la nuova tassazione dei redditi di impresa: un`analisi

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la nuova tassazione dei redditi di impresa: un`analisi
LA NUOVA TASSAZIONE DEI REDDITI DI IMPRESA:
UN’ANALISI ECONOMICA
Sommario: Introduzione e principali conclusioni – Riforma fiscale e IRES: Premessa – Effetti su
efficienza, neutralità e semplicità del sistema tributario nella nuov a tassazione dei redditi d’impresa – 1.1
Gli effetti della nuova tassazione dei redditi di impresa: Premessa – 1.2 Obiettivi perseguiti e principi
adottati dal Governo per l’azione di riforma – 1.3 Efficienza del nuovo sistema ad aliquota unica – 1.3.1
Neutralità e scelte finanziarie delle imprese: l’abolizione della DIT – 1.3.2 Neutralità e impiego dei
fattori produttivi: l’abolizione dell’IRAP – 1.4 Riflessioni di Visco sulla neutralità della DIT confrontata
con le norme contro la thin capitalization – 1.5 Il carico fiscale sui profitti: Alcune valutazioni
comparative – 1.5.1 Il confronto sulle aliquote legali – 1.5.2 Il confronto sulle aliquote marginali
effettive forward looking – 1.5.3 Il confronto sulle aliquote medie effettive backward looking: Una
simulazione delle due riforme – 1.6 Considerazioni finali di un’analisi economica della riforma fiscale
“Tremonti” – 1.7 Competitività del nuovo sistema nel contesto internazionale – 1.7.1 La convenienza a
spostare la base imponibile – 1.7.2 La localizzazione degli investimenti – 1.7.3 Il trattamento dei redditi
transfrontalieri – 1.7.4 Il consolidato mondiale – 1.7.5 Considerazioni finali di un’analisi in un’ottica
internazionale.
INTRODUZIONE E PRINCIPALI CONCLUSIONI
Le decisioni di investimento delle imprese si basano su valutazioni circa la redditività attesa e
sono prese in situazioni di incertezza; sono favorite dalla stabilità del contesto economico in cui
avvengono. Un elemento determinante è rappresentato dall’assetto futuro della tassazione. Modifiche
radicali delle norme che regolano la fiscalità delle imprese andrebbero pertanto attuate con cautela: da
un lato, possono penalizzare scelte d’investimento già compiute in passato, con effetti potenzialmente
inefficienti per l’apparato produttivo; dall’altro, per essere efficaci, occorre che siano percepite dagli
operatori economici come sufficientemente durevoli. Il ricorso a interventi di riforma troppo ravvicinati
nel tempo, inducendo incertezza, può ripercuotersi sulla credibilità delle misure di politica fiscale, con
ricadute sui risultati attesi.
Nel corso dell’ultimo quinquennio il sistema tributario italiano è stato interessato da due
interventi di riforma rilevanti, che seguono il precedente riordino avvenuto nel 1973. Il primo, noto
come “Riforma Visco”, è avvenuto alla fine degli Anni ‘90 e ha interessato soprattutto la tassazione dei
redditi da capitale, sia d’impresa (con l’introduzione del regime DIT di doppia aliquota) sia di risparmio
(varando un regime innovativo che ne tassa i rendimenti in base al criterio della maturazione); ha inoltre
introdotto un nuovo tributo regionale, l’IRAP, prelevato sul valore aggiunto della produzione. Il
secondo, noto come “Riforma Tremonti”, in vigore dal 1 Gennaio 2004, torna sulla tassazione dei redditi
da capitale, abolendo alcune delle modifiche precedenti (in particolare la DIT), e propone di ridefinire la
struttura dell’imposizione personale.
Il cambiamento di scenario radicale che è avvenuto con la Riforma Tremonti è stato oggetto di
molte analisi. Infatti non si è trattato di un semplice “restauro” del sistema previgente ma di una vera e
propria “rivoluzione” nella tassazione del reddito d’impresa. Tra tutte le novità, pare doveroso citare in
primo luogo l’introduzione di un’imposta ad aliquota unica, l’IRES (33%), che sostituisce l’IRPEG.
Inoltre è utile notare la graduale eliminazione della DIT e dell’IRAP e le norme volte a prevenire la thin
capitalization. Naturalmente sono molteplici le novità della Riforma Tremonti (consolidato fiscale,
regime impositivo dei dividendi, per esempio), su tanto si è scritto e detto.
Nel lavoro si è cercato di focalizzare l’attenzione sulle conseguenze della riforma rapportate al
regime Visco. In particolare, si è cercato di capire, tra le altre cose, quali esigenze ha nno spinto il
Ministro Tremonti a rivoluzionare il sistema, e cosa sarebbe successo se fosse continuato il regime
Visco. A tal fine è stata effettuata un’analisi economica, ricercando i pareri di economisti e “addetti ai
lavori”, partendo da quelli che erano gli obiettivi proposti dal Governo. Durante tutta l’analisi, sono
1
riportati anche simulazioni di gettito e di aliquote derivanti da studi approfonditi e provenienti da
autorevoli fonti.
Il saggio cerca quindi di esaminare gli effetti sul sistema fiscale per ciò che riguarda efficienza e
neutralità, per arrivare a determinare gli inevitabili effetti prodotti verso le decisioni di investimento. A
tale proposito, punto focale del dibattito degli esperti è stata l’abolizione della DIT, forse l’aspetto della
Riforma Tremonti più criticato.
Si conclude con un’analisi degli effetti della riforma in un’ottica internazionale, per quanto
riguarda l’influenza della riforma sulla decisione per un’impresa di investire all’estero o anche di
spostare la propria base imponibile. Tutto ciò dovuto al nuovo regime di imposizione dei dividendi e a
causa del regime opzionale cosiddetto consolidato fiscale.
Naturalmente non è possibile, in questa sede, esprimere un giudizio sulla Riforma. Si vogliono
effettuare alcune considerazioni sorte spontanee dall’analisi degli studi economici svolti fin dai primi
lavori e dalle prime bozze concepiti dal Legislatore.
Una semplice considerazione può essere fatta però fin da adesso: il sistema fiscale, è da sempre
dipinto come una giungla selvaggia di burocrazia, carte e numeri, detrazioni e deduzioni, evasioni ed
elusioni, in cui perennemente si cerca di sopravvivere e adattarsi.
Dal 1 Gennaio 2004, chi si occupa di fiscalità aziendale (sia esso commercialista di una grande
azienda o piccolo imprenditore provinciale), dovrà inventarsi nuove tecniche di sopravvivenza.
L’universo fiscale che lo pervade è cambiato, seppur con qualche semplificazione, e il suo
comportamento sicuramente dovrà cambiare e adeguarsi di conseguenza.
RIFORMA FISCALE E IRES – PREMESSA
Il Consiglio dei Ministri del 12 settembre 2003 approvò lo schema di decreto legislativo di
riforma della tassazione delle società di capitali, secondo le linee previste dalla legge delega per la
riforma fiscale.
Con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del 16 dicembre 2003, è stato emanato il D.lgs. n.
3441 concernente la riforma dell’imposizione sul reddito delle società, così come disposto dall’art. 4
della Legge Delega del 7 aprile 2003, n. 802.
La riforma contiene molte novità in materia di imposizione dei redditi di impresa.
Il metodo legislativo utilizzato, vista la vastità degli elementi trattati, è stato quello di intervenire
all’interno del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), approvato con il D.P.R. 917 del 22
dicembre 1986, inserendo le norme richieste per l’attuazione dei nuovi istituti, modificando e
abrogando per quanto necessario quelle esistenti.
Il D.lgs. n. 344 del 2003, che ha sancito il debutto della nuova imposta (l’IRES – Imposta sul
Reddito delle Società), si compone di due parti:
- una riscrittura dell’attuale Testo Unico delle Imposte sui Redditi, che viene modificato
radicalmente in tutte le parti che riguardano il reddito d’impresa, con l’aggiunta di numerosi articoli;
- alcune disposizioni necessarie per accompagnare l’entrata in vigore.
L’articolato normativo recepisce i principi contenuti nell’art. 4 della Legge Delega tenendo
anche conto “della necessità di adeguare le disposizioni tributarie alla riforma del diritto societario”
(Relazione Tecnica).
Le proposte contenute nella Legge Delega davano molto spazio di manovra e inoltre ribaltarono
radicalmente le innovazioni introdotte dalla “Riforma Visco”.
Gli obiettivi perseguiti dal Governo sono stati, come elenca la Relazione Illustrativa della
riforma, la riduzione graduale della pressione fiscale, la semplificazione della struttura del prelievo e
l’armonizzazione con i sistemi fiscali degli altri paesi dell’UE nel nome dell’efficienza e della neutralità.
La riforma è basata su un piano di quattro anni (2003-2006), per rendere il suo costo (circa 25
miliardi di Euro, ovvero 2 punti del PIL, secondo le stime del Governo) compatibile con i restrittivi
limiti di bilancio imposti dal Patto di Stabilità.
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D.lgs. 12 dicembre 2003.
Pubblicata sulla G.U. n. 91 del 18 aprile 2003.
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Il Titolo II del nuovo TUIR contiene la disciplina dell’IRES.
L’IRES, la nuova Imposta sul Reddito delle Società, che ha sostituito l’IRPEG, e tutte le
modifiche che sono connesse alla tassazione delle imprese hanno avuto decorso dal 1 gennaio 2004.
La riforma ha introdotto le seguenti novità.
a) L’aliquota per il prelievo sulle imprese è scesa al 33%: di conseguenza sono scomparse le
possibilità di riduzione della DIT (Dual Income Tax) e per le operazioni straordinarie3.
b) Viene eliminato il credito d’imposta sui dividendi, vale a dire la trasformazione del prelievo
sulle società in prelievo definitivo, in luogo della tassazione sostanzialmente d’acconto del sistema
precedente, rispetto al momento definitivo di imposizione con l’IRPEF del socio persona fisica.
c) Diventano irrilevanti i guadagni o le perdite di valore delle partecipazioni, grazie
all’introduzione della “participation exemption”.
d) Conseguenza della “participation exemption” è l’eliminazione dell’imposta sostitutiva sulle
conseguenze fiscali delle operazioni societarie straordinarie.
e) A causa della scomparsa del credito di imposta e della rilevanza delle svalutazioni il
Legislatore ha dovuto introdurre un meccanismo sostitutivo per la compensazione tra debiti e crediti
impositivi all’interno dei gruppi societari: quello dei consolidati (nazionale e mondiale), cioè la
possibilità per le società legate da rapporti di controllo di unificare i loro imponibili IRES per calcolare
l’imposta sul saldo tra utili e perdite.
f) Per ciò che riguarda la base imponibile, l’IRES ha confermato in massima parte le regole
vigenti per l’IRPEG, con l’importante novità di nuovi limiti alla deducibilità degli interessi passivi, noti
con il nome di thin capitalization e pro-rata patrimoniale.
La riforma della fiscalità societaria, quindi, consiste in una serie di istituti tra loro
concettualmente legati con un nesso talmente stretto che, mancando anche solo uno di essi il disegno
riformatore complessivo sarebbe completamente contraddittorio.
EFFETTI SU EFFICIENZA, NEUTRALITÀ E SEMPLICITÀ DEL SISTEMA TRIBUTARIO NELLA
NUOVA TASSAZIONE DEI REDDITI D ’IMPRESA
1.1 GLI EFFETTI DELLA NUOVA TASSAZIONE DEI RE DDITI DI IMPRESA : PREMESSA
La riforma fiscale “Tremonti”, presentata dal governo nel dicembre 2001 con il d.d.l. delega
contiene, come visto in precedenza, molte novità in materia di imposizione sui redditi di impresa. La
delega prefigurò, sotto vari profili, una nuova “rivoluzione”, a pochi anni da quella intrapresa dal
precedente governo.
Come si sa, i cambiamenti e gli interventi sono stati vasti e complessi, così come molto precisi
gli obiettivi che il governo intende perseguire con la riforma (v. Par. 1.2). I cambiamenti lungo queste
direttrici, sostengono Arachi e Zanardi (2002), sono particolarmente drastici e si configura una vera e
propria “controriforma” rispetto alle radicali innovazioni introdotte dal precedente governo di centro
sinistra.
Il modello della nuova imposta, l’IRES, abbandona molte logiche fondamentali, che dal 1973 ad
oggi hanno caratterizzato il sistema tributario nazionale, in questo modo proponendosi piuttosto come
una riforma strutturale che come una semplice evoluzione o manutenzione straordinaria dell’IRPEG
(Simoni, 2002).
1.2 O BIETTIVI PERSEGUITI E PRINCIPI ADOTTATI DAL GOVERNO PER L’ AZIONE DI RIFORMA
Il Governo Berlusconi, attraverso la Relazione Illustrativa e la Relazione Tecnica, allegate al
D.lgs. n. 344 del 2003, illustra gli obiettivi e i principi adottati in sede di riforma.
Abolizione dell’imposta sostitutiva del 19% sulle operazioni di riorganizzazione delle attività produttive (D.lgs. n. 358 del
1997). Si tratta del prelievo con aliquota del 19% introdotto per favorire le operazioni di fusione, scissione, conferimento e
scambio di azioni.
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Si legge nelle prime battute della Relazione Illustrativa che la legge delega 7 aprile 2003, n. 80, ha
individuato alcuni obiettivi fondamentali:
- riduzione graduale della pressione fiscale
- semplificazione della struttura del prelievo
- armonizzazione con i sistemi fiscali degli altri paesi dell’Unione europea4.
In particolare, con le modifiche apportate al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il decreto
legislativo attua i principi contenuti nella legge delega con riferimento alle disposizioni di cui all’art. 4
della legge medesima, laddove vengono fornite linee guida della nuova imposta sul reddito delle società
(IRES).
Nel delineare la nuova imposta, il Governo ha fatto riferimento al modello europeo prevalente,
con l’obiettivo di modernizzare la fiscalità dei capitali e delle imprese e, in particolare, di ridurre il
prelievo sul sistema produttivo anche mediante interventi di razionalizzazione e di semplificazione.
Inoltre, l’IRES presenta numerose differenze rispetto all’IRPEG, e, secondo il Governo,
rappresenta un sistema coordinato, all’interno del quale non è sempre agevole isolare gli effetti
attribuibili univocamente alla singola modifica, in quanto la stessa interagisce con le altre novità
normative.
A tal proposito è utile evidenziare la scelta operata dal Legislatore dal punto di vista della tecnica
di redazione del testo normativo. In primo luogo, il governo ha dovuto prendere atto del fatto che i
tempi di “maturazione” della scelta di dare attuazione alla legge di delegazione, nella parte che prevede il
“passaggio” dall’IRPEG all’IRES, non potevano coincidere con quelli di realizzazione di un’altra,
importante parte della medesima legge: la parte che richiede la strutturazione in un codice, costituito da
una parte generale e da una parte speciale, della futura riforma completa del sistema fiscale statale.
Questa ineludibile circostanza ha, quindi, indotto la scelta di operare, nel frattempo, attraverso
una “novella” del vigente testo unico delle imposte sui redditi, approvato con il D.P.R. n. 917 del 1986.
Pertanto, in considerazione dell’ampiezza che comunque avrebbe distinto l’attuale fase
dell’intervento riformatore, che comporta la modifica sostanziale di un elevato numero di disposizioni,
e, in più punti, della stessa struttura del testo unico delle imposte sui redditi nonché della sua partizione
sistematica, si è ritenuto fondamentale – attingendo peraltro ad esperienze già maturatesi in passato,
ancorché in ambiti di materia differenti – tenere di mira l’esigenza di chiarezza, semplicità e conoscibilità
effettiva degli interventi operati. Un obiettivo, questo, in linea, del resto, con i fondamentali principi
direttivi della L. n. 80 del 2003 (art. 2, lettera c)), che comunque dovranno osservarsi nel momento della
raccolta, in un codice, dell’intera riforma del sistema fiscale statale.
Da ciò la scelta di procedere alla “novella” del testo unico delle imposte sui redditi e, al
contempo, alla rinumerazione dei suoi articoli, in alcune circostanze altresì differentemente dislocati per
ragioni di nuova sistematica dell’articolato.
In tal modo, il legislatore ha potuto, in primo luogo, introdurre nel testo unico delle imposte sui
redditi, modificandone la suddivisione interna, un cospicuo numero di nuovi articoli finalizzati alla
disciplina della materia oggetto di riforma, relativamente agli istituti del tutto nuovi per l’ordinamento
tributario italiano, senza ricorrere a numerazioni ordinali (espresse in latino) che avrebbero reso
oltremodo disagevole la lettura del testo finale; in secondo luogo, ha potuto operare interventi di mero
coordinamento in talune altre disposizioni, attraverso la modificazione ovvero la eliminazione delle
occorrenti disposizioni del vigente testo unico delle imposte sui redditi.
Al fine di assicurare la corrispondenza dei riferimenti normativi interni ed esterni, i commi 2 e 3
dell’art. 2, prevedono che nelle disposizioni del testo unico non modificate in conseguenza del presente
decreto, nonché in altre leggi, regolamenti, provvedimenti normativi od amministrativi, i rinvii a
disposizioni contenute in articoli del medesimo testo unico recanti la numerazione vigente prima della
data di entrata in vigore del presente decreto, s’intendono effettuati alle norme recanti la nuova
numerazione che contengono sostanzialmente le corrispondenti disposizioni.
L. 7 Aprile 2003, art. 4, comma 1: “Nel rispetto dei principi della codificazione, per incrementare la competitività del
sistema produttivo, adottando un modello fiscale omogeneo a quelli più efficienti in essere nei paesi membri dell’Unione
europea [...]”.
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L’attuazione delle disposizioni sopra richiamate, come già detto, ha comportato quindi la
necessità di abrogare, integrare e modificare numerose disposizioni del testo unico vigente mentre,
relativamente ai nuovi istituti introdotti dalla delega, si è reso necessario inserire numerosi articoli
specificamente finalizzati all’attuazione delle nuove norme.
Sarebbe quindi utile soffermarsi brevemente su un’analisi microeconomica elaborata dal Governo
per stimare gli effetti sul gettito. La stima è stata fatta elaborando dati provenienti dall’Anagrafe
Tributaria, dalle dichiarazioni dei redditi degli anni passati e da alcuni istituti di rilevazioni statistiche (tra
tutti, il CERVED).
Per ciò che riguarda l’abbassamento dell’aliquota ordinaria al 33%, a parità di reddito è stato rilevato
che le conseguenze in termini di gettito per i periodi di imposta 2004 e 2005 sono una riduzione delle
entrate di competenza, rispettivamente pari a circa 973 e 1.001 milioni di euro, da parte di circa 410.400
contribuenti.
L’abolizione della DIT comporta un recupero di gettito lordo in misura pari a circa il 14% (pari
alla differenza tra l’aliquota al 33% e quella al 19%) – o a circa il 26% nel caso di società i cui titoli siano
stati ammessi alla quotazione – del reddito assoggettato ad aliquota agevolata. Considerato un reddito ai
fini DIT pari a circa 5,25 miliardi di euro nel 2004 ed a circa 5,07 miliardi di euro nel 2005, il recupero
di gettito netto conseguente è pari a circa 727 e 703 milioni di euro da parte di circa 108.000
contribuenti.
L’abolizione del credito di imposta sui dividendi comporterà un recupero di gettito pari a circa 3.838
milioni di euro nel 2004 ed a circa 3.490 milioni di euro nel 2005 da parte di circa 17.000 contribuenti.
Questo in breve è un piccolo astratto di quella che è stata un’analisi molto più ampia con cui si è
arrivati alla stima del gettito per ogni aspetto della riforma. La Tabella 1.2.1 sintetizza i risultati per
competenza.
Tabella 1.2.1: Estratto di stime di gettito applicando la riforma.
COMPETENZA (milioni di euro)
2004
Minore IRPEG per il consolidato nazionale
-3.373,6
Minore IRPEG per il consolidato mondiale
-326,3
Aliquota IRPEG al 33%
-973,3
Abolizione DIT
+727,3
Thin capitalization
+408,9
Indeducibilità minusvalenze iscritte
+1.011,4
Abolizione credito d’imposta sui dividendi
+3.538,0
Trasparenza societaria
-30,1
Totale imposte dirette
+770,7
Totale ritenute
+1,4
Totale imposte sostitutive
-1.784,2
2005
-3.430,3
-411,0
-1001,2
+702,7
+436,0
+1.729,4
+3.490,2
-25,7
+1.815,8
+9,5
-1784,2
Fonte: Relazione Tecnica del Governo
Inoltre si è fatta una stima dei valori di cassa che si avranno nel 2005 e nel 2006 ed è risultato
che i saldi IRAP saranno negativi, rispettivamente pari a -100,5 e -67,5 milioni di euro. Il totale di tutti i
saldi delle imposte sarà nel 2005 +13,5 milioni, mentre nel 2006 +0,6 milioni di euro.
1.3 E FFICIENZA DEL NUOVO SISTEMA AD ALIQUOTA UNICA
Nella Riforma fiscale “Tremonti” si persegue l’obiettivo di rendere più “efficiente” il sistema di
imposizione sulle società. Il metro per valutare l’efficienza del sistema non è, tuttavia, l’uso di indicatori
di tipo economico, nonostante ve ne siano di ben noti e ampiamente utilizzati nella letteratura, ma la
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semplice considerazione che il sistema sarà più “omogeneo a quelli più efficienti in essere nei Paesi
membri dell’Unione europea” (Art. 4 Legge delega per la riforma del sistema fiscale statale5).
Una considerazione preliminare che merita di essere fatta, a questo proposito, riguarda la
difficoltà di individuare il “sistema europeo” a cui fare riferimento; al di là di alcuni tratti comuni, non
solo ai paesi UE, e riconducibili in linea generale all’obiettivo di ridurre le aliquote legali e ampliare la
base imponibile, permangono infatti profonde differenze tra i paesi, sia nella determinazione della base
imponibile, sia nel livello delle aliquote e nella struttura del prelievo.
A tale proposito, è molto critica la posizione di Silvia Giannini (2002) la quale afferma che se
per “sistema europeo” si intende semplicemente un “sistema ad aliquota unica”, integralmente basato
sui profitti, non è detto poi che questo sistema consenta risultati più efficienti di quelli ottenibili con un
sistema duale del tipo di quello applicato, ad esempio, in precedenza in Italia, Austria e alcuni paesi
Nordici o con sistemi che affiancano ad un’imposta sui profitti altre forme di prelievo commisurate ad
un imponibile più ampio dei profitti, come la Gewerbesteuer tedesca o l’IRAP italiana. Non è detto,
conclude quindi Giannini, che conformarsi ad altri paesi europei che adottano un’aliquota unica
significhi realizzare un sistema “più efficiente”.
Il sistema della doppia aliquota dell’IRPEG introdotto con la riforma “Visco” e quello di
aliquota unica riproposto con la riforma “Tremonti” sono, almeno nelle enunciazioni di principio,
basati su filosofie di policy diverse (Maurizi e Monacelli, 2002).
La riforma Visco si proponeva di costruire una struttura del prelievo sulle società che fosse
improntata ai criteri di neutralità nel trattamento fiscale tra fonti di finanziamento e tra fattori
produttivi. Agiva in tale direzione introducendo un sistema di doppia imposizione, la DIT, e
sostituendo una serie di prelievi con l’IRAP. Riteneva necessario sovrapporre a questa struttura
incentivi che avrebbero potenziato la patrimonializzazione delle imprese italiane.
La riforma Tremonti teorizza una fiscalità semplificata e neutrale. Persegue riduzioni del
prelievo generalizzate, piuttosto che mirate a specifiche caratteristiche delle imprese, da attuare
abbattendo le aliquote legali di tassazione. Mette in discussione l’utilizzo della leva fiscale a fini di
incentivo per indurre, attraverso condizionamenti alle scelte delle imprese, comportamenti desiderati.
Inoltre, come già detto prima, persegue l’ambizioso obiettivo di rendere il sistema di imposizione sulle
società più efficiente.
Dal punto di vista economico, per valutare l’efficienza di un sistema di imposizione delle
società, è utile assumere come benchmark quello della neutralità. Sono sempre molto efficaci e attuali a
questo proposito, le parole di Cosciani, che nel suo Manuale di Scienza delle Finanze afferma: “nella
scelta dei vari tributi e delle varie modalità tecniche sulle quali si possono basare, è necessario evitare
quelle forme di distorsioni economiche, a meno che non rispondano ad un particolare obiettivo, che
turbano l’equilibrio naturale del mercato, senza alcun motivo razionale” (1977). Il sistema deve dunque
essere, il più possibile, neutrale cioè non creare distorsioni, ad esempio, fra un investimento in
un’attività di impresa o in una attività finanziaria, fra un finanziamento con debito o capitale proprio,
fra società che agiscono come un’unica entità o attraverso un gruppo di imprese, attraverso una persona
giuridica o fisica, e così via. Ogni scostamento da questo benchmark di neutralità dovrebbe essere basato
su chiari obiettivi e rispondere a motivi razionali (in genere, un fallimento del mercato, che si vuole
correggere).
Vi sono diverse dimensioni attraverso cui questo concetto di neutralità può e deve essere
valutato, e ciascuna di esse richiede una apposita analisi e adeguati strumenti. Il dibattito aperto intorno
alle riforme riguarda principalmente gli effetti sulle scelte finanziarie delle imprese e le implicazioni per
l’impiego dei fattori produttivi (che investe in particolare il ruolo dell’IRAP).
L. 7 Aprile 2003 n. 80, Art. 4, comma 1: “Nel rispetto dei principi della codificazione, per incrementare la competitività del
sistema produttivo, adottando un modello fiscale omogeneo a quelli più efficienti in essere nei Paesi membri dell’Unione
europea, [...]”.
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6
1.3.1 NEUTRALITÀ E SCELTE FINANZIARIE DELLE IMPRESE : L’ABOLIZIONE DELLA DIT
Un sistema che non interferisca con le scelte finanziarie delle imprese deve incidere nello stesso
modo sul rendimento che l’impresa ottiene dall’impiego dei singoli tipi di finanziamento. L’univocità
dell’aliquota può garantire questo risultato solo se il prelievo si applica a un rendimento definito nello
stesso modo per tutte le fonti di finanziamento: quello lordo, se non si ammette la deducibilità degli
oneri di nessuna delle forme di finanziamento; quello netto, vale a dire l’extra-profitto, se dal rendimento
lordo si portano in deduzione i rispettivi costi (interessi passivi per il debito e un costo opportunità per
il capitale proprio). Una volta definita in maniera omogenea la base del prelievo, la neutralità richiede
che venga applicata una medesima aliquota.
Tra i due estremi, di perfetta neutralità e di massima discriminazione nelle scelte finanziarie, si
collocano una serie di regimi intermedi. Uno di questi è la DIT italiana (nella versione “incrementale”,
in cui il costo opportunità è riferito solo ad una misura dell’aumento di capitale, oppure in quella
“piena”, che la DIT assumerebbe a regime, in cui il costo opportunità è riferito a tutto il capitale
proprio). L’imposizione di vincoli alla deducibilità degli interessi passivi è un secondo esempio. La
proposta di riforma Tremonti sembra prendere in considerazione questo secondo regime, ma in
circostanze molto circoscritte (solo per finalità antielusive e limitatamente all’indebitamento nei
confronti di soci); il nuovo sistema si configura pertanto come un ritorno al regime di discriminazione
massima in favore dell’indebitamento (pre-riforma Visco), per contenere la deducibilità degli interessi
passivi.
Non vi è dubbio, (Giannini, 2002), che il nuovo sistema sia meno neutrale (e dunque meno
efficiente) del precedente. Eppure, nel dibattito su questo tema vi è ancora molta confusione, dovuta
probabilmente al fatto che invece di valutare le caratteristiche di neutralità del sistema introdotto con la
riforma Visco, si è più di frequente soffermata l’attenzione sugli effetti differenziali che questa ha
prodotto rispetto al regime precedente.
Il confronto tra il sistema DIT e quello di parziale deducibilità degli interessi passivi mostra,
anche se non in modo immediatamente trasparente, che i due regimi sono sostanzialmente analoghi
sotto il profilo della discriminazione fiscale sulle fonti finanziarie, eventualmente differendo solo per il
grado di discriminazione.
Ma il sistema della DIT italiana merita qualche considerazione particolare. Una delle principali
critiche mosse alla DIT è quella di determinare un’aliquota di tassazione effettiva poco trasparente per
la singola impresa, risultato di aliquote di prelievo variabili con la composizione del passivo delle
imprese. Il sistema, infatti, origina in corrispondenza delle due aliquote legali, ordinaria e agevolata, una
vera e propria struttura di aliquote. Come si è visto, sebbene esista una corrispondenza tra un sistema di
doppia aliquota (DIT) e un regime di aliquota unica con parziale deducibilità del costo opportunità del
capitale proprio, questa corrispondenza non è affatto evidente.
Per approfondire ulteriormente la questione, è utile proporre l’indicatore più ampliamente
utilizzato in ambito economico per sintetizzare il contenuto di incentivo o disincentivo che il sistema
fiscale attribuisce alle scelte finanziarie e di investimento delle imprese6. Questo indicatore, denominato
“cuneo marginale” o “aliquota effettiva marginale di imposta”, misura l’incidenza fiscale sui redditi
derivanti da un investimento marginale, cioè appena in grado di coprire i costi (incluso il “profitto
normale” dell’imprenditore, inteso come costo-opportunità dell’investimento).
Nella figura 1.3.1 abbiamo le aliquote effettive marginali di imposta dal 1996 in poi, per un
investimento in beni capitali non ammortizzabili e ipotizzando un costo-opportunità dell’investimento
del 5% (e zero inflazione).
La figura evidenzia, innanzi tutto, il forte impatto della riforma Visco nel ridurre la forbice fra il
costo fiscale di un finanziamento con debito e capitale proprio. Come è noto, ciò è dovuto
all’introduzione, fin dal 1997, della DIT, sia all’abolizione dell’ILOR e della patrimoniale e della loro
sostituzione con l’IRAP a partire dal 1998. Già a partire dall’estate del 2001 gli effetti della DIT sui
nuovi finanziamenti con capitale proprio vengono meno, a seguito del “congelamento” della DIT
La metodologia, originariamente proposta da King e Fullerton nel 1984, è stata frequentemente utilizzata anche in ambito
internazionale e, per ultimo, da Giannini (2002).
6
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previsto dalla L. 383/2001. Di questo fattore si tiene conto dal 2002. In quest’anno, l’abolizione della
DIT ha l’effetto di aumentare in modo significativo il costo di un finanziamento con capitale proprio, a
parità di vantaggio riservato al debito.
Figura 1.3.1: Le aliquote marginali effettive su un investimento non ammortizzabile
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
1996
1997
1998
Debito
1999
2000
Capitale Proprio
2001
2002
2003
Media
Fonte: Giannini (2002)
Nell’ultimo anno considerato (2003), il divario fra il costo fiscale delle due fonti di
finanziamento un pò si riduce, grazie alla minore aliquota legale, che attenua la tassazione dei profitti,
ma rimane molto più ampio rispetto a quanto si sarebbe osservato se avesse continuato ad operare la
DIT.
La figura evidenzia, dunque, come la nuova riforma riapra la discriminazione tra il costo fiscale
di un finanziamento con capitale proprio e di debito. La distorsione è molto inferiore a quella osservata
nel 1996, grazie soprattutto alla forte riduzione dell’aliquota legale – in gran parte imputabile
all’abolizione dell’ILOR – e alla eliminazione della patrimoniale, entrambe previste dalla riforma Visco.
Non solo, continua Giannini (2002), la riforma è meno efficiente per quanto riguarda le fonti
finanziarie, ma lo è anche con riferimento alle scelte reali: posto che il costo di un finanziamento con
capitale proprio aumenta e quello con debito resta pressoché inalterato, l’aliquota media su un
investimento marginale tende ad aumentare, come mostra anche il grafico, costruito ipotizzando che il
finanziamento con debito sia il 35% del totale. Anche rispetto al costo medio ponderato del capitale, da
cui dipendono le decisioni di investimento, il nuovo sistema si rivela pertanto più distorsivo di quello
vigente.
Anche Maurizi e Monacelli (2002) si esprimono in una analisi simile con le aliquote marginali
effettive e affermano che, nel complesso, la riforma Visco ha portato ad un considerevole
restringimento del divario di trattamento. Rispetto a tale regime, la riforma Tremonti muove in
direzione opposta. Continuano Maurizi e Monacelli (2002) affermando che il regime della riforma
Tremonti porterebbe a un costo marginale medio del capitale più elevato di quello associato alla riforma
Visco: la differenza sarebbe significativa, qualora l’IRAP fosse mantenuta; permarrebbe, anche se in
dimensioni molto limitate, con la soppressione della suddetta imposta.
Sulla base delle considerazioni sin qui svolte, Maurizi e Monacelli (2002) sostengono che, in
alternativa, si sarebbe potuto ridisegnare il sistema DIT consentendo direttamente una deduzione del
costo opportunità del capitale – di entità necessaria a garantire il rispetto delle esigenze di gettito – e
applicando una medesima aliquota, quella ordinaria, a tutto l’utile; in questo caso la variabilità indotta
dalla diversa composizione del patrimonio si sarebbe manifestata attraverso la dimensione della
deduzione, simmetricamente a quanto già avviene per gli interessi passivi. Va tuttavia rilevato che
questa scelta avrebbe potuto compromettere la realizzazione dell’effetto di incentivo alla
patrimonializzazione, ricercato dall’architettura della DIT “incrementale”: per ottenere lo stesso effetto
8
si sarebbe dovuto legare l’entità della deduzione all’incremento di capitale rilevante e le stesse
complessità che caratterizzano il computo dell’imposta si sarebbero riproposte per il computo della
deduzione. La scarsa trasparenza lamentata nei confronti dell’aliquota effettiva si sarebbe manifestata
nei confronti del risparmio d’imposta derivante dalla deduzione, che se non percepito avrebbe finito
con l’affievolire l’incentivo.
Piuttosto pungente è il giudizio di Arachi (2002a) il quale non nota evidenti motivazioni che
abbiano portato alla scelta di eliminare la DIT. Egli afferma che per quanto riguarda l’accusa di
“dirigismo”, sottolineata dalla relazione governativa7, occorre osservare che il meccanismo della DIT
corregge (solo in parte) le distorsioni che la vecchia IRPEG, verso cui la riforma sembra ritornare,
produceva nelle scelte di finanziamento delle imprese. Come evidenziato da recenti indagini empiriche
(Alworth, Arachi, 2001), la discriminazione fiscale del capitale di rischio rispetto al debito è stata una
delle principali cause della sottocapitalizzazione delle imprese italiane. D’altra parte, fa rilevare Arachi
(2002a), è la delega stessa che riconosce, di fatto, la necessità di porre dei limiti al favore accordato al
debito dall’imposta sulle società in assenza della DIT prevedendo nuove e più stringenti norme anti thin
capitalization.
Un ultimo aspetto ritengo rilevante sottolineare nell’argomentazione di Arachi (2002b). Egli
sottolinea analiticamente come il passaggio dalla DIT, con aliquote al 36% e al 19%, ad un’imposta ad
aliquota unica al 33% non appare neppure giustificabile dalla necessità di ridurre il carico fiscale sulle
società operanti in Italia. La Figura 1.3.2 riporta la stima delle aliquote medie effettive per classi di
imprese. Le aliquote sono state calcolate da Arachi considerando un investimento di durata decennale.
Per il decennio in questione sono stati calcolati gli elementi essenziali del conto economico e dello stato
patrimoniale a partire da una serie di ipotesi riguardanti la struttura dell’attivo, le fonti di finanziamento,
il rendimento dell’investimento dedotte dai dati aggregati sui bilanci pubblicati dalla Centrale dei Bilanci.
Sulla base dei risultati di bilancio così ottenuti sono state calcolate le imposte dovute in ognuno dei dieci
anni considerati.
48,65%
45,45%
43,62%
49,71%
45,61%
57,85%
52,41%
51,89%
52,91%
52,02%
54,07%
43,78%
50%
46,38%
60%
49,07%
70%
58,51%
Figura 1.3.2: Aliquote medie effettive in Italia per dimensione d’impresa (n. dipendenti).
40%
30%
20%
10%
0%
Fino a 49
50-99
100-99
200-499
500-999
IRPEG 36% e DIT
IRPEG 33% senza DIT
IRPEG 33% senza DIT, deduzione 20% costo del lavoro da IRAP
Fonte: Arachi (2002a)
L’imposta media effettiva è stata ottenuta come rapporto fra il valore attuale netto di tutte le
imposte dovute nel decennio ed il valore attuale netto degli utili ante imposte.
La Relazione sottolinea il “dirigismo” della DIT che tende a favorire il capitale di rischio rispetto al debito, il
“particolarismo” rispetto alla scena internazionale e la “complessità” legata all’esistenza di un “continuum” di aliquote.
7
9
Sono stati considerati da Arachi tre scenari. Il primo coincide con la situazione in vigore prima
del “congelamento” della DIT e considera sia l’impatto dell’IRPEG che dell’IRAP. Il secondo
considera l’applicazione di un’IRPEG con aliquota al 33%, senza DIT, e dell’IRAP. L’ultimo scenario si
differenzia dal precedente in quanto prende in considerazione la deducibilità del 20% del costo del
lavoro dalla base dell’IRAP. Le stime di Arachi (2002b) evidenziano come la riduzione dell’aliquota
IRPEG dal 36 al 33% non sia sufficiente a compensare l’eliminazione della DIT: le aliquote effettive
aumentano infatti di oltre 5 punti percentuali per tutte le classi dimensionali. La riduzione dell’IRAP
attraverso la deducibilità del 20% del costo del lavoro, conclude Arachi, consente di ricondurre la
pressione fiscale a livelli simili, seppur di poco superiori, a quelli raggiunti prima della riforma.
Tra le altre critiche, molto rilevante è quella di Arachi e Zanardi (2002) i quali affermano che a
fronte degli indubbi vantaggi di DIT e IRAP, i costi della presunta complessità di applicazione e della
differenziazione rispetto ai modelli vigenti in altri paesi risultano poco chiari e tutti da quantificare (si
tenga conto che l’Austria nel 2000 ha adottato il modello DIT e che esso è in vigore da molti anni nei
Paesi scandinavi per le imprese non costituite in società di capitali). I due autori quindi non
comprendono bene fino in fondo la fretta di sbarazzarsi di questi istituti, che secondo loro non
costituiscono un vero ostacolo all’attuazione delle novità forse più interessanti della riforma quali il
consolidato fiscale, l’abolizione del credito di imposta e dell’esenzione delle plusvalenze realizzate da
società.
La critica di scarsa trasparenza al regime DIT, pertanto, riguarda in realtà l’utilizzo delle
caratteristiche strutturali dell’IRPEG (quali la differenziazione dell’aliquota o delle deduzioni) a fini di
incentivo selettivo; in altri termini, la scelta di una DIT “incrementale” anziché “piena”. Si tratta,
peraltro, di una critica che appare coerente con quanto sostenuto in materia di sostegno fiscale agli
investimenti dalla nuova riforma Tremonti, che preferisce agevolazioni generalizzate anziché selettive e
con finalità di incentivo specifico.
1.3.2 NEUTRALITÀ E IMPIEGO DEI FATTORI PRODUTTIVI: L’ ABOLIZIONE DELL’IRAP
L’IRAP, nel sostituire i tributi che la Riforma Visco aveva contestualmente soppresso, mirava a
stabilire un maggior grado di neutralità del prelievo sulle scelte delle imprese anche in merito all’impiego
dei fattori della produzione.
Dalla Relazione Tecnica al d.d.l. si evince che vi sarà un recupero di gettito a carico delle società
tale da consentire, ad invarianza di prelievo complessivo, un abbattimento dell’imponibile IRAP per un
ammontare pari al 20% del costo del lavoro.
L’imposta può essere scomposta in tre principali componenti, che non rappresentano
espressamente la base imponibile percossa, ma che costituiscono una diversa ripartizione economica del
valore aggiunto oggetto del tributo8.
In linea generale, allineando alcune aliquote legali di prelievo, l’IRAP ha certamente introdotto
elementi di neutralità9.
Le valutazioni espresse nella Riforma Tremonti partono da un confronto di natura diversa, che
guarda allo sgravio effettivamente riconosciuto a ciascun fattore della produzione nel passaggio dal
regime precedente a quello della Riforma Visco. Naturalmente, le conclusioni sono molto diverse: tanto
più i due regimi tendevano a discriminare fiscalmente l’impiego dei fattori, tanto maggiore è il vantaggio
o lo svantaggio relativo di cui i singoli fattori hanno usufruito con l’attuazione della riforma. Leggendo
Vi è in primo luogo la componente gravante sul costo del lavoro, che ha sostituito i contributi sanitari. Il regime ordinario
dei contributi prevedeva un’aliquota del 9 per cento, che tuttavia veniva ridotta nei casi di fiscalizzazione degli oneri sociali
per alcuni settori produttivi e in alcune aree territoriali. Vi è poi quella degli utili, sui quali era in precedenza prelevata l’Ilor,
una sorta di “addizionale” (Biasco, 2002) destinata al finanziamento degli enti locali con finalità di discriminazione
qualitativa dei redditi, con un’aliquota del 16,2 per cento, che viene ridotta dall’IRAP al 4,25 per cento. Vi è infine la
componente prelevata sugli interessi passivi: costituisce di fatto l’introduzione di un prelievo sul fattore produttivo “capitale
di debito”, totalmente esente da altri tributi.
9 Naturalmente prevale nel nostro sistema una disparità di trattamento fiscale tra fattori produttivi, derivante dai restanti
prelievi su capitale e lavoro. (Maurizi e Monacelli, 2002).
8
10
la Riforma Visco in questa chiave, si evidenzia necessariamente che essa è intervenuta in maniera
differenziata sui vari fattori produttivi, favorendo in modo accentuato il capitale proprio delle imprese.
L’abolizione dell’IRAP proposta dalla Riforma Tremonti comporta certamente una riduzione
del carico fiscale. Implica tuttavia la risoluzione di alcuni problemi di rilievo. La natura del prelievo sul
costo del lavoro operato dall’IRAP, in quanto sostitutivo dei vecchi contributi sanitari, pone per le
Regioni la questione delle eventuali fonti di finanziamento alternative tramite le quali fronteggiare il
finanziamento della spesa sanitaria.
Con l’abolizione dell’IRAP, sostiene Giannini (2002), le aliquote effettive marginali di imposta
(Vedi Fig. 1.3.1), inizialmente, e fino a quando l’abbattimento dell’IRAP fosse limitato al costo del
lavoro, resterebbero evidentemente immutate. Solo alla fine del processo, quando anche l’IRAP sugli
utili fosse abolita, si ridurrebbe anche il costo del capitale proprio, ripristinando una maggiore neutralità
rispetto alle scelte finanziarie, e l’aliquota marginale effettiva complessiva scenderebbe al 21,45%.
Infine, per quanto concerne la componente dell’IRAP gravante sugli interessi passivi,
difficilmente si può immaginare una sua sostituzione con analoghi prelievi. L’unica possibilità potrebbe
essere quella di introdurre un’indeducibilità, parziale, degli interessi passivi. Questa dovrebbe assumere,
però, natura generalizzata, diversamente da quanto formulato nella riforma Tremonti, dove
quest’ipotesi compare solo in connessione con il problema della thin capitalization. In assenza di
indeducibilità degli interessi, l’effetto dell’abolizione dell’IRAP sarebbe quello di ripristinare il regime di
detassazione totale del capitale di debito.
In generale, quindi, Maurizi e Monacelli (2002) sostengono che in questo modo si avrebbe,
molto probabilmente, un’ulteriore riduzione della neutralità del sistema impositivo, poiché la scelta delle
basi imponibili sarebbe condizionata dalle caratteristiche di mobilità e dalle esigenze di gettito.
In conclusione, la riforma ha l’effetto di ridurre il costo del lavoro, ma l’impatto fino ad ora
prevedibile è di lieve entità (Giannini, 2002). L’incidenza fiscale sul costo del lavoro, inoltre pur
limitando l’attenzione ai soli oneri a carico del datore di lavoro, resta superiore a quella sul capitale.
1.4 RIFLESSIONI
DI VISCO SULLA NEUTRALITÀ DELLA
NORME CONTRO LA THIN CAPITALIZATION
DIT
CONFRONTATA CON LE
A detta dell’ex-Ministro delle Finanze Vincenzo Visco (2002), la riforma fiscale del 1997-1998
entrò pienamente a regime solo nel 2000 e, mentre cominciavano ad essere elaborati i primi studi e le
prime approfondite valutazioni anche a livello accademico, il Governo, entrato in carica nel giugno
2001, ha proposto radicali modifiche al suo impianto.
Come abbiamo già visto nei punti precedenti, la riforma Visco è stata caratterizzata dalla
introduzione all’IRAP e di un sistema tendente verso la DIT; ed è su questi due aspetti che si è
incentrata la polemica e sui cui maggiore è stata la confusione.
Visco (2002) sostiene che le maggiori critiche alla sua riforma, in particolare alla DIT, siano state
le seguenti:
- la DIT è un’imposta progressiva che penalizza gli investimenti a più alto rendimento;
- la DIT a causa della presenza di due aliquote altera la neutralità della imposizione;
- la DIT disincentiva gli investimenti rischiosi e nei settori innovativi;
- il sistema fiscale sancito dalla riforma del 1997 è dirigista e tende ad influenzare le scelte delle
imprese.
A queste critiche Visco (2002) risponde affermando che non sembra essere stato compreso fino
in fondo il fatto che nella prospettiva della riforma del 1997 la DIT è un sistema di imposizione, e non
un’imposta ad hoc, o un semplice incentivo fiscale per gli investimenti effettuati con capitale proprio. Il
sistema DIT rappresenta infatti una soluzione pratica alle difficoltà della transizione dei sistemi fiscali
tradizionali dei paesi industrializzati verso forme di imposizione economicamente più neutrali e più
adeguate al nuovo ambiente di concorrenza globale.
Visco continua affermando che non ha molto senso sostenere che la DIT è un’imposta
progressiva, in quanto il concetto di progressività implica una crescita dell’incidenza dell’imposta
rispetto alla base imponibile (profitti), il che non avviene nel caso della DIT, che è in sostanza un
11
prelievo variabile in relazione al diverso rendimento effettivo del capitale investito, e neutrale rispetto
alla allocazione delle risorse e alle scelte finanziarie.
Né è corretto, secondo l’ex-Ministro, affermare che un sistema di tassazione DIT penalizza gli
investimenti rischiosi. Per quanto sia vero che un prelievo sui sovraprofitti può rallentare (ma non
arrestare) il flusso di investimento nei settori che li generano, gli eventuali effetti negativi della DIT ai
fini dell’assunzione del rischio appaiono in realtà molto più incerti.
In ogni caso, in prospettiva si sarebbe anche potuto decidere di eliminare l’aliquota più elevata,
se fossero venuti meno i vincoli di gettito e/o si fosse potuto adeguatamente elevare l’aliquota base10. In
altre parole le due aliquote hanno rappresentato anche una scelta di opportunità, in generale priva – a
detta di Visco – di conseguenze economiche negative. Per quanto riguarda il secondo aspetto, vale a
dire la gradualità dell’applicazione del nuovo sistema, essa è derivata da una duplice necessità: le
potenziali perdite di gettito che sarebbero derivate dall’applicazione immediata dell’aliquota base
all’interno del rendimento ordinario del capitale proprio; la difficoltà di unificare immediatamente al
livello del 19% le aliquote sulle rendite finanziarie dato il risanamento in corso e la necessità di non
creare difficoltà al Tesoro per la collocazione del debito pubblico. Fu quindi fatta la scelta di limitare
l’applicazione dell’aliquota del 19% esclusivamente ai redditi derivanti dagli incrementi di stock di
capitale proprio11.
Il sistema era quindi incompiuto, si lamenta Visco, anche se interventi successivi ne avevano
accelerato l’andata a regime. In tale direzione andavano ad esempio l’introduzione della cosiddetta superDIT che consentiva di estendere l’applicazione dell’aliquota ridotta anche al rendimento di quote
preesistenti di capitale proprio applicando un “moltiplicatore” (che successivamente veniva anche
elevato) al valore dei nuovi investimenti in grado di affrancare parte dello stock di capitale preesistente;
o l’abolizione del vincolo, inizialmente introdotto per ragioni di cautela (gettito), che prevedeva che
l’incidenza complessiva dell’imposta calcolata applicando le due aliquote non dovesse essere inferiore al
27%, o la riduzione al 19% dell’aliquota sulle plusvalenze realizzate dalle società. Nel frattempo, con la
legge finanziaria del 2001 veniva esteso il sistema di tassazione a due aliquote anche nelle imprese
personali eliminando così la possibile penalizzazione derivante dal diverso regime giuridico e dalla
eventuale applicazione di aliquote IRPEF più elevate del 36%12.
Nel complesso l’autore conclude che la sua riforma sembra aver funzionato egregiamente,
addirittura consentendo all’Italia di diventare da un punto di vista fiscale uno dei Paesi europei
maggiormente business friendly. E la situazione, continua Visco, era destinata a migliorare ulteriormente
mano a mano che il vincolo di gettito si fosse allentato e la DIT andava a regime.
Il sistema DIT, quindi, tassando con un’unica aliquota di livello ridotto tutti i redditi di capitale
percepiti dalle persone fisiche nonché i redditi di impresa, risulta neutrale, anche in presenza della
sovraimposta sugli extra profitti (Visco, 2002).
L’ex-Ministro difende a spada tratta la sua riforma, affermando che alla neutralità della DIT si
contrappone la chiara non neutralità sia del sistema precedente alla riforma Tremonti, sia quello
prospettato dalla stessa, basato sull’introduzione di un meccanismo di controllo delle situazioni di thin
capitalization.
A tal fine ha elaborato una complessa analisi economica-matematica (Vagliasindi, Visco, 2002),
qui riportata in sintesi e ha cercato di dimostrare la neutralità e l’utilità della DIT con alcuni esempi
numerici (V. Tabella 1.4.1) ricavati dalle formule algebriche riportate più avanti.
Immaginiamo un’impresa con un attivo patrimoniale (K + D), dove K = capitale proprio, e D =
capitale da debito; con ricavi R, costi operativi C, e margine operativo MO = (R – C) (ignorando gli
ammortamenti).
In questo caso però gli effetti distorsivi complessivi dell’imposta sarebbero risultati maggiori.
Visco fa notare come in questo modo venivano favorite indirettamente le nuove imprese e i nuovi investimenti
autofinanziati (e quindi il mezzogiorno) per i quali l’aliquota ridotta si applicava invece interamente.
12 Questa norma venne soppressa dal governo Berlusconi con la Legge dei Cento Giorni.
10
11
12
Gli esempi della Tabella 1.4.1 assumono (K + D) costante (= 2000), mentre varia la sua
composizione nel modo seguente:
a) K = 2000, D = 0;
b) K = D = 1000;
c) K = 800, D = 1200;
d) K = 400, D = 1600;
e) K = 500, D = 1500;
f) K = 400, D = 1600;
g) K = 0, D = 2000;
Inoltre si ha R = 500; C = 300; MO = 200; a = MO/(K + D) = 0,1; i (il tasso d’interesse pagato
sui debiti) = 0,05. i profitti dell’impresa (? ) sono quindi pari a MO meno gli interessi passivi: IN = iD,
che per l’impresa rappresentano un costo, e sono quindi deducibili contabilmente.
Il sistema fiscale prevede sia un’imposta sui profitti (T? ) sia un prelievo sugli interessi a carico
dei percettori (TIN).
Per rendere confrontabili i diversi sistemi impositivi si assume che l’aliquota dell’imposta sulle
società (t? ) sia eguale a quella applicabile ai sovraprofitti nel sistema DIT; esiste poi un’aliquota sugli
interessi (tIN) che nel caso del sistema DIT viene posta eguale a quella che grava sul reddito ordinario
delle imprese (tD = tIN). Ai fini dell’esempio si pone inoltre t? = 0,33; tIN = 0,125; infine d*, il rapporto
tra debito e capitale proprio (d =D/K) posto come limite all’indebitamento (Thin Capitalization) viene
fissato da Visco e Vagliasindi (2002) ad un livello pari a 1,5, che è quello previsto dalla riforma tedesca.
Visco nella sua trattazione ha optato per l’esame della thin capitalization tedesca, ma per quanto riguarda
la riforma italiana, sappiamo che il rapporto tra debito e capitale proprio è fissato a quattro a uno.
Rimane comunque molto interessante esaminare i risultati dell’analisi dell’ex-Ministro, il quale
arriva ai risultati esposti nella Tabella 1.4.1 passando attraverso lo svolgimento delle formule che
seguono.
Data un’impresa con le caratteristiche indicate in precedenza e nella Tabella 1.4.1, i profitti
risultano
? = a (K + D) – iD = aK + D (a – i), con iD = IN
[1]
applicando i diversi sistemi di tassazione si ha:
A) SISTEMA PRE RIFORMA 1997
[2]
t? = t [a (K + D) – iD]
l’imposizione sugli interessi TIN è data da:
[3]
TIN = tIN iD
In conseguenza l’incidenza complessiva sui redditi di capitale (? + IN) è data da:
[4]
TΠ + TIN t [a ( K + D ) − i ] + t IN iD
id (t − t IN )
=
=t−
Π + IN
a( K + D )
a (1 + d )
13
essa quindi è sistematicamente decrescente al crescere del grado di indebitamento dell’impresa
(d); ciò è dovuto al fatto che l’aliquota sugli interessi è più bassa di quella sui profitti, il che rende meno
costoso il capitale di debito.
B) ANALOGAMENTE NEL CASO DELLA DIT SI HA :
Tp = tD i K + t (? - iK)
[5]
e
TIN = tD iD
[6]
Quindi:
TΠ + TIN t D i ( K + D ) + t ( Π − iK )
=
Π + IN
a( K + D )
[7]
che dopo alcuni passaggi si riduce a:
it D t (a − i )
+
a
a
Vale a dire ad una costante, cosa che conferma la neutralità del sistema, dimostra Visco (2002), e
cioè che il sistema DIT non interferisce sulle scelte finanziarie delle imprese, dal momento che esso
impone lo stesso onere al capitale proprio e a quello di debito.
[8]
C) INFINE, PER QUANTO RIGUARDA IL SISTEMA CON INDEDUCIBILITÀ DEGLI INTERESSI, QUALORA
SI SUPERI UN CERTO GRADO DI INDEBITAMENTO (D*) CON (D > D*), SI OTTIENE:
[9]
[10]
T? = t[a (K + D) – iD] + t(iD – d*Ki)
e
TIN = tIN iD
14
Quindi:
TΠ + TIN t [ a( K + D ) − iD ] + t (iD − d * iK ) + t IN D
=
Π + IN
a ( K + D)
che si riduce a:
[11]
t−
i (td * −t IN d )
a(1 + d )
che dipende da d, oltre che da d*. Visco arriva dunque a sostenere che il sistema non è neutrale,
né lo diventa se si pone t = tIN , contrariamente a quanto accadeva nel caso della [4]. Dalle formule qui
riportate sono ricavati i dati contenuti negli esempi della Tabella 1.4.1.
Anche se le formule proposte sopra danno una spiegazione precisa della differenza di neutralità
tra la DIT e la nuova riforma, i risultati sintetizzati nella Tabella 1.4.1 sono di qualche interesse: risulta
infatti, che comunque vari la struttura finanziaria dell’impresa, la DIT è neutrale in quanto l’incidenza
complessiva del prelievo a livello di sistema rimane costante ad un livello intermedio tra l’aliquota
prevista per il reddito normale e quella sui sovraprofitti. Molto variabile, e quindi distorsiva è invece
l’incidenza negli altri due sistemi: sempre decrescente al crescere del debito nel caso di limitata
possibilità di deduzione degli interessi (sistema pre riforma 1997), e prima decrescente e poi crescente
nell’ipotesi di introduzione in quel sistema di una misura contro la thin capitalization. In quest’ultimo
caso, l’incidenza effettiva può superare quella formale massima (cioè quella corrispondente all’aliquota
dell’imposta sulle società) configurando quindi una situazione di vera e propria doppia imposizione
degli interessi.
L’esercizio teorico riportato nella tabella fa comprendere altresì che a parità di gettito la DIT è
più favorevole ai profitti (alle imprese) di quanto non risulterà il nuovo sistema, in quanto il gettito
complessivo è ripartito in modo equilibrato tra profitti ed interessi; il nuovo sistema, invece,
determinerà un vantaggio per l’intermediazione finanziaria. Per ultimo Visco (2002) sostiene che il
sistema proposto dalla riforma è lungi dal rendere più neutrale la tassazione, e peggiora la situazione
sotto tutti i punti di vista: neutralità, ragionevolezza, semplicità.
L’autore conclude dicendo che le incertezze e le difficoltà di comprensione, “derivano, al di là
delle polemiche politiche, da una scarsa consapevolezza delle necessità logiche e pratiche connesse alla
costruzione dei sistemi tributari moderni”.
1.5 IL CARICO FISCALE SUI PROFITTI: ALCUNE VALUTAZIONI COMPARATIVE
In una interessante trattazione di Maurizi e Monacelli (2002) si effettuano alcune valutazioni
circa l’entità del carico fiscale gravante sui profitti delle imprese nei regimi disegnati dalla due riforme.
La fiscalità influisce sull’attività delle imprese in vari modi; questi vengono analizzati utilizzando
aliquote di diversa natura, che sono definite in funzione degli aspetti economici su cui si vuole
concentrare l’attenzione.
Per raffrontare gli effetti esercitati dai regimi delle riforme Visco e Tremonti, Maurizi e
Monacelli (2002) hanno considerato le aliquote utilizzate più di consueto: a) le aliquote legali, che
forniscono indicazioni circa la percentuale del prelievo operato sugli utili prescindendo dalle potenziali
diversità nella definizione dell’imponibile; b) le aliquote marginali effettive forward-looking, che
condensano gli effetti delle aliquote e delle regole di determinazione degli imponibili (anche in funzione
delle scelte di finanziamento), calcolando il peso del prelievo sul rendimento ipotetico di un
investimento marginale che l’impresa volesse eseguire in prospettiva; c) le aliquote medie effettive
backward-looking, che misurano l’impatto delle imposte storicamente registrato sugli utili delle imprese. In
quest’ultimo caso l’analisi retrospettiva ha riguardato necessariamente solo gli effetti della riforma
15
Visco; per stimare gli effetti della riforma Tremonti, secondo i medesimi indicatori, le due autrici
(Maurizi e Monacelli, 2002) hanno provveduto a simularne l’applicazione agli anni passati.
1.5.1 IL CONFRONTO SULLE ALIQUOTE LEGALI
La riforma Tremonti prevede una modifica dell’aliquota legale ordinaria gravante sui profitti,
che negli ultimi anni è scesa dal 36 fino al 33 per cento nel 2004, e l’abolizione della DIT e dell’IRAP.
Fino al 2001, in base al meccanismo della DIT e all’applicazione dell’IRAP, il valore teorico
complessivo dell’aliquota legale gravante sui profitti poteva variare in un intervallo compreso tra il 40,25
(36 per cento di IRPEG e 4,25 di IRAP) e il 23,25 per cento (19 di IRPEG e 4,25 di IRAP). Con la
proposta formulata nella delega Tremonti, l’aliquota passerebbe a un valore pari al 37,25, includendo
anche l’IRAP sulla componente degli utili, e al 33 per cento al momento della sua completa abolizione.
Il confronto tra le aliquote legali dei due regimi deve tenere conto della struttura delle aliquote
che la DIT genera in funzione della quota di utili agevolabile (Fig. 1.5.1).
Fig. 1.5.1: Aliquote medie legali sui profitti in funzione della quota di utile agevolato ai fini DIT
(punti percentuali, per le aliquote; frazioni di punto, per la quota di utile)
Fonte: Maurizi, Monacelli (2002)
Il nuovo valore dell’aliquota legale costituisce un aumento di aliquota sugli utili per quelle
imprese che avevano usufruito in misura rilevante della DIT, in particolare per quelle la cui aliquota
media legale dell’IRPEG era già scesa sotto il 33 per cento (Maurizi e Monacelli, 2002). Nel 2001,
tenendo conto dell’effetto del moltiplicatore, si tratterebbe di quelle con un utile agevolato intorno al
12-13 per cento dell’utile complessivo. Tra queste dovrebbero ricadere le più patrimonializzate e le
meno indebitate; in particolare, la penalizzazione potrebbe più facilmente riguardare le imprese “di
nuova costituzione” (nate, vale a dire, dopo l’entrata in vigore della DIT), per le quali è stata applicata
sin dall’inizio una DIT “piena” (giacché il calcolo dell’utile agevolato avviene con riferimento a tutto il
capitale proprio).
Simmetricamente, sarebbero relativamente avvantaggiate dal nuovo regime le imprese
caratterizzate da una quota di utile agevolabile a fini DIT di dimensioni contenute: per queste, la perdita
del vantaggio causata dall’abolizione della DIT troverebbe più facilmente compensazione nella
riduzione dell’aliquota ordinaria gravante sulla quota restante dell’utile (e nell’eventuale abolizione
dell’IRAP).
16
1.5.2 IL CONFRONTO SULLE ALIQUOTE MARGINALI EFFETTIVE FORWARD LOOKING
La misurazione del grado di neutralità sulle scelte finanziarie associato ai diversi regimi fiscali
richiede l’utilizzo di aliquote che misurino il prelievo ponendosi nella posizione che l’imprenditore
assume quando deve valutare, in prospettiva, una scelta di investimento, guardando sia alle aliquote
legali sia agli aspetti della deducibilità dei costi delle varie fonti di finanziamento.
Generalmente si ricorre ad aliquote marginali effettive di natura prospettica (forward looking)
basate sul calcolo, per dato tasso di rendimento netto finale, del costo d’uso del capitale relativo alle tre
principali forme di finanziamento (debito, nuove azioni, autofinanziamento)13.
Quest’ultimo coincide con il rendimento lordo minimo di un investimento marginale (il costo
del capitale per l’impresa) necessario per garantire un rendimento netto, di ammontare prefissato,
all’investitore finale. I fattori che si interpongono tra questi due rendimenti (“cunei fiscali”) si
riferiscono al carico impositivo gravante sulle imprese che effettuano l’investimento (imposte sui redditi
d’impresa) e a quello gravante sui risparmiatori che finanziano l’investimento (imposta personale sui redditi o
regimi sostitutivi). Ai fini delle valutazioni Maurizi e Monacelli (2002) hanno deciso di concentrare
l’analisi sulla sola componente del cuneo derivante dal regime fiscale che interessa gli investitori. Per
semplicità, assumono assenza d’inflazione, trascurano eventuali agevolazioni, prescindono dai
trattamenti differenziati riservati a forme d’investimento alternative (macchinari, fabbricati, ecc.), non
considerano l’effetto dovuto al regime fiscale degli ammortamenti (ipotizzando implicitamente che
l’ammortamento fiscale coincida con quello economico). Le aliquote marginali effettive sono ottenute
come rapporto tra i cunei fiscali e il costo del capitale.
Per valutare l’impatto delle riforme formulate in questi anni sono stati calcolati sia il costo del
capitale che le aliquote marginali effettive da esse originati su un investimento marginale finanziato con
debito, autofinanziamento o emissione di nuove azioni. I regimi fiscali presi in considerazione da
Maurizi e Monacelli sono i seguenti:
(1) pre-riforma Visco; (2) riforma Visco nella versione originaria del 1998 (con il vincolo di
un’aliquota media minima); (3) riforma Visco nella versione applicata nel 2001 (con aliquota IRPEG
ordinaria scesa dal 37 al 36 per cento, senza vincolo di aliquota media minima e con un moltiplicatore
pari a 1,4); (4) riforma Visco nella versione cosiddetta “a regime” che si sarebbe applicata dal 2003 (con
aliquota del 35 per cento); (5) riforma Tremonti (con aliquota IRPEG ordinaria al 33 per cento) senza
abolizione dell’IRAP; (6) riforma Tremonti con l’abolizione dell’IRAP; (7) riforma Tremonti con
abolizione dell’IRAP e indeducibilità parziale degli interessi passivi. I risultati ottenuti sono riportati
nella Figura 1.5.2.
Il rendimento lordo calcolato corrisponde a un rendimento marginale netto da garantire
all’investitore pari al 5 per cento. Guardando alla colonna “costo d’uso”, si evince la dimensione del
cuneo fiscale generato dall’imposizione sulle imprese sottraendo dal rendimento lordo il valore
ipotizzato del rendimento netto finale (5 per cento). Le aliquote esprimono il cuneo in termini
percentuali rispetto al rendimento lordo.
Per i primi anni di introduzione della riforma Visco, Maurizi e Monacelli (2002), hanno reso
necessario distinguere il calcolo delle aliquote in base alla quota di utile agevolato ai fini della DIT (q), in
modo da tenere conto implicitamente del vincolo posto all’aliquota media minima: una volta raggiunto
il limite infatti, l’aliquota marginale agevolata di fatto aumenta fino a raggiungere la soglia minima del 27
per cento quando tutto l’utile può essere ricondotto all’impiego di capitale proprio.
La metodologia è sostanzialmente quella originariamente elaborata da King e Fullerton nel 1984 e di cui è già stato trattato
nel Par. 1.3.1.
13
17
La riforma Visco, grazie all’introduzione dell’IRAP, non deducibile dall’IRPEG, ha innalzato
l’aliquota marginale sul debito, rendendola positiva (superiore al 6 per cento); ha contemporaneamente
ridotto quella sull’impiego del capitale proprio (intorno al 30 per cento; al di sotto quando il vincolo
dell’aliquota media non è stringente e al di sopra quando invece lo è).
Le modifiche apportate alla DIT nella fase transitoria hanno prevalentemente mirato a
velocizzare l’entrata a regime della DIT, ossia la sua applicazione nella versione “piena” anziché
“incrementale”. A tal fine sono stati adottati nel 2000 e nel 2001 i cosiddetti moltiplicatori
(rispettivamente pari a 1,2 e 1,4). Questi non rilevano ai fini di calcoli qui effettuati, per loro natura
marginali. Per il 2002, si è mantenuto lo stesso regime in vigore nell’anno precedente.
Il fenomeno della variabilità dell’aliquota marginale in funzione della quota di utile agevolato
scompare nel 2001, con la soppressione del vincolo dell’aliquota media minima. In quell’anno, la
18
riduzione dell’aliquota legale dal 37 al 36 per cento non modifica in maniera sostanziale l’aliquota
marginale sul debito e riduce di poco quella sul capitale proprio. Un effetto simile, si sarebbe
ulteriormente verificato nel 2003, quando l’aliquota legale fosse stata portata, come già deliberato, al 35
per cento. La disparità di trattamento tra capitale proprio e debito si sarebbe mantenuta, anche se con
dimensioni estremamente ridotte rispetto a quella che caratterizzava il regime pre-riforma Visco.
Per un’analisi delle aliquote marginali effettive si rimanda al Par. 1.3.1, il quale esamina
l’andamento storico e paragona la DIT alla riforma Tremonti.
1.5.3 IL CONFRONTO SULLE ALIQUOTE MEDIE EFFETTIVE BACKWARD LOOKING: UNA SIMULAZIONE
DELLE DUE RIFORME
Per effettuare un confronto tra i regimi disegnati dalle due riforme in termini di prelievo medio
gravante sui profitti si possono utilizzare aliquote medie effettive di tipo backward-looking. Si tratta in
questo caso di indicatori di incidenza del prelievo basati su analisi retrospettive del carico fiscale; le
informazioni sono generalmente desunte dai bilanci delle imprese.
Maurizi e Monacelli (2002) espongono un confronto tra le due riforme analizzando i risultati di
alcuni esercizi tratti dalla Centrale dei Bilanci.
L’analisi dei dati ricostruisce aliquote medie effettive “storiche” solamente fino al 2000. Le
osservazioni riguardano, in particolare, il periodo 1994-2000. Le autrici hanno utilizzato un campione
chiuso di circa 10.000 imprese (9.877) appartenenti ai settori manifatturiero, delle costruzioni, di
trasporti e telecomunicazioni; di queste hanno considerato le sole imprese in utile (più di 8.000, in
numero variabile di anno in anno).
Sulla base delle variabili disponibili sono stati ricostruiti gli imponibili fiscali e le imposte dirette,
effettive e teoriche, corrispondenti ai regimi in vigore in ciascun anno; l’utile rilevante a fini fiscali è
stato approssimato dall’utile corrente rilevato dai bilanci con opportune correzioni. Le imposte effettive
sono state calcolate rettificando le imposte registrate in bilancio per eliminare fattori straordinari che
potrebbero aver alterato la dinamica del prelievo rispetto a quella dell’utile fiscale cui si riferiscono. Le
imposte definibili “teoriche” sono state invece ottenute dagli imponibili applicandovi le relative aliquote
legali. Le aliquote effettive e teoriche sono state calcolate rapportando il prelievo al medesimo utile
fiscale stimato.
Per evitare anomalie negli andamenti delle aliquote dovuti alla variabilità nelle code della
distribuzione, le due autrici hanno scelto di calcolare le medie sulla metà delle imprese che si addensano
intorno alla mediana della distribuzione (dopo aver escluso, cioè, le imprese contenute nel primo e
nell’ultimo quartile).
Nel confrontare il carico fiscale derivante dalle varie categorie di tributi o insiemi di tributi, le
imprese che cadono nei due quartili centrali della distribuzione non sono in generale le medesime. Per
ottenere raffronti omogenei, è stato scelto pertanto di considerare un’aliquota di riferimento in base alla
quale operare la selezione delle imprese e di ricalcolare le aliquote medie per gli altri sottoinsiemi di
imposte sulle medesime imprese. In particolare, la selezione è stata effettuata con riferimento
all’aliquota che misura l’incidenza teorica del complesso dei tributi.
Il regime Tremonti è stato costruito prevedendo l’applicazione dell’aliquota IRPEG nella misura
del 33 per cento, un abbattimento del 50 per cento delle plusvalenze e minusvalenze registrate in
bilancio e l’eliminazione delle rivalutazioni e svalutazioni effettuate in ciascun anno. Per tenere conto di
eventuali modifiche al regime di deducibilità degli interessi passivi sono stati costruiti tre possibili
scenari: nel primo si mantiene un regime di piena deducibilità degli interessi passivi; nel secondo si
assume una indeducibilità nella misura del 10 per cento; nel terzo, nella misura del 20 per cento. È stato
inoltre annullato l’effetto derivante dal regime della DIT. L’IRAP è stata calcolata secondo i criteri già
descritti. Si è presa in considerazione anche l’ipotesi di applicazione dell’IRAP solo sull’80 per cento del
costo del lavoro.
Con riferimento allo stesso triennio, si è considerata l’applicazione della riforma Visco nella
versione in cui si sarebbe presumibilmente evoluta una volta a regime. In particolare, si è ipotizzata
l’applicazione della DIT “piena” (che commisura la riduzione di aliquota a tutto il patrimonio netto
19
agevolabile ai fini della DIT), un’aliquota ordinaria dell’IRPEG pari al 35 per cento (livello che sarebbe
stato in vigore a partire dal 2003), un rendimento “normale” del capitale proprio pari al 5 per cento.
Va ricordato che il patrimonio netto agevolabile ai fini della DIT esclude il valore delle
immobilizzazioni finanziarie diverse dalle partecipazioni e dai finanziamenti verso società collegate o
controllate che, in base alla legge, non godono dell’agevolazione.
Le imposte teoriche così ottenute per i due regimi sono state rapportate all’utile fiscale che
possiamo definire “storico”, ossia quello utilizzato nel calcolo delle aliquote storicamente osservate del
triennio (piuttosto che all’utile che si è ottenuto considerando le deduzioni eventualmente ammesse dai
regimi simulati nei diversi scenari). Mantenendo la parità di imponibile, è possibile verificare gli effetti
delle modifiche introdotte in ciascun scenario; anche se la dimensione relativa degli effetti è influenzata
dall’andamento di tale utile, tuttavia questo procedimento consente di effettuare comparazioni
omogenee. In tal modo il divario di aliquota che l’esercizio quantifica è attribuibile alle revisioni sia
dell’aliquota d’imposta, sia dei criteri di determinazione della base imponibile.
Con riferimento al solo anno 2000, è stata inoltre simulata l’applicazione degli incentivi agli
investimenti previsti dai due regimi fiscali: la “Tremonti bis” e la “legge Visco”.
I risultati relativi al regime Tremonti sono illustrati nella Fig. 1.5.2. vista in precedenza.
Mantenendo un regime di deducibilità piena degli interessi passivi si osserva innanzitutto che le
modifiche alla determinazione dell’imponibile derivanti dalla parziale irrilevanza a fini fiscali di plus e
minusvalenze non avrebbero alterato sostanzialmente l’incidenza fiscale dell’IRPEG nello scorso
triennio; quest’ultima si mantiene intorno al livello del 33 per cento corrispondente all’aliquota legale.
Particolarmente elevato appare lo sgravio implicito nell’incentivo offerto dalla “Tremonti-bis”, che
ammonta a quasi 6 punti dell’utile fiscale “storico”. Appare evidente l’aggravio collegato all’IRAP che,
anche limitatamente alle componenti su utili e interessi passivi, porterebbe l’aliquota complessiva
intorno al 42-43 per cento. L’indeducibilità degli interessi passivi aumenterebbe l’imposta teorica e
quindi le aliquote medie calcolate sugli imponibili “storici”. Con riferimento alla sola IRPEG, le
aliquote calcolate, ad esempio, sui bilanci dell’anno 2000, passerebbero al 37 e al 40 per cento circa, a
seconda che si consideri una deducibilità del 10 o del 20 per cento. Includendo nel prelievo anche
l’IRAP su utili e interessi, si arriverebbe ad aliquote intorno al 45 e al 48 per cento, rispettivamente. Un
secondo tipo di valutazioni che possono essere tratte dall’esercizio riguarda il peso che, sempre in
termini dell’utile “storico”, è attribuibile agli interventi in materia di IRAP. L’abolizione del 20 per cento
dell’IRAP sul costo del lavoro ridurrebbe l’aliquota complessiva, nel 2000, di circa 3,5 punti percentuali;
l’abolizione dell’intera IRAP sul lavoro di ulteriori 14,5 punti; quella dell’IRAP tout court, di altri 8,5
punti.
Fig. 1.5.3: “RIFORMA VISCO” a regime: il peso dei tributi (punti %)
70
IRPEG+IRAP
65
IRPEG+IRAP+Legge
Visco
60
IRPEG+IRAP-20% IRAP
LAVORO
55
50
IRPEG+IRAP-20% IRAP
LAVORO+Legge Visco
45
IRPEG+IRAP-IRAP
LAVORO
40
35
IRPEG+IRAP-IRAP
LAVORO+Legge Visco
30
IRPEG
25
1998
1999
2000
IRPEG+Legge Visco
Fonte: Maurizi, Monacelli (2002)
20
Con riferimento al regime Visco con DIT piena, il livello complessivo del prelievo sarebbe inferiore
(Fig. 1.5.3). Confrontando le aliquote IRPEG applicate nel 2000 e quelle simulate per lo stesso anno
secondo la DIT piena, si può verificare che in tale anno i margini di riduzione del prelievo offerti dalla
progressiva entrata a regime della DIT ammontavano ancora a oltre 4 punti di aliquota. Dalla
simulazione emerge infatti che l’aliquota IRPEG si sarebbe attestata nel triennio intorno al 30-31 per
cento.
L’applicazione della “Legge Visco” nel solo 2000 avrebbe dato luogo a uno sgravio molto meno
generoso della “Tremonti-bis”, a causa del vincolo di finanziamento cui l’agevolazione è sottoposta;
avrebbe ridotto l’incidenza dell’imposta di 1,7 punti percentuali. Naturalmente, resta analogo a quanto
già illustrato l’impatto del prelievo delle varie componenti dell'IRAP.
Dal confronto fra le simulazioni effettuate, Maurizi e Monacelli (2002) rilevano concludendo la
loro analisi che l’incidenza fiscale media complessiva derivante dal regime proposto dalla delega
Tremonti, con l’aliquota dell’IRPEG al 33 per cento, interessi passivi pienamente deducibili e
nell’ipotesi di applicazione dell’IRAP sull’80 per cento del costo del lavoro, risulterebbe sostanzialmente
analoga a quella che si sarebbe avuta dall’applicazione della riforma Visco, nella versione in cui si
sarebbe evoluta una volta a regime, cioè con un meccanismo della DIT esteso a tutto il patrimonio
netto nelle imprese e con un’aliquota ordinaria dell’IRPEG pari al 35 per cento. La Tabella 1.5.4
riassume le conclusioni delle due autrici, illustrando un confronto tra i due regimi.
Tab. 1.5.4: I due regimi a confronto: l’incidenza media complessiva dell’IRPEG e dell’IRAP
(punti %)
Anni
1998
1999
2000
Numero
Osservazioni
4.204
4.184
4.086
Incidenza fiscale
simulazione
simulazione
"Visco"
"Tremonti"
58,22
56,03
57,01
57,46
55,35
57,03
Fonte: Maurizi, Monacelli (2002)
1.6 CONSIDERAZIONI
“TREMONTI”
FINALI DI UN ’ANALISI ECONOMICA DELLA RIFORMA FISCALE
La vastità e la complessità della riforma della tassazione del reddito di impresa, non consentono
facili sintesi e conclusioni. In precedenza abbiamo trattato gli aspetti principali della riforma, e abbiamo
notato che, a fianco di alcuni aspetti ampiamente discutibili, ve ne sono altri indubbiamente
apprezzabili.
Tra gli aspetti critici, sono concordi pressoché tutti gli esperti, vi è l’abolizione della DIT
(Arachi, 2002; Giannini, 2002; Giannini, Guerra, 2003; Guerra, 2002; Maurizi, Monacelli, 2002; Visco,
2002). A tal proposito si potrebbe discutere se un sistema DIT sia preferibile o meno ad uno ad
aliquota unica. Il vantaggio del primo sistema, come si è visto, è quello di essere più neutrale con
riferimento alle scelte finanziarie delle imprese, e di avere incorporato un meccanismo automatico di
riduzione dell’aliquota media. Il vantaggio del secondo è di permettere un’aliquota più bassa sugli extraprofitti, consentendo per certi aspetti una maggiore competitività complessiva del sistema nel contesto
di crescente integrazione internazionale. Secondo Giannini (2002), tuttavia, la riforma non è ancora, per
il momento, in grado di consentire all’insieme delle società di ottenere un guadagno competitivo, posto
che l’aliquota legale continua a rimanere di diversi punti percentuali superiore alla media europea.
21
Continua l’autrice affermando che il piccolo recupero in termini di aliquota14 si potrebbe ritenere
sufficiente a giustificare la penalizzazione di tutte quelle imprese che negli anni appena trascorsi
avevano iniziato ad apprezzare i benefici DIT solo attraverso una attenta analisi.
Per quanto riguarda il carico fiscale complessivo, il bilancio per le imprese non appare quindi
roseo (Giannini, Guerra, 2002).
Anche Guerra (2002) si pone come fermamente contraria all’abolizione della DIT. Essa cerca di
difendere le accuse mosse contro la DIT dal Ministro Tremonti, secondo il quale la principale
giustificazione del minor gettito dell’IRPEG nel 2001 (per 3,1 miliardi di euro) è imputabile alla DIT e
alla SUPERDIT 15, “incentivi pensati per favorire la grande impresa” mentre si è continuato a “succhiare
il sangue alle piccole e medie imprese”. Guerra sostiene che della DIT si avvalevano tutte le imprese,
grandi e piccole. Ne beneficiano in misura maggiore quelle che si finanziano con capitale proprio e
quindi, forse, le più grandi, ma le altre (quelle che si indebitano) hanno un vantaggio fiscale ancora
maggiore. Quindi la sua analisi respinge le accuse del ministro Tremonti alla Dual Income Tax.
Una novità di particolare rilievo della riforma è la possibilità di optare per un consolidato degli
imponibili fiscali tra società del gruppo. Questa previsione contribuisce ad omogeneizzare la normativa
italiana con quella di altri paesi. Come si è visto, infatti, nella UE solo Italia, Belgio e Grecia non
consentono alcuna forma di compensazione fra utili e perdite di società del gruppo. Ma questa riforma
non adegua (né potrebbe) tutte le regole del prelievo italiano all’evoluzione in atto nei paesi europei:
“importa” da altri ordinamenti una serie di istituti, relativi soprattutto alla tassazione dei gruppi di
imprese. La normativa proposta è più favorevole di quella solitamente adottata negli altri paesi, in
quanto la possibilità di optare per il consolidato è estesa alle controllate estere. Tuttavia, come rilevato
da Giannini (2002), la normativa esistente in Italia consente di conseguire gli stessi risultati con
strumenti più flessibili e diffusi, quale in particolare la possibilità di svalutare le partecipazioni, anche su
partecipate estere. Nel confronto fra la vecchia e la nuova normativa, dunque, quest’ultima, anche se
preferibile sotto molti aspetti, risulta essere di fatto più restrittiva perché limitata ai gruppi.
Meriterebbe però attenzione, rilevano Giannini e Guerra (2002), la coerenza fra il nuovo sistema
e la recente proposta avanzata dalla Commissione europea (nel rapporto del 2001 e nella relativa
comunicazione al Consiglio) di adottare un sistema di tassazione societaria a base comune consolidata
in ambito UE, anziché in ambito nazionale, con successiva ripartizione dei profitti secondo criteri
predefiniti, quali la localizzazione dei fattori produttivi e delle vendite. La nuova normativa italiana,
invece, prevede la possibilità di consolidamento anche oltre i confini della UE, ma con regole diverse
che potrebbero perciò risultare discriminatorie.
Comunque, Giannini (2002) afferma che, al di là delle valutazioni di merito sulla bontà del
nuovo sistema, rispetto a quello precedente, non si dovrebbero cambiare così di frequente e
radicalmente elementi strutturali del sistema di imposizione delle società. A parte i costi di
aggiustamento e di transizione che ciò comporta, vi sono i costi imposti alle imprese che hanno
compiuto scelte basandosi su parametri fiscali in prospettiva non più validi.
In conclusione, a fronte del vantaggio potenzialmente attribuito ai gruppi e alle holding, non
sembra esservi un vantaggio chiaro e generalizzato per la totalità delle società e molte di queste si
troveranno a pagare di più dopo la riforma, per l’abolizione della DIT, per la parziale indeducibilità
degli interessi passivi, per l’indeducibilità delle minusvalenze su partecipazioni. In alcuni casi si tratterà
del venir meno di alcuni meccanismi elusivi, resi possibili dalla precedente normativa, e la cui abolizione non
può che essere vista con favore. In altri, tuttavia, ad esempio quando i maggiori oneri sono imputabili
all’abolizione della DIT, gli aggravi di imposta che alcune imprese dovranno sopportare sono ben poco
giustificabili. In ogni caso, la profonda diversità fra il regime precedente e quello contenuto nella
riforma comporterà vantaggi o costi diversi per le diverse società e cambierà in modo significativo le
strategie che le imprese dovranno seguire se vogliono minimizzare i propri oneri fiscali.
La nuova IRES, con aliquota del 33%, sommata all’IRAP, immutata al 4,25%, darà luogo a un prelievo uniforme sugli utili
societari del 37,25%; quindi si tratta di una piccola riduzione di un punto percentuale dal 38,25 al 37,25%.
15 Si ricordi che la SUPERDIT è un’agevolazione alle imprese che si quotano con un patrimonio inferiore a 250 milioni di
euro.
14
22
1.7 COMPETITIVITÀ DEL NUOVO SISTEMA NEL CONTESTO INTERNAZIONALE
Uno degli obiettivi centrali della riforma è stato quello di rendere più competitivo il sistema in
ambito internazionale. Anche questo obiettivo può essere valutato con riferimento al benchmark della
neutralità: a livello internazionale un sistema è neutrale se applica la stessa imposta indipendentemente
dalla scelta di dove investire (all’interno o all’estero), come investire, come finanziare l’investimento,
dove allocare la base imponibile, e così via.
1.7.1 LA CONVENIENZA A SPOSTARE LA BASE IMPONIBILE
In presenza di un sistema di separate accounting, secondo cui i redditi generati da società che
operano in più stati membri sono valutati in base alle regole contabili e fiscali del paese fonte del
reddito, vi è una certa possibilità, e convenienza, a spostare i profitti, piuttosto che i fattori produttivi,
da una giurisdizione con più alta aliquota ad una con aliquota inferiore. Ciò che rileva, ai fini di questa
convenienza, è l’aliquota legale che non a caso si è rivelata uno degli strumenti più attivamente utilizzati
dai vari paesi per competere fiscalmente e attirare base imponibile e gettito, a scapito di altri paesi.
Secondo Giannini (2002), l’esigenza di avere un‘aliquota legale in linea (o addirittura più
vantaggiosa) di quella di altri paesi rende complesso il mantenimento di un sistema a doppia aliquota,
come la DIT. A parità di base imponibile, infatti, un sistema di questo tipo necessita di un’aliquota sui
sovraprofitti più elevata di quella che sarebbe necessaria per ottenere lo stesso gettito con un sistema ad
aliquota unica. Ciò può indurre le società più mobili e profittevoli a spostare la propria base imponibile
in paesi a minore tassazione legale.
Ciò premesso, il progresso che la nuova riforma fa, nella direzione di ridurre l’aliquota legale è
molto piccolo rispetto alla svolta del 1998. Fino a quella data l’Italia si era mossa in controtendenza
rispetto agli altri paesi: come si nota dalla Tabella 1.7.1, l’aliquota era molto inferiore alla media europea
nel 1980, ed è aumentata progressivamente nel corso degli anni ’80 e nella prima metà degli anni ’90,
proprio mentre aumentava la concorrenza internazionale e tutti gli altri paesi la riducevano. Con la
riforma del 1998 torniamo abbastanza in linea con gli altri paesi; la riduzione dell’aliquota è di circa 12
punti percentuali e continua a ridursi, in base alla legislazione varata dal governo precedente, fino al
39,25% (inclusa l’IRAP) nel 2003.
Tabella 1.7.1: Le aliquote legali (nazionali e locali) di imposizione societaria nella UE
Paesi
Belgio
Danimarca
Francia
Germania
Irlanda
Italia (max)
Riforma
Lussemburgo
Olanda
Portogallo
Spagna
Regno Unito
Grecia
Austria
Finlandia
Svezia
Media UE (senza Italia)
1980
0,48
0,37
0,50
0,617
0,45
0,363
1997
1998
1999
2000
2003
0,4017
0,34
0,3667
0,551
0,36
0,532
0,4017
0,34
0,3667
0,543
0,32
0,4125
0,4017
0,32
0,3667
0,497
0,28
0,4125
0,4017
0,32
0,3667
0,497
0,24
0,4125
0,4017
0,30
0,33
0,384
0,125
0,3925
0,3725
0,3745
0,35
0,352
0,35
0,30
0,35
0,34
0,29
0,28
0,3236
0,455 0,390 0,3745 0,3745 0,3745
0,46 0,35 0,35 0,35 0,35
0,512 0,376 0,376 0,376 0,352
0,33 0,35 0,35 0,35 0,35
0,52 0,31 0,31 0,30 0,30
0,40 0,40 0,40 0,40
0,34 0,34 0,34 0,34
0,28 0,28 0,28 0,29
0,28 0,28 0,28 0,28
0,4694 0,3711 0,4694 0,4694 0,4694
23
Fonte: Giannini (2002)
L’aliquota resta ancora elevata rispetto alla media degli altri paesi, anche per la continua
riduzione che si registra altrove. La nuova riforma, che porta l’aliquota complessiva al 37,25, migliora di
poco la situazione.
1.7.2 LA LOCALIZZAZIONE DEGLI INVESTIMENTI
Le decisioni di localizzazione degli investimenti sono funzione delle imposte che l’impresa si
attende di pagare sia sui profitti normali, sia su quelli che eccedono questa soglia. Mentre per la
decisione di “quanto” investire hanno importanza soprattutto le aliquote effettive su un investimento
marginale (le aliquote marginali effettive presentate nel precedente paragrafo), per la decisione di
“dove” investire rilevano maggiormente le aliquote su investimenti in grado di generare extra – profitti:
le aliquote medie effettive. Queste aliquote risentono maggiormente, e in modo crescente al crescere
degli utili, dell’aliquota legale, posto che al crescere della redditività perdono di peso le deducibilità
dall’imponibile (per interessi passivi e quote di ammortamento, in primo luogo).
L’esigenza di avere una aliquota legale in linea (o addirittura più vantaggiosa) di quella di altri
paesi e la difficoltà di mantenere un sistema tipo la DIT dipendono dunque non solo dal timore che i
profitti migrino verso giurisdizioni meno tassate, ma anche dagli effetti negativi che aliquote più elevate
sui sovra profitti potrebbero avere sulle decisioni di localizzazione degli investimenti. L’Italia è il paese
meno tassato se si osserva l’aliquota sull’investimento marginale, mentre si colloca in una posizione
intermedia, osservando le aliquote medie effettive nell’ipotesi di un rendimento sull’investimento del 20
per cento. Con la riforma, come si è visto, l’imposizione sull’investimento marginale tende ad
aumentare, mentre l’aliquota legale cala; si restringe dunque la forbice tra il valore attuale
dell’imposizione attesa su un investimento marginale e su investimenti infra marginali. Ma l’aumento del
prelievo a livelli bassi di profittabilità è più consistente della riduzione che si osserva per livelli di
profittabilità elevati. Detto altrimenti, ’laliquota marginale effettiva aumenta notevolmente mentre il
beneficio in termini di aliquote medie effettive è di entità limitata, essendo dovuto solo alla riduzione di
due punti dell’aliquota legale, e si osserva solo per livelli di profittabilità molto elevati. La riforma, si
esprime la Giannini (2002), non sembra in grado di fornire uno stimolo fiscale all’investimento in Italia
da parte di società estere.
1.7.3 IL TRATTAMENTO DEI REDDITI TRANSFRONTALIERI
Il campo in cui la nuova riforma introduce un vantaggio competitivo di rilievo per l’Italia,
apprezza positivamente Giannini (2002) non è tanto nella immediata e significativa riduzione delle
aliquote legali e medie, che come abbiamo visto è ben poca cosa, quanto nell’estensione del regime di
esenzione ai dividendi e alle plusvalenze derivanti da partecipazioni estere. Più che avvantaggiare in
modo generalizzato il mondo delle imprese, il nuovo sistema consentirà opportunità di particolare
interesse soprattutto per le società holding di partecipazioni operanti all’estero.
Con riferimento ai dividendi transfrontalieri, e limitando l’attenzione al confronto con i paesi
europei, che adottano in larga parte l’esenzione, il sistema previsto nella riforma si attesta tra quelli più
vantaggiosi in ambito UE. La maggioranza dei paesi prevede l’esenzione, sia sui dividendi interni, sia su
quelli esteri, ma solitamente vengono fissate percentuali di partecipazione o altre condizioni che
rendono l’esenzione meno estesa rispetto a quanto previsto nella riforma.
Quest’ultima non prevede, infatti, condizioni addizionali, rispetto a quelle per l’esenzione dei
dividendi derivanti da partecipazioni interne, a parte quella che la società partecipata risieda in un paese
diverso da quelli a regime fiscale privilegiato.
L’Italia, che era tra i paesi che adottavano la direttiva madri-figlie in modo restrittivo (il campo
di applicazione era stato ampliato solo recentemente), risulterebbe, dopo la riforma, tra i paesi più
favorevoli, assieme alla Germania, per la tassazione dei dividendi infrasocietari di fonte estera.
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La riforma ha il vantaggio di porre su un piano di parità il trattamento dei dividendi interni ed
esteri e di uniformare il trattamento della maggior parte dei dividendi esteri. Essa, sostiene Giannini
(2002) sarà certamente vantaggiosa per gli azionisti-persone giuridiche con partecipazioni estere che
non rientrano fra quelle già ora esentate al 95%, e che godrebbero, dopo la riforma, di una analoga
esenzione. È invece meno vantaggiosa, come si è già visto, nel caso di rapporti societari interni,
soprattutto se basati su lunghe catene di partecipazione, e se le società coinvolte non possono optare
per il consolidato.
Per quanto riguarda la tassazione delle plusvalenze su cessioni di partecipazioni, nei paesi
europei i regimi sono molto differenziati. Austria, Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Olanda e, più
recentemente Germania, Spagna e Regno Unito e Svezia e Irlanda, prevedono l’esenzione, per le
partecipazioni interne ed estere, ma in genere vi sono condizioni più restrittive rispetto a quanto
previsto con la recente riforma tedesca e la analoga riforma Tremonti. Il regime proposto nella riforma
è dunque potenzialmente molto vantaggioso, nota Giannini (2002), per le cessioni di partecipazioni,
rispetto a quello degli altri paesi europei. Le condizioni per godere dell’esenzione sono le stesse riservate
alle cessioni di partecipazioni interne a cui si aggiunge solo quella che la residenza della società
partecipata sia in un paese diverso da quelli a regime fiscale privilegiato.
In questo contesto internazionale, l’Italia non solo si adegua alla tendenza in atto, ma si attesta al
regime in assoluto più ampio e favorevole, tra quelli adottati in ambito comunitario.
1.7.4 IL CONSOLIDATO MONDIALE
Anche con riferimento alla possibilità di opzione per il consolidamento degli imponibili
Giannini (2002) si esprime con parere favorevole: le novità contenute nella riforma non si limitano ad
adeguare la normativa italiana a quella europea, ma lasciano spazio all’introduzione di una normativa
particolarmente flessibile e favorevole in ambito UE. Infatti, non solo la soglia di partecipazione che
consente di optare per il consolidato è molto bassa, inferiore a quella prevista in tutti gli altri paesi
europei, ad eccezione della Germania, ma la possibilità di consolidamento è estesa, seppure con regole
distinte, alle società del gruppo non residenti.
1.7.5 CONSIDERAZIONI FINALI DI UN’ ANALISI IN UN’ OTTICA INTERNAZIONALE
Considerata in quest’ottica internazionale, la riforma merita alcune considerazioni. Si è visto, in
questo paragrafo, che i progressi che la riforma consente di fare sono molto limitati per quanto riguarda
la tassazione delle società operative (la tassazione su investimenti marginali e anche infra-marginali,
tende ad aumentare).
Si nota, dunque, che la riforma pare avvantaggiare, in termini competitivi, non tanto l’insieme
delle società, quanto le società di gruppi che operano a livello internazionale e, soprattutto, le società
holding. Queste ultime, in realtà, potrebbero anche avere in prospettiva un maggiore vantaggio a
localizzare le proprie società operative all’estero. Infatti, i benefici della participation exemption,
accentuando il carattere di prelievo alla fonte, già in parte prevalente per quanto riguarda la tassazione
delle società, rendono possibile usufruire, in una forma più ampia e più estesa di quanto oggi accada, dei
vantaggi delle minori aliquote prelevate in altre giurisdizioni.
L’estensione della possibilità di optare per il consolidato anche nel caso di controllate estere è
un’importante innovazione, afferma Giannini (2002), la cui introduzione è condivisibile sotto molti
aspetti. Ma dal punto di vista dei meri vantaggi fiscali, Giannini riconosce che il sistema pre-riforma era
più generoso, in quanto consentiva indirettamente di ottenere gli stessi risultati, soprattutto attraverso la
svalutazione delle partecipate estere, estendendoli anche a società non integrate in un gruppo
economico e consentendo, dunque, una maggiore flessibilità.
Simone Ercolino
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