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lenewsdienergiambiente Agenzia di informazione quotidiana su Energia e Ambiente di Enza Plotino. Numero del 12 novembre 2009. P.Iva 06318681001, tel.3471541463 [email protected] [email protected] IN QUESTO NUMERO: Rinnovabili. Dossier Enea Clima. I gravi danni del disboscamento Tutela del suolo. Le fragilità e le mancate bonifiche del territorio. La denuncia dell’Anbi Un Paese in guerra contro le frane Inquinamento. Analisi dei porti italiani Rifiuti. In Emilia Romagna, un 2008 “abbondante” In difesa delle coste, il disegno di legge della Basilicata In difesa del suolo, nuova copertura finanziaria in Puglia Rinnovabili. Dossier Enea 12 novembre 2009 - “l’Italia è molto in ritardo negli usi termici delle fonti rinnovabili, mentre sta rapidamente crescendo (anche se a caro costo) la quota di generazione elettrica. Occorre e conviene colmare questo ritardo, e rivedere in aumento il peso degli usi termici delle rinnovabili nel soddisfare quella quota del 17% al 2020 che la Commissione Europea ci ha assegnato. Questo vuole anche dire una riduzione della pressione sugli usi elettrici, che renda gli obiettivi più realistici e meno costosi”. E’ l’opinione di Ugo Farinelli, segretario generale dell’Associazione Italiana Economisti dell’Energia a commento del dossier “Usi termici delle fonti rinnovabili” presentato nell’ambito di un workshop, promosso congiuntamente da ENEA con AIEE e FIRE. Il documento raccoglie le varie tecnologie per gli usi termici delle rinnovabili a partire dal solare alla geotermia fino alle biomasse esaminando lo stato dell’arte e le prospettive tecnologiche in riferimento soprattutto ai target Ue contenuti nella Direttiva “20-20-20”. “Da un punto di vista economico – ha affermato Farinelli - non c’è dubbio che nella maggior parte dei casi il costo di produzione di un kWh termico sia inferiore di quello necessario per produrre un kWh elettrico; appare quindi evidente l’importanza di operare per promuovere la diffusione delle tecnologie per le rinnovabili termiche rivedendo un sistema d’incentivazione, basato sui certificati verdi e sul conto energia, che non sembra rispondere compiutamente a questa esigenza”. Per rendere chiaro il contesto in cui attualmente l’Italia si trova l’Enea ha redatto schede tecnologiche per tutte le fonti definendo per ognuna: stato dell’arte, prospettive tecnologiche e R&D, potenziale di sviluppo e barriere alla diffusione, analisi economica. Capitolo controverso soprattutto quello relativo alle biomasse, per le quali Giuseppe Tomassetti della Fire ha mostrato le proposte di evoluzione del sistema incentivi, da indirizzare “alle imprese più che ai singoli consumatori”. L’attenzione in questo caso andrebbe alle nuove definizioni di “sostenibile”. Per Tommasetti le priorità divengono essenzialmente “utilizzare meglio, cioè a più alta efficienza e con minor emissioni, le biomasse già attualmente disponibili sul mercato, favorendo la tipizzazione dei combustibili e la qualità delle caldaie” e “far crescere la disponibilità sul mercato di combustibili, di qualità standardizzata, derivati da biomasse prodotte in Italia sia dal mondo agricolo sui terreni di pianura, che dal mondo forestale nelle aree montane, in accordo con le funzioni di protezione del territorio”. Secondo Manna, invece, responsabile ufficio Studi dell’Enea, per recuperare il ritardo sull’uso termico delle fonti di energia rinnovabili ed in particolare nel campo del solare termico, “l’Italia dovrebbe farsi trovare più preparata – ha dichiarato Manna – e probabilmente la particolare attenzione che c‘è stata verso la generazione elettrica da fonti rinnovabili ha fatto trascurare questo tipo di utilizzo delle rinnovabili. E’ necessaria a questo punto una revisione complessiva di alcuni meccanismi e misure da attuare. A partire da quelli sui titoli di efficienza energetica, troppo poco attenti alle potenzialità di un uso termico delle fonti rinnovabili”. Rivedere tutti i nei dei certificati bianchi, dunque, ma ottenere una “certezza del funzionamento di certi meccanismi, come quello del 55% sull’Irpef”. Clima. I gravi danni del disboscamento 12 novembre 2009 - Accanto alla produzione di CO2, c’è un altro fattore altrettanto pericoloso: il cambio d’uso dei terreni, costantemente ‘rimaneggiato' per fare spazio a coltivazioni o sviluppo urbano. Lo ha dichiarato Brian Stone, autore di uno studio che verrà pubblicato a dicembre in occasione dell’inizio della conferenza dell’Onu con lo scopo di sensibilizzare i grandi del clima ad affrontare il cambiamento climatico partendo anche da questa angolazione, provvedendo ad una rapida riforestazione e rimboschimento delle vaste aree danneggiate. Per lo scienziato del Georgia Tech di Atlanta, negli Usa circa il 50% del riscaldamento che si è verificato a partire dal 1950 è da riferirsi all'attività di disboscamento. “Le più grandi città degli Stati Uniti, tra cui Atlanta, si stanno riscaldando ad una velocità più del doppio di quella del pianeta nel suo insieme; tasso che è principalmente riconducibile al cambiamento nell'utilizzo del suolo - ha affermato Stone”. A far notare il problema della diminuzione delle aree boschive come fattore di incremento dell’aumento della temperatura è stata anche Greenpeace, redattrice del rapporto “Agricoltura al bivio” pubblicato dallo Iaastd (International assessment of agricultural knowledge, science and technology for development). L’agricoltura va tutelata, ma non a scapito dell’ambiente. A tal proposito è stato consigliato un uso più razionale di elementi chimici, il passaggio quindi ad una agricoltura di stampo ecologico. ‘‘E' necessario cambiare rotta: il business-as-usual ha fallito - ha commentato Federica Ferrario, responsabile della campagna Ogm di Greenpeace Italia - il rapporto delle Nazioni Unite sullo stato dell'agricoltura, indica la strada verso la reale rivoluzione verde. Solo investendo in coltivazioni di tipo ecologico saremo in grado di continuare a produrre per il prossimo secolo”. Tutela del suolo. Le fragilità e le mancate bonifiche del territorio. La denuncia dell’Anbi 12 novembre 2009 - "La tragedia di Ischia è un nuovo dramma annunciato a poco più di un mese dalla sciagura di Messina. Ciò che ci preoccupa è la consapevolezza di quante analoghe situazioni di dissesto ambientale siano presenti in Italia”. Massimo Gargano, Presidente dell'Associazione Nazionale Bonifiche e Irrigazioni (A.N.B.I.) ha messo sotto accusa la fragilità idrogeologica, la cementificazione selvaggia, l'abbandono del territorio e la conseguente assenza di manutenzione. Come a Messina due anni prima, ad Ischia tre anni fa si era registrato un analogo episodio, cui evidentemente si è risposto con interventi tampone. “All'Italia serve un Piano straordinario di manutenzione del territorio: dai versanti collinari e montani alla rete idraulica di scolo delle acque meteoriche, per la quale già esistono piani di intervento immediatamente cantierabili. Per prevenire allagamenti ed alluvioni, - ha affermato Gargano - ogni proprietario di immobile agricolo o civile, consorziato ad un ente di bonifica, spende mensilmente, in media, quanto 4 caffè al bar, garantendo però il valore immobiliare del proprio bene”. Tale dato, prosegue il presidente dell’Anbi "è ancora più significativo se paragonato a quanto spende mediamente, al mese, un italiano per le spese condominiali: 24,4 euro". Oltre a ciò un italiano spende "16,7 euro per l'energia elettrica - elenca - 16,3 euro per il telefono, 25,6 euro per il gas, 8,5 euro per l'acqua potabile". Alla luce di questi dati "è evidente che bisogna cambiare la cultura del sistema-paese - dice Gargano - è la difesa del territorio, così come la disponibilità idrica, non può essere valutata solo in termini di costi, ingenerando un'irresponsabile corsa al ribasso". La gestione delle acque, "oltre a preservare la vita delle comunità - precisa Gargano - è un elemento indispensabile allo sviluppo, i cui effetti hanno un evidente valore economico". Basti pensare che "in Italia continuiamo a spendere più risorse per riparare i danni da eventi naturali, piuttosto che prevenirli - stigmatizza il presidente dell’Anbi - è indispensabile che alle dichiarazioni di principio seguano quei fatti, di cui è permeata la cultura dei Consorzi di bonifica". Un Paese in guerra contro le frane 12 novembre 2009 – (L’Avvenire) Non si sa esattamente quando, ma si sa che prima o poi avverrà: per questo, non è esatto dire che una frana è come un terremoto, giacché lo scivolamento di una marna o di un’argilla per effetto delle piogge è decisamente più prevedibile di una scossa tellurica. I piani di assetto idrogeologico, infatti, misurano già oggi, con il loro indici, sia il rischio che la pericolosità dei territori soggetti a frane o alluvioni, in tutta Italia. Non sono infallibili, anche perché spesso vengono redatti da personale precario e perché tra la redazione del piano e il suo utilizzo passano anni senza che nessuno lo aggiorni; ma restano strumenti affidabili, cui si dovrebbe attenere chi autorizza la realizzazione di un palazzo o di un’opera pubblica. Diversamente da quel che si usa dire quando si manifesta una frana assassina, infatti, l’abusivismo edilizio è un’aggravante ma non è la causa dei disastri che avvengono spesso anche in aree urbanizzate legalmente, ma senza tenere conto dei dati diffusi dai Pai. Dati che sono accessibili non solo dagli amministratori, ma anche dai cittadini, dal momento che queste informazioni sono diffuse anche via internet. Il ministero dell’ambiente ha fatto sapere da tempo - e la notizia è confermata dall’Associazione nazionale dei consorzi di bonifica - che in Italia 6633 comuni (81,9%) sono ad alto rischio idrogeologico, cioè sono soggetti a frane e alluvioni. In pratica, 29.517 chilometri quadrati di Italia sono ballerini: il problema, in termini di superficie, interessa il 9,8% del nostro paese. Solo nel 2007, era il 7,1%, a riprova del fatto che, di anno in anno, i dati 'evolvono'. Qualche tempo fa il ministero parlava di un fabbisogno di 39 miliardi di euro per 'riparare' lo Stivale e le sue isole. Oggi, come ha dichiarato qualche mese fa ad Avvenire Mauro Luciani, direttore generale della difesa del suolo del Ministero dell’ambiente, «per mettere in sicurezza tutto il territorio servirebbero 40 miliardi». E altri quattro dovrebbero essere investiti contro l’erosione delle coste. Un sogno proibito per qualsiasi governo, tant’è vero che Protezione civile e Legambiente provano a ridimensionare questo fabbisogno a 25 miliardi, nella speranza che, avvicinandolo, il traguardo possa essere raggiunto. Un’altra ipotesi sarebbe quella di coinvolgere i privati, come si è fatto per il Ponte sullo Stretto; ma anche così si dovrebbero impegnare, per la parte spettante allo Stato, diverse manovre finanziarie. La via più diretta per aggredire il problema passa allora attraverso la responsabilizzazione delle autonomie e del cittadino: in altre parole, una colossale campagna di prevenzione fatta di prescrizioni, controlli e sanzioni che impongano ai proprietari la manutenzione del territorio e vincoli rigidi ai Comuni circa il rispetto dei Pai nella redazione degli strumenti urbanistici e nella concessione delle autorizzazioni edilizie. L’alternativa a questo giro di vite resta quella di rincorrere le frane e piangere i morti, sapendo fin da principio che si tratta di una battaglia impari: i consorzi di bonifica, che presidiano il territorio e che nei prossimi mesi - altra contraddizione della politica nazionale - potrebbero 40 a essere aboliti, hanno stimato che dal 1999 al 2005 i finanziamenti pubblici per le opere di difesa del suolo, quelle cioè dirette a riparare vecchi dissesti o a evitarne di nuovi, hanno coperto circa il 5% del necessario. Tutto questo, mentre calava la Sau (del 19,4% in 13 anni, secondo Istat e Inea) che misura i terreni coltivati e quindi anche il territorio che ogni giorno viene curato dagli agricoltori italiani. L’Anbi prevede che, se si continuerà di questo passo, l’agricoltura perderà entro il 2016 un altro 17,5%. In altre parole, un’area pari a Sicilia e Sardegna sarà lasciata all’incuria e al degrado, geologicamente parlando. Naturalmente, gli indici non dicono tutto. Il Trentino Alto Adige è la prima regione per aree a rischio (25,9% del territorio) ma l’ultima tragedia è avvenuta in Sicilia, dove - in base ai dati resi disponibili dalla Regione - solo il 3,2% del territorio era stato classificato 'ad alta criticità idrogeologica'. La Basilicata e la Valle d’Aosta hanno la stessa percentuale di comuni colpiti dal problema delle frane e delle alluvioni, ovverossia il cento per cento, ma la situazione cambia se consideriamo l’area interessata, il 5,4% nel primo caso e il 17,1 nel secondo. Se, infine, analizziamo la situazione sotto il profilo finanziario, balzano all’occhio contraddizioni anche più pesanti. Nel 2003 si stimò che per mettere in sicurezza il Piemonte servissero 4.800 milioni di euro: nei cinque anni precedenti ne erano stati spesi nell’intero bacino del Po - e quindi solo una parte era finita in Piemonte - appena 345; anche aggiungendo gli 82,8 destinati nel periodo 1999-2005 a interventi finanziati in base al decreto Sarno il target resta lontano. Esattamente come in Molise: investiti 110 milioni nell’arco di sette anni, contro un fabbisogno di 3300 stimato dal governo. Inquinamento. Analisi dei porti italiani 12 novembre 2009 - L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, in accordo con l’Associazione Porti Italiani, ha presentato a Genova il report “Traffico Marittimo e gestione ambientale nelle principali aree portuali nazionali“. Il bilancio coinvolge le 23 realtà portuali italiane più importanti. I dati esaminano gli aspetti ambientali più rilevanti: rilascio di petrolio nelle acque, inquinamento atmosferico, trattamento dei rifiuti. La presentazione del rapporto è contenuto nell’iniziativa “Salvaguardia e tutela dell’ambiente: i Green Port” che mette a confronto e sviluppa nuove prospettive per le fonti energetiche. Si parla quindi di fonti rinnovabili e soluzioni d’impiego dell’energia pulita (energia solare, energia eolica, idrocarburi innovativi, ecc.) Come hanno spiegato Vincenzo Grimaldi, commissario dell’Ispra e Francesco Nerli, Presidente di Assoporti: “E’ importante che al processo di sviluppo logistico ed economico e al crescente uso del mare come via di comunicazione e trasporto, soprattutto di prodotti ad alta potenzialità inquinante, si accompagni la tutela dell’ambiente delle aree portuali da varie fonti di inquinamento nonché la minimizzazione dell’impatto ambientale delle infrastrutture portuali sul territorio circostante. La totalità dei maggiori porti italiani è in grado di offrire una vasta gamma di servizi con finalità di prevenzione ed intervento a tutela dell’ambiente: ritiro dei rifiuti, pulizia degli specchi acquei e delle aree portuali, sistemi antiinquinamento e disinquinamento, posa di panne galleggianti e altri sistemi di contenimento di possibili spandimenti, servizi e sistemi di controllo nelle fasi di movimentazione di merci pericolose, ecc. Peraltro, se la pianificazione e la programmazione del territorio con riferimento alle considerazioni ambientali competono all’Autorità Portuale, laddove istituita, ovvero agli altri enti della pubblica amministrazione responsabili dei restanti porti, la fase operativa compete, per i vari profili di rispetto dell’ambiente, anzitutto ai singoli operatori“. Rifiuti. In Emilia Romagna, un 2008 “abbondante” 12 novembre 2009 - Sono tre, i milioni di tonnellate di rifiuti urbani prodotti dagli emiliani nel 2008: circa 700 kg per abitante, il 3% in più rispetto all'anno precedente. E' tale la quantità di immondizia in Emilia, stando ad un report dell'Arpa che parla anche di differenziata. La raccolta di quest'ultima è cresciuta, nella regione, del 5%. Nel primo semestre del 2009, infatti, si tocca addirittura quota 48%, un dato senza dubbio incoraggiante che vede però Bologna come ultima in classifica, tra le provincie “riciclone”, con il 37,9%. C'è da dire però che il capoluogo è anche quello che produce meno rifiuti per abitante: 588 kg per bolognese. In testa alla classifica troviamo invece Reggio Emilia che separa il 51,7% dei rifiuti. Le località della riviera, sempre secondo il report dell'Arpa, sono quelle che producono più spazzatura. In difesa delle coste, il disegno di legge della Basilicata 12 novembre 2009 - ''Una risposta concreta ad un'emergenza ambientale che arreca danni ingenti ai sistemi naturali, ai beni storici e culturali, alle abitazioni e alle attività economiche'': così il vicepresidente della Giunta regionale, Vincenzo Santochirico, ha commentato l'approvazione all'unanimità del Consiglio regionale del disegno di legge in materia di difesa della costa. La Basilicata potrà ora dotarsi di un Piano organico per difendere il litorale dal fenomeno dell'erosione, che, sempre più velocemente, sta consumando le spiagge della regione. E' prevista la costituzione dell'Osservatorio regionale della costa, di un Sistema informativo per la raccolta dei dati e l'elaborazione del Piano regionale dei litorali. Il programma dovrà prevedere interventi lungo i 63 chilometri di costa della Basilicata, sempre più soggetti a condizioni di rischio legate all'esondazione dei fiumi ed a fenomeni di erosione che hanno portato alla scomparsa di ampi settori di spiaggia e di parte delle dune. Questi fenomeni, oltre a causare alterazioni degli ecosistemi, stanno producendo danni anche alle attività economiche ed alle abitazioni. Uno degli strumenti cardine per attuare il programma è rappresentato dall'attivazione dell'Osservatorio regionale delle aree costiere. Si tratta di una struttura permanente per lo studio, il monitoraggio e la difesa delle coste jonica e tirrenica che dovrà realizzare un quadro unitario e completo di informazioni. I dati, elaborati dal Sistema informativo territoriale, serviranno ad sviluppare proposte progettuali di interventi per la difesa e la valorizzazione degli ambienti, monitorare gli effetti e le modifiche indotte dagli interventi adottati e attivare iniziative di formazione ed informazione rivolte ad amministratori, settori produttivi e comunità locali sulle tematiche dei litorali. 12 novembre 2009 - La Giunta regionale pugliese, riunita in seduta straordinaria, ha stabilito una nuova copertura finanziaria di circa 16 milioni di euro per alcuni interventi previsti in materia di difesa del suolo precedentemente annullati. Lo ha reso noto l’assessore alle Opere Pubbliche della Regione Puglia Fabiano Amati che ha presentato alla Giunta pugliese una relazione in cui ha ricordato che, dopo l’avvenuto aggiornamento dello stato di avanzamento dei programmi di intervento previsti da due Atti Integrativi all’Accordo di Programma Quadro Difesa del Suolo (sottoscritti nel 2007 tra Ministero dell’Economia, Ministero dell’Ambiente e Regione Puglia), il responsabile dell’Accordo propose, nel settembre del 2009, la rimodulazione delle risorse valutate non aggiudicabili al 31/12/2009. Fu avviata così la riprogrammazione delle risorse liberate in favore di nuovi interventi che saranno ultimati entro il 30 giugno 2010. Per evitare contenziosi con conseguenti aggravi sul bilancio regionale, gli interventi annullati avranno una nuova copertura finanziaria derivante dal capitolo dell’Unità Previsionale di Base (Upb) “Interventi in materia di difesa del suolo in attuazione delle funzioni trasferite”. I lavori nuovamente finanziati serviranno per il consolidamento e la messa in sicurezza dei tratti di costa interessata da dissesti in località “Monte Pucci e Postiglione” in San Menaio, nel Comune di Vico del Gargano, per opere di difesa e di mitigazione del rischio a Mattinata, per il consolidamento statico degli speroni rocciosi in fregio al mare a Polignano a Mare, per il consolidamento del costone roccioso nel Comune di Santa Cesarea Terme, per ridurre il rischio idraulico a Foggia, per lavori di mitigazione dell’alveo del canale di Valenzano, per opere di difesa costiera e mitigazione del rischio nel Comune di Mattinata, per lavori di difesa del litorale di Margherita di Savoia, per il consolidamento statico degli speroni rocciosi in fregio al mare a Polignano a Mare e per la salvaguardia della torre costiera di torre dell’Ovo a Maruggio.