Nessuna differenza tra musulmane in burqa e

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Nessuna differenza tra musulmane in burqa e
Nessuna differenza tra musulmane in burqa e occidentali in tanga - Massimo Fini
In Francia avanza un progetto di legge per vietare il burqa, il tradizionale indumento che copre
interamente il viso in uso non solo in Afghanistan ma in vaste aree del mondo musulmano, nei
luoghi pubblici. La «ratio» del divieto è che il burqa (e anche il niqab dei sauditi) sarebbe
«contrario ai principi della Repubblica, alla dignità della donna, alla laicità dello Stato». In Italia
si sono già dichiarati favorevoli all’ipotesi francese il ministro Mara Carfagna e, in genere, i
leghisti. In realtà il divieto di indossare il burqa è contrario a un principio cardine della
liberaldemocrazia difficilmente scavalcabile: quello della libertà di espressione del proprio
pensiero. Perché di questo si tratta, prima ancora che di libertà religiosa. In quanto alla laicità
dello Stato, molto sentita in Francia meno in Italia, essa contraddice se stessa se vieta i simboli
religiosi. Perché si trasforma a sua volta in una religione laica, assolutista, intollerante dell’altro
da sè che è proprio il contrario del concetto di laicità rettamente inteso, di quel principio
illuminista per cui «ognuno è libero di fare ciò che vuole nella misura in cui non nuocere agli
altri». E se una donna indossa il burqa o il niqab non nuoce a nessuno, non offende nessuno se
non gli intolleranti che non sopportano nulla che sia estraneo dalla propria cultura. Dice: ma
il burqa conculca la libertà della donna. Si parte dal presupposto che il burqa, nella tradizione e
nella cultura musulmana, sia un’imposizione maschile. Ma questo è un punto di vista
prettamente occidentale. Nulla ci dice che, soprattutto qui in Europa, una donna indossi il burqa
perché così le va di fare. E se le Stato glielo impedisce per legge viola un principio di libertà
della persona. Viola il diritto della persona di affermare la propria identità, religiosa o laica che
sia. Per questo nei Paesi del Magreb molte delle giovani donne hanno ripreso a portare il niqab
per difendere la propria identità insidiata dalla tambureggiante propaganda occidentale che le
vorrebbe omologare ai costumi delle nostre donne. In quanto al fatto che il burqa o indumenti
similari offenderebbero la «dignità della donna» ci sarebbe molto da discutere se non offenda di
più questa dignità l’uso che facciamo noi del suo corpo, esponendo a pezzi e bocconi, come
quarti di macelleria, nelle pubblicità, sui giornali, nei film, e l’uso estremamente disinvolto che ne
fa la stessa donna occidentale. Gira e rigira si torna, almeno in occidente, al punto di partenza:
ognuno è libero di fare ciò che vuole nella misura in cui non nuoce agli altri. Una donna
musulmana di indossare il burqua, e una occidentale di sculare in tanga sulle nostre
spiagge. La sola ragione ragionevole per vietare il burqa attiene alla sicurezza, alla
possibilità di identificare una persona attraverso il suo volto. Ma allora bisognerebbe proibire
anche i caschi da motociclista. Qualcuno afferma che il divieto del burqa è uno strumento per
favorire l’integrazione. Ma l’integrazione non si ottiene a botte di divieti, che anzi, di solito,
sortiscono l’effetto contrario, di ribellione. E, anche qui, l’integrazione è una possibilità, non un
obbligo. Sempre che rispetti le leggi del Paese di cui sono ospite io ho il diritto di preservare
intatta la mia identità, le mie tradizioni, i miei costumi senza contaminarli con quelli altrui. Ha
detto molto bene, sintetizzando, Antonio Di Pietro: «Il burqa come strumento di costrizione è
una gabbia, come libera scelta è un diritto individuale».
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