I colori delle parole, la voce della fotografia
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I colori delle parole, la voce della fotografia
Immaginando Verga I colori delle parole, la voce della fotografia Un viaggio attraverso i romanzi, le immagini, le novelle Il cielo turchino, il pallore del volto, il rosso dei berretti garibaldini, il giallo zafferano dei campi assolati…leggendo larga parte dell’opera verista di Verga si ha l’impressione di veder scorrere tra le pagine le immagini di una natura contadina e di un popolo del mondo siciliano cui l’autore era indissolubilmente legato. Ma quale legame c’è fra la vastissima produzione verista di Verga, cui lui diede vita vivendo a Milano, e quella Sicilia così lontana? Ebbe davanti agli occhi delle immagini concrete per mettere a fuoco quei paesaggi e quegli ambienti? Ma se fu così, quali immagini, quali fonti iconografiche? Quanto ne venne influenzato? La fotografia… compagna di una vita L’arte della fotografia era diventata una moda molto diffusa nelle élite di numerose città italiane fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta dell’Ottocento. Ricordiamo che l’anno di nascita di Verga, il 1840, segue di poco la nascita ufficiale della fotografia in Francia, datata 1839. Già a nove anni Verga vede lo zio Salvatore Verga Catalano che scatta foto e da giovanissimo si serve di quella rudimentale macchina a cassetta per le sue prime esperienze. Altri modelli di macchine fotografiche furono visti da Verga nei suoi soggiorni a Milano e prima ancora a Firenze. Qui, nel 1854, fu fondato il laboratorio fotografico di Leopoldo Alinari. Verga fu influenzato dal suo amico Luigi Capuana, che fin dal 1863 si era avvicinato alla fotografia, anche se la prima foto d’archivio di cui Verga fu autore risale al 1878. A testimonianza del legame fra i due scrittori, avvicinati dalla comune passione per la fotografia, è una lettera che Verga scrisse a Capuana il 26 dicembre 1881: "…Bisogna assolutamente che tu mi faccia o mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti, e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario. Potrai farmeli anche tu con la tua macchina fotografica da S. Margherita…". [1] 1 Cos’era dunque la fotografia per Verga? Una “segreta mania”, come lui stesso la definì nel 1880, ma comunque un’attività in cui lui stesso riconosceva i propri limiti e su cui amava anche scherzare: “Non sono […] contento delle prove fotografiche –degli orrori- e tutti i tuoi fotografati con me. De Roberto ha gli orecchioni. Ferito è il Vinto della caricatura. Mio fratello è losco e non somiglia al figlio di suo padre. Io e Paola poi siamo i nonni di noi stessi. Tutta la nostra vanità apollinea si ribella e protesta in coro”, scrive Verga a Capuana il 23 dicembre 1887. [2] La produzione fotografica di Verga può essere suddivisa generalmente in tre gruppi, a seconda dei soggetti ritratti. Il primo è quello in cui lo scrittore raffigura la sua famiglia, i suoi colleghi e amici o lui stesso. Un altro è quello in cui Verga rappresenta l’ambiente siciliano; l’ultimo è quello dei paesaggi cittadini o lacustri del Nord. Soprattutto nel secondo gruppo sono presenti individui dei quali viene messa in risalto la bassa estrazione sociale. Queste fotografie sono funzionali all’autore allo scopo di rappresentare esattamente la realtà così com’è, spesso anche senza concentrarsi troppo sulla tecnica, poiché così facendo la stessa foto avrebbe perso quel senso di realtà e naturalezza che l’autore stava cercando di ottenere. Risale al 1966 il ritrovamento in casa di Verga di 327 lastre di vetro con alcune didascalie scritte dall’autore e di 121 fotogrammi in celluloide arrotolati in uno scatolone rinvenuto in soffitta. [3] L’arco di tempo in cui le foto sono state scattate va dal 1878 al 1911, ma è lecito pensare, dalle fonti epistolari, che Verga dovesse essersi accostato all’arte della fotografia prima del 1878. Gli apparecchi fotografici usati da Verga sono stati diversi: la prima, già ricordata in precedenza, fu la macchina a cassetta dello zio Salvatore, cui seguirono la Kodak della ditta Duoni e l’istantanea Express Murer, entrambe comprate a Milano; infine la macchina Eastman con i rullini in celluloide. Dopo il ritrovamento delle foto di Verga, la critica letteraria si interrogò su quale dovesse essere il collegamento fra la produzione letteraria e quella fotografica e si delinearono tendenzialmente due posizioni. Da una parte si volle individuare la fotografia come modello per la scrittura, sottolineando la frequente mancanza di colori negli scritti di Verga e la preferenza per il bianco e il nero. Questo potrebbe derivare dal distacco emotivo e dal perseguimento del canone dell’impersonalità, che si pone come uno degli obiettivi della tecnica letteraria di Verga. [4] Da un altro punto di vista si volle invece vedere la fotografia separata dalla scrittura come se la grandezza dei capolavori potesse in qualche modo essere sminuita dall’ispirazione di un’arte “minore” come la fotografia. [5] Non si è ancora raggiunta una posizione univoca né sta a noi, naturalmente, la pretesa di giudicare quali siano le argomentazioni critiche più convincenti. Più semplicemente proponiamo le immagini 2 che si sono materializzate nella nostra mente leggendo tanti passi di Verga e che abbiamo trovato nelle sue foto, cercando di capire, laddove le foto sono databili successivamente agli scritti o anteriormente, quale possa essere il filo conduttore. Le campane di Vizzini La foto 228 ritrae una panoramica di Vizzini (3 maggio 1892), che si ritrova nell’incipit del romanzo Mastro-don Gesualdo. Suonava la messa dell'alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. […] Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l'allarme anch'esso; poi la campana fessa di San Vito; l'altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant'Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l'altra s'erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre. Vizzini: due istantanee… due novelle Abbiamo due foto, entrambe datate 3 maggio 1892, che furono quindi scattate da Verga dopo essere tornato a vivere stabilmente in Sicilia. Una (222) è scattata dalla via del Pericolo a Vizzini e riprende in primo piano un muretto, mentre sullo sfondo c’è il lato sud-ovest del paese. Nella novella Cavalleria rusticana questo luogo viene citato con molta precisione dall’autore: Finalmente s'imbatté in Lola che tornava dal viaggio alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato fatto suo. L’altra foto (226, a pagina seguente) ritrae invece via Sant’Antonio, sempre a Vizzini, ed è uno scorcio di case addossate l’una sull’altra….Mara stava di casa verso Sant'Antonio, dove le case 3 s'arrampicano sul monte, di fronte al vallone della Canziria, tutto verde di fichidindia, e colle ruote dei mulini che spumeggiavano in fondo, sul torrente. Così scrive Verga in Jeli il pastore. Entrambe le novelle citate appartengono alla raccolta Vita dei campi, che fu pubblicata nel 1880, dodici anni antecedente alla data delle foto. Cosa significa questo? Si può pensare che Verga, quando ormai la sua vena creativa era in declino, andò alla ricerca dei luoghi che gli avevano ispirato i suoi capolavori, ritrovandoli e fissandoli per sempre, ancora una volta. Un ritratto dal vero I due personaggi principali della novella Jeli il pastore sembrano essere stati colti dal vivo nella lastra 236. I due bambini seduti sul parapetto del ponticello, nei pressi di Tebidi, devono aver certamente ricordato a Verga la giovane Mara che, all’indomani di una zuffa col pastore per una manciata di more, aveva iniziato ad addomesticarlo: […]Mara, dopo che stette ad accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e se la diede a gambe verso casa. Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Jeli e la bambina avevano così preso l’abitudine di vedersi nel bosco: mentre l’una filava la stoppa, l’altro, all’inizio sospettoso, a poco a poco le si avvicinava coll’andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate, diventando così, in qualche modo, meno selvatico. Quando poi, finalmente, Jeli e Mara si trovavano accanto, la protagonisti somiglianza della foto con i diventa davvero straordinaria. All’ombra di un albero, entrambi sono infatti seduti, fianco a fianco, sullo stesso muricciolo di campagna (che si trova tra l’altro proprio nelle vicinanze di Tebidi, dove è ambientata la novella) e ognuno guarda di fronte a sé senza parlare, richiamando con precisione davanti ai nostri occhi l’atteggiamento di Jeli e Mara che […] stavano delle lunghe ore senza aprir 4 bocca. Jeli osservando attentamente l’intricato lavorio della calza che la mamma aveva dato in compito alla Mara, oppure costei gli vedeva intagliare i bei zig zag sui bastoni del mandorlo. Poi se ne andavano l’uno di qua e l’altro di là, senza dirsi una parola, e la bambina, com’era in vista della casa, si metteva a correre, facendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse. La fotografia tra nostalgia del passato e desiderio di modernità In conclusione ci sembra che l’essenza stessa dell’arte fotografica consista nel rendere fisso per sempre un mondo in continuo divenire, in cui l’immagine fotografata comincia a mutare nell’attimo immediatamente successivo allo scatto. Ciò doveva essere particolarmente significativo per Verga, frequentatore di salotti mondani a Firenze e a Milano, affascinato dalla diffusione della fotografia e attento alle innovazioni tecnologiche delle apparecchiature, così come in seguito sarà attirato dalla magia trascinante dell’arte cinematografica. Nello stesso tempo però la fotografia, come atto che fissa il passato per consegnarlo immutato alle trasformazioni del futuro, si adattava perfettamente all’aspetto più conservatore dell’autore, possidente siciliano, che non vedeva il progresso come fattore positivo di mobilità sociale, ma guardava il mondo dei “pezzentelli paffuti e affamati” cresciuti “in mezzo al fango e alla polvere della strada” [6] attraverso l’ideale dell’ostrica, che fa loro desiderare di morire esattamente dove sono nati. Del resto l’ideologia era già delineata quando, all’inizio degli anni Sessanta in Sicilia, il giovane Verga si arruola nella Guardia Nazionale, istituzione nata per controllare l’attività delle masse contadine dopo lo sbarco dei Mille e per prevenire reati contro la proprietà. Il pessimismo dell’autore riguardo ad una reale possibilità di riscatto della massa dei “vinti”, contadini, operai o pescatori che fossero, derivava dalla situazione politica e sociale dell’Italia postunitaria. Se Zola poteva avere fiducia nel fatto che la denuncia sociale della sua produzione letteraria fosse utile all’azione di governo di una classe politica, come quella francese, ricettiva alle istanze di cambiamento degli intellettuali, ben diverso era invece il caso della società italiana, immobilizzata da problemi di difficile risoluzione, come l’analfabetismo, il brigantaggio, l’arretratezza dei sistemi produttivi, la povertà delle masse popolari. In qualche modo poi Verga non voleva denigrare la classe di proprietari terrieri da cui proveniva ed è sembrato di trovare questo aspetto in un passo del bozzetto siciliano Nedda. Chiarissimo è il quadro delle gerarchie sociali che Verga individuava con spietato realismo non solo fra le classi dominanti e quelle subalterne, ma anche fra i popolani: La sera del sabato, quando fu l'ora di fare il conto della settimana, dinanzi alla tavola del fattore, tutta carica di cartaccie e di bei gruzzoletti di soldi, gli uomini più turbolenti furono pagati i primi, 5 poscia le più rissose delle donne, in ultimo, e peggio, le timide e le deboli. Quando il fattore le ebbe fatto il suo conto Nedda venne a sapere che, detratte le due giornate e mezzo di riposo forzato, restava ad avere quaranta soldi. Di fronte alle lacrime tacite di Nedda, il fattore inveisce contro di lei e allora il figlio del padrone, intenerito, gli dice di pagare la somma intera alla ragazza. Ma il fattore da uomo coscienzioso che difende i soldi del padrone, risponde: - Non devo darle che quel ch'è giusto! - Ma se te lo dico io! - Tutti i proprietari del vicinato farebbero la guerra a voi e a me se facessimo delle novità. - Hai ragione! rispose il figliuolo del padrone, che era un ricco proprietario e aveva molti vicini. In qualche modo sembra di vedere in quel figlio del padrone il giovane Verga, volto a rappresentare nei rapporti personali la durezza degli uomini forti sulla ragazza debole come inevitabile conseguenza di un assetto sociale immutabile in difesa della proprietà. I Macchiaioli e il Verismo: uno sguardo sulla realtà degli umili Il Verismo di Verga ebbe origine dal sostantivo “vero”, che si distingue dalla “realtà”, vocabolo da cui trae invece origine il Realismo francese di Zola. Ciò testimonia sicuramente il fatto che sia Verga (a Firenze nella seconda metà dell’Ottocento, poi a Milano negli anni 1870-’80) che Capuana abbiano conferito un’assoluta centralità alla ricerca del vero. Simile attenzione al concetto di verità e realtà viene data dal movimento artistico dei Macchiaioli, operanti a Firenze e in Toscana soprattutto tra gli anni 1850 e ’60. Quando Verga arriva a Firenze (1865), la tecnica della macchia e il ritratto dal vero portati avanti dai Macchiaioli si sono già ampiamente affermati nel contesto culturale fiorentino. Consideriamo che, già dal 1863, quando era ancora in Sicilia, Verga aveva pubblicato il romanzo a puntate “Sulle lagune” sulla rivista “Nuova Europa”, diretta dal pittore macchiaiolo Telemaco Signorini ed era così già entrato in contatto con questo movimento artistico. Lo scrittore Luigi Capuana, che era in stretta relazione con Verga, durante il suo soggiorno fiorentino (1864-1868) frequentò assiduamente il Caffè Michelangiolo, centro di ritrovo dei Macchiaioli fiorentini, dove avevano luogo vivaci discussioni sulle nuove tecniche pittoriche. Strinse inoltre amicizia con lo stesso Signorini e con Diego Martelli, uno dei principali esponenti del movimento artistico. 6 In realtà i Macchiaioli incontrarono numerose difficoltà nell’affermare la loro nuova arte a Firenze: non furono infatti in grado di partecipare alle mostre più importanti, né di imporsi fortemente sul mercato artistico del periodo. Grazie all’aiuto di Diego Martelli, che fornì sostegno e risorse economiche agli altri artisti e finanziò la diffusione del movimento mediante la rivista Gazzettino delle Arti e del Disegno (1867), riuscirono comunque a diffondere i loro principi artistici, il più importante dei quali, per quanto ci riguarda, è sicuramente il concetto di ritratto “dal vero”. Dal momento che i Macchiaioli ritenevano che il principale obiettivo dell’artista dovesse essere quello di riprodurre la realtà, ne consegue che la loro tecnica consistesse nel porre in secondo piano gli schizzi preliminari con le linee di contorno per prediligere la fase di stesura del colore. Come in natura non esiste il contorno di un oggetto svincolato dal suo colore, così in pittura l’oggetto si deve creare attraverso passaggi tonali. Questo fu tuttavia il principale motivo delle critiche rivolte a questi artisti tanto che nel 1862 un anonimo giornalista dell’epoca, in occasione dell’esposizione di alcuni dipinti alla promotrice fiorentina, coniò il termine “Macchiaioli” per definire in modo denigratorio la nuova tecnica pittorica. Egli scrisse: …ma cosa sono questi macchiajoli? Mi spiego subito. Son giovani artisti ad alcuni dei quali si avrebbe torto negando un forte ingegno, ma che si son messi in testa di riformar l’arte, partendosi dal principio che l’effetto è tutto. Vi siete mai ritrovati a sentir qualcuno che vi presenti la sua scatola da tabacco di barba di scopa, e che nelle vene e nelle macchie svariate del legno pretenda di riconoscervi una testina, un ominino, un cavallino? E la testina, l’ominino, il cavallino c’è di fatto in quelle macchie…basta immaginarselo! Così è nei dettagli dei quadri dei macchiajoli. (…)Che l’effetto ci debba essere chi lo nega? Ma che l’effetto debba uccidere il disegno, fin la forma, questo è troppo! Se va di questo passo, i macchiajoli finiranno col dipingere col pennello in cima a una pertica e scarabocchieranno le loro tele tenendosele alla rispettosa distanza di cinque o sei metri. Così saranno sicuri di non ottener altro che l’effetto. [7] Come accade spesso, tuttavia, questa definizione di macchiajoli, nata con intento dispregiativo, ebbe invece una grande fortuna anche tra gli stessi artisti del movimento, i quali, Signorini per primo, la accolsero con entusiasmo. Secondo Fattori la macchia consisteva “nel vedere sul vero una figura, o umana o animale (stagliata su uno sfondo)”. Ma i Macchiaioli dovevano aver ben presente anche il testo di Filippo Baldinucci, Il vocabolario delle arti e del Disegno (pubblicato nel 1691 e ristampato nel 1806) in cui c’è la definizione di macchia: I Pittori usano questa voce per esprimere la qualità d’alcuni disegni, ed alcuna volta anche pitture, fatte con istraordinaria facilità, e con tale accordamento, e 7 freschezza, senza molta matita o colore, e in tal modo che quasi pare, che ella non da mano d’Artefice, ma da per sé stessa sia apparita sul foglio o sulla tela. [8] Inevitabile per noi il collegamento con Verga che richiedeva la partecipazione del lettore nell’interpretare ciò che leggeva mentre l’autore doveva quasi scomparire dalla pagina scritta. Quando nel romanzo l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l'impronta dell'avvenimento reale, l'opera d'arte sembrerà “essersi fatta da sé”, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine. [9] Nonostante all’inizio degli anni Sessanta il Caffè Michelangiolo avesse chiuso i battenti e i Macchiaioli si fossero trasferiti a Castiglioncello nella villa di Martelli, il contesto culturale fiorentino era rimasto fortemente segnato dalla loro esperienza artistica ed è questo l’ambiente in cui Verga si trova quando arriva nella città toscana. Del resto la produzione verista di Verga avrà un destino simile a quella dei Macchiaioli nella difficoltà di diffusione: in forte contrasto con la cultura tardoromantica, entrambe saranno accolte con diffidenza per la loro predilezione per soggetti umili e verranno considerate, in qualche modo, arti troppo “povere”. Si propongono di seguito alcuni accostamenti fra quadri dei Macchiaioli e passi della produzione letteraria di Verga, laddove sembra di ravvisare qualche vicinanza. Pur non avendo naturalmente alcuna prova che Verga avesse visto i dipinti durante il suo soggiorno fiorentino, è singolare notare punti di contatto nella tematica dello scrittore e in quella dei pittori, tanto che il messaggio della pagina scritta e quello della tela colpisce allo stesso modo la sensibilità del fruitore dell’opera d’arte. L’antiretorica del Risorgimento Nella tela Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta Giovanni Fattori sceglie di non ritrarre il momento saliente della battaglia, ma quello che segue, con i soldati stanchi e i soccorsi dati a chi, anche se nemico, era rimasto ferito sul campo. 8 L’artista rifiuta quindi la retorica patriottica ed evita di porre al centro del dipinto delle figure eroiche, ma piuttosto pone l’attenzione sulle retrovie, come a sottolineare che ogni battaglia, anche quella celebrata con più onori, è combattuta con l’aiuto di tutti i componenti dell’esercito e con grande fatica dei protagonisti militari. In Libertà Verga, nel descrivere l’arrivo di Bixio nel paesetto di Bronte dopo l’eccidio, scrive: Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedete arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. Lontana qualsiasi enfasi declamatoria riguardo al generale, che viene presentato più dal punto di vista umano che militare e su cui grava la responsabilità di truppe portate ad esercitare una giustizia incomprensibile, dopo un eccidio ancora più incomprensibile, a testimonianza di quanto l’impresa garibaldina fosse lontana dal tessuto sociale siciliano. La luce e i colori Nei Macchiaioli l’uso della luce è particolarmente significativo e viene usato come mezzo di indagine per riprodurre la realtà fin nei dettagli. Innumerevoli gli esempi che si possono fornire, dal dipinto di Odoardo Borrani, Il bollettino del 9 gennaio del 1878 (qui riportato), a quello di Cristiano Banti, Riunione di contadine ( riportato più avanti) e molti altri ancora. Anche dagli scritti di Verga spesso sembra di notare uno spiccato uso della luce che rende con immediata vivacità l’immagine. Prendiamo come esempio un passo di Jeli il pastore: Mara andava al braccio del figlio di massaro Neri come una signorina, e gli parlava nell'orecchio, e rideva che pareva si divertisse assai. Jeli non ne poteva più dalla stanchezza, e si mise a dormire seduto sul marciapiede fin quando lo svegliarono i primi petardi del fuoco d'artifizio. In quel momento Mara era sempre al fianco del figlio di massaro Neri, gli si appoggiava colle due mani intrecciate sulla spalla, e al lume dei fuochi colorati sembrava ora tutta bianca ed ora tutta rossa. Quando scapparono pel cielo gli ultimi razzi in folla, il figlio di massaro Neri si voltò verso di lei, verde in viso, e le diede un bacio. 9 Dunque è come se i fuochi d’artificio materializzassero con i loro scoppi violenti lo sconvolgimento operato nell’animo di Jeli alla vista della ragazza che bacia un altro uomo. Questo turbamento è reso attraverso un turbinio di fuochi colorati alla luce dei quali il volto e quindi l’animo infervorato della donna assume un diverso cromatismo. Del resto anche l’uso dei colori sembra che sia presente, insieme alla luce, in qualche passo, come nella novella La festa dei morti. Ma laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c'era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori. Solo un istante i vetri della sua finestra s'accendevano al tramonto, quasi un faro pei naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca nell'azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell'abisso già nero, sprofondavasi una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre. Il paesaggio presenta un’immagine che riflette l’atmosfera cimiteriale, illuminata però a sprazzi dal rosso del tramonto e da vivi contrasti di colori accesi come il bianco e l’azzurro, dai contorni netti. Pur nell’ambientazione sepolcrale, in questa breve novella si trova citato quattro volte il nero, sei volte il bianco, sei volte l’azzurro, due volte il giallo, due volte il verde e una volta il rosso. Il rumore del vento Sono contemporanei il dipinto di Giovanni Fattori La libecciata e I Malavoglia, in cui è presente la scena della burrasca che distrugge la barca di Bastianazzo. Il vento s'era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di sant'Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell'anima di Giuda. Insomma una brutta 10 domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. Le barche del villaggio erano tirate sulla spiaggia, e bene ammarrate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro. La sensazione del vento arriva con la stessa intensità dal dipinto e dal romanzo. Fattori inserisce un tronco mozzato sulla destra e le chiome degli alberi fortemente inclinate a sinistra per rappresentare la forza del vento, mentre le tonalità un po’ smorte del verde e dell’azzurro danno l’idea del sole offuscato dalle nuvole. Verga invece, per comunicare la sensazione uditiva del fragore del vento, ricorre ad una serie di similitudini che rimandano ad un contesto contadino (tutti i gatti del paese…i buoi della fiera di sant’Alfio), assumendo il punto di vista di un popolano che descriva la circostanza servendosi degli elementi a lui più familiari. Un destino comune Il giorno della fiera il fattore aspettava i puledri sin dall'alba, andando su e giù cogli stivali inverniciati dietro le groppe dei cavalli e dei muli, messi in fila di qua e di là dello stradone. […] Il fattore era così in collera perché quel giorno dovevasi pagare il fitto delle chiuse grandi, « come San Giovanni fosse arrivato sotto l'olmo, » diceva il contratto, e a completare la somma si era fatto assegnamento sulla vendita dei puledri. Intanto di puledri, e cavalli, e muli ce n'erano quanti il Signore ne aveva fatti, tutti strigliati e lucenti, e ornati di fiocchi, e nappine, e sonagli, che scodinzolavano per scacciare la noia, e voltavano la testa verso ognuno che passava, e pareva che aspettassero un'anima caritatevole che volesse comprarli. 11 - Si sarà messo a dormire, quell'assassino! seguitava a gridare il fattore; e mi lascia i puledri sulla pancia! Invece Jeli aveva camminato tutta la notte acciocché i puledri arrivassero freschi alla fiera, e prendessero un buon posto nell'arrivare, ed era giunto al piano del Corvo che ancora i tre re non erano tramontati, e luccicavano sul monte Arturo, colle braccia in croce. Per la strada passavano continuamente carri, e gente a cavallo che andavano alla festa; per questo il giovanetto teneva ben aperti gli occhi, acciò i puledri, spaventati dall'insolito via vai, non si sbandassero, ma andassero uniti lungo il ciglione della strada, dietro la bianca che camminava diritta e tranquilla, col campanaccio al collo. Il quadro di Fattori Mercato a San Godenzo offre una suggestiva immagine di vita contadina e le tonalità usate sono quelle del bianco e del marrone, graduate in scala cromatica più o meno intensa. Ciò che colpisce è una mescolanza fra le persone e gli animali, molti dei quali sono accovacciati accanto a qualche mandriano seduto, come ad evocare il sacrificio e la fatica della vita contadina che accomuna uomini e bestie. Nella novella sembra di notare, fra Jeli e i puledri, la stessa vicinanza, che non è solo fisica ma emotiva: Jeli rappresenta all’ennesima potenza la compenetrazione fra uomo e animale tanto più quando, dopo il brano citato, il puledro più amato da Jeli, lo stellato, precipita in un burrone e la sua morte è sentita dal ragazzo come una lacerazione straziante. Il muro che divide Ne Le monachine di Vincenzo Cabianca alcune suore, immerse nella luce ambrata dell’alba, passeggiano nel cortile di un convento che affaccia sul mare. Le due figure poste quasi al centro della tela hanno un’espressione triste e pensierosa, mentre altre due sulla sinistra contemplano il mare. In evidenza il muro si estende in orizzontale quasi a segnare simbolicamente una linea di demarcazione fra l’isolamento della vita monacale e l’aperta spazialità del mondo esterno. Nella produzione letteraria di Verga indimenticabile è il personaggio di Maria in Storia di una capinera, romanzo precedente al Verismo, pubblicato nel 1871. 12 Troviamo però un’altra figura di suora in una novella meno nota, La vocazione di Suor Agnese. Così, a poco a poco, la poveretta s'era distaccata completamente dalle cose terrene, e s'era affezionata invece all'altare che aveva in cura, al confessore che la guidava sul cammino della salvazione, al cantuccio del dormitorio dov'era il suo letto da tanti anni, al posto che occupava al coro e nel refettorio, al suono della campana che regolava tutte le sue faccenduole sempre eguali, alle pietanze che tornavano invariabilmente secondo il giorno della settimana, alla stessa ora, nello stesso piatto. Il suo mondo finiva lì, al cornicione della casa dirimpetto che affacciavasi sopra il muro del giardino, al pezzetto di collina che si vedeva dalla finestra, al gomito della stradicciuola che metteva capo al parlatorio. Le ore e le stagioni si succedevano nel monastero allo stesso modo, col sole che scendeva più o meno basso sul cornicione, colla collina che era verde o brulla. La monacazione forzata è dovuta ad un dissesto economico che causa la rottura del fidanzamento, con il promesso sposo che si defila indecorosamente e l’entrata in convento di Agnese. Ancora una volta Verga pone alla base della società le questioni economiche e l’avidità, che condizionano in senso negativo le relazioni affettive. Maria del romanzo, la capinera, viene sacrificata ad una vita di convento per l’avidità della matrigna che vuole riservare l’intera dote a sua figlia, quindi le mura del convento diventano la prigione entro la quale Maria deve rinunciare all’amore. C’era, nel romanzo del periodo preverista, un chiaro influsso della Gertrude manzoniana, uno dei più grandi personaggi romantici della letteratura italiana. Nella novella di Suor Agnese Verga, abbandonata qualsiasi vena lirica, mostra un quadro spietato: da un lato l’intento borioso da parte della famiglia ricca di avere il titolo …donna Agnesina Arlotta avrebbe portato la nobiltà nei Zurlo, dall’altro una vecchia nobiltà in decadenza che cerca di sopravvivere ad un dissesto economico irreversibile…Don Basilio arrabbattavasi appunto a mettere insieme la dote confacente alla nascita della sua Agnese, giacchè di nobiltà in casa ce n’era assai, ma pochi beni di fortuna, e imbrogliati fra le liti per giunta. ‘E il quadro di un mondo siciliano ancora legato per certi versi a modelli arcaici, che viene poi travolto dal processo di unificazione nazionale che metterà in luce tutte le contraddizioni sociali. Verga avvertiva con estrema chiarezza quanta ostilità ci fosse in Sicilia verso i “piemontesi”, come venivano definiti i politici del nuovo Regno, tanto che ne La roba Mazzarò, vendendo il suo grano, si fa pagare con monete d’argento invece che con banconote, riservando queste ultime al pagamento delle tasse…ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re. 13 I nuovi governanti così si sostituiscono ai vecchi ma nella scala gerarchica il povero, il vinto, sarà sconfitto, schiacciato da giochi di potere da cui resterà sempre escluso. Ugualmente, molti anni più tardi Tomasi di Lampedusa farà dire a Tancredi nel Gattopardo: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Triste ma significativo quadro di un’Italia sempre uguale a se stessa. Proponiamo infine, a conclusione del nostro percorso per immagini, l’accostamento di un dipinto dei Macchiaioli, di un passo di Verga e di una sua foto: La semplicità del fatto umano farà pensare sempre Quella figurina intenta ad accudire le galline nella foto 226, ritratta quasi in disparte e sullo sfondo rispetto al preponderante paesaggio di Vizzini, ci riporta all’incipit della novella Don Licciu Papa, dove le galline razzolavano nel pattume, davanti agli usci, mentre le comari filavano al sole. Vizzini da questa prospettiva è pressoché deserta, ma piccoli dettagli, come i panni stesi ad asciugare sul balcone di una casa, ci suggeriscono che il luogo sia tutt’altro che disabitato; in questa visione si inserisce, sulla sinistra, una donna (unica persona presente nella foto) intenta ad una delle sue mansioni quotidiane e del tutto incurante del fotografo. Come nella novella citata, incentrata su vicende paesane che ruotano intorno al personaggio di don Licciu Papa, ritroviamo anche in questa foto la costante volontà di Verga di ritrarre, con l’ “obiettivo verista” della macchina fotografica e della penna, personaggi umili e quanto più possibile “naturali”. Ricordiamo, inoltre, che raramente le fotografie dello scrittore sono molto affollate; al contrario, lastre con due o tre soggetti sono molto più frequenti. Per quanto riguarda l’arte macchiaiola, l’immagine delle comari che filano al sole può essere accostata al dipinto di Cristiano Banti Riunione di contadine. 14 Un intenso raggio di luce illumina le contadine che, una volta compiuti i lavori nei campi, si ritrovano al tramonto per svagarsi e al contempo filare in compagnia delle altre donne. Il carattere pacato della composizione è in grado di ben rappresentare quella tranquillità che verrà spezzata, nella novella, dall’arrivo dello zio Masi: l’apparizione dell’acchiappaporci col laccio in mano provocherà infatti un gridìo, un fuggi fuggi per tutta la stradicciuola e la fuga schiamazzante di tutto il pollame. Come in un film, leggendo i testi di Verga vediamo scorrere immagini di uomini, donne, animali, campi e pascoli, stradicciuole e case diroccate, mare in tempesta e cieli plumbei… le figure affiorano dalla carta stampata con prepotenza e si imprimono nitidamente nei nostri occhi. Ma Verga è riuscito a lasciare un segno profondo e indelebile nei nostri cuori perché ha fatto molto di più: ha donato il doloroso soffio della vita a personaggi come Malpelo e Jeli il pastore ed ha dipinto esseri umani che lavorano, combattono nella loro vita quotidiana, piangono e soffrono, colti nella loro dimensione più umana e intenti in quella lotta per la vita che è comune a tutti gli uomini, senza spazio né tempo. 15 ________________________________________________________________________________ Note Nota 1:Giovanni Garra Agosta, VERGA FOTOGRAFO, in collaborazione con V. Consolo e P. Mario Sipala, Giuseppe Maimone editore, Catania, 1991, pag.13 Nota 2: ibidem, pag.12 Nota 3: I negativi sono stati restaurati e sviluppati dal medesimo scopritore, il Prof. Giovanni Garra Agosta, in collaborazione con la società 3M. Il ritrovamento è avvenuto nella casa natale dello scrittore, a Catania, nel 1966. Nota 4: Ignazio Burgio, Il Verismo incolore: Giovanni Verga e i suoi racconti in bianco e nero, Catania Cultura, 23 settembre 2009Nota 5: Irene Gambacorti citata in: Giuliana Minghelli, L’occhio di Verga. La pratica fotografica nel Verismo italiano, Department of Italian Research Seminar, Harvard University (24 November 2008) Nota 6: G.Verga, Fantasticheria,da Vita dei campi Nota 7: Lodovica Guidarelli, Le forme del vero: letteratura e pittura dal verismo alla scuola metafisica, Univerity of Wisconsin-Madison, 2012, cap.1, Verga e i Macchiaioli: lo Studio dal Vero, pag.27 Nota 8: ibidem, pagg.28-29 Nota 9: G.Verga, L’amante di Gramigna (prefazione), da Vita dei campi Bibliografia Le foto riportate sono tratte dal volume di Giovanni Garra Agosta, VERGA FOTOGRAFO, in collaborazione con V. Consolo e P. Mario Sipala, Giuseppe Maimone editore, Catania, 1991 Elenco dei dipinti riportati: Giovanni Fattori, Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta, 1862, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti Giovanni Fattori, La libecciata, Firenze, 1880-1885 ca., Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti Giovanni Fattori, Mercato a San Godenzo, 1882 ca., Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti Odoardo Borrani, Il bollettino del 9 gennaio 1878, 1880, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, Vincenzo Cabianca, Le monachine, 1862, collezione privata Cristiano Banti, Riunione di contadine, 1861, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti I dipinti sono tratti dal volume di Silvestra Bietoletti, I Macchiaioli, La storia, gli artisti, le opere, Giunti, Firenze, 2001 Elenco delle opere citate: G.Verga, Mastro-don Gesualdo, a cura di Corrado Simioni, Oscar Mondatori, Milano, 1979 G.Verga, I Malavoglia, a cura di Enrico Ghidetti, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1997 16 dalla raccolta Vita dei campi: Fantasticheria, Jeli il pastore, Cavalleria rusticana, L’amante di Gramigna dalla raccolta Novelle rusticane: Don Licciu Papa, La Roba, Libertà dalla raccolta Vagabondaggio: La festa dei morti dalla raccolta Don Candeloro e C.i: La vocazione di suor Agnese Le novelle sono tratte dal volume a cura di Sergio Campailla, Verga, Tutte le novelle, Newton Compton editore, Roma, maggio 2010 Testi consultati: Corrado Bologna, Paola Rocchi, Rosa fresca aulentissima, vol.5, Loesher, Torino, 2010 Guido Baldi, Silvia Giusto, Mario Rametti, Giuseppe Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol.E, Paravia, Torino, 2000 Gillo Dorfles, Stefania Buganza, Jacopo Stoppa, Storia dell’Arte 3- L’Ottocento, ATLAS, Bergamo, 2010 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, voll.III,IV, V, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1979 Zeffiro Ciuffoletti, Umberto Balocchi, Stefano Bucciarelli, Stefano Sodi, Dentro la storia, vol.2, ed.verde, G.D’Anna, Messina-Firenze, 2011 Giovanni Garra Agosta, VERGA FOTOGRAFO, in collaborazione con V. Consolo e P. Mario Sipala, Giuseppe Maimone editore, Catania, 1991, pag.13 Ignazio Burgio, Il Verismo incolore: Giovanni Verga e i suoi racconti in bianco e nero, Catania Cultura, 23 settembre 2009Nota 5: Irene Gambacorti citata in: Giuliana Minghelli, L’occhio di Verga. La pratica fotografica nel Verismo italiano, Department of Italian Research Seminar, Harvard University (24 November 2008) Lodovica Guidarelli, Le forme del vero: letteratura e pittura dal verismo alla scuola metafisica, Univerity of Wisconsin-Madison, 2012, cap.1, Verga e i Macchiaioli: lo Studio dal Vero Eleonora Cianfanelli Classe IV A Indirizzo Linguistico Gloria Mariani Classe IV A Indirizzo Linguistico 17