SOGGETTIVITA` - GENERE - DIFFERENZA nella didattica delle arti

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SOGGETTIVITA` - GENERE - DIFFERENZA nella didattica delle arti
SOGGETTIVITA’ - GENERE - DIFFERENZA nella didattica delle arti visive *
di Mariella Pasinati
* pubblicato in Maria Serena Sapegno (a cura di), La differenza insegna – la didattica delle discipline in una prospettiva di
genere, Roma, Carocci, 2014
1. La “differenza” a scuola: contesto e presupposti
Una rivoluzione culturale è in corso da anni nella scuola, da quando le donne hanno iniziato ad interrogare e
ridefinire i saperi nonché a ricercare forme, figure, concetti capaci di esprimere la soggettività femminile,
mettendo al centro il fatto di avere corpo, desideri, pensieri che non possono essere modellati su quelli maschili e
saltando i modi della denuncia e della critica all'oppressione. Questa ricerca, che si è fondata sul lavoro intorno
alla lingua ed all'ordine del discorso, ha prodotto percorsi nuovi che hanno dato esistenza simbolica e significato
ad aspetti della realtà che prima non erano “visibili”.
In questo senso, le pratiche pedagogiche della differenza1 hanno rappresentato e rappresentano una risposta
creativa di donne insegnanti che si sono interrogate, a partire da sé, sulla scuola per ripensare l’intero processo
dell’educare e determinare un contesto in cui, per ciascuno dei due sessi, sia possibile crescere secondo un
percorso autonomo di affermazione della propria soggettività.
Nella mia esperienza di insegnante e studiosa di Storia dell’arte, ho centrato il mio lavoro sulla valorizzazione
della soggettività femminile per fare emergere la differenza sessuale nella storia delle arti visive. Le esperienze
didattiche che ho elaborato sono state sviluppate nel corso di un lungo confronto politico-culturale nel Gruppo di
pedagogia della differenza, nato nel 1988 all’interno della Biblioteca delle donne UDIPalermo e che, negli anni, ha
prodotto seminari, progetti, pubblicazioni, corsi di aggiornamento per le/i docenti e costruito pratiche didattiche
nuove, non esportabili, però, come modelli astratti da applicare, poiché la loro forza si basa sul fatto di essere
comportamenti vivi e sul valore prioritario dell’esperienza che diventa sapere.
Lavorando sulla pratica politica oltre che all’elaborazione teorica e didattica, il gruppo ha discusso e sperimentato
le strade per significare la nostra presenza a scuola, mostrare i limiti di un processo formativo delineato sul
modello maschile e segnare, invece, tale processo col simbolico femminile, trovando direzioni comuni che
hanno, poi, orientato il lavoro di ciascuna. Fra queste:
 l’assunzione di responsabilità pedagogica nei confronti di alunne ed alunni, cioè operare secondo una modalità che
Anna Maria Piussi ha sintetizzato nella formula del duplice movimento del «ritrarsi» e dell’«ex-porsi»2: il ritrarsi,
ovvero prendere le distanze dal sapere maschile tradizionale, falsamente neutro, e riconoscere gli allievi e le
allieve nel loro essere umano sessuato; l’ex-porsi, vale a dire mostrarsi nel radicamento nel proprio genere
ripercorrendo i contenuti, anche del sapere maschile, da una propria collocazione simbolica;
 la definizione di percorsi formativi di valorizzazione del nostro genere, esperienze educative nelle quali l’essere
donna sia espressione di grandezza culturale ed umana al fine di favorire valorizzazione e sviluppo autonomo del
senso di sé, nelle alunne, consapevolezza della propria parzialità, negli alunni;
 il mostrare la relazione valorizzatrice fra donne per rendere visibile la necessità del rapporto con le altre donne
(le altre insegnanti, le donne e le studiose che costituiscono riferimento politico-culturale) come fonte di
autorevolezza e di libertà per ciascuna, non tralasciando di sostenere anche le relazioni fra le stesse alunne;
 la ricostruzione di genealogie femminili, per mettere le ragazze in contatto con la parola, il pensiero, la vita delle
donne che prima di noi hanno agito in un registro di libertà;
 l’utilizzazione del linguaggio sessuato, per esplicitare la presenza del femminile dove la dominanza del
maschile lo cancella, per individuare le metafore del femminile e del maschile nella lingua, per esplicitare le
caratteristiche “di genere” nella lingua stessa;
 la ridefinizione del rapporto con le discipline che insegniamo, mettendo in evidenza la matrice maschile e il
carattere sessuato sotteso alle stesse categorie concettuali su cui tali saperi si fondano.
E’ del 1988 il primo convegno di Verona che dette visibilità sociale alla pedagogia della differenza; dopo quell’incontro sono seguiti
numerosissimi appuntamenti (e pubblicazioni) a scala nazionale e locale, a dimostrazione della presenza di una estesa rete di gruppi attivi
nel territorio e di una diffusa condivisione di pratiche dello stare a scuola che, nate nell’ambito della politica delle donne, sono ritenute utili
anche da uomini.
2 A. M. Piussi (1991), Educare nella differenza: un agire efficace, in R. Calabrese (a cura di), Felicità del dialogo, Ila Palma, Palermo, pp. 33-50
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2. Didattica della Storia dell’arte e differenza: quali criteri?
In termini di ridefinizione delle discipline, che cosa può significare segnare con il simbolico femminile la didattica
della Storia dell’arte?
Nella mia esperienza di questi anni, i percorsi di studio che ho sviluppato con le classi sono sempre articolati
intorno a quattro settori tematici interconnessi: 1) lo studio e la ricerca sul lavoro delle artiste 2) lo studio sui testi delle
storiche e delle critiche d'arte 3) la decostruzione del discorso storico artistico 4) la ricerca di modi di lettura ed interpretazione non
neutri del lavoro delle artiste.
Lo studio e la ricerca sul lavoro delle artiste costituisce, ovviamente, l’operazione preliminare ed imprescindibile dal
momento che, ancora oggi, è pressoché totale l’assenza delle donne dai manuali di Storia dell’arte. Questa
assenza, paradossalmente, sul piano della didattica aiuta a far comprendere facilmente alle/gli studenti la
parzialità della cultura data e di un canone costruito solo al maschile; sul piano della riflessione critica, invece,
consente di mettere a fuoco il problema, conseguente, se questo canone debba essere riveduto, sostituito o
respinto3. Risulta essenziale, tuttavia, che nell’organizzazione dell’azione didattica allo studio dell’arte prodotta
dalle donne venga associata l’azione, complementare, di ricorrere alla parola delle storiche e critiche d’arte. E se è
importantissimo che siano testi di donne a parlarci delle artiste, non meno significativo risulta per le/gli studenti
riferirsi al pensiero femminile anche per leggere le produzioni maschili. Per questo, ad esempio, utilizzo pagine di
storiche e critiche d’arte anche per presentare alcuni degli artisti solitamente trattati, rendendo così ulteriormente
evidenti sia la necessità di uno sguardo sessuato sul mondo, sia la mia collocazione nell’ambito della cultura e dei
saperi delle donne.
Va detto, tuttavia, che far emergere la presenza delle donne nel panorama della storia dell’arte è una pratica
necessaria ma di per sé non sufficiente sul piano critico in quanto, da sola, comporterebbe solo una sorta di
“riequilibrio” delle conoscenze -il femminile come aggiunta-. L’opera di ricostruzione e di ricerca sulle donne
produttrici, incluse ma non previste nella storia dell’arte, acquista invece valore e rilevanza significativi se si
accompagna anche alla decostruzione del discorso storico artistico e, soprattutto, alla ricerca di modi di lettura ed
interpretazione non neutri del lavoro delle artiste, modi che consentano di far emergere senso e significati nuovi ai testi,
in particolare, delle artiste del passato.
Da quali presupposti muovere, allora, per affrontare la presenza delle donne in arte? Da quale punto di vista
interrogare i testi delle artiste? E la Storia dell’arte rimane la stessa se la guardiamo con un’ottica sessuata, se ci
chiediamo, ad esempio, chi è il soggetto che l’ha prodotta? Se è, infatti, innegabile la sessuazione del soggetto
dell’operare artistico, anche il soggetto che fa critica o storia dell’arte non è neutro.
Non è casuale che le prime ricerche tendenti a rintracciare presenze femminili nell’ambito della produzione
artistica siano state svolte da donne (storiche e critiche d’arte) e che ciò sia stato possibile, storicamente, in
seguito ad un evento non artistico ma politico di grande impatto: il neo-femminismo degli anni ’70 e il nuovo
protagonismo sociale femminile che si espresse come esito della pratica politica delle donne in quegli anni. Allora
la presenza femminile nel campo delle arti visive era, tuttavia, proposta con un taglio soprattutto sociologico, in
particolare nelle ricerche sulle artiste del passato; studi che presentavano un limite: adottavano l’ottica
dell’oppressione femminile e proponevano una lettura dell’esperienza artistica delle donne alla luce di categorie
come l’esclusione, la segregazione o la marginalità, sottolineando, in particolare, l’incidenza del fattore di
familiarità nell’accesso alla professione e le ostilità sociali incontrate dalle artiste che sceglievano di non confinarsi
ai campi dell’espressione visiva solitamente segnate da un “marchio” di genere (dal ricamo, alla pittura decorativa,
al ritratto).
La rilettura critica della storia dell’arte alla luce della differenza sessuale ci consente, invece, di mostrare la sessuazione -al
maschile- della disciplina, qualsiasi sia l’argomento o l’artista che si sta studiando, cioè anche se non si prende in
considerazione il lavoro delle artiste. La storia e la critica d’arte si definiscono, infatti, come discipline sia in
relazione ai fatti d’arte che ne costituiscono il contenuto oggettuale, sia in rapporto ai termini ed alle categorie in
base ai quali tali fatti vengono analizzati e selezionati. Sono, quindi, ambito di produzione di conoscenza e di
significato. Anche la Storia dell’arte, in sostanza, si è strutturata secondo categorie di indagine critica che non
sono né neutre né universali ma riflettono l’unicità del soggetto di questa pratica, il soggetto maschile.
Un indicatore del carattere sessuato al maschile della disciplina si trova, ad esempio, nel linguaggio adottato
secondo cui caratteri solitamente attribuiti al maschile hanno determinato griglie rigide entro cui classificare ed
attribuire valore ai fatti artistici, decidendo ciò che ha e ciò che non ha rilevanza: la “femminilità”, ad esempio, è
usata spesso come criterio di valutazione estetica associata a termini come decorazione, miniatura, preziosità o a
tecniche quali il pastello; queste categorie, che si riferiscono prevalentemente alle cosiddette “arti minori”,
vengono, inoltre, utilizzate per descrivere anche le produzioni delle donne soprattutto del passato, così che
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cfr. G. Pollock (1999), Differencing the Canon: Feminism and the Histories of Art, Routledge, London
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l’operare artistico femminile viene presentato in posizione di svantaggio rispetto alla produzione delle cosiddette
“arti maggiori”. Carica di presupposti semantici è, infine, l’utilizzazione del termine creazione -attribuita al
maschile- contrapposta alla creatività -femminile-4.
Se maschile è stato il soggetto principale del fare artistico e maschile “il critico” (e anche “il fruitore”, se
guardiamo a certe rappresentazioni del femminile nell’arte degli uomini) cosa diventano arte, critica e fruizione
quando i soggetti coinvolti nell’impresa artistica sono femminili? e qual è la qualità del rapporto
donna/creatività?
Emerge con chiarezza dalle parole e dalle pratiche di tante artiste visive una rappresentazione della creatività che
ha fondamento nella dimensione relazionale dell’esperienza.
Negli anni ’70, l’artista americana Agnes Denes, così rispondeva ad una domanda della critica Lucy Lippard:
«Non c’è sesso in arte, non credo all’arte specifica delle donne… sostengo il movimento perché credo in quella
libertà di pensiero che fu negata alla donna attraverso tutta la storia»5; quindi argomentava sulle donne che nel
corso della storia dell’arte avevano avuto danneggiata la propria creatività ed aggiungeva che «la creatività non si
può insegnare ma si può nutrire».
Neanche io credo che si possa parlare di particolari caratteristiche che distinguono l’arte delle donne: non
esistono, a mio avviso, elementi distintivi “di genere” nel lavoro delle artiste, né in termini di qualità formali, né
in termini di contenuti figurativi. Le interpretazioni critiche che sono andate in questa direzione risentono,
invece, proprio di un’interpretazione del femminile ancora stereotipata e non libera; e non so dire se l’arte abbia
un sesso, ma non credo alla neutralità del soggetto del fare artistico (neanche di quello che legge l’opera) e non
ritengo che, nel considerare l’attività creativa (e quella interpretativa), si possa prescindere dal prendere atto della
soggettività sessuata. Ciò che mi sembra significativo nelle note di Denes non è, dunque, la questione
dell’esistenza o meno di un genere dell’arte, bensì l’opinione che la creatività femminile sia stata « danneggiata» e
l’idea che la creatività si possa «nutrire» 6. Perché e cosa ha danneggiato la creatività femminile, in passato? e cosa,
invece, rende possibile il libero dispiegarsi della creatività delle donne?
E’ l’assenza di una dimensione femminile, l’assenza di una «libertà di pensiero» autonomo in arte, così almeno
interpreto io, che ha danneggiato la creatività delle donne ed è nella continuità della produzione femminile che la
creatività della singola può trovare «nutrimento». La creatività femminile, cioè, trova una sua qualificazione in
una prospettiva relazionale e di genere.
A convalidare questa interpretazione ci sono anche le opere di Miriam Shapiro nei cui collage che incorporano
dipinti di artiste del passato trovo una conferma “visibile”: la relazione fra donne, la costruzione di una continuità
genealogica e il riferirsi, per il proprio nutrimento creativo, all’esperienza estetica femminile sono le conseguenze
di una scelta che ha lo scopo, come dice la stessa Shapiro, di «mettere al mondo l’esperienza femminile»7.
E’ in gioco, infatti, proprio la dicibilità dell’esperienza delle donne, l’espressione della differenza sessuale. Con
differenza sessuale non intendo alcun contenuto specifico; la differenza, infatti è stata “pensata” da letterate,
storiche, filosofe, scienziate, artiste, ogni qual volta le donne hanno affermato la necessità della sessuazione del
pensiero e hanno assunto la propria appartenenza di genere. Cindy Sherman, che non ha mai definito il suo
lavoro come femminista, ha evidenziato che le sue opere certamente riflettono le sue «osservazioni di donna
all’interno di questa cultura»8, ovvero l’esperienza femminile del mondo. L’artista si pone, così, come soggetto
del discorso. Gli ambiti rispetto ai quali si è espressa questa soggettività sono stati i più disparati e la varietà e la
complessità dei percorsi artistici delle donne evidenziano proprio la irriducibilità della produzione femminile a
forme, modi, contenuti predeterminati.
Per questo, nel presentare la produzione delle artiste tendo a sottolineare la ricchezza e pluralità di pratiche e
soluzioni estetiche che caratterizza l’operare delle donne, nel presente come nel passato.
In uno dei lavori effettuati in classe, ho proposto l’analisi dei modi in cui in alcuni testi di storia dell'arte scritti da uomini si
rappresentava la differenza femminile. Ecco come una alunna ha riassunto, alla conclusione, l'esperienza effettuata: "La donna nella storia
della arte scritta dai critici si può dire che sia soltanto oggetto di rappresentazione. Per quel che riguarda le artiste vi sono due atteggiamenti: o sono presentate e
trattate come gli uomini (alcuni critici però ne fanno notare l’eccezionalità) oppure sono del tutto ignorate. In breve mi pare che la storia dell'arte maschile non prenda in considerazione le artiste e resti cosa da uomini in cui alcune donne sono ospitate se si comportano come loro".
5 citato in L. Vergine (1988), L’arte in gioco, Garzanti, Milano, p. 139
6 Qui di seguito riporto i commenti di due alunne sul rapporto donne/cultura/creatività; costituiscono parte delle loro riflessioni alla fine
di un lavoro sulla produzione di alcune artiste delle avanguardie del ‘900 durante il quale era stato utilizzato anche il testo di Agnes Denes
già citato: "Ho passato una vita a studiare una cultura che ora mi accorgo è maschile ed ho cercato di adeguarmi ad essa, di appiattirmi. In questo modo mi
rendo conto che mi stavo solo riempiendo la testa, non usandola. E’ questo che intende Agnes Denes per «danneggiare la propria creatività»?"; "Se il problema è
quello di affermare la nostra «libertà di pensiero» come dice Denes, allora è chiaro che non si tratta solo di rintracciare le donne artiste ma di capire come queste
possono arricchire la nostra creatività e il nostro essere donne. Come quando abbiamo detto che per le donne non si tratta di correggere errori ma di trovare la
propria strada".
7 M. Schapiro (1977), Notes from a Conversation on Art, Feminism, and Work, in S. Ruddick, P. Daniels (eds.), Working It Out , Pantheon Books,
New York, p. 300
8 Fuku N. (1997), A Woman of Parts, in “Art in America”, n. 85, p. 80
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Ma fino a che punto, padroneggiare i linguaggi formali dell’arte (in passato soprattutto prodotto maschile) ha
reso/rende possibile far parlare la differenza? Che rapporto lega, in sostanza, la produzione artistica femminile
alla ricerca formale degli autori con i quali le donne condividono linguaggi o temi iconografici?
3. Per una lettura sessuata della produzione delle artiste: due esempi
Domande come queste mostrano la necessità di attivare, nell’approccio formativo, un’interpretazione non neutra del
lavoro delle artiste e dell’opera d’arte. In alcuni dei percorsi didattici sviluppati negli anni, ad esempio, ho lavorato
con le classi sul confronto fra le opere delle artiste e quelle degli artisti loro contemporanei (dal medioevo al ‘900)
per verificare se e come, in relazione ad uno stesso tema, le proposte femminili si differenziano da quelle
maschili.
Con le/gli studenti del IV anno, un’esperienza ha riguardato l’opera di due artiste del ‘600 -Artemisia Gentileschi
e Judith Leyster- a partire dallo studio di due temi iconografici ricorrenti nell’arte di quel tempo; un percorso
analogo è stato sviluppato invece, con le classi V, intorno alla rappresentazione del corpo e del sé sessuato
nell’opera di Surrealiste e Surrealisti.
Susanna e i Vecchioni è un tema ricorrente dell’arte del XVI-XVII secolo. Raffrontando le trattazioni degli artisti9
precedenti e contemporanei ad Artemisia da una prospettiva di genere, dalla consapevolezza di essere
uomo/donna, si è potuto mettere in rilievo come le interpretazioni dei pittori abbiano palesemente distorto il
senso della storia biblica, sottolineando non tanto la vulnerabilità di Susanna, quanto il piacere voyeristico dei
vecchi nella contemplazione complice di un corpo nudo e attraente che si offre compiacente al loro sguardo.
L’interpretazione di Artemisia presentava invece, per la prima volta, il tema biblico dal punto di vista della
protagonista femminile, sovvertendo l’ordine delle rappresentazioni maschili e, cosa ancor più significativa, non
solo in termini di contenuto della raffigurazione, ma proprio per l’organizzazione stessa degli elementi strutturali
e compositivi dell’opera, cioè per le scelte formali su cui essa è stata costruita. La figura di Susanna è, infatti,
posta al centro della composizione ed è mutato il suo atteggiamento: non più una donna disponibile, ma una
giovane preoccupata la cui vulnerabilità è enfatizzata dalla goffa torsione del corpo. Il gesto di difesa delle braccia
è ripreso da un sarcofago romano che rappresenta Oreste che uccide Clitennestra, una posa già ripresa da
Michelangelo nella Sistina e che Artemisia utilizza per restituire dignità e forza drammatica alla scena. L’artista,
infine, elimina totalmente l’ambientazione sessualmente allusiva del giardino sostituendo allo sfondo naturale una
rigida separazione architettonica che costringe il corpo di Susanna in uno spazio ristretto, rinforzandone la
sensazione di disagio.
Analogamente, nell’arte olandese del XVII secolo è stato selezionato il tema della Proposta indecente. Anche in
questo caso, nelle numerose raffigurazioni degli artisti10 la donna è sempre rappresentata come partecipe e
consenziente -se non come seduttrice- e l’ambientazione presenta più o meno gli stessi elementi iconografici
(denaro, mezzana, vino, strumenti musicali). Leyster ne dà, invece, un’interpretazione differente: la donna non
sollecita la richiesta maschile, anzi è presentata all’interno di uno spazio domestico spoglio, impegnata in un
lavoro di cucito e sembra ignorare l’imbarazzante offerta di denaro, unico elemento che fa comprendere il senso
della scena, dato che gli altri presenti nell’iconografia “maschile” sono stati eliminati; addirittura ai piedi della
donna un bagliore tradisce la presenza di uno scaldino da piedi che “annulla” qualsiasi sollecitazione sessuale
della scena.
Anche il percorso didattico intorno al tema del corpo, uno dei significanti primari nella politica culturale del
Surrealismo, ha mostrato come uomini e donne ne abbiano dato una diversa rappresentazione, essendo il corpo,
come luogo di desiderio, in realtà il corpo femminile. In questo caso, la parola critica di una donna Susan Rubin
Suleiman11 è servita da guida: la sua categoria della «doppia fedeltà» è risultata utile per spiegare come le artiste
del movimento si siano riappropriate criticamente dello sperimentalismo linguistico surrealista instaurando una
relazione di dialogo sul piano del linguaggio formale e di distacco, nella fedeltà a sé, per quanto riguarda, invece,
la rappresentazione del corpo femminile. Non più musa ispiratrice, eterna bambina, femme fatale, oggetto
erotico smembrato, ridotto ai soli attributi sessuali, come nelle opere dei surrealisti, le artiste del Surrealismo
hanno esplorato, invece, la complessa ed ambigua relazione fra corpo ed identità femminile indirizzando la derazionalizzazione surrealista alla propria soggettività, esplorando il corpo delle donne come luogo di desideri
conflittuali e la femminilità principalmente come una trama di aspettative sociali, assunti storici e costruzioni
ideologiche.
Allori, Maarten Van Heemskerck, Tintoretto, Rubens, Annibale Carracci, Rembrandt, Sebastiano Ricci
da Quentin Matsys a Dirck Van Baburen, Honthorst, Gerard Ter Borch, Vermeer
11 S. Rubin Suleiman (1998), Dialogue and Double Allegiance - Some Contemporary Women Artists and the Historical Avant-Garde, in W. Chadwick
(ed.) MIRROR IMAGES - Women, Surrealism and Self-Representation, MIT Press, Cambridge, pp. 129-154
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4. Conclusioni
Tanto nel presentare il lavoro delle artiste, quanto nell’interpretarne le opere, è dunque essenziale una pratica di
lettura e di ricerca storico-critica sessuata, la sola capace di rendere conto della differenza e di significare la
posizione delle artiste come soggetto.
Parafrasando, infatti, l’artista americana Judy Chicago per la quale «le forme d’arte esistenti per le idee che gli
uomini hanno avuto sono inadeguate per le idee che le donne hanno»12, si potrebbe dire che sul piano della
storia e della critica d’arte anche le forme esistenti per le interpretazioni che gli uomini danno dell’oggetto
artistico sono inadeguate ad esprimere i punti di vista che le critiche hanno e queste forme sono ancor più
inadeguate quando si tratta di leggere ed interpretare l’opera delle artiste.
Nel mio lavoro di ricerca e studio sull’arte femminile -e nella didattica- l’angolo visuale da cui mi muovo nasce
dall’importanza che assume, per me, la mediazione intellettuale delle donne come strumento per guadagnare al
genere femminile l’espressione delle artiste del passato. Il testo visivo è il luogo terzo su cui si esercita tale
mediazione, il campo di applicazione delle domande da porre. Domande che si radicano nel presente, nel nostro
essere donne come chiave per leggere la realtà e che, senza forzare il testo, ne restituiscono anzi una maggiore
trasparenza. Capita, così, che diventi “visibile” ciò che il testo mostra ma che una lettura convenzionale, fatta con
gli strumenti tradizionali della cultura (in questo caso la critica e la storia dell’arte), può offuscare in quanto
condizionata da significati predefiniti nell’ordine simbolico dato. In quest’ordine, che non prevede la differenza
sessuale, alcune domande restano inesprimibili, alcuni fatti non riconosciuti. Dialogare con i testi visivi delle
artiste a partire da domande significative per il nostro presente può consentire, invece, un percorso di senso che,
senza esaurirne tutti i significati possibili, ci permette di riconoscere e guadagnare all’oggi il “discorso” delle
donne e delle artiste che sono venute prima di noi, di liberarne la “parola”.
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Saggiatore, Milano
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citato in L. Lippard (1976), From the Centre, Dutton, New York, p. 6
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