del file pdf - Liceo Artistico "Enzo Rossi"

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del file pdf - Liceo Artistico "Enzo Rossi"
ChiaroScuro
Giornale scolastico
ISA Roma 2
ChiaroScuro
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Titolo: ChiaroScuro
Numero: 0 Progetto pilota 2008-2009
Data: maggio 2009
Presidente: Mariagrazia Dardanelli
Direttore responsabile: Silvia Coletti
Direttore di redazione: Andrea Bonavoglia
Redazione collaboratori docenti e non: Elena Andreozzi, Giorgio Calabria, Giovanna Nosarti, Marco Buzzi, Stefano
Guerra, Katia Danese, Giancarla Goracci, Antonio Celli, Laura Tersigni, Stefania Ciasco, Angela Antonelli, Rosaria Venuto,
Marino Colonna, Cinzia Villanucci, i collaboratori scolastici e gli assistenti tecnici Claudio Monni e Carmelo Viglianisi
Redazione collaboratori studenti: Moscaroli Ilaria, Classe 5P, Negulici Johana, Zonni Elena, Alcantara Maria Cristina, Romano
Gaia, Buono Eleonora, Zorzi Monica, Betti Elisa, Bernardini Micaela, Liberali Daniela, Pizzacalla Micaela, Scassillo Federica,
Battistini Martina, Cecchetti Sonia, Ziantoni Gabriele, Peruzzi Marco, Sgarammella Veronica, Zohar Lelio, Mongelluzzo Chiara,
Pomettini Giorgio, Genovesi Giorgia, Felicetti Marianna, Di Vincenzo Valerio, Lo Stocco Erika, Giulia Fiorentini, Puccio Martina,
Garcia Jessica, Reali Giulia, Riccardo Meneguolo, Simone Presto, Emanuela Luzzi, Di Benedetto Francesco e Stefanini
Alessandro.
Webmaster sito giornale: Andrea Bonavoglia
Ideazione, progettazione e impaginazione: Silvia Coletti
Immagini e fotografie dei docenti: Giorgio Calabria, Francesco Calia, Sergio Camilloni, Maira Fucci, Fiore Lepore, Roberto
Pavoni, Luigi Pardo e Patrizia Corona
Immagine di copertina: Mosaico Rebibbia Sezione Pittorica
Editore: ISA Roma 2
Curatore grafico di alcune immagini: assistente tecnico Claudio Monni e Alessandra Nanni
Stampa: Tipolitografia Spedim, Via Serranti 137, Monte Compatri
Loghi Sponsor: ISA Roma 2, Controluce, Kucire srl
Si ringraziano a nome del Direttore Responsabile: Mariagrazia Dardanelli, Andrea Bonavoglia, Giorgio Calabria, Stefano
Guerra e il Direttore di Controluce Armando Guidoni per la fiducia e l’aiuto pratico nel progetto oltre a tutti i docenti,
studenti, operatori scolastici e assistenti tecnici che hanno collaborato con entusiasmo e prontezza.
ChiaroScuro
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Indice
Editoriale a pag. 5
Voce agli studenti a pag. 6
Proposte a pag. 11
Spazio aperto a pag. 14
Diverso da chi a pag. 20
Stanze dell’arte a pag. 24
Angoli di memoria a pag. 28
Variazioni a pag. 36
Educare all’arte, educarsi alla vita
Apprendere significa coinvolgere le funzioni dell’intelligenza e della creatività scaturite da emozioni in relazione ad una qualsiasi esperienza. Il compito dell’insegnante nel trasmettere informazioni all’alunno non
consiste solo nell’inviare messaggi finalizzati alla crescita culturale di chi ascolta, ma soprattutto nel
concettualizzare in modo corretto e nell’organizzare
l’esposizione di ciò che sta comunicando; ovvero, l’insegnante deve educare alla formazione. Questa è la
base di partenza per una corretta trasmissione dell’informazione. La difficoltà di questa relazione sta nel fatto
che fra l’esposizione attiva dell’insegnante e l’apprendimento dell’alunno, l’intelletto partecipa della volontà e
questo significa che, in un certo qual modo, è l’alunno
che decide se e come apprendere, consapevolmente o
meno, un’informazione. È qui che entra in funzione l’educazione didattica ed è proprio all’interno di questo percorso di scambio e crescita che abbiamo ritenuto importante inserire il progetto pilota del giornalino scolastico. Un giornale di tutti, aperto allo scambio e con una
forte impostazione artistica. La formazione evolve e si
sviluppa a partire dal basso, ossia educando i sensi intellettivi dell’alunno: la memoria, l’immaginazione, la
curiosità, la volontà. Non basta conoscere, bisogna amare ciò che si conosce. Anche la vista e l’udito si devono
applicare e sono soggetti ad esercizio. Insegnare è educare alla conoscenza in modo terapeutico: allenare la
mente nell’insieme delle sue capacità a saper acquisire
informazioni.
Formare un alunno significa, e qui sta il fulcro della
questione in merito, farlo co-crescere con ciò che è già
preesistente per sua natura e struttura individuale, rispettando, nei limiti, i suoi tempi di apprendimento e
sviluppando le capacità e le inclinazioni proprie della sua
singolarità.
Con questa iniziativa del giornale scolastico si è
voluto dare voce proprio agli studenti, alle loro inclinazioni, alle loro opinioni con libertà e rispetto. È ovvio, ma
va comunque sottolineato, che ogni forma di educazione o formazione è anche auto-educarsi o formarsi; ossia che il processo di crescita e di formazione è valido
per tutti, e accomuna insegnanti e alunni. Insegnare,
allora, non è un’attività basata su una libera iniziativa,
ma è una crescita collettiva. In questo modo si potranno sviluppare ed esporre anche giudizi veri e opinioni
chiare. È importante sapere che la scuola è un luogo
che educa: uno spazio nel quale le energie individuali e
sociali degli alunni, adeguatamente seguiti dagli insegnanti, possono svilupparsi, formarsi ed esprimersi al
meglio. Insegnare ed imparare l’onestà intellettuale delle idee significa, quindi, sviluppare una forma mentis che
si esprime anche in un’azione sociale tesa al bene comune.
Buona lettura!
Mariagrazia Dardanelli
Luci e ombre
“Ma sono davvero parole...No, sono cose, che
risplendono
che fanno sentire tutta la loro forza, ...segni senza
mistero
disegni chiari, corpi che danzano,...vallate... Le
parole
della voce che parla sono tutto questo e molte altre
cose”.
J. M. G. Le Cleziò
La Danza di Henri Matisse è tra i dipinti più famosi della sua produzione espressionista, poichè riesce
ad esprimere in maniera esemplare la sintesi fra contenuto e forma presente nella metafora della vita quotidiana. Il quadro trasmette una suggestione immediata: il senso della danza, che unisce in girotondo cinque persone, è espresso in pochi tratti e con appena
tre colori. Ne risulta un’immagine simbolica che può
essere suscettibile di più letture ed interpretazioni. Il
verde, che occupa la parte inferiore del quadro, simboleggia la Terra. Il blu, nella parte superiore, è il Cielo.
Si tratta di un blu così denso e carico che rappresenta uno spazio tanto ampio da contenere tutto l’universo. E al margine tra Terra e Cielo, tra metafora e
realtà, si compie la danza delle cinque figure. La loro
danza, di colore rosa, può essere vista come allegoria
della vita umana, fatta di un movimento continuo in cui
la tensione è sempre tesa all’unione con gli altri.
Tutto ciò avviene al margine e al confine tra l’essere e il non essere. L’ambivalenza di contenuto presente nell’opera di Matisse è la stessa che percorre la
vita quotidiana dell’esistenza umana, è la stessa che
ritroviamo anche nella scuola, luogo fatto di chiari e di
scuri: i chiari dell’amicizia, dell’onestà intellettuale, della
passione verso la conoscenza e del rispetto per le diversità; gli scuri di parte della memoria storica, di aiuti
concreti, di male di vivere, di silenzi spezzati però da
tanta volontà.
Siamo fra docenti e studenti una categoria che
vuole mettersi in gioco, che vuole illuminare sia aspetti
solari, sia voci dell’anima più in ombra, opinioni ancora
non così importanti da riuscire a cambiare le storture
dell’esistenza. Tanti gli interrogativi che oggi ci pone
l’ambiente scuola in tutte le sue sfaccettature e che
con questo giornale abbiamo cercato di affrontare, ricordando sempre che Le ombre sono importanti quanto
le luci.
E a tutti voi non resta che augurare buona lettura.
Andrea Bonavoglia
Silvia Coletti
ChiaroScuro
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Voceaglistudenti
La realtà non è quello che ci accade, ma ciò che facciamo con quello che ci accade. A. Huxley
Opera Italian Graffiti S.Maria del Soccorso, dipinto ad olio su tela di Roberto Pavoni
(ex studente dell’ISA Roma 2 e ora docente di arti pittoriche)
L’immagine autentica di Sè
Da “La storia di Cappuccetto rosso raccontata dal Lupo” di Gustave Doré
Il diritto a presentare l’immagine autentica di sé.
Le informazioni che riceviamo ci parlano spesso di “altri”. Ci sono molti specialisti di “altri”. Si trovano tanti
articoli scritti sui tossicodipendenti, sui barboni, sugli indigeni, sui giovani, sugli studenti. Non si trovano articoli
scritti dai barboni, dagli indigeni…; raramente si leggono articoli firmati da giovani, da studenti…
Tutto questo può facilmente produrre stereotipi, immagini falsificate, distorsioni.
Il diritto invece a poter presentare l’immagine di sé, che più si ritiene aderente alle proprie aspirazioni dovrebbe essere garantito a tutti, non solo ai più forti e danarosi. Per questo la storia di Cappuccetto rosso, raccontata dalla parte del lupo, offre un facile esempio di come ci siano tante facce in uno stesso fatto. Occorre
garantire a tutti il diritto a poter esprimere la propria identità. A tal proposito il giornalino scolastico può diventare
una tra le diverse opportunità dei giovani per ‘esseci’, quale fondamento essenziale e prioritario alla tanta ricercata ‘visibilità’. La foresta era la mia casa. Ci vivevo e ne avevo cura. Cercavo di tenerla linda e pulita. Quando un
giorno di sole, mentre stavo ripulendo della spazzatura che un camper aveva lasciato dietro di sé, udii dei passi.
Con un salto mi nascosi dietro un albero e vidi una ragazzina piuttosto insignificante che scendeva lungo il
sentiero portando un cestino. Sospettai subito di lei, perché vestiva in modo buffo, tutta in rosso, con la testa
celata come se non volesse farsi riconoscere. Naturalmente mi fermai per controllare chi fosse. Le chiesi chi
era, dove stava andando e cose del genere. Mi raccontò che stava andando a casa di sua nonna a portarle il
pranzo. Mi sembrò una persona fondamentalmente onesta, ma si trovava nella mia foresta e certamente appariva sospetta con quello strano cappellino. Così mi decisi di insegnarle semplicemente quanto era pericoloso
attraversare la foresta senza farsi annunciare e vestita in modo così buffo. La lasciai andare per la sua strada,
ma corsi avanti alla casa della nonna. Quando vidi quella simpatica vecchietta, le spiegai il mio problema e lei
acconsentì che sua nipote aveva immediatamente bisogno di una lezione.
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ChiaroScuro
Voceaglistudenti
Fu d’accordo di stare fuori dalla casa fino a che
non l’avessi chiamata, di fatto si nascose sotto il letto.
Quando arrivò la ragazza, la invitai nella camera da letto mentre mi ero coricato vestito come sua nonna. La
ragazza, tutta bianca e rossa, entrò e disse qualcosa di
poco simpatico sulle mie grosse orecchie. Ero già stato insultato prima di allora, così feci del mio meglio suggerendole che le mie grosse orecchie mi avrebbero
permesso di udire meglio. Ora, quello che volevo dire
era che mi piaceva e volevo prestare molta attenzione
a ciò che stava dicendo, ma lei fece un altro commento
sui miei occhi sporgenti. .Adesso puoi immaginare quello
che cominciai a provare per quella ragazza che mostrava un aspetto così carino ma che era evidentemente una bella antipatica. E ancora, visto che per me è
ormai un atteggiamento acquisito porgere l’altra guancia, le dissi che i miei grossi occhi mi servivano per
vederla meglio. L’insulto successivo mi ferì veramente.
Ho infatti questo problema dei denti grossi. E quella ragazzina fece un commento insultante riferito a loro: Lo
so che avrei dovuto controllarmi, ma saltai giù dal letto
e ringhiai che i miei denti mi sarebbero serviti per mangiarla meglio. Adesso, diciamoci la verità, nessun lupo
mangerebbe mai una ragazzina, tutti lo sanno, ma quella
pazza di una ragazza cominciò a correre per la casa
urlando, con me che la inseguivo per cercare di calmarla. Mi ero tolto i vestiti della nonna, ma è stato peggio. Improvvisamente la porta si aprì di schianto ed ecco
un grosso guardacaccia con un ’ascia. Lo guardai e fu
chiaro che ero nei pasticci. C’era una finestra aperta
dietro di me e scappai fuori. Mi piacerebbe dire che fu la
fine di tutta la faccenda, ma quella nonna non raccontò
mai la versione della storia. Dopo poco incominciò a
circolare la voce che io ero un tipo cattivo e antipatico e
tutti incominciarono a evitarmi. Non so più niente della
ragazzina con quel buffo cappuccio rosso, ma dopo quel
fatto non ho più vissuto felicemente. (Lief Fearn; traduzione di S. Bacciocchi) Quindi …”voce agli studenti”.
docente Giancarla Goracci
Make up
“Era proprio la mia quell’immagine intravista in un
lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io
quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima,
scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo,
che non posso veder vivere se non così, in un attimo
impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no’, E mi fissai d’allora in
poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che
non potevo fermare davanti a uno specchio perché
subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno
che vive va per gli altri e che io non potevo conoscere;
che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e
conoscere anch’io così come gli altri lo vedevano. Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser
io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero
non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo
solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti
dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti
allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli
occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.” (Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila)
Pensi di indossare delle maschere nella tua vita
quotidiana? Quali sono le maschere che indossi e quali
quelle che vorresti togliere?
Micaela Pizzacalla 1P
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Voceaglistudenti
Micaela Pizzacalla 1P
Daniela Liberali 2B
“L’arte non è da guardare: è l’arte che ci guarda.
Ciò che per gli altri è arte non lo è altrettanto per me,
non per lo stesso motivo e viceversa. Ciò che per me
prima era o non era arte può aver perso o acquistato il
suo valore nel frattempo e anche più volte. Così l’arte
Elisa Betti
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non è oggetto, ma esperienza, per percepirla dobbiamo essere ricettivi. Pe questo l’arte è là dove l’arte ci
tocca”. (Josef Albers.Interazione del colore. Esercizi
per imparare a vedere.)
Voceaglistudenti
Micaela Bernardini 4P
Monica Zorzi 4P
La tela della vita
Nietzsche, il grande filosofo tedesco, scriveva ne
La gaia scienza: “La vita non mi ha disilluso. Di anno in
anno la trovo sempre più ricca, più desiderabile e più
misteriosa (…) La vita come mezzo di conoscenza. Con
questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e gioiosamente
ridere”. La proposta che si rivolge oggi ai giovani è quella di risvegliare e consentire loro di dischiudere quel segreto, spesso a loro stessi ignoto. Se gli adulti, in
particolar modo i docenti, la scuola, i genitori, sapranno
insegnare ai ragazzi l’”arte del vivere”, come dicevano i
Greci antichi, che consiste nel riconoscere le proprie
capacità, nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura, allora con questo primo passo i giovani potrebbero
innamorarsi di sé.
E quell’”ospite inquietante”(Galimberti) che è la difficoltà di vivere, la sofferenza, non sarebbe passato invano dalle loro esistenze.
Oggi l’arte del vivere non c’è più, la tela della nostra vita
non sprigiona più quei colori intensi e accesi, ma sono
le linee monotone e tristi. Particolarmente se si è giovani
e disagiati non si trova la forza per resistere e continuare
a lottare, nonostante le difficoltà quotidiane, e questo mi
riguarda molto da vicino. Molto spesso penso che mi
sento incapace di vivere nella società in modo ordinato
e composto, e ripongo in un grigio cassetto i miei
problemi; ho voglia di elevare la mia rabbia e di farla
esplodere. Non è pazzia, ma solo un fare più rozzo e
brutale, ma ugualmente efficace, per affrontare la vita.
La pazzia è un’altra, è nascosta; certe persone
vorrebbero veder bruciare il mondo solo per il puro
piacere di farlo. Forse siamo noi i pazzi, in fondo quelli
che stanno distruggendo il mondo siamo noi, i cosiddetti
“sani di mente”. Siamo come virus, andiamo in un posto
e lo consumiamo: prima o poi non ci saranno più posti
da sfruttare. Sicuramente queste sono solo mie idee.
Oggi prima di insegnare importanti principi si dovrebbe
far comprendere per quale ragione continuare a vivere.
Non voglio essere malinconico. Oggi la vita è cara e
non solo economicamente. Si deve essere ricchi anche
nel pensiero per essere alla pari con il mondo degli adulti.
Marco Peruzzi 1N
ChiaroScuro
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Voceaglistudenti
Penso che al giorno d’oggi è molto difficile per un
giovane, un adolescente, capire il senso, la bellezza
della vita o il semplice gusto di viverla. E’ colpa, secondo me, di questo mondo che è sempre in cerca di fora,
soldi o potere. Ci ritroviamo a vivere in un mondo che
corre troppo in fretta, cambia in continuazione, un
mondo frenetico e pazzo che no ci da’ la possibilità di
scegliere come voler vivere la vita.
I genitori non hanno abbastanza tempo da dedicare ai propri figli, capirli e aiutarli in momenti difficili,
perché anche loro non sono stati capiti da questo
mondo frenetico, che non ha mai tempo. Tante volte
alcuni ragazzi pensano che per avere uno stimolo,
sentirsi vivi o per essere accettati nel gruppo , devono
cambiare il modo di vestire, di comportarsi con gli altri,
cominciano a fumare e alla fine si ritrovano anche a
provare la droghe, ed entrano in un giro vizioso da cui
pochi riescono ad uscire.
Ma la colpa di tutto ciò non è soltanto dei genitori,
dei professori, ma anche della tv che ci fa credere in
dei modi di vivere falsi e poi alla fine ci si ritrova ad
assomigliare a quei modelli, che ci fanno vedere e credere a un mondo tutto finto.
Con tutte queste difficoltà di vivere e di discernere, alcuni ragazzi non ce la fanno e si lasciano andare
e ogni giorno muore un po’ di loro, mentre altri si nascondono dietro a delle maschere, come la violenza.
Ma è anche vero che queste difficoltà che la vita e il
mondo ci pongono, aiutano, rinforzano e fanno crescere diventando a mano a mano più maturi.
Johana Negulici 1P
L’arte di vivere
Nessuno qui ci insegna l’arte di vivere. I modelli a
cui noi giovani d’oggi facciamo riferimento sono cambiati, perché i tempi corrono troppo velocemente e a
volte anche per noi. Non si guarda più ai genitori, agli
insegnanti, semplicemente, perché ci piace dire, coprendoci dietro ad un dito, che loro sono “troppo indietro”. Si guarda di più alle persone di dieci-quindici anni
più grandi di noi, alla generazione che, negli anni 90,
viveva l’ adolescenza di oggi. Si guarda a loro, drogati
dal modo di vivere moderno e inevitabilmente si perdono anche i concetti base che si potrebbero ritrovare
invece in persone più grandi di quelle a cui per comodo facciamo riferimento.
Al giorno d’oggi è difficile trovare un ragazzo che
si trova bene con le persone che l’hanno messo al
mondo. C’è troppo silenzio fra di loro, c’è un divario
d’età incolmabile, e spesso c’è anche la voglia di non
volersi capire.
“Noi stiamo qui, tu stai lì”. I genitori-lavoratori di
oggi non hanno né voglia, né tempo di ascoltare i loro
figli. Non comprendono molti piccoli segnali, si fanno
sfuggire le mezze frasi che nascondono i disagi e tengono conto solo delle male parole. Fanno di tutta l’erba
un fascio, paragonandoci con la massa adolescenziale
e ribelle che raffigura ormai ogni episodio di violenza.
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E poi c’è anche chi si satura di difficoltà di vivere,
perché non si ritrova né nella massa, né all’interno
dell’ambiente familiare. Ed è lì che nasce un’altra diversità, spesso depressiva e incompresa, che si trova
anche fra i banchi di scuola: la malinconia di non arrivare a conoscere l’arte di vivere.
Erika Lo Stocco 4P
Sentirsi vivi
Insegnare l’arte del vivere…apprendere l’arte del
vivere…
Concetto interessante!
Come si può realmennte vivere? Me lo chiedo
spesso.
Da anni ormai una delle mie paure è quella di sopravvivere…
Termine a cui non do il significato di vita piena di
difficoltà, ma una vita che non si è vissuta appieno,
come la si vorrebbe. Non posso per esempio considerare vita, il dedicarsi a qualcosa che non mi rispecchia,
che non mi piace. Così come non posso considerare
vita il non riuscire a godersi tutto ciò che ci circonda, le
piccole cose, la natura…
Riuscire a farlo non è certo cosa facile!
A volte, noi giovani abbiamo bisogno di una guida:
professori e genitori, dovrebbero dedicarsi anche a tale
scopo insegnando i valori della vita e riuscendo a farcela apprezzare.
Spesso gli adolescenti si perdono. Non danno il
giusto peso o significato alle cose, e quindi finiscono
per non apprezzarne la vera essenza. Alcuni si sentono appagati nel piccolo, gli basta, poiché hanno un
concetto errato di vita; antepongono i piaceri materiali
al vero piacere quello dei sentimenti, degli affetti. Detto
più semplicemente: credono, ma non sanno, godersi
la vita. Apprezzare le diversità di questo mondo, impegnarsi nel realizzare i propri sogni, entrare in contatto
con i propri sentimenti e le proprie passioni, non avendo rimpianti…questo è ciò che io considero…sentirsi
vivi.
Gabriele Ziantoni 5M
Sezione Architettura
Proposte
Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle scelte. H. von Foerster
Sezione Architettura
Autogestirsi
Nei giorni dal 5 all’11 novembre 2008 la nostra scuola, l’Istituto Statala d’Arte e Liceo Artistico Roma 2,
dopo un’importante assemblea, ha deciso di autogestirsi.
Nel corso dell’autogestione si sono svolti dei corsi apprezzabili come: la pittura delle aule, il linguaggio dei
segni, giornalismo, ed altri in cui mettere in pratica alcuni degli hobby degli studenti come il cineforum, il corso
di giocoleria e fumettistica.
Con l’aiuto di alcuni studenti siamo anche riusciti a costituire il gruppo di attualità, in cui parlare del tema
principale dell’autogestione, cioè il decreto Gelmini e altri problemi sociali annessi.
Io mi sono occupata in prima persona proprio dell’organizzazione di questo ultimo corso, nel quale si è
cercato di creare un dibattito-dialogo il più possibile pertinente e che desse voce a tutti gli studenti ponendo
domande e opinioni le più differenti.
Anche se con una leggera timidezza iniziale, il corso ha preso il via parlando della situazione politica
interna all’Italia e all’Unione Europea in merito proprio alla situazione della formazione scolastica, creando
confronti anche con il passato e incrementando il dibattito anche attraverso la visione di alcuni filmati.
Lo spirito del corso non è stato quello di portare delle soluzioni o di imporre un pensiero piuttosto che un
altro, ma si è posto come finalità semplicemente di meditare su problemi che spesso si sentono in tv o sui
giornali, ma su cui quasi mai si ha il coraggio di riflettere, cercando di interagire attraverso il dibattito e lo
scambio di idee. Speriamo che tutto ciò sia per lo meno servito a maturare.
Gaia Romano 5M
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Proposte
Vorrei…
Dato che mi pare interessante l’idea di un
giornalino che diventi prima di tutto - oltre che momento di espressione delle singole componenti della
scuola - occasione di dialogo e confronto tra le
medesime, propongo a tutti alcune mie considerazioni, domande e/o fantasie, che avevo immaginato
di incanalare in qualche rubrica, ma che posso ben
mettere tutte nella sezione che il giornale dedica ai
docenti.
Prima di tutto vorrei fare un elenco in parte
delirante e utopistico, ma in parte non privo di significato realistico, dei desideri che sono passati nel
corso del tempo nella mia zucca di docente
dell’IsaRoma2, e di docente in generale. E lo articolerò come una lista di ‘..vorrei…’ .
‘Vorrei…. ‘
- Vorrei... tutti i muri a variopinti murales fatti
da ragazzi guidati dai docenti ( progetto ? )
- Vorrei…tanti attacapanni ( creativi e non ). in
aula professori, nei bagni !!, nelle classi ( sono stufo
di ammucchiare vestiti e borse per terra o sui banchi
- Vorrei…armadi e armadietti, nelle classi e
ovunque, per tenerci materiali.
- Vorrei…armadietti personali per i docenti
per registri, etc
- Vorrei…un laboratorio linguistico
- Vorrei…molti televisori leggeri e funzionanti,
per proiettare nelle classi, e molte radio stereo
valide, per far sentire musiche e altro a lezione
- Vorrei…nella zona antistante al bar, progettata dai nostri validi architetti, e credo realizzabile a
non alti costi, una zona tettoiata e con tavoli, il tutto
all’aperto e in legno, tipo zone picnic nei boschi, per
le permanenze ( talora ‘di massa’ ) pomeridiane
- Vorrei…che lo stato costringesse i teatri ad
offrire mattinate(non pomeriggi ) e a prezzi abbordabili, e non solo didattiche, ma per gli spettacoli di
punta e più validi.
Potrei poi dilatare questi miei desiderata alla
curiosità di avere delle risposte dai ragazzi su alcune
cose, e dunque chiederei loro, dalle pagine di questo
giornale, supposto che lo leggano e lo frequentino…
Domande agli studenti:
- Perché venite in così pochi a fare il teatro..?
Disinteresse. Poca informazione, paure?
- Quanti allievi parteciperebbero, se ci fossero, pomeridiani, offerti dalla scuola, a ‘Progetti ‘ del
tipo
A - Cineteca : proiezione film a tema o di grandi
registi - Lezioni su, e discussioni
B - Laboratorio per imparar a scrivere poesie
C - Storia della musica
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D - Formazione di un gruppo musicale
autogestito
(I rispondenti potrebbero inviare il proprio nome,
legato ai singoli progetti (A,B,C,D ) ipotizzati, e/o
magari dire dei “perché”)
Infine potrei chiedervi, cari studenti
Avreste voi studenti altri progetti da proporre ? O
il problema è il pomeriggio?
E ancora vorrei chiedere a tanti : “Perché non hai
partecipato al giornalino? “
a - è una cosa artificiale e astratta
b - non saprei cosa dire
c - non voglio parlare di fronte a professori e
adulti
d - non voglio espormi di fronte ai miei coetanei
e - è una cosa noiosa
f - non serve a niente
g - forse dopo averne visto un primo numero
invogliante, lo farò
h - non ne sapevo nulla
i - lo farei se lo facesser i miei amici
l – lo farei se lo facesse il/la mio/a ragazzo/a
Infine, mi chiedo, non potrebbe essere il giornale, per voi studenti, un luogo per fare delle domande e/
o proposte a voi stessi – da sviluppare poi in assemblee e collettivi - ed ai docenti ?
E non potrebbe essere un luogo dove parlare per continuare il ‘feeling’ inaugurato dalle manifestazioni insieme – del rapporto ‘SCUOLA E MONDO’
...con argomenti del tipo
Le riforme possibili - Scuola e politica - Cosa del
nostro mondo resta troppo fuori dalla scuola, e cosa
del nostro mondo nella scuola è meglio che non ci
entri proprio, ma … ?
docente Marco Buzzi
SOS Legge
Ragazzi, è dura la vita?
E’ sempre più difficile conciliare la legge con la vita
che ti circonda?
Vorresti sapere come fare, dove andare o se è giusto quello che fai?
Vuoi confrontarti con gli altri?
Bene, SOS Legge è lo spazio dedicato a te. Se
vuoi, puoi formulare delle domande, questioni, curiosità, problematiche, anche anonime, e cercherò di risponderti attraverso questo spazio del giornalino scolastico.
docente Laura Tersigni
Proposte
Bolle di sapone, foto di Mercandalli Giulia
Autogestione
Autogestione .. un parolone per chi pensa che la
scuola sia un organo a se stante, creata per esser momento di incontro alunno-professore solo nella mattina
e per studiare quelle tre o quattro materie utili per la nostra cultura, o nel peggiore dei casi inutili!
Sbagliato!
La scuola è un organo statale adibito allo sviluppo
alla crescita degli alunni,si comincia da piccoli ed è a
scuola che comincia la nostra preparazione alla vita.
La scuola in qualche modo è nostra e se riusciamo a
trattarla per bene riusciamo anche a capire che qualche diritto su di essa nel tempo l’abbiamo acquisito anche noi.
Come il diritto all’Autogestione ed è cio che l’ISA
Roma 2 quest’anno si è impegnata a portare avanti,
un’Autogestione critica ma organizzata con criterio. Si
è cominciato partendo dal servizio di guardia, la componente principale forse dell’autogestione che controlla,o
almeno dovrebbe, le persone che girano per la scuola,
l’entrata di esterni e cerca di evitare i danni.
L’organizzazione è stata molto dettagliata e ottimamente sviluppata, ci siamo avvalsi della collaborazione
di studenti di tutte le età e delle classi per creare dei
corsi in grado di impegnare il tempo per gli alunni e allo
stesso tempo insegnare qualcosa, dove al posto dell’insegnante austero e intimidatorio vi erano compagni,
altri ragazzi come noi.
Giocoleria, Fumetto, Danza, Attualità sono solo alcuni dei corsi che sono stati svolti dagli atudenti, ma
credo che le attività piu costruttive siano stati due corsi
in cui l’impegno richiesto era il massimo in due campi e
ambiti completamente diversi, ma in egual importanza.
L’uno era il ridipingere le aule, sono state ridipinte di bianco quasi tutte; inoltre un progetto prevedeva di realizzare opere d’arte in alcune aule, ha preso il via ma purtroppo si è bloccato.
Sono state realizzate in totale tre aule a tema artistico, una egiziana, una classica e un’aula completamente dedicata a Piet Mondrian.
L’altro corso o progetto è stato tenuto da una delle nostre compagne, con un problema uditivo, essendo sordomuta ha insegnato a noi a capire lei e non il
contrario.Questo progetto secondo me ha segnato le
giornate di molti degli alunni considerando il fatto che
l’aula era sempre piena e che mostravano una partecipazione attiva allo svolgersi del corso.
Durante l’Autogestione sono state svolte alcune
assemblee a cominciare dalla principale, svoltasi il primo giorno, in cui sono stati invitati a partecipare attivamente alunni e professori, e anche due ragazzi dell’università per spiegare il loro punto di vista universitario e per aiutare a consolidare il nostro..
Un’Autogestione con un capo e una coda che ha
seguito un filo logico, tranne alcuni episodi sporadici
che sono stati prontamente risolti.
L’augurio è che i nuovi rappresentanti d’istituto,
che resteranno almeno altri due anni al contrario di me,
proseguano con questa voglia di realizzare opere importanti per la nostra scuola rendendola un posto accogliente come merita di essere, il posto dove passiamo la maggior parte della nostra giornata.
Giulia Fiorentini 5A
ChiaroScuro
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Spazioaperto
Sono le nostre teorie che determinano le nostre osservazioni. A. Einstein
Sezione Scultura e Decorazione Plastica
Un cocktail di colori
A chi parla del nostro lavoro di collaboratori scolastici in modo dispregiativo, pensando che sia l’ultimo dei
lavori... vogliamo far sapere che...
per noi è uno spazio aperto fatto di chiari-scuri;
è un cocktail di aperol, gin e sciroppo alle fragole,guarnito di panna e fragole, cioè di ragazzi che ti salutano
con un bacio, un sorriso, un abbraccio e che hanno tanta voglia di arrivare…
E noi gli aguriamo di prendersi il mondo.
I collaboratori scolastici
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ChiaroScuro
Spazioaperto
Filastrocca
Al quinto siamo arrivati,
pur essendo un po’ stressati!
Insieme ai professori
ne abbiamo passate di tutti i…colori!
D’Ugo e Camilloni
dei laboratori sono i campioni…
Fazio e Antonacci ci hanno ridotto
proprio in …stracci
Che coppia Massimi e Piccirilli
che cantano tanto come i grilli!
Rinaldi e Di Benedetto
ci protranno riprogettare il tetto.
Tornando in laboratorio,
con la puzza di petrolio,
troviamo la Parretta
alla quale si è incastrata la cassetta.
Corri, corri…non mi pigli…
mia cara Fiordigigli!
Guarda guarda abbiamo fame…
ecco la torta del Reale
che la Stenofi assaggerà
e felice rimarrà.
Ahi ahi…c’è l’ora di matematica,
e alla professoressa Pellegrini
portiamo un infuso di fiorellini
e nell’ora di codocenza…
tutti ad ascoltare con coscienza,
ciò che la Battisti e la Bascià
ce fanno imparà.
Ed infine il Cossu con il Logos
e il Buzzi con i suoi scarabuzzi intellettuali,
sono, senza alcun dubbio,
i più…sensazionali!
Laboratorio di documentazione fotografica
Sezione Moda
Classe 5P
docente Katia Danese
Il paradosso di Achille e la Tartaruga
Laboratorio di documentazione fotografica Sezione
Moda
ci metri che io ho di vantaggio io mi sposto in avanti di
cinque. Tu dovrai poi percorrere questi cinque metri,
ma io mi sarò spostata in avanti di altri due metri e
mezzo che tu dovrai recuperare. Ma mentre tu cerEnunciamo il paradosso di Zenone, dando poi la
cherai di raggiungermi facendo questi due metri e
soluzione.
Achille piè veloce sfida alla corsa una lenta tartaru- mezzo io mi sarò spostata di un altro metro e ventiga, dicendole: - Scommettiamo che riesco a batterti nella cinque e così via fino all’infinito, così tu non potrai mai
raggiungermi. Così dicendo la tartaruga tracciò sulla
corsa anche se ti dò dieci metri di vantaggio ?
terra un diagramma che spiegava la situazione. Achille
La tartaruga risponde: - Sai, io sono molto lenta,
osservò a lungo il diagramma, ripetendo mentalmente
è il mio stile di vita, ma se mi dai dieci metri di vantaggio, non puoi battermi! - Sì che posso, io sono il doppio più volte il percorso della gara, non riuscendo a capapiù veloce di te. - Anche se sei il doppio più veloce non citarsi di come fosse possibile che egli non riuscisse
mai a raggiungere il più lento animale.
potrai mai raggiungermi. Vedi, mentre tu percorri i die-
ChiaroScuro
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Spazioaperto
D’altronde Achille poteva, ragionando in altro
modo, sostenere di poter vincere la gara. Infatti quando Achille avesse percorso, diciamo, trenta metri, la
Tartaruga ne avrebbe percorsi solo quindici; detratti i
dieci metri di vantaggio iniziali, Achille si sarebbe ancora trovato in vantaggio di cinque metri. Il paradosso
appassionò molto gli antichi, che non conoscevano la
teoria delle serie e trovavano inspiegabile il ragionamento.
Proviamo anche noi a riflettere su quel diagramma...
soluzione
Quando Achille si trova in Ao la tartaruga è in To.
Achille corre per raggiungerla ed arriva in A1. La
tartaruga nel frattempo si è spostata in T1, avendo percorso metà della distanza di Achille, ma restando sempre in vantaggio. Il processo si ripete, apparentemente
fino all’infinito e sembra proprio che Achille non raggiunga mai la tartaruga.
Svolgiamo però il calcolo delle distanze, cosi
come dei tempi, supponendo che la velocità di Achille
sia v =1 m/s e ricordando che la distanza AoA1 è di
dieci metri. Achille percorre una distanza pari a Da =
10+5+2.5+... metri, in un tempo t = 10+5+2.5+... secondi. La tartaruga percorre una distanza Dt =
5+2.5+1.25+... metri in un tempo uguale. Si vede subito che si tratta di tre serie geometriche convergenti,
p.es. Da = 10(1+1/2+1/4+...) = 10(1/(1-1/2)) = 10(2) =
20 metri. Dt è la metà di tale valore mentre il tempo
impiegato è t = 10(1+1/2+1/4+...) = 10(1/(1-1/2)) = 10(2)
= 20 secondi.
Dunque dopo venti secondi, dopo aver percorso
venti metri in tutto, Achille raggiunge la tartaruga e un
attimo dopo la supera definitivamente.
così diffuso sul mercato?
La struttura di un iPod può essere grosso modo
descritta in questa maniera: Cinque bottoni, una “ghiera
rotabile”, ingresso per le cuffie, e niente più. È un prodotto che lascia il segno, sin dal primo utilizzo. Non
avete bisogno di comprendere a pieno il suo funzionamento, è il suo design a comunicarci il metodo con il
quale possiamo interagire.
Questo approccio si applica per ogni modello della
linea, ad eccezione del piccolo Shuffle, e vi spiegherò
il perché se deciderete di leggere più a fondo. La linea
dei prodotti comprende quattro principali dispositivi:
iPod Shuffle:
In ordine per dimensioni, è il più piccolo e semplice della gamma.
Anche in questo caso, non è necessaria alcuna
conoscenza pratica. Per rendere l’approccio ancora
più immediato, hanno deciso di rimuovere il display e
lasciare solo i controlli di base. Senza impiegare troppo tempo a cercare una traccia in particolare, premendo il tasto centrale verrà riprodotto un brano caricato al
suo interno. Ne arriveranno altri, in successione, anch’essi selezionati senza un preciso ordine.
Di recente è stato introdotto un nuovo modello, in
cui sono stati rimossi persino i bottoni sul dispositivo,
lasciandolo completamente spoglio.I controlli sono stati
spostati su un lembo dell’auricolare.
Che abbiano intenzione di rimuovere anche quelli, in futuro?
iPod Nano:
È stato presentato per la prima volta nel 2005,
poco prima del “cugino minore” Shuffle.
Concepito proprio con il principio di “ridurre” spazio. Pensato per gli sportivi, divenne ben presto il modello più popolare proprio grazie alla sua “sensuale”
sottigliezza. In soli 6,9 mm poteva racchiudere fino ad
8 gb di brani, circa 100 album musicali.
Decisero di lanciarlo sul mercato con 5 colori differenti, per renderlo un prodotto più accattivante. Originariamente la prima serie veniva distribuita solo nei
colori nero e bianco.
La vittoria dell’uno o dell’altra dipende da dove viene posto il traguardo. L’errore nel ragionamento è quello
di ritenere che una somma di infiniti termini debba dare
sempre un risultato infinito. Alla luce delle moderne coiPod Classic: (ex iPod Video)
noscenze matematiche la soluzione è addirittura baÈ stato primo ad uscire sul mercato e certamente
nale e si riduce ad un semplicissimo esercizio di il più popolare.
cinematica.
Attualmente è il modello più grande (dalle dimendocente Angela Antonelli
sioni un mazzo di carte), ma anche il più capiente: con
ben 120 gb di memoria a disposizione.
Si possono inserire 1000 album, più di 30.000 braiPod
ni, in alternativa, è possibile caricare centinaia di film,
Istruzioni per l’uso
Quando un sistema complesso abbraccia un migliaia di fotografie ad alta risoluzione, oppure utilizzarlo come disco esterno. È stato presentato in 6 genedesign semplice e intuitivo
Sin dalla prima uscita sul mercato, l’iPod ha ri- razioni differenti. Dalla terza in poi, l’utilizzo di un display
scosso un successo planetario. Attualmente, è il pro- a colori ha permesso la riproduzione di foto e video.
dotto più venduto della Apple, e ha raggiunto la top dei Questa particolarità lo ha reso talmente celebre da eslettori mp3 più venduti nel mondo. Ma cosa spinge un sere incoronato con l’appellativo di iPod Video, nella quinprodotto così semplice (ed a tratti costoso) ad essere ta edizione del dispositivo.
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ChiaroScuro
Spazioaperto
iPod Touch:
Pensavate che 4 bottoni potessero essere troppi?
Niente affatto! La sua struttura è composta da un ampio schermo di 3.5 pollici (il doppio dell’iPod Classic!)
con un interfaccia intuitiva completamente tattile.
Alla Apple sembrava troppo complicato utilizzare
uno stilo, così decisero di rimuovere anche quello. Tutto
ciò che rimane, è un dispositivo con due bottoni e una
superficie tattile. Ad interagire sarete voi, attraverso il
polpastrello del vostro indice.
Sfogliare la lista dei brani sarà come scorrere una
gigantesca rotella del mouse. Una volta trovata la traccia che vi interessa, basterà passare il dito sopra di essa.
Più semplice di così si muore!
Giorgio Pomettini 3P
Giulia – Sì, mi sembra proprio di sì. A questo punto
mi viene naturale chiederle se sente la barriera fra lei,
che riveste il ruolo di professore, e gli alunni.
Prof. Pardo – Se per barriera si intende distanza
generazionale, incomunicabilità o, peggio,
indifferenza, allora non sento nessuna lontananza;
ritengo invece necessario e doveroso mantenere
sempre un certo distacco autorevole per non
confondere e disorientare, facendo credere e pensare
che il professore è un amico.
Giulia – Mi sembra di capire che lei va in classe
volentieri!
Prof. Pardo – Sì, a patto che trovi l’aula!
Intervista al professor Luigi Pardo
Giulia - Professor Pardo Buongiorno
Prof. Pardo - Buongiorno a te.
Giulia - Inizio la nostra intervista, che potrà leggere
poi sul giornale scolastico, con questa domanda: che
pensa delle classi in cui insegna e che tipo di didattica
svolge con i suoi alunni?
Giulia – Che ne pensa invece dell’organizzazione
scolastica?
Prof. Pardo – Preferirei un assortimento maggiore di
tramezzini oppure si potrebbe sperimentare una coco-co-docenza per ogni singolo studente. Chissà!
Giulia – Lei è proprio simpatico. Comunque credo
sia terminata la sua ora di buco. La rìngrazio per la
disponibilità a rispondere alle domande. Buon lavoro!
Prof. Pardo - Bisogna innanzitutto distinguere tra le
classi del biennio e quelle del triennio: la difficoltà è Prof. Pardo – Grazie a te Giulia e buono studio.
sostanziale e a volte può anche determinare la buona
riuscita di un percorso scolastico con il proprio gruppo Giulia Reali 3M
classe. Il rapporto con gli alunni è per un verso
istituzionale, per l’altro improntato sulla lealtà delle
relazioni umane derivanti dalla convivenza di tanti
adolescenti che pian piano cercano di farsi strada nel
mondo degli adulti. Quando svolgo una lezione in classe,
per esperienza, cerco di fermarmi non appena rilevo
segnali del tipo: sbadigli, brusii, ecc.; finora non sono
arrivato a sentir russare…e credo che sia già un buon
risultato! Non ti sembra?
Sezione Plastica
Sezione Pittorica
ChiaroScuro
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Spazioaperto
La staffetta
Gli studenti del 5M salutano e fanno gli in bocca al lupo agli studenti del 4M per gli esami della maturità
mostrando la simulata della seconda prova con la staffetta.
La vignetta è stata realizzata dall’alunna Emanuela Luzzi 4M
I disegni della simulata sono di: Alessandro Stefanini e Francesco Di Benedetto
Grafica dell’immagine: assistente tecnico Claudio Monni
Curatore: docente Giorgio Calabria
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ChiaroScuro
Spazioaperto
Cruciverba
Orizzontali
1 …il cerchio perfetto
2 Teatro Romano
3 La usa il pittore
4 Il “creatore” dell’Ultima Cena
5 Sono i bronzi di?
6 Scultore e ideatore dei fregi dell’Acropoli
di Atene
7 Pittura parietale caratterizzata da intonaco
8 Primo ordine architettonico nei captelli greci
9 Realizzò il Fregio di Beethoven
10 Dipinse cavalli e balerine
Verticali
1 Il Giudizio rappresentato da Michelangelo
nella Cappella Sistina
2 Pittura rurale
3 E’ di Eiffel
4 Il Salvator degli orologi
5 La Lisa…di Leonardo
6 Museo parigino
7 Tomba egiziana
8 Il…Monet delle Donne in giardino
Classe 5P
docente Katia Danese
Sezione Moda
ChiaroScuro
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Diversodachi
Non c’è niente che non si possa rendere naturale, non vi è niente di naturale che non si possa perdere. B. Pascal
Sezione Plastica
La porta fatata
Se ricordo i giorni del terzo superiore…!
La gioia è ancora grande
Una passione e l’amore più profondo
L’aiuto del Signore
La fortuna è magia e colori
Il suo sorriso
Carina
E’ vita
Nel cassetto dei sogni c’è l’amore
La porta fatata dei sogni si apre
Di notte gli occhi contano le stelle
La storia della nostra vita
Un viaggio nel cassetto
Massimo Esposito 5N
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ChiaroScuro
ChiaroScuro
Buone prassi, belle storie
Se qualcuno mi chiedesse quale sia il senso profondo del mio lavoro, quali siano le buone prassi da
diffondere e comunicare, che cosa significhi integrare
e includere la persone con diverse abilità nella comunità degli altri – i “semplicemente abili” – potrei dilungarmi senza limiti in un profluvio di affermazioni retoriche, buoni propositi e nobili sentimenti. Oppure potrei
raccontare una storia. Molto probabilmente la più bella
storia che mi sia capitata nella mia professione di insegnante specializzata nelle attività di sostegno.
Era il settembre del 1997. Arrivavo, dopo un’esperienza poco soddisfacente in un altro istituto, nella mia
nuova scuola: l’Istituto Statale d’Arte “Roma due” di Via
del Frantoio. Non conoscevo nessuno, e, prima di suonare al citofono del cancello, mi soffermai a guardare
intorno, quasi a voler rendere familiare un ambiente
per me del tutto nuovo: su un gradino, fuori dal cancello, un ragazzo e una ragazza si baciavano prima di
Diversodachi
entrare a scuola. Non sapevo ancora che quello stesso gradino sarebbe stato, qualche anno dopo, scenario di un dramma intenso e coinvolgente, ma anche di
una favola a lieto fine. Entrata nel giardino, venni accolta dal suo personale benvenuto. Quasi ci fossimo
dato appuntamento, Massimo – questo è il suo nome
– mi venne incontro, a braccetto di Fausto – il professor
Cipriani – e mi fece un inatteso e graditissimo complimento. Non ci eravamo mai visti prima, eravamo due
sconosciuti, eppure il nostro destino era compiuto: da
quel momento saremmo stati amici, pur nel rispetto
dei ruoli, e ci saremmo, nel tempo, sorpresi di quanto
due persone tanto diverse possan sentirsi vicine. Per
tutti i ragazzi, la scuola è uno spazio di transizione, un’
esperienza preparatoria, un ambiente protetto nel quale
mettersi alla prova prima di lanciarsi, senza rete, nelle
acrobazie dell’esistenza. Per i “nostri” ragazzi, per i
“miei” ragazzi, di più: è un’occasione di crescita insostenibile, una palestra di vita stimolante e protettiva al
tempo stesso, un tempo concesso alle famiglie per
abituarsi all’idea che quel figlio tanto “bambino” abbia
diritto di crescere anche lui. E alle volte il tempo che
l’Istituzione prevede per questa transizione non basta.
Forse noi siamo troppo protettivi o troppo esigenti: ma
abbiamo imparato a fidarci anche delle nostre impressioni, delle nostre sensazioni, dei nostri sentimenti; ci
siamo convinti che, quando sentiamo che il ragazzo
non è pronto, sia nostro dovere concedergli più tempo, più spazio, ulteriori opportunità. So che rischio di
essere considerata una “chioccia” iperprotettiva, ma
ho la presunzione di credere che non sia così: io desidero che i ragazzi escano dalla scuola, che si inseriscano in un mondo di relazioni umane e professionali,
Sezione lastica
Laboratorio di documentazione fotografica
Sezione Moda
che vivano la vita pienamente e senza riserve. Ma non
voglio mandarli allo sbaragli! Faccio di tutto perché possano affrontare il “fuori” quando saranno realmente in
grado di farlo. Nel 2002, Massimo aveva terminato il
suo regolare corso di studi ed era stato licenziato. I
suoi anni nell’Istituto erano stati pieni e intensi; i suoi
doenti, in particolare Antonella Verderio, oltre a Cipriani,
già citato, lo avevano seguito con passione e competenza e il ragazzo era cresciuto molto, con soddisfazione di tutti. Negli anni io avevo spesso scambiato
con lui battute spiritose e riflessioni acute, costruendo
una relazione che, fondandosi più sul “non detto” che
sull’esplicito, aveva avuto caratteristiche di assoluta
originalità, e forse di unicità. Le nostre vite reali non
sono state turbate da questa relazione, ma, rispetto
alla nostra quotidianità, questa storia, come dice Massimo, è stata “un’alta cosa”. Così io, pur essendo contenta del suo successo scolastico e orgogliosa della
conclusione del suo percorso, sentivo che mancava
qualcosa, che non avevo fatto tutto quello che avrei
potuto fare per rendere Massimo pienamente autonomo, realizzato, sicuro del suo ruolo nel mondo. Poi mi
dicevo che erano fisime, elucubrazioni mentali di una
perfezionista, ansie eccessive e onnipotenti di un’inguaribile presuntuosa. M che volevo di più? Quello che
c’era da fare era stato fatto, le risorse sono quelle che
sono, bisogna accontentarsi… Qualche mese dopo,
entrando a scuola, lo ritrovai lì, su quel gradino davanti
al cancello. Lo zainetto al fianco, l’aria triste, mi salutò
con un timido sorriso. “Nostalgia”, pensai, “è normale”. Lo salutai anch’io con affetto contenuto. Ma il giorno dopo era ancora su quel gradino. E il giorno successivo. E quello ancora dopo. Mi sedetti accanto a
lui, in silenzio. Stemmo così un’oretta. Poi mi raccontò tutto il suo dolore e il suo disorientamento. Ma non
era come avevo pensato. Non era nostalgia. La sua
vita era stata travolta da una perdita insanabile,
sconcolgente, devastante. Massimo aveva capito che
gli mancava ancora qualcoa per farcela da solo. Aveva capito che qualcosa di spaventoso era rimasto fuori
da quel cancello ed era necessario ricominciare per
affrontare quei mostri e sconfiggerli.
ChiaroScuro
21
Diversodachi
Massimo era tornato nell’unico posto dal quale
sapeva di poter ricominciare. E così ricominciammo.
Furono determinanti il coinvolgimento della Preside e
l’impegno di una bravissima collega, Gabriella Pastore, nonché l’adesione al progetto da parte della sorella
del ragazzo. Poiché nel nostro Istituto sono presenti
diversi indirizzi di studio, era possibile che si iscrivesse
in un corso diverso da quello da lui frequentato e concluso in passato: e così fu fatto.
Se gli anni del primo percorso scolastico furono
quelli della semina e della fioritura, quelli che seguirono furono senz’altro quelli del ricco raccolto. Massimo si manifestò progressivamente in tutta la sua
ricchezza e poliedricità. Eccelse nelle gare sportive
e nelle attività di studio, ma soprattutto rivelò un eccezionale talento di attore e ballerino. Cominciò frequentando il nostro laboratorio teatrale, anche se ben
presto gli angusti limiti della nostra attività di filodrammatici si rivelarono inadeguati alle sue risorse: fu notato da un talent scout, si inserì dapprima nel Teatro
Gabrielli, poi incontrò Marco Baliani e infine approdò
all’Argentina, con Albertazzi. Le sue tournèe ormai
non si contano, i suoi viaggi all’estero sono la norma:
recitare sta diventando, per lui, sempre più una cosa
seria. Ma io non posso dimenticare l’esordio lontano
dalle mura protettive e amiche dell’Istituto.
La sera della prima al TeatroArgentina – si dava
la Storia del Signor Bonaventura – ero in platea, nelle
prime file, tanto emozionata per quell’esperienza realizzata senza di me, fuori dal nostro laboratorio, che
quando Massimo uscì in scena, nel suo costume impeccabile, fui presa da una commozione incontenibile.
Le lacrime mi uscivano senza freno ed ero diventata
l’attrazione dei miei vicini di posto, che non sapevano
darsi ragione di quella stravagante signora che singhiozzava senza pudore in mezzo ad una platea che,
per la comicità irresistibile del testo, era piegata in
due dal ridere. Nell’intervallo provai a spiegare, ma
non credo di essere stata capita fino in fondo.
E quest’anno, caro Massimo, terminerai il tuo
secondo “tour” nel nostro Istituto. Questa volta sono
contenta di salutarti, a nome mio e di tutta la scuola,
perché so che il tempo che ci siamo dati ha portato i
frutti che avevamo sperato. So che sei grande, ora, e
che puoi farcela con le tue forze. Non dico “da solo”,
perché da solo non sarai mia: noi saremo sempre
accanto a te, idealmente, nei tuoi percorsi futuri. Abbiamo pensato anche al futuro, questa volta, e tu sai
che ci aspettiamo da te che tu non ci deluda. Temo
che sarò io, stavolta, a soffrire un po’ di nostalgia,
ripensando ai panini nascosti in tasca quella volta che
ai Musei Vaticani abbiamo condiviso un attacco di
bulimia incontenibile, che ci ha portato ha
sbocconcellarli di nascosto sotto lo sguardo impassibile delle guardie svizzere.
O guardando la mia collezione di ricordi di quella ricorrenza che tu, in tutti questi anni, non hai mai
dimenticato di festeggiare.
docente Stefania Ciasco
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ChiaroScuro
Di me, me
Chi sono?
Cos’è che mi costringe a chiedermi: chi sono?
Mi concentro e nello stomaco un laccio lega.
Provo per un istante a distaccarmi da tutto quello che
mi circonda ed è fuori di me ed è fuori da me.
Mi sforzo, ma in questo vortice, sudo, aumentano e si
abbassano pressioni.
Rosso: il colore è rosso.E’ in corso una lotta.
Via retropensieri! via da me!
Restate lì fuori: non voglio confondermi ancora; non voglio perdermi in voi. Un tonfo: il vuoto.
E’ un istante; è un attimo: lo sento.
Nero: il colore è nero.
Provo dolore in questo riaggomitolamento. Ne sento il
volume; un volume soffice come di nuvola che deformante si liquefà e rifluisce giù e su nell’intero spazio
di me. Rifluire.
Mi accorgo spaventato che dentro di me è me.
…e intanto crampi forti, forti …e flussi e fili.
Chi sei? Me!
Vedo qualcuno, percepisco qualcosa, sento la
corposità nei flussi del mio volume: mia madre!, l’altalena!, il mio gatto! E poi anche tu!, anche voi! Come!
Tutti pezzi di me.
Non li afferro, eppure sono me! Siete me?
Mi accompagnano. Scorrono.
Fluisco e nel fluire aumentano altri e altri come lampi;
per un attimo mi accecano.
Tutto, tutto è in quell’istante e in quell’istante non è più
nulla. Vuoto, zero.
Puro: il colore è puro. Finalmente!
Ecco che traspare di me, me
docente Silvia Coletti
Laboratorio di documentazione fotografica
Sezione Moda
Diversodachi
re tutti uguali, senza sforzi, senza lottare anche se probabilmente intuiamo che ne potrebbe valere la pena.
Uno libro senza titolo
Ma il giudizio che tutti hanno di noi, vale di più di quello
Spesso ti capita di guardarti allo specchio e quello che abbiamo per noi stessi.
Anticonformisti o no, quando arriva il momento si
che vedi non ti piace. Questo succede perché a volte
pretendi troppo da te stessa o perché vorresti essere cambia: voglio essere di più per me.
Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, sarebcome tutti ti vogliono o perché non vuoi sembrare quella
che non sei a persone cui tieni molto e che non vuoi be anche ora che qualcuno la finisse di guardare solo
la copertina, ma spendesse il suo tempo anche ad osperdere.
servare quello specchio, sperando di non trovarlo rotAlla fine però resti sempre quella che sei.
Viviamo in un mondo in cui essere normali signifi- to. Siamo tutti libri senza titolo, almeno fuori: il titolo si
ca assomigliarsi tutti e se cerchi di uscire dalla massa trova dentro, ma nessuno ancora ha avuto il coraggio
qualcuno punta il dito e ti chiama: “anticonformista del di leggerlo.
cavolo”.
Sonia Cecchetti 1N
Non si capisce come mai, se Dio o la genetica
permette che non ci siano nemmeno due esseri uguali fra loro sulla faccia della terra, noi dobbiamo per forza assomigliarci tutti. L’immagine è sempre la stessa:
vestiti tutti uguali, diciamo le stesse cose, ridiamo anche di cose stupide. Il bisogno di stare in un gruppo
per dire di non sentirsi soli, ma la verità è che siamo
sempre soli e quindi non siamo altro che miliardi di
solitudini che si toccano per sentirsi meno soli, abbandonando idee, gusti, opinioni, solo per essere uno tra
mille.Sì, è vero, è più facile seguire la massa ed esse-
Laboratorio di documentazione fotografica
Sezione Moda
La mia immagine
Laboratorio di documentazione fotografica
Sezione Moda
Io sono per me un’amica, ma non ne ho per me.
Io voglio una mia amica. Io così sarò felice.
Io parlo attraverso i segni e non mi vergogno.
Io voglio insegnare i segni ai miei amici.
Io parlo poco, preferisco insegnare i segni.
Sono felice se le persone mie amiche
imparano i segni.
Io sono felice se ho sempre amici.
Maria Cristina Alcantara 4A
ChiaroScuro
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Stanzedell’arte
Il genio altro non è che la capacità di osservare la realtà da prospettive non ordinarie. W. James
Sezione Pittorica mosaico Rebibbia
Dove l’arte ci tocca
Perfettamente d’accordo con gli artisti romantici, sostengo che l’arte sia emozione: la sua funzione è
quella di andare spudoratamente a far leva sulle sensazioni.
L’arte è…un quadro che fa rivivere un momento con la stessa intensità con cui è stato vissuto; è una
scultura che rimanda a luoghi e sensazioni oramai vaghi nella memoria; è un’architettura che colpisce in tutta
la sua grandezza, investendo il mare emotivo che ognuno ha insito in sé; ma è anche un film che provoca un
pianto ingiustificato; un libro che con le sue parole si intrufola nel labirinto della tua mente; una melodia conforme a ciò che si è vissuto in quel preciso momento. Una melodia…
Le luci sono spente, fuori piove ed è buio. Quelle note dolci accompagnano il gioco delle ombre e delle luci
e si creano inevitabilmente situazioni analoghe. L’aria diventa densa e, ad un tratto, il freddo si dissolve lasciando un sempre più presente senso di torpore che culla…culla e…non ci sono più la quattro mura grigie, ma si
staglia invece un immenso campo, contornato da alberi. Il profumo inebria la mente e quella melodia continua
a trasportare, come un vento delicato, l’animo umano.Questa è arte: è l’essenza che abbraccia il mondo e lo
rende magicamente reale.
E’ tutto e d è niente, poiché è esperienza e ricerca, proiezione e immedesimazione,….
Così l’arte non è un oggetto, ma un’esperienza; per percepirla dobbiamo essere recettivi.
Come scrive Josef Albers, “l’arte è là dove l’arte ci tocca”.
Federica Scassillo 5N
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ChiaroScuro
ChiaroScuro
Stanzedell’arte
L’arte: un mezzo di comunicazione
Definire il concetto di arte è un continuo dibattito di
opinioni contrastanti: chiunque può essere considerato
nel proprio mestiere un piccol artista. Da chi dipinge,
chi scrive documenti nel proprio ufficio, persino chi imballa scartoffie. L’arte è un mezzo di comunicazione:
vede il proprio artista tentare di replicare il proprio messaggio attraverso un preciso strumento; anche una propria parte del corpo può essere intesa come tale. La
nostra immaginazione non conosce confini. Andando
avanti con il tempo, possiamo notare come, in diversi
ambiti, il flusso artistico continua ad evolversi. Quando
inizialmente l’artista si limitava a versare pigmenti su
delicati strati di cellulosa, fino ai più recenti progressi
nel campo del design industriale, i mezzi di locomozione, gli edifici e quant’altro. Qualcuno ha pensato bene di
stravolgere il concetto di base, decidere che la propria
uniformità sarebbe presto cambiata, perfezionando ogni
singolo aspetto, apprendendo dai propri insuccesi, ma,
in generale, facendo progressi con un unico scopo: cercare di avvicinarsi il più possibile al risultato finale.Non
esistono regole, come definisce l’espressionista tedesco Kirkner: “
…La pittura è l’arte che rappresenta su di un piano
un fenomeno sensibile. Il mezzo della pittura è il colore,
come fondo e linea. Il pittore trasforma in opera d’arte la
concezione sensibile della sua esperienza. Non ci sono
regole per questo. Le regole per l’opera singola si formano durante il lavoro.”. L’artista si trova alle prese con
risorse e dimensioni limitate. Questo lo spinge ad adattare il più possibile la sua idea originaria al suo contenuto, cercando, il più possibile, di rendere l’opera fruibile
da chiunque: aiutando ad afferrare il significato, cercando di riprodurre le stesse emozioni in quel preciso istante,
insomma trasmettendo il suo messaggio.
Un po’ come facciamo ora con i nuovi e ormai
comuni mezzi di comunicazione: quante volte abbiamo
“sgamato” i nostri parenti più giovani utilizzare un linguaggio segreto nei propri SMS?
L’arte ha origine dal nostro modo di rapportarci, da
quello che vediamo, che sentiamo, da come viviamo e
come interpretiamo ciò che ci accade. Ognuno dovrebbe trarre ispirazione dalla propria percezione, senza limitarsi a trovare una spiegazione. Il pensiero astratto
prevale quando è il nostro cuore a parlare.
Giorgio Pomettini 3P
Un punto di vista sull’arte
Ogni autore nella sua arte descrive le sue emozioni. Qualunque tipo di arte sia: un dipinto, una poesia, una canzone, contiene ciò che vuole trasmettere
il suo autore. La sua arte quindi rispecchia anche la
sua personalità, quello che pensa, i suoi piaceri, le sue
paure,…Nel caso delle canzoni infatti molto spesso
sono autobiografiche e parlano di situazioni in cui si
sono trovati gli stessi autori e le emozioni che hanno
provato. Alcuni poeti del passato, invece, come
Manzoni e Foscolo, vissero molto tempo nel pessimi-
smo ma, chi in un modo, chi in un altro, riuscirono a
superarlo. Nelle loro poesie sono infatti contenute storie che menzionano situazioni di scoraggiamento da
parte dei personaggi, contengono le loro stesse emozioni, solo provate dai personaggi che rispecchiano un
po’ della loro personalità.
Un altro poeta che si trovò nel pessimismo fu Leopardi, lui però non riuscì mai a superarlo. Anche lui
nelle sue poesie descrive le emozioni, come il dolore
per la morte di Silvia, la ragazza che amava, ma che
non riuscì mai a comunicare; la sua solitudine quando
rimaneva da solo a studiare o dietro un cespuglio a
scrivere poesie. Le sue poesie sono molto tristi: parlano di lui, del suo amore, della sua solitudine, dei suoi
desideri e fanno capire la sua debolezza nell’affrontare le situazioni della vita.
Un altro artista che parla molto di sé nella sua
arte è Van Gogh. Egli ebbe una vita difficile che lo portò
alla depressione. Anche lui visse nella solitudine e non
riuscendo a comunicare agli altri ciò che provava, lo
faceva attraverso le sue opere. Van Gogh trovava se
stesso parlando attraverso l’arte, descriveva il suo stato
d’animo tramite le sue pennellate inquiete, i suoi colori
accesi e attraverso i suoi ritratti e autoritratti, che si
sono rivelati un’operazione di indagine psicologica di
se stesso. Sono proprio le sue tele che fanno capire
come ogni particolare possa far capire quello che si
vuole trasmettere. Van Gogh rendeva i suoi quadri
angoscianti anche solo con l’uso del colore e della linea, facendo ben capire lo stato d’animo in cui si trovava.
Molti pittori, riescono perfino a dipingere in modo
tale che si capisca cosa stanno provando i personaggi del quadro, così che la scena dipinta sia tanto
realistica da potersi immedesimare meglio in ciò che
si vuole trasmettere. Questo si nota nell’Urlo di Munch
e nella Guernica di Picasso, che racconta la caduta di
una bomba, durante la seconda guerra mondiale in
Spagna e il dolore provato dalla popolazione, descritto
bene dai personaggi dipinti.
E’ perciò impossibile creare qualcosa che non
rispecchi le nostre emozioni o ciò che vogliamo trasmettere, sarebbe vuota, senza significato. E’ come
se ci chiedessero di colorare un foglio del nostro colore preferito e noi, invece, lo facessimo di un colore qualsiasi, tanto per colorarlo. Il risultato sarebbe qualcosa
che non ci appartiene, come se non lo avessimo fatto
noi, qualcosa a cui non sappiamo dare spiegazione
perché non lo abbiamo fatto con sentimento. E’ bello
invece, che l’opera rispecchi l’autore e ciò che vuole
dire, perché l’arte possa avere un significato e non sia
qualcosa tratto dal nulla. Anche io, a volte, quando non
riesco a dire qualcosa, uso l’arte. A volte è più facile
comunicare così che a parole ed è come se ci si sfogasse di tutto quello che si vorrebbe dire.
Perciò anche io in quello che faccio, qualsiasi
cosa, cerco sempre di far rispecchiare ciò che sono e
di non fare nulla di vuoto e senza significato.
Micaela Pizzacalla 1P
ChiaroScuro
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Stanzedell’arte
“Essenza/Linee di forza”
Analisi critica
In linea con alcune tra le più significative realizzazioni del
design europeo di matrice razionalista, l’arredo esposto è il risultato di
un percorso didattico di ricerca-azione che dallo studio e dalla riproduzione, nei precedenti anni scolastici, di opere di Rietveld ha condotto
quest’anno all’elaborazione di un prototipo originale e innovativo. Il pregio di questa operazione sta principalmente nell’aver guidato gli studenti in un “ripensamento” degli esempi di partenza attraverso una sin- Hill House 1903
tesi estrema di forme, linee, rapporti proporzionali e soluzioni tecniche. C.R.Mackintosh
La sedia s’impone, infatti, nella sua essenzialità, per la coerenza formale e la bellezza, ma anche per la sua funzionalità. I riferimenti culturali di partenza sono importanti ed evidenti: Mackintosh e soprattutto
Rietveld che con le loro “strutture-sculture” hanno rivoluzionato nei primi decenni del Novecento la concezione dell’arredo realizzando una
sintesi totalmente innovativa di valori estetici, tecnici e pratici. Dello
scozzese Mackintosh, definito da Mies van der Rohe un “purificatore
dell’architettura” nell’epoca immediatamente precedente il Movimento
Moderno, è stata ripresa e trattata, come elemento unico e continuo, Sedia Zig-Zag
l’idea dello schienale alto e imponente visibile negli arredi della “Hill 1934 G.T.Rietveld
House” del 1903.
Da Rietveld derivano evidentemente gli spunti più importanti relativi alla sintesi formale e all’equilibrio strutturale tra spinte e controspinte
presenti già nella sedia “Rosso/Blu”del 1918 e poi in “Zig-zag” del 1934.
In particolare è “Zig-Zag” ad aver ispirato la realizzazione di questo prototipo basato su una felice articolazione di linee di forza orizzontali,
verticali e oblique nella quale l’elemento triangolare, inserito sotto il piano della seduta, funge da controspinta. Alla luce di queste considerazioni il valore culturale e didattico dell’opera esposta è evidente, ma è
ancor più chiaro se per “progetto” s’intende, secondo un’illuminata definizione di G.C.Argan, l’impegno a ritrovare in ogni più piccolo intervento una sintassi del mondo e se per “destino” s’intende non solo un generico o fatale procedere, ma la capacità di determinare il futuro a partire dallo studio passato e dalla capacità di agire nel presente. E di
questa capacità, “Essenza/Linee di forza” è senza dubbio un esempio.
Descrizione formale e strutturale
Un imponente elemento verticale funge da spalliera e, prima di
intersecarsi con il piano orizzontale della seduta, s’inclina e prosegue
verso il basso per assumere una funzione di supporto alla struttura e
divenire il perno dell’equilibrio statico. Il tratto obliquo della spalliera è
inserito in un’asola realizzata nella seduta ed è bloccato lateralmente
da un perno in ottone. Un segmento di questo piano obliquo emerge
dalla seduta ed ha un’estensione ed un’inclinazione appositamente studiate per rendere la sedia confortevole e risponde quindi a quel presupposto fondamentale di corrispondenza tra forma e funzione che sta
alla base del design moderno. Nell’angolo anteriore che si viene a creare sotto il piano orizzontale della seduta, è inserito un elemento triangolare che funge da controspinta e rende solida la struttura riprendendo il motivo base della sedia “Zig-Zag” di Rietveld. Il piano orizzontale
della seduta si spezza, una volta oltrepassata l’asola in cui è inserito il
tratto obliquo della spalliera, e scende in verticale descrivendo in tal
modo un motivo ad “elle” che bilancia la linea spezzata dell’alta spalliera e il suo sviluppo in diagonale verso il basso. Il prototipo è stato realizzato in multistrato trattato a cera e presenta pertanto, nelle superfici,
nei dettagli e negli incastri, il carattere non rifinito che è tipico di ogni
lavorazione artigianale. Per un’eventuale produzione in serie è stato
ipotizzato l’utilizzo del legno massello.
docente Elena Andreozzi
26
ChiaroScuro
Sedia Rosso/blu
1918 G.T.Rietveld
Sedia Steltman 1963
G.T.Rietveld
Sedia progettata e realizzata nel 2006
da: Riccardo Meneguole e Simone Presto
(5M), assistenti tecnici Carmelo Viglianisi
e Claudio Monni, docenti Marino Colonna e
Cinzia Villanucci.
Stanzedell’arte
Il senso dell’arte
Pochi percepiscono ciò che un’opera d’arte e il suo
artista vogliono trasmettere. Se consideriamo fondamentale questo aspetto, riteniamo che l’arte sia un mezzo di comunicazione vero e proprio.
Penso che l’arte si divida in due parti: quello che
vediamo, osserviamo per esempio in un quadro, la sua
composizione, l’uso dei colori, la tecnica e poi quello
che non si cela ad occhio nudo, che non tutti riescono a
vedere; è questa la parte più nascosta che però ci può
dare una vaga idea dell’artista, delle sue passioni, dei
suoi sentimenti.
Non tutti gli artisti sono in grado di trasmettere le
proprie sensazioni attraverso una loro opera, ma sta
proprio in questo l’abilità: realizzare un lavoro in modo
tale che un osservatore possa immedesimarsi, provare nuove emozioni o riviverne altre che già conosce.
Tuttavia, è proprio perché l’arte fa provare emozioni, e non a tutti in egual modo, che può essere interpretata da ognuno in modo diverso ed è in questo che si
può definire comunicazione. Certo, non tutti possiamo
vantare l’idea di essere artisti del calibro di Michelangelo,
Raffaello o Leonardo, ma tutti possiamo essere artisti
in quanto cerchiamo di comunicare attraverso un’opera
parte di noi stessi.
L’arte non è solo fatta di tela e colori; l’arte può
mostrarsi in qualsiasi forma, che sia una musica, un
paesaggio, una ricetta. L’arte è tutto ciò in cui si dà se
stessi, la fatica, il sudore, la propria anima. E’ lo specchio che rappresenta i tuoi pensieri; è un modo utile per
tirarli fuori e farli conoscere agli altri.
Valerio Di Vincenzo 4P
I colori dell’arte
L’arte per molte persone è qualcosa di superfluo,
perché non si percepisce quello che un mosaico o una
tela racchiude in ogni sfumatura di colore.
Ogni artista, ogni persona, che sappia apprezzare
l’arte, riesce a percepire quello che l’opera vuole trasmettere. Sa capire con quale stato d’animo e con quanta intensità l’artista crea le sue opere.
L’arte rapisce tutti i tuoi sensi, ti trasporta all’interno dell’opera; è qualcosa che riesce ad ipnotizzare e
anche a farti sentire meglio. Anche tu, percorrendo con
lo sguardo l’armonia dei dettagli, riesci a prendere parte
ad essa e ti senti in armonia con ciò che ti circonda.
L’arte pur diffondendo questa magia, è qualcosa di soggettivo, ovvero ogni persona può provare una sensazione e un’emozione diversa davanti ad un’opera. Anche
per questo l’arte ti rapisce, per la capacità che ha di
sprigionare diverse sensazioni allo stesso tempo;per
quello che suscita in ognuno di noi.
L’arte ci circonda; non è solo un quadro o una scultura, può essere un palazzo, un quartiere, anche uno
scarabocchio di un bambino, l’armonia delle note di un
spartito musicale, i punti e le virgole che fungono da
pausa nei nostri scritti.
Per me tutto questo ed altro ancora può essere
arte; diversa con le sue mille sfaccettature di una vetrata di una chiesa, più tasselli di un mosaico ed è anche per questo che ho scelto questa scuola: per le
varie sfaccettature artistiche che mi offre.
Martina Battistini 2N
Contemporaneo nero: cronaca giovanile
E pensare che un tempo era azzurra.
Da bambina il mio sorriso riusciva a sprigionare
le più vaste gamme dell’oceano.
Intelligente, solare, radiosa…spensierata…
Ero brillante, oh sì, lo sono stata!
Sembra un ricordo dolorosamente remoto ormai
il tempo in cui la mia aura era fresca e leggera, limpida
e pura. La forza del fiume scorreva nelle mie vene, il
fascino delle cascate accompagnava i miei movimenti,
la tranquillità dei laghi cullava il mio sorriso e la bellezza del mare risplendeva nei miei occhi vispi, sempre
attenti.
Quegli occhi…quegli occhi che si sono spenti
troppo presto. L’azzurro è diventato blu, il blu grigio, il
grigio nero. Io sono il nero. Il nero in tutta la sua oppressione, il nero mistico e cattivo; il nero solitario e
altezzoso.
Superbo nero, che crede di non avere bisogno di
alcun altro colore da supporto…
Superbo nero, che ama la commiserazione, che
prova gioia solo nel dolore altrui…
Quel nero che ostacola…Sì.
La velatura grigia che mi ha coperto a poco a poco
è diventata un drappo pesante di profumata seta nera
che mi avvolge…mi stringe…mi soffoca dolcemente.
“Sono uno di quei derelitti condannati all’eterno
riso ma che non sanno più sorridere…”
Questo sono diventata. Dalla fiera gazzella che
ero, dalla libera rondine, dall’elegante cigno, mi sono
ritrovata ad essere un’infimo serpente, un sinistro ragno, un cieco pipistrello…
Eppure nella mia mente risuonava il dolce canto
dell’azzurro usignolo, ora invece corvi neri gracchiano
continuamente nel mio cervello…forte…sempre più
forte…e i miei pensieri diventano solo un’eco lontano
che si mischia a quel maledetto rumore assordante…
Quel rumore che, rassegnata, comincio anche
ad apprezzare.
Tuttavia, a volte, in un fugace riflesso, negli occhi
di un altro, nello specchio dell’acqua, mi sembra di
scorgere un timido bagliore, una fioca luce azzurrina
presenta ma…nascosta, impaurita. Una luce che non
ha la forza di uscire…ma no, non può riuscirci!
E’ solo un’ombra, un triste ricordo di ciò che sono
stata e che non sarò mai più che torna a tormentarmi,
a ricordarmi che sono imprigionata in una coltre di fumo
nero, fumo che mi ha tagliato le ali, che mi ha chiuso
gli occhi e spento il cuore…è un avvoltoio che attentamente osserva la mia lenta morte con famelico appetito.
Federica Scassillo 5N
ChiaroScuro
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Angolidimemoria
Sii quello che vorresti che il mondo fosse.Ghandi
Sezione Pittorica - Vetrata
Memoria è futuro
Il viaggio ad Auschwitz dell’11, 12 e 13 novembre 2007, organizzato in collaborazione con l’Assessorato
alle Politiche Educative e Scolastiche del Comune di Roma, ha costituito una tappa importante del nostro
progetto per ridare vita alla memoria collettiva . Nel freddo di Birkenau, quattro alunne del nostro Istituto, Giada
Talocci, Ilaria Moscaroli, Eleonora Buono e Louisiana Campaiola, si impegnarono a dare voce alle vittime della
Shoah, a documentarsi per testimoniare, nella speranza di contribuire alla lotta per sconfiggere discriminazioni
e intolleranze. Raccolsi con emozione le frasi pronunciate dalle mie giovani compagne di viaggio nei luoghi
dello sterminio nazista. Ilaria Moscaroli (III A): “ Ad Auschwitz sono penetrata nell’orrore dell’inferno; è stato un
privilegio raccogliere la testimonianza dei sopravvissuti, di chi quell’inferno l’ha vissuto e oggi lo ricorda con
dolore perché non si ripeta mai più”. Giada Talocci (III A): “ Ho vissuto un’esperienza che non potrò mai dimenticare, che mi ha toccato nel profondo, che sicuramente mi farà crescere e che farà di me una persona migliore. Testimonierò per costruire il nostro futuro”. Eleonora Buono (IV N): “ Il tempo scorre, ma il passato rimane e
ci parla per non dimenticare, per non farci divenire indifferenti”. Louisiana Campaiola (IV N):” Dimenticare è
morire, ricordare è vivere “. Con l’impegno seguito al viaggio ad Auschwitz, Ilaria, Giada, Eleonora e Louisiana
hanno rappresentato la nostra Scuola con senso di responsabilità e serietà, dimostrando che i giovani sanno
essere i migliori interpreti della libertà. Hanno trasmesso ai loro compagni il messaggio raccolto a Birkenau,
affermando il loro impegno a difesa della dignità dell’uomo anche attraverso la realizzazione di opere artistiche
esposte al Vittoriano in occasione della mostra conclusiva del Progetto “Noi ricordiamo”. Per queste ragazze,
che sono divenute giovani testimoni della Shoah, dopo il viaggio della Memoria, Pietro Terracina, Shlomo Venezia, Sami Modiano non sono solo i sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz, ma fratelli, che con
dolcezza e umanità sono entrati nelle loro vite per non uscirne mai più. Grazie alla pratica attiva della memoria,
gli studenti hanno capito che ricordare non è un mero esercizio teorico, ma uno strumento importante per
costruire un futuro migliore.
docente Giovanna Nosarti
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ChiaroScuro
ChiaroScuro
Angolidimemoria
In visita all’Inferno
E’ impossibile comprendere… nè tanto meno si
potrà mai dare una spiegazione a ciò che nella storia
è ormai impresso con il nome di Shoah… il nome di
una tragedia senza precedenti.
Eppure entrando ad Auschwitz Birkenau ho tentato, ho tentato con ogni mia singola parte, con tutta
la mia persona, con tutta la mia anima, di capire…
Difficili da esporre perfino le sensazioni, le vibrazioni dell’anima difficili da descrivere… perché si
evolvono in continuazione, cambiano volto, colore…
come abili trasformisti, che conoscono bene l’inganno. Auschwitz 2-Birkenau.
Desolazione.
Entri e vedi che di fronte a te c’è ben poco; un’immensa distesa di neve… poi giri lo sguardo e quel
bianco inesistente è interrotto da qualche baracca ormai vuota…ma forse no del tutto… Poi cambi, ma
inizi a cambiare dentro. Non ti senti più solo in quel
campo…inizi a riflettere e pensi che stai camminando su una fosa comune…
Ti fermi e provi angoscia, nel calpestare il corpo
o l’anima di chi non ce l’ha fatta, di chi è andato a
morire pechè qualcuno aveva deciso che per loro così
doveva andare.
Riprendi a camminare, senti il freddo sul viso.
Le lacrime non scendono, non possono!
Sconcertato il cuore batte più lentamente, non
se la sente di ibtromettersi i quel silenzio fin troppo
rumoroso…
Abbandoni Birkenau…arrivi ad Auschwitz 1.
La luce va scemando, il sole abbandona la
scena…non è più il protagonista, decide di prendere
il rulo della comparsa…ormai non può rimanere…
otlre la soglia dell’Inferno non può splendere il sole.
Un cancello bizzarro penso io…
”Il Lavoro Rende Liberi”…
Poi sono dentro, ci sono…e penso alla mia vita,
a quanto possa significare quella parola in un posto
del genere…
Qualche istante nell camera a gas…un fiore è lì
a ricordare qualcuno perso nel vento…
Entro nelle baracche. I vestiti, gli occhiali, le
valigie…tutto è ancora lì, come se ogni oggetto stesse ancora aspettando qualcuno che torni a
recuperarlo…un qualcuno che però…non tornerà mai.
Davanti i miei occhi una motagna di scarpe, scolorite ormai dal tempo…scarpe consumate…vissute…
Ma il mio sguardo cade al centro del mucchio. Un
una scarpa messa lì per caso…o forse no… Il tacco
ha resistito…quel laccato rosso vivo spicca nel grigiore
di un dolore che lacera gli animi, come a gridare al
mondo: “Io resisto ancora”. E forse sul serio ha resistito. Quando esco dalla baracca è ormai buio…intorno
a me schierati come soldati gli edifici della morte…di
fronte il cancello…ancora quella fase che attira la mia
attenzione: “Il Lavoro Rende Liberi”
…a troppe persone in quella fabbrica di dolore è
stata negata la libertà.
La sensazione è inquietante…ho paura di fare anche un solo paso in avanti…timore nel varcare la soglia dell’Inferno, come se qualcosa mi trattenesse ancora lì.
Poi il pensiero della vita riaffiora, come se coloro
a cui la vita in quel luogo è stata negata, mi chiedessero di viverla almeno in parte per loro…per il ricordo,
per la memoria…
Così in silenzio, faccio quel passo.
Non tornerò indietro…almeno non ora.
Ilaria Moscaroli 4A
Le 3D: Difesa, Dignità, Donna
Durante il corso dei secoli la donna ha dovuto sempre
lottare per ottenere la sua indipendenza. Questa lotta
è stata una delle battaglie più difficili da affrontare,
perché alla base di questo contrasto c’è sempre stato
il pregiudizio.
L’uomo si è sempre creduto superiore sia a livello fisico
che mentale, anche se io credo in quel modo di dire:
“Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”.
Non si tratta di superiorità, ma di diverse capacità e
inclinazioni. Tra le varie manifestazioni ricordiamo tutti
gli anni quella dell’8 marzo, che ha radici lontane. La
data simbolo è legata all’incendio divampato in un
opicificio di Chicago nel 1908, occupato nel corso di
uno sciopero da 129 operaie tessili che morirono
bruciate vive. L’anno prima Clara Zetkin dirigente del
movimento operaio tedesco organizzava con Rosa
Luxemburg la prima conferenza internazionale della
donna.
Visita presso
Birkenau - Auschwitz
Progetto sulla memoria
ChiaroScuro
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Angolidimemoria
Purtroppo oggi l’8 marzo è celebrato superficialmente
da molte donne, che lo vivono più come una festa di
libertà dove concedersi divertimento. Dovremmo
imparare proprio noi donne a riflettere su una data
così importante, perché in parte la nostra dignità è
dovuta all’atto di coraggio delle donne di quel primo 8
marzo. Loro diedero la vita per affermare i propri diritti,
per ottenere la giusta dignità di donne.
Qualcuno anni fa cantava “…siamo donne, oltre le
gambe c’è di più…”: non siamo solo belle statuine,
come la televisione e certe riviste impongono, ma
abbiamo anche un cervello, tutto sta nel cercare di
dimostrarlo un po’ di più senza lasciarci trascinare dalle
mode o da certe mentalità. Siamo in grado di dare la
vita, di portarla dentro di noi, di lavorare e di essere
autonome.
La forza di un individuo non corrrisponde solo a quella
fisica, ma soprattutto a quella mentale. Tuttavia la lotta
per affermare questi concetti è ancora lunga, ma deve
partire prima ancora dalle donne stesse, sono loro le
prime che devono dare un esempio.
E’ vero che anche le donne ora riescono in parte a
fare carriera in quegli ambiti lavorativi dove prima si
affermava esclusivamente l’uomo, tuttavia non è
ancora attribuito il giusto valore alle capacità femminili.
Non tollero gli abusi sessuali da parte di alcuni uomini
sulle donne, che pensano solo a soddisfare i propri
istinti animaleschi, non considerando né la violenza
fisica e né tantomeno quella psicologica e morale a
cui una donna è costretta poi a vivere e a convivere
per il resto della propria vita.
Le leggi per la tutela femminile dovrebbero essere più
severe, basterebbe applicarle: va severamente punito
colui che abusa di un essere umano. Le donne sono
persone e come tali vanno rispettate, hanno una loro
dignità; nessuno ha il diritto di abusarne né fisicamente
né psicologicamente.
Sono fiduciosa nel domani e ritengo che saremo in
grado tutti insieme di migliorare ancora la nostra dignità
e difesa della vita.
Veronica Sgaramella 5M
Nell’arte un po’ di te.
L’arte per essere definita tale richiede in sé l’anima e il
sentimento dell’artista; questo pensiero è il risultato di
anni di studio e di idee contrastanti.
Se confrontiamo il moderno pensiero sull’arte con
quello antico, prendendo in considerazione per esempio
l’idea “artistica” di Platone, noteremo quanto con il
passare degli anni le idee si siano modificate: siamo
più liberi di esprimerci.
L’arte in quanto rappresentazione dell’anima è facilmente influenzata dai fenomeni in fieri di ogni tipo: dalla
situazione familiare fino ad arrivare alla politica. Se
prendiamo in esame l’idea platonica sull’arte possiamo vedere che: secondo Platone, l’arte, in quanto rappresentazione dell’anima, non è realtà, perché le arti
(visive e poetiche) sono una copia della copia del mon-
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ChiaroScuro
do delle idee.
Io penso, a tal proposito, che il più delle volte l’arte
non rappresenti le mie emozioni e sensazioni, ma che
ugualmente è un ottimo metodo di comunicazione,
soprattutto di conoscenza.
Rifletto sul fatto che la conoscenza di una persona
non si basa solamente sulla sua cultura, ma piuttosto
sulle capacità dell’individuo di accettare e capire l’idea
dell’altro. Spesso guardando un dipinto, leggendo una
poesia, ascoltano un brano musicale, non ci rendiamo
conto del sentimento e dell’enorme gesto di apertura
che l’artista ha compiuto nei confronti del suo pubblico.
Penso dunque che l’artista non vada ammirato solo ed
esclusivamente per la sua opera, ma per il coraggio di
espressione e credo che ogni artista vada considerato
come un modello, specialmente in questi tempi in cui
non è semplice trovare la forza di esprimersi.
Giorgia Genovesi 3M
Il rumore assordante di una lotta silenziosa
Per il Progetto “Donne coraggiose” ci siamo documentati su una donna di straordinario valore: Aung
San Suu Kyi.
Premio Nobel per la pace nel 1991, Aung San
Suu Kyi è da anni un grande simbolo di lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani, nonché leader
dell’opposizione democratica birmana.
La vita di questa donna è caratterizzata da una
libertà di pensiero smisurata, che le ha conquistato il
favore pubblico, soprattutto fra i più deboli, che l’hanno pian piano innalzata a nuovo simbolo di una guerra
non violenta, bandiera da seguire contro la lotta all’oppressione e alla censura, che sono pratiche fin troppo
diffuse nel suo Paese.
La sincerità del suo messaggio di pace, che si
leva con dolcezza e fermezza, è un esempio per tutto il
mondo.
La Birmania, nonostante sia precipitata ormai da
anni nella totale povertà e nelle malattie più terribili,
con un sistema sanitario che l’Organizzazione mondiale della Sanità colloca all’ultimo posto (il
centonovantesimo, su 190 Paesi presi in considerazione), rimane la sua “lieta dimora” perché è la dimora
del suo popolo sofferente.
Aung San Suu Kyi denuncia con fermezza da anni
le penose condizioni di miseria della popolazione
birmana, privata dei diritti più elementari come l’istruzione e la democrazia, ponendosi davanti ai potenti
come simbolo della speranza, in virtù di una forza non
dovuta alle armi.
Nell’elaborare i suoi ideali pacifisti è stata influenzata dagli insegnamenti di Gandhi e dall’ esempio del
suo stesso padre (uno dei principali esponenti politici
birmani, assassinato quando lei aveva solo due anni),
modelli di riferimento politico che ha sfruttato pienamente per parlare di democrazia, di non violenza e di
assoluto rispetto dei diritti umani, ma anche di paura,
di corruzione e di violenza del potere.
Angolidimemoria
Ha affermato più volte di non farsi mai influenzare dalla paura e ha dimostrato che anche il silenzio
può essere assordante, soprattutto quello che, come
nel suo caso, segue alla perdita della libertà personale e alla violazione dei diritti umani.
Nell’89 il regime la recluse nella sua casa di
Rangoon, dove continua ancora oggi a vivere agli arresti domiciliari, costrettavi “a singhiozzo” da circa 20
anni, con gravi problemi di salute. Nonostante le forti
pressioni rivolte alle autorità del Myanmar (attuale Birmania) da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea
per la revoca dell’arresto, le date dell’annunciato rilascio vengono continuamente posticipate. Gandiana
convinta, si impose sulla scena nazionale, contrapponendosi alla dittatura instaurata dall’attuale Slorc (Consiglio di Stato per la restaurazione della legge e dell’ordine), come leader di un movimento non violento.
Nell’ ’88 fondò la Lega Nazionale per la Democrazia, che ottenne, due anni dopo, l’80% dei seggi
alle elezioni legislative, ma la giunta militare rifiutò di
convalidare i risultati. Poco tempo dopo ritornò agli
arresti domiciliari, con la concessione di poter lasciare
il Paese, ma non lo fece; anche al marito Michael Aris
e ai figli Alexander e Kim, era proibito farle visita. Non
le fu permesso di vedere il marito neanche quando a
quest’ultimo fu diagnosticato un tumore, che lo uccise
dopo due anni.
Nel 1992, usò i soldi (1,3 milioni di dollari) del
premio Nobel per la pace, da lei vinto l’anno precedente, per un progetto di sanità ed istruzione a favore
del popolo birmano; prima del Nobel aveva ricevuto
anche i premi Rafto e Sakharov.
Per il suo impegno a favore dei diritti umani e della pace il 6 maggio 2008 il Congresso degli Stati Uniti
le ha conferito la sua massima onorificenza: la Medaglia d’Onore ; inoltre alcune prestigiose università europee e americane hanno voluto assegnarle delle lauree honoris causa. Il premier inglese Gordon Brown
nel suo volume “Eight Portraits” ha descritto la nostra
leader pacifista come un modello di coraggio civico per
la libertà.
Questa donna tenace e coraggiosa, che ha subito
per via delle sue idee profonde umiliazioni, come l’arresto e l’allontanamento dalla famiglia, senza mai arrendersi alla violenza e alla cieca arroganza del potere, è
convinta che “non è mai facile convincere della saggezza di un cambiamento pacifico chi ha conquistato il potere con la forza” e che “l’individuo, privato di ogni altro
sostegno tranne quello del proprio spirito, sonda non
solo gli abissi in cui può precipitare, ma fortunatamente
anche le cime a cui, a caro prezzo, può assurgere.”
Valentina Orlandi 3P
docente Giovanna Nosarti
Progetto Donne Coraggiose:
Profili di donne che credono nella Libertà.
«Cosa rende una donna coraggiosa?» È questa
la domanda che ci siamo poste quando abbiamo aderito al progetto.
Rispondere è stato instintivo e trovare qualcuno
a cui ispirarsi è stato immediato: per noi studentesse
del corso di Architettura del Liceo Artistico “Roma 2” il
riferimento non poteva che essere Gae Aulenti.
«Una donna architetto, che non ha solo il merito
di essersi affermata in un mondo prettamente maschile, ma che ne suoi progetti lascia trapelare il coraggio
delle sue decisioni.»
Gaetana (da qui deriva il nome d’arte Gae) Aulenti
nasce a Palazzolo dello Stella nelle vicinanze di Udine,il
4 dicembre 1927 e oggi è un architetto e designer italiano di fama mondiale. Lavora infatti in un’ estensiva
gamma di aree creative fra cui il design industriale,
l’interior design e l’urbanistica. La sua carriera inizia
in seguito alla laurea in architettura conseguita al Politecnico di Milano nel 1953. Da sottolineare per comprendere l’influenze sul pensiero di Gae Aulenti è la
sua formazione come architetto nella Milano degli anni
cinquanta, dove l’architettura italiana è impegnata in
quella ricerca storico culturale di recupero dei valori
architettonici del passato e dell’ambiente costruito esistente.
Progetto
Donne coraggiose
ChiaroScuro
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Angolidimemoria
Queste espressioni architettoniche avevano avuto prima lo sviluppo del neorealismo e poi si
concretizzeranno sulla fine, appunto, degli anni Cinquanta nella nuova corrente del Neoliberty.
La Aulenti fa parte di questo percorso che si pone
come reazione al razionalismo. Per affrontare questo
progetto abbiano poi cercato di estrapolare, dai suoi
lavori e da testi a nostra disposizione, il suo pensiero.
«L’architettura nella quale mi piacerebbe riconoscermi – dice Aulenti - deriva da tre capacità fondamentali di ordine estetico e non morale.
La prima capacità è quella analitica nel senso che
dobbiamo saper riconoscere la continuità delle tracce
urbane e geografiche sia concettuali che fisiche, come
essenze specifiche dell’architettura, così che sia sempre possibile anteporre la logica strutturale di un edificio nella sua apparenza. Molte volte queste tracce sono
nascoste e sotterranee e metterle in evidenza è lavoro lungo e paziente.
Occorre saper analizzare, riconoscere e quindi
fondare la differenza di ogni architettura; cioè rendere
specifiche le singole soluzioni mettendole sempre in
relazione alle condizioni del contesto.
La seconda capacità è quella sintetica, cioè quella
di sapere operare le sintesi necessarie a rendere
prioritari ed evidenti i principi dell’architettura, in grado
di contenere qualsiasi variazione e cercando di allontanare così dal progetto quel tanto di arbitrario che esso
naturalmente possiede.
La terza capacità è quella profetica, propria degli
artisti, di poeti, degli inventori. Se la tradizione di una
cultura non è qualche cosa che si eredita passivamente, ma qualche cosa che si costruisce ogni giorno, questa terza capacità non può che essere un’aspirazione. Un’aspirazione a creare un effetto di continuità della cultura, a costruire le sue forme e le sue
figure, con un contenuto personale e contemporaneo.»
A proposito della sua vita passata dice: «Ne ho
viste davvero di tutti i colori». Poi, lontana dalla
snobberia di un Niemeyer centenario che si dichiara
«Solo sessantenne», aggiunge: «A questi miei 80 anni
ci penso in continuazione, è diventato un chiodo fisso».
La speranza più grande? «Mi auguro che la testa
tenga.» Gae Aulenti l’architetto che conquistò Parigi
con la Gare d’Orsay. L’architetto Aulenti (“Gae è il
diminutivo di Gaetana,un nome che fu imposto da una
nonna terribile,ma in casa sono sempre stata Gae”) è
stata una della prime donne “Vincenti” in un mondo
molto maschile (“Della mia generazione eravamo solo
in due:io e Cini Boeri”) dove «la misoginia esiste ancora, ma fortunatamente sono aumentate le donne».
L’arma vincente di Gae è la volontà e la determinazione, e anche se compie in campo Architettonico
scelte molto audaci non ama le architetture troppo
astratte, ma quelle che comunicano col pubblico.
Dallo studio di alcune delle opere di Gae Aulenti
siamo giunte all’elaborazione di un prodotto finale. In
quest’ultimo abbiamo cercato di riprendere gli elementi
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ChiaroScuro
che, ai nostri occhi, appaiono fondamentali e li abbiamo riproposti attraverso una nuova e personale chiave
di lettura arrivando così ad un prodotto che rispecchiasse
il pensiero del noto architetto. Mantenendo al centro
dell’idea progettuale i tratti fondamentali delle opere di
Gae Aulenti, da noi eletta a «Donna Coraggiosa», abbiamo elaborato una proposta compositiva congruente
alla linea che ha caratterizzato, nell’ambito del design,
le opere dell’architetto italiano.
Il progetto da noi realizzato nelle discipline “progettazione e laboratorio” presenta, infatti, delle scelte
formali e delle soluzioni funzionali che riflettono gli elementi di novità dell’artista. Il nostro piccolo tavolo è
destinato ad occupare uno spazio generico, disponibile a molteplici interpretazioni distributive. Esso è caratterizzato da una scelta di materiali (acciaio e vetro)
che possa esaltare i giochi di trasparenza in un qualsiasi spazio di interpretazioni vecchie o moderne. Il
manufatto è stato realizzato in un linguaggio ed una
tecnologia semplice, ma assolutamente vicina alla ricerca figurativa manifestata nelle opere di Gae Aulenti.
Il progetto si basa su un telaio strutturale in metallo,
sormontato da un semplice piano trasparente di forma quadrata e la realizzazione di un modello, in scala
1:5, pone in primo piano nel soggetto gli elementi innovativi pur conservandone la semplicità.
A cura delle alunne del VM: Jessica Garcia,
Martina Puccio, Gaia Romano e Veronica
Sgaramella
Si ringraziano i docenti: Giorgio Calabria, Antonio Celli, Marino Colonna e Rosaria Venuto
Fonti: www.gaeaulenti.it, Corriere della Sera, articolo del 30/11/2007 e “Gae Aulenti” della casa editrice Motta Architettura.
Progetto Donne coraggiose
Angolidimemoria
LIBERTÉ, ÉGALITÉ, FRATERNITÉ
L’insonnia dei giusti
La recente tragedia abruzzese ci ha, per l’ennesima volta, ricordato come nel nostro Paese le conseguenze delle catastrofi naturali siano rese ancor più
drammatiche dall’inettitudine, dall’approssimazione o,
peggio, dal malaffare.
Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo. Ciò che
questa volta mi ha scandalizzato, però, è stato il commento (per quanto mi è capitato di sentire, unanime)
da parte di tutti coloro che a vario titolo sono stati interpellati sulla vicenda: politici, sociologi, giornalisti o
tecnici che fossero, tutti hanno sostenuto che la responsabilità dell’inadeguatezza delle costruzioni, dichiarate antisismiche senza esserlo, sarebbe della
mancanza di controlli adeguati. In assenza di controlli, infatti, pare che ormai sia accettato da tutti come
ineluttabile che chiunque si comporti in modo tale da
cercare il massimo profitto individuale, pazienza se
questo significa che la qualità del suo lavoro risulta
compromessa.
Chiamatemi pure ingenuo o idealista, ma io credo, invece, che ognuno di noi dovrebbe essere il primo e più severo giudice del suo lavoro e non dovrebbe nemmeno immaginare di dormire sonni tranquilli
avendo il dubbio di aver lavorato male.
Che si tratti di un impianto idrico che non tiene, di
un paziente non adeguatamente curato, di un allievo
ingiustamente promosso senza averne le competenze, o di un palazzo mal costruito, l’indulgenza con la
propria inettitudine è sempre fuori luogo, con l’aggravante che quando è in gioco la vita degli altri la questione non si dovrebbe nemmeno porre.
La domanda che mi ronza in testa da quei giorni
è sempre la stessa: “Ma come fanno a dormire tranquilli tutte le notti, sapendo di essere responsabili di
quel disastro? E come facevano a dormire prima, sapendo di aver messo a repentaglio la vita di tanta gente solo per guadagnare una maggiore quantità di denaro?”
Mi sono fatto un’idea: l’idea che per queste persone gli altri non esistano, non abbastanza almeno da
essere presenti nella loro mente come oggetti della
loro preoccupazione.
Ma com’è possibile vivere in un mondo tanto ottusamente narcisistico? Proverò a spiegare come si
arrivi a tanto partendo un po’ da lontano e utilizzando
strumenti di lettura della realtà che non sono propri
della sociologia o della politica, ma piuttosto dell’analisi dei meccanismi della mente umana.
I liberi e gli uguali
In un libro di Norberto Bobbio di qualche anno fa,
Destra e Sinistra, si chiariva come i due pilastri della
democrazia, la libertà e l’aspirazione all’eguaglianza,
si dovessero necessariamente coniugare in un equili-
brio dinamico che consentisse ad entrambi di avere la
soddisfazione che meritano.
Bobbio descriveva quattro possibili combinazioni dei due principi:
1) rispetto per entrambi;
2) rispetto per la libertà e non per l’egualitarismo,
3) rispetto per l’egualitarismo e non per la libertà,
4) nessun rispetto per entrambi.
La prima sarebbe la posizione delle democrazie
evolute, che Bobbio identificava nelle forze di sinistra
moderata.
La destra liberale, secondo quella tesi, propenderebbe invece per l’estrema libertà, valore di riferimento predominante, sia nelle relazioni umane e sociali, sia nella dimensione economica, fino al liberismo,
al neo-liberismo e al cosiddetto anarco-capitalismo,
ma ignorerebbe i principi dell’egualitarismo.
Il polo ispiratore della sinistra estrema, al contrario, sarebbe l’egualitarismo, la giustizia, l’equità sociale,
la ripartizione corretta delle risorse, ma essa trascurerebbe di dare il giusto peso alla libertà. Infine, la destra estrema proporrebbe un sistema politico fondato
sull’assenza di entrambi questi valori.
Franco Cardini ha voluto vedere nelle tesi di
Bobbio la ripresa dei due principi rivoluzionari di “liberté”
ed “égalité” ed ha notato come tra di essi sia venuto a
mancare uno spazio altrettanto rilevante per la
fraternità, terza gamba della triade rivoluzionaria, apparentemente molto meno importante nei sistemi politici attuali.
Si potrebbero dare molte spiegazioni della svalutazione di questo principio: Cardini parla della sparizione dell’elemento trascendente che lo ispirava; io
vorrei proporre una lettura basata su osservazioni di
tipo psicoanalitico che, sebbene un po’ fuori contesto,
mi pare possano spiegare bene le origini di questa
carenza.
L’Es e la libertà
Nella teoria psicoanalitica l’Es è quella struttura
psichica che si muove verso la realizzazione dei desideri, quali che essi siano. Non conosce ragionevolezza, rinvio, rinuncia né sacrificio. Non sono temi che
lo riguardano. Desidera e basta.
Non si fa fatica a trovare in questa struttura il fondamento dell’anelito alla libertà totale: essere liberi significa poter desiderare ciò che si vuole e cercare di
realizzarlo.
La libertà dell’Es, però, è una libertà incapace di
moderazione, di tempi e di modi. Il motto di derivazione kantiana “la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro”, presuppone l’entrata in campo di un’altra
struttura psichica, che si adatta alla realtà, che tiene
conto degli altri, che conosce, esplora ed accetta i limiti, che è capace di dire “basta”, “dopo”, “non si può”.
Questa struttura è stata chiamata Io, a significare che è la parte in cui ognuno di noi si riconosce,
attraverso un percorso progressivo che prende il nome
di identificazione.
ChiaroScuro
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Angolidimemoria
Il Super-io e la giustizia
Anche la giustizia ha un’istanza psichica di riferimento che ha bisogno di tempo per costituirsi. Quest’istanza è stata chiamata Super-Io ed è, grossolanamente, costituita da una parte censoria – quella che
ci dice cosa non dobbiamo fare – e una parte ideale –
quella che indica le mete, gli obiettivi positivi, i valori di
riferimento. Questa struttura presuppone ugualmente
un processo di introiezione, sia per l’assimilazione
delle regole, le quali da norme imposte dall’esterno
devono diventare principi condivisi, sia per
l’adeguamento e l’adesione ai sistemi valoriali all’interno dei quali si viene educati.
Identificazione e imitazione
Tuttavia, tanto per ciò che riguarda la capacità di
tenere sotto controllo le pulsioni (cioè le spinte del desiderio) – la libertà – sia per l’adesione alle regole – la
giustizia – si può anche fare finta di essere aderenti ai
modelli.
Si può costruire una maschera fittizia costruita
sull’imitazione piuttosto che sull’identificazione. L’imitazione superficiale è facile, rapida, indolore. L’identificazione è lunga, complessa, presuppone una digestione, fasi di difficoltà di assimilazione, di rigetto, di
riavvicinamento successivo. Il risultato è che apparentemente le persone mostrano di rendersi conto che
per essere veramente libere devono rispettare la libertà altrui e che per essere giuste devono rispettare
le regole a prescindere dalla presenza di chi controlla,
ma in realtà, come bambini mal cresciuti, appena possibile cercano di affermare i propri bisogni come se gli
altri non esistessero o cercano di aggirare le leggi se
hanno la certezza dell’impunità.
Chi si costruisce per imitazione si accontenta di
assomigliare, più o meno, al modello e, finché l’inganno tiene, non sente il bisogno di crescere ulteriormente, anzi: si ritiene adeguato e ostenta disinteresse per
eventuali altri processi evolutivi. Costruisce così
un’identità di comodo, quella che si chiama un “Falso
Sé patologico”, tanto più rigida ed immutabile quanto
più si sente fragile e minacciata dalle prospettive di
cambiamento.
Al contrario, la costruzione dell’identità non dovrebbe concludersi mai del tutto, perché elementi di
arricchimento e di trasformazione della personalità testimoniano la vitalità e la sicurezza di un individuo ad
ogni età.
La fraternità e la società senza Io
Il terzo polo della rivoluzione del 1789, la fraternità,
è quello che mi interessa di più nell’ambito di questa
riflessione.
Senza particolari padrini politici – forse perché
ha poco appeal – è un sentimento che non può prescindere da un particolare processo evolutivo dell’Io.
Stiamo parlando infatti della costituzione stessa dell’Io che – come mise bene in evidenza Lacan – si basa
esclusivamente sulla possibilità di rispecchiamento
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ChiaroScuro
nell’Altro: mentre l’Es può esistere senza l’altro, anzi
perfino senza la realtà, e il Super-Io può costruirsi in
modo imitativo, senza un’adesione vera e profonda ai
suoi contenuti, l’Io non può esistere senza la percezione di chi è altro da sé, di chi gli sta di fronte, in cui si
rispecchia, si identifica e si riconosce, prima come
corpo e poi come persona.
L’individuo che si costituisce senza queste premesse è una semplice superfetazione dell’Es, capace solo di ascolto interno, di imporsi gridando per affermare i propri bisogni e desideri, ma con nessuna
capacità di rapportarsi alla realtà, soprattutto se frustrante.
Quello che voglio dire è che l’incapacità di provare sentimenti di solidarietà, di accoglienza e di identificazione nella sofferenza altrui non è un casuale risultato di un inspiegabile degrado dei costumi, di uno
smarrimento di valori o di crisi di ideologie, ma dell’inesistenza di una struttura interna capace di accettare, sviluppare e trasmettere i principi in questione.
E’ come se le emozioni e i principi morali potessero soltanto aderire ad una struttura superficiale ed
esterna, dentro la quale, per l’assenza di supporti interni, non è permessa l’introduzione di alcun contenuto. Perciò non sono tanto i valori a mancare, quanto i
solidi modelli di identificazione, mentre d’altra parte abbondano le figure da imitare superficialmente.
Viviamo in una società nella quale le strutture
psichiche sono indotte a restare primitive: primitivo l’Es
senza controllo dell’Io; primitivo il Super-Io, imitativo e
non basato sull’identificazione; primitivo o addirittura
inesistente l’Io, con meccanismi di difesa anch’essi
arcaici; primitivo il Sé, costruito su identità fittizie e non
saldamente radicate.
Mosaico Rebibbia
Angolidimemoria
Un modello psicotico
L’impressione, dunque, è che il modello proposto
dalla società attuale sia, proprio perché più arcaico,
anche più semplice e meno faticoso da riprodurre. I
valori cui fa riferimento sono elementari e non hanno
bisogno di elaborazione: si tratta di suddividere in modo
banale e proiettivo il dentro dal fuori, il buono dal cattivo, il bello dal brutto, il giovane dal vecchio, il
desiderabile dal rifiutato.
Partizioni così semplici non hanno bisogno di strutture complesse, non richiedono un pensiero particolarmente evoluto, né un’affettività matura, che si interroghi su se stessa.
Certo, l’impossibilità di comprendere appieno la
complessità del reale con un sistema cognitivo di tale
banalità porta ad un’ansia di possesso materiale, in
assenza di un potere più profondo e sicuro sulla natura delle cose, quale quello che deriva dalla conoscenza vera, ma il gioco vale la candela, tanto forte è il
risparmio di energie che tale concezione garantisce
rispetto ad altre che richiedono fatica, dolore, elaborazione, rinunce e sacrifici.
Peccato che tale modello, tanto illusorio quanto
devastante da un punto di vista sociale, possa essere
definito propriamente “psicotico”, in quanto incapace
di confrontarsi con una realtà diversa da quella percepita o immaginata da quell’abbozzo di Io narcisistico,
presuntuoso, megalomane, paranoico, onnipotente e
delirante che ne è il frutto.
Un abbozzo di Io che non si è costruito per dare
all’Es uno spazio di realizzazione armonizzandone i desideri con i limiti posti dal mondo circostante, ma che si
è totalmente identificato con l’Es stesso – rivelandosi
quindi una struttura pleonastica – nel cercare di piegare la realtà ai suoi desideri, nel negare l’ovvio, nell’inventare fantasie e viverle come reali, nel pensarsi onnipotente, senza limiti, senza freni, senza confini, sen-
za regole, senza valori morali.
Come se fosse, in una parola, Dio. Ma si può
vivere in un mondo di folli, ognuno dei quali pensa di
essere un dio - o di poterlo diventare frequentando i
salotti giusti - per di più avendo, ognuno di essi, un’immagine personale di tale entità divina, diversa da quella
di tutti gli altri?
Come monaci medievali
Abbiamo solo una speranza: che quello che proponiamo in alternativa al modello culturale dominante
si riveli, alla lunga, più solido e consistente dell’altro.
E questo non tanto perché proporre la frustrazione inevitabile e il sacrificio è, per quanto doloroso, più
autentico del fingere che tutto sia possibile e che non
si debba mai soffrire, ma piuttosto perché il piacere
che si può esperire basandosi sul rispetto degli altri,
sulla solidarietà, sulla consapevolezza, sul sapere, sulla
conoscenza approfondita e sulla qualità dell’esistenza
è, nei tempi lunghi, molto più desiderabile e appagante di quanto non sia quell’insipido godimento da fastfood rappresentato dall’euforia momentanea e passeggera di chi non sa far altro che consumare la vita.
Siamo forse semplicemente dei vecchi retrogradi
che difendono la tradizione, le proprie idee, le proprie
convinzioni, ma non possiamo mollare.
Chiamatelo come volete: spiritualità, ideologia, forza morale, trascendenza, fede, poco importa.
Quello che conta è che siamo sicuri che sia necessario resistere nelle nostre trincee a difendere ciò
in cui crediamo. E a proporci, noi, con i nostri sogni, le
nostre speranze, la nostra cultura, i nostri limiti, i nostri
desideri, le nostre frustrazioni, i nostri ingenui ottimismi,
i nostri legami affettivi, i nostri valori – libertà, uguaglianza, fraternità - come modelli alternativi.
Sicuri di essere più veri.
docente Stefano Guerra
Pittura Rebibbia
ChiaroScuro
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Variazioni
Prima di convincere l’intelletto occorre toccare e predisporre il cuore. B. Pascal
Laboratorio di documentazione fotografica - Sezione Moda
I colori dell’anima
Chiudiamo gli occhi e immaginiamo di essere in una stanza vuota con al centro solo una sedia. Non so
come possano immaginarla gli altri, ma ecco come la vedo io: una stanza scura, quattro pareti due delle quali
hanno una finestra ciascuna e dalla quale entra una forte luce, tendente al bianco. Queste finestre occupano la
parte centrale delle pareti dall’alto verso il basso senza toccare né il pavimento, né il soffitto. Io sono al centro di
questa stanza e mi siedo su una sedia, di quelle antiche, fatte di legno e paglia intrecciata, adatta per una
vecchia casa in campagna. Il pavimento è composto da lastre di legno incastrate tra loro e consumate, non
sono lucide e tanto meno ben tenute. I colori delle pareti sono grigie, un grigio scuro che nelle parti buie della
stanza sembra nero. Dietro di me c’è uno specchio, mi volto per guardarlo e vedo una sciocca ragazzina piena
i sogni e di voglia di vivere. La ragazza veste di nero, ha i capelli molto lunghi e di un colore che non riesce a
decifrare, un castano chiaro che tende al biondo cenere, ma con riflessi ramati e dorati. Questo colore fa da
grande contrasto con la sua pelle chiara, che fa da effetto candelina in quella stanza così scura. La sua espressione è pensierosa, triste e al tempo stesso curiosa, forse perché non sa se riuscirà a realizzare concretamente parte dei suoi sogni forse perché è convinta di essere una povera illusa e basta. E’ così che le è stato
insegnato dal mondo: “non c’è speranza per chi sa di non averla”; ecco perché intorno a lei è tutto così cupo e
scuro.
La ragazza abbassa lo sguardo e ai piedi dello specchio vede una piantina, non sa di che natura sia
eppure è di un verde acceso e alla sua destra, su uno dei rametti c’è un fiore ancora chiuso, una macchiolina,
un puntino di u rosso intenso che aspetta solo di richiudersi. A quel punto le viene da sorridere, o meglio, mi
viene da sorridere: quella ragazza sono io. La mia giovane età, il mio passato e il futuro che mi aspetta mi
hanno dato questi colori: nero, bianco, grigio, rame, bordeaux, verde, grigio…Sono tre però i colori che mi
rappresentano: nero, bianco e verde.
Il nero perché sono di questo colore, lo è il mio modo di essere: “il male di vivere”. Il bianco, perché c’è una
luce buona lì in fondo che mi aspetta sempre. Verde, perché da ciò che è verde credo nascano cose buone
come la speranza e ce n’è bisogno per guardare avanti.
Eleonora Buono 5N
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ChiaroScuro
Variazioni
Ma tu una volta mi hai detto…
Non c’è più nessuno che mi conosca davvero
Il mio mondo sta crollando
E ho davanti agli occhi un’oscura fine
Io non dovrei piangere per te…
Ma tu una volta mi hai detto:
Quando tutto finirà
Sarò un angelo per te
E solo per te brillerò nell’oscurità
E poi volerò via di qua
Finché non mi apparirai
Continuerò a immaginarmi che tu da lassù
Pianga per me, attraverso le nuvole
Ho aspettato e aspetterò l’infinito per te
Ma tu una volta mi hai detto:
Pensa solo a me, e vedrai
Un angelo che ti vola accanto
Pensa a me, e vedrai
Un sorriso amico
Pensa solo a me, se ti sentirai sola
Pensa a me, se sei triste
Pensami
E ti starò vicina.
1000 emozioni diverse
L’arte è personale, trafigura il nostro modo di rappresentare il mondo esterno: tutto quello che proviamo, che sentiamo e tutto questo non è mai come il
mondo che ci circonda. L’arte è anche bellezza,
perchè niente è paragonabile a quelo che sentiamo;
nessuno può capire fino in fondo quello che proviamo,
a volte neanche noi stessi sappiamo spiegare le nostre emozioni. L’arte è un modo per esprimere tutto:
felicità, rabbia e altre 1000 emozioni diverse e contrastanti.
Non ci sono copie, l’arte, la vera arte, è unica e
sola tutto lì in un’opera che da sola esprime tutto quello
che c’è da sapere. Dolori, piacere, gioia, amore, nervosismo: sono tutti sentimenti troppo grandi da custodire. L’anima ha bisogno di liberarsi ogni tanto e si serve
dell’arte. L’arte è vita è il senso della vita, dove è
concentato tutto il nostro essere nell’arte.
Si dice che gli artisti così come i filosofi e i matematici siano accumunati da una caratteristica: la pazzia. In realtà io penso che siano gli unici a vedere il
mondo realmente come è con le sue 1000 sfumature
e sono anche gli unici che sanno apprezzarlo veramente.
L’arte è l’anima degli artisti e l’arte è la nostra
vita…gli altri come faranno a vivere senza?!?
Marianna Felicetti 4B
Johana Negulici 1P
Sezione Pittorica
Sensazioni
Tengo le sue mani e le sue mani
stringo al mio petto
tento di riempire le mie braccia
della sua bellezza
di rubare con i baci il suo dolce sorriso
di bere i suoi neri sguardi con i miei occhi.
Elena Zonni 4A
Dietro un nastro rosa
Essere donna per me significa: essere la terra
su cui l’uomo progetta il suo futuro.
Senza l’esistenza della donna non ci sarebbe
storia. Dietro una grande tragedia, avventura o vita c’è
sempre una donna, ma perché noi donne apparteniamo da secoli all’ombra di grandi eventi? Sicuramente
non è timidezza!
Ci viene attribuita l’immagine del sesso debole,
ma sappiamo tutte che è il contrario.
Quello che sto cercando di dire non vuole sfociare nel solito discorso “femminista” che non porta a
nulla: io considero l’uomo importante quanto la donna, pur avendo predisposizioni diverse per natura.
Anni di lotte per essere accettate nel nostro lavoro, per avere gli stessi meriti dell’uomo ed avere la
stessa considerazione eppure, ancora oggi, troviamo
grandi ed, allo stesso tempo, effimere difficoltà.
Volete sapere di chi è la colpa? Della donna, o
meglio, della donna del nostro passato.Ai tempi dell’uomo delle caverne c’era la legge del più forte e la
donna certamente non lo era. Successivamente l’uomo ha prevaricato la donna prendendone il comando,
senza avere la sua opposizione; grandi imperatori, re,
cavalieri, contadini e la donna è sempre stata al loro
servizio, in poche hanno avuto la forza di provare a
pensare il contrario.
ChiaroScuro
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Variazioni
Tragica come visione, ma in grandi linee è stato
così; era l’ignoranza a portare queste condizioni. Non
si sente parlare mai di contadine colte, era una facoltà
data alle donne di nobili origini di cui, in ogni caso, se
ne dava da parlare per bellezza e non tanto per intelligenza.
Con questo non voglio insinuare segnali di stupidità nella donna del passato, ma è stato questo a portare a pensare alla figura femminile come sinonimo di
bellezza, fascino e dolcezza.
La donna che acconsente sempre senza opporsi, ormai non ci appartiene, per fortuna, ma assistiamo in continuazione a scene che distruggono il nostro
genere: basta accendere la tv per vedere delle ochette
maggiorate, siliconate e stuccate o magrissime, che
diventano i modelli delle adolescenti; ma non è questa
la realtà!
Ho 19 anni e i miei miti sono i personaggi che
leggo sui libri, soprattutto donne.
Dico grazie a chi mi ha fatta donna, perché sono
orgogliosa di sapere che la maggior parte di noi sono
grandi persone nel loro piccolo mondo, dentro le mura
di una casa, a scuola, in palestra e ancora una volta
nel lavoro.
La vera donna è quella che si butta nella vita senza accettare compromessi, senza dover usare il suo
corpo per arrivare ai suoi obiettivi e che soffre senza
lamentarsi; la vera donna è quella che lotta tutti i giorni
per trovare parcheggio, per far studiare i propri figli,
per tenere in piedi la famiglia.
E’chi dopo aver pianto si sciacqua la faccia e si
da’ una truccata e ricomincia a vivere. Io conosco tante donne che valgono e so che ce ne sono tante altre
che non appartengono al mondo della tv e del gossip e
nonostante ciò sono sicura che anche dentro a quella
scatola magica ci siano grandi persone, anche se non
hanno delle protesi di silicone.
Sono nata donna e spero che ne nascano tante
altre orgogliose di esserlo.
Eleonora Buono V N
Una tavolozza emozionale
Quanti di noi molte volte non percepiscono una
battuta o un’emozione nello stesso modo?
Oppure a quante persone può piacere il motivo di
una canzone che ad altre è invece indifferente?
Le persone vivono di percezioni e come non pensare ai colori. Il modo, la situazione in cui sono stati
assimilati e la condizione psicologica di un determinato momento fanno sì, per esempio, che caldi marroni,
lucenti bianchi, rosa pallidi o azzurri splendenti, diventino, in base alla percezione della pesona, i simboli più
disparati di una vita dal gelo intenso al ricordo degli
affetti vissuti.
E’ come quando un profumo, un’immagine, un
qualche ricordo restituisce alla mente una sensazione
particolare e nasce così un brivido che scuote nel profondo, mettendo in gioco l’anima di ognuno di noi.
Colori, colori…in fondo sembrano solo segnali ner-
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ChiaroScuro
ChiaroScuro
vosi rubati alla vista ed interpretati dal cervello: scariche elettriche che fanno emozionare e divertire sollecitando fantasie ed immaginazioni rimosse o nascoste.
Il colore si relaziona a noi in base a come noi lo
rapportiamo a quel determinato momento percepito,
impersonificandolo, trasformandolo in ciò che più vogliamo o desideriamo.
Torna così normale trovare dinamiche emotive differenti e varie per chi relaziona i colori al proprio mondo
o alle immagini della propria vita, poiché il rapporto fra
colore e anima è molto più intenso e sviluppato rispetto
a chi nel colore non vede nulla.
Pensare una vita incolore?
Sarebbe senza fantasia.
Lelio Zohar 5P
Sezione Plastica
Sezione Pittorica
DiMostra 40anni
di Andrea Bonavoglia
Nel 1997 una scuola speciale sin dal nome, Istituto Statale d’Arte
per l’arredo e la decorazione della chiesa. celebrava i suoi primi
trent’anni di attività con una grande mostra allestita presso il
Complesso del San Michele a Ripa. Nel 2007 la scuola ha
compiuto quarant’anni, e procede nella definizione della propria
storia, anche se in lieve ritardo, con una mostra e un catalogo
dedicati a suoi ultimi dieci anni di vita. Negli spazi espositivi,
anche questa volta forniti dal Ministero dei Beni Culturali nell’area
del San Michele, un’attenzione particolare è rivolta alle attività
esterne svolte e all’attività professionale dei docenti e degli exallievi della scuola; ma il nucleo principale resta la produzione
didattica, quella che si fa sui banchi e nei laboratori della scuola,
tra i fogli da disegno e la polvere dei marmi, le lastre di vetro e i
pennelli, le stoffe cucite e i modelli. La situazione artistica dell’Italia
e di Roma alla fine del secolo XX, dieci anni fa soltanto, non
erano dissimili da quelle di oggi, da un lato grandi potenzialità
umane, dall’altro una non sempre gratificante ed effettiva
possibilità di operare.
Nel raccontare le vicende di una scuola d’arte era quasi
obbligatorio, in passato, fare un qualche riferimento al Bauhaus,
non soltanto come riferimento per un qualche razionalismo
produttivo, ma anche e soprattutto come modello di una didattica
orientata all’uniformità, alla produzione collegiale, allo studio del
processo produttivo. Leggendo le intenzioni del fondatore Enzo
Rossi e della sua scuola nel 1967, il Bauhaus non rapprentava
tanto il modello di contenuto per l’Istituto d’Arte Roma 2, quanto il
modello scolastico e didattico. L’idea di Rossi era vicina a una
scuola-laboratorio finalizzata a una produzione artigianale e
artistica molto specializzata, tant’è vero che le cinque sezioni
erano state scelte con l’unico intento di rendere completa la
progettazione di strutture e arredi sacri. Tale impostazione non
ha perso valore in termini assoluti, ma oggi appare in parte
scollata dal mondo scolastico e dalla formazione imposta dai
tempi e dalle condizioni politiche e sociali.
E’ necessario ricordare che gli Istituti d’Arte sono nati come scuole
medie professionali nel 1923, e solo dal 1962 si strutturarono in
tre anni di corso dopo la licenza media, come le scuole
professionali. Alla fine degli anni Sessanta, si aggiunsero due
anni di corsi integrativi successivi alla qualifica professionale.
Infine, la sperimentazione degli anni Novanta ha aggiunto ai
corsi tradizionali i corsi quinquennali del Progetto Michelangelo,
nei quali la specializzazione comincia al terzo anno. Di questa
sequenza, che copre l’intero Novecento della scuola italiana, ci
interessa in particolare la trasformazione dell’idea formativa:
all’inizio la specializzazione professionale si innesta su un
giovane undicenne, poi su un quattordicenne, infine su uno
studente sedicenne. E’ una scelta sociale e culturale di grande
rilievo, nella quale si avverte la trasformazione di un mondo, il
cambiamento dei saperi, la progressione dell’idea stessa di
scuola. La scuola è formazione e obbligo, le scelte professionali
devono avvenire dopo una formazione completa ed efficace,
che può considerarsi matura intorno alla metà dell’adolescenza.
La competenza si innesta su una personalità già in buona parte
formata.
Del modello di Enzo Rossi, di quel modello suggestivo che
prevede tutte le discipline avviate e concentrate su un progetto
comune, in una struttura scolastica che appare famigliare e
raccolta, oggi resta forse molto in termini ideali e formativi, ma
non molto nei fatti. Le fasi di progettazione della chiesa, degli
arredi, dei paramenti, degli oggetti sacri, si avverano ancora nelle
sezioni tradizionali, ma la loro finalità è divenuta molto più
didattica e propedeutica che professionale.
L’ultimo decennio di vita dell’ISA Roma 2 coincide con un periodo
di grande fervore in ambito artistico, soprattutto a livello
internazionale, ma con importanti risvolti anche in Italia. Le scuole
risentono delle novità sempre e fisiologicamente in ritardo, ma in
questo caso le complessità, le distorsioni, le contaminazioni
stilistiche in atto nella ricerca estetica finiscono per agevolare la
definizione, o meglio la non definizione, di una didattica
improntata all’adeguamento e alla contemporaneità. La scuola
alla sua fondazione riponeva nella sezione di architettura il luogo
di riferimento obbligato, in quanto capace di condizionare – nella
forma progettuale dell’edificio sacro – gli arredi, e quindi gli oggetti,
e quindi gli elementi funzionali e decorativi. Nel corso degli anni
e con la nascita della struttura scolastica sperimentale, svincolata
dalla dimensione del sacro, il ruolo della sezione si è in parte
ridimensionato, ma nel complesso numerico dell’utenza e delle
attività resta in molti casi la sezione-guida.
E l’architettura, negli anni che ci interessano, è stata l’arte regina
nelle trasformazioni estetiche di fine Novecento e inizio Duemila,
affrontando e definendo la postmodernità nata negli anni Settanta,
in una sorta di parallelo con la ricerca filosofica, e giungendo in
breve anche al suo superamento, con la nascita recente delle
tendenze decostruttiviste, high-tech e paesaggistiche. Personaggi
di richiamo hanno lavorato a Roma in questi ultimi anni, anche
nel settore dell’architettura religiosa strettamente legato all’evento
giubilare del 2000. L’Auditorium di Renzo Piano, i costruendi
nuovi musei di arte contemporanea di Zaha Hadid e di Odile
Decq, le chiese periferiche di Richard Meier a Tor Tre Teste, di
Sartogo alla Magliana, del gruppo Nemesi al Quartaccio, il Museo
dell’Ara Pacis ancora di Meier, per non dire di molti interventi di
restauro su edifici semi-abbandonati, primo fra tutti l’ex-acquario
di Piazza Fanti oggi casa dell’Architettura, sono solo alcune tra le
tante opere realizzate negli ultimi anni. Per gli studenti della
scuola, insieme ai resti dell’antichità e alle meraviglie del
Rinascimento e del Barocco, è importante poter vedere e toccare
il pensiero materializzato di oggi, il progetto che diventa cosa
davanti ai nostri occhi. E in Roma quelle tendenze attuali sono
tutte presenti, seppure in modo non massiccio come in altre
capitali europee, e meritano di essere analizzate ed usate per la
didattica.
(estratto dall’introduzione del catalogo “Arte in Cattedra”).
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Si ringraziano gli sponsor:
Il mensile di cultura e attualità
dei Castelli romani e Prenestini
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