Il laboratorio di Bologna L`Immagine Ritrovata è la clinica dei

Transcript

Il laboratorio di Bologna L`Immagine Ritrovata è la clinica dei
Cultura | Tra arte e business
Il laboratorio di Bologna L’Immagine Ritrovata
è la clinica dei capolavori del grande schermo
Torna
a splendere
la magia
del cinema
Occorrono tecnologie sofisticate
ma anche le capacità di operatori
specializzati. Così si riportano i film
allo stato originale, recuperando
la qualità e soprattutto l’allure
dei loro anni d’oro. Il centro
di restauro, nato dalla Cineteca
di Bologna, ha all’attivo diversi premi
e riconoscimenti. Non ci sono eguali
nel mondo. Per questo è diventato
un punto di riferimento
per i maggiori archivi
cinematografici internazionali
di Stefano Marchetti
foto Elisabetta Baracchi
80 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2016
a grande bellezza non teme qualche
ruga. Eppure qualche volta ha bisogno di un ritocchino. In via Riva Reno a Bologna, accanto alla celebre Cineteca, dove una volta c’era la Manifattura
Tabacchi oggi c’è la clinica dei capolavori
del grande schermo. Grazie a tecnologie
sofisticate, ma soprattutto alla sapienza e
alle capacità modernamente artigianali di
operatori specializzati, al laboratorio L’Immagine Ritrovata vengono restaurati i film
che hanno fatto la Storia. Opere indimenticabili come «Il Gattopardo» di Luchino Visconti, «Amarcord» di Federico Fellini o
«Tempi moderni» di Charlie Chaplin qui
hanno recuperato la qualità, la nitidezza
ma soprattutto l’allure dei loro anni d’oro.
Questo centro di restauro, con pochi eguali
in Europa e nel mondo, è un’eccellenza
assoluta della nostra regione e del nostro
L
Paese,
e non a caso è
un punto di riferimento per i maggiori archivi cinematografici internazionali: anche
The Film Foundation di Martin Scorsese,
che da 25 anni si prende a cuore la conservazione delle pietre miliari del cinema, ha
scelto L’Immagine Ritrovata come partner
strategico, affidando numerosi progetti all’esperienza dei tecnici bolognesi. Presente
e pluripremiato ai festival internazionali,
da Cannes a Locarno (uno dei riconoscimenti più recenti è il Leone d’oro assegnato dalla Mostra del cinema di Venezia per il
restauro di «Salò e le 120 giornate di Sodoma» di Pasolini), da qualche mese il laboratorio ha messo piede anche in Asia, aprendo un altro centro a Hong Kong. E portando quindi la sua competenza là dove ab-
Fotogramma tratto
da «Il gabinetto
del dottor Caligari»
di Robert Wiene,
1920. È uno dei film
restaurati
dal laboratorio
bolognese
Cultura | Tra arte e business
Nel 1986 la Cineteca di Bologna dà il via al «Cinema ritrovato»,
il festival dedicato alla riscoperta dei film rari: è uno
degli appuntamenti che porta il grande cinema in piazza Maggiore.
«Agli inizi degli anni ’90 era ancora una piccola rassegna»,
ricorda Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca.
«Proiettammo“Il monello” di Chaplin ma la copia che avevamo
a disposizione era molto deteriorata e rovinata. Ci chiedemmo
se potessimo fare qualcosa per ottenere una migliore qualità».
Da lì ecco l’idea, per l’epoca quasi folle, del centro di restauro
Davide Pietrantoni,
amministratore
unico del laboratorio
L’Immagine Ritrovata
di Bologna
biamo molto da insegnare.
Il laboratorio è nato in seno alla Cineteca e vive nella sua
orbita anche se è un’impresa a tutti gli effetti, una srl
(di cui la Fondazione Cineteca è socio unico) con una
sua autonomia gestionale. Si avvia a compiere 25 anni, e soprattutto dal 2006 il suo processo di sviluppo ha
avuto una forte accelerazione con un corposo progetto
imprenditoriale: «Da cinque dipendenti siamo passati
a circa 80, con un’età media di 35-40 anni, in prevalenza donne», spiega l’amministratore unico Davide Pietrantoni. «Da 400.000 euro di fatturato si è arrivati a
quattro milioni, il 75 per cento del quale viene realizzato con lavori per l’estero. Abbiamo investito sul personale e sul know-how per la formazione di nuove professionalità in questo settore, sulla tecnologia con il
trattamento completo delle immagini in movimento, e
sull’internazionalizzazione».
La storia del laboratorio, del resto, è come una bella
avventura tutta da raccontare. Già dal 1986 la Cinete-
82 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2016
ca di Bologna organizza «Il cinema ritrovato», il festival dedicato alla riscoperta dei film rari: tutte le estati, è uno degli appuntamenti più attesi che porta il grande cinema anche sul crescentone, in piazza Maggiore.
«Agli inizi degli anni ’90, era ancora una piccola rassegna», ricorda Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca. «Proiettammo “Il monello” di Chaplin, e la copia
che avevamo a disposizione era molto deteriorata e rovinata. Ci chiedemmo se potessimo far qualcosa per ottenere una migliore qualità». Fu quella la scintilla da
cui scoccò l’idea (che allora poteva anche sembrare un
po’ folle) del centro di restauro: in Italia infatti non esisteva ancora una realtà di quel genere, e nel 1992 fu
costituito un primo gruppo di giovani che potesse apprendere e applicare le tecniche di riparazione e conservazione dei film. «All’inizio ci dedicammo ai film muti
italiani, l’epoca della cinematografia italiana forse più
dimenticata. Ci rendemmo conto che nelle cineteche all’estero venivano conservati film muti italiani, che da
noi si ritenevano perduti», aggiunge Farinelli. Il primo
film a essere sottoposto alle cure del neonato laboratorio fu «Maciste all’inferno» di Guido Brignone (1926):
«Furono fondamentali le due copie che trovammo in
Danimarca e a San Paolo del Brasile: erano molto diverse, ma la loro combinazione ci permise di ottenere
quasi completamente la versione originale», spiega il
direttore. Ogni restauro infatti non è soltanto una sfida tecnologica, ma una vera e propria ricerca: «Non
potremmo mai affrontare il recupero di un film senza
documentarci sull’autore, sulle sue intenzioni e sul modo in cui lavorò», sottolinea Davide Pozzi, direttore del
laboratorio. Come viene rimarcato dai responsabili del
centro, il restauro non è solo lo strumento più prezioso
per conservare la visione dei film nel tempo, «ma
anche un modo per rilanciarli in un dialogo qualitativo
con gli occhi del presente».
Siamo entrati in questo mondo di enorme fascino, per
vedere da vicino e scoprire le varie tappe della cura di
un film. Si inizia già a monte, con la ricerca e lo studio
sui materiali disponibili per ogni opera. È bene ricostruire anche l’albero genealogico del film, i passaggi
che ha attraversato: la possibilità di recuperare il cosiddetto «negativo camera» (cioè la pellicola che era nella macchina da presa quando venne girato il film) è ovviamente la condizione ottimale di partenza, ma non
sempre il materiale migliore è rintracciabile o accessibile. In laboratorio, il lungo e paziente percorso di restauro inizia con la riparazione fisica della pellicola: «Il
momento in cui apriamo le scatole con le bobine è forse
il più suggestivo e romantico», ammette Marianna De
Sanctis, responsabile del settore. «Svolgiamo i rulli e
controlliamo lo stato dei supporti, le condizioni fisiche
e chimiche in cui si presentano». Le pellicole più antiche erano in nitrato di cellulosa, che poi dagli anni ’50
venne sostituito dal triacetato, fino ad arrivare al poliestere, più resistente. Pensate che un film può avere
160.000 fotogrammi e ognuno va esaminato puntigliosamente. La prima ispezione serve a individuare lace-
Il laboratorio L’Immagine Ritrovata è un’impresa a tutti gli effetti,
di cui la Fondazione Cineteca è socio unico. Nel giro di dieci anni
«da cinque dipendenti siamo passati a circa 80», spiega
l’amministratore unico Davide Pietrantoni, «e da 400.000 euro
di fatturato si è arrivati a quattro milioni, il 75 per cento del quale
viene realizzato con lavori per l’estero. Abbiamo investito
sul personale e sul know-how per la formazione di nuove
professionalità, sulla tecnologia con il trattamento completo
delle immagini in movimento, e sull’internazionalizzazione»
razioni, graffi, strappi, rotture, e soprattutto l’integrità delle perforazioni che servono a far girare la pellicola nella macchina da proiezione (i film a 35 mm ne hanno quattro su ognuno dei due bordi di ciascun fotogramma): gli operatori provvedono a ripristinare quelle mancanti grazie a una speciale colla a base di pellicola sminuzzata «che noi stessi abbiamo formulato sulla
base di un manuale d’epoca», spiega Marianna De Sanctis. Viene poi controllata (ed eventualmente sistemata) la tenuta delle giunture, e si effettua una delicata e
attenta pulizia della pellicola. Si utilizzano strumenti
di derivazione chirurgica, come bisturi o pinzette, e si
effettuano movimenti finissimi: «La priorità è la preservazione della pellicola: non vogliamo effettuare interventi irreversibili, per permettere magari in futuro
di realizzare nuovi restauri sulla base di tecnologie
che si renderanno disponibili», sottolinea la responsabile. Restaurare un film dei fratelli Lumière ha rappresentato per lei il brivido più grande: «Veramente ho
«La dolce vita»
di Federico
Fellini, 1960
GENNAIO/FEBBRAIO 2016 - OUTLOOK 83
Cultura | Tra arte e business
Qui sopra: Caterina
Pacelli, assistente
al project manager,
e Celine Pozzi,
responsabile
del restauro digitale.
Nella pagina
a fianco: Marianna
De Sanctis,
responsabile
del settore
riparazione pellicole;
Simone Castelli,
color correction
visto gli albori del cinema: è stato un lavoro incredibile, anche perché quella pellicola aveva una sola perforazione ed era impossibile utilizzare le macchine standard».
Le bobine già sistemate (e perfino lavate) passano poi
in avanzatissime apparecchiature per la scansione che
traducono il film in formato digitale. È un’operazione
che richiede scrupolo, precisione e soprattutto tempo:
infatti viene eseguita fotogramma per fotogramma, e
la macchina fa scorrere lentamente il nastro per leggere le immagini. Una scansione in alta qualità, a 4K,
viaggia a circa 3.000 fotogrammi all’ora: per eseguire
il passaggio in digitale di un rullo da 600 metri (che corrisponde a circa 20 minuti di film) servono otto o nove
ore, dunque occorre anche un’intera settimana per scansionare un’opera completa. In qualche caso, la scansione è «wet», cioè la pellicola attraversa uno speciale liquido che attenua o elimina le rigature, tipiche dei vecchi film. Trasformato in una sequenza di bit, il film così è pronto per la digital restoration, il restauro digitale. In un ambiente a luci soffuse, con una schiera di
monitor, vediamo all’opera un team di operatori dall’occhio finissimo, capaci di cogliere ogni imperfezione
nell’immagine. Attraverso appositi software, i restauratori fanno scorrere avanti e indietro le sequenze, le
osservano più volte e possono individuare i punti (anche impercettibili) su cui intervenire, per eliminare i
segni di giunte, sporco, polvere o puntinature, attenuare gli aloni delle muffe o la grana, e stabilizzare l’im-
84 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2016
magine. È davvero un lavoro minuzioso e certosino che
richiede giorni e giorni. In questo dipartimento, infatti, vengono trattati vari film contemporaneamente:
«Si lavora su due turni, dalle 9 alle 17 e dalle 17 all’1»,
fa notare Celine Pozzi, coordinatrice di questo settore.
Si esegue poi una comparazione fra le diverse copie
che si hanno a disposizione, per l’integrazione di inquadrature mancanti o difettose. Il film passa quindi
alla color correction, la correzione del colore, ovvero gli
interventi su contrasto, luminosità e colorimetria. «Anche in questo caso, ci muoviamo con grande rispetto
per l’opera e per gli autori», dice Simone Castelli.
«Quando possibile, cerchiamo di collaborare con chi abbia lavorato al film, il regista, il direttore della fotografia, un operatore macchina. È accaduto per esempio
quando ci siamo cimentati nel restauro di “Nuovo Cinema Paradiso”, nel venticinquesimo della sua uscita,
a partire dal negativo originale: Giuseppe Tornatore è
stato al nostro fianco e ci ha accompagnato, correggendo la luce o il colore di alcune scene». Quando i film
sono più antichi, si cerca di recuperare le copie d’epoca
per vederne toni e colori: non è vero che tutti i film d’epoca sono in bianco e nero, perché spesso le pellicole venivano virate (per esempio sui toni del seppia), o magari immerse in bagni colorati, e perfino colorate a mano. È fondamentale anche la comparazione fra le copie
disponibili: per il restauro de «Il gabinetto del dottor
Caligari» di Robert Wiene (1920), manifesto dell’espressionismo tedesco, si sono messi a confronto materiali
provenienti da sei archivi di tutto il mondo, fra cui il
MoMa di New York. E si sono scoperte incredibili tinte.
Mentre gli esperti si occupano dell’immagine, in parallelo altri professionisti lavorano sull’audio e sulla colonna sonora: forse non tutti sanno, infatti, che nei sistemi tradizionali di ripresa esisteva anche un negativo suono, che si affiancava al negativo scena.
«Cerchiamo di acquisire materiali originali, sia ottici
che magnetici, e li trattiamo con tecnologie avanzate»,
ci fa notare Alessandro Biancani, tecnico audio. «Abbiamo in dotazione anche un’apparecchiatura realizzata appositamente in California che consente la scansione del negativo suono senza dover passare dal positivo». Anche l’intervento sull’audio richiede grande attenzione e senso di responsabilità: «C’è un’etica in quello che facciamo», aggiunge Biancani. «Se prendo un
film di Rossellini degli anni ’40 e ho la pretesa di farlo
“suonare” come un film girato ieri, beh, non rendo un
buon servizio al restauro. Dobbiamo pensare ai mezzi
tecnici che c’erano all’epoca, microfoni, preamplificatori». Quello che si cerca di eliminare o ridurre è soprattutto il rumore di fondo della macchina da presa oppure qualche suono palesemente estraneo alla scena, come i passi di un operatore. Audio e video restaurati,
poi, si sposano nello stadio finale, il mastering: il film
viene verificato e salvato nella sua versione rinnovata,
ed è possibile riprodurlo su ogni tipo di supporto.
«Tuttavia sempre più spesso ci viene richiesto di farne
almeno una nuova copia su pellicola», rivelano i re-
Da una parte l’immagine, dall’altra l’audio e la colonna sonora:
una volta restaurati si sposano nello stadio finale, il mastering.
Il film viene verificato, e poi salvato per essere riprodotto su ogni tipo
di supporto. «Sempre più spesso ci viene richiesto di farne almeno
una nuova copia su pellicola», rivelano i responsabili del laboratorio,
«perché resta la più affidabile per garantire la conservazione
nel tempo». D’altra parte, le tecnologie si evolvono velocemente,
e supporti che sembravano evolutissimi diventano obsoleti:
ricordate le videocassette o i floppy disc di appena 15 anni fa?
sponsabili del laboratorio. Come sappiamo, le tecnologie si evolvono velocemente e, a distanza di qualche
anno, può risultare difficile leggere supporti che sembravano evolutissimi (pensiamo alle videocassette, ormai praticamente scomparse, oppure ai floppy disc di
appena 15 anni fa che nessun computer riesce più a gestire): «In fondo, la pellicola a 35 mm resta la più affidabile per garantire la conservazione del film nel tempo», aggiungono all’Immagine Ritrovata. Il centro dunque dispone anche di un reparto sviluppo per ricavare
nuovi rulli del film restaurato. Dal digitale, così, si
torna all’analogico.
Fra gli straordinari titoli della cinematografia che in
questi ultimi anni hanno ricevuto speciali cure al laboratorio bolognese, ricordiamo «La dolce vita» e «Amarcord» di Federico Fellini , «Per un pugno di dollari» di
Sergio Leone, protagonista Clint Eastwood, texano dagli occhi di ghiaccio, e dello stesso regista la saga di
«Roma città
aperta»
di Roberto
Rossellini, 1945
GENNAIO/FEBBRAIO 2016 - OUTLOOK 85
Cultura
«C’era una volta in America», poi «Roma
città aperta» di Roberto Rossellini, con il
volto intenso e drammatico di Anna Magnani, «Il Gattopardo» e «Rocco e i suoi fratelli» di Luchino Visconti, o «Hiroshima
mon amour» di Alain Resnais. E spesso i
restauri hanno portato sorprese: «Recuperare gli outtakes di “Amarcord” è stata
veramente un’emozione», commenta Marianna De Sanctis. «C’era un’intera scatola con gli scarti e i tagli del girato». Il progetto più ambizioso ha riguardato l’opera
omnia di Charlie Chaplin: davvero un’impresa titanica che ha portato L’Immagine
Ritrovata sotto i riflettori di tutto il mondo, con la riconoscenza dei familiari dell’indimenticabile regista e attore.
La scelta delle opere da trattare dipende
da vari fattori, non ultimo quello dei diritti, dei materiali e delle risorse disponibili.
«Il restauro di un film in 4K può richiedere
anche tre o quattro mesi di lavoro e, secondo la lunghezza dell’opera e la complessità
dell’intervento, può costare fra i 100.000 e
i 180.000 euro», osserva Davide Pietrantoni. Il laboratorio di Bologna riceve committenze non solo dalla Cineteca che è la
sua casa madre, ma anche da vari enti no
profit, come la fondazione di Martin Scorsese (appassionato, anzi innamorato, del
cinema italiano), e in qualche caso dagli
stessi produttori del film che vogliono riportarlo a nuova vita. Una collaborazione
imprescindibile è quella con la Cineteca
Nazionale e con l’Istituto Luce che detengono un patrimonio di inestimabile valore
documentario. Sempre grazie a Martin
Scorsese e al suo World Cinema Project si
è allargato lo sguardo anche ai titoli dei
Paesi emergenti: proprio al festival di Cannes è stato presentato il restauro de «La
noire de», il primo lungometraggio di fiction diretto nel 1966 da un regista africano, Ousmane Sembene. Strada facendo si
sono affacciati sponsor che hanno ben
compreso l’importanza della settima arte:
il Comune di Rimini e Yoox.com (noto sito
di e-commerce di moda) hanno appoggiato
il recupero di «Amarcord», Gucci ha cofinanziato quello di «Rocco e i suoi fratelli»,
Armani ha contribuito per «I pugni in ta-
sca» che fu il lungometraggio d’esordio di
Marco Bellocchio (oggi presidente della Cineteca), Dolce e Gabbana hanno partecipato alla riscoperta di «Nuovo Cinema Paradiso». E fra le chicche, va ricordato anche il
restauro dei filmati originali dell’Olimpiade del 1928 di Amsterdam, che è stato
promosso dal Cio, il Comitato olimpico internazionale.
«Posso dirmi davvero fortunato. Amo il cinema e in questi anni ho potuto avere un
rapporto diretto con tutte le opere più importanti. Per sua natura, il processo di restauro di un film abbraccia un lungo periodo, e nei mesi che passano qui in laboratorio queste opere diventano come figli», confida il direttore Pozzi. In un mercato sempre più globale, L’Immagine Ritrovata ha
deciso di fare un ulteriore salto di qualità,
e lo scorso giugno ha inaugurato una nuova sede a Hong Kong: «Il mercato asiatico
è cresciuto notevolmente e per noi è diventato sempre più importante», annota Pietrantoni. «In Asia sta crescendo la sensibilità per il restauro, ma non esistono laboratori specializzati. Per cui, sempre più spesso, negli ultimi anni, abbiamo ricevuto commesse dall’Oriente per il restauro di film
indiani o cinesi».
Tuttavia i costi di trasporto e di assicurazione di preziosi materiali originali rendevano più onerosi questi lavori: «Abbiamo
quindi scelto di andare noi da loro, aprendo un insediamento molto leggero, con
pochi operatori», rimarca l’amministratore. «In pratica abbiamo delocalizzato solo
la prima fase del lavoro, quella che arriva
fino alla scansione delle pellicole. I file
digitali vengono poi inviati qui a Bologna
dove avviene la finalizzazione».
Anche in questo settore, dunque, c’è un made in Italy vincente. «Ogni anno organizziamo anche corsi e tirocini formativi», indica Marianna De Sanctis. «In qualche caso gli allievi vengono a Bologna, altre volte siamo noi a trasferirci all’estero per condividere la nostra esperienza». È l’EmiliaRomagna che, ancora una volta, sa fare
scuola. E, stavolta più che mai, merita
molti applausi e l’ammirazione di tutto il
mondo.
•