta a nessuno. Mi toccò di stare quasi sempre con la pistola in pugno. L'avevo in sicurezza onde impedire disgrazie, ma bastava la sola vista per distogliere più d'uno dalla sua intenzione. Un soldato che volle passare a tutti i costi fu gettato a terra dal cavallo e si rialzò 95 giusto in tempo per non essere schiacciato dalle ruote del mezzo successivo. Mi chiamò austriaco, ma quando gli saltai addosso con la pistola spianata se la svignò a gran rapidità. E volevano attraversare anche carrette, carri, camions. Ricordo un'automobile che voleva assolutamente entrare nella nostra colonna. Dava addosso ai cavalli, spaventandoli. La vide il colonnello e mi gridò: - La faccia restare indietro. Mi rivolsi allo chaffeur e gli ripetei l'ammonimento. Rispose di si e continuava a fare lo stesso. Io pensavo che una volta entrato avrebbe potuto benissimo frenare la macchina e tenerci fermi per un pezzo. Avevo sentito delle voci che dicevano che austriaci in nostra divisa cercavano di aumentare il disordine e vedevo austriaci ovunque e decisi di non farmi fare scemo: - Smettila, gli gridai. Faceva finta di non sentirmi. - Spegni il motore. Continuava a far peggio di prima. Persi la pazienza: - O spegni il motore o ti faccio saltare le cervella. Il ragionamento produsse l'effetto desiderato. I1 motore fu spento istantaneamente, e la macchina cessò di darci noia. E bisognava ricorrere a mezzi energici per farsi sentire. Altrimenti era fiato sprecato. Certo era un mestiere ingrato e poco piacevole. Tutta ricompensa era una sfilata di male parole che bisognava sentirsi. Bisognava avere pazienza e molto tatto, altrimenti non si sarebbe mai raggiunto lo scopo e si avrebbero potuti avere grattacapi di cattivo genere.Viva emozione suscitò in tutti i fuggiaschi e produsse un enorme disordine l'apparizione di un grosso aeroplano da bombardamento nemico. Si avanzava basso, tranquillo, tagliando nel suo volo i campi ed avviandosi rapidamente alla strada. Era un pericolo gravissimo. Una sola bomba che colpisse direttamente la strada rappresentava, oltre le vittime, un ritardo di parecchie ore. Come scongiurare il pericolo? Per fortuna c'erano ancora soldati con cartucce e fucili, che subito cominciarono a sparare. La nostra batteria aveva dodici moschetti ed una ventina di caricatori. Quattro o cinque mitragliatrici furono messe rapidamente in posizione e comin96 ciarono a bruciare le cartucce rimaste. Certo l'aviatore non si immaginava di trovare resistenza, virò rapidamente a raggiungere maggior quota. Il fuoco cessò. Poi riprese la via contro di noi. Le mitragliatrici ripresero a funzionare, ma l'esito solo per un miracolo ci poteva essere favorevole. Ed il nemico, ad un certo momento, puntando contro la strada, scaricò la mitragliatrice. Fu un momento di confusione indescrivibile. La colonna ondeggiò, subì una esitazione e si scompose in mille e mille particelle scappanti verso i campi. La mitragliatrice aveva colpito una decina di persone e terrorizzate tutte le altre. Nemmeno i serventi volevano più mantenere il loro posto, mentre dietro i pezzi sarebbero stati certo più riparati. Ma ancor più grave era il fatto che i conducenti si volevano buttar giù di sella e darsela a gambe anche loro. E chi avrebbe più salvati i pezzi? Ma l'esempio mi venne dato da un capitano che saltato vicino ai conducenti con la pistola in pugno li minacciava. Feci lo stesso anche io. Diedi una speronata al cavallo e mi portai all'altezza dei conducenti e spianai la pistola. E poiché non mi dava retta scaricai un colpo in aria. Ebbe maggior effetto quel colpo che tutto un lungo ragionamento. I1 movimento si arrestò ed il soldato mi guardò in faccia. - A cavallo, e subito. Ma il disordine era ormai massimo. Scappavan tutti. Sulla via solo i carri restavano. Molti cavalli, rotte le tirelle, erano in fuga, i pezzi tagliavano la strada, i cavalli erano ancora atterriti, né intendevano il morso. La miglior cosa era riprendere la marcia. Gli stessi serventi si misero in forza alle ruote e rimisero i pezzi bene sulla via. In pochi minuti si poté ricominciare a camminare. Ma l'aeroplano proseguiva implacabile la sua opera e mitragliava inesorabile i fuggiaschi. Quando avrebbe finito? Certo non prima di aver esaurito le sue cartucce. Avevo in me una rabbia sorda. Senza sapere quello che facessi scaricai altri due colpi della mia pistola, poi mi irritai contro me stesso. Come potevo sperare di colpire a cavallo un bersaglio così piccolo e così mobile? E che potevo io? Se l'avessi avuto fra le mani quell'aviatore l'avrei preso a pugni e calci, ad unghiate, a morsi. Gli avrei sparato in volto, l'avrei pestato sotto i 97 98 «Viva emozione suscitò in tutti i fuggiaschi e produsse un enorme disordine l'apparizione di un grosso aeroplano da bombardamento nemico...» Nella foto un velivolo austriaco abbattuto sui cieli di Udine - Museo del Risogimento di Treviso - piedi, avrei lasciato farne scempio sotto le ruote dei pezzi, sotto le zampe dei cavalli, coi calci dei fucili, con le baionette che avevamo. L'avrei ammazzato lentamente, con gusto, con raffinatezza, con ferocia. Avrei sfogato su di lui tutta la rabbia sorda che covavo nell'anima. Tutto gli avrei fatto subire, quello che soffrivo io, qualunque crudeltà, qualunque tortura mi sarebbe sembrata dolce. Nella morte doveva soffrire le pene più inverosimili, più terribili. Avrebbe dovuto maledire il minuto della sua nascita, i minuti della sua vita. Oh, ma intanto se ne infischiava, lassù poteva continuare indisturbato la sua opera. E fino a quando? Nessuno lo poteva far smettere? Si, uno c'era. Era un cacciatorino nostro che nell'aria piombava contro la sua preda. Sembrava un dardo scoccato da un arco invisibile, da una mano sicura di non fallire il suo bersaglio. In lui era la nostra vendetta, in lui era ogni nostra arma, in lui era ogni nostra vita. E s'avanzava fantastico, furibondo, solo. Era lui il nostro salvatore e già speravamo che avrebbe abbattuto il nemico. Era inevitabile. Era sicuro come cosa scritta dalla mano del destino che l'inviava a noi. Ed era lo stesso destino che portava sulla fragile ala, insieme alla morte. C'era un cuore lassù che all'unisono col nostro batteva, palpitava, anelava alla vendetta. E s'ingrandiva, il tricolore diveniva chiaro come una promessa, il destino era scolpito in lettere incancellabili. E capì l'austriaco il pericolo imminente, appena ebbe scorto il nemico virò e cercando di prender quota riprese la via fatta nel venire. Ma non poteva più fare a tempo. Troppo era lento il motore, troppo pesante era il carico. L'una dopo l'altra lasciò cadere tre bombe, lontano, nei campi inoffensive. Oh, aveva finito di compire le sue prodezze. Ormai non era più in grado di nuocere a nessuno, era disarmato. Forse la mitragliatrice non aveva nemmeno più cartucce. I1 suo destino era segnato. I1 cacciatorino correva, gli era sopra, lo minacciava con la sua arma. Gli puntò sopra e scendendo sopra di lui scaricò l'arma. I colpi andarono falliti. L'austriaco fece un soprassalto e continuò a scappare pigliando quota. Scappava. Ora che aveva trovato l'avversario. Non ardiva più combattere. La sua specialità era l'aggressione, non la lotta. Con gli inermi era valoroso. Ma ora bisognava dimostrare la propria valentia, accettare il 100 combattimento, cercar di sopraffare il nemico. Per questo gli mancava il coraggio. Ma non poté scappare molto. Il cacciatore, dopo aver preso quota, si rilanciava sul nemico che cercava di sfuggire virando e cambiando direzione. Il nostro scendeva rapido come un falchetto sulla preda. Tesa ogni volontà, ogni forza. Anche l'apparecchio fremeva, le ali dovevan quasi spezzarsi, i comandi rompersi nella discesa fulminea e quando fu ben sopra, bene a picco, che sembrava quasi dovesse urtarlo nella caduta, lanciò la morte. Quattro pallottole: ta, ta, ta, ta… E furono sufficienti al compito. Il nemico era colpito nella sua parte vitale. S'abbassava, cadeva, precipitava. I comandi non rispondevano più. E poi una fumata nera in mezzo a cui guizzavan le fiamme. Era un fuoco che cadeva lasciando una scia di fumo. Ed ancor più rapido si capovolse due o tre volte su se stesso e si infranse al suolo. Il vincitore l'accompagnava nella caduta, seguiva la preda quasi temendo che potesse ancora sfuggirgli. E poi si rialzò vittorioso, girò sul caduto e riattraversò le nubi come una saetta. Come era venuto, scompariva. Scompariva liberandoci da un incubo. Ma come si poteva andare avanti più rapidamente? Le strade erano sempre più ingombre. Ma anche se la via fosse stata sgombra non avremmo potuto avanzare più rapidamente. I cavalli erano stanchi, affamati, trascinavano i pezzi perché si andava al passo, non avrebbero potuto trottare che per pochi minuti, e poi si sarebbero addirittura fermati esausti. I cavalli mi preoccupavano enormemente. Ed il servente che si era fatti scappare quelli di ricambio. C'era da uscir pazzi. Eppure bisognava trovarne altri, requisirli, toglierli a qualche carretto per poterli poi attaccare ai pezzi. Era l'unica risorsa che avevamo, e bisognava agire senza compassione e senza sconforto. Ed un primo cavallo togliemmo ad un carretto che trasportava soldati. Li facemmo scendere a viva forza, buttammo via la carretta e conservammo il cavallo. Era ancora in gamba; anzi ne approfittammo quasi subito mettendolo al posto di un cavallo che non tirava più malgrado le urla e le frustate dei conducenti. E con lo stesso metodo ne prendemmo altri due. Un terzo fu preso in una casa di contadini che restavano. Era un cavallo grigio e robusto, ben nutri101 to, riposato. Si poteva mai lasciarlo in mano agli austriaci? E cosi, malgrado le proteste, lo pigliammo pagandolo centocinquanta franchi. Ma fummo troppo onesti. Si sarebbe dovuto prenderlo addirittura cosi, senza storie. Quel che serve, serve. Un altro paese in subbuglio. Ma quasi tutti erano restati, e domandavano informazioni, spiegazioni, consigli. Dove erano gli austriaci? E da che parte venivano? Che bisognava fare? Per tutta risposta domandai se avevano un giornale. No. Giornali non ne arrivavano più, posta nemmeno. I treni arrivavano vuoti e ripartivano carichi di profughi. Dove andavano? Mah! In Italia. E voi altri perché non andate via? Non abbiamo più niente, che volete che ci facciano? Cosa dolorosa a dirsi. Eravamo stati noi a saccheggiare il paese. Italiani contro italiani. Quelli che si erano fermati li avevano preso tutte le provviste, tutti i vestiti, avevano rotto i mobili per farne fuoco, avevano rotto le botti dopo essersi ubriacati. Le stalle erano state vuotate. Solo qualche bue o qualche vacca era stata salvata a stento. Ufficiali non se ne erano visti, i soldati non erano stati fermati da nessuno. Pareva che fossero passati i tedeschi già. Questo aveva fatto il soldato, il valoroso soldato italiano. Come, come si erano ridotti a tal punto? Che succedeva? Dove si era giunti? E tanta ignominia da chi avevano appreso? Se eran quelle le truppe che formavano la seconda armata non mi meravigliavo più di quanto era successo. Orrore, orrore. Ormai era passato mezzogiorno. Il sole era di nuovo scomparso dietro le nuvole che si oscuravano e ricominciò la pioggia. Ebbi un moto d'ira. Ma non sarebbe mai cessato di piovere? I1 freddo, la fame, la stanchezza, tutto, tutto si accumulava. Per Dio, non era forse meglio tagliar la corda? Scappar via, fermarsi in una cascina e basta! Che importavano gli austriaci. Certo non mi avrebbero ammazzato. Prigioniero. E che importa? Avrei finito di fare la guerra. Un po' presto, veramente. Erano appena quattordici giorni che ero giunto. Ma in un buon momento. Non c'era che dire. E pensare che ero giunto con tanto entusiasmo, con tanta gioia, ed ecco che un bel giorno gli austriaci ti fanno un po' di bombardamento. Noi si fa dietro front, e via. Tutto in mano loro. Con tutte le difese, le posizioni, non si era stati capaci di far niente. 102 Gli italiani si ritirano: il ponte di Codroipo Ottobre 1917. Sulle strade della ritirata. - Kriegsarchiv Wien - 103 Ma allora perché si erano conquistate? Tanto sarebbe valso restar dove si era. Avanti, signori austriaci, avanti. Favorite, accomodatevi. Dove vi volete fermare? Ancora un poco? Subito, si figuri. Veramente eravamo mandolinisti. Rivedevo il Tagliamento che avevo traversato tredici giorni prima recandomi in zona di guerra; rivedevo il fiume largo, enorme, fiancheggiato da alberi, su i cui greti v'erano i carabinieri per impedire che i disertori lo traversassero per ritornare in Italia. Cosi come non dovevano riuscire a passarlo i disertori, così non dovevano riuscire a guadarlo gli austriaci. Nelle acque basse sarebbe stato facile disporre molti reticolati; lungo la riva le mitragliatrici avrebbero fucilato il tracotante nemico, le nostre artiglierie disposte un po' indietro avrebbero seminato tra le orde barbariche la strage. La pioggia continuava a cadere lenta, inesorabile. Vi sottostavo con altri serventi. Non ne dovevamo forse essere contenti? Come bagnava noi, cosi pure il nemico. Gli aeroplani non potrebbero venire a bombardarci. Sotto la pioggia il loro compito diveniva più difficoltoso. E le truppe avversarie dovevano trovare le strade di comunicazione in pessimo stato, per modo da impedire una rapida avanzata che avrebbe completato l'orrendo disastro. Bisognava dunque ringraziare il maltempo che ci era propizio nel disastro. Era il pomeriggio avanzato. Ero stanco di stare a cavallo. Ne discesi. Lo attaccai al pezzo e seguii la strada a piedi. Dio, come ero bagnato! Non c'era un angolino della camicia che non fosse fradicio. Ad ogni movimento la sentivo fredda sulla carne. Ma ciò che ai primi passi mi diedero maggiore fastidio furono i piedi. Posti nelle staffe, solo la pianta veniva bagnata dall'acqua entrata nelle scarpe. Ma ora, camminando, mi copriva il piede e la sentivo salire ogni volta che lo posavo. Discendere ogni volta che lo rialzavo. Era proprio una pompa aspirante e premente che avevo in ogni scarpa. Cambiarsele? E come? E anche cambiandole si sarebbero dovute cambiare anche le calze ed asciugare il piede. Troppo lusso, veramente. Chi me ne avrebbe dati i mezzi? Avanti dunque! Nelle pozze, che importa? Anche se entrava nuova acqua non me ne sarei accorto. E poi, poco a poco mi abituavo a sentire i piedi in quello stato. Ogni tanto la 104 colonna si fermava e mi fermavo pure io. Avevo trovato su di un carro rovesciato un po' di fieno e di biada che avevo messa li da un pezzo. Approfittavo delle fermate per far mangiare nella mia mano il cavallo. Povera bestia. Doveva esser stanca anche lei! Ed intanto non c'era rimedio, fin quando avrebbe camminato, doveva portarmi. I cavalli da tiro cominciavano anche loro sfiacchirsi. Avevano il dorso piagato, si dovevano cambiare in continuazione, ed intanto tiravano, tiravano ancora. Da loro dipendeva la salvezza dei pezzi. In un paesino avemmo la ventura di trovare nel fango un giornale. Lo prendemmo, lo aprimmo. Era del giorno. Naturalmente guardammo il comunicato Cadorna. Le parole esatte non le ricordo, ma in complesso diceva: «L'esercito italiano si ritira col massimo ordine, secondo quanto è stato prestabilito, sul Tagliamento».15 Ah! Anche l'ordine saltava fuori. L'ordine? Dove lo erano andati a pescare? L'ordine. Parola buona a gettar sabbia negli occhi del paese, ma non nei nostri. Che purtroppo vedevano. Ed il disordine, mio Dio, che sarebbe stato? Qualche cosa di inconcepibile. Un caos. Potevamo esser contenti. Ci ritiravamo con ordine. Ma bene! Infatti si vedeva. Ognuno per la sua strada e tutti per la medesima. La fanteria si mischiava con l'artiglieria? La cavalleria cercava di toglier fuori ambedue? I carreggi rovesciati nei fossi? Le armi perse, buttate? I soldati fuggiti, nascosti, disertori? I paesi rovinati? I profughi? Tutta roba da poco. Questo era ordine, ordine, ordine. E poi si parlava pure di qualche cosa prestabilita! Nelle previsioni c'era dunque anche la ritirata. Buono questo. Perdere qualche chilometro, vada pure, la guerra è piena di alterne vicende. Ma ritirarsi per 100 e più chilometri? Anche questo era previsto, lasciar invadere l'Italia. Dunque ciò che noi non avevamo voluto neppur lontanamente supporre, i nostri capi l'avevan ragionato a sangue freddo. Si, ci si ritira fino al Tagliamento. Roba di poco, anzi niente. E dopo le disposizioni prese, questo era l'effetto. Ma bravi! Ma bravi! Oh il soldato non aveva tutti i torti dicendo di essere stato tradito. Non lasciammo correre il bugiardo comunicato fra i soldati, ma lo distruggemmo subito. Ma essi avevano visto, avevano notato e volevano notizie, spiegazioni. Dissi che il comunicato annunziava 105 Truppe austriaxhe superano l’Isonzo su di un’imbarcazione - Kriegsarchiv Wien - 106 la nostra ritirata sul Tagliamento e per togliermi dall'imbarazzo rimontai sul cavallo. L’ombra della sera ricominciava a scender. Lenta incombeva con la sua tristezza su di noi. Ed aumentava in me la stanchezza. Finche c'era luce non l'avevo molto sentita, ma ora che il sole tramontava sentivo che mi riafferrava inesorabile, mi impediva ogni volontà, ogni forza, credo che non sentissi più la fame, solamente avevo bisogno di riposare, di dormire, di stendermi in qualche posto, pure per terra, se non vi fosse stato altro posto. Cercai una sigaretta asciutta. Ne avevo messi un paio di pacchetti sul petto, contro la pelle, ed infatti li ne trovai una che, quantunque non secca, era ancora fumabile. La scatola dei cerini con lo stesso metodo, pure aveva un po' resistito. Accesi la sigaretta e procurai di non farla bagnare tenendola riparata sotto il cavo della mano. L'altra l'avevo messa in tasca, chiusa nel guantone di pelle foderato di pelliccia, e mi era restata un po' asciutta. Le redini le avevo abbandonate sul collo del cavallo, che da solo seguiva la via senza aver bisogno di comandi. La sigaretta mi stordì un poco e mi fece avvertire dei crampi allo stomaco. Cercai nel famoso sacco che conteneva il bottino del carro, e non vi trovai che due gallette spugnate e piene di peli del sacchetto. Ma che importava? Sempre era qualche cosa da mettere sotto i denti, e non domandavo altro. Le mangiai lentamente, assaporandole. Ogni boccone lo voltavo e lo rivoltavo nella bocca, non mi decidevo a buttarlo giù se non fosse prima ridotto come una poltiglia. Impiegai una trentina di minuti ad ingoiarla. E quando furono finite ne provai un profondo dolore. Oh! Che miseria! E chi sa per quanto altro tempo ancora, perché certo ne sarebbe passato, prima di poter riorganizzare il rifornimento. E l'acqua continuava a cadere, lenta, inesorabile. Oramai la sopportavo passivamente, pensando che la polmonite cui andavo incontro mi avrebbe procurato un ospedale, un letto bianco con delle lenzuola tra cui stendermi. Certo giù in Italia i borghesi, malgrado tutte le ansie stavano sedendosi alla tavola asciutti, illuminati dalla luce elettrica, con delle belle stoviglie, le posate lucide, il tovagliolo sulle gambe con la minestra fumante pronta… che importava del disastro? E ragionando in tal guisa a poco a poco chinavo la testa sul collo del 107 cavallo e di nuovo mi assopii. I1 cavallo pensava lui a portarmi seguendo la colonna. Quando la colonna si fermava, nel dormiveglia capivo lo stesso che il moto era interrotto, aprivo gli occhi e mi guardavo in giro. E così si continuava ad andare avanti, come Dio voleva. Durante la notte si avanzò però poco, ché la colonna subì frequenti interruzioni lunghissime. Ed infatti col buio che c'era era difficoltosissimo proseguire. Sul far dell'alba ebbi, chi sa come, un sogno. Mi sembrava di stare a casa; ma la casa era sul Carso, e si muoveva. Bisognava andare a pranzo ma, ora per una ragione, ora per un'altra, non si arrivava a tavola. Io volevo farne osservazione, ma non osavo per non attrarre su di me l'attenzione, perché ero tutto bagnato, chi sa come, e non potevo cambiarmi. Poi mentre stavamo sedendoci a tavola questa scomparve. Io trovavo la cosa naturalissima, anzi la prevedevo perché sapevo di non poter mangiare. Ed avevo fame. Avevo le gambe che mi dolevano. Finalmente mi sentii buttare avanti e mi svegliai su collo del cavallo. Cominciava a spuntare il terzo giorno. Note 14 Acquaviva che fino ad allora aveva sposato in pieno la tesi del tradimento e del disfattismo giolittiano, nel corso della drammatica ritirata cambia idea, si rende conto che le cose stanno diversamente e perde l’entusismo giovanile (ma lo ritroverà) che l’aveva sempre sostenuto. 15 E finalmente, anche il compassato napoletano (tanto compassato da non sembrare un napoletano) perde la pazienza. Quando legge sul bollettino che «l’esercito italiano si ritira col massimo ordine» sbotta: «dove lo erano andati a pescare l’ordine?». L’idea del tradimento è confermata ma gli attori sono diversi. Non più i soldati ma i capi, «i nostri capi». 108 31 ottobre 1917 La pioggia era cessata. La luce del sole era pallidissima, la strada regionale non era più tanto ingombra, se i cavalli fossero stati freschi si sarebbe potuto anche trottare, ma nelle condizioni in cui stavano bisognava rinunziarci. Quello però che restava era la fame. La fame, la fame! Che cosa si poteva mangiare? Niente. Tutto era finito, provvigioni più non ce n'erano, bisognava stringere la cinghia, e più di un buco. Liquori nemmeno più ce n'erano, eran finiti anche quelli. Si passava presso un campo. Due soldati si buttarono giù da un pezzo e scapparono nel terreno coltivato. - Che fate? Tornate qui subito... - Adesso, un momento, sor tenente. Li lasciai fare infastidito. Potevano scappare tutti, e poi me ne scappavo pure io. Salute a lor signori. Veramente non ne potevo più. Ma quale fu la mia sorpresa quando i soldati tornarono carichi di rafanelli. Non erano proprio rafanelli, erano molto più grandi (poi ho saputo che eran rape). Subito li cominciammo a mangiare. Senza scrupoli, mi feci avanti, ne afferrai uno e quantunque sporco di terra lo mangiai avidamente, e ne mangiai molti, trovandoli pure saporitissimi. Quei rafanelli mi misero di buon umore ed incitai i soldati a continuare la caccia, quantunque non ce ne fosse bisogno perché anche loro avevano fame, per lo meno quanto me. E si andava avanti. A poco a poco la confusione incominciava. Ci avviavamo al ponte del Tagliamento dove già immaginavo la confusione che avrei trovato. Le strade conducevano a due ponti principali, quello della Delizia e quello di San Vito, e per questi due sarebbero passate le truppe, se pure si fosse fatto in tempo ad arrivare. Poiché circolavano voci di artiglieria nemica che ci seguiva alle calcagna. Pensavo a tutto questo quando mi si avvicinò un soldato che mi disse: - Signor tenente in quel camion c'è un tenente che lo vuole. Mi ha fatto segno di chiamarla. - Chi è? - Mah! Un ferito! Chi poteva essere? Mi diressi verso il camion vicino, vi gettai 109 uno sguardo ed a stento riconobbi Negretti. Come era cambiato! Non si riconosceva più la faccia sincera, allegra, sorridente. Era abbattuto, sporco, lacero, sanguinoso in faccia. Delle bende rossicce gli fasciavano il volto, il resto del corpo stava sotto una coperta da campo. Cercò di sorridermi. - Negretti, Negretti. Che è? Che fai? Mi fece un sorriso stanco. - Ti han ferito! Dove? Mi additò il braccio, il fianco, la testa. - Coraggio Negretti. Vedrai che passerà. Dopo tutto l'hai preso a Cotici, dopo tanto strapazzo tiri ancora avanti. Quindi ti salvi, siamo vicini al Tagliamento. Fra poco ci siamo. E poi vai in ospedale, ti curano, guarisci, sei a posto. Ci rivedremo in batteria ancora. Ci conto, lo sai? Gli sorrise ancora tristemente. Doveva proprio sentirsi male, molto male. Come potevo aiutarlo? Non ne avevo i mezzi. Gli guardai ancora le bende sporche poi pensai che dovevo avere indosso un pacchetto di medicine trovato su di un carretto rovesciato. Era ancora asciutto. La colonna era ferma. Chiamai un soldato del pezzo, gli diedi il cavallo, saltai sul camion. Mi avvicinai a Negretti. Gli domandai: - Dove ti fa più male? Mi additò il fianco sinistro. Allora con cura gli levai la giacca che aveva gettata sulle spalle, gli aprii la camicia. Apparve il petto sporco di sangue raggrumito. Cercai dell'acqua. Un soldato del pezzo mi si avvicinò con una bottiglia di vermouth. Credo che mai dottore abbia usato liquore invece di acqua. Io l'usai. Adagio, adagio. Gli lavai il petto. Gli disfeci la fascia facendo attenzione a non strappargliela bruscamente. Sotto il cotone idrofilo apparve la ferita. Accanto al cuore la scheggia aveva fatto la sua opera. La ferita era larga. Per fortuna non sanguinava più. Le labbra erano ravvicinate. Bagnai il cotone idrofilo e lo distaccai. Negretti si lamentò. - Aspetta.... Fò piano - gli dissi. Mi ringraziò con la testa. Allora aprii il pacchetto di medicazio110 «Sotto il cotone idrofilo apparve la ferita. Accanto al cuore la scheggia aveva fatto la sua opera...» Nella foto: un posto di medicazione sul fronte carsico - Museo del Risorgimento di Treviso - 111 «Negretti giunse in Italia. Fu ricoverato in un ospedale. Ma la ferita era troppo grave e dopo un mese e mezzo egli moriva. Aveva rifiutato la licenza per essere al suo posto...» - Museo del Risorgimento di Treviso - Un ferito in barella - Museo del Risorgimento di Treviso - 112 ne. Spezzai la fialetta della tintura di iodio e con un po' di ovatta ne bagnai le labbra della ferita. Poi con il cotone idrofilo coprii tutto. Ed in ultimo lo fasciai con la fascia pulita del pacchetto di medicazione. - Grazie - mi disse. Era commosso. Restava nella bottiglia un po' di vermouth e glielo feci bere. Riprese un po' di forza e mi strinse leggermente la mano. - Coraggio - gli dissi - vedi che passerà tutto. Ci rivedremo ancora, sai? Me lo prometti? Gli abbandonai la mano. Gli feci una carezza in volto e saltai giù. Ripresi il cavallo. Si restò fermi ancora un poco poi la colonna si mosse, e non pensai più al camion. Negretti giunse in Italia. Fu ricoverato in un ospedale. Ma la ferita era troppo grave e dopo un mese e mezzo egli moriva. Aveva rifiutato la licenza per essere al suo posto. Meritava sorte migliore, ma la fortuna gli fu avversa. Volontario di guerra per sentimento moriva a venti anni per la patria dopo otto mesi di lotta. Per fortuna più non pioveva. Traversammo un altro paesello. Fermati vicino ad una cascina mi ci diressi sperando di trovare da mangiare per il cavallo e per me. Nella cucina alcuni soldati erano intorno al camino, ove era acceso il fuoco. Sopra vi era sospesa una pentola. Smontai da cavallo e mi accostai. C'erano messe a bollire delle patate. Niente mi parve più appetitoso di quelle patate. Me ne feci dare una, la sbucciai. Non era salata ed era ancora un po' cruda. Eppure niente mi parve più appetitoso, più buono. La mangiai lentamente con gusto. Poi non osai domandarne un'altra. Mi fu offerto del vino e ne bevvi un bicchiere. Era il primo bicchiere di vino che bevevo dacché stavo in guerra. Mi parve buonissimo ed uno mi bastò. Poi tornai nel cortile. Trovai il cavallo che si era accostato ad un mucchietto di fieno e lo mangiava con devozione. Ma non potevo lasciargli fare tutti i suoi comodi. Lo feci bere in un secchio e poi ritornai a posto. Quella patata calda, la prima cosa calda presa dalla mattina del 27 mi diede nuove forze. Ma ero stanco, sempre stanco. Capivo che restavo sveglio perché c'era luce, perché era giorno, ma 113 ero certo che appena calata la notte non sarei stato più capace di rimanere desto. La mia speranza era di passare prima di notte il ponte del Tagliamento. Eravamo ormai giunti a Talmasan16 dove avevamo importanti depositi di bestiame da macello. Qui vidi uno spettacolo impressionante. Ad uno di questi depositi era stato appiccato il fuoco. I bovi erano stati legati con le funi per le corna a travi di ferro. Il recinto bruciava. I1 fuoco si propagava rapidamente attraverso la paglia buttata per terra, raggiungeva le lettiere, ardeva le gambe alle bestie. I buoi atterriti, spaventati, muggivano orribilmente, si sforzavano a spezzare i legami che li trattenevano nella fornace. Davano strappi formidabili, si contorcevano, muggivano. Pensavo che le funi sarebbero arse ed allora gli animali scatenati avrebbero potuto far disastri. E quel che prevedevo in breve successe. In seguito a strapponi più formidabili gli animali avevano spezzati i legami, e si gettavano in qualunque senso pur di scampare alle fiamme. Ora avevano il varco facile verso la strada. Ci fu un grande panico, ma la situazione fu miracolosamente salva. Si trovava, a portata di mano, una nostra mitragliatrice. Fu piazzata in un attimo e cominciò a far fuoco. Subito fu imitata da altri soldati armati di fucili. Ed io stesso presi un moschetto e sparai due caricatori. Qualche colpo andò a segno. I bovi a poco a poco cadevano, poi, capito che era pericoloso passare sulla via, fecero un rapido dietro front e si diedero a corsa spietata per i campi, inseguiti ancora da qualche ultima fucilata. Si vedevano spesso animali a vagare per la campagna. Al Tagliamento, verso Codroipo, verso Casarsa c'erano i grandi parchi di bestiame. Trasportarli non si poteva e per non farli prendere tanto comodamente dal nemico si lasciavano in libertà per i campi. Forse i contadini li avrebbero presi, se ne sarebbero un po' giovati. Ed infatti in questi ultimi paesetti pochi abitanti erano scappati. I più non si erano saputi decidere al primo momento ed ora vedevano l'impossibilità di fare entrare un carretto di più nella colonna così serrata. Quindi restavano. E si vedevano donne e ragazzi accanirsi intorno alle carrette rovesciate, per vedere se vi fosse qualche cosa di utilizzabile. E tutto era buono, tutto sarebbe stato oggetto di lucro. E più di un soldato si fermava vicino a questa 114 gente e contrattava sia per comperare che per vendere. E ricorderò sempre che vidi un soldato vendere ad un ufficiale per cinque lire un anello d'oro con un brillante, frutto di chi sa quale gioielleria svaligiata. Certo non era quello l'unico caso del genere, e d'altronde pensavo che era sempre meglio conservare la roba presa anziché abbandonarla agli austriaci. Agli imbocchi delle strade secondarie vegliavano i carabinieri per regolare la circolazione, ma i loro sforzi riuscivano completamente vani. Tutti cercavano di fare presto ad infilarsi nella colonna, sfuggivano alla sorveglianza, ricordo che si cacciavano fra le zampe dei cavalli, cercando di fermarli per passare oltre. Una carretta che voleva passare ad ogni costo fu urtata dalla ruota del pezzo e si rovesciò nel fossato. Mi raggiunsero delle imprecazioni, delle bestemmie, ma non vi feci gran caso. Più avanti, fra strada e campo, nel prato, s'era ammucchiato l'impossibile: pezzi, automobili, camions, carrette, avantreni. E fu lì che vidi per l'ultima volta il nostro carro bagaglio. Aveva però ancora le bagaglie e gli uomini di corvée. Tutto era intatto. Se si fosse fatto saltare il ponte della Delizia qualche ora più tardi, avremmo salvato anche i bagagli. Disgraziatamente, in seguito ad un falso allarme, il ponte saltò prima del tempo ed andò tutto perso.17 Li vidi ancora il mio attendente di Pec' e di cui non ho saputo più nulla. Ma credo che si trovi prigioniero in Austria. Poi nacque un nuovo allarme, cagionato da un aeroplano che si avanzava. Non si riusciva a capire se fosse nostro o nemico, ma ognuno lo temeva. Si avvicinava alla colonna. Quando fu per tagliarla, quasi al di sopra di me, riprovai la stessa impressione del giorno prima: se lascia andare una bomba sono fritto. E rivolsi lo sguardo all'apparecchio. Ma non cadde nulla. Poi scese più in basso e si potevano vedere i colori. Era un aeroplano nostro. Mi sentii rassicurato. Ricominciava il pomeriggio e di nuovo si accumulavano nuvoloni sul nostro capo. Anzi adesso si era levato del vento che mi gelava attraverso gli abiti bagnati. Quasi desideravo che venisse la pioggia pur di spezzare quel vento infame. Ma quando poco dopo ricominciò a piovere pensai che sarebbe stato preferibile il vento. Qualunque cosa fosse, bisognava prenderla come veniva, ed era perfetta115 mente inutile ragionarci sopra. Avevo di nuovo fame e non sapevo come liberarmene. Non c'era che fare, bisognava stringersi la cinghia. Liquori o vino non mi attiravano e, anzi, ne provavo quasi disgusto. E quel che peggio era, mi sentivo stanco, abbattuto, incapace di pensare. La testa mi doleva, era pesante, non mi lasciava in pace. Chiudevo gli occhi e sentivo piegarmi sulla testa del cavallo. Ma il pensiero che i soldati mi vedevano mi dava un po' di energia. E continuava la lotta tra il sonno e la mia volontà ed ero certo che l'uno avrebbe vinto l'altra o prima o poi, quando accadde un incidente improvviso, il più grave di tutta la ritirata e che mi svegliò come per incanto. Potevano essere le sei del pomeriggio. L'aria incominciava ad imbrunire, pensavo che forse avrei dovuto passare un'altra nottata in viaggio a cavallo dormendo, quando mi sentii chiamare. - Aspirante! Mi voltai. Era un maggiore di fanteria che mi apostrofava. - Faccia distaccare i cavalli. - Mai, signor maggiore. - Stacchi, dico, e subito! Mi minacciava con la pistola. Portai la mano alla fondina ed impugnai la mia, pronto a servirmene. E poi in me quel maggiore aveva l'aria un po' sospetta. Non pronunciava bene l'italiano. Ma volevo vedere dove sarebbe finita la cosa. Ai comandi datimi era accorso vicino a me un tenente di un'altra batteria, anch'egli armato. - Perché bisogna staccare? - Subito, subito. Gli austriaci arrivano. Sono per i campi a poche centinaia di metri. - Ma lei chi è? Si faccia riconoscere. - La tessera - aggiunsi io. Qui l'uomo si imbrogliò. Cercò di articolar parola, poi improvvisamente si buttò nel campo a scappare. Lo stesso pensiero ci colpì ambedue: è un ufficiale nemico. Non ce lo comunicammo, ma partimmo ambedue a galoppo dietro al fuggiasco. Mi sentivo pronta la vendetta e già la assaporavo. Fummo subito alle spalle dell'indivi116 Scene di vita quotidiana fra le file avversarie. A sinistra: in servizio di sentinella . A destra, in alto: un autoparco austriaco; al centro: l’automobile del comando; in basso: momenti di convivialità. - Museo del Risorgimento di Treviso - 117 duo che quando si vide raggiunto si voltò e tirò due colpi di pistola. Non posi tempo in mezzo e pronto scaricai la mia, subito imitato dal compagno. Non andarono falliti. Il nemico cadde sotto le zampe dei cavalli. Tirò ancora un altro colpo, ed allora senza scrupoli gliene tirai uno alla testa, che lo finì. Saltammo giù da cavallo, gli aprimmo la giacca. In tasca gli trovammo delle carte. Leutnant Frederic... il cognome lo non ricordo, del 12° Feld artiglieria. Credevo che mi sarei impressionato, che la vista del sangue, specialmente versato di mia mano, mi avrebbe fatto orrore, mentre invece me ne ritornai calmo calmo al pezzo, dove feci noto di quanto si era svolto, e siccome mi sentivo sonno chiusi gli occhi e mi chinai sul collo del cavallo, scotendomi ad ogni passo brusco. Avevamo intanto passato Codroipo, e si era giunti quasi al ponte del Tagliamento. I1 ponte della Delizia, lungo circa settecento metri era il punto dove concorrevano le strade provenienti dal Carso. Tutta la terza armata e parte della seconda doveva passare sul ponte. E già da due giorni il transito continuava ininterrotto. Passavan truppe, passavan cannoni, passavan carreggi. I1 ponte sempre carico subiva senza dubbio uno sforzo superiore alla sua portata, ed i carabinieri cercavano il modo di disciplinare. Ma invano. Sul ponte scendeva il fiume di truppe che si erano ritirate. Giù in Casarsa la strada era in pessimo stato. La via era fatta ad acciottolato, ed il continuo passare dei carri aveva scavato due solchi profondi in corrispondenza della carreggiata, ed in alcuni punti questi solchi raggiungevano la larghezza di circa trenta centimetri. Quindi non si poteva riuscire ad evitarle. Ed infatti malgrado gli sforzi dei conducenti, le ruote dei pezzi finivano per cadere in quella specie di guida. Era inutile pensare a levarle, e si andò così avanti. La strada era stretta e vi passavano appena due file di carri con i mozzi distanti un mezzo metro. I mozzi esterni delle ruote sfregavano o quasi i muri delle case. Siccome si andava molto adagio e ci si vedeva un poco, cosi feci entrare il mio cavallo fra i sediolini del pezzo precedente e la pariglia di volata del successivo. Bisognava fare attenzione a non farsi stringere. A dieci o venti metri dal ponte vi fu una fermata più lunga delle solite. Si restò fermi, chi sa per quale moti118 vo, una ventina di minuti. Intorno ai pezzi gli uomini passavano avanti, vociando, urlando, bestemmiando. Sembrava una mandria incalzata che si precipitava verso l'unico passaggio che potesse dare la salvezza. Tutti miravano a quel punto. Si avanzava tra i mozzi dei carri contigui schiacciandosi contro i muri, passando sotto e gambe dei cavalli. Pensavo. Se il ponte dovesse saltare, certo farà una strage, ed anzi ciò accadrà necessariamente quando sarà dato l'ordine di farlo saltare. Chi potrà trattenere i fuggiaschi? Chi potrà opporsi alla loro volontà? Come non far mettere loro il piede sul ponte? Come poterli tener lontani? Dopo aver penato tanto, dopo aver tanto sofferto per arrivare alla mèta, al ponte della Delizia, a quel ponte dove eravam noi, sentirsi dire: «Non si può passare. Il ponte deve saltare». Deve saltare? E che importa? Io voglio passare lo tesso. Salterò pure io, ma non mi arrischio… Ed io stesso l'avrei passato, pur sapendo che ci avrei rimesso la pelle. Mai avrei potuto rinunziare dopo tanto, ad una speranza di salvezza. No certo. E prevedevo la scena tragica che sarebbe avvenuta al momento terribile dell'esplosione. Quante vittime ci sarebbero state? Finalmente venne al 47° il permesso di partire. Ci si avviò. Non sentivo più né fame né sonno. Un sol pensiero avevo fisso in testa: passiamo il Tagliamento. Questa sarà la nuova barriera frapposta col nemico; di qui ripartiremo per la vittoria. Invano tenteranno. Inutile riuscirà ogni sforzo, il Tagliamento sarà insuperabile. E sentii sotto lo zoccolo del cavallo risuonare il legno del ponte. Dava dei suoni che si ripercuotevano nelle arcate. I1 cavallo seguiva irregolarmente il passo. Le ruote dei pezzi davano un rumore sordo di tuono in lontananza, continuo, cupo. I comandi avevano voce più chiara, più netta, più vibrata. Gli uomini procedevano con passo svelto, deciso. Avevano raggiunto la salvezza. Ad un tratto dalla testa dalla colonna si chiamò: Aaaalt. Alt. La voce passò di bocca in bocca seguendosi rapida, fino in fondo. Si era fermi. Da basso, il fiume, piuttosto rapido gorgogliava infrangendosi contro i piloni. Era limaccioso e appariva sporco sotto il cielo senza stelle. Lo intravedevamo sotto a noi, segnando il nuovo limite. Poi venne acceso dalla parte italiana un riflettore ad illuminare. L'acqua ora scintillava. I cavalli accecati volgevano lo 119 120 «Avevamo intanto passato Codroipo, e si era giunti quasi al ponte del Tagliamento...» Il ponte ferrovoario di Codroipo demolito il 30 ottobre dagli italiani in ritirata. - Museo della Guerra di Rovereto - sguardo dalla parte opposta. I pezzi bagnati dalla recente pioggia apparivano scintillanti e riflettevano la luce. L'altra estremità del ponte era pure illuminata. Si vedevano i fuggiaschi accalcarsi e far forza a passare. I pezzi di artiglieria si seguivano l'un l'altro varcando il limite. Si ricominciava a camminare. Di tanto in tanto un territoriale avvisava di fare attenzione ai buchi nel legno. Bisognava badare a che i cavalli non vi capitassero con le gambe dentro. Il ponte continuava a risuonare del battito dei zoccoli. Ci avvicinavamo sempre di più a quell'Italia che credevamo sarebbe restata incontaminata. Rievocai nella mente le scene del viaggio: le rividi tutte contemporaneamente, in un attimo. Ogni cosa scompariva nel passato. Era fatta. Che importava l'aver sofferto quando oramai si era in Italia? Questa era la ricompensa a tutti i sacrifici. Non dovevamo più temere l'invasione, anzi l'aspettavamo col petto pronto a resistere l'ordine. Dal nuovo rumore che faceva lo zoccolo del cavallo compresi che il ponte era finito. I1 Tagliamento era stato passato. La ritirata poteva dirsi finita. Ora bisognava fermarsi ad una tappa qualsiasi pur di andare a prendere posizione. Oltre il ponte, nei campi, lungo i margini della strada, senza interruzione eran stesi fuggiaschi che dormivano o riposavano. Si eran buttati giù nel fango, nell'acqua, non importava dove, ma erano stesi, dormivano. Ora che eran giunti, la stanchezza s'era fatta sentire, ed il corpo e la mente reclamavano quella tregua che era loro assolutamente necessaria, dopo tanti stenti e tanta fatica. Ora che non potevano più temere di essere raggiunti dal nemico, riposavano sfiniti, insensibili, niente avrebbe più potuto svegliarli, se prima non avessero avuto il necessario riposo. Ed ora sentivo anche più tormentoso il bisogno di mangiare e di dormire. Mi sentivo sfinito, morto. L'esaltazione nervosa di quei giorni dava luogo ad un enorme accasciamento. Non mi sentivo capace di pronunziare una parola. Il cavallo mi portava automaticamente ed io reclinando il capo sul suo collo mi lasciavo vincere da un assopimento tormentoso e spesso interrotto. Intanto il nostro reggimento si era liberato dalla colonna. Giunto pochi chilometri oltre il ponte, aveva preso una strada secondaria e per quella procedeva. I cavalli, quasi capissero che si 122 era all'ultima tappa, camminavano più svelti, i conducenti li incitavano e poco dopo più di un'ora giungemmo a Santa Sabina. Qui il reggimento si fermò incolonnato sulla via. Gli ufficiali si riunirono tutti in una casa lì vicina. In una stanza dove c'erano altri ufficiali, trovai un poco di paglia libera in un cantuccio e mi buttai lì sopra. Non ero ancora steso che già dormivo profondamente. Fui svegliato circa due ore dopo dall'ufficiale di guardia alla mia batteria a cui dovevo dare il cambio. Trovai, passando nella sala vicina gli ufficiali che mangiavano quel che si era potuto trovare. Presi subito una scatoletta e mezza di carne in conserva, quattro gallette e me ne andai ai pezzi. Mi sedetti su di un seggiolo e ricominciai a mangiare. Non ho mai mangiato con tanto gusto. Poi mi misi a passeggiare lungo la linea dei pezzi per non farmi cogliere dal sonno. I serventi dormivano stesi a terra o sui pezzi, altri avevano acceso in un campo li vicino un gran fuoco e ci si riscaldavano. Mi avvicinai al fuoco. I serventi vi cucinavano un paio di pollastri acchiappati chi sa dove. Mi invitarono a prender parte, ma io mi rifiutai e mi accontentai di riscaldarmi al fuoco. Mi piaceva di più. Mi tolsi il pastrano e lo esposi al fuoco. Si asciugò un poco, ma era sempre bagnato. I serventi attaccavano a gran forza di mascelle il pollastro ancora mezzo crudo. Poi quando ebbero finito si buttarono accanto al fuoco a dormire. A poco a poco passarono le due ore della mia guardia, andai a svegliare chi mi doveva dare il cambio, ne presi subito il posto e mi rimisi a dormire immediatamente, tutto bagnato come ero, ma mi pareva di essere su un letto di piume. Note 16 Talmassons 17 Acquaviva conferma il caos circa l’assegnazione dei ponti sul Tagliamento e stigmatizza gli errori e i conseguenti danni provocati da quegli errori con la dolorosa perdita di decine di migliaia di uomini rimasti sull’altra sponda. Sull’assegnazione dei ponti cfr. CAVIGLIA, Enrico. La dodicesima battaglia, Milano, 1935, e Diario, (aprile 1925 - marzo 1945), Roma, 1952. 123 Prigionieri italiani smontano le campane di una chiesa. La carenza di materie prime spinge gli austro-ungarici a recuperare ogni cosa. - Kriegsarchiv Wien - 124 1 novembre 1917 Quando la mattina seguente mi svegliai mi sentivo tutto indolenzito. La paglia su cui mi ero buttato non era molta ed avevo potuto constatare che il pavimento era duro. E quel che era peggio era che mi sentivo tutto bagnato ancora, dai capelli alle scarpe. Me le levai. Erano veramente in condizioni da far pietà. Levai anche le calze e ne spremetti l'acqua che contenevano. Non ne avevo altre e le dovetti rimettere così come erano. Ma doveva ben arrivare il carro bagaglio e li con le due cassette avrei avuto ben da cambiarmi, non una, ma dieci volte. Mi guardai intorno, c'erano ancora in terra tre o quattro che dormivano. Non mi venne la voglia di imitarli. Quantunque ancora stanco, non potevo sopportare il freddo della giacca sulle spalle. Quella impressione mi toglieva ogni volontà di riposo. Mi buttai addosso il pastrano. Era fradicio anche lui. Acqua, acqua, sempre acqua. E se per lo meno ci fosse stato un po' di sole. Ma nemmeno quello, nemmeno quello. I1 cielo era tutto chiuso e non presagiva niente di buono. Uscii sulla strada e raggiunsi la mia batteria. Mi sentivo stanco e svogliato. Avevo pure fame. Dove trovar qualche cosa? Era un sogno. I miei soldati non ne avevano certo nemmeno loro. L'unica cosa era di fare la faccia tosta e di entrare in qualche cascina. La mia batteria si trovava per combinazione incolonnata proprio lungo una casa. Dal camino usciva un bel fumo e pensai che ci doveva essere anche il fuoco. Aprii la porta ed entrai. Per lo meno mi sarei riscaldato. La camera era addirittura invasa. Vicino al focolare intravidi il capitano Mazzarella. Mi feci strada, mi presentai e salutai. - Come sta, Acquaviva? - Tutto bagnato, come vede, signor capitano. - Cerchi di riscaldarsi anche lei. Ha mangiato? - Niente, signor capitano. - Si prenda una tazza di latte. Ce ne sta. E' in quella pentola disse additandone una che stava sul fuoco. Li vicino c'era pure una tazza. Era grande, meglio così. La riempii col latte caldo. Una donna mi accostò un bel pezzo di polenta. 125 Pezzi di grosso calibro abbandonati in tutta fretta durante la ritirata - Museo del Risorgimento di Treviso - - Ufficiali auistro-ungarici all’interno di un posto di comando - Museo del Risorgimento di Treviso - 126 Polenta e latte. Ma era l'insperato, era il paradiso. Caldi tutti e due. Roba calda da mettere in corpo. Che sollievo. Non sapevo da che parte decidermi. Mi sembrava un sogno. Cosa valevano tutti i banchetti del mondo? Lucullo in quel momento era eclissato. E a rendere la cosa ancora migliore contribuì il ciclista che si era avvicinato. - Ci vuole del cognac dentro, sor tenente? - Metti pure, metti pure. Ce ne mise un bel pò. Attaccai un bel pezzo di polenta. La bagnai nel latte e dopo averlo ben bene spugnato lo misi beatamente in bocca. Oh dolcezza ineffabile. Mai in vita mia avevo mangiato cosa più saporita. I1 latte bollente, il cognac che mi bruciava la bocca e poi lo stomaco. La polenta su cui agivano i denti che tanto erano stati inoperosi, tutto contribuiva a rendermi in quel momento l'uomo più felice del mondo. Mandai giù la colazione con raccoglimento. Quantunque cercassi di farla durare a lungo, venne il momento in cui vidi il fondo della ciotola. Era finito. Amen. Un ultimo boccone di polenta. Ricerca delle briciole cadute. Uno sguardo circolare alla ricerca di qualche altra cosa da mettere sotto i denti. Nulla. Chi sa per quanto tempo mi dovrà bastare questa colazione - pensai. Erano tre giorni che si inventava un pasto qualunque. E forse non si era ancora finito. E sempre gli abiti bagnati. E la pioggia che cascava sempre. E la ritirata che continuava. Ora eravamo ben giunti al Tagliamento. Potevamo anche restare lì. I1 nemico si poteva far arrestare. O si doveva andare di quel passo fino in Sicilia? Ero giunto proprio a tempo per veder belle cose. I1 quindici ero giunto. Dodici giorni ero stato sul Carso e poi via. Ritirata. Mi rivolsi a Curcio che stava seduto in un angolo. - Dì un po', Curcio, ci fermiamo al Tagliamento? - Pare di si. Si aspetta l'ordine di andare in posizione. - Finalmente! Curcio non rispose. La conversazione era caduta. Si era in una trentina nella stanza. Affollati, addossati gli uni agli altri. Eppure a chiudere gli occhi si poteva pensare ad essere soli. Nessuno parlava. Pochi si muovevano. Ogni tanto qualche parola, a bassa voce, le 127 necessarie per formulare una domanda o mettere insieme una risposta. Niente altro. Nessuno spreco di parole inutili. L'insieme era lugubre. Un'unica finestra che dava su una corte chiusa rischiarava male la stanza. Ogni tanto la fiamma si ravvivava, una vampata, poi ridiscendeva poco a poco. I soldati scomparivano in una semi oscurità. Sulle pareti si intravedevano degli oggetti che dovevano essere gli utensili da cucina. Un paio di quadri ai lati di uno stipo che attraverso i vetri lasciava vedere dei piatti. Di quando in quando la porta si apriva e mentre l'uomo o il soldato che entrava o usciva lasciava penetrare un soffio di umidità, si udiva il rumore della pioggia che cadeva monotona, un po' più di chiarore si perdeva e si arrestava dopo i primi soldati. Sembrava di essere in qualche tomba. Appoggiai i gomiti alle ginocchia e chiusi il volto fra le palme. Sentivo sul dorso delle mani ogni tanto un getto di calore più forte, forse determinato da qualche vampata di fuoco. E quel caldo era l'unica sensazione che mi arrivava dalla vita esteriore. Mi sentivo cadere, lentamente, senza paura con fiducia in un abisso nero, profondo, senza fine, che mi gelava le spalle e mi scottava il petto. Sapevo che bastava il minimo movimento per interrompere tutto, ma non lo facevo. I1 sollievo era più forte della pena. Per quanto tempo restai in quella maniera? So solamente che fu Curcio che mi tolse da quel dormiveglia scuotendomi per la spalla. Mi riscossi. I sogni erano spezzati bruscamente. L'unica cosa che restava ancora era il freddo alle spalle ed il caldo al petto. I1 resto era svanito. - Che c'e? - chiesi. - Su, che si parte. Non domandai nemmeno dove si andasse. Si partiva. Ci si muoveva. La destinazione non aveva alcun significato. La camera era vuota. Uscii. Era cessato di piovere ed il sole cercava di passare attraverso le nuvole. La batteria avanti a noi si muoveva. I1 capitano Mazarella diede l'ordine di montare a cavallo. Ci mettemmo a posto. Qualche altro minuto e poi si fu in marcia. Presi il mio solito posto dietro l'ultimo pezzo. Si andava al passo. Senza fretta. Non c'era la confusione dei giorni precedenti. Raggiunsi un attimo Cur128 cio e gli domandai se sapesse la destinazione. Mi rispose che dovevamo metterci in posizione a San Vito al Tagliamento, e che c'erano pochi chilometri. Soddisfatto me ne tornai al mio posto. Dunque l'orribile ritirata stava per finire. Mi sentivo meglio a questa idea. E quasi per far vedere che anche lui era soddisfatto il sole fece capolino fra le nuvole. Il sole! Che bella cosa! Finalmente avremmo avuto la fine della pioggia. Ed infatti si vedeva su in cielo dei lembi di azzurro, e le nuvole che a poco a poco si aprivano e lasciavano vedere il cielo. Si poteva dunque sperare che il tempo si mettesse al bello. Nel frattempo dovevano arrivare anche i carri, e con i carri le mie cassette, mi sarei potuto finalmente cambiare. In quanto agli austriaci li avremmo fermati. Più avanti del Tagliamento non dovevamo andare. Ed anzi, chi sa se era possibile forse una pronta riscossa? Non era possibile mandare truppe per mare a prendere alle spalle l'esercito austriaco che avanzava, prenderlo così in mezzo e distruggerlo? Vincerlo mentre cercava di essere vittorioso. Non sarebbe stato male. Il sole mi metteva addosso le buone idee. Ma ahimè, non ancora dovevano essere finite le nostre disgrazie. Avrei messo volentieri qualcosa sotto i denti, ma non avevo niente. Ma intanto era sicuro che la sera saremmo stati in posizione e quindi si sarebbe potuto dormire la notte al coperto. Se si capitava vicino ad una cascina. E altrimenti bisognava pensare ad alzare su una tenda. Si, ma mancavano i teli e quelli disponibili se li sarebbe presi il capitano Mazzarella. Mi avrebbe invitato a dormire con lui? Lo dubitavo. Non mi sembrava capace di tanto. Bisognava quindi arrangiarsi. Ma per il momento la cosa che più mi premeva era di mettere i pezzi in batteria, e presto pure. Così poi si sarebbe avuto il tempo di studiare e di risolvere il problema delle tende. In quanto al pasto, il capitano Mazzarella, pensando per sé, avrebbe pensato anche per noi. Mi accorsi che stavamo prendendo uno stradino traverso. Si andava dunque in posizione. E finalmente ci fermammo tutti in un gran prato. Partirono in ricognizione il colonnello Sabato ed i comandanti di batteria. Rimasero fuori circa un'ora. Intanto il cielo s'era tutto sgomberato dalle nuvole. Quando i comandanti ritornarono presero ognuno la propria batteria, e le batterie che da 129 «Più tardi - giorni dopo - si seppe che anche sul ponte di Latisana era successo lo stesso fatto...». I ponti sul tagliamento vengono fatti saltare con eccessiva fretta intrappolando migliaia di uomini oltre il corso del fiume. Nella foto il ponte ferroviario di Latisana. -Museo della 3a Armata di Padova - 130 tre giorni marciavano riunite, si separarono per raggiungere le postazioni assegnate. Alla mia batteria capitò un prato separato da un solo fosso dalla strada comunale. Le bocche dei pezzi eran puntate al fiume per sopra la strada. Bisognava stare attenti che non si passasse avanti la batteria mentre si sparava, perché c'era sempre da temere gli scoppi prematuri. Così finalmente la ritirata pareva finita. Per il momento si restava lì, e quindi bisognava pensare ad una tenda. Vidi che il capitano Mazzarella se ne stava facendo alzare una. Allora raggiunsi Curcio per domandargli consiglio. - Di un po', Curcio, stanotte dove si dorme? - Sotto la tenda. Nelle vicinanze non ci sono cascine. - I teli? - Purtroppo no. - I soldati? - Hanno appena una tenda per pezzo. Non gliela possiamo togliere. - E allora? - Allora andiamo sulla strada. Soldati ne passano e vedremo di combinare quattro teli da tenda. Era infatti l'unica cosa che si potesse fare, per il momento non c'erano da temere ordini di fuoco. Gli uomini si stavano facendo un po' di pulizia. I pezzi erano a posto. Il capitano Mazzarella, dopo essersi fatta mettere sotto la tenda la branda da campo che saggiamente si era fatta legare su un pezzo, ci si era ficcato dentro e pensavo che si fosse messo a dormire. La strada era lì. Ci salimmo sopra e aspettammo i teli al varco. Passavano parecchi soldati, ma erano tutti sbandati. Quasi nessuno aveva il fucile e la baionetta, pochi avevano conservate le mostrine ed il fregio. Si vedevano uniformi di ufficiali a cui erano state levate le stellette, si vedevano giacche che una volta erano state di soldato, ma che ora non erano buone che per il sacco dello straccivendolo. Parecchi però avevano conservato lo zaino, o il tascapane, quasi tutti avevano un fagotto. Nessuno andava a mani vuote. Da uno di questi fuggitivi sapemmo che il ponte della Delizia era stato fatto saltare. Quando? Io non avevo sentito niente. La guardia del ponte, ingannata da false voci, aveva creduto che il nemico fosse giunto e aveva fatto saltare tutto. 131 Poi ci si era accorti che c'era stato un errore, ed allora si era cercato di far qualche cosa alla meglio. Dall'altra parte del Tagliamento c'erano ancora migliaia di soldati e chilometri di carriaggi che dovevano passare. Gli austriaci non erano affatto giunti, ma non si era fatto altro che stabilire una specie di passerella nei punti addirittura separati dallo scoppio per far passare le fanterie. I cavalli non potevano transitare. Più tardi - giorni dopo - si seppe che anche sul ponte di Latisana era successo lo stesso fatto. A cosa attribuire questa coincidenza che fu fatale a tanta nostra artiglieria che dovette restar di là? Unica spiegazione è l'infiltrarsi di elementi nemici nelle nostre colonne in fuga per aumentare il disordine e la confusione e il disastro. Io stesso avevo avuto l'esempio di quell'ufficiale nemico travestito che aveva tentato di farci staccare i cavalli. A lui era andata a finir male, ma chi sa quanti erano riusciti al loro scopo. Appena sentii che il ponte era saltato il mio pensiero si rivolse ai nostri carri. Lì c'erano le mie cassette. I carri erano già passati oppure erano ancor di là? Noi li avevamo oltrepassati pochi chilometri prima di giungere al Tagliamento. Forse avrebbero avuto anche loro il tempo di mettersi in salvo. Ma in tal caso sarebbero già dovuti giungere. Domandammo che cosa si facesse dei carriaggi restati al di là e la risposta fu che in gran parte erano stati bruciati per distruggere quanto contenevano, per non lasciar preda al nemico. E veramente io avrei preferito che la mia roba fosse stata bruciata piuttosto che fosse servita ad arricchire il corredo di qualche austriaco. Ma mi dispiaceva perdere tutta quella roba, senza contare che mi era necessaria per cambiarmi. Sul carro bagaglio ci doveva essere pure un attendente. Ma quell'individuo avrebbe tutt'al più pensato a salvare se stesso piuttosto che le mie cassette. Poteva anche darsi che il carro fosse riuscito a passare ed in cuor mio preferivo questa ipotesi a tutte le altre. Ma il cervello mi diceva che ormai potevo lasciare la speranza. Ed infatti fu cosi. Il carro bagaglio era restato al di là e tutto era stato perso. Tutto il reggimento perse completamente carri e cassoni, ma salvò tutti i pezzi. Anzi, partito dal Carso con 31 cannoni, era giunto con 32. Quest'ultimo era stato trovato per strada. Si stentava però a riunire i quattro teli da tenda che ci erano neces132 sari. E ciò era logico. Perché quasi tutti l'avevano seminati per strada col resto del corredo e con l'armamento. Quei pochi che l'avevan portato fin qua, ne riconoscevano i vantaggi e si rifiutavano di darli. Né si poteva usar la forza in questo genere di cose. Bisognava comperare. Il venditore capiva e faceva pagar salato. Ma intanto noi volevamo sbrigarci. La sera si avvicinava e si voleva dormire al coperto. I quattro teli da tenda ci costarono 27 lire. Ma avere quelli significava la notte al riparo. E poi erano quasi nuovi e quel che importava, chi sa come, asciutti. Certo la tenda di Mazzarella era tutta bagnata. La nostra la drizzammo fra due alberi cercando un posto dove il terreno fosse un po' meno umido Vi facemmo scavare intorno il fossetto per lo scolo delle acque e vi facemmo mettere sotto una quantità considerevole di paglia. In mancanza di coperte saremmo stati caldi con quella. Così avevamo l'alloggio. Il vitto si riuscì a procurarlo: due scatolette e quattro gallette in tre. Il comando di reggimento aveva pensato al nutrimento degli ufficiali. Mangiammo le scatolette calde, una galletta per uno, e conservammo la quarta di riserva, e messo cosi a posto anche il ventre, non avemmo da fare altro che andare a dormire. Eravamo finalmente fermi al Tagliamento e credevo che la ritirata fosse finita. Restammo in quella posizione, senza incidenti, dal primo fino alla mezzanotte del 5 novembre 1917. Durante la permanenza, in principio, forse per rialzare il morale abbattutissimo dei soldati, erano state fatte correre voci che si davano per ufficiali, quantunque fantastiche, ed erano state alquanto credute. Una delle prime fu che a Trieste i nostri avevano operato uno sbarco in forze e che il corpo di armata, o l'armata che era sbarcata li aveva l'incarico di prendere alle spalle l'esercito austriaco, che aveva fatto la sciocchezza di scendere nella pianura. Questo fatto fu creduto per un poco più di ventiquattr'ore, ma poi si capì che non era vero niente. Poi si disse che di fronte a noi non vi erano austriaci, ma tedeschi, perché gli austriaci non volevano più combattere. Anche questa diceria svanì presto. In ultimo si diceva che Cadorna aveva fatto espressamente la ritirata. A questo punto le opinioni si dividevano. Gli uni dicevano che l'aveva ordinata perché 133 era stato pagato e che, anzi, era stato pagato fino al Po. Altri invece dicevano che tutte le potenze erano d'accordo per far venire presto la pace. Altri ancora raccontavano che Cadorna aveva fatto espressamente la ritirata per dare agli austriaci battaglia campale in pianura e sbaragliarli approfittando anche del periodo di preparazione e di assestamento che il nemico attraversava. Ma tutte e tre le argomentazioni avevano il lato debole. Alla prima si poteva rispondere che Cadorna aveva nel 1916 salvata l'Italia dall'invasione dalla parte del Trentino e che quindi, come aveva salvato una volta il paese, questa volta non lo avrebbe perso volontariamente. Alla seconda si faceva notare che se anche le altre potenze erano d'accordo, l'Italia non poteva atteggiarsi volontariamente ad una simile invasione e che se il governo avesse accondisceso, sarebbe successa la rivoluzione. Infine alla terza argomentazione si faceva capire che era finito il tempo delle battaglie campali e non si sarebbero più visti due eserciti assalirsi completamente l'un l'altro. I giornali non arrivavano, del che si approfittò per far correre la voce che in Italia c'era la rivoluzione, che Vittorio Emanuele aveva abdicato, che era stata proclamata la repubblica e che Giolitti ne era presidente. Poi gli ultimi due giorni corse la voce, e disgraziatamente questa era vera, che bisognava ritirarsi sul Piave perché il fianco sinistro era seriamente minacciato dal nemico ed occorreva accorciare il fronte. Il disastro che appariva scongiurato si disegnava sinistro all'orizzonte. Il giorno 4 venne l'ordine che si sarebbe partiti durante la notte, quindi bisognava tener i cavalli pronti per partire da un momento all'altro. Si preparò tutto. Le tende furono sciolte ed aspettammo tutta la notte l'ordine che non venne. Passammo la nottata appisolati accanto al fuoco che avevamo acceso in un fossato per non far vedere la fiamma al nemico.Venne il giorno e restò l'ordine di tenerci pronti. Si partì dal Tagliamento verso la mezzanotte del 5. Eravamo di retroguardia. Il grosso era già passato e ripiegava. Noi avevamo ritardato di ventiquattro ore perché di copertura. Con noi si ritirava un reggimento di fanteria, l'ultimo restato. Anche questa volta il pericolo era grave. Il Tagliamento era stato già varcato sopra di noi ed il nemico dilagava. Poteva capitarci 134 Ultimi accordi prima di uscire in ricognizione - Museo del Risorgimento di Treviso - 135 addosso improvvisamente o chiuderci una strada e prenderci tutti nella rete. La notte era fonda e buia. A malapena si distingueva la via. Dovevamo prima toccare il fiume, perché là si sbucava sulla provinciale e poi lo si doveva costeggiare per un tratto. Infine si sarebbe cercato di raggiungere al più presto il Piave. A San Vito si riunì tutto il reggimento. La quarta batteria fu messa di retroguardia. Furono dati ordini severissimi. Bisognava andare al passo per tutto il tratto di via lungo il fiume, impedire possibilmente ai cavalli di nitrire, proibire di gridare, anche se fosse stato per passare l'alt da un pezzo all'altro. Bisognava passare nel silenzio più assoluto. Nel caso che il nemico avesse alzato razzi, arrestarci immediatamente finché la luce fosse scomparsa. Dati tali ordini ci mettemmo in marcia. Andavamo adagio ed in silenzio. Impressionava la mancanza assoluta di quei richiami e di quei gridi che corrono sempre lungo una colonna in cammino. Se non fosse stato il rumore delle ruote e delle zampe dei cavalli, si sarebbe potuto credere ad una processione di ombre. Si sentiva l'acqua scorrere tranquillamente attraverso le alte piante che costeggiavano la strada. Tutto era lugubre. Dalla sponda nemica non si udiva rumore. Si intuì l'alzarsi di un razzo. Fermata immediata. La luce incandescente saliva, descriveva una curva consueta, illuminava tutto, si rispecchiava nel Tagliamento. La colonna era ferma. Gli alberi alti ed un po' di piantagione ci difendevano, per quanto poco, dalla vista. I1 razzo scese, scese, cadde nel fiume, si spense. Forse era stato uno tirato a caso. Ma subito se ne alzò un altro, questa volta di colore verde. Illuminava scarsamente. Eravamo sempre fermi col cuore in sospeso. Ci avevano forse sentiti? Ed ecco si accese sulla riva opposta, di lato, sulla nostra sinistra, un riflettore. I1 ciclope. Lanciava luce bianca, forte. Non era diretto a noi. Fu un istante fermo, col raggio immobile. Poi si spostò, lentamente, tranquillo, con sicurezza. Girava verso di noi. Ci avrebbero visti? I miei occhi non sapevano distaccarsi dalla striscia luminosa. La vedevo venire a me. Calcolavo il tempo che ancora occorreva perché mi raggiungesse. Secondi lunghissimi. Si arrestò. Ritornò alquanto indietro. Frugava altrove. Forse non era noi che cercava. Forse aveva notato qualche altra cosa. Forse si sarebbe 136 spento. No. Riprendeva a descrivere la sua circonferenza regolare, implacabile. Mi ero chinato sul collo del cavallo. Attendevo. E la luce ci colpì in pieno. Provai la stessa impressione che può avere la mosca che si sente presa nella tela del ragno. Anche noi eravamo in una rete e tanto più terribile in quanto non si poteva spezzare. Vedevo distintamente il terreno sotto i miei piedi, il pezzo avanti a me. I conducenti anche loro erano curvi sui cavalli, i serventi si erano messi dalla parte dell'ombra. Mi sembrò che il raggio fosse fisso su di me. Trattenevo il respiro. Ma il raggio non si arrestava e continuava il suo percorso. Ritornai in ombra. Cacciai un sospiro di sollievo. Non ci aveva visti. La luce cercava avanti, ancora più avanti. Ci rimettemmo immediatamente in marcia. Avremmo voluto far presto, ma bisognava andare adagio per non far molto rumore. E già quello che si faceva mi sembrava terribile, fragoroso e mi pareva che dovessero proprio sentire. E si andava al passo. Volgemmo le spalle al Tagliamento. Si fece un altri dieci minuti di passo al trotto. Eravamo sulla strada regionale Tagliamento-Piave. Avevo sonno. La notte precedente, aspettando l'ordine di movimento non si era dormito. Il giorno non era stato possibile riposare. Gli occhi mi pesavano e volevano chiudersi. Pensai che non avevo niente da fare e mi appisolai sul collo del cavallo. Si andava sempre e non vi furono fermate. 137 «Mi ricordo una strada con dei portici e dei magazzini. Forse era Oderzo...» Nella foto: piazza Vittorio Emanuele II a Oderzo nel novembre 1917 - Kriegsarchiv Wien - 138 6 novembre 1917 Era l'alba. Mi riscossi dalla sonnolenza in cui ero caduto. Attraversammo un paese. Chi sa quale. Ma doveva essere di una certa importanza. Mi ricordo una strada con dei portici e dei magazzini. Forse era Oderzo, ma non potrei affermare. Alcuni borghesi erano sulla strada e ci guardavano passare. Faceva freddo. Mi ravvoltolai bene nel pastrano e passai le ginocchia in una coperta che avevo portato con me. La giornata si presentava buona. Ad oriente il cielo cominciava a colorarsi di rosa, leggermente. Più in alto svaniva e dopo una linea di azzurro ridiventava scuro. Qualche nuvoletta bianca, qualche ultima stella che tardava a spegnersi. Non si incontravano borghesi in viaggio. Evidentemente quelli che avevano deciso di andarsene avevano già fatto fagotto, quelli che preferivano restare non si muovevano. Soltanto truppe passavano, ma non v'era più la confusione ed il disordine di una settimana prima. I soldati erano inquadrati dai loro ufficiali. Il giorno avanzava. Alle nostre spalle il sole si alzava. Vedevo proiettata avanti a me la mia ombra. Cominciavo a sentire il calore sulle spalle. Che bella cosa il sole! Frugai nelle tasche del pastrano. Vi avevo messo sei o sette gallette. Ne cavai una e cominciai a rosicchiarla. Ma nonostante il bel tempo e la presenza dei viveri mi sentivo avvilito. Pensavo che ormai il terreno fra Tagliamento e Piave stava per diventar nemico. Non era dunque bastato ritirarsi al Tagliamento? Il nemico doveva avere ottenuto qualche altro successo che noi ignoravamo. Conquistava molto facilmente dei monti, mentre noi avevamo impiegato anni per conquistar colline. E sarebbe poi stato il Piave l'ultima tappa della ritirata? Chi poteva dire se lì avremmo potuto mantenerci? Pensavo che dopo il Piave il primo corso d'acqua importante era il Po, significava abbandonare Venezia. Non erano bastate Palmanova e Udine? Già esse erano importanti, ma Venezia era ben altro. Ah, questo solo sarebbe potuto succedere. Nessuno poteva indietreggiare ancora quando sapeva che un poco indietro poteva essere la perdita di Venezia. Senza incidenti arrivammo al Piave e lo passammo a Ponte di Piave. Sulla grande strada di San Biagio di Callalta entrammo in un campo 139 contiguo alla via e li demmo riposo ai cavalli. Non sapevo quale fosse la nostra destinazione per il momento, ma notai che da ogni batteria distaccava un ufficiale per andare a preparare gli alloggi. Io non mi mossi. Restai con i pezzi. Ne approfittai per farmi dare una scatoletta che mangiai avidamente e dopo mi sedetti sul sediolino di un pezzo e mi appisolai. Tanto non c'era niente da fare. La giornata era buona. Il sole riscaldava che era un piacere e lì si stava benissimo. I1 capitano Mazzarella non mi disse niente; ero nuovo e non mi apprezzava. Preferivo cosi. Se invece fossi stato da molto in batteria avrebbe trovato qualche incarico pure per me. Invece non ne fu niente. Restammo fermi circa quattro ore. Poi ritornarono gli ufficiali che erano andati in ricognizione e si ripartì. Alle cinque di sera si giungeva a Pero. Qui trovammo una corte abbastanza grande per tenervi riuniti tutti i pezzi. I cavalli invece si dovettero mettere in parte all'aria aperta, sotto una tettoia, perché non c'erano scuderie sufficienti. Io trovai un posto per dormire in una camera vicino ad una cucina, dove mi feci portare della paglia da mettere in terra. Non c'era di meglio. Quanto era disponibile era stato già accaparrato dagli altri ufficiali. Un aspirante, nuovo venuto, non poteva domandar niente, ed ancora fui fortunato di non dormire nella stalla con tutti gli altri soldati. D'altra parte Curcio divise la mia stessa sorte. Dormì con me. Sulla paglia si dorme magnificamente. E' morbida, tiene caldo. Di altro non c'è nulla da desiderare. Credevamo che si sarebbe restati li un bel po'. Se non altro il tempo necessario per riorganizzare il reggimento. Eravamo a pezzi. Avevamo salvato tutte le batterie ma nessun carico. Tutto era restato di là. Ai corredi non ci si pensava più nemmeno. Io avevo ancora addosso la biancheria con cui ero partito dal Carso. Anzi la conservai per circa un mese. Mi vennero i pidocchi. Mancavano pure gli uomini. La metà e forse più era persa. Quelli col carreggio erano restati di là. Quelli dei pezzi erano quasi tutti giunti, ma anche qualcuno aveva tagliato la corda per strada. I cavalli erano sfiniti. Sembrava che avessero inghiottito delle botti. Se ne vedevano i cerchioni attraverso la pelle. Insomma c'erano i pezzi, ma non sempre bastano solo i pezzi a sparare. Occorre ben altro. Ma ciò nonostante restammo fermi a Pero soltanto il 7 novem140 «Sulla grande strada di San Biagio di Callalta entrammo in un campo contiguo alla via e li demmo riposo ai cavalli..» La ritirata è terminata: Vincenzo Acquaviva Coppola finalmente sulle rive del Piave a San Biagio di Callata 141 «Il pasto della belva» Vincenzo Acquaviva di servizio in un osservatorio del 47 Artiglieria E’ stato lui stesso a dare a questo scatto il titolo sopra riportato 142 8 novembre 1917 L'8 partimmo ancora e ci mettemmo in posizione fra Maserada e Salettuol. La mia batteria fu messa a circa 500 metri dietro 1'argine del Piave. In prima linea. La terza batteria fu piazzata addirittura ad una trentina di metri dal fiume. Di me si sbarazzarono subito mandandomi all'osservatorio. L'osservatorio era in una casa sul fiume. Non ci sarei stato male se non ci fosse stato l'ordine del colonnello Sabato che l'ufficiale osservatore doveva, dall'imbrunire all'alba, essere desto e passeggiare lungo l'argine nella zona propria di osservazione... E' da notarsi che i turni d'osservatorio duravano quindici giorni. Ufficiali non ce n'erano, ed i più anziani, aiutati dai comandanti di batteria, scaricavano questo lavoro cosi penoso su gli aspiranti nuovi venuti. D'altronde il primo periodo di due mesi sul Piave fu periodo di assestamento. Fu pure di grande disorganizzazione e di grande miseria. Già io non ho ancora capito per quale miracolo si sia riuscito a mantenere la linea durante quel periodo. Si temeva di giorno in giorno. La sera si diceva: «Un giorno in più». Se il nemico avesse portato giù più rapidamente il grosso delle sue forze, forse la guerra avrebbe avuto - almeno per l'Italia - un'altra soluzione. Il nemico tentò di passare anche il Piave in quei primi giorni, ma invano. Caposile e l'ansa di Zenson segnarono pagine gloriose per la nostra storia. Anche Fagarè bisogna ricordare. Cosa animava in quei giorni il soldato? L'ignoro, ed è cosa che non si riuscirà mai a sapere. Ricordo bene quei giorni terribili. Il soldato non era nutrito, non era vestito, non aveva armi. Il rancio era scarso. I granai depositi erano restati nelle mani del nemico. Si andava stracciati, luridi, senza maniera di mettersi meglio. I soldati usavano vestiti borghesi. C'era chi possedeva mutandine e camicie da donna, infiorate di nastri e di merletti. Ed erano fortunati. Chi possedeva una coperta era ricco. Per fare un baracchino davano, ed è capitato proprio a me, quattro tavole, una lamiera e cinquanta sacchetti. Il resto doveva arrangiarsi. Come? Ciò riguardava gli interessati. Mancavano gli strumenti del lavoro. Si doveva ricorrere ai borghesi per avere una zappa, un piccone. Le batterie erano accampate sotto teli da tenda. 143 Fuori c'era la neve in terra. Il soldato che montava la vedetta si faceva dare il fucile dal soldato che ne smontava. Le cartucce erano contate e controllate in continuazione. Ciò nonostante durante la notte tutta la linea era rumorosa di fucilate. La vedetta aveva l'ordine di sparare un colpo ogni quarto d'ora e c'era una vedetta doppia ogni cento metri. Perché questo ordine di fuoco? Per intimorire il nemico? Per tener sveglie le vedette? Forse per tutte e due le ragioni. I bossoli delle cartucce bisognava riconsegnarli contati. Chi non aveva fucile era armato di baionetta. Qualcuno non aveva né l'uno né l'altra. I ragazzi, i santi ragazzi del '99 che a Fagarè respinsero il nemico, erano stati armati a Treviso, a stento, poche ore prima di entrare in linea a combattere. I cannoni non avevano che scarsa munizione. In compenso però gli austriaci sparavano su di noi con i nostri pezzi e con i nostri proiettili. Quelli inesplosi testimoniavano. I razzi illuminanti e quelli da segnalazione scarsissimi. Erano tutte cose che si constatavano cento volte in un giorno. Ma quel che era peggio, i soldati avevano paura del nemico. Dov'erano più i veterani del Carso? La fede che li sosteneva era svanita. Il lavoro di riorganizzazione fu durissimo. Bisognava ridare una fede persa. Non era un lavoro semplice. Periodo di disciplina rigorosissima. Fucilazioni ce ne furono parecchie ed i nomi e la cause erano portati a conoscenza di tutti. Ogni batteria aveva tre osservatori: uno in linea, uno intermedio, uno sull'albero in batteria. I comandi di gruppo e di reggimento pure. Trentatré osservatori in un reggimento, di cui dieci in linea. Si smontava da uno per montare ad un altro. Oltre c'erano i collegamenti di comandi di battaglione, di reggimento e di brigata. Nelle batterie c'erano a stento due ufficiali, comandante compreso. Bisognava anche notare che simile abbondanza di osservatori era particolarità del reggimento, per un pio desiderio del colonnello Sabato. Gli ufficiali non ne erano troppo soddisfatti. Era infatti un lavoro enorme. I1 solo ricordo fa rabbrividire. Ma per fortuna si tenne fermo sul Piave. Coloro che riuscivano a passare il fiume per venire a noi raccontavano storie orrende, incredibili nella loro atrocità, ma purtroppo vere. E così si ritemprava l'animo nostro, l'animo del nostro soldato riconquistava l'antica fierezza, l'antico 144 ardore, la primitiva fiducia, tutto concorreva a che fossimo di nuovo pronti con tutte le armi, con tutte le forze, con tutta la nazione e, col pensiero assillante dei paesi invasi, a resistere all'urto tremendo che l'esercito nemico troppo baldanzoso ci portava sette mesi dopo la disfatta, nel giugno 1918. Il ponte ferroviario di Fagarè a San Biagio di Callalta fatto saltare dagli italiani «Il fiume Piave visto da Casa Loschi» La fotografia è stata scattata da Vincenzo Acquaviva. 145 Ottobre 1817: mitraglieri austriaci sul Piave alle grave di Papadopoli - Kriegsarchiv Wien - 146 Dopo Caporetto 8 novembre 1918: «Ci addormentiamo italiani e ci svegliamo austriaci». Così scrive un frate francescano del convento di Motta di Livenza nel giorno più difficile per la sua gente. Lo stesso giorno erano state occupate anche Belluno, Vittorio e Conegliano. Nella giornata del nove furono fatte brillare le mine che rendevano inagibili i ponti sul Piave alla Priula. Da quel momento svanì la pur minima possibilità di comunicare tra le due sponde del fiume. Dai 14.000 chilometri quadrati di territorio occupato dal nemico, dopo la disastrosa rotta di Caporetto cercano scampo almeno 300.000 profughi friulani e Veneti che si riversano, con tutto quello che potevano portare al seguito, nella pianura, cercando di sfuggire a quello che ritenevano il male maggiore: l'occupazione. L'esercito italiano ha subìto perdite pesantissime, tali da mettere in dubbio la sua sopravvivenza. 800.000 soldati perduti: delle oltre 60 divisioni efficienti ed operative esistenti alla vigilia di Caporetto ne restano solo 33. Il parco delle artiglierie, le armi leggere, i materiali del genio, della sanità, i magazzini della sussistenza praticamente non esistevano più: tutto era finito nelle mani del nemico. Per avere un'idea delle perdite patite dalle nostre forze armate, basti pensare che oltre agli uomini il nemico catturò 10.000 pezzi di artiglieria e mitragliatrici, 300.000 fucili, 73.000 cavalli, 1.600 autocarri e 150 aerei. In mezzo a tale immane disastro, tuttavia, l'intera 3ª Armata si era salvata: con i resti della sfortunata 2ª Armata del generale Capello, era riuscita a guadagnare i ponti del Piave prima di essere raggiunta dal nemico. La 3ª Armata diverrà, d'ora in poi, il simbolo della resistenza sulla linea del Piave. La nuova linea del fronte, predisposta dal Comando Supremo, partiva dal Tonale, scendeva per l'altipiano di Asiago e attraverso tutto il massiccio del Grappa giungeva fino al mare seguendo l'andamento del Piave. Il nuovo fronte aveva uno sviluppo di 138 chilometri con perno difensivo il massiccio del Grappa che, per fortuna, era stato predisposto a difesa con opere fortificate e strade già dal 1916. I trevigiani presero diretta conoscenza di quanto avvenuto a Caporetto già dal 27 ottobre, quando gran numero di soldati sbandati, profughi e anche qualche pezzo di artiglieria di grosso calibro (tra i pochi salvati) cominciarono ad avvicinarsi alle porte della città, ma diretti oltre. Già dalla sera del 27 il Comando supremo si trasferisce a Treviso e si installa a palazzo Revedin in Borgo Cavour. Il tutto avveniva nonostante quanto scriveva la stampa nazionale che, sotto una 147 spietata censura, non trovava di meglio che riportare gli enigmatici bollettini del Comando Supremo e dare ampio risalto a quanto avveniva sul fronte occidentale, con dovizia di particolari, che erano invece negati al popolo italiano su ciò avveniva sul fronte di casa. In queste condizioni, suona quasi comico (ma la situazione era invece tragica) il titolo sparato dal «II Gazzettino» il giorno 28 - a ritirata operante - il quale annuncia su otto colonne che «La Repubblica del Brasile dichiara guerra alla Germania». Treviso, in brevissimo tempo, fu militarizzata: oltre al Comando Supremo, che rimarrà in città una decina di giorni prima di trasferirsi a Padova, si installò in città anche il Comando dell'artiglieria dell'esercito e diversi altri Comandi operativi e logistici. In città giunsero anche i capi degli eserciti alleati, Foch e Robertson, per valutare l'affidabilità del piano di resistenza elaborato da Cadorna. A Treviso venne anche il Re Vittorio Emanuele, il quale era pur sempre il capo nominale dell'esercito, e che emanò il proclama della resistenza ad oltranza. A Treviso, infine, venne decisa la sostituzione di Cadorna con Armando Diaz alla guida delle forze armate. Per tutti questi motivi, ma anche per ragioni di pura strategia militare, la città acquisì una notevole importanza anche per l'esercito austro-ungarico che cominciò a sganciare bombe incendiarie già dal primo dicembre e continuò fin quasi alla fine della guerra. Prima di questi tragici avvenimenti la vita nel capoluogo della Marca era trascorsa con relativa tranquillità, nel senso che il rombo del cannone non era percepibile dalla cittadinanza. E tuttavia i trevigiani, per l'importanza delle linee ferroviarie, per il gran transito di uomini e mezzi per il fronte, la guerra la sentivano più di altri. La censura sulla stampa, ovviamente, funzionava anche in città a pieno ritmo. Nel mirino del censore erano soprattutto i fogli cattolici e parrocchiali. Tale intraprendenza censoria era dovuta al fatto che i seguaci dell'assioma papalino «della inutile strage» erano considerati dei veri e propri disfattisti, e come tali da guardare a vista. Tra i giornaletti locali più sottoposti al controllo censorio vi sono La Voce del Parroco (10.000 copie di tiratura) e La Voce del popolo. La voce del Popolo, nel numero in vendita il 21 ottobre 1917, poco prima di Caporetto quindi, scriveva: «L'opera del Papa continua fedele al suo proposito di lenire il maggior numero di dolori, che la guerra moltiplicò». Ebbene, la frase «che la guerra moltiplicò», che per la sua lapalissiana evidenza si dovrebbe dare per scontata, è cancellata dalla censura. Censurato anche un intervento del deputato Carlo Treves in favore del Papa, che egli giudica «unico neutrale». Censurata inoltre una dichiarazione del cardinale Giustiniani che doveva essere pubblicata 148 sulla Voce del popolo del 18 agosto 1917 e che suonava così: «Sono tre anni che vi è la guerra. E sono tre anni che noi, sotto la guida del Supremo Gerarca, alziamo a Dio la voce perché cessi l'orrenda carneficina.»In favore della guerra erano stati costituiti, in provincia, i Comitati di re-sistenza interna. Tali comitati, di chiara matrice interventista, furono attivati nel corso del 1917; essi avevano come scopo: 1. vigilare l'opera delle autorità e dei comitati per consumo e approvvigionamenti; 2. intensificare la propaganda di guerra (per mezzo di pubblicazioni, stampa ecc.); 3. portare la propaganda fra i soldati; 4. denunciare gli atti di propaganda contro la guerra (e qui si spiega la censura ossessiva nei confronti della stampa cattolica); 5. coordinare le forze dei buoni contro i tentativi di trascinare il popolo ad esplosioni contro la guerra. I comitati rispondevano del loro operato al Prefetto, e ciò spiega da chi venivano istruiti e finanziati. Il 10 agosto 1917 - per fare un esempio - il presidente del comitato di Oderzo, uno dei più attivi nella provincia, scrive al prefetto lamentando che i sindaci non collaborano alacremente col comitato stesso. Oltre a quello che abbiamo detto, era attivo anche un sistema di controspionaggio locale, che faceva riferimento a Roma. Ad esempio, il Ministro dell'interno con un telegramma al prefetto di Treviso, in data 4 ottobre 1917, segnala che «un anonimo» ha rivelato sospetti a carico di tale Clementina Viale, nata a Pirano, ma domiciliata a Lancenigo, incaricata di preparare la mensa degli ufficiali e quindi in grado di ascoltare le loro conversazioni. Lo zelante funzionario ministeriale chiede dunque informazioni riservate sulla Clementina, rea di essere nata a Pirano e non in Italia e probabile vittima di qualcuno che aspirava al suo posto di lavoro. Le attenzioni degli spioni non risparmiano neanche i militari in servizio. Come nel caso del capitano Antonio Seglin del 9° fanteria, residente a Roma, ma prima della guerra a Vittorio Veneto. Le notizie, vere o presunte, hanno quasi sempre origine locale, spesso sono avviate da rapporti redatti dai sindaci. Ad esempio, il sindaco di Cavaso, con telegramma del 15 giugno 1917, segnala al prefetto che «nella notte parte dei 400 alpini qui di stanza, spararono molti colpi rifiutandosi, a quanto mi si dice, di partire per la nuova destinazione». Ma le notizie, o meglio le voci, si diffondevano in tutti gli ambienti senza la possibilità che se ne potesse verificare l'attendibilità e la fonte. Il 29 settembre 1917 il vescovo di Treviso Longhin, invia al prefetto un biglietto nel quale 149 dice: «Un parroco mi scrive chiedendo istruzioni, che io non posso dare perché all'oscuro di tutto, che vi siano paesi interi che si preparano a sgomberare [...]. Qualche sindaco dei comuni della sinistra Piave ha fatto dire in Chiesa che chi vuole provveda a mettersi in salvo». Lo scritto, o se si vuole, l'informativa del vescovo al prefetto da parte di un uomo prudente e con i piedi per terra è, per certi versi, sconcertante se si pensa che le "voci" circolavano tre settimane prima di Caporetto e che il nostro Comando Supremo era assai meno preoccupato della situazione al fronte che non Monsignor Longhin e suoi parroci. Lo spirito dei trevigiani conseguente la rotta di Caporetto è mirabilmente descritto da Giovanni Comisso, allora giovane sottotenente di complemento, che da Caporetto era giunto a piedi, al seguito della sua divisione in ritirata sino alle porte della città. Scrive Comisso: «Arrivato a Treviso, davanti a porta S.Tommaso trovai un drappello di cavalleria, che impediva di entrare a tutti quelli che provenivano dal fronte. Non mi fu difficile scavalcare le mura in un punto che conoscevo e subito corsi a casa. Suonai più volte, tutte le imposte erano chiuse, i miei erano partiti. La maggior parte degli abitanti era stata allontanata. Alla stazione l'ultimo convoglio era stato quello dei pazzi. Le strade erano deserte, i negozi chiusi. Qualche borghese passava frettoloso e spaurito. In piazza trovai un mio amico, inabile a fare il soldato, sgomento, come appena uscito dal sonno, che camminava a braccio di una ragazza che conoscevo. Al mio saluto cordiale mi risposero ostili "Perché siete scappati dal fronte?" Le cause sono state molte [...]. Mi volsero le spalle adirati e irriconoscibili».1 Già dal 26 ottobre l'arrivo, o meglio, il passaggio dei profughi in città è massiccio e sembra inarrestabile. Ma il sistema di raccolta e smistamento, pur in mezzo a grandi difficoltà, si è messo in moto. Nella stessa sera un numero imprecisato di profughi viene avviato, per ferrovia, a Firenze. Il primo novembre 1.300 persone sono indirizzate a Bologna. Ma già il 2, da Roma, si fa conoscere al prefetto che «scopo evitare stragrande affluenza di profughi a Firenze pregasi disporre invii su Milano e Bologna, possibilmente non oltre 2.000 al giorno». Il 31 ottobre 300 bambini, già ospiti dell'orfanotrofio di Udine, sono in città per essere smistati su Padova, ma il prefetto del capoluogo patavino telegrafa che non sa dove ospitarli. Segue un frenetico scambio di telegrammi da Treviso verso varie prefetture dell'Emilia-Romagna e finalmente gli sventurati fanciulli, le suore che li accompagnano, e persino le balie per i più piccini, trovano ospitalità a Faenza, Ravenna, Padova e Mantova. Il 28 il prefetto informa Roma che i profughi saranno inviati: 500 a Reggio Emilia; 150 500 a Modena, 2.000 a Bologna, 1.000 a Ravenna, 1.200 a Parma, 5.000 a Milano, gli altri (nessuno sa quanti saranno) a Bologna e Firenze. Anche il sistema di trasporto degli sfollati in qualche modo viene disciplinato: quelli provenienti dal basso Tagliamento saranno sgomberati su ferrovia per la direttrice Motta, Mestre, Padova mentre quelli della provincia di Treviso per via d'acqua, da S. Ambrogio in Fiera verso Chioggia, per poi proseguire, per ferrovia, in direzione di Adria, Rovigo e Ferrara. Prima che il nemico giungesse al Piave tutti i comuni della marca, anche quelli della sinistra Piave, facevano riferimento alla prefettura. Il 6 novembre il sindaco di Oderzo, avvocato Levada, invia al prefetto i registri della popolazione opitergina e scrive di aver posto in salvo i beni del museo e alcuni quadri di case private e di aver affidato il tutto ai soldati della 3ª Armata. Prosegue il sindaco: «Farò fermare un medico militare, il più giovane della retroguardia. Avverto che quasi tutta la popolazione urbana è partita, rimangono i contadini e le donne. Io rimango - continua l'avvocato Levada - abbia cura della mia famiglia che è a Varese, W L'Italia». L'infaticabile sindaco di Oderzo, già il giorno 4 aveva scritto al prefetto: «Ottenni l'autorizzazione del Comando della 3ª Armata per scortare i cittadini che vogliono partire e usare mezzi militari. Ho ottenuto la proroga chiusura trasporto borghesi fino 24 stasera e forse ulteriore necessitando. Sarà pure possibile usare passerella sul Piave [...]. Indicarmi quale istituto Treviso poter appoggiare malati ospedale per complessivi 300». II giorno 9 giungeva a Treviso un treno attrezzato per trasporto di 300 ammalati dell'ospedale civile, diretto a Modena (era forse il treno dei pazzi di Comisso). Il consiglio di amministrazione dell'ospedale, con uno zelo davvero poco encomiabile, si era defilato: in un primo tempo aveva posto la propria sede in un albergo di Roma e in seguito in Brianza. Gli ultimi 78 ammalati dell'ospedale, giudicati intrasportabili, furono affidati alle cure della croce rossa. Tutte le istituzioni della provincia, pubbliche e private, rimaste oltre il Piave si allontanarono dal fronte. Il Municipio di Treviso finirà a Pistoia. In città, al posto del sindaco Bricito, fu nominato commissario un ufficiale dell'esercito. La signora Bricito - che era sfollata - per un certo tempo non ha notizie del marito, si rivolge al prefetto, ma neanche lui sa nulla. L’alto funzionario infatti, in una nota del 9 al presidente del consiglio, dichiara «Condizioni questa città diventano sempre più difficili. II sindaco Bricito lascia ufficio e uomini. (dove era finito il sindaco?) La popolazione qui rimasta non più di 1.500 persone». Ma il problema più importante per l'amministrazione cittadina resta quello dei profughi. Il delegato alla 151 sicurezza scrive al prefetto che «La partenza dei profughi avviene con indescrivibile disordine, poiché in maggior parte trattasi di donne e bambini, avvengono scene strazianti e molto facilmente possono verificarsi gravi e dolorosi disordini». II delegato conclude chiedendo, in rinforzo, un congruo numero di carabinieri. Il prefetto, non avendo a disposizione i carabinieri, manda un plotone di soldati. Nella confusione qualcuno si perdeva e, infatti, il 5 sono avviati a Ferrara 30 bambini che erano a Treviso «dispersi». Col passare dei giorni, l'impressione che il nostro esercito potesse reggere sul Piave prese una certa consistenza. Così, alla necessità di smistamento dei profughi veri e propri, si sommò quella di provvedere alle popolazioni residenti nella fascia di combattimento, ossia un territorio di almeno cinque chilometri di profondità dietro la linea del fronte. Il comando del XIII corpo d'armata scrive in una relazione «dal 7 novembre 1917 al 31 gennaio 1918 fu ordinato lo sgombero per una profondità di quattro chilometri di tutte le zone retrostanti la prima linea [...]. Le popolazioni furono raccolte nei comuni di Monastier, S. Biagio e Roncade. Quelli che avevano i mezzi proseguirono il viaggio oltre il territorio del corpo d'armata. Nella zona del corpo d'armata erano rimasti 7.624 profughi: dei quali 476 provenienti dalla sinistra Piave. I profughi vennero così raggruppati: Casier 239, Roncade 3.916, Monastier 1.856, S. Biagio 1.047, Spercenigo 411, Cendon 97, Lughignano 30, Zerman 28. Furono sistemati in stalle e fienili. Si decise di inviarne a Modena 1300, ma effettivamente ne partirono poche decine, gli altri non vollero partire perché correva voce che sarebbero stati peggio».2 La relazione rileva anche che le malversazioni alla proprietà privata da parte di militari isolati, ma anche di interi reparti, aveva suscitato nella popolazione «vivissimo risentimento». Il problema della popolazione stanziale a ridosso della fascia di sicurezza, fu una preoccupazione costante per i comandi militari. Scrive un ufficiale del comando della 3ª armata: «Nel novembre del 1917 fu difficile ad ottenere lo sgombero di una fascia di poche centinaia di metri dall'argine del fiume [...]. D'accordo con il prefetto di Treviso che la popolazione civile sarebbe stata avvertita e consigliata ad abbandonare per lo meno tutta la zona comprese fra Sile e Piave [...]. L'avvertimento ed il consiglio furono uditi, pesati, discussi e [...] non seguiti. I buoni paesani e agricoltori del trevigiano non vollero muoversi. Tuttalpiù in qualche borgata, riflettendo alla minaccia del gas, qualcuno disse: "dateci delle maschere anche a noi"».3 Fu loro osservato che non bastavano neanche per i soldati. Risposero: «Allora faremo senza» e non si mossero. Nei primi giorni di novembre, quando la 152 minaccia nemica era alle porte e nessuno sapeva dove sarebbe arrivata, tutte le istituzioni lasciarono la città. Del comune abbiamo già detto; le banche si trasferirono in Emilia, Toscana e Roma, l'ufficio del catasto a Parma ecc. Nulla rimase a Treviso: il prefetto nominò dei commissari, in maggioranza militari, in sostituzione dei sindaci. Per i comuni della sinistra Piave, ove fu possibile, come ad Oderzo per esempio, si provvide a mettere in salvo i registri e, comunque, le rappresentanze municipali sparpagliate per la penisola. Si consumò in quei giorni una grave frattura sociale fra chi aveva la possibilità di andarsene e chi no. I siori abbandonarono rapidamente città e paesi, i poveri, ma soprattutto i contadini, rimasero. Tale frattura avrà gravi conseguenze per il futuro come dimostrarono i moti e le ribellioni avvenute a partire dal 1919. A rendersi conto della situazione che veniva creandosi fu il Duca d'Aosta, comandante della 3ª Armata, con sede a Mogliano. Il Duca, che di fatto era il governatore militare, scrive una lettera al prefetto, datata 29 marzo 1918, lamentando che le cose, così come sono, non possono continuare. La città è stata pressoché abbandonata e dalle istituzioni e dall' «intera classe abbiente». Sarebbe quindi opportuno - a parere del Duca - che questa gente se ne tornasse a casa ad occuparsi dei propri affari, anche per dare l'impressione che le cose andranno per il meglio. Hanno forse paura delle bombe che cadono in città? La risposta del prefetto, con una lettera classificata «riservatissimo» è dell'8 aprile. Il prefetto dà atto al Duca che le cose stanno proprio così. Analizza lucidamente e senza remore quanto è accaduto, perché è accaduto e cosa si potrà fare per riportare a casa la «classe abbiente». E' interessante il giudizio che egli esprime in merito alla mancanza di fiducia della popolazione della Marca. Scrive il prefetto: «E' da premettere che qui e nei paesi contermini e nelle stesse zone oltre il Piave, anche dopo la presa di Caporetto, perdurò per alcun tempo ferma fiducia sulla saldezza del nostro valoroso esercito che si ritenne potesse offrire resistenza al Tagliamento, e si propagò rapidamente il panico quando si ebbe la nozione diretta della ritirata di una parte delle truppe in una forma che lasciava adito a preoccupanti incertezze. In quell'istante nessun ragionamento sarebbe valso a mutare il sentimento che si era generalizzato, specie dopo che si operò la chiusura di moltissimi uffici, a cominciare dagli istituti di credito, della succursale della banca d'Italia prima delle altre».4 Tutto vero, quindi, quanto affermato dal Duca, ma di chi è stata la colpa? Chi ne ha la responsabilità maggiore? Chi ha lasciato per primo la città se non le pubbliche istituzioni? E gli industriali? - continua il prefetto - che dovevano rima153 nere a fare visto che i macchinali delle fabbriche erano stati smontati e trasferiti oltre il Po? Le uniche categorie che - secondo il prefetto Bardesono non trovano giustificazione alcuna sono quelle dei proprietari fondiari e delle cosiddette «persone facoltose». I primi «per la loro indifferenza nel ripristino dei lavori campestri, i secondi se ne andarono improvvisamente abbandonando anche - in alcuni casi - cospicui valori mobiliari nelle cassette di sicurezza e nelle banche». Il prefetto, infine, lamenta la sua situazione: quasi tutti gli impiegati della prefettura avevano lasciato il proprio ufficio e questo malgrado la legge imponesse loro di rimanere. In seguito alcuni dirigenti sarebbero stati posti sotto inchiesta per abbandono di posto, ma il prefetto stesso li giustificò sostenendo davanti al ministero che quei dipendenti erano così terrorizzati dagli avvenimenti che egli stesso ritenne utile che se ne andassero. Sui 138 chilometri del nuovo fronte fu schierata una divisione, ogni 3,5 chilometri lineari. Una simile concentrazione di soldati non poteva che provocare disagio e risentimento nella popolazione rimasta, poiché sconvolgeva abitudini, usi e costumi. Incidenti e disordini fra civili e soldati avvennero a Castelfranco e Follina. I parroci, sorvegliati speciali dai carabinieri, pagarono per primi. A Roncade venne arrestato don Adamo Volpato con l'accusa di sedizione; il parroco di Volpago, don Pizzinato, fu arrestato perché nel corso di una predica, aveva invitato gli operai addetti alla costruzione del campo trincerato a non lavorare di domenica. Anche i parroci di Cendon, Paese e Castelfranco avevano subito l'arresto ed il confino. Il controspionaggio intensifica la attività: a Crespano è sotto controllo tale Cristoforo Colombina reo di «frequentare il trentino e parla[re] con i gendarmi»; i medici De Stefani e De Marchi denunciati per vilipendio all'esercito (furono poi assolti per insufficienza di prove); il dott. Girardi, denunciato per offese al capo di Stato maggiore generale e lesa Maestà; don Ziliotto, don Sartori e don Miotto - secondo i carabinieri di Treviso - sono «laudatori dell'organizzazione militare germanica e non della nostra». A Preganziol è tenuto d'occhio tale Carlo Bettiol, considerato molto pericoloso per «le sue idee germaniche». La pericolosità del Bettiol era dovuta al fatto che un paio d'anni prima egli aveva subito un arresto per oltraggio al sindaco e aveva gridato «W la Germania e abbasso l'Italia». Tre impiegati del comune di Pederobba sono arrestati il 26 maggio del 1918 per «diffusione di notizie false». In giro per la provincia circolavano le voci più strane e fantasiose. Il tutto spiegabile con il clima che si respirava in quei giorni particolari. Ad esempio ad Istrana si diceva che gli Inglesi, una volta vinta la guerra, non se ne sarebbe154 ro più andati e sarebbero rimasti come padroni, o che i soldati Americani (che erano assai pochi) avevano la colpa di aver fatto diminuire la quantità di viveri spettanti ai civili. Nelle campagne, l'odio dei contadini comprendeva tanto "i siori" fuggiaschi quanto i militari, questi ultimi visti come i nuovi padroni del territorio. Il Comando Supremo dell'esercito quando prese cognizione certa dell'ostilità della popolazione civile verso i soldati, corse ai ripari. Il generale Diaz scrisse al presidente del consiglio Orlando prospettando l'eventualità di isolare i soldati dai civili. L'ostilità dei contadini nei confronti dei militari è messa in evidenza anche da Comisso lì dove racconta i suoi giorni sul Montello durante la battaglia del Solstizio.5 Gli equilibri della società rurale veneta avevano subito un duro colpo: la guerra aveva rimesso in discussione tutto. La provincia di Treviso, tra il 1850 e il 1911, aveva registrato un incremento della popolazione che era passata da 116 abitanti per chilometro quadrato a 198. Parte della popolazione era costretta dalla necessità ad emigrare. Emigrazione stagionale verso l'Austria, la Germania ecc. o più lunga nei paesi oltre oceano. Allo scoppio della guerra, buona parte degli emigranti fece ritorno a casa e, in una situazione già precaria di per sé, i rientri aggravarono gli squilibri sociali. I danni causati dal conflitto sul territorio trevigiano furono enormi. Le conseguenze sull'economia, sull'industria e sull'agricoltura, furono sentite a lungo, e si protrassero fino al secondo dopoguerra. 161 edifici industriali distrutti o gravemente danneggiati e comunque non più in grado di funzionare a causa della mancanza di macchinari; oltre 500 fra chiese, oratori, campanili e parrocchie distrutte o gravemente danneggiate; 350 chilometri di acquedotti distrutti o inquinati; 150 ponti da ricostruire; 9.000 pozzi e cisterne inagibili; 2.700 chilometri di strade da ripristinare. Le campagne, una volta fertili, portavano i segni di scavi, trincee, postazioni e camminamenti. Basti pensare ai lavori per la costruzione del campo trincerato di Treviso, lavori che si estendevano dal Montello a Mestre e fin quasi a Padova.6 I terreni fra Sile e Piave erano stati allagati: con la rottura del sistema di idrovore erano stati resi inagibili quasi 3.500 ettari di campi coltivati. Il ripristino di quelle terre, a partire dagli anni venti, costerà grandi risorse economiche e lunghi anni di lavoro. In pratica, la superficie agraria della provincia risultò quasi dimezzata. Il patrimonio faunistico subì una tremenda falcidia: dei 57.000 bovini esistenti nel 1917, alla fine della guerra ne rimanevano 6.100; dei 9.000 cavalli ne rimasero solo 1.800; dei 18.000 suini 1.100; gli ovini scesero da 13.200 a 2.220. I contadini, che erano rimasti attaccati alla campagna (anche a quella non loro), si 155 ritrovarono in una situazione pietosa senza attrezzi da lavoro, senza bestiame e con la terra ridotta a trincea e piena di ordigni inesplosi. Alla fine del conflitto il genio militare mise in vendita, a prezzo politico, una grande quantità di attrezzi da lavoro proprio per lenire il disagio dei contadini e degli artigiani. I primi lavori di aratura dei campi nella primavera del 1919, poterono essere portati a termine grazie all'aiuto di tre gruppi di artiglieria che intervennero con i loro trattori. La situazione dell'agricoltura risultò tanto precaria che quando il governo chiese suggerimenti su quali materiali potevano essere chiesti alle nazioni vinte, in conto risarcimento per i danni di guerra, dalle province venete si chiesero soprattutto attrezzature per il lavoro dei campi. Dei 96 comuni della provincia, 47 erano stati invasi dal nemico. A Treviso città, su 2.200 case per civile abitazione, esistenti prima della guerra, ne rimanevano agibili solo 340; 100 erano state rase al suolo, le altre danneggiate più o meno seriamente. Interi paesi come Nervesa, Zenson, Pederobba, Spresiano e Cavaso erano completamente distrutti. Tutti gli altri, salvo rare eccezioni, gravemente danneggiati.7 Nella sola città di Treviso caddero 1.526 bombe che causarono, oltre ai danni alle cose, una quarantina di morti. Alcuni comuni, come Zenson e Nervesa furono distrutti in condominio. Il merito per i danni causati va equamente attribuito ad entrambi gli eserciti in lotta. I paesi più vicini alla linea del fronte subirono i danni maggiori proprio dalle bocche da fuoco italiane. Il sindaco di Conegliano, quando sarà chiamato a redigere l'elenco del danni patiti dalla propria città, precisa con involontaria ironia che «la distruzione fu completata dal tiro preciso della nostra artiglieria». Anche il patrimonio artistico pagò il proprio obolo. Il castello di Cison, quello di Collalto a Susegana, con gli affreschi del Pordenone, distrutto il secondo, saccheggiato il primo dei preziosi archivi risalenti al 1400. L'Abbazia di Nervesa, che aveva ospitato monsignor Della Casa, distrutta e incendiata, e si potrebbe continuare per un pezzo. Nello sfacelo generale, non erano sufficienti neanche i generi alimentari. Finché durò la guerra, bene o male, la popolazione civile era stata supportata dalla sussistenza militare, ma a guerra finita ognuno doveva pensare per sé. Poco prima della conclusione del conflitto si riunì a Treviso il Comitato per l'approvvigionamento, proprio per evitare una vera e propria carestia. Venne calcolato il fabbisogno per l'intera provincia dei generi di prima necessità sufficienti per trenta giorni. Lo studio teneva conto solo del fabbisogno minimo per persona. Risultarono necessari 36.000 quintali di granturco, 24.000 di frumento, 4.200 di riso, 1.600 di pasta.8 Cessate che furono le operazioni militari, oltre ai danni visibili vi 156 erano tuttavia anche quelli occulti: rimanevano sul territorio interi arsenali di munizioni ed esplosivi, oltre a grandi quantitativi di armi di ogni genere e provenienza. Nel 1919 i depositi di esplosivi d'occasione ancora esistenti sul territorio trevigiano sono 12. Villa Teresa, ex villa Ranza, di Lancenigo, ospita uno di questi depositi e rimarrà attiva sino al 1921. La villa era di proprietà della contessa Zeno-Antonini, la quale reclamava vivacemente perché le fosse restituita la casa. L'energica contessa subissava di lettere di protesta tutte le autorità, locali e statali e aveva coinvolto anche l'On. Graziano Appiani. Ma tutti i tentativi per riavere la villa andarono a vuoto. Allora la contessa si armò di carta e penna e scrisse direttamente al Presidente del consiglio dei ministri Nitti: «Rivolgo preghiera per immediata derequisizione mia villa Teresa, S.Artemio, Treviso, da oltre un anno occupata fortissimo deposito munizioni, polveri, gas asfissianti di cui tre scoppiarono stamani. Replicatamente rivoltami autorità Prefettura, Municipio, Comando Supremo senza ottenere scopo. Confido energica volontà V.E. per sgombero sollecito villa che mi necessita urgentemente quale unica abitazione mia famiglia. Teresa Antonini, Albergo Baglioni Treviso».9 Nel marzo del 1919, i cittadini di Lancenigo, temendo l'estrema pericolosità del deposito, avevano indirizzato una petizione alle autorità perché venisse smantellato. In effetti nella villa erano stoccati ben 300.000 colpi di artiglieria, 13 milioni di cartucce varie, gas asfissiante e quant'altro. Nei depositi occasionali di munizioni, che erano stati impiantati senza i requisiti minimi di sicurezza, erano avvenuti numerosi incidenti, alcuni anche con gravi conseguenze. A Orsago, nel maggio del 1920, all'interno di uno di essi, era scoppiata una bomba che aveva ucciso un operaio e feriti tre. A Oderzo, nell'aprile dello stesso anno, erano saltati in aria alcuni soldati che trasportavano casse di bombe austriache: sette morti e cinque feriti. Nel gennaio, uno scoppio nella polveriera di S. Ambrogio in Fiera aveva causato il ferimento di venti persone e danni alle abitazioni vicine per 135.000 lire. Ma il pericolo dei residuati bellici andava ben oltre a quello dei depositi occasionali. I terreni erano infestati di ordigni esplosivi di ogni genere e il rischio di incidenti era sempre presente. A guerra finita il Comando Supremo dell'esercito aveva fatto affiggere dei manifesti riportanti i disegni di tutti gli ordigni che potevano trovarsi sul territorio con le indicazioni per evitare incidenti. La bonifica del territorio si rivelò subito un problema di primaria importanza. L'onorevole Fradeletto, ministro per le terre liberate, si era interessato presso il gen. Badoglio - sottocapo di Stato maggiore generale - affinché venissero bonificate al più presto le terre 157 toccate dalla guerra. Badoglio risponde il 18 febbraio 1919 e in sostanza scrive: «Dal primo novembre 1917, alla fine delle ostilità, quattro novembre 1918, i proietti d'artiglieria, le bombe da bombarda e da lanciabombe, quelle di fucile e a mano impiegate da noi risultano: annate proietti art. bombe ecc. bombe a mano non/dic.1917 3.489.000 1.500.000 2.350.000 tutto nov 1918 14.909.000 428.481 9.272.000 TOTALE 18.398.256 571.000 11.622.325». I proietti di artiglieria, le bombe, ecc, impiegati dal nemico nello stesso periodo sono considerati equivalenti a quelli impiegati dall'Esercito Italiano. Quindi, complessivamente 37 milioni di proiettili e oltre un milione di bombe. «Tenendo conto - continua la lettera - che circa l'8% non sono esplosi o sono stati abbandonati sul terreno, restano 2.960.000 proietti di artiglieria, 4.800.000 bombe di ogni genere, totale 7.760.000 ordigni distribuiti su una fascia di terreno di 240.000 ettari, in corrispondenza di un fronte di 300 chilometri di sviluppo (Adamello, Grappa, foce del Piave) e della profondità media di 8 chilometri (profondità della fascia battuta da artiglierie e bombarde)... Se si considera il fronte uniforme potrebbero considerarsi come rimasti inesplosi circa 33 proietti/bombe per ettaro. Siccome invece le maggiori lotte si svolsero dall'Astico al mare, 140 chilometri di sviluppo, così in tale fronte il dato suesposto può essere portato in massimo al doppio e oltre, e cioè a circa 70 fra proietti/bombe per ettaro [...]. Nelle zone che furono teatro di più vivi e ostinati combattimenti, come la regione del Grappa, il Montello e il Basso Piave, delimitato a oriente dal Monticano e ad occidente dalla linea passante per Crespano, Asolo, Montebelluna, Povegliano, Breda, S. Biagio, Monastier, Portegrandi, mare, la percentuale per ettaro fu ancora maggiore ed in massimo di circa 200 proietti/bombe, vale a dire due fra proietti/bombe per ogni quadrato avente 10 metri di lato».10 I numeri indicati dal Comando Supremo, ancorché stimati, sono impressionanti e danno facilmente l'idea della vastità e della complessità del problema che si doveva risolvere. Il governo istituì gruppi di rastrellatori misti - civili e militari - designati alla bonifica del territorio. Anche gli abitanti dei luoghi si davano da fare, magari con intenzioni diverse da quelle dei nuclei di bonifica. Erano i cosiddetti recuperanti che vendevano sul mercato i metalli dei residuati ritrovati. Ben presto si creò un dualismo fra le categorie addette al recupero degli ordigni. Il Governo impose una fascia, da portare al braccio, per gli addetti ai nuclei di bonifica affinché non venissero confusi, ma qualche volta scoppiavano 158 incidenti con le popolazioni dei luoghi ove operavano. Nel gennaio 1920 a S. Andrea di Barbarana, per esempio, scoppiò una rissa furibonda tra rastrellatori e abitanti del luogo, tanto che il nucleo lì di stanza fu trasferito a Maserada Il problema dei residuati bellici non è del tutto risolto neanche ai nostri giorni. Qualche anno fa, durante i lavori di ripristino della linea ferroviaria Treviso - Portogruaro, riemersero centinaia di ordigni che furono recuperati e fatti brillare dagli artificieri della Direzione di artiglieria di Mestre. Un altro nodo che doveva essere sciolto, alla fine del conflitto, era quello delle numerose case private, requisite per usi militari e non ancora restituite ai proprietari. Ancora nel settembre del 1919 erano centinaia le abitazioni sotto requisizione da parte dell'esercito: 29 a Montebelluna, 10 a Villorba, 11 a Maser, 27 ad Oderzo... In pratica ogni comune sulla fascia del fronte continuava a pagare pegno, ad oltre un anno dalla fine delle ostilità. A Treviso gli edifici in mano all'esercito erano così tanti che il sindaco, rispondendo ad una richiesta della provincia, ammette candidamente di non conoscerne il numero e di rivolgersi direttamente all'autorità militare. Con l'istituzione del «Ministero delle terre liberate», il cui Comitato governativo ebbe sede in città, a Villa Margherita, si dà avvio ai provvedimenti necessari per la ricostruzione. Alla legge del novembre del 1918, ne seguiranno molte altre fino al 1926. I primi risarcimenti ai cittadini che avevano subito danni dalla guerra furono elargiti nel giugno del 1919. Nell'opera di ricostruzione, per la quale gli interessi e gli investimenti furono enormi, non mancarono gli scandali e le ruberie, denunciati soprattutto dalla stampa locale e dal deputato repubblicano Guido Bergamo. Vennero al pettine, com'era prevedibile, i nodi che si erano creati, ossia la frattura sociale fra classi. Nel 1919 iniziarono a scoppiare tumulti con morti, feriti e arresti in massa. Nel 1920, su 208 manifestazioni di sciopero degli agrari, 100 avvennero in Veneto.11 Tuttavia la guerra non lasciò solo immani danni materiali e perdurante carestia: i danni più gravi, non sanabili, furono quelli umani. La gioventù maschile del paese era stata falcidiata. Su una popolazione di 35 milioni, i mobilitati furono 5.615.500, pari al 65% dei maschi e si contarono 650.000 morti. I feriti e mutilati furono invece 947.000, mentre il numero di prigionieri e dispersi ammontò alla fine a 600.000. La percentuale delle perdite, rispetto alla forza mobilitata, risultò essere del 39%. E a poco vale che tra i paesi belligeranti ci sia stato anche di peggio. La Francia perse il 64% della forza mobilitata, la Russia il 76% e l'Austria addirittura il 90%. Quanto al futuro, sarebbero passati poco più di vent'anni prima che tutto ricominciasse: la Grande Guer159 ra, in fondo, non era stata che la prova generale di quella successiva. Note 1 Sulla ritirata da Caporetto fino al Piave si veda Comisso, Giovanni, Giorni di guerra, Milano, 1930. p.176. 2 Zoli, C., La battaglia del Piave, op. cit.. p. 44. 3 Ibidem, p. 44. 4I due documenti sono in appendice Giovanni, Giorni di Guerra, op. cit. 6 Sul campo trincerato di Treviso, il generale Enrico Caviglia, comandante dell’armata del Montello dal 25 giugno 1918 sino alla conclusione del conflitto, aveva espresso al duca d’Aosta, comandante della 3a armata le proprie lamentele giudicandolo d’intralcio anche per le nostre truppe. 7 In appendice l’elenco completo delle abitazioni distrutte o danneggiate della provincia di Treviso. 8 L’elenco redatto prima della battaglia di Vittorio Veneto, comprendeva anche i comuni della sinistra Piave, ancora in mano agli austriaci, dando per scontata la vittoria finale. 9 Archivio di Stato di Treviso, Fondo Prefettura, anno 1919. 10 Copia integrale del documento in appendice. 11 Sul tema delle rivolte contadine si veda Gaspari, Paolo, Grande guerra e ribellione contadina, Udine, 1995. 5 Comisso, 160 (Documento 1) COMANDO DELLA TERZA ARMATA STATO MAGGIORE - SECONDA SEZIONE INFORMAZIONI prot. n.1112 29 marzo 1918 ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNOR PREFETTO DI TREVISO e, per conoscenza AL COMANDO SUPREMO (Uff.Segreteria) AL COMMISSARIATO PER LA RESISTENZA INTERNA Tra le cause che maggiormente contribuiscono a ingenerare e a mantenere nelle popolazioni borghesi di questa zona un grave senso di sconforto e di preoccupazione, pernicioso in sé e per la ripercussione che esercita sui soldati coi quali esse hanno frequente contatto, due essenzialmente appariscono gravi e richiedono radicale e sollecito rimedio: l'abbandono del territorio da parte di molti pubblici funzionari e l'esodo delle classi abbienti. V.S. certamente ammetterà che dalla due cause deriva non solo un inceppamento della vita degli Enti, ma altresì l'indebolimento della vita sociale, che viene ad essere costituita dalle sole classi di minore levatura e fortuna, in balia si se stesse, e più accessibili alle influenze di disfattismo e di sconforto. Il primo dei mali, quello che riflette l'abbandono del territorio da parte dei funzionari, deve trovare facile e immediato rimedio nell'applicazione e nel rispetto del noto decreto del Comando supremo. Quanto al secondo, l'esodo delle classi abbienti. Seppure è più difficile arrivare ai rimedi, sembra tuttavia che molte cose utili e provvedimenti si possano fare. Se da una parte è comprensibili l'esodo delle donne e dei bambini, dall'altra non è punto tollerabile quello degli uomini, che appare determinato soltanto dai disagi della vita e dalla paura delle incursioni aeree; troppo poca cosa in verità di fronte ai sacrifizi del soldato combattente. Un forte appello alle persone influenti e di provato patriottismo specie fra i proprietari di industrie, aziende agrarie, e fra alcuni dei professionisti ecc. perché tornino alla residenza abituale e riprendano le occupazioni interrotte cosi da ingenerare colla loro stessa presenza una maggior fede nella popolazione, è altamente consigliabile e dovrebbe non tornar vano. A tal'uopo la S.V. potrebbe concordare efficaci provvedimenti ed iniziative d'intesa col Commissariato della resistenza interna: avendo cura di tenere informato questo ufficio. Di quanto è oggetto della presente informo anche il Comando Supremo affinché sia in grado di prendere immediatamente quei provvedimenti che sembrano essere della maggiore urgenza e assolutamente improrogabili. P. C. C IL MAGGIOR GENERALE IL TEN. GENERALE 161 Capo di stato maggiore G.VACCARI ia (Documento 2) R.PREFETTURA DI TREVISO RISERVATISSIMA Emanuele Filiberto di Savo- Lì, 8 aprile 1918 A S.A.R. Il Tenente Generale Comandante della 3^ Armata Nella lettera del 29 marzo p.p; alla quale ho l'onore di rispondere a V.A.R. giustamente pone in rilievo e lamenta uno stato di cose che perdura ormai da cinque mesi. Della mancanza di funzionari in genere e dell'esodo delle classi abbienti sono venuto a risentire pel primo le dirette conseguenze, essendo notorie le difficoltà materiali e morali che tali deficienze frapposero allo svolgimento dell'azione di governo che mi incombeva, e nei momenti più critici, allorché tanto più utile sarebbe stato l'ausilio di tutte le maggiori energie della provincia. Apparirebbe ormai oziosa ogni valutazione delle cause che determinarono a un tratto questa situazione, segnatamente in Treviso, che in meno di otto giorni rimase priva dei suoi principali istituti e della gran maggioranza della sua popolazione. Ma non può prescindersi da tale indagine quando si voglia procedere alle ricerche di idonei rimedi per processo di ricostituzione che a ragione V.A.R. intenderebbe promuovere. E' da premettere che qui e nei paesi contermini e nelle stesse zone oltre Piave, anche dopo la presa di Caporetto, perdurò per alcun tempo ferma fiducia sulla saldezza del nostro valoroso esercito che si ritenne potesse offrire resistenza al Tagliamento, e si propagò rapidamente il panico quando si ebbe la nozione diretta della ritirata di una parte delle truppe in una forma che lasciava adito a preoccupanti incertezze. In quello istante nessun ragionamento sarebbe valso a mutare il sentimento che si era generalizzato, specie dopo che si operò la chiusura di moltissimi uffici, a cominciare dagli istituti di credito, e dalla succursale della Banca d'Italia prima delle altre. A caratterizzare il fenomeno che andrebbe contrastato e superato, basti accennare all'assenteismo dei proprietari fondiari, alla loro indifferenza al ripristino dei lavori campestri e alla improvvisa partenza delle persone facoltose, alcune delle quali abbandonarono cospicui valori mobiliari nelle cassette di sicurezza delle banche, senza che lo stesso consegnatario lasciando la città ne curasse il prelievo. Né, a mio giudizio, almeno nei primi stanti, fu prevalente ragione di timore il pericolo degli aereoplani poiché incursioni anche violente non erano mancate in tempi anteriori, sia pure con minor frequenza e intensità, e la popolazione era rimasta sul posto, quando conservava la persuasione che il territorio nazionale non sarebbe 162 stato invaso. Si ebbe poi l'aggravante che le industrie fiorenti nel territorio vennero fatte cessare per porre in salvo macchinari e materie prime, e ogni commercio si soppresse naturalmente con l'esodo in massa della popolazione urbana e il trasporto altrove delle riserve alimentari e degli stock di altri generi qui esistenti. A ciò concorsero apposite commissioni ufficiali. In prosieguo poi con l'infuriare delle incursioni aeree e i conseguenti danni all'edilizia, intervenne la preoccupazione di mettere al riparo i mobili, e i profughi di ogni classe fecero a gara per conseguire i mezzi necessari di trasporto. Le medesime popolazioni di luoghi più colpiti e che non si erano spostate, come quelle di Castelfranco e di Montebelluna, fecero pressione per ottenere il consenso a lasciare i loro territori. Traccio la situazione creatasi per misurare fino a qual punto sia da contarsi sulla possibilità di un ritorno delle classi abbienti, la cui assenza viene giustamente deplorata da V.A.R. come coefficiente di probabili malumori. E parrebbemi anzitutto doversi distinguere fra le condizioni del contado e quelle della città. I proprietari delle terre la cui cultura (sic) sotto gli alti auspici di V.A.R. verrà assicurata, hanno, a mio modo di vedere, l'obbligo di non trascurare i loro interessi ulteriormente e, per ovviare anche alla tendenza dei coloni di detenere i poderi come loro incontrastabile dominio. Sull'importante argomento e sui metodi da seguirsi per richiamarli al dovere sociale che loro compete, richiamerò la speciale attenzione della Commissione provinciale di agricoltura da me presieduta. Un appello agli industriali come tali risulterebbe meno efficace mancanti quali essi sono e delle officine e della mano d'opera. Così del pari i professionisti e la classe borghese urbana che normalmente sono alla direzione della cosa pubblica, a parte la carenza di loro particolari interessi avranno campo a porre io stato in cui sono oggi ridotte le città e le private loro abitazioni. In ogni caso però un qualsiasi appello al ritorno di persone non rivestite di pubbliche cariche dovrebbe essere preceduto, a mio giudizio, dal ristabilimento di alcuni principali organismi in guisa da rinfrancare gli animi, addimostrandosi la intenzione di ricostituire la vita normale. Il ritorno delle classi abbienti per poter riuscire praticamente e determinare un effettivo risveglio richiede il concorso di alcuni elementi essenziali, senza i quali la iniziativa individuale risulterebbe vana. Concordando col Governo centrale e col Comando Supremo un'azione rivolta a rinsaldare gli animi nella fede e nel sentimento del dovere, è da sperare che buoni risultati siano da conseguirsi, a partire sempre dalla riapertura e dal funzionamento degli uffici governativi, e da un complesso di altre provvidenze atte ad affidare sul 163 ripristino del commercio libero in misura sufficiente a garantire la alimentazione di chi si inducesse a far ritorno. Già ebbi occasione di ponderare siffatte proposte, e non dissimulo che sono a ciò mosso pure dal desiderio di essere sollevato dal cumulo di attribuzioni e di responsabilità che da sei mesi ho dovuto assumere, sostituendomi ai pubblici ufficiali che si sono assentati. Posso peraltro accertare V.A.R. che per quanto oberato di lavoro non ho mancato di provvedere nel miglior modo possibile agli interessi affidati alle mie cure, non omettendo di adoperarmi allo intento che le popolazioni risentano il minor disagio possibile e siano prontamente soccorse in caso di bisogno. L'assistenza ai profughi ancora numerosissimi non è mancata, ad onta che per la deficienza di persone autorevoli non abbia potuto creare sufficienti Comitati, che altrove riescono di grande sollievo all'Autorità politica. Oggetto di grande preoccupazione è per me la salute pubblica nello interesse della popolazione civile e delle truppe. Per fortuna non si ebbe finora alcun accenno a epidemie anche lievi, mercé le tempestive cautele adoperate dai funzionari medici da me dipendenti col valido e pronto concorso delle Autorità Sanitarie Militari. In futuro non dovrà mancare una diligenza sempre più attiva, stante l'avanzarsi della stagione calda, onde ho avvisato alla necessità che a prescindere da altre ragioni dì carattere politico o militare si addivenga allo sfollamento dei profughi che in alcuni paese vivono in condizioni precarie e antiigieniche. Reputo che in zona di operazioni come questa avanzata, la presenza dei profughi in contatto con le truppe operanti non sia esente da pericolo dato lo stato di animo nel quale si trovano costoro per l'abbandono del proprio focolare. Effettivamente le amministrazioni municipali nei comuni della provincia non occupati dal nemico e non sgombrati d'autorità (45 su 96) procedono in condizioni non facili, pel richiamo alle armi di molti impiegati, il che preesisteva alla ritirata, e per l'assenza di parecchi amministratori, tanto che ho dovuto nominare vari Commissari, ai quali per altro la Legge consente tutti i poteri del Consiglio e della Giunta con la mia sanzione. Certamente sarebbe stato desiderabile che tutti fossero rimasti al posto ma trattasi di persone che partite prima del bando del 15 novembre hanno dimostrato di essere poco propense a ritornare, e forse darebbero limitato rendimento, specie nei centri minori. Adempirò al dovere di informare la V.A.R. dell'esito dei buoni uffici che verranno spiegati per realizzare gli alti Suoi intendimenti. Con sentimenti di ossequio devoto e profondo. IL PREFETTO Bardesono. 164 (Documento 3) 165 166 167 168 (Documento 4) Accertamento compiuto nei comuni della provincia di Treviso per i danni causati alle abitazioni civili (I comuni sono indicati in ordine di distretto: Treviso - Asolo Montebelluna - Oderzo - Valdobbiadene - Vittorio) Comune Popolazione Case Distrutte Danneggiate Abitabili Treviso Breda Carbonera Casier Istrana Maserada Silea Monastier Paese Ponzano Povegliano San Biagio Spresiano Villorba Zenson Borso Castelcucco Cavaso Crespano Monfuno Paderno d’Asolo Possagno Montebelluna Arcade Caerano Cornuda Crocetta Nervesa Pederobba Trevignano Volpago Castelfranco Conegliano Codognè Gaiarine Godega Mareno 40.219 9.124 4.117 2.739 4.392 3.584 4.016 3.664 8.303 3.259 2.606 8.408 6.426 6.491 2.076 4.213 1.812 3.900 3.361 1.769 2.319 2.384 12.364 5.497 3.059 3.009 9.979 9.729 9.999 9.181 7.286 14.829 13.007 4.371 5.088 4.375 4881 2.200 725 664 180 510 450 623 322 674 314 300 824 1.000 100 340 280 629 249 3 890 550 65 493 502 2.950 559 300 400 1.500 900 1.000 900 500 708 1.400 400 369 800 500 169 2 350 2 99 10 311 900 400 1 4 3 20 154 200 300 435 800 90 9 39 150 1.760 93 2 1 80 2 137 1 1 150 323 90 340 292 662 177 510 20 619 86 673 313 140 190 10 31 40 586 480 50 7 1 395 282 179 1 150 1.150 435 200 350 119 900 60 89 30 150 10 499 54 492 104 2.648 226 299 50 50 30 900 60 580 461 340 280 770 200 Comune Orsago Pieve di Soligo Refrontolo San Fior Santa Lucia S.Pietro di Feletto S.Vendemiano Susegana Vazzola Oderzo Cessalto Chiarano Cimadolmo Fontanelle Gorgo al Mont. Mansuè Motta di Livenza Ormelle Piavon Ponte di Piave Portobuffolè Salgareda San Polo Valdobbiadene Farra di Soligo Miane Moriago S.Pietro di Barbozza Segusino Sernaglia Vidor Vittorio/Serravalle Vittorio/Ceneda Cappella Maggiore Cison di Valmarino Colle Umberto Cordignano Follina Fregona Revine Lago Sarmede Tarzo Popolazione 2.042 4.449 2.498 3.860 3.182 3.570 4.219 5.449 5.391 8.979 4.632 3.831 2.661 5.191 4.303 4.295 7.347 4.536 2.006 6.148 2.890 4.925 4.056 6.751 6.167 4.625 2.430 3.225 2.256 3.866 2.320 21.946 vedi sopra 2.689 4.398 3.270 5.401 3.674 3.941 3.037 3.460 4.658 Case 300 800 690 570 453 700 750 507 396 850 590 480 395 511 600 400 850 481 204 865 150 620 453 1.400 1.100 1.455 205 1.000 500 760 450 1.262 2.054 358 757 388 475 1.180 800 980 550 831 170 Distrutte Danneggiate Abitabili 2 100 190 2 61 12 8 443 60 10 14 176 3 162 2 30 162 15 600 1 450 146 650 660 25 195 400 100 740 300 1 2 28 1 4 400 1 6 41 35 400 90 150 107 688 120 50 53 600 560 416 190 40 157 17 220 215 35 100 35 150 211 750 440 135 10 600 400 20 140 762 2.029 27 350 380 78 300 799 35 2 101 263 300 410 418 285 622 14 343 190 20 50 29 468 281 381 600 104 154 165 114 20 96 1.295 10 499 25 329 379 31 393 480 939 548 689 Caporetto: leggere e comprendere una tragedia Tra realtà e mito Molti autori fra coloro i quali si sono occupati di Caporetto hanno fatto notare come questo oscuro toponimo si sia trasformato nella nostra lingua in uno dei principali sinonimi del termine «disfatta». Così ad esempio, Mario Silvestri nell'introduzione al suo Caporetto. Una sconfitta e un enigma.1 In esso egli rileva come quell'evento, del tutto inatteso all'epoca e da allora circondato da un alone di apparente inspiegabilità, abbia colpito in maniera profonda l'immaginario collettivo di un intero popolo, conquistandosi un posto nel suo vocabolario. Un avvenimento di questa portata non può che avere anche un dimensione mitica tale da far uscire il suo racconto dall'ambito esclusivo della narrazione storica per farlo entrare in quella letteraria. Sono molti infatti i racconti dei testimoni che vissero quei giorni in prima persona e che ancora oggi emozionano chi vi si imbatte, come quello del tenente Vincenzo Acquaviva Coppola. I testimoni Caporetto è una tragedia e come tutte le tragedie che si rispettino ha i suoi attori. Ad alcuni il destino ha riservato il ruolo di protagonisti, ad altri quello di comparse. Ciò significa che costoro osserveranno la storia da angolazioni diverse e differenti saranno anche le motivazioni che li spingeranno a raccontarla. E' dunque importante che il lettore impari a familiarizzare con i problemi relativi alla psicologia del testimone. Sono concetti questi, che lo storico francese March Bloch espone con chiarezza in La guerra e la false notizie.2 Esistono testimoni che osservano la realtà dal basso, con un orizzonte visivo limitato, ed altri che la osservano dall'alto, ed il loro sguardo può dunque spaziare più lontano. Premesso che in ogni narrazione è sempre problematico determinare tutti gli elementi di verità, perché molte sono le variabili che influenzano il giudizio di chi racconta, si deve comunque ammettere che vivere un grande fatto storico - una battaglia ad esempio - nei saloni di un comando supremo è assai diverso dal doverlo affrontare come fante in una trincea avanzata. Lo studioso avrà forse bisogno vagliare il racconto di 500 fanti schierati lungo il fronte per apprendere i dati che potrebbe conoscere con le parole di un solo colonnello in servizio presso un comando di divisione. 171 Con gli occhi degli «altri»: la dodicesima battaglia dell’Isonzo Come analizzare poi, dal punto di vista critico, ciò che si è appurato? Perché un testimone pone l'accento su determinati aspetti e un altro no? Lo fa per giustificare le proprie azioni oppure per denigrare quelle di altri? E' opportuno dunque che il lettore si renda conto che esiste anche il punto di vista altrui, ancora più interessante nel caso di Caporetto, se si tratta di quello di una storiografia straniera, magari espressione di un paese che fu un nostro avversario al tempo dei fatti in questione. La cosa è ancora più importante se si considera che la nostra visione di un avvenimento può essere distorta anche a distanza di molto tempo dal pathos che lo circonda e dall'emozione collettiva con il quale è stato vissuto. Non è ad esempio il caso di Walther Schaumann e Peter Schubert e del loro testo dal titolo Isonzo. La dove morirono.3 Schaumann e Schubert non sono testimoni diretti ma lo scritto dei due autori austriaci viene qui citato perché analizza tutte le dodici battaglie carsiche. Per la storiografia dell'altra parte esistono infatti le dodici battaglie dell'Isonzo; per quella italiana invece, vi sono undici battaglie più Caporetto. Già questa semplice considerazione permette di comprendere come la grande rotta del novembre 1917 venga vissuta in modi diversi a seconda dei campi. Il lavoro di Schaumann e Schubert, proprio perché affronta un tema di portata così ampia, ha il pregio di essere sintetico. La sintesi impedisce all'autore di perdersi in voli pindarici, ma lo obbliga a venire subito al dunque, esponendo spesso in poche righe quello che è il distillato di un'intera scuola di pensiero. La lettura dello scritto di Schaumann e Schubert, lascia intuire al lettore che quella che noi viviamo come una sconfitta epocale, per l'occhio austriaco è soprattutto una battaglia come tante. Quanto poi alle cause del nostro crollo, sulle quali generazioni di studiosi italiani hanno versato fiumi di inchiostro, esse sarebbero assai semplici e vengono per questo liquidate in poche righe: «Il Cadorna ordinò al gen. Capello di tener particolarmente d'occhio la testa di ponte di Tolmino; lo inquietava ovviamente la possibile presenza tedesca. L'ordine del generalissimo conteneva però anche delle disposizioni dettagliate: occupazione delle linee avanzate e tenace resistenza. Il Capello, di stanza a Cormons, era però di tutt'altro avviso: riteneva che l'urto principale si sarebbe avuto sulla Bainsizza e quell'attacco nemico lo voleva affrontare con un contrattacco. Lasciò per tale ragione le artiglierie nelle posizioni più congeniali al proprio attacco ed i rincalzi concessigli dal Cadorna li inviò nei settori che maggiormente si adattavano ai propri piani. Il tutto naturalmente, senza informare l'intransigente Cadorna. Ad Udine si rimase convinti che la testa di 172 ponte di Tolmino non avrebbe costituito alcun pericolo. Nessuno però dei due posti di comando fece attenzione al gen. Badoglio, comandante del XXVII corpo d'armata, il quale - per complicare le cose, verrebbe da dire, - aveva elaborato un proprio piano di difesa: lasciare che gli austrotedeschi avanzassero nella valle dell'Isonzo per poi annientarli come topi caduti in trappola.»4 Il famoso dissidio Cadorna-Capello e il mancato funzionamento della cosiddetta «trappola di Volzana», sarebbero dunque alla base del nostro tracollo. In realtà, accettare questi soli elementi come le cause ultime della sconfitta italiana si rivelerebbe riduttivo. Forse è più giusto ammettere che essi rappresentarono la classica punta dell'iceberg, il momento finale di un processo che può essere meglio compreso solo prendendo a prestito gli strumenti tipici di altre discipline come la sociologia, per tentare un approccio sistemico agli aventi. L’esercito italiano: un sistema rigido Che tipo di sistema era l’esercito italiano guidato da Cadorna e che cos'è un sistema 5 secondo la nozione sociologica del termine? Esso - in estrema sintesi - non è altro che un insieme di elementi in grado di influenzarsi gli uni con gli altri. Esiste per raggiungere uno o più obiettivi e, per sua natura, tende a conservare il proprio equilibrio, mantenendo una sorta di statu quo. A seconda di come reagisce agli stimoli che gli provengono dall'esterno, il sistema può essere di tipo flessibile, se dimostra un'alta capacità di adattarsi alle variabili che lo influenzano, oppure rigido. I sistemi rigidi tutelano molto meglio il proprio equilibrio di fronte a cambiamenti improvvisi ma, se gli stimoli dell'ambiente si fanno troppo numerosi e forti, non riuscendo ad adattarvisi, cadono a pezzi. L'esercito italiano che fu battuto a Caporetto può essere considerato un sistema assolutamente rigido. Capirne il funzionamento è un'utile premessa alla comprensione dei fatti che portarono a quella epocale disfatta. I soldati: cittadini o sudditi? Le nostre forze erano lo strumento armato di un paese di recente unificazione, i cui appartenenti incontravano non poche difficoltà a comprendere concetti come «stato» o «patria». I militari di truppa, provenivano da una società che li considerava sudditi prima che cittadini portatori di diritti. Si trattava per la maggior parte di contadini privi di istruzione e, conseguentemente, di motivazioni che potessero indurli a combattere senza esservi 173 costretti da uno Stato che si presentava loro con la divisa del carabiniere. Essi non comprendevano il perché della guerra e non accettavano la necessità di dover morire per le desolate pietraie del Carso. Fra di loro vi era chi credeva che Trento e Trieste fossero un'unica città oppure che fossero unite da un ponte. Si sbaglierebbe però a ritenere che questo problema riguardasse solo la truppa. Fenomeni simili erano tutt'altro che rari anche fra gli ufficiali di complemento. Grave infine, era anche la mancanza di buoni sottufficiali. Gente di Trincea, di Lucio Fabi6, consente di intravedere con chiarezza i problemi di un esercito che, dopo anni di lotta, è anche frustrato dalla scarsità dei risultati ottenuti, che hanno ormai cancellato il sogno di una guerra breve. Una guerra favorevole a chi si difende Il conflitto si rivela lungo e sanguinoso. E' uno scontro statico, dove chi si difende è favorito dalla nuova efficacia delle armi leggere integrate dall'artiglieria e dalla forza di arresto degli ostacoli fissi disseminati di fronte alle trincee. Per gli italiani poi è anche peggio. Essi sono infatti costretti ad attaccare dal basso verso l'alto e da posizioni sfavorevoli, ereditate dai trattati di pace successivi all'ultima guerra di indipendenza. La rigidità sistemica del nostro esercito era poi ulteriormente accresciuta dallo stile di comando di Cadorna che, trovandosi a dover operare con un materiale umano che presentava le caratteristiche sopra sintetizzate, ritenne più vantaggioso fare leva sullo strumento disciplinare. Una disciplina ferrea applicata a tutti i livelli era insomma l'unico mezzo per far funzionare in modo sinergico la macchina militare italiana, peraltro appesantita da una tendenza all'elefantiasi burocratica che ne rallentava la catena di comando. Cadorna: il generalissimo Ma chi era Cadorna? Per cercare di comprenderlo il lettore si può rivolgere agli svelti paragrafi di L'Italia nella grande guerra 1915-18, di Luigi Tomassini.7 Il generalissimo, militare di vecchia scuola, non era molto diverso né peggiore dei colleghi inglesi e francesi. Come loro applicava alla lettera le dottrine strategiche del tempo che predicavano il progressivo logoramento dell'avversario, attraverso una ripetuta serie di violenti attacchi. Questo, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto ridurre gli Imperi Centrali all'impotenza. Nel dicembre del 1915, egli scriveva infatti: «La presente guerra non può 174 finire che per esaurimento di uomini e mezzi, e l'Austria è molto più vicina di noi ad arrivarci. E' Spaventoso ma è così».8 Cadorna aveva un pessimo rapporto con i civili e con i politici, ispirato forse in questo dalle teorie di Klausevitz, secondo il quale, sulla strada della vittoria, sarebbe stato favorito il soldato che fosse riuscito a liberarsi della loro influenza. Il nostro comandante supremo arriverà anche a chiedere le dimissioni del ministro Orlando. Ma Cadorna aveva tra i suoi bersagli anche il Papa, i disfattisti, i vigliacchi che disertano la lotta e l'elenco potrebbe continuare. Non si deve però ritenere che sfogasse le sue ire solo contro la truppa: prima di Caporetto aveva infatti destituito 217 generali e 255 colonnelli con quali effetti sull'efficienza della catena di comando è facile intuire. Quello italiano è dunque un sistema rigido, con evidenti problemi di comunicazione interna e con centri decisionali intermedi sconvolti dal continuo siluramento di centinaia di ufficiali superiori e generali. Si regge su una base che ha forti carenze motivazionali e il cui funzionamento sinergico è assicurato soprattutto coll'impiego di sistemi coercitivi e di misure estreme. Una struttura di questo tipo è poco adatta ad affrontare le situazioni inusuali e di conseguenza, è destinata a vedere amplificati gli effetti di tutte le variabili che entreranno in gioco, con una sorta di perverso effetto domino, nella triste vicenda dell'ottobre 1917. Una guerra all’attacco E’ corretto parlare dei fatti di Caporetto come del semplice prodotto di una situazione inusuale affrontata in maniera poco efficace? Fino ad allora, l'esercito italiano aveva conosciuto un solo modo di combattere: l'attacco. Anni trascorsi all'offensiva consolidando un atteggiamento mentale che si concretizzava nello scontro per linee orizzontali, con le batterie sempre troppo addossate alle prime linee e gli artiglieri impreparati allo scontro ravvicinato. Capello intendeva reagire all'attesa aggressione austriaca, aggredendo a sua volta… Generalizzando forse troppo, si può arrivare ad ammettere che l'opporsi ad un offensiva su vasta scala, rappresentava un'esperienza tutt'altro che abituale per la maggior parte dei nostri soldati. L'attacco inoltre aveva le sue regole auree: lunga e violenta preparazione d'artiglieria, ondate di fanti lanciate contro il nemico, lotta per il possesso delle alture dominanti… L'avversario andava aggredito sempre di fronte, guardandolo negli occhi. In caso di ripiegamento, era sempre pronta una linea arretrata sulla quale attestarsi. Per i soldati dell'Intesa in generale e per quelli italiani in particolare, era 175 difficile immaginare situazioni di combattimento diverse da questa. Le conseguenze prodotte da una simile mentalità sono facili da capire. Una di esse è ad esempio la paura dell'accerchiamento. Trovarsi in un'evenienza tanto innaturale, con il nemico da ogni lato, senza la possibilità di muovere all'indietro verso una posizione amica, portava spessissimo alla resa. Mario Silvestri fa notare come sul fronte occidentale, accadeva che centinaia di soldati inglesi, accerchiati da pochi tedeschi, finissero col gettare le armi.9 Se si pensa ai fatti di Caporetto con queste premesse, non è difficile ammettere che l'esercito italiano si trovò di fronte a quella che abbiamo definito una situazione inusuale. Fu aggredito con decisione e con sistemi inattesi: breve preparazione di artiglieria, gas, nuove tattiche si attacco, sfondamento cercato lungo le valli. Il loro assommarsi, unito ai gravi errori dei nostri comandi e ai naturali effetti dell’incertezza e del panico, spinse la portata della crisi fino alle estreme conseguenze. Cadorna: un testimone racconta... Alberto Genova, nel suo Noi combattenti da Caporetto al Piave10 ci fornisce una significativa visione di questo apparato dominato dall'intransigenza. Genova è un capitano e nel suo ruolo di ufficiale subalterno rappresenta un buon esempio di quelli che all'inizio abbiamo definito testimoni dal basso. Sullo stile di comando del Generalissimo, Genova scrive: «[… ] Cadorna era un condottiero di fermo carattere che sapeva comandare e farsi obbedire; ma, a nostro avviso, rigido e sbrigativo all'eccesso […]. Specie nelle misure punitive che prendeva nei confronti dei comandanti di grandi unità, dalle brigate ai corpi d'armata, come Giove i fulmini teneva in mano il fascio dei suoi "siluri" e li scagliava con fredda determinazione e senza pietà su chi commetteva qualche errore. Quei comandanti, di cui più di uno non eccelleva certo per virtù militari, vivevano costantemente sotto la minaccia di quella spada damoclea; […]»11. Come poi una simile rigidità si scaricasse, dall'alto verso il basso, lungo la catena di comando è presto detto. Scrive ancora Genova: «[Questa durezza] è naturale che […] scendesse per linea gerarchica ai comandi sottoposti: reggimento, battaglione, compagnia, plotone, per finire sacrosantamente sul Fante della trincea, […] Tutto finiva, ossia cominciava con l'eterna frase: in bocca al lupo e ogni cosa andava a posto. Ta pun, ta pun, ta pun… Plon, plon, plon… Mauser e schwartzlose attaccavano la loro musica e la manfrina mortale riprendeva. Alla fine della rappresentazione un mucchio di morti e di feriti (Mamma mia… Mamma mia…) 176 disseminati su quattro palmi di terreno e sulla eroica umiltà del Fante che pagava per tutti».12 Il pregiudizio Anche il pregiudizio e le errate convinzioni appesantivano il funzionamento del sistema. Gli ufficiali di complemento chiamati a guidare la truppa in battaglia, godevano di scarsissima considerazione come testimonia ancora il capitano Genova: «Esisteva inoltre un'altra grossa pecca nella classe, chiamiamola così, dirigente del nostro esercito, ed era la distinzione, anzi la differenziazione, che si manteneva tra l'ufficiale di carriera e quello di complemento. Quest'ultimo veniva considerato in sottordine, come un elemento di seconda mano, e bisognava che possedesse qualità eccezionali per essere preso in una qualche considerazione. Veniva avanti il colonnello comandante del reggimento o il generale di brigata. - Lei? - Tenente tal dei tali. - Effettivo? - Signor no, di complemento. - Ah… (espressione delusa). Ma non erano gli ufficiali di complemento che facevano la guerra e andavano all'assalto con i loro soldati, anch'essi di complemento quanto loro? E allora?»13 Gli «imboscati» Il senso del sopruso patito da parte di uno Stato che obbligava i suoi cittadini sudditi a partire per una guerra difficile da comprendere, era poi amplificato fra la truppa dal clima di disumanità che la feroce disciplina di Cadorna diffondeva. Ancora peggiore era poi rendersi conto di come certuni riuscissero a sfuggire o a mitigare gli effetti di una condizione tanto triste, ricorrendo a sistemi più o meno leciti. Scrive Genova: «C'era ancora una più cocente ingiustizia: quella che veniva dall' "imboscamento": un trucco, per dire, o un giochetto cui i protetti, gli scaltri o i fortunati ricorrevano, trovando modo di sottrarsi al rischio del combattere. Al principio della guerra l'istituzione del cosiddetto esonero era stata considerata ragionevole e inevitabile, e i provvedimenti regolari ed onesti venivano presi con prudenza ed equità. Ma dopo il primo anno, con la distorsione che aveva assunto la guerra […] la ricerca per sfuggire a si magra sorte per coloro che avevano il cuore meno saldo o pavido addirittura, l'esonero era degenerato nella cancrena del contrabbando e della corruzione. Le retrovie, i centri lontani dal fronte, le città e i luoghi di presidio di enti militari erano diventati i 177 luoghi di rifugio di centinaia e migliaia di privilegiati che in luogo dell'addestramento con il fucile e il cannone si davano a maneggi d'ogni genere per conservare incarichi e posti che li tenessero al riparo dalla grossa avventura di rischiare la vita contro gli austriaci.»14 Il generale Alfred Krauss: Caporetto le ragioni di una vittoria Dopo avere raccolto le impressioni di un testimone dal basso è venuto ora il momento di ascoltare quanto ha da riferire chi occupava posizioni diametralmente opposte a quelle di Genova e si trovava ad osservare gli eventi da un'angolazione privilegiata: il generale Alfred Krauss. A guerra finita egli diede alle stampe un interessante volume che volle intitolare Il miracolo di Caporetto.15 A suo dire, quegli avvenimenti rappresentarono soltanto il frutto della volontà di vittoria teutonica applicata alla realtà e trasformata in intelligente tattica e in scaltra strategia. Nel successo di Caporetto non vi sarebbe dunque alcunché di miracoloso. Esso sarebbe stato ottenuto in primis grazie allo sfondamento del fronte cercato lungo le valli. All'epoca infatti, le dottrine militari sostenevano - come abbiamo visto - la necessità di controllare le alture dominanti, cosa che gli austrotedeschi trascurarono. Un’altra delle ragioni della vittoria austriaca viene individuata dal Krauss nella tattica dell'infiltrazione che le truppe della duplice monarchia avevano mutuato dagli alleati tedeschi dopo che questi ultimi l'avevano elaborata e sperimentata sul fronte francese. Invece di puntare con grossi reparti alla conquista di linee trincerate, gli attaccanti si incuneavano nei tratti più deboli del fronte per puntare alla conquista di obiettivi più lontani e importanti. I nuclei di resistenza lasciati alle spalle, si sarebbero poi arresi una volta persi collegamenti con le proprie retrovie. Sul campo di battaglia Molto utile per un ipotetico lettore desideroso di comprendere quanto accadde, è soprattutto osservare la battaglia dal suo interno. Per questo è possibile rivolgersi ad un altro testimone dal basso ovvero il tenente di artiglieria Fritz Weber che, quando l'offensiva scatta, si trova presso la conca di Plezzo. Nel suo Tappe della disfatta16 egli descrive l'azione del battaglione lanciagas tedesco che ridusse all'impotenza i difensori italiani della conca. Il gas è un'arma che produce grandi effetti psicologici - oltre che materiali - su chi è destinato a patire le conseguenze del suo impiego. E' l'impalpabile metafora di una morte invisibile ed insidiosa, contro la quale sembra non poter esistere difesa e per questo particolarmente temuta dai combattenti. All'ora stabi178 lita per l'attacco, a Plezzo un sistema elettrico esplose simultaneamente 900 granate caricate con aggressivi chimici. A Tolmino, le cose non andarono molto diversamente. Scrive Weber: «[…] dalla parte meridionale della valle giunge uno strano brontolio. E' un rumore insolito. Dei razzi si alzano dalle posizioni di sbarramento nemiche: tre… quattro… Nella loro luce si distinguono nubi biancastre, come se la terra si fosse aperta, emanando potenti soffioni. Il battaglione lanciagas ha compiuto la sua opera».17 Raccapriccianti sono poi i dettagli degli effetti prodotti dall'arma chimica, che l'ufficiale di artiglieria vede per la prima volta nella sua marcia di avvicinamento a Plezzo: «Avevamo già visto molte cose terribili, ma quello che si presenta ai nostri occhi in questa occasione sorpassa ogni precedente spettacolo e rimarrà nella memoria per sempre. Laggiù, in ampi e muniti ricoveri e in caverne, giacciono circa ottocento uomini. Tutti morti. Alcuni pochi, raggiunti nella fuga, sono caduti al suolo, con la faccia verso terra. Ma i più sono raggomitolati vicino alle pareti dei ricoveri, il fucile tra le ginocchia, la divisa e l'armamento intatti. In una specie di baracca si trovano altri quaranta cadaveri. Presso l'ingreso stanno gli ufficiali, i sottufficiali e due telefonisti con la cuffia ancora attaccata, un blocco di fogli davanti, la matita in mano. Non hanno neppure tentato di usare la maschera. Devono essere morti senza neppure rendersi conto di quanto stava succedendo. […] Nell'angolo più interno c'è […] un groviglio di cadaveri. Dall'oscurità emergono delle strisce gialle, dei visi lividi. Questi si che hanno sentito il soffio delle bombe a gas! Fuori! Via! Sembra di soffocare…».18 I soldati italiani, sono parole di Weber, muoiono come «colpiti dal pugno di un fantasma». La vittoria inutile Tanto orrore produce una vittoria straordinaria ma, purtroppo per gli austriaci, non decisiva. Il tenente Weber si rivela dunque particolarmente acerbo nelle critiche rivolte ai propri comandi che giudica incapaci di sfruttare quel successo. Egli sfoga la propria ira scrivendo: «Una vittoria che avrebbe potuto decidere le sorti della guerra mondiale! Sotto la guida di Otto von Below e di Alfred Krauss saremmo potuti arrivare fino a Genova e di la aprirci la strada verso la Francia meridionale. […] Ma nessuno di coloro che occupavano i supremi posti di comando comprese il significato dell'ora. Tremolanti dita seguivano sulle carte geografiche la trionfale marcia dell'esercito. Dal preoccupato scuotere di parrucche non piovve che putridume di superate concezioni d'altri tempi. Come? Che? I soldati austriaci sul Livenza? Sul Piave? Ma non era stato deciso che la 179 avanzata dovesse arrestarsi, al massimo sul Tagliamento? Ma allora perché, invece, s'erano spinti fino al Piave? No, non capirono un bel nulla qui signori dell'importanza di quella vittoria. Avevamo varcato il Piave; un nuovo spazio, immenso, si spalancava al nostro sguardo. Già ci vedevamo in nuove marce forzate ad inseguire i resti dell'esercito distrutto; attaccarli per stritolarli, annientarli. Quando un ordine ci richiamò indietro. Scavammo trincee e ci mettemmo ad aspettare. […] Venne l'inverno: un lungo inverno; le nostre trincee si riempirono d'acqua: avevamo freddo, fame ma aspettavamo. Intanto, sui monti imbiancati di neve dei Sette Comuni, i migliori reggimenti austriaci, i vincitori di Plezzo, si dissanguavano in inutili attacchi. Un vecchio piano approvato dalle parrucche voleva così e non diversamente. La lezione di Plezzo non era servita a nulla. Si riprese a combattere per le alture dominanti. In dicembre! E noi sul Piave continuavamo ad attendere. La più grande vittoria della guerra mondiale si sbriciolò in una farragine di futili episodi. E quando nel giugno del 1918, risuonò l'ora della riscossa, già a caratteri di fuoco fiammeggiava in cielo la parola fatale per l'Austria: troppo tardi!»19 Caporetto: un’occasione sprecata? Ma gli austriaci furono davvero incapaci di sfruttare un successo superiore ad ogni aspettativa? Il generale Kruass non la pensa così. Meno disposto di Weber a lasciarsi sopraffare dall'emozione del ricordo, egli sostiene che l'offensiva di Caporetto non era stata pensata per schiacciare e battere l'esercito italiano ma solo per ridurlo all'impotenza e prevenire un possibile attacco. Come le sue parole ci hanno già ricordato, i comandi degli Imperi Centrali si erano infatti convinti che dopo le undici grandi battaglie carsiche scatenate da Cadorna contro di loro, non sarebbero stati in grado di fronteggiarne una dodicesima. Si doveva quindi impedire a tutti i costi una nuova offensiva lanciando un attacco preventivo coll'aiuto dei tedeschi. Purtroppo per noi il successo di quell'attacco andò oltre l'immaginabile. Gli austroungarici si trovarono dunque impreparati a sfruttarlo. Scrive infatti il generale: «La stessa decisione di passare all'offensiva contro l'Italia non nasceva nell'AOK Baden da una decisa volontà di vincere, di annientare l'Italia e di ottenere in tal modo finalmente la pace, ma era solo la conseguenza di una necessità. In undici dure battaglie sull'Isonzo gli italiani avevano tentato di rompere questo nostro fronte con tenacia e coraggio ammirevoli. L'energica volontà di Cadorna aveva sempre spinto i suoi italiani all'attacco. […] La capacità di resistenza del nostro fronte dell'Isonzo, venne infranta dopo l'undicesima battaglia. 20.000 prigionieri non feriti sono l'indice che nessuna truppa si lascia maltratatre all'infinito in questo modo. A quel punto il comandante dei Gruppi d'Esercito Boroevic e l'AOK Baden convennero che una dodicesima offensiva avrebbe condotto Cadorna al suo scopo [… e] con la perdita del fron180 te dell'Isonzo qualsiasi ulteriore resistenza sarebbe stata vana. […] Ci si decise finalmente a quel punto a prevenire gli italiani nell'offensiva.»20 Volontà teutonica... Secondo Krauss ciò che la storiografia del bel paese ha considerato per decenni un miracolo è invece il frutto di una perfetta organizzazione e della grande volontà messa in campo dalle forze austrotedesche che vollero sfondare il fronte e lo fecero senza nemmeno poter sfruttare l'effetto sorpresa. «Gli italiani - scrive il generale, - già ottimamente informati dal loro spionaggio, conoscevano [perciò] tutti i particolari della nostra offensiva. Che non vi abbiano prestato fede è affar loro. […] Nonostante questa precisa conoscenza, o forse proprio a causa sua, gli alti comandi italiani si mostrarono molto fiduciosi su quanto stava per accadere.»21 A sostegno di tale affermazione, Krauss chiama a testimoniare il generale Cavaciocchi, comandante del IVa Corpo d'armata, in linea da Plezzo a Caporetto. In un messaggio alle truppe emanato il 23 ottobre, egli così scriveva: «Soldati! E' arrivato il grande momento, l'ora più importante, forse quella decisiva. Il nemico, incapace di vincere i soldati italiani, prostrato all'interno, sulla soglia della prossima dissoluzione, chiama in aiuto i tedeschi. Noi terremo loro testa!… Vengano pure i discendenti di Arminio, non troveranno più le legioni di Varo».22 A supporto delle sue tesi, Krauss fa salire sul banco dei testimoni anche Cadorna - che egli giudica il «migliore tra gli italiani» - e di cui riporta queste parole, pronunziate di fronte alla commissione d'inchiesta: «sarebbe stato sufficiente che ciascun uomo avesse tirato un caricatore, ciascuna mitragliatrice un nastro e ciascun pezzo un colpo e il nemico non ce l'avrebbe fatta. Si, e appunto in questo sta il «miracolo» - conclude Krauss facendo eco a Cadorna, - nel fatto che non abbiamo lasciato agli italiani nemmeno il tempo per questa semplicissima azione bellica».23 Lo «sciopero militare» Quanto al Generalissimo, egli si cullerà ancora a lungo nell'illusione di poter scaricare le colpe di ciò che è accaduto su un presunto «sciopero militare». In questa veste ce lo presenta Luigi Gasparotto nel suo Diario di un fante.24 Gasparotto non è un ufficiale qualunque. Proviene sì dal complemento ma è un deputato che allo scoppio delle ostilità ha deciso di partire volontario. Egli incontra Cadorna il 6 novembre a Treviso, in Borgo Cavour. Il generale 181 sta per abbandonare la città alla volta di Padova. D'improvviso sale sul predellino dell'automobile e rivolge alla folla un estemporaneo discorso nel quale ribadisce le sue tesi. Scrive Gasparotto: «[…] Parla con franchezza, il volto abbronzato, dalle linee aspre, nonostante la procella che gli turbina intorno. "Siamo davanti - dice - alla più grande crisi morale che si conosca; a qualche cosa che ricorda il castello di carta che crolla. Bissolati lo ha definito un cataclisma psichico, uno sciopero di guerra. Militarmente la difesa era completa, l'organizzazione studiata e portata a compimento fino ai più minuti dettagli; non c'è nulla da rimproverarci, non vi è invece vendetta umana sufficiente a colpire i responsabili dell'infame propaganda. Se l'esercito non si batte la Patria è finita"».25 Cause di una tragedia Analizzare i fatti di Caporetto in una prospettiva sistemica significa ammettere che essi furono il prodotto di una combinazione di elementi che interagirono fra loro. Non esiste dunque una causa ultima che spieghi quella tragedia. Nel loro reciproco influenzarsi, le variabili che contribuirono a determinarla si condensarono in un oscuro amalgama che agglutinò elementi psicologici, culturali, sociali, politici e militari. Esso rappresentò il terreno di coltura ideale in cui i gravi errori commessi dai nostri comandi nell’ottobre del 1917 poterono germinare producendo gli effetti che la storia ci ha consegnato. Il lettore interessato troverà sintetizzata la meccanica degli avvenimenti che si realizzarono nel contesto materiale ed umano fino ad ora descritto, nel volumetto di Emilio Faldella dal titolo «Caporetto, le vere cause di una tragedia».26 Ciò che accadde vi è descritto con brevità ed efficacia. A metà del settembre 1917, la situazione era poco allegra in entrambi gli opposti schieramenti. Gli italiani, nonostante il continuo atteggiamento offensivo, energicamente richiesto anche dagli alleati, non avevano ottenuto i propri scopi. Le forze per continuare ad attaccare ormai mancavano e per questo venne decisa una sosta invernale che inglesi e francesi non gradirono affatto. Robertson ritirò le sue artiglierie dal nostro fronte. Gli austriaci dal canto loro, si erano convinti di non poter sostenere una dodicesima offensiva e decisero per questo di ridurre la pressione sul proprio fronte con un attacco che avrebbe dovuto riportare l'Italia a più miti consigli. 182 Lo schieramento difensivo e i piani del generale Capello In vista della sosta invernale Cadorna ordinò alla 2a Armata, comandata dal generale Capello, e alla 3a, comandata dal duca Amedeo d'Aosta, di modificare la disposizione delle truppe, mutandola da offensiva in difensiva. Il generalissimo disse chiaramente di volere una «difesa ad oltranza», con arretramento delle truppe e analogo ridispiegamento delle artiglierie. Il 19 settembre però, Capello, nel corso di una riunione con i comandanti dei corpi d'armata da lui dipendenti, introdusse loro un concetto assai diverso. Parlò cioè di un'organizzazione «difensivo-controffensiva». Questo autorizza a pensare che intendesse rispondere all'attacco con un contrattacco. Dopo avere manifestato tali intenzioni, Capello cadde ammalato. Colpito da nefrite, venne ricoverato all'ospedale di Padova dove rimase dal 4 al 18 ottobre. Tornò al fronte, fortemente debilitato, solo la notte tra il 22 e il 23 ottobre. Durante la sua assenza, il comando interinale dell’armata da lui dipendente passò al generale Montuori. Di fatto la grande unità visse in una sorta di limbo nel corso del quale non si pensò né allo schieramento difensivo né a quello difensivo-controffensivo immaginato da Capello. Il rapporto Cadorna-Capello Giova poi ricordare che i rapporti tra quest'ultimo e Cadorna non si potevano definire ottimali. Capello era un generale popolare; parlava spesso con politici e giornalisti e non si asteneva dal criticare il suo superiore del quale aspirava a prendere il posto. Allora perché Cadorna non lo silurò? Faldella ritiene che a impedire la sua rimozione dal comando sia stata, da un lato, proprio la notorietà di cui il generale godeva e, dall'altro, il timore di Cadorna di essere male interpretato, sostituendolo durante la malattia. E' un fatto comunque, che la 2a Armata rimane priva di una guida certa nei giorni cruciali che precedono la battaglia. Capello si è allontanato lasciando disposizioni non chiare, che non avrà più il tempo di correggere. Resta ora da chiedersi, stante la mancanza di direttive precise, come i suoi subalterni si siano comportati durante l'assenza del generale. Pietro Badoglio All'inizio abbiamo sostenuto che Caporetto è una tragedia nel senso greco del termine, con protagonisti destinati a recitare ruoli diversi. Se così è, non possiamo esimerci dal chiamare in scena un attore fino ad ora rimasto nell'ombra: Pietro Badoglio, comandante del XXVII corpo della 2° Armata. Schauman e Schubert lo hanno indicato come uno dei sicuri colpevoli27 del 183 disastro in quanto elaboratore di un piano autonomo conosciuto come la «trappola di Volzana». Esistette realmente un disegno strategico con questo nome? Su tale questione oggi è possibile leggere il memoriale28 che Badoglio scrisse nel 1920 per difendersi dalle accuse di Capello e che rimase a lungo inedito. Capello sosteneva che Badoglio avesse lasciato troppe forze sulla sinistra dell'Isonzo, che avesse scarsamente presidiato la linea difensiva Monte Piatto-Plezia-Isonzo e che avesse male schierato le artiglierie servendosene poi anche peggio. La trappola di Volzana Iniziando dunque l'esame dei fatti con la cosiddetta «trappola di Volzana», ecco quanto in proposito dichiarava al Senato il generale Alberto Cavaciocchi nel 1920: «Sugli intendimenti manifestati dal gen. Badoglio, posso precisare i seguenti particolari: nel pomeriggio del 12 ottobre, in seguito a chiamata del gen. Montuori, che reggeva temporaneamente il comando della 2° Armata, il gen. Badoglio e io fummo convocati nell'ufficio del comandante allo scopo di concordare certi lavori […]. Fu durante questo colloquio che il gen. Badoglio manifestò a me il suo pensiero, dicendomi che aveva dato all'artiglieria l'ordine di non sparare fino a che le colonne d'attacco non si fossero serrate contro le linee di difesa di Costa Raunza; che anzi a tal uopo aveva ridotto al minimo l'occupazione della linea avanzata Volzana-Ciginj, in modo da lasciar procedere indisturbato il nemico fino a contatto con la seconda linea. Soltanto allora, sarebbe intervenuto a fulminarlo con l'artiglieria, mentre a rendere decisiva la rotta avrebbe eseguito il contrattacco con la fanteria».29 In ciò consisteva dunque la «trappola di Volzana» che Badoglio negherà sempre di avere architettato, bollando questo piano nel 1921 addirittura come pazzesco. Si sarebbe dovuto permettere all'avversario di raggiungere senza danni la linea di difesa ad oltranza per poi a colpirlo con le artiglierie e attaccarlo alle spalle dalla Bainsizza. Il generale contestò la veridicità delle affermazioni di Cavaciocchi il quale, riascoltato dalla Commissione senatoriale, modificò solo leggermente il tiro sostenendo che quelle manifestate dal collega erano più che altro intenzioni e che egli non poteva sapere se Badoglio vi avesse dato pratica attuazione. Il tarlo del dubbio era ormai comunque insinuato e la «trappola di Volzana» anima ancora oggi i dibattiti degli studiosi. 184 L’attacco da Tolmino Le truppe tedesche, calando da Tolmino, percorsero la valle dell’Isonzo fino a Caporetto. Poterono servirsi agevolmente della strada del fondovalle che fiancheggiava il corso del fiume. Per una malintesa interpretazione degli ordini, tanto il IV corpo d’armata di Cavaciocchi che il XXVII di Badoglio, ritenevano che spettasse all’altro il compito di difendere quella strada che da nessuno fu protetta. La trappola di Volzana Si noti a sinistra di Tolmino la località di Volzana. A quanto riferì Cavaciocchi, il generale Badoglio avrebbe ordinato alle sue artiglierie di non sparare e di permettere al nemico di avanzare indisturbato fino a contatto con la seconda linea. Di fatto avrebbe così lasciato travolgere la linea di difesa avanzata che da Volzana arrivava a Ciginj e sulla quale sarebbero stati schierati di proposito pochissimi uomini. Secondo Cavaciocchi, il piano di Badoglio prevedeva che, solo nel momento in cui l’avversario fosse giunto in vista della seconda linea, le artiglierie intervenissero a fulminarlo per poi vibrargli il colpo di grazia con un contrattacco. Badoglio negherà sempre l’esistenza di questo piano che dopo la guerra definì addirittura «pazzesco». Giova però ricordare che l’artiglieria del suo corpo d’armata, pur forte di 600 cannoni rimase del tutto muta. Il colonnello Cannoniere... In effetti il comportamento e la disposizione delle truppe agli ordini di Badoglio presta il fianco a più di una critica. Le artiglierie innanzitutto: al momento dell'attacco austriaco infatti, parte di esse tacquero. Perché? Emilio Faldella riferisce che Cadorna aveva ordinato che l'artiglieria aprisse un violento fuoco di contropreparazione in concomitanza col lancio dell'attacco nemico. Sul fronte del XXVII corpo ciò non avvenne. Il comandante dell'ar185 tiglieria di quel corpo era stato da poco sostituito e proprio per iniziativa di Badoglio. Si trattava del colonnello Edoardo Scuti, che Faldella definisce un ottimo ufficiale oltre che un uomo intelligente, capace e pieno di iniziativa. Badoglio però, che aveva avuto una formazione da artigliere e tale continuava a considerarsi, non sembrava apprezzare molto queste qualità. Venne udito più volte chiamare il colonnello col nomignolo spregiativo di professore. Si lamentava di lui sostenendo che non gli serviva un bravo alter ego per comandare i suoi pezzi. Egli era perfettamente in grado di farlo da solo. Ciò di cui aveva bisogno era solo di un bravo esecutore di ordini. Venne accontentato e su sua esplicita richiesta, a dirigere le artigliere del XXVII corpo, fu designato il colonnello Cannoniere. Al destino non manca davvero il senso dell'ironia perché il nuovo comandante, pur forte di tanto cognome, si lasciò travolgere dagli eventi. Badoglio gli impose di non aprire il fuoco senza un suo preciso ordine. Come mai? Aspettava forse lo scatto della famosa trappola per colpire il nemico? Sta di fatto che alle due del mattino della notte fra il 23 e il 24 ottobre, il colonnello chiese a Badoglio il permesso di iniziare il tiro ma il generale glielo negò. Cannoniere, che fino ad allora aveva comandato solo qualche batteria, obbedì. L'attacco austriaco si fece violento e le comunicazioni saltarono mentre il nemico iniziò ad avanzare. A questo punto la situazione avrebbe imposto di agire d'iniziativa, cosa che il colonnello si astenne dal fare. Non aveva ricevuto alcun ordine atto a prevenire quella spinosa situazione. Cannoniere era appunto l'ottimo esecutore di ordini voluto da Badoglio e rimase impettito ad aspettarli mentre le forze attaccanti sfilarono indisturbate di fronte ai suoi 600 cannoni muti… La disposizione delle forze di Badoglio A Badoglio viene però imputato anche altro. In base all'ordine di Cadorna n. 4741 del 10 ottobre '17, il suo corpo d'armata doveva far gravitare il grosso delle forze sulla destra dell'Isonzo, dove il nemico effettivamente attaccò. Sembra che il comando della 2a Armata non abbia mai trasmesso tale ordine a quello del XVII corpo anche se Capello sosterrà che esso era stato regolarmente eseguito. Il giorno dell'attacco infatti, sulla destra dell'Isonzo stazionavano ben ventisette battaglioni. In realtà le disposizioni di Cadorna erano state eseguite con grave ritardo, soltanto due giorni prima. Quanto alla distribuzione delle truppe sul terreno, Badoglio sistemò quei 27 battaglioni su un tratto di fronte lungo 13 chilometri, disponendo che a coordinarli fosse 186 un solo comando alle dipendenza del generale Francesco Villani della 19 Divisione. Villani si trovò così a dirigere un numero eccessivo di uomini lungo uno schieramento troppo ampio. Sul restante tratto di fronte, lungo solo 8 chilometri, posizionò 22 battaglioni coordinati da tre diversi comandi (22, 64 e 35 Divisione). A sfondamento avvenuto Badoglio, nelle osservazioni che inviò alla Commissione d'Inchiesta sui fatti di Caporetto, si giustificò sostenendo che era sua intenzione spostare il comando della 22 Divisione dalla sinistra alla destra dell'Isonzo, così da ristabilire l'equilibrio nella gestione delle forze in campo. Non lo avrebbe fatto solo a causa dell'imminenza dell'attacco austro-tedesco. Anche nel settore del IV Corpo d'Armata comandato da Alberto Cavaciocchi, le sistemazione delle truppe non fu effettuata al meglio, soprattutto nell’area della 46° Divisione del generale Amadei. Lungo quel tratto di fronte, lo spazio che si trovava tra la nuova linea di resistenza ad oltranza decisa da Cadorna (monte Nero - monte Pleca - Selisce - Isonzo) e la linea avanzata (monte Sleme - monte Mrzli - Isonzo) era praticamente indifendibile. Le posizioni austriache si trovavano più in alto di quelle italiane che si snodavano lungo ripidi pendii. Dalle loro trincee sopraelevate, gli avversari facevano piovere sulle nostre, in segno di scherno, pietre ed escrementi. La minima perturbazione trasformava le posizioni italiane in rigagnoli fangosi lungo i quali l'acqua scendeva dalle pendici del Mrzli o dello Sleme fino al fondo valle dell'Isonzo. Su questo terreno assurdo, furono «dimenticati» ben 13 battaglioni e nove batterie di obici da 149 oltre a numerose batterie da campagna e someggiate. Sulla nuova linea di resistenza ad oltranza vennero schierati solo 2 battaglioni che rimasero tali fino al 22 ottobre, giorno in cui ne furono aggiunti altri quattro. Alle loro spalle, dietro la linea di resistenza principale, fu collocato un unico battaglione. Questo raffazzonato impianto difensivo venne messo fuori combattimento dagli austriaci in poco più di tre ore. La strada del fondovalle Il malinteso più tragicomico riguardò però la strada del fondovalle che fiancheggiava il corso dell'Isonzo. Fino al 22 ottobre la difesa dell'intero fondovalle era stata affidata al IV Corpo d'Armata di Cavaciocchi. Quel giorno però, il generale Montuori, che sostituiva Capello ricoverato a Padova, con l'ordine 6155, modificò la linea di contatto tra il corpo d'armata di Cavaciocchi e quello di Badoglio proprio lungo l'Isonzo. Tale decisione rappresentò già di per sé stessa un gravissimo errore, in quanto fu adottata a poche ore da 187 un'offensiva tutt'altro che inattesa e in un punto del fronte tanto delicato. Gli effetti di quell'errore furono poi amplificati dai malintesi che l'interpretazione dell'ordine creò. Montuori trasferì alle dipendenze del XXVII Corpo d'Armata di Badoglio l'intera Brigata «Napoli» disponendo che essa fosse dislocata a «presidio della linea Plezia - Foni - Isonzo» fino alla riva del fiume. «[…] …la fronte del XXVII corpo d'armata in quel tratto giunge fino sull'Isonzo stop. La difesa del fiume è affidata al IV corpo stop… […]»; così aveva scritto il generale... Il IV Corpo d'Armata di Cavaciocchi non si preoccupò dunque di difendere la strada che lungo la valle dell'Isonzo, sulla destra del fiume, portava dritta a Caporetto. Nemmeno Badoglio però, protesse quella strada, ritenendo che tale compito non toccasse a lui. Dell'intera brigata «Napoli» anzi, al presidio della linea Plezia - Foni - Isonzo, egli destinò un solo battaglione: poco più di 400 uomini sparpagliati lungo un fronte di due chilometri, su un dislivello di 700 metri, in un ambiente boscoso e ricco di insidie. L'ordine di Cavaciocchi avrebbe poi dato corso a tristi e inutili polemiche sul significato delle parole di cui il generale si era servito. Si discusse persino se la frase «fino sull'Isonzo» volesse dire «fino alla riva dell'Isonzo» oppure «fino ai monti che sovrastano l'Isonzo». Polemiche che non cambiano il fatto che lungo quella strada, da nessuno difesa, la 12 Divisione slesiana avanzò senza sparare un colpo fino a Caporetto, dove giunse alle 15.00 del 24 ottobre. A ordinare di schierare in quel settore un solo battaglione fu personalmente Pietro Badoglio. Esiste a questo proposito la testimonianza del generale Villani che, dal comando della 19 Divisione, gli manifestò tutte le sue perplessità su tale decisione. Sul fronte del IV corpo d’Armata In poche ore, scendendo da Tolmino, i tedeschi sono a Caporetto. E a Plezzo che accade?. Il I corpo d’Armata del generale Krauss deve sfilare attraverso la valle dell’Isonzo e superare la stretta di Saga. Gli attaccanti sanno che l’impresa si presenta tutt’altro che agevole. La prima linea a Plezzo viene annientata con i gas ma dove gli aggressivi chimici non sono impiegati, l’attacco si arresta. Il IV corpo d’Armata comandato da Cavaciocchi si difende infatti per gran parte della giornata in modo accanito. Alle ore 15 del 24, nonostante i tedeschi abbiano già raggiunto Caporetto, la linea di difesa a oltranza del IV corpo è, di fatto, ancora intatta. Le truppe di Krass non riescono a passare. Tra le 15 e le 18 però accade un fatto incredibile: gli italiani abbandonano le loro posizioni e senza essere incalzati dal nemico. Perchè? 188 L’attacco da Plezzo Il I corpo d’Armata comandato dal generale Krauss doveva sfilare attraverso la valle dell’Isonzo e superare la stretta di Saga. Dopo avere annientato i difensori della conca di Plezzo facendo ricorso ai gas, incontrò un’accanita resistenza. Mentre i tedeschi, dopo poche ore di combattimenti erano già a Caporetto, gli uomini di Krauss non riuscivano ad avanzare. Tra le 15 e le 16 del 24 ottobre, accadde però un fatto incredibile. I generali Farisoglio e Arrighi ordinarono alle loro divisioni (la 43 e la 50) di ritirarsi dalle posizioni che occupavano. Particolarmente gravi furono le conseguenze del ripiegamento degli uomini di Arrighi, che spalancò le porte della stretta di Saga agli austriaci. Era il punto cruciale dell’intero scacchiere e le truppe di uno stupefatto Krauss poterono attraversarlo senza sparare un solo colpo. Un primo - inspiegabile - ordine di ritirata dalla stretta di Saga, viene dato alle 16 dal comandante interinale della 2a Armata Montuori. Quell’ordine, per una serie di circostanze, non arriverà mai a destinazione. Poco dopo però, senza un motivo apparente e senza consultare il loro diretto superiore Cavaciocchi, i generali Arrighi e Farisoglio, comandanti rispettivamente della 50 e della 43 divisione, ordinano alle loro forze di ripiegare. La linea di difesa a oltranza, che in molti punti non era nemmeno stata attaccata, viene così abbandonata. Soprattutto viene lasciata proprio la stretta di Saga. Il generale Kraft è stupefatto dal modo in cui la fortuna ha spalancato le porte agli austriaci. «... La stretta di Saga (Pod Celom) - scrive, è - formata da una gola rocciosa larga quanto la strada». Ad inchiodare gli attaccanti in quel punto - sono parole dello stesso ufficiale tedesco - «sarebbe bastato un pugno di uomini e una sola mitragliatrice. Invece non c’è più nessuno. Le forze della duplice monarchia la supereranno facilmente e senza sparare un colpo, nelle prime ore del 25 ottobre. A guerra finita, Arrighi si giustificherà sostenendo 189 di essere stato indotto ad abbandonare le sue posizioni a causa delle notizie contraddittorie che gli giungevano. Aveva infatti erroneamente ritenuto che alcuni punti chiave della nostra difesa (come il Krasi, ad esempio) fossero già caduti, cosa che non era. Tale spiegazione, che appare assai debole a più di uno storico, dovette però bastare alla commissione d’inchiesta sui fatti di Caporetto, istituita nel primo dopoguerra. L’Arrighi fu infatti scagionato da ogni accusa. Ancora più difficile da comprendere è il comportamento del generale Farisoglio. Alle 15 del 24 ottobre, il comando del IV corpo d’Armata gli ordina di contrattaccare. Lui, nei minuti che seguono, ordina invece che l’intera sua divisione si ritiri dalle posizioni occupate. Poi, mentre tutti ripiegano, si reca a Caporetto dove crede di poter comunicare con il comando in cerca di non meglio precisati «chiarimenti». Al posto del telefono col quale contattare i suoi superiori, troverà ad aspettarlo i tedeschi che lo faranno prigioniero, primo fra i generali e primo della sua divisione. Sull’operato di Arrighi e Farisoglio è significativo il velenoso commento di Emilio Faldella, il quale si domanda che cosa mai si possa addebitare ad altri «...quando comandanti di divisione abbandonano simili posizioni senza combattere». Badoglio e Cadorna Pietro Badoglio era destinato a diventare uno dei personaggi più controversi della storia militare italiana. E' per questo interessante ricordare che cosa scrisse di lui Luigi Cadorna nel 1919, quando il 12 settembre si rivolse da Villar Pellice al direttore del periodico Vita Italiana: «La Gazzetta del Popolo - tuonò il generale - ha pubblicato ieri le conclusioni dell'inchiesta su Caporetto. Si accollano le responsabilità a me e ai generali Porro, Capello, Montuori, Bongiovanni, Cavaciocchi e neppure si parla di Badoglio, le cui responsabilità sono gravissime. Fu proprio il suo Corpo d'armata (il ventisettesimo) che fu sfondato di fronte a Tolmino, perdendo in un sol giorno tre fortissime linee di difesa e ciò sebbene il giorno prima (23 ottobre) avesse espresso proprio a me la più completa fiducia nella resistenza, confermandomi ciò che già aveva annunciato il 19 ottobre al colonnello Calcagno, da me inviatogli per assumere informazioni sulle condizioni del suo Corpo d'armata e sui suoi bisogni. La rotta di questo Corpo fu quella che determinò la rottura del fronte dell'intero Esercito. E il Badoglio la passa liscia! Qui c'entra evidentemente la massoneria e probabilmente altre influenze, visto gli onori che gli hanno elargito in seguito. E mi pare che basti per ora!»30 190 Note 1 Mario Silvestri, Caporetto. Una sconfitta e un enigma, Milano, Mondadori, 1997. March Bloch, La guerra e la false notizie, Firenze, Donzelli, 1997. 3 Walther Schaumann e Peter Schubert, Isonzo. La dove morirono, Bassano del Grappa, Ghedina & Tassotti, 1990. Schaumann è stato ufficiale dell’esercito austriaco. Durante la Grande Guerra il padre combattè sulle Dolomiti. 4 Walther Schaumann e Peter Schubert, Isonzo. La dove morirono, op. cit., pp. 212-213. 5 Per una dettagliata esposizione del concetto di sistema il lettore può consultare Franco Crespi, Le vie 2 della sociologia, Bologna. Il mulino, 1985. Il volume espone con chiarezza queste dinamiche, nella parte relativa alle teorie dei sistemi sociali. 6 Lucio Fabi, Gente di Trincea, Milano, Musia, 1999 7 Luigi Tomassini, L'Italia nella grande guerra 1915-18, Milano, Fenice2000, 1995. 8 Ibidem, p. 54. 9 Mario Silvestri, Caporetto. Una sconfitta e un enigma, op. cit. 10 Alberto Genova, Noi combattenti da Caporetto al Piave, Treviso, Canova, 1968. 11 Alberto Genova, Noi combattenti da Caporetto al Piave, Treviso, Canova, 1968, pp. 34-35. 12 Ibidem, pp. 35-35. 13 Ibidem, p. 36. 14 Ibidem, p. 26. 15 Alfred Krauss, Il miracolo di Caporetto, Rossato, Valdagno, 2000. Il generale di fanteria Alfred von Krauss fu, nell’ottobre del 1917, comandante del I corpo d’Armata austroungarico, ala destra della 14a armata. 16 Fritz Weber, Tappe della disfatta, Milano, Mursia, 1989. Ibidem, p. 159. 18 Fritz Weber, Tappe della disfatta, op. cit., pp. 163-164. 19 Fritz Weber, Tappe della disfatta, op. cit., pp.182-183. 20 Alfred Krauss, Il miracolo di Caporetto, op. cit., pp. 24-25. 21 Alfred Krauss, Il miracolo di Caporetto, op. cit., p. 22. 22 Ibidem, p. 22. 23 Ibidem, p. 22 24 Luigi Gasparotto, Diario di un fante, Chiari, Nordpress, 2002. 25 Luigi Gasparotto, Diario di un fante, op. cit., p. 109-110. 26 Emilio Faldella, Caporetto, le vere cause di una tragedia, Bologna, Cappelli, 1967. Al lettore interessato ad approfondire il tema si segnalano anche ai testi di Piero Pieri (L'Italia nella prima Guerra mondiale), Roberto Benivenga (La sorpresa strategica di Caporetto) ed Enrico Caviglia (La dodicesima battaglia) 27 SchaumannWalther e Schubert Peter , Isonzo. La dove morirono, op. cit. 28 Badoglio, Gian Luca, Il memoriale di Pietro Badoglio su Caporetto, Udine, Gaspari, 2000. 29 Ibidem, p. 34. Il generale Alberto Cavaciocchi fu comandante del IV° corpo della 2° Armata, durante la battaglia di Caporetto. 30 Lettera del gen. Luigi Cadorna al direttore di Vita Italiana, 12 settembre 1919. 17 191 Vincenzo Acquaviva Coppola 192 Il «diario Acquaviva»: breve storia di una testimonianza Il ritrovamento Centosei cartelle dattiloscritte e chiosate da frequenti correzioni apportate a mano dall'autore. Una copertina di cartone rigido con l'esterno in similpelle di colore marrone. Su di essa, impresso a lettere dorate, un titolo: «Comune di San Biagio di Callalta. Diario 1915 - 1918». Quello che fu subito ribattezzato «Diario Acquaviva», si presentava così agli occhi dei ricercatori, quando emerse dagli archivi del comune trevigiano, nella seconda metà degli anni '80. All'epoca, l'Amministrazione locale aveva in animo di realizzare un volume che avrebbe dovuto ripercorrere la storia del luogo durante la Grande Guerra. Quello scritto poteva dunque rivelarsi una interessante fonte di notizie e proprio così venne utilizzato: come ulteriore testimonianza degli avvenimenti bellici accaduti nel territorio. Il documento tornò ben presto in archivio e non fu appurato alcunché sulle vicissitudini che lo avevano portato a San Biagio di Callalta né sul suo autore. Del resto, la semplice lettura di ciò che egli aveva scritto, non poteva rivelare nulla su di lui. Acquaviva non sembrava essersi preoccupato di lasciare informazioni che lo riguardassero. Non aveva firmato il proprio lavoro e non gli aveva dato un titolo. Le parole impresse sulla copertina del dattiloscritto sono infatti, palesemente, opera di altri, poiché non hanno riferimento alcuno con gli avvenimenti narrati al suo interno. Il testo non racconta la storia di San Biagio nel periodo compreso tra il 1915 e il 1918 ma limita la propria narrazione ad un arco temporale ben più ristretto: i nove epici giorni della famosa «Battaglia del Solstizio». Era stata proprio questa evidente discrepanza a spingere quanti lo avevano letto per primi a non servirsi del “titolo” riportato in copertina e a ribattezzare il documento «Diario Acquaviva», attribuendone la paternità a colui il quale sembrava esserne il più probabile autore. Ogni ricerca in questo senso era ulteriormente complicata dal fatto che i protagonisti del diario, erano citati sempre e solo con il cognome. Il nostro autore non riportava mai i nomi di coloro che animavano le vicende da lui narrate; non aveva registrato una sola data significativa che li potesse in qualche modo riguardare; non dava informazioni sulle città di origine o di provenienza, né forniva indizi di qualsiasi genere… Le uniche notizie che si era lasciato sfuggire, riguardavano il suo indirizzo del 1918 e quello del suo comandante. Tutto ciò che si poteva dunque ricavare dal testo, erano due indirizzi di ottant'anni prima e una serie di cognomi. 193 Chi era l’autore del «Diario»? Chi era e da dove veniva Acquaviva? Benchè il nostro protagonista sia stato estremamente avaro di notizie su di sé e sui suoi compagni d'avventura, tuttavia, in alcuni punti del racconto, si lasciò sfuggire qualche dettaglio più circostanziato, rivelando cose interessanti sul proprio conto. Elementi che permisero di determinarne l'età e di intuire la composizione del suo nucleo familiare. Le forze austroungariche avevano già lanciato da molte ore l'offensiva del Solstizio quando, durante una pausa nei combattimenti, lo si scopre a colloquiare con un sottufficiale, il sergente Santimone. I due stanno parlando della giovane età e del buon comportamento tenuto dalle ultime reclute giunte in forza al reggimento, tutti ragazzi del '99. Anche Acquaviva è molto giovane. Egli confida infatti al sergente di essere nato verso la fine del 1898. All'epoca dei fatti dunque, l'autore del diario non aveva ancora compiuto vent'anni. Dal racconto si deduce inoltre un altro interessante particolare che riguarda la sua famiglia: il protagonista è il maggiore dei suoi fratelli e i genitori sono entrambi in vita. Acquaviva non lo afferma in modo esplicito, ma angustiandosi per la pena che i familiari, privi da giorni di sue notizie, debbono certamente provare ora che la grande offensiva nemica è stata lanciata ed ha conseguito un qualche successo, proprio nel suo settore del fronte, non può fare a meno di rivolgere il suo pensiero alla casa lontana, al padre, alla madre e ai «fratellini» che di lui debbono essere quindi più giovani. L'ultima fondamentale notizia su se stesso e sul suo comandante, tenente Maderni, Acquaviva la rivela in un momento intensamente drammatico. A poche ore dall'inizio dei combattimenti, egli si reca in cerca di notizie, a colloquio con l'ufficiale suo diretto superiore. Sono passate da poco le sette del mattino quando Acquaviva e Maderni si incontrano a casa Zoccali, sede del comando di batteria. Improvvisamente giunge un messaggio dal contenuto funesto. Ecco come l’autore racconta il fatto: «Maderni prese il plico e l'aprì. Io lo guardavo mentre leggeva. Una ruga gli si dipinse sulla fronte. Con la mano tuttavia ferma mi porse il foglio. "Leggi". Esitai, ma poi guardai avidamente l'ordine. Poche ma terribili parole: «Il nemico ha passato il Piave. La principale infiltrazione si è prodotta tra Fagarè e Bocca Callalta. Alternare raffiche di repressione fra l'Argine Regio ed il Piave e raffiche di sbarramento sul fiume. Riattivare a qualsiasi costo la linea telefonica con questo Comando". Capitano Laquaniti. Vacillai un momento. Mi afferrai alla sedia. Poi, guardando l'ordine esclamai con voce strappata: "No, no, non può essere vero!". "Se è vero - disse Maderni - li ricacceremo. Altrimenti ci facciamo ammazzare. Dammi la mano, Acquaviva". Gliela 194 porsi e ci guardammo negli occhi. Poi mi disse: "Via Lecco 5, Milano". "Piazza Amedeo 184, Napoli" risposi io . Un attimo di pausa e poi soggiunsi: "Vado in batteria. Viva l'Italia !". "Viva l'Italia !" mi fece eco Maderni…» Dunque Acquaviva era un giovane che all'epoca dei fatti aveva diciannove anni, essendo nato nel 1898. Figlio maggiore di una famiglia di origine napoletana, nel '18 viveva con i suoi proprio nel capoluogo partenopeo ed abitava al civico 184 di Piazza Amedeo. Tutte notizie molto circostanziate che, apparentemente, avrebbero dovuto consentire di risalire con facilità al nostro protagonista… L'ottimismo che guidava la ricerca dell'autore era inoltre rafforzato dal fatto che del giovane ufficiale esisteva anche una serie di immagini. La Biblioteca Comunale di San Biagio di Callalta, conserva infatti una raccolta di circa 120 fotografie risalenti al 1918. Autore di quelle riprese fu lo stesso sottotenente Acquaviva. Nelle foto appaiono i personaggi citati nel diario, tutti ufficiali suoi colleghi. In calce ad ognuna di esse è annotato il cognome. Egli stesso inoltre vi è ritratto più volte. Nel suo scritto, Acquaviva racconta di portare gli occhiali che è costretto a togliersi al momento di indossare la maschera antigas e fra le fotografie, appare più volte l'immagine di un giovane ufficiale che inforca un paio di lenti. Sotto ad una di queste è scritto semplicemente «Io»... Quell' «Io», quell'immagine in bianco e nero dalla quale sorride il volto di un ragazzo in divisa, corrisponde - ovviamente - al ritratto di Acquaviva. Alla ricerca di un protagonista Chi era dunque l'autore del manoscritto? I primi contatti con il comune di Napoli riservarono una cocente delusione. Nessun Acquaviva risultava aver mai vissuto nel 1918 al civico 184 di Piazza Amedeo. “Non si rileva in anagrafe con le notizie fornite”. Così il freddo gergo della burocrazia sembrava aver chiuso definitivamente la porta in faccia alla possibilità di rintracciare il nostro protagonista. Una nota manoscritta in calce alla lettera proveniente dai servizi demografici del capoluogo partenopeo, segnalava tuttavia che in zona - all'epoca dei fatti - aveva risieduto un certo Augusto Acquaviva Coppola, figlio di Raffaele e di Ines Krumun. Quest’uomo era nato però nel 1901 ed abitava al civico 182. Raffaele Acquaviva Coppola inoltre, si era trasferito a Milano nel 1932. L'età, il cognome e l'indirizzo non corrispondevano. Raffaele Acquaviva Coppola poteva forse essere un parente di chi aveva scritto il “Dia- 195 rio”? L'unico modo per uscire dall'impasse, era quello di compiere ricerche dirette in città nel tentativo di rintracciare proprio qualche suo congiunto ancora in vita. Ma qui la storia imbocca un'altra direzione. Sulle tracce della memoria... Il Sacrario Militare di Fagarè della Battaglia sorge nel territorio del Comune di San Biagio, lungo la strada che collega Treviso a Oderzo. Il monumento, una grande esedra realizzata interamente in marmo bianco, ospita le salme di 10.541 soldati, 5.350 dei quali ignoti, caduti durante la Grande Guerra. Fu costruito a Fagarè, teatro di feroci combattimenti nei giorni della Battaglia del Solstizio e proprio a lato di quella «strada Callalta» che gli austriaci avrebbero dovuto percorrere in un balzo il primo giorno dell'offensiva, per ghermire Treviso. Anche lo sguardo del passante più distratto non può non essere catturato dalla sua elegante architettura in stile neoclassico. La storia di questo monumento è affascinante. La realizzazione del nucleo primigenio, in omaggio agli Eroi del Piave, ebbe inizio al termine della prima guerra mondiale. Costruito dal Genio Militare sotto la supervisione del professor Alterige Giorgi di Carrara, comprendeva quattro bassorilievi opera dello scultore triestino Marcello Mascherini. All'inizio degli anni trenta, in piena epoca fascista, ne venne deciso l'ampliamento. Il nucleo originario sarebbe stato «abbracciato» dalla grande esedra in marmo bianco tuttora esistente. Fu la ditta «Pravato» di Thiene ad aggiudicarsi l'appalto per la realizzazione del progetto elaborato dall'architetto trevigiano Pietro del Fabbro. I lavori iniziarono nel 1931 ed il monumento fu aperto al pubblico nel 1933. Ma l'inaugurazione ufficiale avvenne solo il 24 maggio del 1938. Fu proprio la presenza dei quattro bassorilievi del Mascherini a decretare la condanna del primo nucleo edificato in memoria degli Eroi del Piave. Nel 1942 esso fu distrutto per compiacere l'alleato tedesco, che quelle opere trovava offensive nei confronti del popolo germanico. I bassorilievi del Mascherini infatti rappresentavano tra l'altro «La barbaria nemica sul suolo della Patria» - «barbaria» germanica per l'appunto - e «Il trionfo delle armi italiane», di nuovo su quelle germaniche. Spettò questa volta alla ditta «Cavallini» di Bassano il compito di demolire l'opera sotto diretto controllo tedesco. Il controllo in verità, non fu così rigido dato che i quattro bassorilievi incriminati vennero salvati da Antonio Cita, il primo custode del complesso che, con l'aiuto di alcuni compaesani, li trasportò sul retro del Sacrario, dove addossati alla parete, rimasero fino al termine della guerra. Il leone di San Marco che cam196 Il primo monumento agli «Eroi del Piave» come appariva nel 1919 - Museo del Sacrario Militare di Fagarè della Battaglia - Il Sacrario Militare di Fagarè della Battaglia nel 1938 - Museo del Sacrario Militare di Fagarè della Battaglia - 197 peggiava sul monumento finì sopra il portale della chiesa di Fagarè, mentre con una parte dei marmi fu costruito l'altare della chiesa di Sant'Andrea di Barbarana, altra frazione di San Biagio. Dalle macerie venne recuperato infine il cilindro in marmo, oggi visibile presso il piccolo museo del Sacrario, che era stato seppellito sotto le fondamenta e sul quale, dopo la scritta «Novembre 1919 - Monumento al valore italico» sono incisi i nomi degli ufficiali del Genio che alla sua realizzazione avevano lavorato: il tenente Ciro Marchetti ed il colonnello Gaetano Castrogiovanni. Quando la seconda guerra mondiale ebbe termine, lo scalpello strappò dal marmo bianco del Sacrario i fasci littori e gli altri simboli del ventennio ormai consegnato alla storia. Ricomparvero allora i quattro bassorilievi del Mascherini, sfuggiti alla distruzione, che vennero collocati alle due ali del Sacrario dove sono tuttora visibili. Al centro del piazzale, il pennone con la bandiera tricolore, prese il posto del primo monumento. Ai lati della grande esedra, protetti all'interno di apposite teche, sono conservati i frammenti di muro con le celebri iscrizioni «Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora» e «Tutti eroi. O il Piave o tutti accoppati». La leggenda le vuole incise dalla mano di un fante rimasto sconosciuto ma, molto probabilmente, esse furono opera di qualche addetto alla propaganda militare. A Fagarè fu traslata anche la salma del tenente dell'American Red Cross, Edward Mc Key, caduto nel corso della Battaglia del Solstizio. A lui Ernest Hemigway, anch'esso impegnato sul fronte italiano nel 1918, dedicò una poesia che, scolpita in ferro dallo scultore Simon Benetton, si può oggi leggere nella navata centrale del monumento. Hemingway operò con la Croce Rossa Americana a Roncade e per Roncade transitò anche un altro grande della letteratura d'oltreoceano, il riottoso scrittore John Dos Passos, che pacifista e antimilitarista convinto, fu rimpatriato d'autorità nel 1917. La storia del Sacrario Militare di Fagarè della Battaglia non è stata raccontata per caso. Studiando il contenuto del diario di Acquaviva, era maturata nei ricercatori la convinzione che il giovane ufficiale dovesse essere rimasto intimamente legato alla zona di San Biagio di Callalta. Un sentimento del tutto naturale per chi, nemmeno ventenne, vi aveva vissuto l’esperienza più significativa, rischiosa e al tempo stesso esaltante, dell'intera vita. Egli dunque, dopo la guerra, doveva essere tornato in quei luoghi. Si pensi quindi alla costruzione di un grande sacrario militare destinato a conservare la memoria di coloro che sul Piave sacrificarono la propria vita in difesa della Patria. Questo monumento, viene edificato proprio a Fagarè e ufficialmente inaugurato nel 1938, in un 198 giorno significativo come il 24 maggio, alla presenza del sovrano Vittorio Emanuele III e del grande coreografo del regime Achille Starace, lui stesso combattente sul Piave proprio a Fagarè. Certamente la stampa dell'epoca dovette dare un certo rilievo alla notizia. Quale migliore occasione se non questa dunque, per un Acquaviva all'epoca quarantenne, di ritornare nei luoghi che lo avevano visto giovanissimo protagonista, battersi per la Patria? E infatti, il 9 ottobre del 1938, poco più di quattro mesi dopo l'inaugurazione del monumento e a vent'anni dalla fine del conflitto, sul registro dei visitatori del Sacrario Militare di Fagarè della Battaglia, qualcuno lascia una traccia interessante. A pagina 124 e al numero d'ordine 5438, si può infatti leggere: Tenente Vincenzo Acquaviva Coppola; Napoli. Acquaviva Cappola dunque. Che fosse lui l'autore, del manoscritto che portava quel nome? Le ricerche a Napoli Nel frattempo, anche le ricerche condotte a Napoli avevano cominciato a produrre risultati. La buona sorte volle infatti che si riuscisse, non senza fatica, a rintracciare un cugino del sottotenente Acquaviva, il professor Massimo Acquaviva Coppola. Il mistero fu dunque chiarito. Nel diario, il nostro autore aveva riportato solo una parte del suo cognome che per intero era appunto Acquaviva Coppola. Peraltro la sua famiglia in città era nota principalmente con il cognome Coppola. L'Augusto Acquaviva Coppola, di cui ci era giunta notizia grazie ai servizi anagrafici del capoluogo partenopeo, era uno dei fratelli minori. L'indirizzo non corrispondeva a quello riportato nel diario perché molto probabilmente era stato variato a seguito di una risistemazione del numeri civici. Il professor Massimo Acquaviva Coppola, all'epoca dei fatti aveva solo sette anni ma ricordava molto bene quel cugino che era partito per la guerra animato da grande entusiasmo e ricordava anche che la sua famiglia si era trasferita a Milano fra il 1932 e il 1935. Stando a quanto il professore riferiva, l'autore del Diario era dunque Vincenzo Acquaviva Coppola, nato proprio negli ultimi mesi 1898 e figlio maggiore di un avvocato napoletano, Raffaele Acquaviva Coppola . Le sue informazioni, che integravano quelle già conosciute, una volta trasmesse al Distretto militare di Napoli, permisero di appurare che il tenente Vincenzo Acquaviva Coppola, era nato in quella città il 12 novembre del 1898 «fine del 98» aveva scritto nel suo diario - e là si era spento, all'età di 82 anni, il 6 marzo del 1980. Ma c'era di più. Il professore riferì anche che 199 9 ottobre 1938 Una pagina del registro dei visitatori del sacrario militare di Fagarè della Battaglia. Il monumento era stato inaugurato ufficialmente il 24 maggio di quell’anno. Al numero d’ordine 5438 si può leggere la firma del nostro protagonista: «Ten. Vincenzo Acquaviva Coppola - Napoli» A venti anni della fine del conflitto, l’autore del diario tornava in visita ai luoghi nei quali, poco più che diciannovenne aveva preso parte alla «Battaglia del Sostizio». 200 il cugino Vincenzo aveva una sorella ancora vivente, di nome Vittoria, che risiedeva a Milano e che da lui avvertita, si mise subito in contatto con i ricercatori. I familiari del sottotenente Acquaviva sui luoghi della Grande Guerra I primi contatti con i familiari dell'ufficiale autore del “Diario” vennero dunque avviati con comprensibile emozione, emozione che si fece tangibile quando la nipote del tenente Acquaviva, signora Isa Kluzer, giunse a San Biagio di Callalta, in visita ai luoghi della Battaglia del Solstizio. Accompagnata dal marito Giovanni, la signora Isa riconobbe l'immagine dello zio nella raccolta di fotografie conservate presso la Biblioteca Civica e raccontò anche altri interessanti particolari. Spiegò ad esempio, che la fitta serie di disegni vergati su alcune parti del dattiloscritto, schizzi sul significato dei quali ci si era così a lungo interrogati, era stata realizzata da uno dei fratelli di Vincenzo, la cui vena artistica era ben conosciuta in famiglia. Non seppe dire però, perché egli li avesse tracciati. Forse per nessun motivo in particolare, spinto solo da un estemporaneo impulso di estro creativo… La signora Isa rivelò anche che nell'autunno del 1938, quando Acquaviva si recò in visita al Sacrario militare di Fagarè, non era solo. Nel registro dei visitatori, essa riconobbe infatti, vicino alla firma dello zio, anche quella di un caro amico che spesso lo accompagnava nei suoi viaggi. Informazioni inattese... La notizia più interessante ed assolutamente inattesa, venne alla luce quando la nipote dell’autore poté sfogliare la copia del manoscritto che per l'occasione era stata portata presso il Municipio di San Biagio, dov'era in programma un incontro con le autorità locali. In una lettera che la sorella dell'ufficiale aveva inviato mesi addietro, essa raccontava che del diario esisteva una seconda copia di cui era entrata in possesso solo qualche anno prima. Si era affrettata ad affidarla ad un dattilografo affinchè la ribatesse «per non farla svanire del tutto», in quanto «parecchio sbiadita». Perché fino ad allora la famiglia di Acquaviva ne aveva ignorato l’esistenza? La verità è che l’autore - quando non è dato di sapere - scelse di regalare il frutto della sua fatica letteraria alla persona che nel 1917 aveva eletto propria “madrina di guerra”. Un’amica, di qualche anno più vecchia di lui, che si chimava Laura Campione. Dopo la scomparsa della donna, gli eredi giudicarono opportuno restituire il dattiloscritto ai familiari di Acquaviva. Solo a quel punto essi 201 poterono finalmente leggerlo. Sfogliando dunque la copia conservata a San Biagio, la nipote fece notare, suscitando notevole stupore, che essa era largamente incompleta. Mancava infatti di ben due parti fondamentali: quella sulla rotta di Caporetto e quella sulla battaglia di Vittorio Veneto. Si era sempre ritenuto - nulla facendo supporre il contrario - che il manoscritto di Acquaviva fosse dedicato alla sola battaglia del solstizio. Ora si scopriva che non era così e che si trattava invece del capitolo centrale di un lavoro più complesso. Quando finalmente fu possibile disporre della copia posseduta degli eredi, ci si rese conto che la narrazione della battaglia del sostizio conservata a San Biagio di Callalta, era di gran lunga più ampia e articolata delle due su Caporetto e Vittorio Veneto, avendo rispetto ad esse, un’estensione almeno doppia. Ma le sorprese non erano finite. Quello stesso stesso infatti, nella corrispondente versione in mano ai familiari dell’autore, era stato copiosamente sfrondato. Acquaviva eliminò innumerevoli dialoghi e ambientazioni, semplificando e accorciando la narrazione. Fu forse una scelta stilistica dettata dall’esigenza di rendere tale parte, forse in origine concepita per esistere come scritto a sè stante, più omogenea alle altre due - su Caporetto e Vittorio Veneto - che deve avere aggiunto in seguito. Queste ultime sono infatti caratterizzate da una maggiore agilità narrativa che ha il proprio punto di forza nella narrazione degli eventi più che nel desiderio di romanzare le gesta del protagonista e dei suoi compagni. Il testo conservato a San Biagio di Callalta fu quindi - con ogni probabilità - il primo ad essere scritto. Quelli su Caporetto e Vittorio Veneto, vennero aggiunti in un secondo momento all’originale, dopo che questo era stato rimaneggiato. Il cosiddetto “diario Acquaviva” dunque, più che la puntuale trascrizione delle memorie del suo autore, appare piuttosto il frutto di una meditata opera di rielaborazione dei ricordi, portata a termine nel dopoguerra e in almeno due distinte epoche, forse con finalità di pubblicazione che non si realizzarono. E’ anche probabile che sia stato lo stesso Acquaviva, dopo aver rinunciato ai suoi propositi editoriali, a donare al comune di San Biagio il materiale fotografico e il più ampio manoscritto originale sulla battaglia del sostizio, da lui tutta combattuta nelle campagne del paese trevigiano. Forse tali circostanze si realizzarono proprio nel corso della visita al sacrario di Fagarè, che egli compì nell’ottobre del 1938, a vent’anni dalla fine della guerra. Soltanto lo stesso Acquaviva però, potrebbe confermare se tale ricostruzione degli eventi corrisponde al vero oppure no… 202 Il ricordo dei congiunti Vincenzo Acquaviva Coppola era nato a Napoli il 12 novembre del 1898, primo di quattro figli. Il padre Raffaele esercitava la professione forense nel capoluogo partenopeo. La madre Ines Krumun era di origini germaniche, cosa che mise il giovane Vincenzo nella condizione di padroneggiare con destrezza la lingua tedesca. Una conoscenza che si sarebbe rivelata assai utile durante il conflitto e che dopo la guerra, lo avrebbe portato a soggiornare a Vienna, al seguito delle missioni militari italiane, che operavano nella capitale austriaca. La sorella dell'ufficiale signora Vittoria, racconta come estremamente positivo il periodo trascorso dal fratello presso gli ex nemici. In Austria il giovane Vincenzo rimase per due anni finchè il padre non lo “costrinse” a chiedere il congedo e a rientrare a Napoli per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza. Sembre che il viaggio compiuto in treno fra la capitale austriaca e la città del Vesuvio, sia stato assai triste per il nostro protagonista. Di fatto, poneva termine ad un’epoca della sua vita e ne apriva un’altra. Tornato in patria, riprese gli studi e si laureò in legge come il padre desiderava. Non ne seguì però le orme. Pur giungendo a diventare presidente dell’ordine degli avvocati di Napoli, di fatto non esercitò mai la professione. La sorella lo ricorda come uomo «di carattere gentile e coltissimo per letture e conoscenze musicali». Alto, magro e abbronzato, aveva un aspetto quasi orientale tanto che - racconta la nipote Isa, - nel corso di un trasferimento in treno, avvenuto durante un viaggio in Inghilterra, un passeggero indiano lo scambiò per proprio connazionale, domandandogli a quale casta appartenesse. Vincenzo Acquaviva Coppola, uomo dallo spirito eternamente giovane, amava molto viaggiare. Non si è mai sposato. Si è spento a Napoli, all'età di 82 anni, nel marzo del 1980. 203 Il centro di Caporetto - Kobarid oggi 204 Una visita all’itinerario storico di Caporetto Cporetto oggi: Kobarid. «Caporetto» è il termine che, più di ogni altro, gli italiani associano all'idea stessa di sconfitta. E' la parola che, per antonomasia, suggerisce una disfatta di proporzioni bibliche. Oggi quei luoghi che furono teatro di uno degli avvenimenti più tragici della nostra storia azionale si trovano in territorio sloveno. Il piccolo paese sorge a non più di quattro chilometri in linea d'aria dal confine con l'Italia nello splendido contesto delle Alpi Giulie. L'abitato di Caporetto - Kobarid per dirlo alla slovena - si affaccia sulle acque azzurre dell'Isonzo. E' un grazioso centro di 1200 abitanti, sovrastato dalle cime del Monte Nero, del Matajur e dello Stol. Il tempo ha cancellato dagli edifici ogni traccia delle sofferenze che la Grande Guerra produsse. Non è scomparsa la memoria di quegli eventi lontani. I rilievi montuosi che circondano Kobarid, portano ancora bene impressi nella pietra i segni della storia. I resti del fronte dell'Isonzo continuano a parlare al visitatore raccontando una vicenda fatta di sofferenze e di abnegazione. Caporetto è raggiungibile da Cividale percorrendo la Strada del Pulfero. Da Venezia, Padova e Treviso, vi si arriva in non più di due ore attraverso l'autostrada per Udine. L'itinerario storico di Caporetto Con l'indipendenza ottenuta dalla Slovenia nel 1991 e il successivo ingresso nella Comunità Europea, la zona ha conosciuto una forte valorizzazione turistica. Naturalmente, in questo rinnovato contesto, il turismo culturale recita una parte importante e la nascita dell'itinerario storico di Caporetto (Kobariska Zgodovinska Pot) sta a dimostrarlo. La sua realizzazione è iniziata nel 1993 ed ha richiesto all'Ente per il turismo di Kobarid e al Museo di Caporetto ben cinque anni di lavoro, venendo portata a termine nel 1998. Il percorso è lungo cinque chilometri e si sviluppa su un dislivello di duecento metri. Il visitatore, sempre assistito da indicazioni puntuali, può esplorare i dintorni del paese, osservando luoghi che conservano significative testimonianze del passato. L'escursione richiede dalle tre alle cinque ore ed è anche possibile farsi accompagnare da una guida contattando il museo allo 00386-65-85055. Lungo il percorso le trattorie locali rappresentano un'ulteriore attrattiva per il turista con le loro specialità culinarie. L'itinerario storico segnala nove luoghi di particolare interesse: il Museo di Caporetto; l'insediamento romano del Gradic; il Sacrario militare italiano; il Tonocov Grad; una prima linea difensiva italiana; la forra dell'Isonzo; le cascate del torrente Kozjak; una seconda linea difensiva italiana; il ponte di Napoleone. La maggior parte dei luoghi indicati nell'itinerario è raggiungibile anche in automobile ed è provvisto di parcheggio collocato a qualche minuto di cammino dal sito. 205 Il museo di Caporetto Il museo di Caporetto è stato inaugurato nel 1990. E' ospitato nella Casa Masera, edificio risalente al 18° secolo, che si affaccia su una piccola piazza nel centro storico del paese. Il suo logo è rappresentato dal simbolo dell'esplosione di un colpo di cannone. L'esposizione del Kobariski muzej è organizzata su tre piani e ripartita in dodici sale spostandosi attraverso le quali, il visitatore viene riportato ai giorni della dodicesima battaglia dell'Isonzo. Ogni sala è stata denominata in base alla natura del materiale esposto. All'ingresso, le pareti laterali ospitano da un lato una serie di trentasei fotografie di combattenti, fra i quali si riconosce anche Paolo Caccia Dominioni e dall'altro, diciotto croci recuperate da altrettante sepolture di soldati caduti durante il primo conflitto mondiale. La Sala Bianca sistemata al primo piano, raccoglie e presenta cimeli e testimonianze riguardanti la guerra in montagna. La Sala Nera offre invece un drammatico spaccato della realtà del conflitto con le immagini fotografiche dei feriti e dei morti e con la ricostruzione di un tratto di trincea. Vi è conservata anche la porta in legno del carcere militare di Smast, sulla quale sono incise le frasi dei prigionieri che quel tetro luogo ospitò. Entrando nella Sala del Monte Nero il visitatore può osservare un plastico del massiccio di quella montagna su cui sono indicate le linee lungo le quali i due contendenti erano schierati. Un altro plastico di grandi dimensioni è stato collocato al secondo piano e vi è riprodotta l'area dell'alto Isonzo. Permette di capire come si realizzò lo sfondamento dell'ottobre 1917, che costrinse l'esercito italiano alla ritirata dietro il Piave. La stessa sala ospita anche la claustrofobica ricostruzione di un ricovero in caverna riprodotto a grandezza naturale. All'interno è visibile il manichino di un soldato degli alpini impegnato a scrivere una lettera al padre. Vi sono poi una sala dedicata alla vita nelle retrovie, un'altra che ripercorre i momenti della battaglia di Caporetto ed una destinata alle proiezioni di audiovisivi. Per le suggestioni che sa offrire e per ciò che le sue raccolte riescono a comunicare, il Museo di Caporetto ha ricevuto nel 1992 il premio Valvasor, il più alto riconoscimento sloveno assegnato alle istituzioni museali. Nel 1993 gli è stato inoltre attribuito il premio del Consiglio d'Europa, riservato al migliore museo del vecchio continente. 206 Casa Masera: il palazzo del XVIII secolo che ospita il Museo di Caporetto L’ingresso del museo di Caporetto: sulla sinistra una serie di diciotto croci recuperate da altrettante sepolture di soldati caduti; sulla destra una composizione di trentasei ritratti fotografici di combattenti. Vi si riconosce anche Paolo Caccia Dominioni. 207 Ricostruzione di un rifugio in caverna. All’interno un alpino scrive una lettera al padre. Plastico che ricostruisce l’area dell’alto Isonzo alla vigilia della battaglia di Caporetto 208 Notizie utili per la visita al Museo di Caporetto Indirizzo Kobariški muzej Gregorciceva 10 5222 Kobarid SLOVENIJA Costo del biglietto 4.00 euro: adulti 3.00 euro: studenti e pensionati 2.50 euro: alunni della scuola elementare Orario Estivo (da aprile a settembre) L u n e d ì - Ve n e r d ì : 9 . 0 0 - 1 8 . 0 0 Sabato, Domenica e festivi: 9.00- 19.00 Orario Invernale (da ottobre a marzo) L u n e d ì - Ve n e r d ì : 1 0 . 0 0 - 1 7 . 0 0 Sabato, Domenica e festivi: 9.00- 18.00 Lingue La mostra e la guida sono realizzate in sloveno, italiano, tedesco e inglese. La proiezione multimediale è tradotta anche in francese, ceco, spagnolo e ungherese. Telefono: 00386 (05) 3890000 Fax: 00386 (05) 3890002 email: [email protected] indirizzo internet: http://www.kobariski-muzej.si 209 LEGENDA 1. Museo di Caporetto 2. Insediamento romano del Gradic 3. Sacrario italiano 4. Tonocov Grad 5. Linea difensiva italiana 6. Forra dell’Isonzo 7. Cascate del Kozjak 8. Linea difensiva italiana 9. Ponte di Napoleone P. Aree di parcheggio 210 L'insediamento del romano del Gradic Terminata la visita al museo, dal centro di Caporetto, imboccando la Via Crucis, si raggiunge l'insediamento romano del Gradic. Sorto su uno sperone di roccia esso dominava la vallata. Vi sono state rinvenute numerose testimonianze archeologiche del lontano passato. I reperti, le statuette e le monete venuti alla luce lo fanno risalire ad un periodo di tempo compreso tra il II secolo a.C. e il IV d.C. L'importanza di questo insediamento è testimoniata anche dalle molte tombe scoperte durante gli scavi effettuati nella necropoli lungo le sponde dell'Isonzo. I resti dell'abitato protostorico e di quello classico sono visibili ancora oggi ma la gran parte di essi scomparve a seguito della costruzione del Sacrario militare italiano edificato sessant'anni fa. Un esempio delle testimonianze archeologiche che la terra ha resituito. 211 Il Sacrario militare italiano Il Sacrario militare italiano fu realizzato su progetto dello scultore Giannino Castiglioni e dell'architetto Giovanni Grappi. Venne ultimato dopo tre anni di lavori nel settembre del 1938. Sorge sul Gradic e vi si giunge attraverso la Via Crucis che parte dal centro di Caporetto. Ha pianta ottagonale e si sviluppa su tre gradoni. Al vertice sorge la chiesa di Sant'Antonio. Il sacrario, che fu inaugurato alla presenza di Benito Mussolini, ospita le salme di 7014 soldati italiani, noti ed ignoti, che furono recuperate dai cimiteri della zona. I nomi dei caduti sono incisi su lastre di serpentina verde mentre i loculi dei militari rimasti ignoti riposano ai fianchi della scalinata centrale. Il tragitto del visitatore continua lungo una stradina sterrata che si imbocca sulla sinistra del parcheggio del sacrario. E' un sentiero fra gli alberi che sale verso il Tonokov grad. Il sacrario militare italiano di Caporetto. Fu ultimato nel settembre del 1938 ed inaugurato alla presenza di Mussolini. Il progetto venne elaborato dallo scultore Giannino Castiglioni e dall’architetto Giovanni Grappi. Ospita le salme di 7014 saldati italiani. 212 Il Tonocov grad Le prime tracce della presenza umana su questa altura che si eleva a nord di Caporetto, risalgono al mesolitico e continuano fino al tardo medioevo. La sua favorevole posizione naturale la rendevano particolarmente adatta ad ospitare insediamenti in condizione di relativa sicurezza contro possibili attacchi. Tra il IV e il VI secolo dopo Cristo, vi venne realizzato un presidio militare. La struttura doveva avere funzioni di guardia dell'importante asse stradale che lì transitava, collegando la pianura friulana al nord. Un villaggio fortificato sorse poi sul finire del V secolo. I lati dell'abitato meno facilmente difendibili erano protetti da mura. Ciò che la terra ha restituito nel corso delle campagne di scavo e l'esame delle infrastrutture dissepolte confermano che il Tonocov è fra i più interessanti e meglio conservati esempi di villaggi fortificati montani che si trovano sulle Alpi Orientali. Sulle sue pendici sono ancora visibili i segni lasciati dal primo conflitto mondiale sotto forma di trincee e ricoveri militari. Sulle pendici del Tonocov grad. L’insediamento che vi sorse alla fine del V secolo è oggi considerato uno dei più interessanti esempi di villaggi fortificati esistenti sulle Alpi Orientali. Sentieri percorribili senza eccessive difficoltà ed indicazioni sempre puntuali rendono l’escursione alla portata di ogni visitatore. 213 Un primo tratto di linea difensiva italiana... Dal Tonocov grad si raggiunge l'Isonzo percorrendo un sentiero dalle antichissime origini, a tratti utilizzato anche dai nostri soldati durante il conflitto. L'esercito italiano aveva realizzato nell'Alto Isonzo tre linee difensive. Un settore della terza linea fiancheggia il corso del fiume prima sulla riva destra e poi su quella sinistra. Seguendo il percorso il visitatore attraversa fortificazioni, trincee ed altre opere difensive realizzate per proteggere l'attraversamento del corso d'acqua. Con circa venti minuti di cammino si giunge alla strada che porta a Plezzo (Bovec). Dopo averla traversata, si prosegue lungo il sentiero che scende fino alla valle dell'Isonzo. Resti delle opere difensive realizzate dall’esercito italiano. 214 La forra dell'Isonzo e la passerella sospesa (Brv cez Soco) Fra Tmovo e Caporetto, l'Isonzo attraversa una profonda gola dove l'ambiente è caratterizzato da rapide, gorghi ed enormi massi che affiorano dalle acque del fiume. Questa selvaggia parte del suo corso termina al ponte di Napoleone prima di raggiungere il quale, la corrente si tuffa in una profonda e stretta forra che nel punto meno ampio è larga circa due metri. La forza delle acque e la loro azione, nel corso dei secoli hanno dato vita a curiosi spettacoli naturali: ampie cavità scavate nella roccia e, tipica del posto, la «cepljena skala» (roccia spaccata), prodotta dall'accumularsi del calcare in alte formazioni. Lungo questo tratto di fiume, che si allunga per circa duecento metri, l'acqua raggiunge anche i quindici metri di profondità. Nel 1998 il Museo di Caporetto e il locale Ente per il Turismo hanno ricostruito la passerella sospesa che traversava il corso d'acqua durante la grande guerra. E’ lunga 52 metri ed è stata realizzata esattamente là dove si trovava durante il conflitto. Due suggestive immagini della passerella sospesa e l’Isonzo che scorre tra le rocce. 215 Le cascate del torrente Kozjak Lasciata la passerelle sospesa e continuando l'escursione verso il torrente Kozjak, in pochi minuti, seguendo le puntuali indicazioni, si raggiunge un ponte in pietra che unisce le due sponde. La struttura fu ultimata nel 1895. Sotto la sua arcata, la corrente si tuffa in profondo tonfano dando vita al «piccolo Kozjak» (Mali Kozjak), una delle sei cascate che ne caratterizzano il corso. E' un salto d'acqua di otto metri, che può essere ammirato dal visitatore, scendendo lungo uno stretto ma sicuro sentiero. Il torrente nasce sulle pendici montuose del Krncica (2142 m.) e da lì scende fra le rocce scivolando in molte forre fino a gettarsi nella sinistra dell'Isonzo. Il «piccolo Kozjak» si trova a circa 250 metri dal «grande Kozjak» (Veliki Kozjak), la più suggestiva cascata di tutta la Slovenia. Qui l'acqua, aprendosi nei millenni la strada nella pietra, ha dato vitta ad un ampia «sala» di roccia dentro la quale precipita da un'altezza di quindici metri. Sul fondo di questa sorta di grotta dalle suggestioni carsiche, si è formato un ampio tonfano verde smeraldo, una limpida vasca nella quale la corrente termina la sua corsa. A sinistra la «sala» sotterranea in cui le acque del Grande Kozjak vanno a gettarsi. A destra le indicazioni che, lungo il percorso, accompagno il visitatore alla cascata («Slap Koziak» in sloveno). 216 Il «grande Kozjak» (Veliki Kozjak), la più suggestiva cascata di tutta la Slovenia. L’acqua precipita da un’altezza di quindici metri all’interno di un ampio tonfano verde smeraldo. 217 Un altro tratto della linea difensiva italiana… Lasciate le cascate del Kozjak ed intrapresa la via del ritorno, un sentiero sulla sinistra si arrampica verso altre fortificazioni italiane della Grande Guerra. Si incontrano una postazione per mitragliatrice ed un osservatorio. Poco più avanti, un'apertura squarcia il fianco della montagna. E' l'ingresso di una caverna attrezzata, uno dei tanti ricoveri che furono realizzati per sfruttare la protezione della solida roccia. Molti di essi sono scomparsi a seguito di crolli ma tre hanno subito lavori di ripristino. Il panorama che si gode dall'osservatorio è incantevole. Lo sguardo può spingersi lungo la gran parte del percorso storico giungendo fino alle acque dell'Isonzo. Altri resti delle fortificazioni costruite dagli italiani. Molti dei ricoveri in caverna realizzati durante la Grande guerra sono stati dannegiati da crolli. Tre di essi hanno però subito lavori di rispristino. Quello sembra l’ingresso di una miniera di altri tempi è in realtà l’imboccatura di una caverna attrezzata a rifugio. 218 Una spettacolare immagine dell’Isonzo ripreso mentre le sue acque scorrono attraverso una caretteristica «forra». 219 Il ponte di Napoleone (Napoleonov Most) La costruzione del ponte che ancora oggi porta il nome dell'imperatore dei Francesi fu ultimata nel 1750. Esso congiunge le due rive dell'Isonzo nel punto dove si fanno più vicine. Fu la voce popolare a battezzarlo in questo modo dopo che Napoleone e le sue schiere in marcia verso il Predil l'ebbero attraversato. La struttura subì gravissimi danni durante la prima guerra mondiale quando gli austriaci, dopo lo scoppio delle ostilità con l'Italia, lo fecero saltare per contrastare il passo all'avversario. I genieri del Regio Esercito lo ricostruirono prima in legno e poi in metallo. Sul finire della seconda guerra mondiale, il ponte di Napoleone venne coinvolto in nuovi fatti di sangue. Oggi due iscrizioni commemorative sistemate nelle sue vicinanze, ricordano gli episodi storici cui fece da palcoscenico. Nel dopoguerra, per quindici mesi, esso rappresentò il valico di confine tra le zone "A" e "B". Il «Ponte di Napoleone» 220 Indice Generale Caporetto, cronologia di un attacco ben riuscito..................................... 5 Ottobre 1917........................................................................................... 29 28 ottobre 1918: la ritirata di Caporetto.................................................. 49 29 ottobre 1917....................................................................................... 57 30 ottobre 1917....................................................................................... 85 31 ottobre 1917....................................................................................... 107 1 novembre 1917...................................................................................... 123 6 novembre 1917.................................................................................... 137 8 novembre 1917.................................................................................... 141 Dopo Caporetto........................................................................................ 145 Caporetto: leggere e comprendere una tragedia................................. 169 Il «diario Acquaviva»: breve storia di una testimonianza....................... 191 Una visita all’itinerario storico di Caporetto............................................ 203 Indice dei Luoghi Abbazia di Nervesa, vedi: Sant'Eustachio (abbazia di) Adamello (monte) – 156, 165 Alpi Giulie – 205 Alpi Orientali – 213 Alsazia – 6 Amedeo (piazza) 195 Argine regio – 194 Asiago (altipiano di) – 24, 145 Asolo – 156, 165 Astico (fiume) – 156, 165 Austria - 5, 77, 88, 90, 113, 153, 157, 173, 203, 178 Baglioni (albergo) – 155 Bainsizza (altopiano) – 5, 6, 8, 14, 19, 20, 22, 88, 170, 182 Bassano del Grappa – 196 Belgio – 79, 88 Belluno – 145 Bocca Callalta (località) – 194 Bologna – 148 Bovec, vedi: Plezzo Brasile – 146 Breda di Piave – 156, 165 Brianza – 149 Caporetto – 6, 14, 15, 17, 18, 23, 24, 50, 51, 56, 145, 146, 148, 151, 160, 169, 170, 171, 173, 174, 176, 178, 179, 181, 183, 185, 186, 187, 188, 202, 205, 206, 208, 211, 213, 215 Caporetto (Ente per il turismo di) – 205, 215 Caporetto (Itinerario storico di) – 205, 210 Caporetto (museo di) – 205, 206, 207, 209, 210, 215 Caporetto (Sacrario militare italiano di) – 205, 210, 211, 212 Caposile – 141 Carnia – 23, 164 Carso – 14, 22, 36, 44, 45, 46, 47, 88, 106, 116, 125, 142, 172 Casarsa – 112, 116 Casier – 150 Castelfranco – 152, 161 Cavaso del Tomba – 147, 154 Cavour (borgo) – 145, 180 Cendon – 150 – 152 Cervignano- 29, 80 Chioggia – 149 Ciginj – 182, 183 Cison di Valmarino (castello di) – 154 Cividale – 20, 22, 205 Codroipo – 22, 101, 112, 116, 118, 119 Collalto (castello di) – 154 Conegliano – 145, 154 Cormons – 8, 20, 29, 170 Costa Raunza - 182 Cotici – 42, 49, 108 Crespano – 152, 156, 165 Delizia (ponti della) – 22, 107, 113, 116, 117 Drezenca (conda di) – 15 Emilia-Romagna – 148, 151 Faenza – 148 Fagarè – 141, 143. 194, 196, 198, 199, 201, 202 Fagarè della Battaglia (Sacrario militare di) – 196, 199, 201, 202 Faiti (dosso) – 29 Faiti (monte) – 31, 40 Faiti Hrib (monte) – 29 Farra – 52, 54, 80 Ferrara – 150 Firenze – 148, 149 Follina – 152 221 Foni – 182, 186 Francia – 77, 157, 177 Friuli – 67 Genova – 177 Germania – 146, 152, 152 Globocak (monte) – 18 Gorizia – 19, 20, 31 Gradic (monte) – 205, 210, 211, 212 Gradisca – 30, 52, 54, 69, 80 Grande Kozjak (cascata del) – 216, 217 Grappa (monte) – 24, 145, 156, 165 Guarda (monte) – 16 Hermada (monte) – 5 Idersko – 15, 18 Isonzo (fiume) - 5, 6, 8, 12, 14, 15, 17, 18, 22, 41, 49, 53, 54, 58, 104, 164, 170, 178, 179, 182, 183, 184, 185, 186, 205, 206, 208, 211, 214 Isonzo(forra dell') – 205, 210, 215, 219 Isonzo (valle dell') – 186, 187 Istrana – 152 Italia – 5, 12, 41, 76, 77, 88, 100, 102, 103, 105, 111, 120, 141, 147, 151, 172, 178 Jeza (monte – 18 Judrio (fiume) – 12 Kobarid, vedi: Caporetto Kobarid (Ente per il turismo di) vedi: Caporetto (Ente per il turismo di) Kolovrat (monte) – 8 Korada – 19, 21 Kozjak (cascate del) – 205, 210, 218 Kozjak (torrente) – 205, 216 Krasij – 15, 188 Lancenigo – 155 Latisana – 128 Lecco (via) – 195 Linea difensiva italiana – 205 Linea difensiva italiana – 205, 214, 218 Livenza (fiume) – 178 Lombardia – 88 Loschi, casa – 143 Lubjana – 19 Lughignano – 150 Luico – 18 Mali Kozjak, vedi: Piccolo Kozjak (cascata del) Mantova – 148 Marca Trevigiana – 146, 151 Margherita (villa) – 157 Maser – 157 Masera (casa) – 206, 207 Maserada – 141, 157 Matajur – 205 Merzli (monte) – 14, 15, 185 Mestre – 149, 153, 157 Milano – 148, 194, 199 Modena – 148, 149, 150 Mogliano Veneto – 151 Moldavia – 12 Monastier, 150, 156, 165 Montebelluna – 156, 157, 161, 165 Montello (collina) – 153, 156, 165 Montemaggiore – 19, 21 Monticano (fiume) – 156, 165 Motta di Livenza – 145, 149 Nad Loghem (monte) – 29 Napoleone (ponte di) – 205, 210, 220 Napoleonov Most, vedi: Napoleone (ponte di) Napoli – 29, 194, 199, 203 Napoli (distretto miliatare) – 199 Nero (monte) – 12, 14, 15, 185, 205, 206 Nervesa – 154 Oderzo – 136, 147, 149, 155, 157, 196 Orsago – 155 Ossario, vedi: Caporetto (Sacrario militare italiano di) – 205 Padova – 24, 146, 148, 149, 153, 180, 181, 185, 205 Paese – 152 Palermo – 88 Palmanova – 14, 20, 29, 68, 69, 71, 74, 75, 81, 82, 137 Papadopoli ( grave di) – 144 Parma – 148, 151 Peci – 29, 30, 41, 42, 49, 52, 113 Pec vedi: Peci Pederobba – 154 Pero (frazione del comune di Breda di Piave) – 138 Piatto (monte) – 18, 182 Piave (fiume) – 19, 24, 132, 134, 135, 137, 141, 142, 145, 148, 149, 150, 151, 153, 156, 160, 165, 174, 178, 194, 196, 198, 206 Piave (foce del fiume) – 156, 165 Piccolo Kozjak (cascata del) – 216, 217 Piemonte – 88 Pinzano - 22 Pirano – 147 Pistoia – 149 Pleka (monte) – 15 Plezia – 182, 182, 186 Plezzo (conca di) – 8, 9, 10, 12, 14, 15, 20, 23, 53, 176, 177, 178, 179, 186, 187, 214 Po (fiume) – 132, 137, 151 Pod Celom, vedi: Saga (stretta di) Ponte della Priula – 145 Ponte di Piave – 137 Portegrandi – 156, 165 Portogruaro – 157 Povegliano – 156, 165 Predil – 220 Preganziol – 152 Priula, vedi: Ponte della Priula Privi Hum (monte) – 16 Pulfero (strada) – 22, 205 Ragogna (ponti di) – 23 Ravenna – 148 Reggio Emilia – 148 Revedin (palazzo) -145 Roma – 29, 88, 147, 148, 149, 151, 163 Romans – 58, 60 Rombon (monte) – 15 Roncade – 150, 152, 198 Rosso (monte) – 15 Russia – 63, 88, 157 Sabotino (monte) – 19 Saga (stretta di) – 12, 15, 16, 17, 186, 187 Sagrado – 54 Salettuol (frazione del comune di Maserada) - 141 San Biagio di Callalta – 137, 143, 150, 156, 165, 193, 194, 196, 198, 201, 202 San Grado di Merna – 30, 31, 42 San Michele (monte) – 19, 36, 37, 40 San Michele -41 Sant'Ambrogio in Fiera – 149, 155 Sant'Andrea di Barbarana – 156, 198 Sant'Antonio (chiesa di) – 212 Sant'Artemio – 155 Santa Sabina – 121 Sant'Eustachio (abbazia di) San Tommaso (porta) – 148 San Vito, ponte di – 107 San Vito al Tagliamento – 127, 134 Selisce – 15, 182 Serbia - 79 Serpenizza – 16 Sette Comuni (altipiano dei) – 164, 178 Sicilia – 125 Sile (fiume) – 150, 153 Slap Kozjak, vedi: Kozjak (cascate del) Sleme (monte) – 8, 185 Slovenia – 205 Smast (carcere di) – 206 Spercenigo – 150 Spresiano – 154 Stol (monte) – 16, 205 Tagliamento (fiume) – 14, 18, 19, 22, 23, 24, 41, 56, 63, 65, 82, 102, 103, 105, 107, 108, 222 112, 117, 120, 125, 127, 130, 131, 132, 135, 137, 149, 151, 160, 165, 178 Talmasan, vedi: Talmassons Talmassons – 112 Thiene – 196 Tmovo – 215 Tolmino (ponte) – 171 Tolmino conca di) – 8, 10, 12, 14, 15, 16, 17, 18, 20, 23, 36, 53, 89, 170, 177, 183, 188 Tonale (passo del) – 145 Tonocov Grad (monte – 205, 210, 212, 213, 214 Torre (fiume) – 22, 165 Toscana, 151 Trento – 88, 172 Treviso – 22, 24, 142, 145, 146, 147, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 157, 159, 160, 180, 196, 205 Treviso (provincia) – 153 Trieste – 5, 41, 88, 90, 131, 172 Uccea (valle) – 16 Udine – 8, 14, 18, 22, 29, 41, 86, 89, 96, 97, 137, 205 Vajont – 23 Valcellina – 23 Val Lagarina – 164 Vallarsa – 164 Valloncello (località) – 29 Vallone (località) – 41, 42, 49 Varese – 149 Veliki Kozjak, vedi: Grande Kozjak (cascata del) Veneto – 88, 157 Venezia, 137, 205 Versa – 68 Vesuvio (vulcano)- 203 Vienna – 8, 88, 203 Villanova – 52 Villa Ranza, vedi: Villa Teresa Villar Pelice – 188 Villa Teresa – 155 Villorba – 157 Vipacco (fiume) – 29, 30, 31, 48 Vittorio Veneto – 145, 147, 202 Vodil (monte) – 8 Volkoniak (monte) – 29, 30 Volnik (monte) – 15 Volpago – 152 Volzana – 18, 171, 182, 183 Vrsic – 15 Indice dei Nomi Za Kraju (passo) – 14 Zenson (ansa di) – 141 Zenson di Piave - 154 Zerman – 150 Acquaviva Coppola, Augusto – 195, 199 Acquaviva Coppola, Massimo (professore) – 199 Acquaviva Coppola, Raffaele (avvocato), 195, 203 Acquaviva Coppola, Vincenzo – 123, 139, 140, 143, 169, 188, 193, 194, 195, 198, 199, 201, 202, 203 Acquaviva Coppola, Vittoria – 201, 203 Amadei, Giulio - 185 Appiano, Graziani – 155 Arminio – 179 Arrighi, Giovanni – 16, 17, 187, 188 Badoglio, Pietro – 13, 14, 16, 23, 155, 166, 171, 180, 181, 182, 183, 185, 186, 188 Bardesono di Rigas, Vittorio (prefetto di Treviso) – 151, 162 Battisti, Cesare – 79, 88 Below, Otto von – 12, 23, 177 Bencivenga, Roberto – 5, 14, 15, 16 Benetton, Simon – 198 Bergamo, Guido (onorevole) - 157 Bettiol, Carlo - 152 Biemonte (tenente) – 29 Bissolati, Leonida – 180 Bloch, Marcc – 169 Bonaparte, Napoleone – 220 Bongiovanni, Luigi – 10, 14, 188 Boroevic, Svetozar Bojna, von – 178 Bricito, Zacaria (Sindaco di Treviso) - 149 Caccia Dominioni, Paolo – 206, 207 Cadorna, Luigi – 5, 6, 8, 13, 18, 19, 20, 22, 23, 24, 103, 131, 146, 170, 171, 172, 173, 174, 177, 179, 180, 181, 183, 184, 188 Calcagno (colonnello) – 188 Campione, Laura – 201 Cannoniere (colonnello) – 183, 184 Capello, Luigi – 6, 8, 10, 13, 19, 20, 23, 145, 170, 171, 173, 181, 182, 184, 185, 188 Carlo d'Aburgo – 6 Castiglioni, Giannino – 212 Castrogiovanni, Gaetano (colonnello) – 198 Cavaciocchi, Alberto – 10, 14, 17, 179, 182, 183, 185, 186, 187, 188 Cavallini (ditta) – 196 Cavel, miss – 79 Cecco Beppe (i.e. Francesco Giuseppe, imperatore) – 63 Cita, Antonio – 196 Comisso, Giovanni – 148, 149, 153 Cristoforo, Colombina – 152 Curcio (aspirante ufficiale) – 29, 41, 125, 126, 129 Del Fabbro, Pietro (architetto) – 196 Della Casa, Giovanni (monsignore) – 153 De Marchi (medico) – 152 De Stefani (medico) – 152 Diaz, Armando – 146, 153 Dos Passos, John – 198 Fabi, Lucio – 172 Faldella, Emilio – 180, 181, 183 Farisoglio, Angelo – 15, 17, 187, 188 Foch, Ferdinand – 146 Fradeletto, Antonio (onorevole) – 155, 163 Gasparotto, Luigi – 179, 180, Gatti, Luigi – 18 Genova, Alberto (capitano) – 174, 175, 176 Giolitti, Giovanni – 76, 132 Giorgi di Carrara, Alterige (professore) – 196 Girardi (medico) – 152 Giustiniani (cardinale) – 146 Gozzi – 69 Grappi, Giovanni – 212 Hemingway, Ernest – 198 Hindemburg, Paul von – 5, 12 Klausewitz, Karl von – 173 Kluzer, Giovanni – 201 Kluzer, Isa – 201, 203 Kraft von Dellmensingen, Konrad – 9, 11, 12 Krauss, Alfred – 9, 12, 17, 176, 177, 178, 179, 186, 187 Krumun, Ines – 195, 203 Laquaniti (capitano) – 194 Levada (avvocato, sindaco di Oderzo) – 149 Longhin, Antonio (vescovo di Treviso) – 147, 148 Lucullo – 125 Ludendorff, Erich – 12 Maderni, Andrea (tenente) – 194 Marchetti, Ciro (tenente) – 198 Marinaro (tenente) – 29, 30 Mascherini, Marcello – 196, 198 Mazzarella (capitano) – 29, 123, 126, 127, 129, 131, 138 Mc Key, Edward – 198 Miotto (don) – 152 223 Montuori, Luca - 19, 22, 182, 186, 187, 188 Morabito (sottotenente) – 29 Mussolini, Benito – 212 Negretti (tenente) – 29, 30, 42, 108, 111 Nitti, Francesco Saverio – 155 Orlando, Vittorio Emanuele – 153, 173 Peratoner (sottotenente) – 29 Pieri, Piero – 12, 15, 20, 22, 23 Pizzinato (don) – 152 Pordenone (pittore) – 153 Porro, Carlo – 18, 188 Postolis, Sandro – 29 Pravato (ditta) – 196 Robertson, William (generale) – 146, 180 Rochat, Giorgio – 24 Rommel. Erwin – 23 Sabato, Luigi (colonnello, comandante 47 Rgt. Aertiglieria) – 127, 142 Santimone (sergente) – 194 Sartori (don) – 152 Savoia, Emanuele Filiberto di, duca d'Aosta – 24, 159, 181 Savoia, Vittorio Emanuele III di, re d'italia – 76, 132, 146, 199 Schaumann, Walther – 170, 181 Schubert, Peter – 170, 181 Scuti, Edoardo (colonnello) – 184 Seglin, Antonio (capitano) - 147 Silvestri, Mario – 169, 174 Starace, Achille – 199 Tomassini, Luigi – 172 Treves, Carlo (deputato) – 146 Vaccari, Giuseppe (generale) – 159 Varo – 179 Viale, Clementina – 147 Villani, Francesco – 185, 186 Volpato, Adamo – 152 Weber, Fritz (tenente) – 176, 177, 178 Zeno-Antonini, Teresa (contessa) – 155 Ziliotto (don) – 152 Stampa ottobre 2007 Marca Print Arti Grafiche Quinto di Treviso 224