Lavorare in un call center in una città del Sud

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Lavorare in un call center in una città del Sud
Lavorare in un call center in una città del Sud
Maurizio Avola e Rita Palidda
CULTURA E SOCIETÀ
Sulla base dei dati raccolti in un'ampia indagine che ha coinvolto più di 1700 lavoratori, si
analizzano le caratteristiche del lavoro nei call center, ponendo a confronto la realtà di Catania
con quella di Milano.
1. I call center: tra realtà e rappresentazioni
Nella fuga inesorabile delle attività produttive dalla Sicilia e dal Mezzogiorno, che alimenta un
flusso sempre più imponente di giovani diplomati e laureati verso le aree più sviluppate del Paese e
dell’Europa, il lavoro nei call center ha rappresentato negli anni recenti un bacino di reclutamento di
notevole rilevanza, in cui ha transitato una quantità di giovani assai più cospicua di quella
evidenziata dai dati di stock1. Infatti, uno degli aspetti peculiari dello sviluppo dei call center è stata
la loro dislocazione in aree poco sviluppate, che dispongono tuttavia di forza lavoro istruita e
condizioni favorevoli dal punto di vista salariale e infrastrutturale, in controtendenza rispetto ai
processi agglomerativi che hanno tradizionalmente caratterizzato lo sviluppo del settore
manifatturiero. Il fenomeno ha contribuito alla stigmatizzazione negativa del profilo occupazionale
del settore poiché è stato letto come ampliamento dell’area dei lavori instabili, mal pagati e
dequalificati, privi di effetti moltiplicativi significativi sul lungo periodo (Corigliano, Greco, 2009).
In ogni caso, è frutto della crescente rilevanza economica che i call center hanno assunto in ragione
della varietà e complessità delle funzioni di connessione tra imprese e consumatori che queste
imprese sono chiamate a svolgere (dalle attività di caring all’help desk tecnico, dai servizi di
teleselling alle ricerche di mercato, all’attività di recupero crediti) e che hanno potenziato la loro
capacità di assorbire forza lavoro prevalentemente giovane e a istruzione medio alta (EIRR, 2000a;
2000b; Bagnara, Donati, Schael, 2002; Holman, Batt, Holtgrewe, 2007).
Il lavoro nei call center è stato negli anni recenti al centro di un acceso dibattito interpretativo che
ha riguardato non solo le sue tendenze evolutive, ma soprattutto le sue caratteristiche tecnologiche e
1
Una quantificazione dell’occupazione nei call center è al momento impossibile, poiché l’Istat classifica quali call center
aziende che svolgono attività di “phone center” o “altre attività connesse alle telecomunicazioni”. Inoltre, nelle classificazioni Istat
(4.2.2.4.0 – Addetti all’informazione nei call center e 5.1.2.5.2 – Venditori a distanza) non sono ricomprese tutte le figure presenti nei
call center. Stime quantitative riguardanti l’Italia parlano dell’1% della forza lavoro totale che sarebbe non lontano dall’1,2% stimato
per l’Europa.
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organizzative. Secondo un robusto filone di studi che ha avuto un’ampia eco nella pubblicistica
corrente, l’elevata standardizzazione di tempi e procedure, il prevalere della “macchina” sul lavoro
umano, il forte controllo gerarchico e le scarse opportunità di carriera farebbero dei call center la
nuova fabbrica dei servizi, un modello di taylorismo informatizzato che riprodurrebbe gli stessi
problemi di alienazione e insoddisfazione dei lavoratori dell’industria di epoca fordista (Baldry,
Bain, Taylor, 1998; Taylor et al., 2002; Arcidiacono, 2012). Inoltre, i modelli organizzativi adottati,
prevedendo il ricorso a varie forme di flessibilità, alimenterebbero un accentuato turnover della
forza lavoro e il massiccio utilizzo di forme atipiche di impiego (Bain et al., 2002; Doellgast, Batt,
Sørensen, 2009). Le aziende sfrutterebbero alcune competenze di base solitamente associate
all’acquisizione di un titolo di scuola media superiore (linguistiche, informatiche) e alcune life skills
tipiche della forza lavoro giovane (abilità relazionali e comunicative) per attività di comunicazione
con i clienti/utenti che richiedono una formazione snella e prevalentemente on the job che non
implica investimenti sulla stabilità della forza lavoro (Belt, Richardson, Webster, 2000). La
flessibilità oraria e contrattuale incontrerebbe peraltro la disponibilità di una forza lavoro non
particolarmente interessata a un inserimento lavorativo standard nel settore, sia per ragioni di
conciliazione con altri ambiti di vita (studio, famiglia), sia perché proiettata verso carriere
lavorative alternative.
Un’interpretazione opposta fa riferimento al paradigma della knowledge based organization
(Butera, Donati, Cesaria, 1997; Donati, 1999; Bagnara, Donati, Schael, 2002) che caratterizzerebbe
ormai gran parte dei processi produttivi delle società avanzate (Rullani, 2006). La flessibilità
organizzativa, le competenze richieste e il controllo dell’operatore rispetto alle tecnologie utilizzate,
l’orientamento al problem-solving e al lavoro in team, rispetto alla parcellizzazione e
all’atomizzazione delle mansioni tipica dell’organizzazione taylor-fordista, sarebbero elementi che
determinerebbero
il
coinvolgimento
e
la
partecipazione
dell’operatore
all’interno
dell’organizzazione e la valorizzazione delle sue competenze. Il call center sarebbe non solo labour
intensive ma anche knowledge intensive, richiederebbe lavoratori ad istruzione medio-alta in
possesso di un complesso mix di doti comunicative e competenze tecniche e, allo stesso tempo,
imporrebbe che queste conoscenze siano alimentate da processi di apprendimento continuo e di
cooperazione. A ciò si aggiunga che, in ogni caso, i call center prevedono una varietà di attività e
mansioni che richiedono competenze e livelli di qualificazione molto diversi, non riducibili al
lavoro routinario e meramente esecutivo di tipo neo-tayloristico.
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Le narrazioni più diffuse sul lavoro nei call center, riguardanti il profilo socio biografico degli
operatori, i regimi orari e contrattuali, i loro orientamenti e prospettive non hanno tuttavia trovato
adeguati riscontri sul piano empirico, anche in ragione della non generalizzabilità di risultanze di
indagini su casi e aree specifiche. I dati di ricerca sembrano avallare piuttosto la visione del call
center come organizzazione di confine tra old e new economy, in cui nuove tecnologie e culture
manageriali basate sull’orientamento al cliente e la valorizzazione delle risorse umane
convivrebbero con logiche gerarchico-burocratiche (Altieri, 2002; Holtegrewe, Kerst, 2002) che
affidano competenze tecniche e gestionali agli automatismi tecnologici e alle scelte organizzative
dei vertici di una gerarchia corta rigidamente piramidale, facendo degli operatori dei meri esecutori,
poco più che ingranaggi di un sistema di comunicazione tecnologicamente avanzato (Arcidiacono,
2012). All’ambivalenza delle funzioni e dei modelli organizzativi dei call center corrisponderebbe,
peraltro, una pluralizzazione delle strategie di reclutamento, delle competenze richieste ai singoli
operatori e delle strategie di valorizzazione delle risorse umane e, quindi, una differenziazione dei
loro profili socio-culturali e dei percorsi di lavoro e di carriera presumibilmente influenzata dai
contesti socio-economici di localizzazione delle aziende.
Agli interrogativi aperti dal dibattito sul lavoro nei call center ha inteso rispondere una ricerca che,
pur senza la pretesa di essere rappresentativa dell’universo dei call center italiani, ha raggiunto una
tipologia di aziende ampia e diversificata dal punto di vista delle dimensioni (unità grandi e
piccole), del rapporto con la committenza (insourcing e outsourcing), del settore di attività
(commerciali/di pubblica utilità), del tipo di attività svolta (dedicata/generalista) e del contesto
socio-economico di appartenenza (quattro città dislocate nelle principali macro aree nazionali,
Milano, Roma, Cosenza e Catania)2. Una delle ipotesi chiave della ricerca è che uno tra i principali
fattori di differenziazione delle strategie aziendali di reclutamento e gestione delle risorse umane e
2
La ricerca è stata condotta all’interno di un progetto di ricerca MIUR (PRIN 2007) su “Le dimensioni del
benessere organizzativo nei call center”, al quale hanno partecipato quattro gruppi di ricerca dell’Università di Roma
“La Sapienza”, dell’Università “Statale” di Milano, dell’Università di Catania e dell’Università della Calabria. La
rilevazione è stata effettuata nel periodo compreso tra ottobre 2009 e marzo 2010 coinvolgendo 1715 operatori
appartenenti a 21 aziende di dimensione diversa (da 50 a 200 e oltre i 200 addetti), fornitrici di servizi inbound (attività
di assistenza tecnica e amministrativa, customer satisfaction e informazioni ai clienti), outbound (attività di promozione,
vendita e marketing), svolti in house, vale a dire nella stessa azienda offerente o in outsourcing, vale a dire affidati a
un’azienda committente che opera per conto di uno o più clienti (dedicati/generalisti). Le interviste agli operatori, svolte
con questionari strutturati autosomministrati, su un campione a valanga all’interno delle aziende prescelte nelle quattro
città (Milano, Roma, Cosenza e Catania), sono state affiancate da interviste in profondità a due gruppi di operatori di
Catania e Milano e da schede aziendali redatte sulla base di dati e informazioni fornite dalle direzioni aziendali. La
ricerca svolta a Catania, di cui si riferisce in questo articolo, è stata basata su 451 questionari utili raccolti nelle
tipologie di imprese prima indicate.
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degli orientamenti e aspettative della forza lavoro possa essere rappresentato dal contesto territoriale
che condiziona chance e aspettative della forza lavoro, inducendo aggiustamenti nelle politiche
aziendali. L’indagine svolta a Catania può essere largamente assunta come emblematica del ruolo e
delle caratteristiche che i call center svolgono in Sicilia, poiché per dimensioni, assetto socioeconomico e modello di sviluppo la città presenta un profilo simile a quello delle concentrazioni
urbane della Regione in cui si sono sviluppati i call center e il confronto con i profili sociobiografici e contrattuali degli addetti che operano in altre regioni permette di cogliere somiglianze e
differenze di un settore che la pubblicistica corrente ha dipinto come omogeneo.
2. Chi lavora nei call center
Le ricerche internazionali finora svolte sui call center hanno evidenziato considerevoli differenze
nei profili socio-biografici degli operatori smentendo in parte le narrazioni che vedono nei call
center il classico settore di transito per giovani che sperimentano una prima socializzazione al
lavoro in attesa di un inserimento più stabile e congruo alle loro aspettative. Indagini svolte alcuni
anni fa (EIRR, 2000a; 200b) hanno mostrato come il dato medio europeo, che segnalava nei call
center una prevalenza di donne di mezza età e di studenti a istruzione medio-bassa e impegno orario
part time, in realtà era il risultato di profili molto diversi degli addetti nei paesi della Comunità3. In
una ricerca successiva svolta a livello europeo (Altieri, 2002), si segnalava una accentuata tendenza
alla femminilizzazione e all’innalzamento dei titoli di studio e una presenza cospicua di lavoratrici
adulte (35-50 anni) con tassi di permanenza elevati, regimi orari part time e bassi salari. Tuttavia,
tale profilo prevalente appariva considerevolmente influenzato sia dall’attività svolta dalle aziende,
sia dalla loro ubicazione territoriale. In una più recente ricerca svolta in Italia (Isfol, 2008) veniva
confermata sia la tendenza alla femminilizzazione, sia la larga componente di disoccupati e studenti
tra gli operatori reclutati. La preferenza delle aziende per l’offerta femminile deriverebbe dalla
valorizzazione di alcuni skills tradizionalmente attribuiti alle donne (abilità comunicative e
relazionali, precisione e pazienza nell’esecuzione di compiti routinari), ma anche dalla loro
disponibilità ad accettare lavori a impegno orario e retribuzione ridotti e con scarse prospettive di
carriera, sia per ragioni di conciliazione con gli impegni di cura familiare, sia per le loro maggiori
difficoltà allocative. Disponibilità reperibile anche tra gli studenti che lavorano a tempo e scopo
definito e tra i disoccupati adulti con difficoltà di inserimento alternativo.
3
Austria, Belgio e Germania mostravano una prevalenza di operatori più giovani e istruiti, in Gran Bretagna
erano numerosi donne e uomini adulti che avevano perso il lavoro, mentre in Italia e Grecia era maggioritaria la
componente di giovani disoccupati.
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Il profilo degli operatori catanesi presenta allo stesso tempo somiglianze e peculiarità rispetto a
quanto emerso nelle ricerche precedenti e negli altri contesti in cui è stata condotta la ricerca a cui si
fa riferimento (tab. 1). Le donne sono in netta maggioranza (67,7%), ma la presenza maschile è più
cospicua che nei call center del Centro-Nord (Milano e Roma) presumibilmente in ragione della
maggiore carenza di sbocchi occupazionali alternativi. Ancora più peculiare è il profilo per età degli
operatori catanesi per la presenza maggioritaria di giovani adulti (il 51% ha dai 30 ai 39 anni),
mentre è esigua la quota di operatori più giovani e soprattutto anziani. Un quadro diametralmente
opposto a quello rinvenibile in un mercato del lavoro più ricco di opportunità come quello
lombardo. Nei call center milanesi solo il 26% degli operatori è in età medio giovane, mentre la
componente più numerosa (41%) è costituita da lavoratori più anziani. Si tratta per lo più di donne
che trovano nel call center un lavoro conciliabile con gli impegni familiari o di disoccupati espulsi
da altri settori produttivi. Più cospicua che a Catania è poi la quota di giovanissimi (sotto i 25 anni)
che transitano nei call center nella fase di inserimento lavorativo.
Tab. 1 – Operatori per sesso, età e sede (valori %)
Milano
Catania
Fino a
25-29
30-34
35-39
40-49
50 anni e
24 anni
anni
anni
anni
anni
più
Maschio
33,0
21,4
8,7
12,6
10,7
13,6
100,0
Femmina
10,0
14,0
15,9
12,2
27,3
20,7
100,0
Totale
16,3
16,0
13,9
12,3
22,7
18,7
100,0
Maschio
11,4
25,0
24,2
27,3
12,1
-
100,0
Femmina
13,0
28,6
29,3
21,4
7,2
0,4
100,0
Totale
12,5
27,5
27,7
23,3
8,8
0,2
100,0
Totale
Come negli altri contesti, la maggior parte degli operatori catanesi ha il diploma (59%), ma poco
meno di un quarto è studente universitario e il 17% ha una laurea e le donne sono mediamente più
istruite dei maschi. Una sovraistruzione che non si riscontra a Milano dove solo il 22% è studente
universitario o ha una laurea, ma che è molto più marcata a Cosenza dove le opportunità
occupazionali sono ancora più esigue (graf. 1).
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Graf. 1 - Titolo di studio degli operatori per sede (valori %)
Tipica della tendenza a procrastinare scelte di vita adulta anche nelle regioni del Sud è la condizione
familiare degli operatori catanesi. Nonostante il 61% di essi abbia dai 30 anni in su, solo il 39% ha
già formato una famiglia e solo il 20% ha figli. Un dato abnorme, se si considera che un terzo di
essi ha da 35 anni in su. Un profilo familiare ben diverso da quello degli operatori milanesi che, in
ragione della loro distribuzione per età, hanno in oltre metà dei casi formato una famiglia (55%) e
per un terzo hanno figli. Se fare l’operatore di call center non è un lavoro solo per giovani, non è
neanche un lavoro riservato a chi proviene da una condizione sociale svantaggiata, che non dispone
presumibilmente di reti sociali ampie e abilità metacognitive che gli consentono di inserirsi in
occupazioni più sicure e remunerative. In realtà, gli operatori hanno una provenienza sociale
trasversale soprattutto nei call center del Sud dove le opportunità occupazionali sono più modeste.
Un terzo degli operatori catanesi ha un padre con status occupazionale medio-alto e altrettanti sono
di ceto medio e basso.
In definitiva, i dati mostrano che, se i call center accolgono prevalentemente forza lavoro femminile
ad istruzione medio-alta, i criteri di reclutamento sono influenzati dalla disponibilità dell’offerta dei
contesti di dislocazione e in ogni caso vi trova spazio una pluralità di figure: dallo studente
universitario al disoccupato adulto, dai laureati che non trovano di meglio, alla madre di famiglia
che intende integrare il reddito familiare, ai diplomati disponibili a una permanenza più lunga.
3. Un lavoro in transito?
Uno dei luoghi comuni più diffusi sui call center è che si tratti di un lavoro tipicamente di transito,
anzi una delle espressioni più tipiche della società dei lavori di epoca post-fordista, un’esperienza
che costituirebbe un’agevole porta di ingresso per il mercato del lavoro, ma che si può attraversare
più volte e in varie fasi del ciclo di vita lavorativa, senza essere mai considerata un approdo di
lungo periodo o il lavoro per la vita (Doellgast, Batt, Sørensen, 2009).
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Nel complesso i dati della ricerca evidenziano che, da una parte, solo per una minoranza di
operatori quello del call center è un primo lavoro, dall’altra, per una quota cospicua di essi il lavoro
di operatore dura già da molti anni e, in ogni caso, rappresenta l’esperienza lavorativa più rilevante
della loro carriera. Infatti, solo per circa un terzo degli operatori intervistati a Catania quello attuale
è il primo lavoro e, per una buona parte degli altri, i lavori svolti in precedenza hanno costituito
un’esperienza consistente (di oltre 5 anni). In quasi la metà dei casi si trattava si lavori a media
qualificazione (impieghi tecnico-amministrativi), ma in circa il 40% di attività a bassa
qualificazione. In ogni caso, i più (circa il 61%) hanno lasciato il lavoro precedente per le cattive
condizioni di impiego oppure perché sono stati licenziati (poco meno di un quarto). Nel complesso,
dunque, gran parte degli operatori intervistati prima di approdare al call center ha sperimentato una
socializzazione al lavoro caratterizzata da precarietà, bassi redditi, orari lunghi, faticosità, bassa
qualificazione e il fenomeno, prevedibilmente, è molto più vistoso nei call center di Catania e
Cosenza rispetto a quelli di Milano e Roma. La scelta del call center, tuttavia, si configura per lo più
come un adattamento al ribasso alle opportunità che offre il mercato. Pochissimi entrano nel call
center aspettandosi un lavoro interessante e autorealizzativo, mentre la maggior parte lo fa per
mancanza di alternative (46%) o, in minor misura (31%) per avere un lavoro più conciliabile con gli
impegni extralavorativi (tra questi ultimi, a Catania sono soprattutto studenti universitari, laddove a
Milano sono donne adulte) e a sentirsi più costretti sono soprattutto i laureati (tab. 2). Una scelta
che, comunque, a Catania non prevede la mobilitazione delle solite trafile delle reti amicali e
clientelari, poiché gli operatori nel 61% dei casi hanno dichiarato di aver trovato lavoro tramite
canali di mercato (annunci, invio curriculum) sia pure dopo un tempo medio un po’ più lungo che a
Milano.
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Tab. 2 - Motivo principale per cui ha scelto di lavorare in un call center per titolo di studio e sede (valori %)
Mancanza
Flessibilità/
Motivazioni
Lavoro
conciliabilità
espressive
regolare
46,7
32,0
12,0
4,0
5,3
100,0
Diploma
42,7
45,1
7,3
3,1
1,7
100,0
Laurea
57,1
40,5
-
2,4
-
100,0
Totale
44,9
42,2
7,4
3,2
2,2
100,0
Diploma
43,8
31,5
13,3
10,1
1,4
100,0
Catania Laurea
57,9
27,6
7,9
5,3
1,3
100,0
Totale
45,9
30,9
12,5
9,4
1,3
100,0
di
alternative
Altro Totale
Max
Licenza
Milano
Media
Nella percezione e nelle aspettative di chi vi trova un’opportunità di impiego il call center, dunque,
sembra assumere per lo più le sembianze di un lavoro in transito e per una minoranza quella di un
ultima spiaggia per restare o tornare nel mercato del lavoro. Tuttavia, la durata della permanenza
degli operatori nei call center è molto variabile in relazione all’età, all’anzianità dell’azienda, ma
anche alla loro motivazione alla mobilità e alla possibilità concreta di praticarla. A Catania, solo
poco più di un terzo di operatori (e sono soprattutto i più giovani) ha una anzianità di lavoro nei call
center che non supera i due anni, mentre circa un quarto ha superato i 10 anni, un dato decisamente
più alto che negli altri contesti indagati. In particolare, il gruppo più consistente di operatori
catanesi, che ha un’età dai 30 ai 39 anni, nel 37% dei casi ha superato i 10 anni di anzianità
lavorativa nei call center, mentre solo poco più del 20% vi lavora da un massimo di 2 anni (tab. 3).
Nel complesso, sembra che superati i due anni di anzianità, cresca decisamente la probabilità di
restare a lavorare in un call center molti più anni di quanto ci si immaginasse all’assunzione. Di
fatto oltre metà degli operatori catanesi (una quota più alta che negli altri contesti) ha fatto nel call
center gran parte della propria esperienza lavorativa (dal 75% al 100%), o perché sono giovani alle
prime esperienze o perché la loro permanenza si è prolungata nel tempo.
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Tab. 3 - Durata del lavoro nei call center per classe di età. Catania (valori %)
Oltre
Fino a
7-12
13-24
25-60
61-120
6 mesi
mesi
mesi
mesi
mesi
25-29 anni
12,8
17,4
22,9
33,0
10,1
3,7
100,0
30-34 anni
4,4
6,1
20,2
27,2
13,2
28,9
100,0
33-39 anni
1,0
2,0
8,2
27,6
15,3
45,9
100,0
40-49 anni
2,9
0,0
5,7
14,3
22,9
54,3
100,0
5,9
7,8
16,5
27,7
13,7
28,3
100,0
50 anni e
più
120
Totale
mesi
L’allungarsi del percorso lavorativo giova poco, come vedremo, ad alimentare soddisfazione e
aspettative. Entrata con poche illusioni nel call center, la maggioranza degli operatori catanesi
(54%) spera solo di cambiare lavoro o non si aspetta nulla e ancora più critici sono prevedibilmente
i laureati, mentre è assai più ampia tra gli operatori milanesi, l’area di chi trova nel lavoro che
svolge delle convenienze e vorrebbe migliorarne le condizioni di sicurezza e retribuzione (tab. 4).
Eppure la stragrande maggioranza degli operatori catanesi (74%), non cerca un altro lavoro, anche
se la percentuale sale tra i maschi e, soprattutto, tra i laureati. Un orientamento condiviso dagli
operatori delle altre sedi che è il risultato convergente di motivazioni diverse: l’interesse di chi trova
conveniente il lavoro che fa per problemi di conciliazione, la soddisfazione di chi vi ha trovato una
chance che giudica positiva, la costrizione di chi si sente in trappola per mancanza di alternative.
Sembra in definitiva che la maggioranza degli intervistati faccia il lavoro di operatore obtorto collo,
ma il miglioramento delle condizioni di lavoro (sicurezza, retribuzione, contenuti) possa costituire
un argine forte all’insoddisfazione.
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Tab. 4 - Prospettiva di lavoro nel call center per titolo di studio e sede (valori %)
Ottenere
la
sicurezza
Migliorare le
condizioni
d’impiego-
Lavorare
Migliorare i
finché non
contenuti del
trovo
lavoro
qualcosa di
carriera
Nessuna Totale
meglio
Max
Licenza
34,7
9,3
16,0
25,3
14,7
100,0
Diploma
32,7
8,2
16,4
33,5
9,3
100,0
Laurea
21,4
7,1
19,0
38,1
14,3
100,0
Totale
31,9
8,3
16,6
32,4
10,8
100,0
Diploma
29,6
9,4
11,0
35,4
14,6
100,0
Catania Laurea
15,8
5,3
5,3
55,3
18,4
100,0
Totale
27,0
8,8
10,4
38,5
15,2
100,0
Milano
Media
4. Le condizioni di impiego
Rispetto alla letteratura internazionale sui call center che ha concentrato la sua attenzione sulle
dinamiche organizzative, individuandone, da un lato, il prototipo delle nuove fabbriche dei servizi e
del neo-taylorismo informatizzato, dall’altro, un tipico esempio di knowledge based organization, il
dibattito italiano è stato prevalentemente focalizzato sulla questione delle condizioni di impiego.
Nel nostro paese, infatti, i call center sono stati individuati come il regno della precarietà, dei
contratti di lavoro atipici, di retribuzioni basse e incerte, di orari di lavoro disagiati, in poche parole
degli effetti perversi della flessibilità, in tutte le sue declinazioni, che caratterizza il mercato del
lavoro contemporaneo (Altieri, 2002; Isfol, 2008). Si tratta di un tema che assume ancora più
importanza in una regione come la Sicilia, tanto per le dimensioni, quanto per il significato assunto
dal lavoro flessibile per la forza lavoro, soprattutto quella giovanile (Palidda, 2009; Cortese, 2012).
In effetti, considerando la condizione contrattuale, i dati della nostra ricerca possono essere oggetto
di una duplice interpretazione. Come mostra la tabella 5, la maggioranza assoluta degli operatori dei
call center catanesi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato, in linea con quanto rilevato
negli altri contesti oggetto dell’indagine. L’instabilità contrattuale, di fatto, sarebbe una condizione
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prevalente (quasi esclusiva) all’ingresso, ma nel corso del tempo una parte consistente degli
operatori inizialmente assunti con forme contrattuali atipiche approda alla stabilità (37%)4. D’altra
parte, però, se i dati della ricerca vengono confrontati con quanto rilevato dalle statistiche ufficiali
della regione nello stesso periodo in cui è stata svolta la rilevazione, emerge che il lavoro nei call
center è comunque molto più instabile della media. Inoltre, bisogna considerare che nel processo di
selezione dei call center dove effettuare la rilevazione, sono stati esclusi quelli con meno di 50
addetti, tra i quali sono molto diffusi casi di micro call center che operano soprattutto nell’ambito
del teleselling e in cui il ricorso alle collaborazioni (nonché al lavoro irregolare) è molto diffuso.
Infine, se come evidenziato in precedenza, i percorsi di stabilizzazione sono quantitativamente
significativi, ancora più consistente, però, è la quota di coloro che ha sperimentato una carriera
interna all’attuale call center in condizioni di impiego esclusivamente instabili (49%). Tra l’altro, il
raggiungimento di un inquadramento a tempo indeterminato è una conquista che si consegue in
tempi piuttosto lunghi: a Catania la quota di lavoratori stabili cresce in modo consistente solo dopo
cinque anni passati all’interno dello stesso call center, mentre a Milano il processo di
stabilizzazione è decisamente più rapido (la maggioranza assoluta diventa stabile tra due e cinque
anni).
Tab. 5 – Occupati per condizione contrattuale (valori %)
Call center Catania
(ns. survey)
Occupati alle
dipendenze Sicilia
(2010)a
Contratto attuale
Contratto all’ingresso
Tempo indeterminato
50,8
14,0
79,7
Tempo determinato
38,6
72,6
18,6
Collaborazione
10,7
13,3
1,6
Totale
100,0
100,0
100,0
Fonte: Istat
4
Di fatto, chi ha iniziato a lavorare da subito con un contratto a tempo indeterminato (14%) ha mantenuto tale
condizione sino al momento della rilevazione.
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Al di là della forma del contratto, vi sono almeno altri due aspetti che caratterizzano le condizioni di
impiego nei call center: un ricorso diffuso al part time e retribuzioni contenute. A Catania gli
operatori a orario ridotto sono la stragrande maggioranza, anche se in molti casi si tratta di un part
time lungo che sfiora il tempo pieno e una quota consistente di operatori lavora comunque full time
(graf. 2). Tuttavia, l’orario di lavoro ridotto non risponde solo alle esigenze di flessibilità delle
imprese, ma può andare incontro anche a quelle dei lavoratori per diverse ragioni, connesse sia allo
stress causato da un lavoro ripetitivo e faticoso (anche emotivamente), sia alle esigenze di
conciliazione di particolari profili biografici molto diffusi nei call center, come gli studenti
universitari (quasi un quarto degli operatori catanesi) o le donne con impegni di cura (decisamente
meno di quelle che lavorano nei call center milanesi, ma comunque circa il 17% del totale degli
intervistati a Catania).
Graf. 2 – Operatori per classi di orario di lavoro settimanale (valori %)
La diffusione di orari di lavoro ridotti si riflette naturalmente sulle retribuzioni che per il 57% degli
operatori catanesi non superano gli 800 euro medi mensili e per 4 su 5 restano al di sotto della
soglia dei 1.000 euro. Inoltre, il 37% degli operatori catanesi deve fare i conti con una retribuzione
aleatoria, il cui ammontare dipende dal numero di ore di lavoro effettivo svolto nel corso del mese o
in tutto o in parte dal raggiungimento di determinati obiettivi (prodotti venduti, chiamate andate a
buon fine, ecc.). L’incertezza della retribuzione coinvolge soprattutto coloro che operano in
outbound5, il cui sistema retributivo è quasi sempre legato ad un mix tra orario di lavoro effettuato e
5
Quella tra operatori inbound e outbound è una distinzione fondamentale all’interno dei call center, tanto per
ciò che riguarda i contenuti del lavoro, quanto per le conseguenze giuridiche sul piano delle condizioni di impiego.
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obiettivi raggiunti e il cui compenso mensile resta comunque sempre più basso di quello dei
colleghi inbound, anche a parità di orario svolto. Gli operatori outbound, infatti, non possono
contare su un minimo contrattuale collettivo “di garanzia”6, e vivono ogni mese con l’ansia di
raggiungere le soglie oltre le quali scattano i bonus. Un vero e proprio incubo, soprattutto se si tiene
conto che spesso le aziende, pressate dai committenti e dai concorrenti, tendono a elevare le soglie
e/o abbassare il riconoscimento economico per chi le raggiunge.
In definitiva, rispetto a quanto riscontrato per il profilo biografico e il percorso lavorativo degli
operatori, sul piano delle condizioni di impiego non si riscontrano significative differenziazioni per
contesto territoriale. Piuttosto, le dimensioni della discriminazione sono determinate dalle mansioni
svolte. La distinzione tra inbound e outbound, ad esempio, ci permette di svelare perché gli
operatori catanesi, pur lavorando per un numero di ore settimanali mediamente più basso di quelli
milanesi, hanno retribuzioni leggermente superiori. Nei call center isolani oggetto della ricerca,
infatti, 4 operatori su 5 svolgono attività prevalentemente o esclusivamente inbound, mentre in
quelli milanesi il rapporto è di appena 1 a 2.
5. La (in-)soddisfazione degli operatori
Un ultimo aspetto indagato dalla nostra ricerca ha riguardato la soddisfazione per il lavoro svolto. Si
tratta di un tema particolarmente rilevante negli studi di psicologia e sociologia del lavoro e delle
organizzazioni che incrocia diverse dimensioni: dai contenuti del lavoro alle modalità di
prestazione, dalle relazioni con i pari a quelle con i superiori, dalla retribuzione alle tutele, dalle
prospettive di carriera alla conciliabilità con ruoli e interessi extra-lavorativi. Prendendo in
considerazione tutti questi aspetti abbiamo costruito un indice sintetico7 che rileva
un’insoddisfazione abbastanza generalizzata degli operatori (graf. 3). Per molti aspetti si tratta di un
dato non sorprendente, se consideriamo tanto i contenuti del lavoro e lo scarso riconoscimento
sociale dell’attività di operatore, quanto le condizioni di impiego cui abbiamo fatto in precedenza
riferimento.
L’operatore inbound è colui che eroga servizi al cliente in entrata (centralino, customer care, help desk tecnico, ecc.),
mentre l’operatore outbound gestisce servizi in uscita (prevalentemente teleselling). Sulla base di questa distinzione
fondamentale, una circolare del Ministro Damiano del 2006 ha decretato illegittimo il ricorso al lavoro a progetto per gli
operatori inbound, utilizzabile da allora solo per coloro che operano esclusivamente in attività outbound.
6
Proprio nell’estate 2013 le organizzazioni di rappresentanza di categoria hanno siglato il primo accordo
collettivo nazionale per lavoratori a progetto in outbound che prevede un compenso minimo garantito.
7
Si tratta di una scala additiva di tipo Likert. Rispetto all’analisi proposta in Fortunato, Palidda (2012), qui è
stata considerata anche la soddisfazione per la conciliazione, poiché per motivi di spazio non è stato possibile trattarla
separatamente.
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Graf. 3 – Soddisfazione per il proprio lavoro (valori %)
Tuttavia, l’analisi restituisce indicazioni molto più interessanti se si considerano due diverse
accezioni della soddisfazione, quella intrinseco-relazionale e quella estrinseca, riconducibili
rispettivamente alla soddisfazione relativa al contesto socio-organizzativo e agli aspetti inerenti
l’attività lavorativa in sé (possibilità di autonomia decisionale, di svolgere attività interessanti, di
valorizzare i propri studi, qualità delle relazioni di lavoro con i superiori e con i colleghi) e alla
soddisfazione derivante dal sistema delle ricompense tangibili, dirette e indirette, legate al proprio
lavoro (possibilità di ricevere una retribuzione e una pensione adeguata, di contare su una stabilità
lavorativa, di fare carriera, di conciliare vita lavorativa e extra-lavorativa). Innanzitutto, i risultati
evidenziano una maggiore insoddisfazione per gli aspetti del lavoro connessi al sistema delle
ricompense. Tra l’altro, per questo aspetto della soddisfazione non emergono sostanziali differenze
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tra gli operatori milanesi e quelli catanesi. Decisamente diverso, invece, è il dato rilevato sul piano
della soddisfazione intrinseco-relazionale: in questo caso, infatti, gli intervistati siciliani sono
decisamente più insoddisfatti rispetto a quanto rilevato nei call center della metropoli lombarda,
dato da cui deriva la maggiore insoddisfazione generale registrata a Catania.
La spiegazione di questi riscontri deve essere ricercata nella differenziazione dei profili biografici e
dei percorsi di lavoro degli operatori. Mentre la soddisfazione estrinseca è maggiormente legata alle
condizioni di impiego, ed in particolare alla stabilità contrattuale dell’attuale lavoro (che non è
molto dissimile tra gli operatori catanesi e quelli milanesi), la soddisfazione intrinseco-relazionale,
invece, è correlata negativamente alle credenziali educative e alla durata del percorso di lavoro
nell’attuale call center (Fortunato, Palidda, 2012). Come ricordato nei paragrafi precedenti, infatti,
rispetto a quanto riscontrato a Milano, gli operatori catanesi sono più istruiti e hanno percorsi di
lavoro nei call center decisamente più lunghi. Se rispetto all’istruzione è facile comprendere che la
soddisfazione possa essere condizionata dalla differenziazione degli investimenti formativi e dalle
relative aspettative, meno intuitivo è il legame tra soddisfazione e percorso lavorativo. In questo
caso, infatti, occorre fare riferimento soprattutto al significato assegnato al lavoro attualmente
svolto. Chi si trova in una fase iniziale della propria carriera tende a considerarlo prevalentemente
un lavoro in transito, in attesa di completare gli studi o di trovare qualcosa di meglio. Per tali
ragioni, non si cura in modo particolare dei contenuti e dello scarso riconoscimento sociale di un
lavoro che non viene considerato come quello della vita. Anche le donne adulte con figli a bassa
istruzione (prevalentemente milanesi) che hanno trovato di recente nei call center un canale di
reinserimento lavorativo tendono ad assegnare al proprio lavoro una valenza prevalentemente
strumentale e ne esaltano soprattutto la conciliabilità con le esigenze di cura. Il discorso cambia
radicalmente quando, soprattutto per mancanza di alternative, i tempi di permanenza all’interno del
call center si allungano e lo spettro dell’intrappolamento aumenta. I giovani-adulti istruiti che
lavorano da molti anni presso lo stesso call center, quindi, iniziano a guardare al proprio lavoro con
un’ottica diversa, facendo bilanci a posteriori che tengono conto sempre meno delle prospettive
future e appaiono invece sempre più definitivi.
Da questo punto di vista, in definitiva, emergono con forza le differenze che caratterizzano i
contesti socio-economici di riferimento: in una regione caratterizzata da un mercato del lavoro che
offre scarse opportunità, per i giovani siciliani diventa più difficile praticare strategie di exit che
permettano l’approdo a occupazioni più qualificate e gratificanti senza fare i conti con elevati rischi
di fallimento, come disoccupazione e instabilità prolungata (Avola, 2012). La carriera interna,
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quindi, rappresenta per molti una valida alternativa, soprattutto quando cresce l’importanza
assegnata alla stabilità dell’impiego. Il prezzo da pagare, tuttavia, può essere altrettanto elevato in
termini di qualità del lavoro, livelli di over-education, aspirazioni professionali e, per l’appunto,
livelli di soddisfazione.
6. Conclusioni
In una regione come la Sicilia, caratterizzata da un’endemica carenza di domanda di lavoro rispetto
all’offerta disponibile, la crescita repentina dei call center tra la fine degli anni Novanta e i primi
anni del nuovo secolo ha rappresentato senza dubbio una grande opportunità di impiego per
migliaia di donne e giovani privi di prospettive di inserimento nel mercato del lavoro. Tale crescita
è stata accompagnata, tuttavia, da molte ombre riguardanti, da una parte, i rischi di sostenibilità nel
lungo periodo di un comparto caratterizzato da una competizione esasperata sul costo del lavoro e
quindi particolarmente “sensibile” alle sirene della delocalizzazione; dall’altra, le condizioni di
impiego e di lavoro degli operatori, percepiti come nuovi operai alla catena di montaggio dell’ICT,
senza le garanzie dei lavoratori delle fabbriche fordiste. In effetti, le recenti vicissitudini che hanno
coinvolto molti dei call center ubicati nell’isola (compresi quelli oggetto della nostra indagine) non
hanno fatto altro che confermare le problematicità del comparto: alcuni hanno definitivamente
chiuso; altri sono stati coinvolti in complicati piani di ristrutturazione che hanno portato a riduzione
del personale o accesso alla cassa integrazione; per le aziende che resistono, infine, il futuro appare
quantomeno incerto.
In ogni caso, i call center continuano a rappresentare in Sicilia un ambito occupazionale rilevante, il
cui contributo ai redditi di migliaia di famiglie non può essere sottovalutato, soprattutto in questa
fase storica particolarmente critica. Sul piano delle policy, quindi, appare necessario agire con
cautela per salvaguardare la base occupazionale, senza però dimenticare la necessità di trovare
soluzioni efficaci per affrontare i molteplici nodi critici che caratterizzano la qualità del lavoro nei
call center e i suoi profili contrattuali. Da questo punto di vista la ricerca di cui si è riferito in queste
pagine può offrire alcuni utili spunti di riflessione. L’indicazione prevalente che sembra emergere è
la necessità di puntare al miglioramento delle condizioni di lavoro e di impiego e di promuovere
transizioni più sostenibili, accrescendo all’interno il ruolo della formazione e all’esterno le chance
di mercato, per ridurre gli elevati rischi di instabilità, intrappolamento, insoddisfazione e spreco di
risorse di capitale umano, in quello che troppo spesso appare più che un mare da attraversare per
raggiungere un lido migliore una palude in cui annaspare per sopravvivere.
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Note biografiche
Maurizio Avola è ricercatore di Sociologia dei processi economici e del lavoro press il
Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università di Catania. Si occupa prevalentemente di
sviluppo locale e mercato del lavoro, con particolare riferimento ai temi del lavoro atipico,
dell’inserimento occupazionale dei giovani e degli immigrati. Con la Fondazione Res ha collaborato
alla realizzazione di Alleanze nell’ombra (a cura di R. Sciarrone, 2011) e La nuova occasione (a
cura di P. Casavola e C. Trigilia, 2012).
Rita Palidda insegna Sociologia economica e Sociologia dello sviluppo presso la Facoltà di Scienze
politiche di Catania. Fra le sue pubblicazioni recenti, Sfida e rischi dello sviluppo locale,
FrancoAngeli, 2007; Vite flessibili. Lavori, famiglie e stili di vita di giovani coppie meridionali,
FrancoAngeli, 2007 e, nella collana Res, "Lungo le rotte dei camion. Criminalità organizzata e
trasporti nella Sicilia Orientale", in R. Sciarrone (a cura di), Alleanze nell'ombra, Roma, Donzelli,
2011.
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