Brevi note sul vincolo della destinazione all`uso degli edifici di culto

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Brevi note sul vincolo della destinazione all`uso degli edifici di culto
Brevi note sul vincolo della destinazione all’uso
degli edifici di culto in Italia
Alessandro Bucci1*
Abstract
In Italy it is still today a lot felt the problem that it regards the
catholic buildings of cult of property of people or society, private or
public agencies. The doctrine and the Italian jurisprudence have
consolidated the idea which is not possible to remove the character
of res sacra to the building even if this has been sold, usucaptioned, dispossessed. The destination to the public exercise of the
catholic cult assumes importance for the ordering legal, to the aim
to assure the detail legal regime which they enjoy the buildings
cult; in order to assess it dictates to destination our ordering sends
back express to the canonical right. With regard to an action is
necessary in particular, own of the ecclesiastical Authority, constituent of the destination to the public cult, which turns out productive of effects also on the state right and not viceversa. The test
of the cessation of the destination to the public exercise of the catholic cult of the buildings in issue cannot therefore be caught up, ex
art. 831 of the Italian civil code., than “in compliance with the
norms regard that them” and that is the forecasts of the canonical
right.
Keywords: Deputatio ad cultum publicum; Res sacra; Edificio di culto
1*
Prof. Alessandro Bucci predă Dreptul bisericesc, Drept civil şi Drept
roman la Facultatea de Drept Canonic, Institutul Pontifical Oriental din
Roma; Dreptul canonic şi Drept bisericesc la Facultatea de Drept a
Universitaţii din Cassino (Italia).
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1.0 La destinazione delle chiese cattoliche
all’esercizio pubblico del culto e la funzione
sociale della proprietà.
Il fenomeno dell’interpretazione della legge unilaterale dello Stato Italiano in materia religiosa è stato frequente anche
dopo l’approvazione della Costituzione italiana. Il disegno di
conservazione del principio confessionista si è avvalso di numerosi strumenti, tra cui quello costituito dall’avere ridotto al
minimo la connessione tra diritto ecclesiastico e principi costituzionali. Secondo una parte della dottrina ecclesiasticistica
“il confronto è stato limitato alle poche norme costituzionali
riguardanti il fenomeno religioso e in modo ancora più specifico all’art. 7, quasi quest’ultimo rappresentasse il solo fondamentale punto di riferimento della materia e contenesse un
principio isolabile dall’intero contesto costituzionale. E’ in
questa linea che si colloca quella parte della dottrina e della
giurisprudenza le quali, per individuare gli edifici destinati
all’esercizio pubblico del culto ritengono indispensabile il richiamo delle leggi canoniche e quindi, in definitiva, della rilevanza giuridica nel diritto italiano del concetto canonico di
chiesa” 2.
2
Zannotti L., Stato sociale, edilizia di culto e pluralismo religioso - Contributi allo studio della problematica del dissenso religioso, Giuffré, Milano 1990, p. 120 e ss. Cfr. anche Albisetti A., Brevi note in tema
di “deputatio ad cultum publicum” e art. 42 della Costituzione, in DE,
1976, II, pp. 133-146. Aa. Vv., L’edilizia di culto. Profili giuridici, a cura
di Minelli C., Milano, Vita e Pensiero, 1995. Botta R., Le fonti di finanziamento dell’edilizia di culto, in Aa. Vv., L’edilizia di culto, cit., pp. 73105. Camassa Aurea E., I beni culturali d’interesse religioso: norme statali, norme pattizie e norme confessionali, in Aa. Vv., I beni culturali, cit.,
pp. 163-209. Dell’Agnese C, Edifici di culto e vincolo di destinazione, in
DE, 1990, II, pp. 192-201. Tozzi V., voce Edifici di culto e legislazione
urbanistica, in Dig. disc. pubbl., V, Torino, Utet, 1990, pp. 385-392.
Tozzi V., Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, Salerno, Edisud, 1990. Petroncelli M., voce Edifici di culto cattolico, in Enc.
dir., XIV, Milano, Giuffrè, 1965, pp. 297-311.
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Il secondo comma dell’art. 831 del codice civile italiano3 viene così interpretato attraverso un meccanismo di rinvii che,
passando per l’art. 7 della Costituzione4, giunge alla totale
identificazione del contenuto del diritto tutelato dalla norma
civile con l’ambito di autonomia riconosciuto alla Chiesa
dall’art. 1 del Concordato del 1929 che consiste nel libero esercizio del potere spirituale anche in ordine alla gestione degli
edifici ove si svolge il culto cattolico. Quest’interpretazione
non solo sembra esprimere un sistema di rapporti tra Stato e
Chiesa antitetico a quello accolto dallo stesso art. 7 della Costituzione nel quale si sancisce l’indipendenza dei due ordinamenti e quindi l’impraticabilità, in mancanza di specifici accordi, di automatismi relativi all’efficacia civile delle norme
canoniche, ma contraddice principalmente quanto stabilito
dall’art. 42 della Costituzione5 in riferimento alla funzione sociale della proprietà.
I nessi fra l’art. 831 del codice civile e dell’art. 42 della Costituzione sono stati colti con ritardo, quasi che la disciplina
3
L’art. 831 del codice civile italiano così recita: “Beni degli enti ecclesiastici ed edifici di culto – I beni degli enti ecclesiastici sono soggetti alle
norme del presente codice, in quanto non è diversamente disposto dalle
leggi speciali che li riguardano. Gli edifici destinati all’esercizio pubblico
del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere
sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a
che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li
riguardano”.
4
L’art. 7 della costituzione italiana così recita: “Lo Stato e la Chiesa
cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro
rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti,
accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
5
Art. 42 Cost. “La proprietà è pubblica o privata, I beni economici
appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di
godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi previsti
dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e
testamentaria e i diritti dello Stato sull’eredità”.
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degli edifici di culto cattolico potesse considerarsi esclusa dal
processo complessivo di socializzazione dei diritti innescato
dalla medesima Costituzione. Con l’art. 42 della Costituzione,
abbandonata la concezione individualistica della proprietà,
l’attenzione si è spostata sui suoi rapporti con l’interesse generale, e anzi proprio l’utilità sociale di ogni bene materiale sembra assumere il rilievo centrale della norma costituzionale. La
funzione sociale è insomma un’espressione con la quale in
modo riassuntivo vengono indicati anche “gli interessi dei soggetti che sono in una posizione di conflittualità attuale o potenziale con gli interessi proprietari”. Altri6 hanno rilevato che
la funzione sociale costituisce ormai il principio ordinatore
della disciplina sulla proprietà; che con la sua introduzione è
mutato il fondamento dell’attribuzione dei poteri al proprietario, poiché la funzione sociale opera come criterio d’interpretazione, e di reinterpretazione, della legislazione vigente in materia, come punto di riferimento tutte le volte che si verifica un
problema di controllo dell’esercizio di poteri proprietari in forme tali da poter determinare situazioni di conflitto con l’interesse della collettività.
Da questo punto di vista l’art. 42 della Costituzione rafforza quindi la tutela contenuta nel secondo comma dell’art. 831,
serve a funzionalizzare la norma civile segnalando forse anche
l’opportunità di un vincolo generale di destinazione per tutti
gli edifici religiosi. Il principio costituzionale della funzione sociale si è sovrapposto a quello civilistico della destinazione
dell’esercizio pubblico del culto per le chiese cattoliche, confermando ad un più alto livello.
1.1 L’art. 831, secondo comma, del codice civile.
Nel vigente testo dell’art. 831, comma 2, del codice civile,
che ebbe una prima efficacia giuridica con il R.d. 30 gennaio
6
A. Costantino, Proprietari e soggetti interessati all’uso “sociale” dei
beni, in Lipari N., Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 277 e ss. Salvi C., Modelli di proprietà e principi
costituzionali, in Rivista critica del diritto privato, 1986, 2, pp. 332 e ss.
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1941, n. 15, e che ricevette l’assetto definitivo col R.d. 16 marzo 1942, n. 262, compreso nel Libro III (Della proprietà), Titolo I (Dei beni), al Capo II (Dei beni appartenenti allo Stato, agli
enti pubblici e agli enti ecclesiastici), si riscontra l’abbandono
della equiparazione alla proprietà pubblica degli edifici aperti
al culto pubblico, in conseguenza della rinuncia alla esplicita
distinzione fra “cose pubbliche e private”, precedentemente
operata. Viene affermato il principio di operare una tutela degli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto, mostrando
di distinguere fra culto pubblico e privato ed aggiungendovi
l’aggettivo qualificativo “cattolico”, in maniera da escludere
l’analogo rilievo per i templi degli altri culti ed estendendo
espressamente il vincolo anche a quelli di proprietà di privati.
In sintesi, mentre col primo comma si sancisce la definitiva
acquisizione della riforma che aveva ricondotto al diritto comune la proprietà ecclesiastica, il secondo comma non fa consacrare definitivamente, per converso, l’aspetto ormai conseguito della deputatio ad cultum nel corso di quasi un secolo di
elaborazione giurisprudenziale.
Il legislatore italiano, ponendo in essere la nuova disciplina
dei beni, ha tenuto presenti le situazioni del concordato e ad
esse si è uniformato. Pertanto, mentre nel primo comma si
parla dei beni in funzione del soggetto che è titolare del diritto
di proprietà su di essi, dal comma secondo esula assolutamente
ogni riferimento al soggetto proprietario, poiché con esso si
predispone un particolare regime giuridico unicamente in funzione della loro destinazione “all’esercizio pubblico del culto
cattolico”. Purché sussista il fatto della destinazione all’esercizio pubblico del culto cattolico, la volontà del proprietario non
ha nessuna rilevanza in ordine alla possibilità di far cessare la
destinazione stessa. Questa perdurerà anche in caso di alienazione, fino a quando la destinazione stessa non sia cessata in
conformità delle leggi che la riguardano. A questo punto occorre stabilire sia l’estensione e la natura del vincolo che riguarda
detti edifici, sia il momento in cui inizia sia il quello in cui cessa, sia la rilevanza che la volontà del proprietario dell’edificio
può avere al momento in cui il vincolo sorge, sia la determinaCaietele Institutului Catolic VIII (2009, 2) 111-136
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zione degli edifici destinati al culto sui quali il vincolo si applica.
Il Legislatore si è proposto, in siffatto modo, di ammettere
solo il vincolo della destinazione all’esercizio pubblico del culto
cattolico, ritenendo contrario all’ordinamento costitutivo, ogni
atto che miri a sottrarre detti edifici a tale vincolo, fino a quando la destinazione non sia cessata. Nel contenuto che il Legislatore ha dato alla tutela è evidente il richiamo che egli ha
fatto alle disposizioni contenute nel Concordato lateranense, e
cioè degli art, 9 e 10. Detti articoli considerano gli edifici aperti al culto, esenti, di regola, da requisizioni ed occupazioni, ma
stabiliscono che “occorrendo per gravi necessità pubbliche occupare un edificio aperto al pubblico, l’autorità che procede
all’occupazione deve prendere preventivamente accordi con
l’ordinario” sempre a meno che “ragioni di assoluta urgenza a
ciò si oppongono”. Inoltre, “salvo i casi di urgente necessità, la
forza pubblica non può entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso
all’autorità ecclesiastica”. L’art. 10 d’altro canto dispone che
“non si potrà per qualsiasi causa procedere alla demolizione
degli edifici aperti al culto, se non previo accordo con l’autorità
ecclesiastica”.
Dette norme, se riconoscono la preminenza delle autorità
statuali anche in ordine alla disciplina di tali luoghi, accolgono
un principio molto importante e cioè quello che l’autorità ecclesiastica, in quanto tale, e cioè non in quanto eventualmente
proprietaria dell’edificio, deve intervenire per quel che riguarda la disposizione di detti edifici, consentendo la requisizione
od occupazione, o l’eventuale accesso della forza pubblica per
l’esercizio delle sue funzioni, o anche addivenendo ad un accordo per l’eventuale demolizione dell’edificio.
Il Concordato ha fatto completa astrazione dal soggetto
proprietario dell’edificio, ma, in funzione dell’apertura al culto, qualunque sia il soggetto proprietario dell’edificio, ha stabilito un intervento da parte dell’autorità ecclesiastica, anche se
non spetti alcun potere privatistico alla stessa autorità eccle-
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siastica. Secondo il Leziroli7 la destinazione religiosa dell’edificio può farsi rientrare nel quadro dell’art. 2 dei patti di Villa
Madama laddove si afferma che: “La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua
missione pastorale, educativa e caritativa di evangelizzazione
e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la
libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di
esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della
giurisdizione in materia ecclesiastica”. Pertanto, non può negarsi che la consacrazione religiosa dell’edificio sia rilevante
per l’ordinamento dello Stato; in caso contrario i principi contenuti nel citato art. 2 dei Patti sarebbero da considerarsi affermazioni astratte prive di contenuto. Infatti, l’art. 831, secondo comma del codice civile tocca altri problemi ed è finalizzato a conseguire altri obiettivi. In effetti, il 2° comma della
norma specifica tali problemi che non sono di destinazione al
culto, ma di commerciabilità dell’edificio consacrato e di non
sottraibilità alla destinazione tramite alienazione, se non “in
conformità delle leggi che li riguardano”. Si realizza così
un’equa ripartizione delle competenze tra i due ordinamenti:
la Chiesa, con la destinazione, rende sacro l’edificio, lo Stato
assicura che tale destinazione verrà mantenuta anche in caso
di commercializzazione dell’edificio. La norma civile è di garanzia dell’edificio in quanto sia stato canonicamente destinato al culto.
La ragione fondamentale che ha indotto il Legislatore a offrire una siffatta tutela dell’edificio consacrato, va ricercata
nel soddisfacimento di interessi generali. Oggi, per il venir
meno del principio della religione di Stato e per l’incisiva presenza delle norme costituzionali, assume rilievo, anche il ruolo
di fedele, sia individualmente, sia inserito in una collettività;
di conseguenza, la ratio del 2° comma dell’art. 831 codice civile
deve essere ricercata non solo nella tutela della religione cattolica, nei confronti della quale lo Stato ha confermato di recente
impegni considerati precisi, ma anche nel riconoscimento
7
Leziroli G., Il diritto ecclesiastico, P. I., 1994, p. 869.
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dell’appartenenza alla religione cattolica attraverso la tutela
degli interessi dei fedeli, singolarmente e collettivamente considerati sia pure solo in quanto siano in sintonia con le autorità ecclesiastiche.
Volgendo uno sguardo alla dottrina ed alla giurisprudenza è
opportuno ricordare che l’interpretazione della nuova disposizione ha dato luogo a discussioni dottrinarie ancora non sopite, dando specialmente rilievo ai condizionamenti che il vincolo esercita sul regime della proprietà privata. Ad esempio la
dottrina più vicina alla Chiesa, ignorando che l’art. 1 del Concordato lateranense, con l’incisivo “in conformità alle norme
del presente concordato”, avesse espressamente circoscritto le
garanzie accordate alla Chiesa stessa nei limiti di quanto riconosciuto nell’ambito concordatario, invocò la condizione di autonomia della Chiesa per estendere l’efficacia del diritto canonico, non ai soli casi in cui fosse previsto nella legge civile, ma
a tutti i casi in cui non risultasse vietato espressamente8. In
conseguenza non si esitò a ritenere che la destinazione oggetto
della tutela di questa norma fosse quella creata dal diritto canonico, cosa naturale per gli edifici di culto appartenenti ad
enti ecclesiastici, che sono assoggettati a quell’ordinamento,
anche per gli aspetti di carattere patrimoniale, ma da verificare, se riferita ad altri proprietari di edifici di culto, pubblici o
privati. E proprio questa stessa dottrina ritenne che l’intento
protettivo della Chiesa cattolica in Italia, non implicava che lo
Stato avesse posto a base della propria azione l’assunzione del
fine dell’esercizio pubblico del culto quale fine suo proprio.
Perciò, ritenne che la protezione dell’esercizio pubblico del cul8
Palma G., I beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici ed agli
enti ecclesiastici, in AA.VV., Trattato di diritto privato, Torino, 1981, VII,
p. 101, il quale ritiene: “che in sede di riforma del codice civile si sia volutamente menzionata la problematica dei beni demaniali e di quelli di
interesse pubblico solo nella prospettiva della deroga al principio proprietario e, quindi, relativamente alle conseguenze ricadenti su detto principio. I riformatori, tuttavia, ritennero spettasse alle leggi speciali, di diritto pubblico, di disciplinare il regime peculiare dei contenuti cui detti beni
dovevano soggiacere”.
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to avrebbe tutelato contemporaneamente un’attività della
Chiesa ed un comportamento dei fedeli, determinando così
una forma di “uso pubblico”, che da un lato implicava il dovere
del dominus di astenersi dall’ostacolare il godimento del bene
da parte dei destinatari del diritto; contemporaneamente consisteva in un diritto al libero uso dell’autorità ecclesiastica perché il culto vi potesse essere esercitato.
Quindi l’autorità ecclesiastica sarebbe stata posta in condizione di godere immediatamente ed automaticamente dell’edificio di culto, esercitandovi un potere di imperio per l’attuabilità del fine. La medesima dottrina non negava la possibilità di
fondare su accordi di natura privatistica il regime delle relazioni fra autorità ecclesiastica e proprietari dell’edificio di culto
Appare doveroso a questo punto ricordare che sono “res sacrae”, nel Codice di Diritto Canonico del 1917, tutte quelle res
destinate al culto divino attraverso la consacrazione o la benedizione. Così, infatti, recitava il Canone 1497 al §2: Dicuntur
sacra, quae consecratione vel beneditione ad divinum
cultum destinata sunt. Si perpetuava così tutta la tradizione
romanistica che tuttavia rimaneva solo come mero ricordo storico perché la legislazione canonica era ben lontana nella regolamentazione delle res sacrae da quest’ultima. Vediamo innanzi tutto il tipo di regolamentazione. Il Codice di Diritto
Canonico del 1917, nel trattare delle res sacrae, considerava
separatamente gli immobili (parte 2°, De Locis et temporibus
sacris del Libro III) dalle res mobili (parte III dello stesso
Libro III) e di entrambi parlava nella parte VI del Libro III,
quando si trattava De Bonis Ecclesiae Temporalibus.
La nozione canonistica di res sacra pur trovando la sua
origine nel diritto romano, era considerata nel Codice di Diritto Canonico del 1917 come assolutamente commerciabile, a
differenza del diritto romano che le riteneva extra patrimnium 9.
9
Si distinguevano, inoltre, le res sacrae in consacrate e benedette.
Erano ritenute cose consacrate, quelle cioè rese tali attraverso la cerimonia solenne della consacrazione (ottenuta solo per mano del Vescovo),
le Chiese (gli edifici cioè destinati al culto ordinario ed alla custodia della
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Per dirla in breve: per quanto potessero formare oggetto di
diritti privati, queste res venivano intese sempre e comunque
come res sacrae, cioè conservano il loro carattere di culto finché questo non veniva loro tolto in modo espresso. Le res sacrae, quindi, potevano essere vendute e permutate a patto che
nella stima del prezzo non si tenesse in nessun conto della consacrazione o della benedizione da essi ricevuta (can. 1539, §1),
fatto che avrebbe dato luogo a simonia (can. 727, §1, e sarebbe
stata simonia iuris divini).
In conclusione: per il Codice di Diritto Canonico del 1917 ad
essere assolutamente incommerciabili è il carattere sacro della
res sacra non la res in quanto tale (in re ipsa).10 Le cause di
eucaristia), gli altari fissi e portatili, i calici e le patene. Erano ritenute
cose benedette, quelle cioè che acquistavano tale carattere attraverso
una benedizione costitutiva (che poteva essere data anche al semplice
sacerdote), i cimiteri, le campagne, i tabernacoli, le suppellettili di culto
(paramenti sacerdotali, tovaglia dell’altare o mappa, il corporale, il tabernacolo o ciborio, le croci e le immagini). Ordinariamente esse venivano
intese fuori commercio ma nel senso che non potevano essere alienate se
non in circostanze eccezionali e non potevano servire ad un uso diverso
da quello cui erano state destinate.
10
Per gli antecedenti romanistici della nozione canonistica delle res
sacrae cfr. precedentemente, capitolo 1, paragrafo 1,2. Per lo sviluppo
storico delle res sacrae nel diritto canonico a partire dal 1917, cfr. A.
Bertola, alla voce “cosa sacra”, in Nov. Dig. It., IV, 1959, rist. 1981,
p(p. 1036 - 1039) 1038, il quale ricorda come negli anni 1861 - 1929 ampia
fu la discussione nella dottrina civilistica intorno alla natura delle res
sacrae e in specie delle chiese. La parte della dottrina che non riconosceva neppure l’esistenza dell’ordinamento giuridico canonico, riteneva le
res sacrae “res nullius”. Una parte della dottrina non meno decisa ma
meno radicale della precedente, riteneva le res sacrae parte integrante
del demanio dello Stato o delle province o dei comuni, e questa tesi si
impose certamente anche se non fu applicata diffusamente (ma fu applicata abbastanza per far capire quale posizione subordinata stesse assumendo la Chiesa in Italia). Ampia fu la discussione se le chiese potessero
essere oggetto di proprietà di enti morali o di privati oppure costituissero
un particolare demanio, quello ecclesiastico, analogo al demanio statale.
Rileva il Bertola come “vivo dissenso vi era ancora in dottrina e giurisprudenza sull’altra questione, connessa alla precedente, della commerciabilità o meno delle chiese; tra le teorie opposte era specialmente noteCaietele Institutului Catolic VIII (2009, 2) 111-136
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consacrazione possono perdersi o in via naturale o in via legittima. In via legittima si ha sconsacrazione, quando l’ordinario del luogo destina il luogo o le suppellettili ad altro uso,
come dicevano il canone 1170 e 1187. In via naturale la sconsacrazione si può avere a seguito di lesioni o cambiamenti tali
da rendere inservibile o inidoneo all’uso il luogo o l’oggetto
sacro. Si pensi ad un terremoto che può portare alla distruzione in tutto o in parte della chiesa, ma si pensi anche agli atti di
profanazione che rendono l’edificio non più idoneo agli atti sacri, come l’omicidio, l’effusione di sangue, l’aver compiuto in
chiesa atti sordidi o empi, il seppellimento di un infedele o di
uno scomunicato. In presenza di tali atti il Codice di Diritto
Canonico del 1917 proibiva ogni ufficio divino, l’amministrazione dei sacramenti, il seppellimento dei morti.
Perché l’edificio della chiesa potesse essere adibito agli usi
precedenti, occorreva la riconciliazione con il primitivo stato
(canone 1172).
Il rinvio all’ordinamento canonico come fonte di disciplina
del regime di tale destinazione, implicava la conseguenza che
lo Stato non potesse svolgere su questi beni nemmeno i poteri
che l’ordinamento esercitava quando fissa una servitù di uso
pubblico; ciò in quanto il potere di imperio in questo caso doveva spettare alla Chiesa11. Da una tale impostazione, poi, derivò il principio che gli edifici destinati al culto pubblico cattolico dovevano rientrare in uno statuto giuridico peculiare, in
conseguenza del quale i fedeli restavano genericamente proprietari di un diritto in modo che il proprietario dell’edificio di
culto, chiunque fosse, non potesse impedire l’accesso, mentre
la Chiesa poteva regolarlo e vietarlo tranquillamente. Il Fede-
vole la dottrina che riteneva gli edifici di culto in quanto tali non
suscettibili di alcuna qualificazione giuridica per tutto ciò che è rapporto
di proprietà, credeva invece che sopra gli edifici di culto aperti al pubblico
gravasse una servitù di uso pubblico che veniva a produrre quasi tutti gli
effetti pratici della extracommerciabilità”.
11
Petroncelli M., La condizione giuridica degli edifici di culto ed il
nuovo codice civile, in Arch. Dir. eccl., 1941, 1, 2, p. 13.
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aveva ritenuto invece che vi fosse un’incompetenza statale a disciplinare le res sacrae, ma che, quindi, si sarebbe potuto
considerare richiamato il diritto canonico, ai fini della disciplina del vincolo, ma solo nel rispetto dell’ordine pubblico e de
diritti dei terzi. La giurisprudenza ha mostrato di preferire
l’interpretazione favorevole al richiamo formale del diritto canonico, inserendosi in quell’atmosfera sociale e culturale sempre più favorevole orientata verso le ragioni della Chiesa13.
La configurazione dell’autorità ecclesiastica come soggetto
investito dell’autorità civile di poteri pubblicistici, il concepire
l’esistenza del collegamento fra i due ordinamenti, pur in mancanza di un esplicito rimando testuale, sono manifestazioni
tipiche del modello dittatoriale di organizzazione dello Stato.
Quest’ultimo, infatti, dall’indeterminatezza della disposizione
legale ricavava una riserva di discrezionalità politica per l’attività dei propri organi, funzionale alla dispoticità. Di modo che
anche perseguendo una politica privilegiata nei confronti della
Chiesa, gli era sempre possibile un’inversione di tendenza, ove
l’opportunità politica lo avesse richiesto.
1.2 La natura giuridica della deputatio ad cultum
Definire con chiarezza la natura dell’istituto della destinazione al culto, potrebbe comportare la risoluzione di molti problemi. Basti considerare che malgrado gli sforzi della dottrina
non esiste una teoria sufficientemente convincente e che consenta di definire con certezza i confini dell’istituto e gli strumenti di tutela giurisdizionale posti al suo servizio. Prova ne
sia che la sentenza de qua sembra risentire della confusione in
materia e tenta di risolvere il problema accedendo alla prevalente teoria. In sostanza la sentenza si regge sulla teoria in
base alla quale la deputatio viene compresa tra i diritti reali e,
12
Fedele P., In tema di dedicatio al cultum pubblicum, in Giur. It.,
1948, I, 2, c. 171.
13
App. Catania, 27 febbraio 1940, in Dir. eccl., 1941, p. 112 e ss; Cassaz. 31 marzo 1942, con nota Petroncelli M., Sulla discrezionalità
dell’esercizio del culto negli edifici delle Chiese, in Dir. eccl., 1942, n. 5.
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di conseguenza, concede una tutela di carattere “reale”. La
prevalente dottrina da una definizione della natura giuridica
del vincolo di destinazione al culto considerandolo ora un diritto reale, ora un diritto di uso pubblico, ora, infine, un limite
legale della proprietà.
Quanto alla prima teoria, che è la più diffusa, si deve osservare che, malgrado gli sforzi, la dottrina non ha trovato una
soluzione idonea a permettere di ricomprendere la deputatio
all’interno di una delle fattispecie previste dal codice civile.
Prevalentemente essa è stata classificata come diritto di uso,
tuttavia contro tale qualificazione vi è il mancato riconoscimento di legittimazione che è invece attribuita esclusivamente
all’autorità ecclesiastica o all’ente –chiesa14.
Il punto cruciale per il quale la deputatio si distacca dallo
schema dei diritti reali è costituito dal fatto che essa può essere opposta esclusivamente nei confronti del proprietario o del
titolare di altri diritti reali sull’immobile-chiesa e solo nel caso
in cui la proprietà o il diritto in questione sia attribuito ad un
soggetto diverso da un ente comunque dipendente alla gerarchia ecclesiastica. Infatti, se fosse diversamente, non solo la
giurisprudenza ammetterebbe la legittimazione processuale
attiva dei fedeli, ma ad essi sarebbe consentito anche agire
contro le decisioni dell’autorità ecclesiastica in materia. La
Chiesa sola invece, è arbitra di decidere l’apertura o la chiusura al culto pubblico di un tempio, senza che per questo sia azionabile nei suoi confronti la pretesa dei fedeli di accedervi e di
tenervi funzioni.
Pur non potendo accogliere acriticamente l’automaticità
del rinvio al diritto canonico, non si può semplicemente ignorare il dettato legislativo. Motivi di collocazione normativa potrebbero indurre a voler dare lo stesso significato a due norme
profondamente diverse, l’art 831, secondo comma e l’art. 828,
secondo comma codice civile15. Se, infatti, entrambe si basano
14
M. Petroncelli, alla voce Edifici di culto cattolico, in E.d.D., XIV,
Milano 1965, p. 297.
15
Sottolinea che a differenza dei beni demaniali e patrimoniali, gli
edifici di culto non mirano al raggiungimento di finalità pubbliche, lo
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su di una ratio analoga, che è quella di consentire la realizzazione di un interesse pubblico, esse differiscono sostanzialmente tra di loro sia perché l’interesse protetto è differente in
un caso dall’altro, sia perché muta la portata economica della
norma. Mentre la deputatio mira ad apprezzare i costi di utilizzo del bene-chiesa offrendo alla Chiesa cattolica un’ulteriore
agevolazione di carattere non monetario, il vincolo di destinazione per i beni del patrimonio indisponibile mira, invece, ad
assicurare allo Stato il frutto economico di beni di per se produttivi di reddito.
Nel primo caso la legge consente la commerciabilità del
bene, ma riduce l’utilità delle transazioni che lo riguardano,
nel secondo, invece, poiché il valore di scambio del bene non
subisce riduzioni, viene esclusa la possibilità di transazione su
di esso. Dubbiosa appare la teoria che assimila la deputatio ad
un diritto di uso pubblico; più suggestiva, invece, la teoria che
assimila la deputatio ad un limite legale della proprietà. Scartate le tesi ora citate e considerato che il vincolo di destinazione al culto è disposto a vantaggio dell’autorità ecclesiastica,
che, in quanto ritenuta rappresentante istituzionale della comunità dei fedeli, è anche titolare della relativa azione, che
l’approssimazione di tale vincolo è rimessa alla sua volontà e
infine che il vincolo grava unicamente sul proprietario della
chiesa, a patto che sia un soggetto diverso da un organismo
ecclesiastico, non resta che da ritenere che all’istituto in questione possa essere attribuita la natura giuridica di obbligazione propter rem16. Esso costituisce un obbligo che lega il privato
proprietario nei confronti dell’ente ecclesiastico e che consiste
in un pati, nel non opporsi a che l’immobile venga utilizzato
per un certo periodo di tempo per fini di culto. Relativamente
Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano 1962, p. 310.
16
Afferma che “reale è l’obbligazione nei limiti in cui la qualità di
debitore dipende da quella di proprietario”, L. Bigliazzi-Geri, Oneri reali
e obbligazioni propter rem, in Trattato civile e commerciale, a cura di Cicu
e Messineo, Milano 1984, XI, t. 3, p. 22. Precisa che gli obblighi gravanti
sul proprietario dell’immobile sono trasmissibili ai successori, Gandolfi,
alla voce Onere reale, in E.d.D., XXX, Milano 1980, p. 144.
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al caso di mancata utilizzazione del tempio può ben ritenersi
che si realizzi un’ipotesi di prescrizione del diritto di utilizzo a
fini di culto, per la quale sarebbe sufficiente la decorrenza
dell’ordinario termine decennale.
La dottrina in questa materia se ha posto l’accento sulla
parola esercizio pubblico del culto, ha in un certo senso sottovalutato che non si trattava dell’esercizio di un qualsiasi culto,
bensì di culto cattolico. In seguito al riconoscimento di un tale
potere tutta la dottrina è concorde nel ritenere che spetti
all’autorità ecclesiastica, competente secondo il diritto canonico (l’ordinario o, per ciascuna chiesa, il parroco, il rettore), di
determinare l’uso della chiesa, l’accesso del pubblico, l’ordine
delle cerimonie, il suono delle campane, senza che possa esercitarsi sulle disposizioni ecclesiastiche alcun altro sindacato17.
Anzi, si ammette pure che ove occorra, il rettore può anche
domandare l’intervento della forza pubblica per allontanare
dalla chiesa determinate persone e fare rispettare gli ordini
impartiti.
La realtà è ben diversa perché l’aver attribuito tutta la disciplina della destinazione all’autorità ecclesiastica competente e l’aver escluso che di essa destinazione usino i cives, per limitare il godimento a quelli che per l’autorità ecclesiastica
sono i fedeles, non giustifica l’asserita semplice atipicità di una
tale servitù, ma configura un istituto che, se ha dei punti di
contatto con la servitù di uso pubblico sorgente da una destinazione effettuata da chi ha il diritto di disporne di un bene, di
differenzia completamente da essa. La dottrina si è lasciata
fuorviare dai punti di contatto costituiti dall’essere nell’un
caso e nell’altro l’immobile destinato ad un godimento da parte di soggetti che non sono titolari del diritto di proprietà, ma
ha ignorato che il vincolo a cui l’immobile è destinato è differente per il suo contenuto, per il momento d’inizio e per quello
di cessazione da quello che si ha quando vi è una servitù di uso
17
390.
V. Del Giudice, Manuale di diritto ecclesiastico, Milano 1956, p.
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pubblico18. Per essere più precisi, anche se l’istituto della dedicatio ad patriam fa nascere una servitù di uso pubblico, cioè
uno ius in re aliena di natura demaniale, il vincolo che incide
sugli edifici di cui parla l’art. 831 del codice civile non sorge da
un atto costitutivo che può essere effettuato dal beneficiario,
ma nella deputatio ad cultum publicum che, in base alle norme
del diritto canonico, è un istituto che dipende da un provvedimento dell’autorità ecclesiastica competente a far sorgere un
vincolo di destinazione ad uso pubblico di culto.
Il vincolo della destinazione all’esercizio pubblico del culto,
di cui all’art. 831 codice civile, è tutelato nei confronti del proprietario, ma non nei confronti dell’autorità ecclesiastica che,
appunto perché agisce insindacabilmente, è arbitra del sorgere
e del cessare del vincolo di destinazione all’esercizio pubblico
del culto cattolico. Si è affermato che il vincolo è di natura sacrale: lo Stato prende atto che l’edificio è canonicamente consacrato. Da tale fatto lo Stato trae la conseguenza che la possibile alienazione del bene non fa venir meno il vincolo sacrale
stesso, il quale può cessare solo in conformità delle leggi che lo
hanno costituito. La tutela che lo Stato offre non si rinviene
però nelle norme del diritto canonico ma in quelle dell’ordinamento dello Stato. In adempimento dei suoi impegni concordatari e costituzionali nei confronti della Chiesa e dei cittadini
fedeli, lo Stato riconosce che l’edificio è gravato da un vincolo
sacrale qualificabile come diritto di uso pubblico, esercitabile
da chiunque intenda frequentare l’edificio per manifestare il
suo diritto di libertà religiosa. Ovvero perché tale diritto possa
dirsi esistente, occorre la concomitante presenza sia della consacrazione, sia dei cives frequentanti l’edificio.
La semplice consacrazione non è sufficiente perché possa
invocato il diritto di uso pubblico. La nascita del diritto di uso
pubblico si ha invece quando alla consacrazione vi sia parallelamente un interesse pubblico da tutelare e favorire. Tale interesse si identifica o col rispetto degli impegni concordati dallo
Stato o quando si voglia favorire l’esplicazione del diritto di
18
M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Roma 1952, p. 289.
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libertà religiosa dei cives-fidelis. Il diritto di uso pubblico si ha
quando l’edificio non assolva soltanto a finalità di carattere
religioso, ma quando l’edificio svolga anche effettivamente
una funzione pubblica. Di conseguenza occorre precisare che il
diritto di uso pubblico si costituisce ove si possa testimoniare
una partecipazione di fedeli frequentanti con assiduità e continuità l’edificio stesso al fine specifico di esercitare un diritto
individuale e collettivo di libertà religiosa.
Nel diritto amministrativo si accenna ad un diritto di uso
pubblico in due diverse accezioni: 1) un diritto di uso pubblico
di natura demaniale; 2) un diritto di uso pubblico di natura
patrimoniale19 Sulle risultanze della dottrina anche ecclesiastica è difficoltoso operare una perfetta identificazione tra
temi di diritto ecclesiastico e di diritto amministrativo. In materia di edifici di culto non sono soddisfacenti i tentativi rivolti
a identificare la natura del vincolo di cui all’art. 831, comma 2,
codice civile, con un preciso istituto del diritto amministrativo.
Però, non solo non è possibile far coincidere perfettamente gli
istituti del diritto pubblico, e amministrativo in specie, con gli
istituti di diritto ecclesiastico, ma non è possibile, definire la
materia secondo i principi del diritto comune perché rinviene
invece nel concetto di specialità una più esatta e certa collocazione. Qualora si tentasse di identificare la fattispecie della citata norma con un diritto di uso pubblico di natura demaniale
o di natura patrimoniale, emergerebbero immediatamente
consistenti difficoltà. In effetti, non si tratta di uso di natura
demaniale perché non è possibile trovare conferma nell’art.
825 codice civile20 L’impossibilità di identificazione deriva soprattutto dal rilievo che i beni demaniali costituiscono un numero chiuso nel quale non è dato rinvenire l’edificio di culto e
19
Sandulli A.M., Diritto Amministrativo, Napoli 1984, p. 735 e ss.
Art. 825 c.c., secondo il quale dovrebbero essere: “soggetti al regime
del demanio pubblico i diritti reali spettanti allo Stato, alle province e ai
comuni su beni appartenenti ad altri soggetti quando i diritti stessi sono
costituiti per l’unità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti o
per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli
a cui servono i beni medesimi”.
20
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pertanto i diritti reali, di cui alla norma citata, costituiti per
l’unità di alcuni dei beni indicati negli articoli precedenti,
esclude l’edificio di culto in quanto bene non demaniale. Più
interessante l’ultima parte dell’art. 82521 che sembrerebbe, in
effetti, calzante con il vincolo gravante sugli edifici di culto
perché si tratterebbe di un diritto reale spettante allo Stato
per conseguire un fine di pubblico interesse, corrispondente ai
fini propri dei beni demaniali.
E’ assai difficoltoso equiparare il fine di esercitare il diritto
di libertà religiosa, con i fini assolti dai beni demaniali. E’ anche rischiosa l’equiparazione tra la fattispecie di cui all’art.
831, comma 2, codice civile, e i diritti di uso pubblico di natura
patrimoniale. Difficile, però, perché manca nel codice una norma analoga all’art. 825 codice civile per i beni patrimoniali dello Stato. Secondariamente perché non sempre gli edifici di culto sono di proprietà pubblica. Non altrettanto è però possibile
per gli edifici di proprietà privata o enti ecclesiastici. Nei loro
confronti la qualificazione del vincolo come diritto di uso pubblico è solo per approssimazione, non per identificazione. Manca, infatti, la condizione necessaria costituita dalla loro appartenenza allo Stato a ad altro ente pubblico.
Esclusa, pertanto, ogni possibilità di una piena identificazione col diritto comune, l’istituto può essere giustificato, alla
luce dell’attuale normativa, unicamente facendo ricorso al
concetto di specialità.
La tesi che inquadra il vincolo di destinazione al culto nella
categoria delle servitù di uso pubblico, rimane in dottrina ed in
giurisprudenza dopo l’instaurazione del regime concordatario,
come pure sotto l’impero del codice vigente. Esiste, però, una
corrente minoritaria, che si informa a partire dall’entrata in
vigore del nuovo codice e che tende ad esaltare il ruolo esclusivo che nell’istituto giocherebbe, in regime concordatario, l’autorità ecclesiastica. Tale orientamento muove da una sopravvalutazione degli art. 9 e 10 del Concordato i quali si limitano
21
Seguito art. 825 c.c., nella quale si parla di diritti reali spettanti allo
Stato, costituiti: “per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi”.
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a fissare qualche lieve temperamento, del tutto formale, al
principio di soppressione del diritto di asilo e dell’immunità
giudiziale delle chiese, abrogati dalle leggi eversive unitamente al privilegium fori. L’importanza di questa figura di servitù
pubblica va finendo, a misura che cresce la prevalenza statistica delle chiese restituite man mano ad enti ecclesiastici a finalità pastorale, o direttamente realizzate da questi ultimi: chiese che, come è stato ben detto, costituiscono l’ossatura della
organizzazione ecclesiastica di un paese.
Ciò in quanto è stato autorevolmente rilevato che l’idea della servitù pubblica non sarebbe idonea ad esser fatta valere nei
confronti della gerarchia ecclesiastica, investita degli uffici affidati agli enti a finalità pastorale, cui le chiese risultino appartenenti. Se questa opinione fosse da ritenere esatta, è per il
tramite di essa che il vincolo di destinazione al culto delle chiese appartenenti ad enti potrebbe definirsi secondo profili più
rigidamente connessi al Codice di Diritto Canonico e, quindi,
parzialmente difformi dai criteri propri della dottrina dell’uso
“demaniale”; non certo mediante revisioni che viceversa rischiavano di incorrere in astrattezze ben più gravi di quelle
delle quali affermano di voler reagire.
1.3 Nascita e cessazione del vincolo di destinazione
La destinazione all’esercizio pubblico del culto cattolico e la
sua cessazione non può aversi che attraverso un intervento ad
Episcopum dioecesanum et ad eos qui ipsi iure aequiparantur 22. Tale deputatio, che nel diritto canonico è conseguen22
Cfr. così canone 1206 cjc. Occorre anche ricordare che la destinazione all’esercizio pubblico del culto cattolico assume rilevanza per l’ordinamento giuridico statuale, al fine di assicurare il particolare regime giuridico di cui godono gli edifici di culto; per accertare detta destinazione il
nostro ordinamento rinvia espressamente al diritto canonico. Al riguardo è necessario in particolare un atto, proprio dell’Autorità ecclesiastica,
costitutivo della destinazione al culto pubblico, il quale risulta produttivo
di effetti anche sul diritto statuale e non viceversa. La prova della cessazione della destinazione all’esercizio pubblico del culto cattolico degli edifici in questione non può pertanto essere raggiunta, secondo la previsione
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za di una dichiarazione di volontà di un competente organo
della Chiesa e può costruirsi come atto costitutivo della destinazione stessa, consegue effetti anche nel diritto statuale.
Tanto è vero che loca sacra benedicuntur ab Ordinario;
benedictio tamen ecclesiarum reservatur Episcopo dioecesano; uterque vero potest lium sacerdotem ad hoc delegare 23. Non si può immaginare che una destinazione all’esercizio pubblico del culto di un determinato edificio possa essere
fatta contro le prescrizioni del diritto canonico; ove ciò avvenisse, essa non potrebbe essere operativa di effetti giuridici
nell’ordinamento statuale dato che il mancato intervento
dell’autorità ecclesiastica, o, peggio, una contraria dichiarazione della stessa, renderebbe l’edificio destinato ad un culto non
cattolico, e quindi non rientrante nella tutela accordata dalle
disposizioni del codice civile. Siccome il libero e pubblico esercizio del culto è stato assicurato alla Chiesa cattolica da parte
dello Stato italiano nell’art. 1 del concordato, lo stabilire il momento iniziale e quello finale della destinazione al culto di un
edificio rientra indiscutibilmente in quell’ordine in cui la Chiesa è indipendente e sovrana a norma dell’art. 7, comma 1 della
Cost.
Ammesso un tale principio, che non può essere disconosciuto dato che è un cardine fondamentale del nostro diritto pubblico, l’intervento dell’autorità ecclesiastica risulta necessario
sia per costruire che per far cessare il vincolo della destinazione all’esercizio pubblico del culto. Se è vero che fino a quando
non vi è esercizio pubblico del culto non vi è per l’ordinamento
statuale limitazione del godimento da parte del proprietario, è
anche vero che, a norma del diritto canonico, la deputatio ad
cultum di un edificio ad uso della chiesa comporta già di per se
atti di esercizio pubblico di culto, per cui il problema pratico
non sembra possa sorgere. Fino a che non vi è destinazione in
diritto canonico non vi è edificio destinato all’esercizio pubblidell’art. 831 c.c., che “in conformità alle norme che li riguardano” e cioè
le previsioni del diritto canonico. (Tribunale Amministrativo Regionale
Campano, Sentenza 10 marzo 2004, n.133).
23
Cfr. canone 1207 cjc.
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co del culto, dato che si ha tale qualifica quando a norma del
canone 1161 del codice di diritto canonico del 1917, vi è una
aedes sacra divino cultui dedicata eum potissimum in finem ut
omnibus Christifidelibus usui sit ad divinum cultum publice
exercendum, ribadito successivamente nel codice del 1983, al
canone 121224.
Il Del Giudice25 ha osservato che il presupposto necessario
per determinare sull’edificio la particolare condizione risultante dalle disposizioni considerate, “non è quello liturgico
della consacrazione o della benedizione” ma della sua destinazione all’esercizio pubblico del culto cattolico, nel senso che si
richiede sia “effettivamente assoggettato a tale pubblico esercizio del culto”. Che nascita e cessazione del vincolo della destinazione non derivano nel nostro ordinamento, risulta del
resto dallo stesso art. 831 codice civile, che parla di cessazione
della destinazione degli edifici “in conformità delle leggi che li
regolano”. In mancanza di tali norme statuali che disciplinano
le modalità della cessazione, il riferimento del codice civile non
può non riguardare le norme canoniche che, anche per la cessazione della destinazione al culto, prevedono un atto dell’autorità ecclesiastica, operante la revoca della destinazione col
cosiddetto decretum de profanando se l’edificio nullo modo ad
cultum divinum adhiberipossit et omes reditus sint eam reficendum. In teoria il non uso non comporta per il diritto canonico il venir meno del vincolo di destinazione; in un solo caso
però il non uso prolungato può portare ad una cessazione della
destinazione e cioè quando, anche senza decretum de profanando, l’uso sia cessato da tanto tempo che si è estinto de iure
et de facto il soggetto chiesa nell’ordinamento canonico. Il venir meno di questo soggetto, vorrebbe dire che è venuto meno
il presupposto per l’esercizio del culto e automaticamente farebbe cessare il vincolo della destinazione.
24
Tra le fonti del canone 1161 cjc 1917 si riscontra: C 26, 27, C. XVI,
q. 7; S.R.C., Marianopolitana, 18 maii 1883, ad IV, 5; Decr. Gen. 5 iun.
1899, n. III.
25
V. Del Giudice, op. cit., p. 393
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Ci si deve chiedere quando può o deve venir meno il vincolo
di cui alla norma del codice. L’ipotesi più semplice riguarda il
venir meno della consacrazione; in tal caso manca il presupposto stesso della norma: ove non vi sia consacrazione non esiste
edificio di culto e quindi non esiste alcuna possibile destinazione; non esiste pertanto un interesse specifico dello Stato né a
tutelare tale edificio, né a tutelare i fedeli nella loro frequentazione dell’edificio perché saranno tutelati da altre e diverse
norme, non certamente dall’art. 831, comma 2 del codice civile. Pertanto si può sicuramente affermare che la protezione
che la norma civile accorda all’edificio, permane fintanto che
permanga la consacrazione dell’edificio consacrato non chi lo
frequenta. Pertanto, anche l’eventuale tutela del proprietario
del bene edificio, interessato al cessare del vincolo, è legata alla
volontà delle autorità ecclesiastiche; dove dette autorità riconoscono essere interesse della Chiesa istituzione di procedere
alla profanazione dell’edificio, conseguentemente viene meno
anche il vincolo civile. In caso contrario la sacralità dell’edificio è ostacolo insormontabile al cessare della protezione accordata attraverso il 2° comma dell’art. 831 del codice civile.
1.4 Il problema della rilevanza della volontà
del dominus in ordine alla destinazione
dell’edificio.
Se nessun dubbio può esserci sul fatto che la nascita del
vincolo deriva da un’esclusiva manifestazione del potere
dell’autorità ecclesiastica, gravi dubbi sorgono in dottrina in
ordine alla soluzione del problema se il proprietario dell’edificio sia tenuto a rispettare la destinazione quando questa sia
avvenuta a sua insaputa, e magari contro la sua volontà. La
questione è più teorica che pratica perché, il diritto canonico
prescrive che non si possono edificare nuove chiese sine expresso Ordinarii loci consensu scriptis dato. E’ da ritenere poco
probabile, infatti, che si costruisca un edificio destinato al culto pubblico senza un preventivo accordo tra costitutore ed autorità ecclesiastica in ordine alla destinazione dell’edificio, e
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quando fosse costruito, si verifichi una deputatio contro la volontà del proprietario.
Dove difetti la volontà del proprietario, bisogna dire che
manchi proprio il presupposto in base al quale assume rilevanza l’atto canonico di deputatio o, per meglio dire, seguendo il
Saraceni26, il “titolo” idoneo giuridicamente alla rilevanza civile delle norme canoniche che disciplinano il regime degli edifici
di culto. Pertanto bisogna concludere che la volontà del dominus sia, per il diritto statuale, il prius necessario perché la deputatio produca effetti civili.
La tensione fra l’orientamento dominante e quello minoritario, condizionato da presupposti teologico–canonistici, tramontati con il Concilio Vaticano II, ha dato luogo a tentativi di
mediazione a volte notevoli, come quello che ha condotto a ravvisare, nel capoverso dell’art. 831, una fattispecie complessa,
costituita dall’atto provvedimentale canonico consacrato nella
deputatio e dall’atto negoziale implicito, con cui il proprietario
consente all’assoggettamento dell’immobile al vincolo di destinazione. Si potrebbe, però, obiettare in proposito che una considerazione pratica dei due elementi appare incongrua per gli
oratori come l’Invrea27, sol che si abbia riguardo alla circostanza che la costruzione della servitù di uso pubblico dipende in
primo luogo dalla volontà del proprietario, sia pure espressa
non in forma vincolata; sicché la dedicatio canonica, dal punto
di vista del diritto statale, potrebbe tutt’al più assumere il significato di accettazione, a nome della generalità del proprietario per costituire il vincolo in loro favore.
Deve ritenersi certo che l’apertura al culto pubblico di un
oratorio possa dal disponente essere assoggettata a condizioni
tassative che, se accettate dai beneficiari, vincolano anche
l’autorità ecclesiastica. In che spiega come mai quest’ultima
non possa in seguito spogliare il proprietario, neppure invocando ragioni liturgiche, della possibilità di partecipare al cul26
G. Saraceni, Libertà religiosa e rilevanza civile dell’ordinamento
canonico, I. Principi generali, in Dir. eccl., 1954, p. 266 e ss.
27
Invrea F., Cass. 31 dicembre 1948, n. 1951, in Foro It., 1949, I, p. 49.
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to da una tribuna appartata o dal coro di sua esclusiva proprietà, ab origine rimasto interdetto all’accesso del pubblico28.
Per quanto riguarda il problema della cessazione del vincolo, il rinvio dell’art. 831 alle leggi speciali non esclude che una
norma statale possa disciplinare tale ipotesi in modo difforme
da esso. Sennonché, in mancanza di una esplicita disposizione
sul punto, la tesi della applicabilità della deputatio ad cultum
dell’istituto della prescrizione estintiva, pure generalmente
osservato in tema di servitù di uso pubblico è rimasta isolata
in dottrina29 e praticamente senza seguito nella giurisprudenza, almeno più recente30; dove risulta, viceversa, accolto il
principio dell’acquisto del vincolo per usucapione, mediante
l’esercizio di fatto del culto in un oratorio privato, indipendentemente da un atto sociale dell’autorità ecclesiastica.
1.5 Un problema ancora aperto: l’art. 831 c.c. e i rapporti intercorrenti tra l’ordinamento interno italiano e l’ordinamento canonico.
Nonostante sentenze della Corte di cassazione e molteplici
interventi in dottrina, non ha finora trovato pacifica soluzione
il problema riguardante le norme giuridiche applicabili agli
edifici privati destinati al culto pubblico, se l’art. 831 c.c. comporti un rinvio al diritto canonico, oppure postuli l’applicazione delle norme dell’ordinamento interno italiano e, in quest’ultimo caso, quali siano i rapporti intercorrenti tra i due ordinamenti sovrani. La sentenza dell’ex Pretore di Dolo, richiamandosi alla figura del rinvio perpetuato, con ciò, una formula interpretativa che ha avuto largo seguito in materia di “deputatio ad cultum publicum” laddove definisce la cessazione o la
nascita del vincolo nell’ordinamento italiano “diretta conseguenza dell’atto della competente Autorità Ecclesiastica com28
Jemolo A.C., Lezioni di diritto ecclesiastico. Milano, Giuffrè, 1959,
p. 285 e ss.
29
Coviello N., Manuale di diritto ecclesiastico, Roma 1932, p. 220.
30
Salvo A., Cass., 31 dicembre 1948, n. 1951, in Giur. Compl. Cass.
Civ., 1949, 1018.
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piuto secondo le modalità dell’Ordinamento Canonico”31, offre
spunti per una diversa costruzione giuridica della fattispecie
in contestazione. In proposito, va posta una prima precisazione relativamente al concetto di “rinvio”, infatti, si indica non
solo quello formalmente intenso, ma anche la concezione della
consecratio come semplice presupposto, nel rispetto dei principi di autonomia e sovranità propri dei due ordinamenti. Di qui,
sospetto che la succitata sentenza, abbia evitato il riesame dei
principi sui quali tale scelta si fonda; e che non sia, in essa
stata prestata la dovuta attenzione a quanto sancito dai recenti accordi tra Stato e Chiesa e, in particolare, all’art. 1 degli
stessi, modificato dall’art. 1 dei Patti Lateranensi.
Il dispositivo dell’art. 7 Cost. non lascia spazio a dubbi
sull’intento programmatico dello Stato circa la natura e lo
svolgimento dei rapporti con la Chiesa: l’indipendenza, l’autonomia e l’esclusività dei due ordinamenti, ciascuno nella propria sfera. La norma costituzionale sviluppa in tal modo quella
progressiva differenziazione e, insieme, collaborazione, iniziata fin al 1929, cioè da quando i Patti Lateranensi, pur riaffermando la vigenza dell’art. 1 dello statuto Albertino e, quindi, il
principio della confessionalità dello Stato, avevano segnato
un’importante svolta nella politica ecclesiastica italiana, fino a
quel momento combattuta tra il teorico richiamo della norma
statutaria e le travagliate tendenze alla laicità dello Stato, che
avevano, tra l’altro, condotto alle cd. leggi eversive.
Tale tendenza alla progressiva differenziazione dei due ordinamenti sovrani ha trovato accoglimento nell’art. 1 Accordo
18 febbraio 1984, il quale conferma in forma evolutiva i principi già costituzionalmente accolti. Tale precetto legislativo trova ulteriore supporto nei due commi dell’art. 5 che regolano
l’attività di requisizione, occupazione, espropriazione o demolizione degli edifici aperti al culto pubblico, e l’introduzione
degli stessi della forza pubblica in casi di urgente necessità. A
tutto questo si aggiunga quanto disposto dal punto n. 1 Proto31
Dell’Agnese C., Edifici di culto e vincoli di destinazione (Note a P.
Dolo, 20 settembre 1989, Curia vescovile Padova c. Baruzzo), in Diritto
ecclesiastico, 1990, II, p. 192.
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collo addizionale all’accordo suddetto, che chiarisce: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato, dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola
religione dello Stato italiano”. E’ in tutto ciò evidente l’intento
di rimuovere qualsiasi residuo confessionalistico, al fine di riconoscere piena libertà ai due enti sovrani nei loro rapporti,
che risultano, regolati dai reciproci accordi nelle specifiche materie da essi considerate, e dal diritto internazionale.
Una consolidata giurisprudenza ha sostenuto a lungo
che le “leggi speciali” cui si richiama il testo dell’art. 831 c.c. in
materia di “destinatio ad cultum pubblicum”, altro non sarebbero che le norme di diritto canonico inerenti alla materia
trattata, cosicché il legislatore avrebbe espressamente rinunciato a regolare in via autonoma la materia de qua per il suo
carattere di “sacralità”, facendo formale rinvio all’ordinamento della Chiesa. Mentre per la venuta ad esistenza e la cessazione dell’istituto della destinazione al culto pubblico si dovrà
fare riferimento alle modalità previste dal diritto canonico,
alla regolamentazione dello stesso provvederà il diritto interno
italiano in base ai principi generali su cui esso si regge. Nessuna rilevanza potrà assumere l’effettivo, attuale, pubblico uso
dell’immobile da parte di una pluralità di christifideles, non
ritenendo questo elemento tra quelli ritenuti necessari e sufficienti dal diritto canonico a fondere l’esistenza dell’istituto de
quo. Nessuna influenza avrà sul cessato riconoscimento
nell’ordinamento statale della destinazione al culto, la mancata ammissione per lungo lasso di tempo dei fedeli nell’edificio
privato, derivando lo stesso esclusivamente da quanto previsto
dal diritto canonico totale o pressoché totale distruzione
dell’edificio o sua riduzione ad uso profano da parte dell’autorità ecclesiastica.
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