Libri, Arte e Cultura: ultime notizie

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Libri, Arte e Cultura: ultime notizie - Corriere della Sera
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SOCIETÀ
La nuova era della condivisione
L’uso collettivo dei beni può cambiarci la vita: dal consumo individuale si passa
CARLO RATTI e RICHARD SENNETT
Era il 1899 quando il sociologo
svedese Thorsten Veblen, nel suo
libro La teoria della classe agiata (la
più recente edizione italiana è uscita
da Einaudi nel 2007), usò per la
prima volta l’espressione «consumo
vistoso». Quelle parole avevano un
doppio significato: se da un lato
Veblen era critico verso il modo in cui
Installazione dell’artista giapponese Tatsuo Miyaji
i ricchi ostentavano la propria
ricchezza, dall’altro riconosceva che il consumo di beni e servizi da parte dei membri
della classe media poteva essere usato per stabilire «l’onorabilità della famiglia e del
suo capo». Insomma, lo status è importante. A oltre un secolo di distanza, il
«consumo vistoso», che ha definito larga parte della cultura materiale del XX secolo,
si trova a un punto di svolta.
Negli ultimi dieci anni, Internet e la diffusione dei social media hanno
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introdotto nuovi canali attraverso i quali mettersi in vista. Fino a due decenni fa, il
modo più comune con cui uno studente ricco poteva esibire il proprio status era
arrivare all’università a bordo di un’auto di grande cilindrata. Oggi, per farsi belli,
molti studenti preferiscono invece arrivare al campus in bike-sharing, o ancora
meglio a bordo di un taxi noleggiato via Uber o di un’auto condivisa come Enjoy o
Car2Go. Grazie alla rete, infatti, abbiamo la sicurezza che tutti, nella nostra rete di
contatti, riceveranno quel nostro post dall’interno della macchina con autista. Se
possiamo mostrare il nostro status attraverso i canali digitali, perché possedere
oggetti in modo permanente?
La Rete ha aumentato il prestigio della condivisione, rendendola
un’esperienza comunicabile. Ai tempi di Thorsten Veblen, lo status era legato a
oggetti che alcuni avevano e altri no. Condividere beni e servizi non aveva gran che
di prestigioso. Oggi al contrario piattaforme come Airbnb si stanno affermando
perché aprire la propria casa a un ospite a pagamento non rappresenta più un
segno di declino della propria condizione sociale: in particolare quando questa
scelta permette la creazione (e la ) di una nuova «narrativa esistenziale». Senza
dimenticare il fatto che si tratta di scelte interessanti anche dal punto di vista
economico — basti pensare che l’affitto di un appartamento o una stanza con Airbnb
a New York produce un reddito medio di oltre 3.700 dollari al mese.
Un altro settore chiave per l’economia della sono i trasporti. Negli Stati Uniti, ad
esempio, le automobili sono inutilizzate per il 95 per cento del tempo. Si stima che
ciascun veicolo condiviso potrebbe rimuovere dalle strade dai dieci ai trenta veicoli
privati. E queste dinamiche potrebbero crescere in modo esponenziale con l’avvento
delle auto self driving, che si guidano da sole, il cui impatto sulla quotidianità urbana
potrebbe permettere di superare la distinzione tra trasporto pubblico e privato. La
«nostra» auto, infatti, ci potrà accompagnare al lavoro la mattina e subito dopo,
invece di restare ferma in un parcheggio, dare uno strappo a qualcun altro — ai
nostri familiari, alla cerchia degli amici o ad altri concittadini.
Certo, il passaggio da un tipo di regime all’altro — da un consumo individuale
a un’economia di esperienze condivise — non sarà indolore. I produttori
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industriali tradizionali potrebbero andare incontro a prospettive disastrose. Inoltre i
nuovi canoni di prestigio tendono a favorire i grandi marchi rispetto alle piccole
imprese. Un’azienda come la catena di supermercati biologici Wholefoods negli Stati
Uniti sta mettendo fuori gioco molti negozi di piccola taglia. In modo simile, gli Apple
store diffusi in tutto il mondo vanno a imporre il loro monopolio rispetto ai rivenditori
di tecnologie multimarca.
In passato, lo status legato alla condivisione della conoscenza e delle
esperienze di vita definiva le élite colte. Benedetta Craveri ha magistralmente
raccontato la «Civiltà della conversazione» del XVIII secolo, la cui rete di salotti
letterari metteva a contatto intellettuali e aristocratici. Da questo punto di vista,
l’odierna possibilità di comunicare in modo istantaneo e universale ogni contenuto
online costituisce un potenziale rinforzo della democrazia. Allo stesso tempo, però,
l’idea che tutti condividano tutto — come accade in molti reality show — può anche
indirizzarci verso un cammino di stupidità collettiva. L’antidoto sarebbe dare la
possibilità a ciascuno di noi di commentare criticamente le informazioni raccolte in
tempo reale, quali ad esempio i video postati in rete in queste ultime settimane
durante i tragici eventi di Dallas e Nizza.
Se Veblen fosse vivo oggi, probabilmente osserverebbe con piacere la
tendenza alla sostituzione dello status individuale con gesti di condivisione
collettiva. Tuttavia siamo ben lontani dalla prospettiva di un «nirvana tecnologico».
L’economia della condivisione porta con sé un radicale sconvolgimento degli attuali
modi di produzione. Nelle città, questo potrebbe contribuire a distruggere il
commercio al dettaglio. Più in generale, alcuni cambiamenti potrebbero svilire,
invece che arricchire, il nostro panorama culturale.
Di fronte a queste sfide, quello che forse dobbiamo imparare è il modo di
«condividere bene». Internet, i Big Data e l’era dei cellulari rappresentano l’inizio di
un nuovo romanzo di cui non c’è traccia nelle pagine di Veblen sul «consumo
vistoso». Al cuore di questo romanzo, uno dei dilemmi del nostro presente: come
ancora essere vistosi, l’uno verso l’altro, ma senza consumo.
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CARLO RATTI e RICHARD SENNETT
19 agosto 2016 | 22:34
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