San Martino, un uomo in ascolto di Dio e della storia del suo tempo
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San Martino, un uomo in ascolto di Dio e della storia del suo tempo
SAN MARTINO, UN UOMO IN ASCOLTO DI DIO E DELLA STORIA DEL SUO TEMPO «Finché avrò vita e intelligenza, racconterò le meraviglie dei monaci dell’Egitto, loderò gli anacoreti, ammirerò gli eremiti; però farò sempre eccezione per Martino: a lui io non oso paragonare nessuno tra i monaci, certo nessuno tra i vescovi…Quanto è più infelice questa terra dei nostri avi, che non ha meritato di riconoscere un uomo così grande, pur avendolo tanto vicino. Tuttavia a questo crimine non assocerò le persone del popolo: soltanto i chierici, soltanto i vescovi lo ignorano, e per una ragione non vollero riconoscerlo nella loro invidia, perché se avessero riconosciuto le sue virtù, avrebbero pure riconosciuto i propri vizi» 1. 1. LA VITA DI SAN MARTINO Martino nacque verso il 316-317 da genitori pagani a Sabaria, in Pannonia. Il padre, tribuno dell’esercito romano, fin nella scelta del nome, dichiarò di aver progettato per il figlio una carriera militare: doveva essere un “piccolo Marte” (Martino), dio della guerra. Il giovane venne educato a Ticinum (Pavia), dove probabilmente il padre era stato trasferito. Secondo Sulpicio, già a dieci anni Martino avrebbe chiesto di essere ammesso tra i catecumeni; inoltre, appena dodicenne, avrebbe manifestato propensione per la vita eremitica: questo è evidentemente un luogo comune letterario, che proietta le doti dell’adulto su un bambino, significativamente all’età che riecheggia l’episodio di Gesù nel tempio (Lc 2, 41-50). Non pare infatti possibile che, nella Pavia del 328-329, Martino avesse notizia degli eremiti orientali; la stessa Vita di Antonio fu composta da Atanasio nel 357 e venne tradotta in latino dopo il 360. A quindici anni, pressato dal padre e dalle leggi imperiali, Martino entrò nell’esercito e venne assegnato al corpo di guardia dell’imperatore. Va qui sottolineato come Sulpicio tenda a minimizzare la durata e la condotta del servizio militare: ci racconta che Martino – come da prassi – prese al suo servizio uno schiavo, ma uno soltanto, e lo trattò con rara umanità, al punto da suscitare gli scherni dei commilitoni. In questo contesto si situa il celeberrimo episodio del mantello condiviso con il povero di Amiens . Martino avrebbe ricevuto il battesimo verso il 354, restando in servizio nell’esercito per altri due anni, anche se solo nominalmente e si giustifica questa permanenza, dopo il battesimo, con il legame di amicizia con un tribuno che Martino sperava di coinvolgere nella conversione. Il congedo di Martino si fissa verso i quarant’anni, dopo venticinque anni di servizio (331-356), com’era abituale nell’esercito romano, in un reparto dove – tra l’altro – non erano previsti combattimenti. E di questi venticinque anni di servizio, ventidue furono prestati dopo il battesimo. Dopo il congedo, Martino si mise al seguito del vescovo Ilario di Poitiers, viene ordinato esorcista, ma parte subito per la Pannonia per visitare i suoi genitori. Dopo varie vicissitudini torna a Poitiers dove fonda il monastero di Ligugè raccogliendo attorno a sé alcuni fratelli. Il 4 luglio 371 Martino venne eletto vescovo di Tours, per volontà popolare e nonostante l’opposizione di altri vescovi, in modo particolare di Defensor, vescovo di Angers; essi non gradivano un collega dal portamento così dimesso, incolto, il cui passato era compromesso nella vita militare. Ma il popolo, con l’espediente di chiederne l’intervento per una donna malata, lo aveva strappato al monastero di Ligugé e lo aveva condotto a Tours, a tre giorni di cammino: qui venne consacrato vescovo. Martino doveva restare vescovo di Tours per ben 26 anni. Martino, però, rimase un monaco nel cuore. Dopo aver inutilmente tentato di continuare la vita monastica in un locale a ridosso della cattedrale, nel 375 si stabilì a circa due miglia dalla città, dove fondò il Maius monasterium (Marmoutier). E qui condusse una vita ascetica a metà tra 1 Sulpicio Severo, Dial I 26,1-3 l’eremo e il cenobio, come nelle “laure” orientali, esperienza che rappresenta una novità per l’Occidente. Vescovo e monaco allo stesso tempo, Martino divideva la sua esistenza tra l’ascesi di Marmoutier e l’impegno missionario nelle vicinanze di Tours, tanto che venne chiamato «apostolo delle campagne». Infatti Martino è un vescovo missionario che pratica esorcismi, distrugge, di sua mano o prodigiosamente, i santuari pagani delle campagne, guarisce ammalati di ogni genere, lotta senza tregua contro il demonio che «con grandi astuzie tentò Martino», apparendogli nelle vesti del Cristo trionfatore. Martino morì l’8 novembre 397 nel villaggio di Candes, che aveva faticosamente raggiunto per ripianare una divergenza tra i chierici. La liturgia lo commemora l’11 novembre, nell’anniversario della sua inumazione Di Martino è stato fatto questo ritratto: «Uomo straordinario, perfino paradossale: non realizzò mai ciò che desiderava… Voleva essere eremita, fuggire il mondo e praticare l’ascesi; invece fu costantemente circondato dalla gente, durante la sua vita e dopo la morte… Lo si ricorda come un soldato, quale fu effettivamente, ma suo malgrado. Aveva rifiutato di essere prete, non reputandosi degno, e fu vescovo. Aveva fuggito il secolo e cercato l’oscurità, e la sua biografia fu composta quand’era ancora vivo» 2. 2. IL SUO ASCOLTO DI DIO Non ci sono esperienze particolari, riportate dal suo biografo, che sembra siano state alla base della sua conversione. Probabilmente, com’era normale per quei primi secoli del cristianesimo, la decisione di farsi cristiani era motivata dal semplice contatto con altri cristiani: nel nostro caso Martino probabilmente entrò in contatto con dei cristiani a Pavia e soprattutto sentì parlare dei martiri e forse degli asceti orientali. Siamo infatti negli anni immediatamente successivi all’editto di Costantino (313) che liberalizza la fede cristiana. Emerge qui, allora, l’origine dell’ascolto di Dio: la vita dei discepoli di Gesù è una “parola” eloquente. Vedendo loro si vede e si ascolta Gesù stesso (“risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”Mt 5,16). Questa ricerca interiore, però, in Martino progredisce alimentata soprattutto da un bisogno di preghiera e di contemplazione che ha come primo frutto la non violenza e la carità. Uscito dal servizio militare Martino si mette alla scuola della Chiesa: di Ilario. Ecco il secondo livello dell’ascolto, quello ecclesiale, alla scuola degli apostoli. Dopo questa fase c’è quella ascetica e monastica: Martino va in Italia per un lungo cammino di ricerca interiore, poi torna per iniziare la vita comune con alcuni fratelli lungo la valle della Loira: qui l’ascolto diventa “lotta interiore”secondo la grande scuola spirituale dei padri del deserto. Infine l’episcopato, a forza: il popolo di Dio riconosce in Martino i segni della sua santità e lo acclama come suo pastore. Qui l’ascolto è obbedienza alla volontà di Dio fino al dono totale nel servizio dell’annuncio del Vangelo. Il racconto della sua morte, infine, è l’ultima fase dell’ascolto: la sua vita si conclude nella attenzione per la pace tra i fratelli nella Chiesa, subordinando il diritto personale alla salute, consumando la sua esistenza fino alla fine (Mt 5,9) e nella disponibilità totale alla volontà di Dio, come insegna Gesù nel Padre nostro (Mt 6,10b) e nell’agonia nel Getsemani (Mt 26,42 e par.). Martino, quindi, fu un uomo totalmente in ascolto: in lui si compì, in un certo modo la profezia di Isaia 50, 4-5 e il salmo 40, 7-9 (ripreso dalla Lettera agli Ebrei) “Il Signore Dio mi ha dato una lingua di iniziati , perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola…Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.” 2 R.Pernoud, Martino di Tours, Milano 1998 –2– 3. MARTINO UOMO ATTENTO ALLA STORIA DEL SUO TEMPO La conseguenza di questa intensa vita spirituale portò Martino, fin dal tempo della vita militare, a vivere dentro la sua cultura e la sua società attento all’uomo, alla sua dignità, ma anche alle sue sofferenze e schiavitù soprattutto morali. L’epoca del IV secolo, infatti, con la decadenza dell’Impero romano, con una diffusa ignoranza culturale nella massa della popolazione e con la facile tendenza allo scontro tra popoli e culture diverse in “Europa”, portava inevitabilmente a conflitti, vendette, violenze nella società, ogniqualvolta si trattava di risolvere controversie. Martino vive all’interno di una società molto conflittuale, spesso rozza, abituata ad affrontare tutto più con la forza della parola e del dialogo, con le armi e il potere del più forte. D’altra parte, sappiamo però, che il IV e V secolo sono l’epoca d’oro della patristica: S. Agostino, S. Ambrogio, S. Girolamo, S. Leone Magno, S. Gregorio e altri sono figli di questo tempo. Dopo il buio delle persecuzioni la Chiesa si organizza liturgicamente, socialmente e inizia una feconda riflessione teologica che sarà alla base di tutta la spiritualità medioevale e in parte anche nostra. In tutto questo il monachesimo ebbe una parte determinante: in pratica quasi tutti i vescovi vivevano in modo monastico, non come Martino, ma in modo analogo. Tener conto di questa situazione sociale ed ecclesiale significa “ascoltare” la storia e l’uomo di quel tempo: un primo segno dell’ascolto di Martino nei confronti di questa situazione fu il modo in cui visse i rapporti dentro la vita militare. Non fuggì, ma vi restò quasi da “obiettore” e visse le relazioni con i commilitoni in modo fraterno, discreto e senza far leva sul suo ruolo di ufficiale: egli serviva il suo schiavo, non viceversa. (Mc 10,45) Una testimonianza originale e rara, ma possibile: accettare la situazione in cui si vive e dalla quale non si può uscire, ma da cristiani. L’attenzione alla povertà è testimoniata, poi, dal famoso gesto del mantello condiviso con il povero, gesto che non ha bisogno di commento, perché è chiara ikona dell’attenzione e dell’ascolto di ogni povertà che Gesù ha vissuto (Discorso della montagna, Mt 5-7). Non solo: il suo stile di vita povero, diverso da quello degli altri vescovi, era segno evidente della sua condivisione con la vita della massa della gente semplice. Senza parlare e senza proclami sociologici o politici mostrò l’immagine di Cristo “buon pastore” con la sua vita (Gv 10). Martino “ascoltò” anche le sofferenze fisiche e morali di tanta gente del suo tempo: i suoi poteri taumaturgici, la sua lotta contro gli idoli, contro le ingiustizie dei potenti, (compresi vescovi e sovrani) gli costò una certa solitudine e “anomalia” tra i pastori della Gallia del IV secolo. La liberazione dal potere di Satana è in linea con tutta l’opera di Gesù così come la presenta Marco nella prima parte del suo Vangelo: sono i segni del Regno di Dio presente tra gli uomini. Il suo episcopato, unito alla vita monastica, fu un altro modo con cui Martino si pose in rapporto con la società del suo tempo. Non cercò privilegi e riconoscimenti, com’era uso purtroppo in quei tempi, né cercò compromessi con nessuno: viaggiò per la Gallia forte solo della sua parola e della sua preghiera, non parteggiando per nessuno ma rimanendo sempre libero (cfr. la controversia priscillanista, l’eresia ariana…). La sua persona era cercata nelle mediazioni politiche, proprio perché non era mai schierato con nessuno. 4. CONCLUSIONE: LA SANTITÀ DI MARTINO 3 San Martino è, noi diremmo, un santo quotidiano; egli ha soprattutto accettato la vita così come gli si presentava: soldato finché gli è stato richiesto, vescovo quando lo si è eletto, mentre nel frattempo aveva fatto di tutto per rimanere un semplice esorcista, senza osare ricevere nemmeno il sacerdozio, convinto com'era della sua indegnità. E forse è davvero la forma più umile, la meno visibile di santità quella che egli ha saputo praticare. Nessuno intorno a lui si è ingannato: è proprio nel quotidiano che egli trova Dio. Nella vita di tutti i giorni, con i suoi 3 R. Pernoud, Martino di Tours, Jaka Book 2001 –3– umili doveri, i suoi piccoli contrasti, le sue mediocri soddisfazioni. Come immaginare che un assoluto come quello portato dal Vangelo potesse trovare posto nella vita quotidiana? Durante i primi tre secoli della vita della Chiesa, essere cristiani implicava una rottura radicale: con l'ambiente, con il modo comune di pensare e di agire, con il potere, con le usanze vigenti; si trattava di offrire la propria vita, e ciò significava consegnarla ai carnefici. Martino invece si piega alle normali condizioni di vita che egli non ha scelto. Il suo esempio è tanto più importante in quanto risponde esattamente alle esigenze del tempo in cui vive. L'intera civiltà assiste a un cambiamento radicale: da allora lo sguardo sull'uomo - o sul cammino dell'umanità - e i riferimenti generali sono cambiati; non si tratta più soltanto di essere il vincitore, l'uomo forte che dispone del potere, l'uomo saggio al quale è familiare ogni capacità dell'intelletto, dal filosofo al poeta - colui che, liberato dalle comuni contingenze, può credersi un superuomo, e in ogni caso si trova libero di scegliere, di sviluppare il modo di pensare che gli conviene, fosse anche, come fanno gli stoici, per astenersi da ogni eccesso nelle proprie passioni. Ciò che da quel momento anima l'essere umano, e al di là della società, è un deposito ricevuto, quello della fede, destinato a essere trasmesso e vissuto mediante l'imperativo più semplice che esista: amare il prossimo come se stesso, amare come Dio ci ama. Non si tratta più di ricostruire il mondo, fosse anche secondo le leggi benedette da questa sapienza, ma di ricevere tutto da Dio. Martino non ci appare né un letterato né, ancor meno, un ideologo: egli prega. –4–