Postcolonialismo in Francia. Islam, genere, sessualità
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Postcolonialismo in Francia. Islam, genere, sessualità
Postcolonialismo in Francia. Islam, genere, sessualità, razza nel nuovo ordine mondiale di Barbara De Vivo 1. Introduzione: la concorrenza dei diritti nel nuovo ordine mondiale Il 19 giugno 2010 Judith Butler, una tra le pensatrici femministe più influenti degli ultimi decenni, ha rifiutato il premio al «Coraggio civile» conferitole dall’organizzazione del Pride di Berlino. In un breve discorso, accolto dagli applausi e dalle urla di approvazione della folla riunitasi sotto il palco per ascoltare le sue parole, Butler ha motivato il suo rifiuto denunciando la complicità degli organizzatori del Pride berlinese con le politiche razziste e islamofobe portate avanti dalla classe dirigente tedesca1. Con questo rifiuto Butler si è fatta portavoce pubblica di un dibattito accentuatosi nei movimenti queer con la nuova stagione di guerre in Medio Oriente: il discorso dominante in Occidente sul carattere intrinsecamente omofobo e sessista dell’Islam ha spostato una fetta del movimento queer e del movimento femminista su posizioni tali da avvallare il nuovo scenario di guerra apertosi dopo l’11 settembre 2001. In un testo da titolo Terrorist Assemblages. Homonationalism in Queer Times2, Jasbir Puar ha definito questo spostamento del movimento queer col termine «omonazionalismo». In questo testo Puar analizza 1 Il discorso di Butler è disponibile su Youtube all’indirizzo http://www.youtube. com/watch?v=BV9dd6r361k. Per un’analisi della vicenda si legga il blog http://noho monationalism.blogspot.com/ nato proprio in seguito alle dichiarazioni di Butler, animato principalmente da attivisti queer migranti o di generazione successiva al percorso migratorio, impegnati da tempo nella lotta al razzismo all’interno delle comunità LGBTQ in Europa. 2 Jasbir K. Puar, Terrorist Assemblages. Homonationalism in Queer Times, Duke University Press, Durham - Londra 2007. 157 come soggetti sociali gay, lesbiche e transgender, precedentemente esclusi dall’immaginario della nazione e dal sistema dei diritti civili negli Stati Uniti, abbiano guadagnato visibilità e diritti avvicinandosi e sostenendo la retorica anti-Islam. Questo è potuto accadere attraverso la rappresentazione della «sessualità musulmana» come deviata, retrograda, non «emancipata», eterosessista, misogina e omofoba. Riprendendo le analisi sull’omonazionalismo di Puar in un testo collettivo dal titolo Out of Place. Interrogating Silence in Queerness/Raciality3 le autrici e gli autori del volume sostengono che nel nuovo ordine mondiale anti-Islam, gay e lesbiche hanno assunto un ruolo politico centrale che contrasta con il ruolo marginale che avevano nel contesto della guerra fredda. Nel nuovo ordine mondiale della «guerra al terrore» si è verificato un profondo cambiamento nel sistema dei diritti «delle minoranze» in Europa occidentale: le parole «democrazia», «uguaglianza tra i generi», «diritti LGBT» sono sempre più utilizzate come portabandiera della superiorità morale e civile dell’Europa. Le popolazioni immigrate di origine musulmana (e non solo) sono specularmente costruite come un corpo estraneo rispetto alla società civile europea poiché portatrici di valori tradizionali che contrastano e mettono a rischio l’avanzamento dei diritti in Europa. Questo uso strumentale dei diritti è indirizzato verso una vera e propria concorrenza tra le donne, i soggetti LGBTQ e gli immigrati, e tra i sistemi di dominio quali il sessismo, l’omofobia e il razzismo4. In questa concorrenza tra donne, gay-lesbiche e immigrati si sancisce l’idea che non esistano gay e lesbiche tra gli immigrati e tra i musulmani in Europa, che tutte le donne siano eterosessuali, che l’emancipazione delle donne bianche si misuri sulla costruzione della subalternità della donna musulmana (araba, immigrata) rispetto agli uomini della sua «comunità», che in quanto retrogradi sono anch’essi eterosessuali. In questa dinamica, secondo il discorso dominante, l’unico margine di «emancipazione» per le donne, i gay e 3 Adi Kuntsman, Esperanza Miyake (a cura di), Out of Place. Interrogating Silences in Queerness/Raciality, Raw Nerve Books, York, 2008. 4 A proposito del tentativo nel contesto francese di messa in concorrenza tra antirazzismo e antisessismo e della falsa premessa che ne è alla base si legga Christine Delphy, Antisexisme ou antiracisme? Un faux dilemme, in Christine Delphy, Classer, dominer. Qui sont les «autres»?, La fabrique éditions, Parigi 2008, pp. 174-216. L’articolo era precedentemente comparso in Nouvelles questions féministes, vol. 25, n. 1, 2006, Sexisme et racisme: la cas français. 158 le lesbiche musulmane è quello di allontanarsi dalle «culture di origine» e dalle proprie famiglie «tradizionali» per metterle sotto accusa dopo aver abbracciato il discorso emancipazionista su base concorrenziale che vige in Occidente. È anche in questa dinamica che vanno comprese le politiche assimilazioniste e integrazioniste che vigono nella Francia contemporanea, paese in cui non più solo gay, lesbiche e femministe bianche, ma anche quelli provenienti dai paesi ex colonizzati, si fanno portavoce di un discorso emancipazionista che si sposa benissimo con le necessità dell’imperialismo contemporaneo e con le sue esigenze di coperture ideologiche per combattere «la guerra al terrore», sia sul fronte esterno che su quello interno. In questo frangente l’Europa si autorappresenta come un paese che tende ad annullare almeno formalmente le discriminazioni riguardanti il genere e l’orientamento sessuale, e si erge a baluardo dei diritti e della democrazia, componenti minacciate dall’Islam e dall’immigrazione. Una delle motivazioni ideologiche date dall’amministrazione Bush alla guerra in Afghanistan del 2001 era infatti stata la liberazione delle donne afghane dalla violenza dei talebani espressa simbolicamente dal burqa. In questo contesto una parte del movimento femminista statunitense dichiarò, ad esempio, pieno sostegno alla guerra di Bush mentre altre, salde su posizioni contro la guerra, caddero nella retorica della protezione delle «sorelle afghane», relegando di fatto le donne afghane ad uno statuto di subalternità e di silenzio. Questo atteggiamento pietistico nei confronti delle donne afghane è stato apertamente denunciato dalle donne di RAWA: l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane5. Nei paesi occidentali che hanno un ruolo strategico nello scenario geopolitico internazionale, le politiche di guerra in Medio Oriente trovano il loro contraltare interno nelle politiche razziste e securitarie maturate in un clima di caccia al terrorista islamico. Il nuovo ordine securitario post 11 settembre 2001 si poggia anche sulla costruzione dell’Islam come quintessenza del sessismo e dell’omofobia, incarnata dall’uomo musulmano violento, tradizionalista e misogino e della donna musulmana velata ritenuta sia sottomessa che agente attivo della minaccia all’ordine sociale: il suo velo, ritenuto strumento di 5 Krista Hunt, Embedded Feminism and the War on Terror, in Krista Hunt, Kym Rygiel (a cura di), (En)Gendering the War on Terror. War Stories and Camoufladged Politics, Ashgate, Adergot 2006, pp. 51-71. 159 proselitismo, è inoltre un’arma di camuffamento che rende difficile la decifrazione del corpo di chi lo indossa. Guardando al contesto europeo i cittadini di fede musulmana discendono principalmente dal movimento di diaspora dalle ex colonie che nel Novecento costituivano i territori d’Oltremare delle principali potenze imperialiste occidentali. Per questa ragione le politiche di guerra in Medio Oriente e le politiche securitarie/razziste in Europa vanno lette alla luce della storia e delle fratture coloniali6 e postcoloniali che caratterizzano e hanno caratterizzato la storia europea nel suo rapporto di dominazione coloniale con le popolazioni assoggettate. Il femminismo postcoloniale, quello africano-americano e i vari femminismi della diaspora da tempo argomentano che i disciplinamenti del genere, della razza, della classe, della religione sono stati gli assi di potere costitutivi della violenza coloniale. Quando sono iniziati i primi movimenti migratori di massa dalle ex colonie nelle ex madrepatrie, le classi dirigenti europee, con strategie diverse, si sono ritrovate a gestire sul suolo europeo l’arrivo delle popolazioni assoggettate nel periodo coloniale. È in questo contesto, in cui lo spazio pubblico europeo è sempre più attraversato da popolazioni non bianche e non giudeo-cristiane, che vanno letti i dispositivi contemporanei di disciplinamento del genere, della razza, della classe, della religione, che sono ben condensati nelle leggi che vietano l’uso del velo nelle scuole e del burqa in ogni luogo pubblico del territorio francese. 2. Ordine securitario nella Francia di Sarkozy e disciplinamento del genere e della razza nel contesto coloniale e postcoloniale Il 14 settembre 2010 il Parlamento francese ha votato la nuova legge che vieta l’uso in pubblico del velo integrale. Il dibattito sul velo in Francia, iniziato pubblicamente in Algeria durante la colonizzazione francese e rivitalizzato a partire dal 1989 nella Francia metropolitana, ha una risonanza molto più ampia dei confini na6 La fracture coloniale è il titolo di un’opera collettiva che analizza la società francese alla luce delle fratture sociali create dal passato coloniale; cfr. Pascal Blanchard, Nicolas Bancel e Sandrine Lemaire (a cura di), La fracture coloniale. La société française au prisme de l’héritage colonial, La Découverte, Parigi 2005. 160 zionali, tanto da diventare uno dei nodi focali dello scontro di civiltà che si è aperto con la fine dell’Europa dei due blocchi. La scelta del Parlamento francese di vietare il velo integrale va inserita all’interno delle politiche di sicurezza e di governo dello spazio pubblico attraversato da quel processo di frattura coloniale e postcoloniale sopra accennato7. Alla luce di ciò non è un caso, ad esempio, che negli stessi giorni in cui il Parlamento francese ha votato la legge anti-burqa, la procura di Bobigny ha stabilito il non luogo a procedere nei confronti dei due poliziotti responsabili della morte di Zyed Benna e Bouna Traoré: i due adolescenti di Clichy-sous-Bois, figli di immigrati, uccisi da una scarica elettrica sprigionatasi all’interno del trasformatore elettrico in cui si erano rifugiati per sfuggire ad un controllo di polizia che pattugliava la banlieue a nord di Parigi il 27 ottobre 2005. La morte dei due giovani diciassettenni diede vita a tre settimane di rivolte che si scagliarono contro le politiche sull’immigrazione, l’integrazione e la cittadinanza, mettendo sotto attacco il razzismo dei governi e della società francese8. Le rivolte delle banlieues vennero sedate attraverso una decisa politica repressiva e securitaria da parte del governo che decretò lo stato d’emergenza utilizzando norme legislative risalenti alla guerra d’Algeria9. In quel periodo l’allora Ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy pronunciò parole durissime nei confronti dei giovani in rivolta definendoli la feccia della Francia i cui quartieri in rivolta dovevano essere ripuliti con il karcher. Sei mesi più tardi il più grande movimento di protesta studentesca della storia della Francia contro il contrat7 Per un’analisi della società francese contemporanea in relazione al suo passato coloniale e alle dinamiche della postcolonialità si veda, oltre al già citato La fracture coloniale, Nicholas Bancel, Florence Bernault, Pascal Blanchard, Ahmed Boubaker, Achille Mbembe, Françoise Vergès (a cura di), Ruptures postcoloniales. Les nouveaux visages de la société française, La Découverte, Parigi 2010. 8 Per una ricostruzione in italiano della storia delle rivolte nelle banlieues parigine si veda Guido Caldiron, Banlieue. Vita e rivolta nelle periferie della metropoli, manifestolibri, Roma 2005. Per comprendere il contesto della rivolta e gli effetti delle discriminazione sulla vita dei giovani delle banlieues parigine si veda ad esempio Younes Amrani e Stéphane Beaud, Pays de malheur! Un jeune de cité écrit à un sociologue, La Découverte, Parigi 2004. 9 Per un’analisi delle politiche securitarie in Francia in relazione alle dinamiche coloniali e postcoloniali si veda Mathieu Rigouste, L’ennemi intérieur. La généalogie coloniale et militaire de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine, La Découverte, Parigi 2009. 161 to di primo impiego (Contrat première embauche)10 scuoteva la società francese: la stretta securitaria del governo contro le banlieues era volta ad inaugurare una stagione di repressione anche nei confronti del movimento studentesco. Le immagini degli scontri con la polizia nelle banlieues e nelle strade del centro di Parigi si imposero all’attenzione mediatica nel paese: in quel periodo qualsiasi giovane che indossasse una felpa con cappuccio e/o avesse il volto coperto era indicato come il nemico interno attentatore dell’ordine pubblico. Un anno prima dell’esplosione delle rivolte delle banlieues e delle rivolte studentesche il governo aveva varato la legge che impediva il velo nelle scuole pubbliche di Francia. A differenza della nuova legge sul burqa del 2010 che ha un chiaro intendo securitario, la legge del 2004 ha avuto come impalcatura ideologica la questione della laicità. Chiara Bonfiglioli11 ha sottolineato come il decreto legislativo del 2004 andasse già inscritto nel clima generale di politiche securitarie repressive e di disciplinamento del comportamento nello spazio pubblico. Lo scopo della legge sul velo è stato quindi quello di contribuire ad una maggiore stigmatizzazione e discriminazione delle popolazioni provenienti dalle ex colonie che vivono in quei luoghi di segregazione e violenza poliziesca che sono le periferie francesi. La legge sul burqa, che interdice il mascheramento del volto all’interno dello spazio pubblico, intervenendo in materia di tecnologie del corpo e di costruzione del genere, punisce inoltre tutti coloro che obbligano le donne a dissimulare il proprio volto attraverso il velo integrale. In questo modo si stabilisce che le donne che indossano il velo integrale sono sottomesse al volere degli uomini, siano essi mariti o fratelli, e dunque prive di quella capacità di agire e di emanciparsi che sarebbe la cifra distintiva delle donne senza velo. La difesa dei diritti delle donne da parte di Sarkozy e degli uomini del suo governo è rivelatrice di quella che Spivak ha definito la necessità «degli uomini bianchi di salvare le donne scure dagli uomini 10 Contratto che autorizzava i padroni a imporre due anni di prova prima di assumere giovani al di sotto dei 26 anni. Il contratto venne ritirato in seguito alle proteste, rimase invece in piedi l’intero pacchetto legislativo che prevede varie misure volte a precarizzare il lavoro giovanile e che era stato presentato dal governo di De Villepin come una risposta politica alle rivolte delle banlieues del novembre 2005. 11 Chiara Bonfiglioli, La battaglia del velo. Laicismo e femminismi nella Francia postcoloniale, in Zapruder, n. 13, maggio-agosto 2007, pp. 82-87. 162 scuri»12. Gli uomini di governo, che fanno politiche antisociali aumentando la precarietà e diminuendo la sicurezza sociale delle donne, improvvisamente si ergono a difensori dei diritti di queste ultime, quei diritti che i governanti stessi affossano. Durante il dominio coloniale britannico, francese, italiano, solo per citare alcuni esempi, i colonizzatori hanno messo al centro della loro strategia la conquista, il disciplinamento e il controllo della costruzione sociale del genere e della razza13. Queste strategie si materializzarono in una serie di politiche di carattere del tutto ambivalente che allo stesso tempo favorivano e disciplinavano il contatto tra colonizzatori e colonizzati. La conquista delle donne colonizzate divenne uno degli obiettivi dei colonizzatori. Il discorso sui diritti delle donne si accompagnava al più brutale sessismo e razzismo che equiparava il corpo delle donne colonizzate a terre da penetrare, nelle quali distillare il seme della civiltà e dell’emancipazione che avevano trovato vita nell’Occidente. Secondo questa narrazione le donne colonizzate vivevano in società fortemente patriarcali, in un regime di dominazione maschile molto più arretrato rispetto al contesto occidentale. Gli uomini bianchi si assunsero quindi il ruolo politico di entrare in contatto con le donne colonizzate per liberarle dalla morsa del patriarcato «indigeno». Le guerre coloniali hanno fatto grande uso di argomentazioni legate alla conquista delle donne per convincere il maggior numero di uomini possibili a raggiungere le colonie. Secondo Giulietta Stefani l’idea di collegare l’impresa coloniale con la conquista sessuale nasce da una chiara ragione sessista e misogina in risposta alle prime forme di emancipazione e conquiste delle donne bianche in Occidente e da una ipotetica crisi della mascolinità europea alla fine dell’Ottocento. Nelle élite borghesi europee si diffuse il timore che la vita sedentaria e ripetitiva al tempo della società a capitalismo avanzato portasse ad una degenerazione della mascolinità tale da trasformare gli uomini in individui malati, impauriti, malaticci, isterici, nervosi, effeminati, omosessuali. Da qui la necessità di una rigenerazione per gli uomini bianchi dell’Europa. Il colonialismo, la prima guerra mondiale, i movimenti 12 Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subalterns Speak?, in C. Nelson, L. Grossberg, Marxism and the Interpretation of Culture, Illinois University Press, Urbana 1988. 13 Anne McClintock, Imperial Leather. Race, Gender and Sexuality in the Colonial Context, Routledge, New York - Londra 1995. 163 nazionalisti fornirono l’occasione ideologica per restituire, attraverso la legittimazione politica dell’uso della violenza, un ruolo forte agli uomini14. In questa concorrenza tra la mascolinità bianca e la prima ondata del movimento femminista a farne le spese furono le donne e gli uomini colonizzati, il cui corpo, ritenuto razzialmente inferiore, divenne il territorio su cui sperimentare pratiche disumanizzanti e per conquistare uno spazio su cui legittimare il potere dei colonizzatori. La prima ondata del femminismo emancipazionista fu attraversata a livello internazionale da varie correnti che si posizionavano diversamente nei riguardi delle imprese coloniali e imperialiste: accanto a correnti dichiaratamente anticoloniali e contro la schiavitù si svilupparono correnti che sostennero le espansioni d’Oltremare15. Questo avvenne in un contesto in cui la mascolinità e la femminilità bianca si costruirono specularmente alla mascolinità e alla femminilità nera e «orientale». Molte donne bianche si recarono nelle colonie e a loro venne affidato il ruolo di moglie del colonizzatore con lo scopo di rinforzare la segregazione razziale e di legittimare la costruzione della donna colonizzata come prostituta e serva/schiava. In questo frangente le donne europee bianche sono state una sorta di guardiane del modello della famiglia bianca eterosessuale «civilizzata» in contrapposizione alla costruzione dell’ipersessualizzazione e assenza di «moralità» delle donne e degli uomini colonizzati. L’accesso alla cittadinanza per le donne bianche in Europa si misurò, quindi, in concorrenza con la negazione dei diritti e dell’umanità delle donne colonizzate. La retorica dell’emancipazione ha giocato un ruolo determinante in questo processo. Il 13 maggio 1958, in piena guerra d’Algeria, un gruppo di donne francesi che aderivano al Movimento di solidarietà femminile, fondato dalla moglie del comandante dell’esercito francese in Algeria, misero in atto cerimonie di svelamento in cui, in una piazza centrale di Algeri, bruciarono i veli indossati da alcune donne algerine. Questa azione 14 Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, ombre corte, Verona 2007, pp. 40-45. 15 Un’analisi dei posizionamenti della corrente emancipazionista italiana in relazione all’impresa coloniale in Africa Orientale è affrontata da Catia Papa in Sotto altri cieli. L’Oltremare nel movimento femminile italiano (1870-1915), Viella, Roma 2009. Angela Davis ha invece analizzato le divergenze e le convergenze del movimento emancipazionista americano riguardo alla schiavitù, al voto e alla cittadinanza in Women, Race and Class, Vintage Books, 1983. 164 simbolica, accompagnata dall’urlo «Viva l’Algeria francese», ha utilizzato la retorica dell’emancipazione della donna algerina per nascondere la vera posta in gioco della cerimonia di svelamento: il velo era uno dei principali strumenti di camuffamento utilizzati dalle donne e dagli uomini algerini impegnati nella resistenza per trasportare armi e bombe e per attraversare i territori divisi in zone francesi e algerine. Il velo era quindi una tecnologia del corpo necessaria alla guerra di liberazione. Svelare le donne è stata, dunque, una strategia da parte del colonizzatore per depotenziare la resistenza algerina e per rompere la solidarietà tra donne e uomini algerini: l’emancipazione predicata dalle donne del Movimento di solidarietà femminile aveva come impalcatura ideologica l’idea che le donne algerine dovessero liberarsi, svelandosi, dal patriarcato algerino per avvicinarsi ai codici di genere e ai ruoli sociali stabiliti dal patriarcato francese. Secondo questo movimento di assimilazione al modello dominante del colonizzatore le donne algerine dovevano prima di tutto smettere di essere delle resistenti16. 3. L’affare del burqa: disciplinamento dello spazio pubblico Nei giorni in cui il Parlamento francese ha definitivamente votato le legge sul velo integrale una grossa ondata di scioperi e cortei attraversa la Francia mettendo in discussione gli attacchi allo Stato sociale portati avanti dal governo Sarkozy in materia di pensioni. Nel solo mese di settembre oltre 3 milioni di persone sono scese in piazza in tutta la Francia contro la riforma delle pensioni che vorrebbe aumentare l’età pensionabile, in concomitanza a grande ondate di scioperi. Mentre il 4 settembre 200.000 persone hanno sfilato in tutta la Francia contro le politiche razziste e la deportazione dei rom, nuova frontiera delle politiche securitarie in Francia. La votazione della legge sul burqa è un chiaro segnale attraverso cui il governo cerca di dividere i movimenti sociali in corso, spostando l’attenzione e la rabbia della gente su un fenomeno capace di inasprire le divisioni sociali. In risposta alle lotte dal basso contro il razzismo e la riforma delle pensioni, il governo, a partire dal 16 settembre, 16 Oltre al già citato articolo di Chiara Bonfiglioli si veda Frantz Fanon, L’Algérie se dévoile, in L’an V de la révolution algérienne, La Découverte, Parigi 2001. 165 ha dichiarato, inoltre, lo stato di allerta per possibili attentati terroristici. Il dibattito sul burqa va quindi inserito in questo contesto di precarietà sociale e lavorativa e di risposta securitaria nei confronti di tutti quegli attori sociali che minacciano la tenuta del governo Sarkozy. Che la legge sul velo integrale sia uno dei pretesti per indebolire le proteste nei confronti delle misure antisociali del governo e per spezzare la radicalità dei movimenti è dimostrato dal fatto che ufficialmente a portare in velo integrale in Francia siano 367 donne! Secondo la filosofa queer femminista francese Elsa Dorlin il dibattito intorno al burqa rivela la presenza di un sistema di «polizia del genere»17: attraverso il disciplinamento delle espressioni del corpo nello spazio pubblico francese solo i corpi «leggibili» e identificabili hanno diritto di cittadinanza, mentre i corpi che restano difficili da decodificare devono essere sanzionati o espulsi dalla sfera pubblica. Secondo Dorlin la legge sul burqa va letta in relazione ad una serie di leggi, proposte legislative e dibattiti pubblici attraverso cui la classe dirigente francese sta costruendo il suo sistema di «polizia di genere». La legge sul burqa è stata scritta sotto la supervisione di Elisabeth Badinter, una «femminista di Stato» che è stata l’interlocutrice privilegiata del Parlamento. Nei discorsi di Badinter il velo è stato più volte accostato alla gonna: la presenza di donne velate costituisce una minaccia per tutte quelle donne che scelgono di indossare la gonna. Rifacendosi alla mitologia della gonna come simbolo dell’emancipazione delle donne in Occidente, le donne velate integralmente sarebbero simbolo della non modernità. La minaccia per le donne in gonna sarebbe l’elemento che caratterizza la vita delle francesi bianche nel momento in cui incontrano nello spazio pubblico uomini musulmani. In questo modo si costruisce l’idea che per le donne bianche «in gonna» lo spazio pubblico sia il luogo della minaccia sessista portata avanti dagli uomini non bianchi; costruendo l’idea che per le donne bianche l’unico luogo di violenza sia lo spazio pubblico, si occulta così la violenza che dimora nello spazio privato e si stabilisce la retorica secondo la quale gli uomini bianchi francesi abbiano abbandonato il sessismo, che rimane ap17 Elsa Dorlin, Le grand strip-tease: féminisme, nationalisme et burqa en France, in Nicholas Bancel, Florence Bernault, Pascal Blanchard, Ahmed Boubaker, Achille Mbembe, Françoise Vergès (a cura di), Ruptures postcoloniales. Les nouveaux visages de la société française, La Découverte, Parigi 2010, p. 433. 166 pannaggio degli uomini di «origine straniera»18. Ma non tutte le gonne hanno lo stesso diritto di cittadinanza nello spazio pubblico: è necessario capire quale sia la misura giusta che permette di distinguere tra loro le donne sex worker da quelle non sex worker19. Secondo Badinter il velo integrale impedisce inoltre di capire se sotto di esso si nasconda un uomo o una donna, una donna bella o una donna brutta. Per questa ragione secondo Dorlin, la legge sul velo va letta in relazione alla proposta di legge contro il travestimento, depositata nell’ottobre 2009, che vorrebbe interdire tutti gli abiti e gli accessori che permettono di nascondere la «vera» identità di genere di una persona. Come rivela Dorlin la legge sul velo e le proposte di legge contro il travestitismo mirano ad escludere e a punire tutti quei soggetti che si discostano dalla norma di genere e di razza dominante, ovvero dal sistema di relazione eterosessuale e bianco, i cui i codici di genere non possono che essere due e rifarsi alla mascolinità e alla femminilità bianca ed eterosessuale. Questi decreti dimostrano come lo spazio pubblico non sia un luogo neutro, ma una sorta di campo di battaglia segnato da relazioni di potere e gerarchie sociali che si strutturano lungo assi di differenziazione quali il genere, la razza, la classe, la religione, la sessualità. Nello spazio pubblico francese dominato dalla «laicità» obbligatoria, che cerca di attaccare ogni «comunitarismo» si nasconde la volontà delle élite al potere di modellare la società francese attraverso un’omogeneizzazione che tende verso l’alto: lo spazio pubblico è il luogo dove può avvenire l’integrazione e l’assimilazione, ovvero dove deve avverarsi l’allineamento sulle esigenze economiche, sociali e culturali della classe media, escludendo dalla sfera pubblica tutti i singoli e le «minoranze», i presunti «comunitarismi» che non si adeguano al modello sociale espresso dalla classe dirigente. 4. Identità nazionale e il caso di Ilham Moussaid A partire dal mese di novembre 2009 fino al mese di febbraio 2010, in piena campagna elettorale per le elezioni regionali, il go18 Elsa Dorlin, op. cit., pp. 435-437. Elsa Dorlin, in un intervento all’università di Bordeaux disponibile on-line al sito http://webtv.u-bordeaux3.fr/spip.php?article116=. 19 167