Date a Cesare, Date a Dio_Spunti di esegesi

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Date a Cesare, Date a Dio_Spunti di esegesi
DATE A CESARE QUELLO CHE E’ DI CESARE»
(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)
di Paolo Farinella, prete
Per comprendere il brano del vangelo che commentiamo è necessario capirne la portata altrimenti lo si usa a
sproposito, come comunemente fanno tutti, anche vescovi e cardinali, dimostrando così una strutturale «ignoranza
delle Scritture»1 e fomentando interpretazioni che col vangelo non hanno nulla a che fare. Il testo del versetto appartiene alla triplice tradizione sinottica (in Gv è assente), segno di una tradizione attestata a cui la comunità primitiva
ha attribuito molta importanza: il testo si trova in Mt 22,15; Mac 12,21 e Lc 20,17. Di solito quando si cita questo
versetto lo si applica senza alcuna mediazione alla separazione tra Stato e Chiesa: Cesare e Dio come due dirimpettai antagonisti, stabilendo una forma di idolatria perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. In questo modo si fa
«eis-egesi», si mette cioè dentro il testo la nostra comprensione e non «es-egesi» che invece è la scienza che estrae
dal testo il senso genuino nel rispetto della «mens» dell’Autore. Proviamo a lasciarci guidare dal testo nel suo contesto per capire che cosa i sinottici (Mc, Mt e Lc) vogliono dire con l’espressione citata. Leggiamo il testo
Il testo
Da un punto di vista critico le varianti testuali, abbastanza notevoli specialmente in Mc e Lc non sono decisive per quanto concerne il contenuto perché riguardano prevalentemente la forma. In più il versetto decisivo che è la
risposta di Gesù è riportato dai tre sinottici in modo uniforme con piccole varianti di tipo stilistico. Nella nostra riflessione ci facciamo guidare dal testo di Lc che meglio esprime il contesto di complotto e di tensione. Leggiamo.
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Mc 12,(12).13-17
E cercavano di catturarlo, ma ebbero
paura della folla; avevano capito infatti
che aveva detto quella parabola contro
di loro2. Lo lasciarono e se ne andarono.
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Mandarono da lui alcuni farisei ed
erodiani3, per coglierlo in fallo nel discorso.
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a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo
verità. Tu non hai soggezione di alcuno,
perché non guardi in faccia a nessuno.
17
Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”.
Lc 20,19-26
In quel momento gli scribi e i capi
dei sacerdoti cercarono di mettergli le
mani addosso, ma ebbero paura del
popolo. Avevano capito infatti che
quella parabola l’aveva detta per loro.
20
Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone
giuste, per coglierlo in fallo nel parlare
e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore.
21
Costoro lo interrogarono: “Maestro,
sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno,
ma insegni qual è la via di Dio secondo
verità. 22È lecito, o no, che noi paghiamo la tassa a Cesare?”.
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Ma Gesù, conoscendo la loro malizia,
rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19 Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro.
20
Egli domandò loro: “Questa immagine
e l’iscrizione, di chi sono?”.
21
Gli risposero: “Di Cesare”.
Allora disse loro: “Rendete dunque a
Cesare quello che è di Cesare e a Dio
quello che è di Dio”.
23
22
26
Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in
faccia a nessuno, ma insegni la via di
Dio secondo verità. È lecito o no pagare
il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare,
o no?”.
15
Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia,
disse loro: “Perché volete mettermi alla
prova? Portatemi un denaro4: voglio
vederlo”. 16Ed essi glielo portarono.
Allora disse loro: “Questa immagine e
l’iscrizione, di chi sono?”.
Gli risposero: “Di Cesare”.
17
Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è
di Dio, a Dio”5.
E rimasero ammirati di lui.
Mt 22,15-22
Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri
discepoli, con gli erodiani,
A queste parole rimasero meravigliati, lo
lasciarono e se ne andarono.
1
19
Rendendosi conto della loro malizia,
disse: 24“Mostratemi un denaro:
di chi porta l’immagine e l’iscrizione?”.
Risposero: “Di Cesare”.
Ed egli disse: “Rendete dunque quello
che è di Cesare a Cesare e quello che è
di Dio a Dio”.
25
Così non riuscirono a coglierlo in fallo
nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.
Cf «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est – L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (S. Girolamo,
Commento al profeta Isaia, Prologo; citato nella Dei Verbum 25).
2
La parabola dei contadini omicidi in Mc 12,1-12.
3
Gli erodiani costituivano un partito di cortigiani e sostenitori di Erode, favorevoli ai Romani.
4
Il denaro d’argento di Tiberio recava l’immagine dell’imperatore che così affermava la sua autorità su chiunque avesse avuto in mano la sua moneta.
5
In caso di risposta affermativa, Gesù sarebbe stato additato al popolo come fautore dell’imperatore pagano; la risposta
negativa sarebbe servita come accusa presso l’autorità romana.
1
- Il testo di Mc 12,17 che sta alla base degli altri due (Mt 22,21 e Lc 20,25) tradotto alla lettera, è il seguente: «16Di
chi è l’immagine (eikôn) e l’iscrizione? Ed essi risposero: “Di Cesare”. 17 Gesù, quindi, disse loro: “Le cose [che
sono] di Cesare restituite a Cesare, e (= contemporaneamente) le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».
- Luca a differenza di Mc aggiunge: «E disse quindi [Gesù] a loro: “Pertanto dunque/di conseguenza ridate/restituite le cose [che sono] di Cesare a Cesare e (= contemporaneamente) le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio” ()».
Osservazione morfologica: tra la prima parte e la seconda ci si aspetterebbe la congiunzione coordinativa avversativa «allà
– ma», mentre troviamo la congiunzione coordinante copulativa «kài – e» che impone di porre i due membri del versetto non
in opposizione, ma in correlazione: «Le cose [che sono] di Cesare restituite a Cesare “e” (= contemporaneamente/nello stesso tempo) le cose [che sono] di Dio [ridate] a Dio”».
Una questione antica
Per capire il brano del vangelo bisogna andare indietro ad uno scritto del sec. VII a. C. che a sua volta descrive con ogni probabilità eventi avvenuti nel sec. XIII a. C. di cui però è difficile se non impossibile stabilire la
cronologia. Il testo appartiene al ciclo dei «Giudici di Israele», qui l’ultimo di essi, Samuele a cui la tradizione biblica attribuisce due libri, il 1 e 2 Samuele che nella Bibbia ebraica corrispondo al 1 e 2 libro dei Re.
«1Quando Samuele fu vecchio, stabilì giudici d’Israele i suoi figli. 2Il primogenito si chiamava Gioele, il secondogenito Abia; erano giudici a Bersabea. 3I figli di lui però non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto. 4Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. 5Gli
dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli”. 6Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque, perché avevano detto: “Dacci un re che
sia nostro giudice”. Perciò Samuele pregò il Signore. 7Il Signore disse a Samuele: “Ascolta la voce del popolo, qualunque
cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro”» (1Sam 8,8).
La richiesta di un re su Israele è illegittima perché il popolo scelto da Dio per la sua epopea di salvezza dovrebbe solo Yhwh, il Dio liberatore e creatore (cf 1Cr 16,31; Sal 93/92,1; 96/95,10; 97/96,1; 99/98,1Gv 12,13). Da
questo momento comincia un tempo burrascoso per Israele e la monarchia non attecchirà mai, ma sopravvivrà solo
per un paio di secoli e sarà causa di distruzione, di morte e di afflizione per tutto il popolo. Non bisogna perdere di
vista questo testo quando leggiamo il racconto dello scontro tra i capi dei sacerdoti e Gesù perché di questo si tratta
si tratta: stabilire chi è il re d’Israele, anzi chi è il Dio dei capi dei sacerdoti e degli scribi.
Il popolo esige un re come giudice «come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). Il popolo sa che il re li dissanguerà il popolo, che ruberà i loro figli e li manderà in guerra, che rapirà le loro figlie per farne schiave nel suo harem, il re farà solo gli interessi di sé e della sua famiglia e di coloro che lo adulano, eppure vogliono un re, vogliono
essere governati da un aguzzino, avverando così la Parola di Dio detta per mezzo di Samuele:
«10Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. 11Disse: “Questo sarà il diritto del re che
regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, 12li
farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le
sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. 13Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie.
14
Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. 15Sulle vostre sementi e sulle
vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. 16Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti
migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. 17Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. 18Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”. 19Il popolo rifiutò di ascoltare
la voce di Samuele e disse: “No! Ci sia un re su di noi. 20Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice,
uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”» (1Sam 8,10-20).
Gli anziani d’Israele chiedono al profeta un re «come avviene per tutti i popoli» e Dio li accontenta, consapevole che hanno rifiutato lui, loro liberatore e creatore. La storia di ripete, perché i loro discendenti, faranno lo stesso aggravando la situazione. Non più davanti ad un profeta, ma davanti al procuratore romano, rappresentante
dell’imperatore pagano che occupa la terra santa d’Israele, essi proclamano ufficialmente di non avere altro Dio che
Cesare e quindi consegnano la loro fedeltà ad un re usurpatore in sostituzione di Dio. Durante la passione di Gesù
secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19) gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore, di
trovano davanti ad una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e incoronano Cesare come loro padrone. Quando Pilato, il rappresentante dell’imperatore li obbliga scegliere, essi non hanno esitazione:
«Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare …14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro
re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei
sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).
In nome e in forza della Scrittura, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con
l’immagine dell’imperatore che ha preteso di usurpare la regalità di Dio. La questione è talmente delicata che al
tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano. Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava
2
le immagini sacre, fissa la propria residenza a Cesarea Marittima dove può tenere le insegne con le effigi
dell’imperatore e quando va a Gerusalemme non le porta con sé per rispetto e anche per paura di sommosse popolari.
Il rappresentante dell’imperatore ha rispetto per quella religione che gli stessi membri del sinedrio disprezzano al punto da portare con sé le monete romane e l’effige di Cesare. Essi infatti usano il denaro di Cesare nei loro
traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal
loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il
popolo verso l’autorità di Dio?
La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige
dell’imperatore non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio e per ovviare a ciò
nel portico del tempio vi erano i cambiavalute che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale
israeliana E’ questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19) Non bisogna dimenticare che l’imperatore
romano si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.
Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè
la gerarchia nel suo complesso, acclamano pubblicamente di portare in sé non più «l’immagine» di Dio (cf Gen
1,27), ma quella mercantile del re pagano che tiene sotto sequestro il popolo eletto: è lui infatti che custodisce le vesti del sommo sacerdote come segno di potere arrogante, consegnandola tutte le volte che è necessario per il rito.
La conseguenza logica che se ne deduce dai testi è la seguente: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, coloro che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come
loro Re e Signore e si adeguano ad essere «come tutti gli altri popoli»: essere schiavi di un dittatore che li spreme
come limoni perché gli fa pagare le tasse per sé, per il senato e per il tempio. L’argomento che essi senza rendersene
conto pongono riguarda la persona di Dio e il rapporto che essi hanno con lui, se mai lo hanno. Gesù mette a nudo il
loro dramma e li richiama alla responsabilità di convertirsi. Tenendo conto di questo quadro, vediamo il testo.
Contesto: il complotto
Alla luce di questa panoramica contestuale che tiene conto di tutta la Scrittura, il contesto immediato dei tre
Sinottici e particolarmente in Lc è di complotto e di tensione:
- Lc 20,19: (mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo). C’è in attività una macchinazione per perseguire un fine ingiusto
- Lc 20,20: (informatori, che si fingessero persone giuste) e una collusione/complicità con il potere pagano e impuro
(v. 20: consegnarlo all’autorità e al potere del governatore).
- Lc 20,25: la risposta di Gesù è ad hominem, cioè diretta: non fa un discorso generale sulle tasse, ma risponde strettamente parlando alla risposta che l’immagine della moneta è di Cesare. Il testo greco dice alla lettera:
«E pertanto dunque/di conseguenza6, restituite (una volta per tutte)7 le cose di Cesare8 a Cesare e (= nello stesso tempo) le
cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio (      
)».
Il capitolo 20 di Lc si apre con due polemiche fortissime:
- Lc 20,1-8: Gesù si oppone ai «capi dei sacerdoti e gli scribi con gli anziani» (v. 1) che pretendono di limitare la
sua autorità e Gesù li mette all’angolo con domanda trabocchetto: il Battesimo di Giovanni viene da Dio o dagli
uomini? alla quale non possono rispondere.
- Lc 20,9-19: Lc espone la parabola dei contadini omicidi che Gesù pronuncia senza allusioni, perché come dice Mc
12,12: «avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro». Non può restare libero uno che mette in discussione la legittimità dell’autorità religiosa.
I capi religiosi vogliono però umiliare Gesù ad ogni costo e pongono la questione delle tasse e mettono in atto un complotto perverso, descritto in Lc 20,20: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero
persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore». E’ il metodo del fango, dell’inganno, della manipolazione della verità e della realtà. C’è lo spionaggio che significa una scelta cosciente: pur di raggiungere il fine qualsiasi mezzo è lecito. L’atteggiamento e la perversione dei capi religiosi
ha fatto scuola nella storia fino ai nostri giorni sia nella chiesa che nella società civile, dove ormai parte dei politicanti sono pervertiti e usano qualsiasi metodo, specialmente quello della denigrazione falsa e ignobile («metodo Boffo»).
La risposta di Gesù: la coerenza
Gesù sventa il tranello e va alla radice della questione. Chiedendo retoricamente di chi è l’«immagine», pone il problema radicale di quale autorità governa su Israele: gli imperatori romani facevano imprimere la propria ef6
Nel testo greco di Lc c’è «toínyn», congiunzione coordinante consecutiva o conclusiva (cf Blass-Debrunner §451,9).
Il greco usa l’imperativo aoristo, un tempo assoluto che indica un’azione compiuta in se stessa, una volta per tutte.
8
Genitivo di origine o di appartenenza (Blass-Debrunner §162,9 e § 266, 5a).
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fige sulle monete di metallo per due motivi: diffondere i propri lineamenti su tutto il proprio regno e affermare la
propria autorità sui propri sudditi.
I capi religiosi che dovrebbero guidare il popolo, il cui re è il Dio d’Israele (cf Sal 144/143,15) ma riconoscono l’autorità ad un imperatore che non può godere di alcun diritto di governo su Israele. In questo modo i capi
conducono il popolo nella schiavitù di un pagano e straniero usurpatore della legittimità di Dio. I capi sono responsabili della decadenza religiosa del della devianza etica del loro popolo perché confondono Dio con Cesare. Utilizzare la moneta dell’imperatore significa riconoscerne l’autorità, usarne i benefici e favorirne il potere. Quando vivevo
in Palestina, vedendo i miei amici palestinesi che spesso manifestavano contro Israele e gli Usa, gli facevo notare
una contraddizione: come potete contestare gli Usa se portate i suoi jeans e le sue scarpe nike? Come potete contestare Israele se ogni giorno voi usate la loro moneta e disprezzate quella palestinese perché vale nulla? Voi non sarete mai liberi. La rivoluzione di Gandhi contro il dominio inglese cominciò dai vestiti e dal rifiuto di usare la moneta
con lo’effige della regina. In pochi mesi crollò l’industri tessile inglese9.
a) Cesare: l’idolo dei capi dei sacerdoti
Nel rispondere che l’immagine è «di Cesare», i capi religiosi hanno dovuto prendere una moneta dalle loro
tasche, testimoniando così che non solo accettano l’autorità di un re usurpatore, ma che ne usufruiscono anche i benefici: usare le monete coniate da re straniero e invasore significa legittimare l’invasione e dichiararsi suoi sudditi.
La risposta di Gesù è duplice:
1.
2.
«E pertanto/di conseguenza, restituite [una volta per tutte] le cose di Cesare a Cesare» (per la morfosintassi v.
sopra le note 6, 7 e 8): se accettate l’autorità di Cesare, pur essendo un usurpatore dei diritti di Dio e del popolo
e se ne beneficiate perché trafficate con il suo denaro che utilizzate a vostro vantaggio per i vostri traffici, è vostro obbligo pagare le tasse perché non fate altro che restituire a Cesare ciò che gli appartiene, cioè ciò che vi ha
imposto e che voi servilmente avete accettato. Voi utilizzate i benefici di Cesare? Di che vi lamentate? Fare pagare le tasse è un suo diritto perché voi ne accettate i servizi. Siete voi che vi siete posti fuori dell’autorità di
Dio, usando il suo denaro e quindi riconoscendo la sua autorità su di voi. La conseguenza è tragica: se avete accettato l’autorità di un «idolo», cioè di Cesare, significa che avete rinnegato quella di Dio su di voi, in forza del
principio che «un servitore non può servire due padroni» (Lc 16,2).
Gesù, però, non si lascia perdere l’occasione per richiamare i capi alla verità della loro coerenza e li invita e ritornare «al principio», cioè all’autorità di Dio da cui si sono allontanati, cioè alla prospettiva di Genesi 1,27: «e
[ridate/restituite] le cose [che sono] di Dio a Dio», cioè ritornate alla vostra dignità di figli di Dio che non possono accettare di essere servi di un’autorità illegittima. E’ l’invito radicale a rompere la confusione tra un «Cesare» che pretende di essere di natura divina e «Dio» che esige che il suo popolo ne rappresenti «l’immagine».
Cesare, pretendeva di essere «dio» e si faceva chiamare «Divus» per cui accettare la sua autorità e trafficare con
il suo denaro che porta la sua immagine è un atto di apostasia perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio.
L’Ebreo che si sottomette a ciò contravviene al precetto di non farsi immagini di idoli (Es 20,4; Dt 4,16).
L’opposizione che Gesù pone tra Cesare e Dio è di natura religiosa non politica: si tratta di scegliere tra il Dio
creatore e Cesare imperatore, tra Dio che crea a sua immagine e Cesare che conia con la sua immagine, tra
Dio che regna in Israele e Cesare che occupa illegalmente Israele, tra Dio che stipula l’alleanza con il figli di
Abramo e Cesare che impone le tasse ai sudditi che vivono in Palestina.
Nota di attualità. Questa lettura è indirizzata ai vescovi italiani e al Vaticano che hanno accettato supinamente gli utili che
il governo immorale, illecito e immondo di Berlusconi, uomo corrotto e corruttore di giudici e di testimoni e spergiuro, avallandone così non solo la condotta sua personale, ma specialmente la politica omicida che ha distrutto il tessuto sociale
del Paese e affossato tutte le conquiste civili e lavorative che tanta lotta e sangue sono costati.
Ritorno al principio: l’uomo «immagine di Dio»
La risposta di Gesù è una risposta ad hominem all’argomentazione di «scribi e sommi sacerdoti» (cf Lc
20,19) che come massima autorità in Israele che avrebbero dovuto avere il discernimento per valutare le «cose di
Dio»; essi infatti hanno gli strumenti adeguati che sono la Scrittura e la tradizione dei padri. La risposta di Gesù non
è una risposta pacifica e superficiale e tanto meno una pronuncia sulla legittimità del potere o dell’autorità. Nelle parole di Gesù si trovano due risposte.
a) Una diretta (ad hominem) alla constatazione ovvia di scribi e sommi sacerdoti che l’immagine è di Cesare, per
cui è giusto che la moneta, che è proprietà dell’imperatore, gli venga restituita.
b) La seconda parte della risposta è una affermazione «teologica», autorevole e autoritativa di Gesù che richiama i
suoi interlocutori alla conversione al Dio della creazione di cui hanno usurpato l’immagine rendendola impura.
Essi usando il denaro con l’immagine di Cesare hanno apostato dalla fede e hanno commesso un sacrilegio.
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Ci domandiamo come possiamo contestare Berlusconi se noi ci avvaliamo di quei condoni che la nostra etica politica,
prima ancora che etica morale rifiuta? Come possiamo pensare di abbatterlo se noi lo foraggiamo vedendo le sue tv, comprando
i suoi prodotti? Come può la Gerarchia cattolica pensare minimamente di essere maestra di etica e di coscienze se baratta per un
po’ di soldi il suo appoggio e il suo silenzio?
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Per comprendere la risposta di Gesù bisogna rifarsi al libro della Genesi 1,27, dove si dice che Dio «creò
Adam (= genere umano) a immagine di Dio (ebr.: bezelèm ‘elohim)» che la Bibbia greca della Lxx, usata dalla prima
comunità cristiana, traduce con il termine «èikon» (gr: ; lett.: secondo l’immagine di Dio», definendo così il fondamento ontologico della consistenza dell’uomo e della donna: essi sono «immagine» di Dio, nel
senso che sono intimante legati insieme non nell’apparenza, ma nella sostanza.
Nella cultura orientale (assira, sumera, babilonese, ecc.) ogni sovrano segnava i confini con «statue» raffiguranti la sua «immagine»: chiunque la vedeva doveva riverirla in segno di accettazione dell’autorità di colui che rappresentava. Allo stesso modo, ogni sovrano incideva la propria immagine nelle monete per affermare il suo diritto su
chiunque lo possedesse.
Anche Dio si comporta allo stesso modo: creando la terra e popolandola di esseri viventi, pone «la sua immagine», cioè l’uomo (= essere umano) come riferimento della sua autorità, a cui non affida un compito passivo, ma
il potere di «dare il nome» che in oriente significa il potere di vita e di morte, il potere sulla natura (Gen 2,19-20),
con un limite formidabile: l’uomo esercita un potere vicario che esige l’ascolto e la tensione all’altro. In Gen 2,15 si
dice che «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» secondo la traduzione del greco
della LXX, mentre in ebraico si usano due verbi straordinari: «per servirlo e per osservarlo/custodirlo»10.
Il primo verbo indica il servizio liturgico, cioè la dipendenza affettiva e vitale, per cui l’uomo compie un atto
sacro da cui dipende progresso o regresso. Il secondo verbo è squisitamente giuridico perché è riservato
all’«osservanza» della Toràh e dei precetti. Il rapporto che c’è tra l’uomo e le realtà terrestri è un rapporto che lega
giuridicamente e costringe l’uomo ad «ascoltare» il mondo e le cose (in ebraico c’è assonanza tra «shama’ – ascoltare» e «shamàr – osservare/custodire». Da ciò nasce l’unione indissolubile tra l’individuo e l’ambiente naturale.
Liberando Israele dalla schiavitù di Egitto, Dio diventa l’unico re e l’unica autorità da cui il popolo dipende.
Mosè prima e i profeti poi, sono luogotenenti, intermediari. L’istituto del regno non è mai attecchito in Israele e infatti dura solo due secoli. Israele, dunque, ha Dio come autorità e re di cui è «immagine» rappresentativa o come si
direbbe oggi, garante di credibilità. La credibilità di Dio passa attraverso la «sua immagine» che è l’uomo non in
quanto maschio, ma in quanto essere vivente in relazione: «zakàr we neqebàch = pungente e perforata» (maschiofemmina)11.
E’ questo il contesto in cui si svolge l’intervista tra Gesù e i capi del popolo; se Gesù avesse risposto che non
è lecito pagare le tasse, lo avrebbero denunciato all’autorità romana e sarebbe stato messo a morte per insubordinazione e attentato allo Stato; se avesse detto che bisogna pagare le tasse all’imperatore e al senato di Roma, lo avrebbero denunciato al popolo che odiava i Romani e i gabellieri giudei considerati alla stessa stregua dei pagani.
Nell’un caso e nell’altro Gesù sarebbe stato comunque «morto».
Quale rapporto tra fede e politica?
A questo punto e dentro questo contesto di fede, si pone il problema del rapporto tra il potere politico/economico e l’ambito religioso e spirituale. L’individuo non vive sulle nuvole, ma sulla terra dove nulla è così
netto da spaccarsi con l’accetta, per cui è necessaria una vigilanza costante per non porre in atto un «sistema di confusione», una struttura di connivenze che portano a gestire benefici e utili, smarrendo la dovuta coerenza. Ognuno di
noi non parcellizzato: una volta è cristiano, una volta è politica, una volta è economico, una volta è sindacale; noi
siamo tutto in ogni momento. Il padre è al tempo stesso padre, ma anche figlio, amico, marito, impiegato, letterato,
studioso, sportivo, volontario, ecc. Ogni volta che celebriamo una Eucaristia noi compiamo l’atto più politico che
esista al mondo perché diciamo che Dio si spezza come il pane e si offre come cibo. Il vescovo di Recfe. dom Hèlder Cámara, soleva dire: quando dico che bisogna aiutare i poveri sono un «santo», quando dico perché esistono i
poveri sono «comunista». Se io faccio l’elemosina, tutti mi aiutano; se invece grido contro le ingiustizie che creano
l’elemosina, è facile che resti solo. Per molti cristiani, per la quasi totalità dei vescovi e del Vaticano, spesso Dio è
un alibi, un modo comodo per girarsi dall’altra parte per non vedere, come il sacerdote e il levita della parabola del
Samaritano nel vangelo di Luca (cf Lc 10,25-37).
Se si accettano i benefici economici (denaro, leggi su misura o di scambio), non si può contestare lo Stato o
il governo di turno, i quali hanno diritto di imporre la proprie leggi e di pretendere che siano osservate. Lo Stato può
pretendere obbedienza da chi usufruisce i vantaggi di esso e della sua protezione (cf Rom 13,1-8; Tit 3,1-3; 1Pt 2,1314). E’ quello che avviene con la gerarchia attuale della Chiesa cattolica che hanno scelto Berlusconi e la Lega come
loro referenti, facendo finta di essere sopra le parti: a cosa serviva l’invito a pranzo di Berlusconi e Letta da parte del
cardinale Ruini (Seminario Romano, 20 gennaio 2010; cf mia lettera a Ruini del 27-01-2010) se non quello di concordare come fare perdere le elezioni regionali del Lazio a Emma Bonino e farle vincere alla destra? Quale fu il
prezzo? Forse la sanità e le scuole cattoliche? Quale fu l’obiettivo della cena tra ìl segretario di Stato vaticano, Bertone, Berlusconi, Letta, Draghi, Casini e Geronzi a casa di Vespa?. In nome di quale principio evangelico o norma
10
Sull’esegesi del versetto in tutta la sua valenza cf il nostro Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2008, 67-75,
11
Sull’esegesi dell’espressione in tutto lo splendore del testo ebraico, cf IBIDEM, 61-65.
5
dello Stato un segretario di Stato Vaticano partecipa ad una cena tutta politica per tentare di riportare Casini
nell’alveo del governo? Quale contropartita ha dato Berlusconi al Vaticano? Che cosa ha chiesto in cambio Bertone?
Chi vuole contestare l’autorità e la legittimità dello Stato (v. 22: è lecito pagare) deve rinunciare ai privilegi
e ai vantaggi anche irrisori che lo Stato garantisce, in altre parole: la separazione totale o se si vuole: non può esserci commistione e confusione di sorta. In quanto cittadini noi abbiamo diritti e doveri che sono sanciti dalla carta
costituzionale e questi li dobbiamo esigere perché non sono una concessione benevole del governo di turno. Al di
fuori di ciò, dobbiamo essere attenti: se ci avvaliamo di un condono che riteniamo immorale, non possiamo poi
contestare il governo di immoralità; se frodiamo il fisco, evadendo le tasse, non possiamo andare in piazza a gridare contro l’evasore per eccellenza che è Berlusconi perché noi siamo conniventi con lui. Sul piano più strettamente
religioso, il matrimonio concordatario è una confusione perché se il ministro di culto è anche ufficiale di stato civile, come fa poi ad inveire contro il divorzio? In forza della risposta di Gesù che si appella alla coerenza sarebbe
d’obbligo la separazione dei regimi giuridici del matrimonio: per questo io consiglio alle coppie di separare i due
riti, sposandosi prima in civile e poi nella Chiesa, dando così al sacramento una valenza solo di fede.
Il vangelo di per sé non pone una opposizione tra «Cesare» e «Dio» né determina i confini tra le due sfere né
tanto meno dice che c’è una sfera d’influenza di Dio e una d’influenza di Cesare. Questo ragionamento è estraneo
al pensiero di Gesù perché illogico: il regno di Dio, infatti, pur non confondendosi con il regno di Cesare non è fuori del territorio su cui governa Cesare. Gesù non parla assolutamente di separazione tra «Stato e Chiesa»: questa è
una indebita conclusione estranea al testo, come se vi fossero due autorità equipollenti, distinte, ma convergenti che
si dividono la torta umana: la parte spirituale alla Chiesa e la parte materiale allo Stato. Questo ragionamento è tipico di una concezione della società come «cristianità» che è il vero regno della confusione tra Stato e Chiesa. Regime di «cristianità» per capire è quello di stampo medievale, quando il potere religioso appaltava al potere politico
parte dei propri compiti scellerati: poiché il comandamento ordina: «Tu non ucciderai» (Es 20,13), i preti e
l’inquisizione non si sporcavano le mani, ma appaltavano le uccisioni al braccio secolare, così si ammazzavano lo
stesso le persone, quasi sempre tutte innocenti, ma non erano i preti a farlo.
Distinzione netta e separazione
Di distinzione netta e separazione efficace non nella storia, ma per quanto riguarda i criteri di valutazione, si
parla invece in un altro testo che si trova nel racconto della passione nel IV vangelo. In Gv 18,36 proprio davanti a
Pilato, che ribadisce il suo potere politico, Gesù afferma: «Il mio regno non è di questo mondo», cioè non si assomma ai regni della terra e nello stesso tempo si estende a tutti i regni della terra, fino agli estremi confini
dell’umanità (cf At 1,8), cioè fin dove c’è una persona con una coscienza attenta e attiva. Il regno di Cristo non è
infatti una gestione diretta del potere politico, economico e sociale, ma una convocazione di ogni singola persona
alla corresponsabilità. I credenti in Cristo gestiscono il potere, ma con criteri assolutamente disinteressati, avendo a
cuore i destini dei poveri e degli emarginati in forza della prospettiva delle Beatitudini che mettono in prima fila
quanti la società mette al bando (cf Mt 5,1-9). «Il mio regno non è di questo mondo» significa che non ha come obiettivo il dominio, ma la coscienza consapevole e libera delle persone che servono i propri simili con gli stessi
sentimenti di Dio, in forza del principio paolino: «Portate i posi gli uni degli altri» (Gal 6,2; cf anche Fil 2,1-8).
All’affermazione di Gesù, fa da complemento significativo la constatazione, fatta da Gesù stesso, che i suoi
discepoli, come lui, «sono nel mondo»:
«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue,
e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te.
Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi.
15
Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono
del mondo. 17 Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi,
ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei
in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).
L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo inteso come il complesso delle
forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini, ma un rifiuto del «mondo»
dell’ingiustizia, della prevaricazione, del potere, della corruzione. In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):
a)
b)
c)
d)
il mondo geografico, ambiente materiale;
il mondo come umanità;
il mondo dell’incredulità
il mondo della fede.
La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo … non sono del mondo» per cui si
afferma la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore
stradale. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il
6
Regno di Dio, cioè per creare le condizioni affinché tutti i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non siano ridotti
a vivere da schiavi.
Il compito dei cristiani e a maggior ragione dei vescovi e della gerarchia non è quella di tramare per spartirsi
il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi, ma unicamente quello di impedire
che sia sperperata la ricchezza del creato e sia distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo12. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica,
nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio
di custodire e ascoltare il giardino di Eden e quanti vi abitano. Certo a questa categoria di credenti non appartengono
gli affiliati a Comunione e Liberazione i cui membri appoggiano un uomo immorale e contraddizione della Dottrina
Sociale della Chiesa come Berlusconi e non si scandalizzano delle scelte politiche di Bossi e di Maroni, anzi si rallegrano se si spara addosso gli africani, colpevoli di avere fame, sete e miseria; essi che con «La Compagnia delle opere» fanno affari loschi e sporchi, lasciandosi corrompere e corrompendo. Questa gente fa i gargarismi con il «concetto» di persona, ma non hanno mai visto una persona in carne ed ossa. Pregano tra le nuvole, ma non si coinvolgono
mai sulla terra, sono spiritualisti e lo sono così tanto che non sanno riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31).
Dio è laico
Una forma concreta di attuazione di questa prospettiva evangelica di separazione senza opposizione tra fede
e mondo, si trova in un testo anonimo del sec. II, una lettera indirizzata ad un certo Diogneto, da cui prende nome:
V. 1. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano
città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3. La loro dottrina non è
nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli
altri. 4. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non
gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne.
9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita
superano le leggi. 11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14. Sono
disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15. Sono ingiuriati e benedicono; sono
maltrattati ed onorano. 16. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero
dire il motivo dell’odio» (A Diogneto, V,1-17)
VI. 1. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2. L’anima è diffusa in tutte le parti
del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la
loro religione è invisibile. 5. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di
prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6.
L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7. L’anima è racchiusa nel
corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo.
8. L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare« (A
Diogneto, VI,1-10).
Il cristiano è nel mondo per vocazione e missione; egli è il cultore della relativizzazione e l’assertore
dell’Assoluto che è Dio. La Chiesa non può vivere in competizione con il mondo né può pretendere di esercitare il
suo dominio sul mondo profano e/o secolarizzato. Essa non è chiamata a trasformare il mondo da profano in mondo
cristiano perché rischia di ritornare a quella infausta «cristianità» che tanti mali ha arrecato alla Chiesa e al mondo e
tanti ne arreca oggi, in cui il mondo clericale è abbagliato dalla ricchezza, dal compromesso e dall’alleanza con i potenti, pensando che saranno i potenti ad aiutarla a cristianizzare le istituzioni. Questo mondo clericale miscredente
deve rassegnarsi perché il Dio di Gesù Cristo è laico per natura e per essenza e laiche sono le istituzioni del mondo vero il quale la Chiesa ha il dovere e il diritto di andare osservando alla lettera il comando del Signore: «Non
prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (Lc 9,3) perché
solo la povertà e la fragilità dell’inviato può rendere testimonianza credibile al Signore della Storia e rendere visibile
12
Il governo italiano regalato alla Libia n. 6 motovedette per pattugliare il mare contro gli immigrati e 5 miliardi per
impedire che gli immigrati attraversino il mare. Se quei soldi fossero stati spesi per l’integrazione ne avrebbe beneficiato l’Italia
e gli immigrati e avremmo costruito un ponte di civiltà verso l’Africa che ci sommergerà.
7
il suo volto per farlo apparire credibile attraverso la credibilità del proprio operato e della propria testimonianza, suscitando così il desiderio di Dio e la conseguente conversione.
Politica e carità
La prospettiva che Gesù pone con la questione del tributo a Cesare è una prospettiva soprannaturale
all’interno del criterio di incarnazione che è la logica del chicco di grano che deve cadere in terra e morire se vuole
portare frutto (cf Gv 12,24). Il cristiano non lotta per avere uno strapuntino di potere nel mondo, ma lascia ogni potere per assumere in pieno in ciò che gli compete e gli appartiene di diritto: la testimonianza del servizio disinteressato. Alla luce di quanto detto, ancora oggi sono valide le parole di Pio XI in un discorso tenuto alla FUCI: la politica è «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore»13. Ecco il punto di partenza che è anche il punto di arrivo: per i credenti, per i cristiani che
credono in Dio, la politica è «il campo più vasto della carità», cioè dell’amore gratuito che è l’esatto contrario di
ogni intrallazzo, compromesso, accordo a favori di pochi e a danno di molti.
Parte II
Il limite della religione nelle cose del mondo
Il punto di partenza è un testo apparentemente innocuo, ma densamente interessante. Leggiamo il testo14:
In quel tempo, 13 uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14 Ma egli rispose:
«O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni
cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16 Poi disse loro una parabola …»15 (Lc 12,13-16).
Di fronte ad una questione di eredità Gesù rivendica il suo diritto di non intervento per il semplice motivo
che ben altro urge nel suo cuore: il Regno è vicino, Dio è già qui e noi camminiamo verso la morte come ingresso
nella pienezza della vita perché tutto è provvisorio e il tempo che abbiamo è corto, mentre la grandezza della vita è
profonda e bisogna scalarla, scansando le banalità e la perdita di tempo che è il peccato più grave che si possa compiere. I due fratelli, invece, stanno a perdere tempo su come dividersi una eredità che devono lasciare (cf Lc 12,1331): cioè un bene per cui non hanno faticato e che a loro volta lasceranno ad altri, se non riusciranno a dilapidarla16.
Ne abbiamo un illustre esempio in Lc 15,11-32 nella parabola comunemente conosciuta come «figliol prodigo»17. Di fronte a questa diatriba puramente giuridica, Gesù afferma di non avere ricevuto alcun mandato
dall’autorità competente. Egli non si occupa di affari e transazioni. In questo modo afferma la laicità delle questioni
che non incidono direttamente sulla fede. C’è un diritto, c’è un codice, c’è una giurisprudenza: rivolgetevi a quelle
che ne hanno la competenza. Sottraendosi alla richiesta di fare il giudice, Gesù riconosce che anche lui ha un limite18
e non vuole superarlo, perché sconfinerebbe in un mondo non suo: superare il limite comporta un rischio, quello di
diventare «tuttologo», ma di non essere professionalmente adeguato.
E’ importante questa affermazione di Gesù perché ci dice qual è il senso che egli ha della sua autorità e qual
è il «limite» di questa autorità. Egli è giudice non alla maniera umana, ma come il Figlio dell’Uomo che viene alla
fine Storia per prendere in carico la fatica e gli sforzi degli uomini e delle donne che hanno attraversato l’esodo della
loro esistenza per accingersi a vivere il Regno finale. In una parola le decisioni di scelta sono demandate alla nostra
responsabilità e alla nostra dignità
Anche Dio è condizionato dal suo limite che egli stesso si è imposto e nessuno può imporre nulla «in nome
di Dio». Anche le crociate furono indette in nome di Dio e sappiamo quello che sono state e cosa sono costate al
mondo e alla Chiesa: le conseguenze di quelle scelte avvenute 11 secoli or sono, le paghiamo ancora oggi. Il concetto di «onnipotenza» che affibbiamo alla divinità, mal si concilia con il Dio di Gesù Cristo. Legandosi indissolubil13
L’Osservatore Romano (23 dicembre 1927), p. 3; cf anche B. SORGE, Per una civiltà dell’amore. La proposta sociale
della Chiesa, Queriniana 1999, 198
14
Nella Liturgia si tratta del vangelo della domenica 18a del tempo ordinario-C.
15 16
« La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17 Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non
ho dove mettere i miei raccolti? 18 Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò
tutto il grano e i miei beni. 19 Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia,
bevi e divèrtiti!”. 20 Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi
sarà?”. 21 Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,13-21)
16
La consuetudine al tempo di Gesù assicurava la compattezza del patrimonio: il figlio maggiore che ne era il custode e
il primo beneficiario vuole mantenere l’eredità indivisa secondo tradizione; il figlio più giovane invece vorrebbe la sua parte per
spenderla a suo piacimento.
17
Sulla parabola lucana che riteniamo il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, cf P. FARINELLA, Il Padre che fu madre.
Una lettura moderna della parabola del Figliol Podrigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010.
18
«Limite» deriva da «límes» (antico lícmes che significa via traversa) da cui sentiero che fa da confine/frontiera. I
Romani chiamarono «Límites» le pietre che segnavano i confini: non potevano essere rimosse senza commettere un delitto penalmente perseguito perché erano considerate «sacre» e affidate alla protezione di una divinità particolare che si chiamava
«Términus/Lìmite», a cui erano dedicate le feste «terminália».
8
mente alla natura umana ha scelto il metodo umano per rivelarsi e manifestarsi e dunque si è sottomesso alla «paidèia» umana, adeguandosi al passo del metodo degli uomini e delle donne che si basa sulla ricerca che a sua volta
nasce ed emerge dalla logica e dalla legge dell’incarnazione. Inchiodandosi sulla croce, Dio ha rinunciato alla sua
onnipotenza e si è sottomesso alla legge del limite che gli impedisce di scendere dalla croce e fare un portento eclatante a beneficio di poveri increduli.
Più avanza la conoscenza umana di se stessi e del mondo inteso come «cosmo», più aumenta il «limite» di
Dio perché egli non è geloso delle conquiste e delle scoperte sempre più portentose degli uomini e delle donne, ma
ne è così rispettoso che si ritrae. Lascia spazio e ne riconosce l’autorità. E’ la teologia del Dio che si svuota completamente di se stesso per essere prossimo e vicino ad ogni essere umano (cf Fil 2,6-7). La limitatezza di Dio è così determinante e così definitiva che Gesù stesso si sottomette alla legge in modo irrevocabile: «Nato da donna, nato sotto
la Legge» (Gal 4,4). Nel rispetto del suo limite si assoggetta anche alla legge naturale, a quella psicologica e a quella
della fede: «cresceva in sapienza, età e grazia» (Lc 2,52; cf 2,40). Possiamo mai avere paura di un «Dio limitato»?
La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di
legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua pertinenza perché
anch’essa ha il «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’autorità, ha una funzione escatologica deve cioè non dare soluzioni, ma indicare la strada, la mèta da raggiungere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il
discepolo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio.
Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei documenti più belli dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che rende appassionati del mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Vagliate ogni
cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21) e ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito,
perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Conclusione
Lc è l’evangelista della povertà come categoria dell’anima e per questo mette in guardia dalla cupidigia aggiungendo di suo pugno un versetto: «E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15) che rafforza le ragioni del
suo rifiuto a giudicare: tutti i beni della terra sono nel segno degli strumenti, non del fine. Sta qui la relativizzazione
delle cose della terra che in una scala di valori non occupano il primo posto: prima dell’amore, prima della libertà,
prima della solidarietà, ecc. Per dare forza alle sue ragioni Gesù prolunga la sua riflessione con la parabola
dell’uomo stolto che è molto antica perché si trova nella sua essenzialità anche nel vangelo apocrifo di Tommaso19.
Concludendo possiamo dire con tranquilla coscienza che Gesù impone a se stesso di restare fuori dalle questioni che hanno le loro regole, senza mischiare i livelli di riferimento. Dichiarandosi incompetente di fronte ad una
questione di eredità, dichiara che i suoi seguaci, sul suo esempio, devono avere il senso del limite e non pretendere
di avere sempre l’ultima parola su tutto e sempre in nome di Dio. Compito della Chiesa nel mondo è invitare uomini
e donne a vivere la propria vita come missione a servizio degli altri, questa volta sì, in nome di Dio, perché tutti partecipino al banchetto della giustizia che è la premessa della pace.
«Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a riprendere la nostra immagine di Dio che lui
stesso ha deposto in noi perché fossimo nel mondo «la statua» della sua presenza e della sua provvidenza, rendendolo credibile attraverso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni. Non è l’invito a separare la politica dalla
fede, ma a coniugarle nella visione finale del Regno di Dio alla luce della Carta costituzionale che per noi sono le
«Beatitudini» (cf Lc 6,20-26; Mt 5,1-12), il «Padre nostro» (cf Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e il «Magnificat» (cf Lc 1,4655) di Maria per essere «sale della terra e luce del mondo» (cf Mt 5,13.14) e così essere «perfetti come è perfetto il
Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Appendice
Dalla «Gaudium et Spes»
N. 34. Il valore dell’attività umana.
Per i credenti una cosa è certa: considerata in se stessa, l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente
sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde alle intenzioni di
19
«Gesù disse, “C’era un ricco che aveva molto denaro. Disse, Investirò questo denaro così che io possa seminare,
mietere e riempire i miei magazzini con il raccolti, e che non mi manchi nulla. Queste erano le cose che pensava in cuor suo, ma
quella stessa notte morì. Chi fra voi ha orecchie ascolti!”» ( Il vangelo di Tommaso o di Didimo Thoma n. 63, un apocrifo gnostico del sec. II scritto in copto, forse su un testo greco più antico. Nel 1945 una copia in copto ma del sec. IV è stata trovata nei
codici di Nag Hammadi in Egitto. E’ uno dei codici più antichi e serve quindi come riferimento per la datazione dei vangeli).
Questa parabola però non è direttamente collegata con il tema della nostra riflessione per cui rimandiamo al nostro commento
della domenica 18a del tempo ordinario-C.
9
Dio. L’uomo infatti, creato ad immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene (Cf Gen 1,26-27; 9,2-3; Sap 9,2-3), e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e cosi pure di riferire a Dio il
proprio essere e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose; in modo che, nella subordinazione di tutta la
realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra (Cf Sal 8,7 e 10). Ciò vale anche per gli ordinari lavori quotidiani.
Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia esercitano il proprio lavoro in
modo tale da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che con il loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia20. I cristiani, dunque, non si sognano nemmeno di contrapporre i prodotti dell’ingegno e del coraggio
dell’uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; al contrario, sono persuasi piuttosto che le
vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. Ma quanto più cresce la potenza degli
uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità, sia individuale che collettiva.
Da ciò si vede come il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo o
dall’incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante21.
N. 35. Norme dell’attività umana.
L’attività umana come deriva dall’uomo così è ordinata all’uomo. L’uomo, infatti, quando lavora, non trasforma soltanto le cose e la società, ma perfeziona se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, esce da sé e si supera.
Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare. L’uomo vale più per quello che «
è » che per quello che «ha»22 (61).
Parimenti tutto ciò che gli uomini compiono allo scopo di conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e
un ordine più umano dei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così
dire, la base materiale della promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo a realizzarla.
Pertanto questa è la norma dell’attività umana: che secondo il disegno di Dio e la sua volontà essa corrisponda al vero
bene dell’umanità, e che permetta all’uomo, considerato come individuo o come membro della società, di coltivare e di attuare
la sua integrale vocazione.
N. 36. La legittima autonomia delle realtà terrene.
Molti nostri contemporanei, però, sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione,
venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze. Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le
cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d’autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme
al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o tecnica.
Perciò la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali,
non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio23 (62).
Anzi, chi si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza prenderne coscienza, viene
come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono.
A questo proposito ci sia concesso di deplorare certi atteggiamenti mentali, che talvolta non sono mancati nemmeno tra
i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, suscitando contese e controversie, essi trascinarono molti spiriti fino al punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro24 (63).
Se invece con l’espressione « autonomia delle realtà temporali » si intende dire che le cose create non dipendono da
Dio e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano,
hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Dio nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio rende opaca la creatura stessa.
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© «Date a Cesare quello che è di Cesare» (Lc 20,19-26), Conferenza di Paolo Farinella, prete
Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete, Piazza San Giorgio - Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Paolo Farinella, prete 17/09/2010 – Genova, San Torpete – Genova
20
GIOVANNI XXIII, Encicl. Pacem in terris, AAS 55 (1963), 297.
Messaggio a tutti gli uomini indirizzato dai Padri all’inizio del Concilio Vaticano II (20 ott. 1962), in AAS 54 (1962),
822-823 [pag. 1113ss].
22
Cf PAOLO VI, Disc. al Corpo diplomatico, 7 genn. 1965, in AAS 57 (1965), 232.
23
Cf CONC. VAT. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, cap. III. Dz 1785-86 (3004-05) [Collantes 1.061-63].
24
Cf PIO PASCHINI, Vita e opere di Galileo Galilei, 2 vol., Pont. Accademia delle Scienze, Città del Vatic. 1964.
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