Le calligrafie del Corvo
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Le calligrafie del Corvo
Francette Vigneron Le calligrafie del Corvo Traduzione di Laura Berna Con un contributo di Goffredo Fofi A forca d’espoison, lo diable creba A forza di veleno, anche il diavolo schiatta (Proverbio occitano) Titolo originale: L’Oeil de Tigre. La vérité sur l’affaire du Corbeau de Tulle Copyright © Francette Vigneron, 2004 Traduzione dal francese di Laura Berna © 2011 Nutrimenti srl Prima edizione giugno 2011 www.nutrimenti.net via Marco Aurelio, 44 – 00184 Roma Foto di Francette Vigneron – Foto d’epoca e documenti conservati presso i seguenti archivi: Archives départementales de la Corrèze, Archives départementales de la Haute-Vienne, Archives de la Ville de Tulle, Bibliothèque Municipale de Tulle Art director: Ada Carpi ISBN 978-88-6594-052-5 ISBN 978-88-6594-053-2 (ePub) ISBN 978-88-6594-054-9 (MobiPocket) Indice Preambolo Capitolo uno. Il Corvo Capitolo due. Il funerale di Auguste Gibert Capitolo tre. Lettere avvelenate Capitolo quattro. Le vie del veleno Capitolo cinque. Il giudice tende una trappola Capitolo sei. Denuncia contro ignoti Capitolo sette. “Era ora!” Capitolo otto. I dettati di Edmond Locard Capitolo nove. Ipnosi e tradimento Capitolo dieci. I dodici minuti di Angèle Laval Capitolo undici. Una donna scompare Capitolo dodici. La tragedia di Ruffaud Capitolo tredici. Nata sotto Mercurio Capitolo quattordici. “Io sono innocente” Capitolo quindici. La sirena della Prefettura Capitolo sedici. Colpo di coda Capitolo diciassette. Crepuscolo Capitolo diciotto. L’arlesiana di Tulle Capitolo diciannove. Il processo a Angèle Laval Capitolo venti. La corte condanna l’imputata 9 13 21 29 47 65 89 101 135 147 163 185 211 239 247 271 287 293 317 323 361 Capitolo ventuno. Epilogo Appendice Animale e minerale di Goffredo Fofi Indice delle immagini Stralci delle lettere allegate alle denunce contro ignoti del 2 giugno 1921 Dettagli delle lettere contenute nel verbale della prima comparizione di Angèle Laval, 20 marzo 1922 373 Preambolo 383 390 395 415 Un giorno d’ottobre del 2003 passeggiavo nel quartiere di Trech, centro storico della cittadina medievale di Tulle, per scattare alcune delle foto che poi sono finite in questo libro. Mi accompagnava un amico, tullista d’adozione, colui che per primo mi aveva parlato della vicenda delle lettere anonime. Discendendo le scalette che congiungono rue des Portes-Chanac a rue Riche, si parlava dell’Occhio di Tigre, cercando di evocare l’atmosfera avvelenata e soffocante che doveva regnare in città negli anni in cui si svolse la vicenda. Arrivati a rue du Trech, il mio amico mi buttò lì, con lo spirito che lo caratterizza: “Ti rendi conto che Tulle è l’unica città in tutta la Francia ad aver dedicato un monumento alla gloria della maldicenza?”. Così dicendo mi indicò, a poco più di cento metri da dove eravamo, L’angolo delle pettegole, la scultura realizzata nel 1984 da Pierre Digan, e che attualmente occupa l’angolo fra rue du Trech e rue du Fouret. Scoppiai a ridere. Beninteso, conoscevo le celebri comari per esservi passata davanti quasi ad ogni mia visita in città; 9 Preambolo ma non mi era mai venuto in mente un legame fra l’Occhio di Tigre e L’angolo delle pettegole. Le comari, in occitano clampes, parola che designa persone golose di informazioni su ciò che accade in città, infaticabili portatrici sane di chiacchiere e dicerie di ogni genere, non si accontentano di parlare: insinuano, inoculano, deformano, insomma, sparlano – voluttuosamente, compulsivamente – dei loro vicini. La scultura rappresenta due signore, scolpite in due blocchi di granito: forme abbondanti, volti ruvidi e poco attraenti, capelli legati in un piccolo chignon, zoccoli di legno, gonne lunghe, un grembiule legato in vita, un corsetto, e le spalle coperte da uno scialle di lana. Quella a destra regge un cestino, l’altra ha le mani strette contro il ventre; senza dubbio sono di ritorno dal mercato, nella piazza della Cattedrale, dove hanno fatto provvista di notizie. Sembrano bisbigliarsi all’orecchio, ma non serve tendere troppo l’orecchio per comprendere cosa si dicono: – Oh, cara mia, sapeste che scandalo questa notte! Davvero non ne sapete nulla? Be’, capisco il vostro disappunto… Figuratevi che Blaise ha sorpreso la sua fidanzata fra le braccia dell’amante! – Ah, miserabile! Ah, che maliarda! – Hanno annunciato la morte di Ténou, il droghiere. – Un meschino di meno. – Un orrendo usuraio. – Si è arricchito frodando! – E ha fatto bancarotta tante di quelle volte… – E senta un po’, chi battezzano fra poco? – L’ultimo nato di Jean. – Ah, il bastardino! – E di chi sarebbe, allora? – Del vigile urbano. 10 – Si sposa Adonis! – Oh, Signore pietà, la futura sposa farebbe meglio a morire impiccata! – È un individuo losco! – Corre dietro a tutte le sottane che vede! – Un morto di fame! – Vecchia volpe! – Un ubriacone! – Un crapulone! – Il ritratto di suo padre! – Ma Rosa non è meglio di lui! – Ah, Dio li fa e poi li accoppia! Alexis Patraud di Tulle diede un ritratto perfetto di queste due temibili comari nella sua raccolta di poesie Tulle qui chante (1910): certo, non immaginava che solo pochi anni più tardi l’Occhio di Tigre avrebbe fatto di lui uno dei suoi bersagli preferiti. A qualsiasi ora del giorno, le comari non sono mai a casa. Quanto alla discrezione, si promettono reciprocamente il silenzio assoluto, solo per gettarsi, subito dopo essersi salutate, fra le braccia di un’altra comare alla quale raccontare, “purché non lo dica a nessuno”, l’esatto contenuto, appena un po’ corretto, della conversazione precedente. Il mercato di fronte alla Cattedrale comincia alle otto del mattino. Immaginate la quantità di informazioni, vere o false, che viene messa in circolo prima di mezzogiorno, e la velocità con cui si diffondono i pettegolezzi. L’Occhio di Tigre conosceva molto bene le usanze e la materia, e ha saputo adattare alle sue molte lettere tutte le tecniche mediatiche delle comari per raccogliere le informazioni, utilizzarle, deviarle, falsificarle, e soprattutto diffonderle affinché mettessero a segno il maggior numero di danni nel minor tempo possibile. 11 Capitolo uno Il Corvo E dunque dove avrebbe potuto agire se non a Tulle, l’Occhio di Tigre, che portò la maldicenza a toccare i vertici della crudeltà e del disprezzo? Tulle, prefettura della Corrèze, capitale delle comari? Eppure, è a partire da “una richiesta avanzata dagli abitanti del quartiere di Trech” che il Consiglio municipale presieduto dall’allora sindaco Jean Combasteil decise, il 17 dicembre 1982, di acquistare le due statue in granito, assieme a una fontana, per rimpiazzare un vecchio trasformatore elettrico che imbruttiva quell’angolo di strada. Alcuni sostengono che le statue rivelano una potente quanto antica misoginia, che le due comari non sono “leggermente satiriche”, ma grossolanamente caricaturali, aggiungendo che gli uomini sono pettegoli almeno quanto le donne. Ancora oggi, a Tulle, si parla di chi sparla. “Corrèze. Lunedì 8 dicembre 1947. Il sole sorge alle 7.32, cala alle 15.53. Luna piena. Festa dell’Immacolata Concezione. Meteo: dopo piogge notturne, cielo variabile con schiarite e qualche rovescio. Venti moderati da nord est. Temperatura in leggero ribasso”. Così il quotidiano regionale L’Écho Marseillaise du Centre descrive sobriamente la tendenza del giorno. Alle venti, nella notte fresca illuminata dalla luna, le strade di Tulle, di solito deserte dopo cena, si animano. Gruppetti numerosi marciano rapidamente, uomini, donne, bambini, in direzione di quai de la République, verso il cinema Eden, uno dei due cinema della città. L’eccitazione è palpabile, perché per quelli che hanno avuto la buona idea di prenotare un posto, la serata si annuncia appassionante: per la prima volta dalla sua uscita, nel 1943, il film Il Corvo,1 del regista Henri-Georges Clouzot, è arrivato a Tulle! 1 A causa dell’impatto che ebbe questo film, il termine francese corbeau, ‘corvo’, passò da allora a definire gli autori di lettere anonime. 12 13 Il Corvo “Eden: fino al 14, Il Corvo. Attualità e documentari. Sala riscaldata” annuncia lo stesso giornale, come tutti i locali dell’epoca, senza una parola in più. Tutti, ad eccezione della Vie corrézienne, periodico cristiano e sociale che, nella sua edizione di domenica 7 dicembre 1947, scrive: “Eden. Dramma con P. Fresnay, P. Larquey, G. Leclerc. Intensa interpretazione di Pierre Fresnay. Ambientazione ovattata, oppressiva, malsana. Un’atmosfera di disagio e di sospetto si spande su una città di provincia in seguito a un’invasione di lettere anonime firmate col nome dell’uccello del malaugurio. Spettacolo tecnicamente riuscito, ma moralmente riprovevole”. Se la Vie co, come i lettori chiamano familiarmente il giornale, pensava di scoraggiare gli spettatori, si sbagliava di grosso. Sebbene non nomini neanche il titolo, preferendo la pesante metafora di “uccello del malaugurio”, l’effetto è piuttosto contrario. Dall’annuncio della proiezione del Corvo, i tullisti si precipitano ai botteghini dell’Eden per riservarsi un posto. Il cinema dispone di una bella sala da quattrocentocinquanta posti che Il Corvo riempirà per tutti e sette i giorni di 14 programmazione, fino a domenica 14 dicembre: tremilacinquecento persone per una città di diciottomila abitanti, è una cifra rimarchevole. E altrettante persone non riusciranno a vederlo, e dovranno accontentarsi dei racconti degli amici. Due motivi importanti spingono la popolazione locale alle porte dell’Eden: la reputazione in odore di zolfo del film, e la certezza di ritrovarvi un episodio doloroso della propria storia. Girato in piena Seconda guerra mondiale nel paesino di Montfort l’Aumaury, finanziato dalla casa di produzione La Continental Films, creata e diretta dalle forze d’Occupazione, il film di Clouzot venne proiettato la prima volta al cinema Normandie di Parigi, il 28 settembre 1943. Giudicato moralmente insalubre, e sospettato di collaborazionismo dal Comité d’épuration de la Liberation, venne vietato nell’agosto del 1944. Dopo tre anni di purgatorio, uscì a Parigi il 4 settembre 1947. E tre mesi e quattro giorni dopo il nulla osta della censura, le bobine arrivano a Tulle. Interpretato da grandi attori dell’epoca (Pierre Fresnay, Pierre Larquey, Noël Roquevert, Ginette Leclerc, Micheline Francey, Louis Seigner), è oggi considerato uno dei più bei film, se non il più bello, di Clouzot. Eppure, nonostante una critica entusiasta firmata nel 1943 dallo scrittore Jacques Audiberti sulla rivista Comedia, che recitava: “Il Corvo è un formidabile capo d’opera, bisogna riconoscerlo. È un film che scuote. L’azione è condotta con un’abilità quasi dolorosa da sopportare. Tutto vi concorre a confermare l’atmosfera, a giustificare i personaggi”, il film venne giudicato molto severamente da tutti gli organi della Liberazione. Nel 1947, quando il film infine riappare, A. Monjo scrive, sul giornale l’Humanité: “Ogni dettaglio aggiunge una pietra a questo monumento alla bassezza. Sotto le piume del 15 Il Corvo corvo, intravedo l’aquila hitleriana che muove le ali a beneficio di tutti quelli che vogliono piegare il nostro popolo”. La sceneggiatura, la cui prima stesura risale a prima della guerra, era stata scritta da Louis Chavance: il dottor Germain esercita da poco tempo presso l’ospedale della cittadina di Saint-Robin. Alcune lettere anonime firmate il Corvo l’accusano di essere un abortista e l’amante di Laura, moglie di un suo collega, lo psichiatra Vorzet. Le lettere avvelenate si spargono per la città, provocando il suicidio di un malato al quale il Corvo rivela di avere un cancro. Tutti sospettano di tutti. È allora che il dottor Vorzet propone di sottoporre i principali indiziati a un dettato. Finalmente smascherato, il Corvo cade sotto i proiettili della madre del suicida. Francesi che denunciano francesi: si può capire che il tema scandalizzasse tutti coloro che avevano resistito all’occupazione tedesca. E la stessa città di Tulle era stata martoriata tre anni prima, il 9 giugno 1944, dalla divisione delle Waffen SS che aveva impiccato ai balconi, ai lampioni e agli alberi della città 99 ostaggi, e ne aveva fatti deportare 149 (di cui solo 48 tornarono a casa), nel corso della sua marcia sanguinaria verso Oradour-sur-Glane. L’aura di riprovazione e scandalo che accompagna il film non è però l’unico motivo della curiosità dei tullisti. In molti sanno che la sceneggiatura è ispirata al famoso affare delle lettere anonime di Tulle: e questo riferimento vale più di qualsiasi pubblicità. Le antiche vittime desideravano e temevano allo stesso tempo di rivivere la storia che si era svolta nella loro modesta cittadina agli inizi degli anni Venti, e che solo loro conoscono bene. Gli altri speravano infine di assistere a qualche rivelazione. Venticinque anni dopo gli avvenimenti, accompagnati dai loro figli divenuti oramai adulti, forse qualcuno anche dai nipoti, dagli amici e dai vicini, i tullisti si avviano 16 a esorcizzare una volta per tutte le sofferenze, i sospetti, gli odi che per cinque anni avvelenarono la loro vita familiare, professionale e sociale, lasciando sulla memoria cicatrici indelebili e in numerose famiglie fratture insanabili. La paura di veder rivelato nel film il contenuto delle lettere si mescola alla curiosità. Ci si affretta verso l’atrio dell’Eden. Le discussioni scorrono, i ricordi affiorano, le domande abbondano. Ore venti e trenta. Ciascuno al proprio posto. Il film sta per cominciare. Due ore più tardi la delusione è palpabile. Che sia piaciuto o meno, il film non racconta la ‘loro’ storia. Niente a che vedere. A parte l’episodio del dettato che la ricorda un po’, e la scrittura a stampatello utilizzata dall’autore delle lettere. Altrimenti, Il Corvo è totalmente differente dall’affare di Tulle. Paradossalmente, gli spettatori che hanno vissuto la vicenda respirano più liberamente. I ricordi traumatici, tanto paventati, non sono stati evocati. E allora ci si attarda volentieri per scambiarsi qualche impressione lungo i marciapiedi, malgrado il freddo invernale, o al Cafè du Théâtre, che è stipato di gente. 17 Il Corvo Nello stesso momento, nel suo appartamento di Brive-laGaillarde, a una trentina di chilometri da Tulle, una donna di settantun anni è sveglia, e accarezza con l’indice la foto incorniciata di un uomo dallo sguardo dolce e malinconico. Per nulla al mondo sarebbe andata all’Eden questa sera. Nessuno avrebbe potuto convincerla ad affrontare nuovamente il Corvo, somigliasse o no a quello vero, quello che aveva distrutto la sua vita la vigilia di Natale del 1921. Non si trattava allora di un grosso uccello nero, ma di una creatura felina, sorniona e implacabile, che firmava le sue lettere “l’Occhio di Tigre”. Marguerite Chausset, vedova Gibert, piange Auguste, suo marito morto tragicamente il 24 dicembre del 1921. Perché si può dire che l’Occhio di Tigre ha ucciso Auguste Gibert come se gli avesse inoculato direttamente il suo veleno. bisogno di piegare in due un altro foglio bianco, e coprirlo di insulti, oscenità, minacce, finché non restava neanche un centimetro libero. Questo lunedì 8 dicembre 1947, l’Occhio di Tigre è sulle spine, rintanato nella sua casa di Trech, terrorizzato all’idea che vengano a vendicarsi di tutto il male che ha sparso per la città. Nessuno si vendicherà. Nessuno verrà. Nessuno bussa mai alla sua porta. Per i tullisti, l’Occhio di Tigre è morto da venticinque anni. Mentre i tullisti scoprono Il Corvo di Clouzot, mentre madame Gibert piange suo marito e la sua vita spezzata, una lampada gialla è rimasta accesa al primo piano di un vecchio stabile di Trech, in rue de la Barrière. Qualcuno ancora è sveglio e sbircia, da dietro le tende ben chiuse, al riparo della porta chiusa con doppia mandata. Un rumore, un mormorio che sembrano provenire dalla strada, e l’angoscia serra il suo magro ventre sessagenario. L’Occhio di Tigre guarda le sue mani raggrinzite, esamina con cura le sue dita magre. Le stesse mani che un tempo tracciarono centinaia di migliaia di caratteri su migliaia di righe su centinaia di pagine di lettere di ingiurie, come lui stesso le chiamava. Quanto lavoro, per nuocere, per distruggere; quante notti bianche, quante astuzie, quanti rischi per distribuire le interminabili missive per i portici e le scale, per i vicoli e le piazze. E poi, ritrovare il sonno, godere di un attimo di sollievo? No, mai. Solo l’invidia qualche volta era più assillante del 18 19