Allonsanfàn. Storie da un`altra sinistra

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Allonsanfàn. Storie da un`altra sinistra
Riccardo Orioles
Allonsanfàn
storie di un'altra sinistra
1999
mardiponente
mardiponente
Riccardo Orioles
ALLONSANFÀN
storie da un'altra sinistra
mardiponente
Riccardo Orioles, Allonsanfàn
settembre 1999
[email protected]
ALLON SAN FAN
__________________________________________________
INTRODUZIONE
estate 1999
Si è fatto tardi, ed è tempo di cominciare a lasciare qualcosa. Qualcosa a
chi? Mah. Forse a Giorgio di Lovere (in provincia di Bergamo: Giorgio era
un ragazzo dei Siciliani) che è venuto a trovarmi l'altro giorno, tornando
dall'Albania (volontario cattolico) e prima di partire per Tijuana, sempre da
volontario della pace.
Non credo che Giorgio non dorma la notte pensando alla crisi della
sinistra perbene (lui "è" la sinistra, quella vera). Ma forse prima o poi avrà
bisogno di sapere come sono andate, nel suo Paese, le cose. Così, queste
storie successe per lo più in Sicilia, nel corso d'un quindici anni, sono in
realtà successe dappertutto: una guerra feroce, senza mezze misure, dei
compiti da affrontare, i compagni che crescono, una sinistra che a poco a
poco si forma. Una sinistra seria, a differenza di altre, perché fin troppo
seria era - nel caso nostro - la situazione.
Una sinistra sconfitta, anche, alla fine del ciclo. Come i garibaldini di una
volta, come i partigiani. Sconfitta, ma non perdente: le cose di questo
genere restano vive molto a lungo, è ad esse che si ricorre quando
l'alternativa "realistica" - il Regio Governo dei notabili, la democrazia
cristiana o la "sinistra" di mercato d'oggigiorno - termina (di solito,
lasciando il Paese in braghe di tela) il ciclo suo e c'è da ricominciare tutto
daccapo. Allora le vecchie carte possono servire.
Così, vale la pena di lasciare qualcosa a Giorgio e agli altri che stanno
crescendo dopo di lui. Verrà il momento in cui per loro sarà fondamentale
sapere che nella storia della sinistra non c'era solo quello che dicono i
notabili ma anche - per esempio - cose come quelle che sono successe ai
Siciliani. Se si riesce a lasciargli queste cose, a quei ragazzi, si può avere
tranquillamente fiducia in loro.
E ora basta così, perché faccio una fatica del diavolo a scrivere anche
queste poche righe d'introduzione. E' molto bello perdere insieme con la
propria gente, condividerne la sconfitta senza trucchi e fino in fondo. Ma ti
lascia, come dire, un po' spossato. Comunque caro Giorgio e cari gli altri
che non conosco ma che sicuramente ci siete, comunque fino a qui ci siamo
arrivati. Prima o poi toccherà a voi continuare, anche se ora non lo sapete.
R.O.
I COMPAGNI
Ma uno dopo l'altro, ancora impietriti dall'orrore,
Li risvegliava l'affetto e li faceva parlare
Sapendo, in quella pena, che c'era molto da fare
Perchè non fosse inutile Perchè vivesse ancora
Dieci creature sole, senza dei a portar doni
Di genio o d'eroismo nella notte feroce:
E una dopo l'altra prendono la parola
Consigliando i compagni, inghiottendo il dolore,
Decidendo con calma ciò che faranno insieme
Sapendo che lo faranno, fra dieci anni o domani
E che in questo se stessi resta un uomo e il suo dono
UN UOMO
I Siciliani, gennaio 1984
Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche. Però Pippo
Fava non è mica uno importante. Per esempio, arriva una centoventiquattro
scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e
un'Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è
Pippo Fava.
Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una
faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno
che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c'è, si
chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza
molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui. "Tu, come ti chiami?".
"Così e cosà". "E cosa vorresti fare?". "Mah, politica estera...". "Ok, cronaca
nera". La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all'avventura. Non si conosce
nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del
povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi
commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un
paio di stupri... Si chiude alle tre di notte; non si "buca" una notizia. Con
grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c'è una cosa che si
chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga.
Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti.
La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose. La prima è che gli
americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili. E questo a
Fava non va bene, e lo scrive. La seconda che a Milano acchiappano un
grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto; e
anche qua, Fava si comporta piuttosto - come dire - maleducatamente. La
terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è
- ok, avvocato, niente nomi - un importante imprenditore catanese coinvolto
nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto
nell'assessorato all'agricoltura. Telegramma all'illustrissimo dottor Fava:
"Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il
giornale ora ha un altro direttore". I matti, i ragazzi della redazione
vogliamo dire, occupano il giornale. L'occupazione dura una settimana,
durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di
una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell'Ansa (a
pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato
e, molto ragionevolmente, l'occupazione finisce.
Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché nonleggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su
quello vecchio?). Ma Fava nel frattempo non s'è stato con le mani in mano.
Ha raccolto una decina dei "suoi" matti: "Si fa un giornale". Come, quando
e se si farà non lo sa nessuno. Ma intanto si mette su una bella redazione,
con le sue brave "lettera ventidue" scassate.
Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due "lettera
ventidue" scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di
sessanta? Ovviamente, nessuno. D'altra parte dopo l'esperienza del GdS
Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare. Allora si
mette su una bella cooperativa - "Radar!". "E che vuol dire?". "Suona
bene!" - si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano
alcune tonnellate di cambiali. Due mesi dopo arrivano due bellissime
Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova
con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi
lo denuncerebbero per stupro.
A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l'Esportazione
nel portacenere e fa: "Ragazzi, si fa il giornale". "Quando?" "Con quali
soldi?" "Io faccio il pezzo sulla Procura!" "Come lo chiamiamo?" "Io ho
un'idea per il pezzo di colore" "Ma i soldi...". La vigilia di Natale, le Roland
sputano una cosa rettangolare con scritto su "I Siciliani". Anno uno, numero
uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l'amore nel sud. Un
tipografo porta il pupo in redazione. "Be', potrebbe anche andare" fa uno dei
redattori con nonchalanche, e subito dopo si mette a ballare.
Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina. A mezzogiorno non ce
n'è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l'ultima
copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di
plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali
sembrano meno minacciosi.
Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c'è o non c'è? "Ma no... al
massimo un po' di delinquenza..." (il signor Prefetto). "Cristo se c'è! E
sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli" (I Siciliani). E
quel signore, come si chiama quel signore là? "Noto pregiudicato..." (la
stampa per bene). "Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!" (I
Siciliani). E i missili, dite un po', vi dispiace se lascio un paio di missili nel
sottoscala? "Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!". "Ahò! Ca quali
méssili e méssili! I cutiddati a' casa vostra, si vvi l'aviti a ddàri!" E i
cavalieri, vediamo un po'; anzi, i Cavalieri? "Ecco dunque cioè nella misura
in cui ma però... AIUTO diffamano Catania!" "I cavalieri catanesi alla
conquista di Palermo con la tolleranza della mafia. Firmato Dalla Chiesa.
Noi stiamo con Dalla Chiesa". Ed è passato un anno.
C'è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo
primo scippo o no. C'è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta
fuori dall'ospedale perché non c'era posto. C'è una tizia, a viale Regione
Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C'è un manovale,
alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è
sua. C'è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di
pattuglia lo stesso. C'è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse
diventerà una puttana e forse una donna felice. E c'è un'altra bambina, in un
cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la
bambina ride. "Nonno, nonno, ora faccio l'attrice".
"Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai
come finisce una volta o l'altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e
quello ti aspetta sotto casa... Beh, te lo prendi un caffé? E l'occhiello, vedi
che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe".
Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l'altro tizio e quello che
doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato.
Professionale. Certo, in una villa di Catania, s'è brindato, quella notte. Forse
ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato. Forse,
impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato - uscito forse da un
miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare - sparava
anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza. Forse ha
pensato che un giorno o l'altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero
riusciti a farli smettere di sparare, a... Ma forse non gliene hanno dato il
tempo.
***
E questo è tutto. Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti.
Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c'è ancora un sacco di lavoro da
fare per i prossimi dieci anni. Mica possiamo tirarci indietro con la scusa
che è morto uno di noi. Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il
benvenuto, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?
Elena Brancati, Cettina Centamore, Santo Cultrera, Claudio Fava,
Agrippino Gagliano, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Nanni
Maione, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Tiziana Pizzo, Giovanna
Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia
Ancora una volta la mafia ha colpito un uomo che lottava per il bene di
tutti. Noi non sappiamo ancora quali specifici settori di essa e quali specifici
interessi si siano sentiti più direttamente minacciati dal lavoro che Giuseppe
Fava portava avanti alla testa di questo giornale. Sappiamo però quali
argomenti non sono mai mancati dalle pagine de "I Siciliani": la crescente e
troppo a lungo sottovalutata potenza delle famiglie mafiose catanesi; il
flusso di denaro pubblico dalle casse delle istituzioni siciliane a quelle dei
soggetti equivoci o addirittura mafiosi; il pericolo, non solo di guerra ma
anche di rafforzamento della presenza mafiosa, portato dall'introduzione
delle basi nucleari; la necessità, segnalata a suo tempo dal genrale Dalla
Chiesa, di far luce sulle fortune dei principali imprenditori catanesi; le
connessioni, ormai ben più che occasionali, fra mafia e politica. Su tutti
questi argomenti, a nostro avviso, non mancheranno d'investigare i
responsabili delle indagini su questo delitto; quanto a noi, continueremo a
porli al centro del nostro lavoro, che proseguirà regolarmente.
Ringraziamo tutti coloro che hanno voluto esprimere la loro solidarietà in
questo momento; e soprattutto coloro la cui solidarietà vorrà tradursi, nel
tempo a venire, in concreta mobilitazione e lotta contro la mafia. La Sicilia
non attenderà il duemila per abbattere la mafia. La Sicilia dei lavoratori, dei
giovani, delle donne, delle persone oneste combatte già da ora la sua
battaglia. Il nostro direttore non ha avuto paura di esserne la voce, di
raccogliere e dare espressione a ciò che ogni siciliano sa e troppo spesso
non può dire.
E' una ben esigua minoranza, nel mondo del giornalismo siciliano, quella
che realmente e senza compromessi tiene testa alla mafia: esigua, ma capace
tuttavia di esprimenre i Mauro De Mauro, i Mario Francese, i Peppino
Impastato, i Giuseppe Fava. Su questa minoranza il popolo siciliano potrà
sempre contare, in qualunque circostanza e a qualunque prezzo.
I redattori de "I Siciliani"
APPUNTI
promemoria interno, gennaio 1984
1) La cosa più difficile è di renderci veramente conto che nulla potrà
essere più come prima, soprattutto non noi. Questo non è più un giornale
(solo un giornale), e noi non siamo più giornalisti (solo giornalisti).
Abbiamo una responsabilità che prima non avevamo; verso altri esseri
umani, non verso un'idea. E siamo cambiati. Ci pare tutto assurdo ed irreale.
Ma è così. (La tentazione più grande sarà quella di illuderci, di "essere come
prima"). Dobbiamo fare scelte molto più grandi di noi; anche non farle
sarebbe una scelta. Affrontare problemi molto più grandi di noi; nessuno
può farlo al nostro posto; e risolverli, altrimenti sarebbe tutto inutile.
2) Soprattutto, imparare a contare sugli altri. Contare "istintivamente" su
Pertini come sullo Spedalieri. Da soli, non ce la faremo mai. Capire di volta
in volta perché e come essi possono - o "debbono"- aiutarci. Essere molto
"superbi", capire fino in fondo che abbiamo il diritto (e il dovere: perché
solo così potremo funzionare) di chiedere; e contemporaneamente non
montarsi la testa, capire che è toccata a noi per caso (non migliori degli altri,
né peggiori). Abbiamo moltissimo da imparare per essere all'altezza di
quello che dobbiamo fare, e dobbiamo imparare ad analizzare spietatamente
i nostri punti deboli, l'uno con l'altro e ognuno di noi da solo. Ed anche
essere freddi, oggettivi in qualunque circostanza (e ci possono essere ancora
circostanze molto dure) il nostro gruppo deve sempre "ragionare". E poi
decidere speditamente, senza rinviare le decisioni.
Ci saranno cose molto difficili, per ciascuno di noi: per esempio, accettare
che un altro debba rischiare - per ora - più di te. Ma occorrerà accettare
anche questo, se ce ne sarà bisogno: perché non sarà facile arrivare fino in
fondo (ma ci arriveremo).
3) Non dobbiamo molto mischiarci con la "vecchia" politica, e
contemporaneamente dobbiamo saperla sfruttare per quanto si può. Ma
dev'essere chiaro a tutti, e soprattutto a noi, che quello che vogliamo è una
cosa diversa e molto più profonda; e chiamarla politica è inadeguato.
Dobbiamo essere, molto semplicemente e profondamente, l'immagine della
"Sicilia onesta". E poi, "molti fatti e poche parole". Questo, possono capirlo
tutti.
4) Rivista più linea editoriale più settimanale: tre cose non separabili, da
articolare. La rivista deve continuare sulla stessa linea di prima: questo
significa, fra l'altro, tornare già ora su argomenti "duri". Tenere alto il livello
di qualità (due "firme" esterne al mese, molti collaboratori, ecc.); puntare
molto sulla rete degli abbonati, scatanesizzarci; aprire tutto un versante
nuovo di ecologia, vita moderna, ecc.; essere l'organo della cultura militante
siciliana; ma anche mantenere un tono non intellettualistico, "popolare".
Stile concreto, senza grandi parole; al limite "piemontese".
5) Siciliani Editori può diventare anche più "importante" della rivista;
l'Einaudi del Sud. Cominciare dai titoli già previsti (già a loro volta
articolati in sezioni...); ma affiancare al più presto una collana "politecnica"
a buon livello, una collana di stampa d'arte ed una, infine di pamphlets
molto scarni ed a bassissimo prezzo (uno strumento tecnico che fa capolino
qua e là nella storia del giornalismo; e mai casualmente...).
6) Il settimanale - il foglio dei Siciliani - dev'essere, probabilmente,
"povero"; comunque, militante (il "partito" della Sicilia onesta: contro la
mafia, i missili, l'incultura; ma anche "per" un modo diverso di vivere,
riscoprire se stessi individualmente e collettivamente, ragionare...). Uno
stile "giovane" (non giovanilistico!), coinvolgente; un giornale di massa,
non solo per lettori "evoluti e coscienti"; battere la stampa dei mafiosi, non
semplicemente ritagliarsi uno spazio!
Ed è possibile. Possiamo, e quindi dobbiamo, mettere in piedi entro
l'autunno una rete articolatissima di collaboratori, corrispondenti, anche
redattori locali; e partire in autunno con una sottoscrizione popolare da
mantenere come caratteristica politica del giornale. E spiegare sempre tutto
ai lettori: dire quali sono i problemi, come affrontarli, contare - e dirlo - su
di loro. Forse nessun altro, come noi, può farlo.
7) Intanto, cominciare subito (metà febbraio) con i fogli volanti (giustizia,
banche; ma anche sport, satira) monografici, i tabloid. dei quali, il primo ma non paternalistico, né celebrativo: sarà difficilissimo trovare il tono! per gli studenti. E dire proprio qui cosa vogliamo fare, e fare esempi
concreti e chiedere (intanto, agli studenti) una serie di interventi specifici.
Se ogni scuola siciliana fosse una sezione del partito-che-non-è-unpartito, e contemporaneamente un ufficio di corrispondenza dei Siciliani; se
ogni scuola ricevesse le sue copie, e le diffondesse, e curasse la
sottoscrizione, e contattasse il corrispondente da noi designato per aiutarlo
nella scelta delle notizie; e se poi cominciasse magari a lavorare (senza
fretta, coi tempi necessari) su un argomento specifico della propria zona - se
tutto questo avvenisse, sarebbe indubbiamente poco "professionale", ma
sarebbe bellissimo. E perché non provarci?
8) E poi, non restare ma più isolati. L'associazione degli amici dei
Siciliani (convegni, organizzazione, finanziamento d'emergenza) ma anche
tante piccole e grandi iniziative "spontanee", "risorgimentali", negli
ambienti più diversi, nelle forme più disparate; tutti insieme, probabilmente,
non siamo in grado di immaginarne la decima parte, ma grazie al cielo non
abbiamo bisogno d'immaginarne solo noi. Essere al centro di mille idee, di
mille iniziative che, magari slegate fra di loro e "occasionali", concorrano
però a formare una trama molto netta e molto forte. E anche questo è
possibile.
9) Contare sulle nostre forze non esclude (anzi richiede) contare anche su
molte altre. Sapere che non siamo all'altezza non esclude (anzi rafforza) la
possibilità di riuscire. E noi siamo determinati e compatti, e molta gente s'è
mossa; molta di più ha cominciato a muoversi, e il nemico è diviso. Se
restiamo uniti - ma basta uno a dividere - e pensiamo in termini di dieci
anni, niente è impossibile; bisogna solo trovare - di volta in volta - come
utilizzare tutte le forze potenziali, e ragionando ci si può certamente
riuscire. Ci sarà da stare molto attenti e da fare "politica" anche; ma
dovremo sempre ricordare, in ultima analisi, che gli amici sono solo ed
esclusivamente quelli di quella notte. Ed anche i nemici. E non dimenticarlo
mai.
"MILITARMENTE OCCUPATA"
febbraio 1984
Care compagne e compagni, per noi è molto importante che in una
giornata come questa, al di là di tutte le divisioni che ci possono essere e
che noi speriamo vengano superate al più presto, la Sicilia onesta sappia
ritrovarsi insieme, unita e compatta, per lottare contro la mafia. La mafia
non è fatta solo da quelli che sparano, dai killers mafiosi, ma anche e
soprattutto dai boss mafiosi, dai politici mafiosi e dagli imprenditori
mafiosi. Anche qui a Catania, anche se certa stampa, qui, non ha il coraggio
di parlarne.
Il nostro direttore questo coraggio ce l'ha avuto. Per questo l'hanno
ucciso. Ma il nostro giornale, I Siciliani, vive e continuerà a vivere e
continuerà a lottare, senza fermarsi, contro tutti costoro. Noi non ci tireremo
indietro!
E noi non chiederemo certo aiuto, come non lo abbiamo fatto in passato,
ai vari cavalieri, ai pezzi grossi, ai potenti. Noi fideremo solo ed
esclusivamente nell'aiuto e nella solidarietà concreta dei siciliani onesti, e
dei lavoratori in primo luogo. E questo aiuto e questa solidarietà verremo
fiduciosamente a chiedervi di qui a qualche settimana.
Al Nord alcuni giornali, quelli stessi che gridano al lupo appena vedono
operai, quelli stessi che non esitano a mettersi d'accordo coi Ciancio e coi
Rendo, dicono, in sostanza, che noi siciliani siamo tutti mafiosi. Certo,
qualcuno di più, qualcuno di meno; ma secondo loro, alla fine, è tutta la
Sicilia che è mafiosa.
Questo non è vero, questa è una menzogna. La Sicilia non è mafiosa. La
Sicilia è una terra militarmente occupata dalla mafia; come una volta
c'erano i tedeschi, ora ci sono i mafiosi. Ma la grandissima maggioranza dei
siciliani è nemica della mafia, è nemica dei politici mafiosi, e nemica degli
imprenditori mafiosi e di tutti i loro collaborazionisti e servitori.
Anche qui a Catania, la Sicilia antimafiosa si va organizzando. In questi
ultimi mesi ci sono state molte iniziative spontanee di studenti, di operai, di
intellettuali, di donne. Tanta gente ha preso coscienza della situazione; e
alcuni hanno già cominciato a muoversi; ma ognuno nel suo settore, ognuno
per conto suo, separatamente.
Noi, redazione dei Siciliani, pensiamo che è il momento di cominciare a
muoverci tutti insieme, di organizzarci. Una buona idea sarebbe quella di
formare un movimento popolare che abbia come punto di riferimento il
nostro giornale, e che potremmo chiamare, per esempio, Associazione
Amici dei Siciliani. Un'organizzazione aperta, senza etichette e bandiere;
un'organizzazione di cui possano far parte veramente tutti coloro, da
qualunque parte provengano, che vogliono fare qualche cosa, nelle
fabbriche, nelle scuole, nei quartieri; e, in primo luogo, i lavoratori e i loro
rappresentanti. Un'organizzazione viva, forte e combattiva, che possa
cominciare ad essere, oggi a Catania quello che in altri tempi e in altri
luoghi, ma sempre contro una barbarie come questa, erano i Comitati di
liberazione. Non contro i tedeschi, questa volta, ma contro l'occupante
mafioso, contro i boss mafiosi, contro i politici mafiosi, contro gli
imprenditori mafiosi, contro tutti coloro che stanno ammazzando Catania e
la Sicilia. Oggi come allora, resistenza: per cacciare la mafia, per liberare la
città.
CARO LETTORE
I Siciliani, febbraio 1984
Caro lettore, probabilmente hai già sentito parlare del nostro giornale e sai
che esso è, in questo momento, una delle poche cose che permettono a tutti
noi siciliani di andare a testa alta di fronte a chiunque. Sono in tanti, oggi,
ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in
prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia,
civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa.
Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi
siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo
tirati indietro.
Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole
ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà.
Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci
sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei
siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo
stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te.
Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò
chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che
vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso:
ma sarà tutto più difficile.
ALCUNE RISPOSTE DA TROVARE INSIEME
I Siciliani, settembre 1984
Sono passati sette mesi. Sette mesi senza alibi, per i siciliani onesti e per i
mafiosi. Per i mafiosi, perché adesso non è più questione di "Sicilia
diffamata" e di "campagna per difendere Catania" ma semplicemente di dire
se si è con la mafia o contro. Per noi antimafiosi, perché adesso non
abbiamo più l'alibi della solitudine e del popolo che non ci comprende. Se
una cosa s'è vista, in questi mesi, è che la nuova generazione dei siciliani è
nella sua grande maggioranza nettamente antimafiosa; e che ce n'è una
parte, ancora minoritaria ma già abbastanza numerosa, pronta a tradurre
subito in azione concreta questa prima elementare intuizione.
"Car Siciliani: sono una ragazza di diciassette anni e vi scrivo per dirvi
che anch'io...". "Adesso però vorrei dire un fatto che è successo al mio
paese e che secondo me è pure un fatto mafioso...". "Nella nostra scuola si
sono vendute settantacinque copie comunque non eravamo un granché
organizzati ma la prossima volta...". Ecco: cosa dobbiamo rispondere a
lettere come queste e a interventi come questi, a questi messaggi? Perché ce
ne sono stati tanti, molti di più di quanto avremmo potuto credere - questo,
gli assassini non l'avevano messo nel conto.
Noi non possiamo rimandare questi ragazzi con risposte di generica
solidarietà. Noi - noi di questo giornale, intendiamo; ma anche tutti coloro
che in una qualunque maniera si sono schierati su questo fronte - abbiamo
un dovere preciso nei confronti di tutti loro. Ci scrivono fiduciosamente,
avendo finalmente trovato una bandiera; e fiduciosamente lavorano, ogni
volta che gliene si dà l'occasione, a quel poco che osiamo loro affidare. E
questa sarebbe la generazione senza ideali, di quelli che non credono più a
niente, dei ragazzi del riflusso...
Abbiamo attraversato questi mesi sostanzialmente da soli. Non nei
confronti - tutt'altro! - dei ragazzi delle scuole, dei magistrati onesti, della
gente "comune", ma rispetto a buona parte delle forze politiche, del mondo
giornalistico, delle categorie istituzionali, di tutti coloro insomma che
avrebbero potuto materialmente aiutarci, qui ed ora, a continuare il nostro
lavoro. Quasi con le nostre sole forze, abbiamo dovuto affrontare difficoltà
e ostacoli che sembravano, ragionevolmente, insuperabili; e ce l'abbiamo
fatta. Al feroce messaggio della mafia, abbiamo risposto con venti articoli
nuovi contro di essa. Tutto quello che hanno potuto ottenere da noi, è stato
di fermarci per quattro ore, dalle 22,30 del cinque gennaio alle due e mezza
del sei. Un attimo dopo, abbiamo ricominciato. In sette mesi abbiamo
prodotto sei nuovi numeri della rivista mensile e tre del tabloid
sperimentale; neanche una pagina, crediamo, ne è andata sprecata.
Ma tutto questo non basta. Ci sono cose che non siamo riusciti a fare, ed
altre che non abbiamo nemmeno provato a fare: bisogna ragionare anche su
questo, avere il coraggio di criticarci.
Non siamo riusciti, nella maggior parte dei casi, a contattare
adeguatamente le centinaia di luoghi in cui il nostro giornale non era mai
stato ma aveva già, per sola forza d'immagine, i suoi amici e i suoi lettori;
non siamo riusciti a far partire prima dell'estate tutto il piano editoriale che
avevamo previsto; non siamo riusciti a dare a tutti i nostri amici nel mondo
politico e nel sindacato un'immagine del nostro lavoro che li aiutasse a
superare la miopia con cui, non per sua colpa, la democrazia "settentrionale"
tradizionalmente percepisce le lotte del Sud. Queste cose non siamo riusciti
a farle - non era cosa facile, d'altronde - finora, e cercheremo dunque di
riuscirci nei mesi che verranno.
Per altre cose, il discorso è più complesso. Per esempio: abbiamo prodotto
e diffuso un foglio speciale per le scuole, e non l'abbiamo fatto da soli ma
con l'aiuto di decine di ragazzi che col giornale, in teoria, non c'entrano per
niente. Questo è ancora "soltanto" un fatto giornalistico, o è già, nel suo
piccolo, qualcosa di più? E se un caso come questo indicasse (e ce ne sono
altri più minuti) che esiste una richiesta crescente, fra i giovani siciliani, non
solo di informazione ma anche, in modo del tutto nuovo, di organizzazione?
Ma: cosa significa parlare di organizzazione nel 1984? E soprattutto: chi
deve parlarne, che deve fare le proposte concrete per dare un senso a questa
parola? Noi, i ragazzi che hanno lavorato con noi, i nostri "lettori", tutti
quanti insieme? E ancora: organizzarsi per fare cosa? Solo per diffondere un
giornale, o per qualcosa di più? E "come" organizzarsi? Ha ancora un senso
pensare a un centro che spieghi le cose e una periferia che le esegua, o è già
possibile lavorare insieme in maniera più collettiva? E, in fondo a tutte
queste domande: è davvero possibile sapere già ora cosa vogliamo costruire
e dove arriveremo, o è meglio partire con pochi e concreti obbiettivi per
scoprire insieme, strada facendo, tutti gli altri?
Tutto ciò non ha niente a che vedere, evidentemente, con la "politica" dei
candidati e dei partiti; forse, con quella più profonda e civile - ed anche più
solida e reale - che, nei momenti di crisi, emerge direttamente dal crescere
delle esperienze individuali e collettive. Noi attraversiamo, riteniamo, uno
di questi momenti e non possiamo venir meno a nessuno dei nostri compiti
rispetto ad esso, nemmeno a quelli talmente nuovi da richiederci uno sforzo
di fantasia già solo per percepirli. Solo in questo quadro, fra l'altro, è
possibile dare un senso reale alla nostra stessa funzione "tecnica" e
professionale, che rischia diversamente di diventare una umanissima ma
isolata testimonianza e non uno strumento di effettivo cambiamento della
realtà esistente.
Proposte concrete? Non ancora: piuttosto, due campi di ricerca su cui
bisognerà ragionare, tutti insieme, nei prossimi mesi. Primo: come può
essere un giornale popolare siciliano, chi può mettersi insieme per farlo, che
iniziative concrete possono aggregarsi attorno ad esso? Secondo: come
utilizzare fino in fondo, in questa prospettiva, un luogo d'incontro come
l'Associazione dei Siciliani di cui s'è parlato nei mesi scorsi; come far sì che
a raccogliersi in essa non siano solo gl'intellettuali già impegnati ma
un'intera generazione di siciliani onesti?
Su questi due punti sarebbe utile aprire subito -- e questo vuol esserne
semplicemente un inizio - un dibattito ampio e concreto, non solo fra noi
"addetti ai lavori" ma con tutti i nostri amici e lettori. Di questi tempi, la
cosa più importante per chi vuole davvero cambiare le cose, è sapere
imparare: le cose che non sappiamo ancora sono davvero tante, e non è
detto che debbano sempre essere le "persone importanti" a spiegarcele.
A CAVALLO DELLA TIGRE
I Siciliani, settembre 1984
E' difficile, per coloro che non sono siciliani, rendersi conto dell'aspetto
più propriamente "politico" della mafia. Non parliamo qui, s'intende, dei
legami sempre più stretti che la mafia ha via via potuto stringere con il
mondo politico ufficiale, ma della presenza quotidiana, continua, infine per l'appunto - "politica" con cui essa ha pesato in ogni aspetto della vita
associativa siciliana: fino a diventarvi in larga misura egemone,
imponendovi con la violenza un proprio modello di società e dei propri
modelli di comportamento individuali e collettivi. La mafia ha dato luogo,
negli ultimi quarant'anni e per la maggior parte dell'Isola, ad una vera e
propria occupazione militare del territorio: con i suoi editti e i suoi bandi, le
sue esecuzioni sommarie, la sua dose quotidiana di prepotenze spicciole;
con i suoi corpi militari, ma anche il suo personale politico, i suoi
amministratori, i suoi kapò. Immaginate una repubblica di Salò che duri per
quarant'anni ed avrete un'idea di che cos'è la mafia, in linguaggio
"milanese".
In queste condizioni storiche, si è verificato in Sicilia un fenomeno non
dissimile da quella che in altri tempi e luoghi d'Europa è stata la resistenza
"politica" e clandestina contro i regimi nazifascisti. La nostra Resistenza è
durata quarant'anni; ed ha avuto centinaia di morti. Ogni singolo diritto
civile è stato conquistato - quando si è riusciti a conquistarlo - a prezzo di
sangue. Ogni nostra sconfitta è stata pagata con la decimazione dei resistenti
e la deportazione delle masse. Un quarto della popolazione attiva della
nostra isola vive e lavora all'estero: le grandi ondate migratorie seguono la
sconfitta della lotta sui feudi, quella della riforma agraria, quella delle lotte
per l'acqua. Eppure, la Sicilia non si è mai arresa: quarant'anni fa le bandiere
rosse dei braccianti, oggi le assemblee degli studenti, in nessun altro paese
d'Europa tanta ostinazione e tanta disperata fierezza hanno tenuto campo
così a lungo.
E i pochi uomini nostri - generalmente, e non a caso, percepiti altrove più
come capipopolo che come veri dirigenti politici - che hanno saputo
esprimere la coscienza popolare vengono ricordati in Sicilia, assai più che
nella loro qualificazione ideologica, come capi di questa lotta; i Miraglia, i
Li Causi, i La Torre sono innanzitutto, nella memoria popolare, i nemici
della mafia; la stessa sinistra politica e sindacale, nei suoi momenti alti nelle
zone più aspre della Sicilia, è vista anzitutto come organizzazione di lotta
contro il potere mafioso, e solo secondariamente in rapporto alle questioni
"politiche" tradizionali. Interclassismo generico, qualunquismo? Basta
guardare la piazza di un qualunque paesino dell'interno siciliano - la chiesa
e il circolo dei civili su un lato della piazza; il punto di ritrovo dei braccianti
e la lega contadina sull'altro - per comprendere come proprio la questione
mafiosa sia la più profondamente politica che oggi possa darsi nel Paese,
quella che con maggiore verticalità e nettezza separa le classi, i
comportamenti collettivi, i diversi modi di vivere e le diverse visioni del
mondo, la società insomma.
UN VOLANTINO
primavera 1984
Nonostante tutto, il potere della mafia comincia a mostrare le prime crepe.
Sempre più spesso il lavoro dei magistrati onesti ottiene risultati un tempo
impensabili; sempre più chiaramente il cittadino comune prende coscienza
della necessità di far pulizia non solo nella malavita ma anche nel Palazzo.
Adesso, bisogna andare avanti.
Costringere lo Stato a sostenere i suoi uomini non solo coi bei discorsi ma
con mezzi concreti; smascherare gli interessi degli appalti e della droga, a
cominciare da quelli indicati da Fava, Dalla Chiesa e Chinnici; cacciare
dalla politica i compromessi e i corrotti, a partire da quelli che dicono che
"qui la mafia non esiste"; cominciare a confiscare sul serio i patrimoni
mafiosi, e affidarne la gestione - emendando la legge La Torre - ai lavoratori
ricattati con la disoccupazione: questi sono gli obiettivi che oggi possono
far fare un salto di qualità alla lotta contro la mafia. Perché oggi non si tratta
più solo di far celebrazioni, ma di organizzarsi per vincere. E questo oggi è
possibile.
Noi proponiamo a tutti i militanti e i gruppi impegnati nella nostra stessa
lotta, a Palermo come a Catania come altrove:
1° - di esaminare con noi la possibilità di dare vita ad una Associazione
che in maniera unitaria, organizzata e capillare raccolga in tutte le città e i
paesi della Sicilia i militanti antimafiosi e ne coordini la lotta, sia attraverso
momenti di mobilitazione generale su obbiettivi specifici che attraverso una
rete diffusa d'iniziative locali;
2° - di esaminare con noi la possibilità di dar vita nei prossimi mesi ad un
settimanale popolare, diffuso dappertutto e sostenuto da tutte le forze
antimafiose, che spezzi il monopolio dell'informazione esistente e si ponga
in tutta la Sicilia e fuori come la voce di tutti i siciliani antimafiosi.
I Siciliani
UN VOLANTINO
primavera 1984
Anche se non ti promettiamo ricchi premi e cotillons vale ugualmente la
pena che tu legga questo volantino e per dei motivi, ne converrai, più che
seri: tanto per cominciare è gratis e non è un pretesto per venderti
un'enciclopedia; poi perché è stato fatto per te, e da ragazzi uguali a te, più o
meno belli, più o meno intelligenti, più o meno incavolati, insomma gente
come te.
Vogliamo proporti una nuova idea da realizzare insieme:
Siciliani/Giovani, un mezzo di espressione libero e moderno a disposizione
di chiunque voglia dire qualcosa, non il primo della classe, né quelli che
salgono sempre in cattedra. Infatti non ci interessa il letterato, l'artista, il
politicante, ma tutti quelli che vogliono scrivere, raccontare, disegnare,
fotografare anche solo partecipare a qualcosa, esserci, sentirsi vivi e
protagonisti, non solo complici della propria vita. E' una possibilità di
opporci a un'esistenza grigia che scorre per inerzia, alla solitudine, alla
rassegnazione inutile (ci dicono di non rompere le scatole e starci zitti, e noi
ci stiamo? No).
Non dormirci su ancora, vieni se hai qualcosa da dire, da raccontare.
Fabio
Via Reclusorio del Lume (vicino piazza S. Domenico), Facoltà di scienze
politiche, Aula "A" a piano terra.
IL CORAGGIO DI LOTTARE
SicilianiGiovani, 1984
Caro Salvatore (o Antonio o Vincenzo o Roberto, o come diavolo ti
chiami), come vedi, io non so nemmeno il tuo nome (forse ci saremo visti
qualche volta, in un treno di pendolari o in una discoteca, ma naturalmente
senza farci caso) e non so nemmeno che tipo sei, se tipo "ragazzino
perbene" oppure tipo punk (a me personalmente piacerebbe di più così, ma
questo è solo una cosa mia personale). Non so neppure che cosa stai
facendo in questo momento, forse hai trovato il giornale per caso e siccome
ora c'è una lezione noiosa te lo leggi sottobanco tanto per passare il tempo;
o forse sei sull'autobus o forse da qualche parte con i tuoi amici (neanche tu
sai granché di me: bene, sono un giornalista dei Siciliani, ho qualche anno
più di te ma non molti, sono triste perché mi hanno ammazzato un amico,
ho anche la paranoia che lo facciano pure a me e ne ho paura perché non
sono particolarmente coraggioso. Non sono affatto un grande giornalista
anzi sono alle prese con problemi molto più grandi di me). L'importante
comunque è che tu capisca che io in questo momento non sto parlando al
Ragazzo Impegnato, non sto facendo il discorso "simbolico" per dire che in
realtà faccio appello a tutti quelli che ecc. ecc. No, io sto parlando proprio a
te personalmente, perché ho bisogno di aiuto e non mi fido delle persone
importanti. Ho bisogno invece della gente "comune", quella come te (e
come me). Parliamoci chiaro: io non credo affatto che tu sia particolarmente
interessato a tutte queste cose. L'altra volta, anzi, quando c'è stata
l'assemblea Contro-La-Mafia (ci sarà stata anche nella tua scuola) tu per un
po' sei stato ad ascoltare tutto quello che dicevano i professori e i tuoi
compagni più "politici" poi, semplicemente, ti sei annoiato e te ne sei
andato. Siccome era una bella giornata, spero che tu te ne sia anche andato
in villa con la tua ragazza. Tutto questo mi va benissimo. Io non credo
molto alle parole, e credo che ognuno debba fare ciò che sente e non quello
che dicono gli altri.
Però. vedi, c'è un trucco. Gli altri - cioè le persone importanti, i
professori, i "politici" - partono da un punto di vista, e cioè che loro sanno
tutto mentre tu non sai un cazzo. E che quindi debbono essere loro a dirti
cosa fare. Tanto, tu sei "qualunquista", uno che se ne frega delle Cose Serie,
che pensa solo a farsi la canna e ad andare in discoteca (i giornalisti come
me, invece, sono "i ragazzi di Fava", bravi ragazzi certo, ma un po' troppo
incazzati e un po' coglioni...). Invece non è così. Tu sai un sacco di cose,
solo che non le dici nel loro linguaggio, o non lo dici affatto. Però le sai. Per
esempio sai che la tua vita non è affatto una gran bella vita, che ti annoi:
questo non è affatto qualunquismo, è la tua vita. Non c'è bisogno di parole
difficili per dirlo. E sai pure che non ti va di continuare così e che intanto
devi continuare lo stesso perché non c'è altro da fare, Sai che, nonostante
tutte le belle parole, nessuno ti può aiutare a far qualcosa perché in realtà a
nessuno gliene frega veramente molto di te: Sai anche altre cose, per
esempio che fra un paio d'anni resterai disoccupato come il novanta per
cento dei tuoi amici, che fra i tuoi amici ce n'è sicuramente qualcuno che si
buca, che tu ancora sei fra i più fortunati perché sei - probabilmente - uno
studente e non uno scippatore o un marchettaro (e se lo sei, il discorso vale
anche per te). Sai un sacco di cose serie, insomma, ma tu stesso non ti
accorgi nemmeno di saperle (non solo gli altri ti considerano un
"qualunquista": sono riusciti a convincere anche te che lo sei), e perciò non
contano niente, non pesano. E perciò quelli che sanno parlare continuano a
comandare loro, indisturbati: tanto, tu non conti...
Questo è il trucco. Se tu ti rendessi conto di quanto sia importante - e, ma
in una maniera del tutto nuova, anche "politico" - anche andare in villa con
la ragazza, cercare di fare quello che ti piace, vivere la tua vita come
vorresti tu, tutto quanto cambierebbe. C'è stato un onorevole che, poche ore
dopo che hanno ammazzato quel mio amico, è venuto fuori con aria
arrogante - "la mafia non c'è, ha detto in sostanza, fatevi gli affari vostri!" a minacciarci. Bene, quell'onorevole in realtà è un debole, è un isolato,
perché non ha nessunissima idea della vita reale, della gente vera: al
massimo, può fare qualche danno ora, per il potere che ha. Noi invece - tu
ed io - siamo molto forti e gli possiamo ridere in faccia perché la vita (la
vita di ogni giorno, quella normale, la nostra) la conosciamo, ci siamo
dentro, sappiamo che cos'è; ci mancano solo le parole, ma le troveremo (e
non saranno mai grandi parole, grandi ideali, faccende da politici: ma parole
comuni, normali, quelle della vita di ogni giorno).
Allora, adesso ti faccio la mia proposta. Lasciamo perdere se hai la
cravatta o l'orecchino (io, ripeto, preferirei l'orecchino: ma è questione di
gusti, ognuno ha i suoi). Queste sono cose secondarie. La cosa importante è
che tu vuoi vivere la tua vita, e che ti sei scocciato di quella che ti danno.
Come me. Allora dammi una mano. Parole non me ne servono, mi servono
poche cose da fare. Poche, ma da farle sul serio, perché noi due - tu, ed io siamo gente seria, non politicanti. Andare in villa con la ragazza è una cosa
seria, e anche fare questo giornale è una cosa seria. Solo i bei discorsi non
sono una cosa seria.
ALCUNE COSE DA FARE
SicilianiGiovani, 1984
Allora, cosa si può fare per dare concretamente una mano a questo
giornale? Facciamo un esempio: l'istituto tecnico industriale di Piazza
Armerina.
Intanto, ci si organizza a scuola in modo tale che ci siano sempre quattrocinque ragazzi, a turno, che tengano i contatti col giornale e si occupino
della varie cose da fare. Dopodiché, le cose da fare sono più o meno le
seguenti:
1) Notizie. Ovviamente, il discorso "notizie" in senso stretto è roba da
professionisti: stiamo mettendo in piedi una rete capillare di corrispondenti,
quindi ci sarà semmai da andare dal corrispondente di Piazza Armerina e
non direttamente al giornale. Però noi per "notizia" non intendiamo lo
scoop, la novità clamorosa: intendiamo semplicemente sapere come vive la
gente in un determinato posto. Quindi, se per esempio la III C
dell'industriale di Piazza si organizza per fare una ricerca seria, poniamo,
sulla distribuzione dell'acqua ai contadini della zona, questa per noi è una
notizia, e c'interessa. Questo vale anche per le città più grandi, dove ci sono
un sacco di situazioni (la vita nei quartieri periferici, i ragazzi dei ghetti,
ecc. ) di cui nessuno mai parla e che noi non riusciremo mai a seguire con le
nostre forze, perché ci vorrebbero decine di persone. Allora, se invece di
Piazza Armerina si parlasse, poniamo, di Catania, una cosa buona da fare
sarebbe di organizzarsi in classe e fare un lavoro di cinque o sei mesi a
Montepò o a Goretti; sarebbe un lavoro utile soprattutto per chi lo fa, perché
ci sarebbero anche da imparare moltissime cose che dentro la scuola non
arriverebbero mai (uno studente ha molte cose da insegnare a uno
scippatore: ma anche viceversa!).
2) Diffusione del giornale. Per "giornale" non intendiamo la rivista
mensile, ma il settimanale che faremo in autunno e che sarà, grosso modo,
come questo foglio che state leggendo, solo con più pagine e un po' più
curato. Dev'essere il giornale dei Siciliani. Vogliamo diffonderlo per metà in
edicola, e per metà di mano in mano. La "diffusione militante" vorremmo
affidarla prevalentemente agli studenti delle superiori, che sono quelli che si
possono organizzare più facilmente per farlo (non c'è paese che non abbia la
sua scuola). In ogni scuola, dunque, ci dovrà essere almeno uno, a turno, al
quale faremmo arrivare le dieci, venti o cento copie da distribuire: abbiamo
tutta la primavera e l'estate per organizzarci.
3) Sottoscrizione. Noi, come forse oramai si è capito, non abbiamo
nessuno alle spalle. Perciò siamo sempre con, diciamo così, qualche
problema finanziario. Non vogliamo andare da nessun centro di potere, e
quindi dobbiamo affidarci alle mille lire dell'operaio e dello studente. Non
abbiamo parlato finora di sottoscrizione perché non ci piaceva mischiare
discorsi di soldi a tutto ciò che stiamo vivendo. Ma è un problema serio. E
va affrontato seriamente, in modo organizzato capillare: anche qui, se ne
potrebbe occupare uno, a turno per ogni scuola; anche qui, abbiamo la
primavera e l'estate per organizzarsi bene.
4) In generale, noi pensiamo che sia giusto che gli studenti siciliani tranne quelli proprio fighetti o proprio fatti - ci aiutino. Pensiamo però che
sia anche giusto che noi aiutiamo loro, per quanto possiamo col nostro
mestiere, e cercheremo di farlo. Noi non sappiamo quanti presidi
provveditori e professori appoggeranno questa iniziativa e quanti la
boicotteranno; ma, sia chiaro, noi ci stiamo rivolgendo in primo luogo agli
studenti. Stiamo parlando di studenti perché la maggior parte dei ragazzi va
a scuola: ma in effetti stiamo chiedendo - e offrendo - aiuto a tutti i ragazzi
siciliani in generale; la scuola non è un posto più serio degli altri, è
semplicemente un posto dove si sta più insieme.
5) Col mensile, con i libri dei "Siciliani editori" e col settimanale noi
continueremo ovviamente ad occuparci prima di tutto di mafia e di missili,
ma non solo di questo; cercheremo anche di parlare di storie quotidiane, di
ecologia, di natura, di problemi "comuni", di sport, spettacolo e cultura, del
tempo libero e di quello da liberare - in una parola, della nostra vita. Noi,
come tutti i giovani siciliani, non siamo solo "contro" qualcosa, siamo anche
"per" qualcos'altro che ancora non sappiamo esattamente cosa sia ma che
sicuramente esiste e che vogliamo trovare a poco a poco, senza idee
preconcette e senza credere d'avere la verità in tasca (di mafia, forse, ne
sappiamo più di altri; ma su tutto il resto, abbiamo moltissimo da imparare,
da tutti e soprattutto da voi altri).
Ci rendiamo conto - infine - che i nostri collegi giornalisti davanti all'idea
di un giornale come questo affidato, praticamente, agli studenti siciliani
storcerano il naso e diranno: ma è pazzesco! Ma non s'è mai fatto! Ma non è
professionale!
Beh, che sia pazzesco non è detto, perché abbiamo visto che in giro, da un
anno a questa parte, la volontà di fare qualcosa c'è e forse mancava solo
l'occasione e un minimo di organizzazione. Che qualcosa del genere non sia
mai stata fatta prima è vero, ma qualcuno doveva pur cominciare. Che non
sia "professionale" è, decisamente, sbagliato: da oggi in poi, in Italia, c'è
anche quest'altro modo di fare un giornale.
LA MAFIA DI OGNI GIORNO
SicilianiGiovani, 1984
La mafia, per noi, non è un argomento da comizio o da tavola rotonda, ma
semplicemente un pezzo della nostra vita quotidiana. Per alcuni di noi, per
esempio quelli che sono costretti a guadagnarsi da vivere alla meglio, il
fatto di vivere in una società composta anche dalla mafia si fa sentire in
maniera fisica e immediata, per altri in maniera fisica e immediata, per altri
in maniera meno diretta ma in realtà altrettanto decisiva. Perciò abbiamo
voluto mettere al centro di questo nostro primo giornale alcune storie di vita
che a prima vista sembrerebbero non aver molto a che fare con la mafia ma
che in realtà sono frutto di una società "mafiosa" (società mafiosa non vuol
dite che tutti siano mafiosi ma semplicemente che la mafia vi è accettata
come un componente "normale": certo, non la mafia che fa gli attentati ma
quella che fa gli investimenti bancari...). La cosa più importante, infatti, è
sapere dove vanno a finire tutti i discorsi che facciamo su questo e su altri
argomenti, qual'è il loro risultato pratico. Pensiamo a mafiosi come
Santapaola e Badalamenti: cosa significa, in termini di vite quotidiane di
ragazze qualunque, il fatto che essi abbiano potuto operare indisturbati per
tanti anni? Il ragazzo Antonino, per esempio, che adesso è in carcere per
furto aggravato e spaccio, e la ragazza Primula, che probabilmente non
sopravviverà a un altro anno di eroina, quando esattamente hanno
cominciato ad essere ammazzati da Santapaola, Badalamenti e gli altri? E
qual'è stato, in ciascun singolo caso, per ognuna delle loro vite quotidiane, il
momento che ha deciso tutto. Badalamenti era stato denunciato molti anni
fa, dalla radio di Giuseppe Impastato: da tempo si parlava di Santapaola sul
giornale di Pippo Fava. Ma questo non è bastato per salvare Primula e
Antonino: il tempo per rovinare anche loro i mafiosi l'hanno avuto...
L'hanno avuto da chi? I giornalisti che hanno coperto Badalamenti, che
responsabilità hanno, personalmente, rispetto alla sorte del ragazzo
Antonino? E le autorità che "non "sapevano" che Santapaola era un
mafioso, che condanna hanno avuto per aver lasciato distruggere la vita
quotidiana della ragazza Primula?
Tutti parlano, ormai, dei mafiosi che uccidono e che spacciano eroina.
Prima, bisognava parlarne. Adesso, bisogna parlare di coloro che non
uccidono e non spacciano eroina, perché non hanno più bisogno di farlo: i
miliardi se li sono fatti, la loro parte di potere se la sono conquistata, ad
Antonino e a Primula non hanno più nulla da portar via. Sono gente perbene
oramai: perché prendersela proprio con loro?
VIVERE CON LA MAFIA O VIVERE PER DAVVERO?
SicilianiGiovani, 1984
Di mafia si continua a morire, e soprattutto si continua a vivere. Non sono
gli otto morti di Palermo che ci spaventano - quelli, in un altro paese,
potrebbero essere un episodio particolarmente feroce di "criminalità", in un
certo senso un'eccezione. E' la vita quotidiana che qui fa paura: il fatto che a
Palermo, alla Kalsa o al Capo, lo spaccio di eroina sia un mestiere
riconosciuto fra i quindicenni; il fatto che a Monte Po, a Catania, la gente
sia costretta a vivere in condizioni identiche a quelle di una città del Terzo
Mondo; il fatto che, tanto a Catania quanto a Palermo, la classe dirigente sia
esattamente la stessa che con la speculazione edilizia ha ghettizzato la
Kalsa, il Capo e Monte Po, e che ora continua a gestire i frutti di questa
ghettizzazione sulla pelle della gente e soprattutto dei giovani. Altro che gli
otto omicidi di un "San Valentino" qualunque! E' un assassinio lento e
quotidiano, di cui nessuno si accorge, la silenziosa strage di migliaia e
migliaia di esseri umani, l'immiserimento della vita di milioni di altri.
Leggete le statistiche delle overdosi a Palermo, della mortalità infantile in
provincia di Agrigento, della criminalità minorile a Catania: il Cile e la
Polonia, in confronto, sono niente.
Questa è la mafia. L'emarginazione dei quartieri, il ricatto della
disoccupazione, l'espulsione dei giovani dalla vita sociale, il risorgente
razzismo contro le fasce più povere (meridionali e operai) della
popolazione, il rincrudirsi della violenza materiale e morale sulle donne: su
tutto questo s'accampa la classe dirigente del 1984. Al di sopra di essa, o
accanto ad essa, o tollerata da essa, la piovra dei politicanti mafiosi e degli
imprenditori mafiosi. Ciascuno di noi, nella propria vita quotidiana, subisce
le conseguenze di questo stato di cose: per qualcuno la droga, per qualcun
altro il piombo, per tutti la miseria di una società che non è amica.
Questo è tutto. Poiché abbiamo parlato di mafia, non chiudiamo senza
fare nomi: a Catania i Santapaola, i Ferlito e i Ferrera; a Palermo i
Marchese, i Greco, i Vernengo e tutti gli altri. E poi bisogna ricordare anche
i "personaggi importanti", quelli di cui parlavano Fava, Chinnici e Dalla
Chiesa: i Salvo, i Cassina, i Rendo, i Graci, i Costanzo e i Finocchiaro.
A che servono questi nomi, qui sul nostro giornale? A dire dove vogliamo
arrivare. Intanto una Sicilia libera, libera da tutta questa gente; ma poi una
Sicilia felice, in cui ciascuno di noi possa vivere allegramente, sviluppando
finalmente tutta la creatività e la fantasia che ha dentro di sé e che è stato
sempre costretto a tenersi dentro. Una Sicilia senza overdosi, senza manette
e senza prediche ipocrite: sarà la nostra Sicilia, degli studenti dello
Spedalieri e dei ragazzi di Monte Po. E intanto, cominciamo a prendere la
parola. Tutti.
GLI INTOCCABILI E GLI SCIPPATORI
SicilianiGiovani, 1984
Ci sono due notizie che ci hanno colpito in queste ultime settimane, e
crediamo che siano due notizie ugualmente importanti. Una, è che a
Palermo Falcone e gli altri giudici antimafiosi hanno sequestrato numerose
proprietà dei boss mafiosi, per un valore di quasi mezzo miliardo. Siccome
non c'è ancora una legge che regoli l'uso dei beni sequestrati ai mafiosi, esse
sono rimaste affidate al custode giudiziario come se fossero due motorini
rubati. Eppure tutte queste proprietà (e tutte quelle ancora da sequestrare)
potrebbero servire a dare lavoro a un sacco di gente. Perché non i fa una
legge in questo senso? Io penso che la gente - ma soprattutto i giovani
disoccupati, che sarebbero i più interessati - dovrebbe organizzarsi e fare
casino per ottenere una legge così: tra l'altro, questo sarebbe anche un modo
(e molto efficace) di combattere la mafia.
La seconda notizia è che a Catania, ai primi di maggio, hanno condannato
a tre anni e mezzo di carcere - senza condizionale - un giovane scippatore.
Una pena molto dura: proporzionalmente, gli imprenditori mafiosi
dovrebbero stare in galera per almeno cent'anni... mentre invece per loro
spesso si trovano le attenuanti e si fanno le campagne di stampa per
giustificarli. A Catania ricordiamo benissimo come, ai tempi del mafiosocolonnello Licata, da un lato si lasciavano in pace i vari Santapaola, Graci e
Rendo e dall'altro si scatenavano senza pietà i "falchi" contro i piccoli
balordi di quartiere, per lo più giovanissimi e quasi sempre affamati.
I mafiosi sono quelli che ammazzano, quelli che trafficano eroina e
soprattutto quelli che si fanno i miliardi, e la carriera politica, con la mafia e
gli intrallazzi. La lotta alla mafia, chi ha il coraggio di farla, la faccia contro
di loro: senza pietà. Ma per i ragazzi di quartiere non servono le condanne
feroci. Servono aiuto, scuola, comprensione, e soprattutto lavoro: per
esempio, nelle aziende sequestrate agli "insospettabili".
I CENTRI GIOVANILI IN SICILIA
SicilianGiovani, 1985
A Palermo dopo Dalla Chiesa, a Catania dopo Giuseppe Fava, a Trapani
dopo l'attacco a Carlo Palermo, migliaia di giovani siciliani ci siamo
ritrovati nelle strade per manifestare contro la mafia. Non eravamo lì a
manifestare semplice solidarietà ad un magistrato isolato o a dei giornalisti
isolati: eravamo lì da protagonisti, coscienti del fatto che ognuno di noi è
costretto a scontrarsi quotidianamente con la mafia, cominciando dai
problemi della vita nel proprio quartiere o nella propria scuola.
Ma c'è di più: ci siamo ritrovati nelle strade nelle piazze e nelle piazze
con tanta, tantissima voglia di stare insieme. E a partire da questa esigenza
di stare insieme abbiamo cominciato a parlare di centri giovanili: dei posti
tutti nostri per farci tutto quello che vogliamo. Fin qui nulla di nuovo dal
numero scorso.
La novità che è venuta fuori da questi ultimi mesi è che stiamo scoprendo,
con grande gioia, che l'obiettivo del centro giovanile è sentito non soltanto a
Catania, a Palermo e a Trapani, ma in molte altre città e paesi della Sicilia.
Ogni nuova redazione locale di "Siciliani/giovani" che nasce (e ce n'è già
parecchie) parte subito sparata con iniziative sugli spazi giovanili. Ecco
allora che questo nuovo movimento che nasceva "contro la mafia", si avvia
a diventare, anzi lo è già, un movimento "contro la mafia e per i movimenti
giovanili".
Proponiamo di organizzare in tutta la Sicilia delle bellissime feste per
chiudere in allegria l'anno scolastico e per lanciare ufficialmente la
campagna "Centri giovanili in tutta l'isola", dandoci appuntamento a
settembre. Sarà allora che, ovunque possibile, dal più piccolo paesino alla
più grande città, cominceremo a far nostri tutti i luoghi pubblici inutilizzati
(edifici, terreni comunali in abbandono, ecc.) che si possano utilizzare per
farsi i "nostri" centri. Dappertutto.
E per cominciare, nell'immediato: sommergiamo i comuni siciliani sotto
una valanga di cartoline con su scritto: "Voglio un centro giovanile
perché...". Altre idee verranno dopo, man mano che andremo avanti.
Antonio
Chi è interessato all'iniziativa per i centri giovanili a Catania si metta in
contatto con noi telefonando, venendo in redazione o partecipando alle
assemblee di Siciliani/giovani (ogni venerdì alle 17 presso la comunità Ss.
Pietro e Paolo). Telefonateci anche se non siete di Catania e volete
affrontare insieme il problema nel vostro paese.
IL MOMENTO DI FARE
I Siciliani, autunno 1984
Fra la fine di settembre e i primi di ottobre, hanno avuto luogo, a Catania,
le prime riunioni operative del nucleo promotore dell'Associazione dei
Siciliani.
Abbiamo già detto altre volte cosa, nelle nostre intenzioni,
quest'Associazione vuole essere: non certamente un nuovo partito politico
da aggiungere a quelli già esistenti, ma nemmeno un ennesimo cenacolo di
intellettuali. Si tratta invece di un progetto organizzativo del tutto nuovo, del
quale non possiamo prevedere che in parte le caratteristiche e la portata, ma
che deve servire - su questo non abbiamo alcun dubbio - ad uno scopo
preciso: darci la possibilità - dare a tutti noi, intendiamo: a tutti i siciliani
onesti - la possibilità di intervenire concretamente sulla realtà siciliana e
non solo di denunciarne i mali. Questa realtà è oggi caratterizzata, non solo
a livello di fatti criminali ma nelle sue più profonde strutture di potere, dalla
preponderanza della mafia; a Catania come a Palermo, nella grande città
come nel piccolo paese, nella vita "politica" e nella realtà quotidiana. Ma
allora, tutta la Sicilia è mafiosa? No di certo: è una piccola minoranza a
gestire lo sfruttamento degli appalti, il traffico della droga, i delitti; ma
questa minoranza è ferreamente organizzata, mentre noi non lo siamo. E
mentre la mafia ha avuto tutto il tempo, e l'abilità, di aggregare attorno a sé
una rete articolata e complessa di complicità, di fiancheggiatori, di
coinvolgimento d'interessi, tanto più pericolosi quanto meno evidenti, noi noi maggioranza, intendiamo: noi siciliani onesti - siamo rimasti sulla
difensiva, ci siamo arroccati in noi stessi, abituati a resistere al male ma non
ad egemonizzare l'intera società. Ora - ora che la mafia subisce i primi
colpi, ora soprattutto che il fronte di battaglia va finalmente avvicinandosi al
"terzo livello" - è il momento di fare un salto di qualità, di passare dalla
resistenza all'offensiva. Questo è il problema, ed è, prima di tutto, un
problema di organizzazione.
Ma non ci sono già i partiti? Certo che ci sono, e noi non intendiamo
affatto - e non è tempo di qualunquismi - disconoscere la loro utilità. Ma
oggi ci vuole anche qualcosa di più specifico, qualcosa a cui possano
partecipare tutti coloro - di qualunque militanza politica, di qualunque
classe sociale, di qualunque fede - che sentono il bisogno di schierarsi prima
di tutto su questa lotta; esattamente come, quarant'anni fa, c'era bisogno di
un punto di riferimento che, ferme restando le varie identità politiche
individuali e di gruppo, organizzasse tuttavia in maniera specifica e unitaria
la lotta di liberazione antifascista. Oggi, c'è da liberarsi dalla mafia e da
tutto ciò che le sta dietro, ora o mai più: l'occasione è questa e un'altra non
ci sarà. Si tratta dunque di sviluppare, in tutte le città e in tutti i paesi, dei
nuclei di antimafiosi che si raccolgano insieme, discutano, decidano le
prime cose da fare; non solo "cose grosse" e non solo su questioni di mafia:
qua può essere la denuncia di una speculazione edilizia, là quella di un
intrallazzo mafioso; qua un'assemblea per difendere una spiaggia
dall'inquinamento, là una manifestazione contro un funzionario infedele;
dappertutto, liberare la fantasia, la creatività e l'orgoglio di tutti coloro che,
giustamente diffidenti della "politica" che coesiste con la mafia, non
vogliono tuttavia rinunciare a dire la loro, e a dirla ben forte. E poi
organizzarsi sempre meglio, coordinarsi con tutte le realtà esistenti, stendere
sulla Sicilia una fitta rete di azione e di libertà; non permettere che la lotta
fra mafiosi e antimafiosi rimanga nei corridoi del palazzo, ma gettarla
apertamente nei fatti quotidiani e nelle piazze.
Questa è la prospettiva che noi oggi indichiamo a tutti coloro che credono
nel nostro lavoro, che non vogliono più accontentarsi della semplice
denuncia; questo è ciò che rispondiamo a chi ci chiede "Ma io, che posso
fare?". Ma abbiamo il diritto noi dei Siciliani di chiedere questo alla gente?
Noi non siamo dei politici, non ne sappiamo più degli altri; perché
dobbiamo essere proprio noi a lanciare questo appello? Proprio perché
siamo gente comune, perché non ne sappiamo più degli altri. Noi non siamo
dei professionisti della politica, non possiamo insegnare niente a nessuno; e
proprio per questo possiamo imparare dagli altri, mettere in circolazione
delle idee invece di imporle dall'alto. Possiamo coordinare e raccogliere, ma
non strumentalizzare. Proprio perché siamo deboli, possiamo fare appello
alla forza di tutti. E non è, d'altra parte, un appello solo nostro. Esso
contemporaneamente sorge, con varie parole e coscienza diverse, da decine
e decine d'esperienze diverse. Noi pensiamo semplicemente che sia il
momento di dare un unico nome a tutto questo, e di cominciare a
considerarlo come un insieme coerente. Un nome, diciamo, e non un
programma, un'ideologia, una "linea": questi debbono sorgere dalle vive
realtà, nel progresso del tempo. Sono realtà che nascono dalla lotta contro la
mafia, e quindi non possiamo avere che fiducia in esse.
E' interessante notare che, alle riunioni che abbiamo detto, erano presenti
uomini d'origine ben differente: il liberale, il cattolico, il sessantottino, il
comunista: e, più largamente di tutti, antimafiosi senza partito. Ciascuno di
essi ha, più o meno inconsciamente, portato nella discussione qualcosa della
sua precedente formazione, che è come dire di sé stesso; eppure non ne è
derivato alcun inconveniente, e anzi si può dire che ciò che risultava alla
fine serbava come una vaga traccia delle esperienze di ciascuno, e della più
umana parte di esse. Così avviene quando, ad orientare le scelte, sia un
obiettivo concreto, e fermamente voluto da tutti.
Adesso, aspettiamo che si mettano in contatto con noi tutti i lettori e gli
amici che vogliono organizzare un nucleo dell'Associazione anche dalle
loro parti; entro la fine dell'anno, organizzeremo delle assemblee su questo
argomento in tutte le città in cui saremo chiamati a farlo, a partire da
Palermo, Messina e Siracusa. E poi andremo avanti anche su questo terreno,
e da qualche parte, prima o poi arriveremo.
PROMEMORIA INTERNO
settembre 1984
1) Nella situazione attuale noi possiamo:
- concentrarci sul mensile ed occasionalmente sui libri, migliorarne, anche
con apporti professionali esterni, la qualità e la diffusione e programmare
alcuni anni di "progresso senza avventure";
- o aprire un fronte completamente nuovo (settimanale ed Associazione)
che potrà potarci all'avanguardia di un reale movimento antimafioso ma
potrà anche mandarci in rovina nel giro di venti mesi.
Le due scelte non sono compatibili: la prima può essere sostenuta dal
nostro gruppo così com'è ora e richiede "soltanto" un progressivo aumento
del nostro grado di professionalità; la seconda ha bisogno, oltre a questo,
anche l'assunzione di una serie di compiti in buona parte completamente
nuovi e implica in particolare la capacità di individuare, di contattare e di
coordinare una serie di forze che in gran parte si trovano ancora a uno stato
poco più che potenziale.
L'ipotesi che queste forze siano in realtà l'elemento emergente, e in
prospettiva egemone, della situazione attuale è quella su cui si basano tutti i
progetti contenuti in questo promemoria.
2) Il progetto di settimanale e quello dell'Associazione sono in realtà due
aspetti di un unico problema, infatti:
- da solo il settimanale non soltanto non riuscirebbe a trovare la forza di
venire alla luce e di andare avanti, ma non potrebbe nemmeno (nel caso che
si riuscisse nonostante tutto a crearlo) avere il respiro ideale e i contatti
sociali necessari per farne qualcosa di più di un buon giornale; esso ha
quindi bisogno di un punto di riferimento "politico" e di una struttura
"organizzativa" che in questo momento non esistono da nessuna parte;
- l'Associazione, dal canto suo, da sola difficilmente riuscirebbe ad essere
qualcosa di più di un circolo di intellettuali scontenti: il progetto di
settimanale da un lato può darle lo strumento operativo per svolgere
un'azione "politica" non velleitaria, dall'altro può essere il punto di
riferimento concreto che permetta di aggregare forze attorno ad un progetto
(e a dei sotto-progetti particolari) specifico e non su un'utopia; sono
d'altronde ampiamente superate le vecchie formule organizzative basate sui
modelli di pura propaganda e "di partito", mentre vi è una richiesta
crescente e non casuale di momenti organizzativi basati su iniziative
concrete e autogestite.
3) in questo quadro, è chiaro che i nostri due progetti fondamentali
debbono fin dall'inizio procedere di pari passo ed intrecciarsi a vicenda,
rappresentando l'uno il momento maggiormente tecnico-prrofessionale,
l'altro il momento maggiormente politico-organizzativo di un disegno che
ha le stesse radici e gli stessi obiettivi. Tuttavia, dev'essere almeno
altrettanto chiaro:
- che il nostro concetto di professionalità è molto diverso da quello
tradizionale, ed implica non solo alcune scelte "militanti" in chi lo pratica,
ma anche una disponibilità a confrontarsi con tutto ciò che sta al di fuori di
esso e a ritenere essenziale, ai fini di un pieno sviluppo delle tecniche
professionali, il contributo di soggetti "spontanei" del tutto estranei ad esse;
- che il nostro concetto di politica non ha nulla a che vedere con quello
tradizionale, e si basa (assai più che su rapporti "diplomatici" con forze più
o meno istituzionali) sull'attenzione verso soggetti sociali reali,
individuandone gli effettivi e non ideologici) terreni di scontro e mettendo
al centro di ogni analisi e di ogni iniziativa i comportamenti quotidiani degli
esseri umani: che non sono mai casuali e individuano sempre, di per sé, una
"politica";
- che il nostro concetto di organizzazione non consiste nel tentativo di
creare un'ennesima struttura burocratica fine a se stessa, e in definitiva di
potere, ma semplicemente nel cercare di offrire alla gente comune alcuni
strumenti concreti, elastici ma efficienti, che possano aiutarla a non
disperdere la propria voglia di cambiare.
Tutto questo, in Sicilia, diventa particolarmente evidente in presenza di
una forma di potere - il sistema mafioso - che consente ben poche
mediazioni. Ma forse non è impossibile pensare che il movimento
antimafioso in Sicilia rappresenti oggi, e ancor più possa rappresentare in
futuro, una forma particolarmente avanzata di una tendenza a riappropriarsi
della vita pubblica che da alcuni anni ricomincia a farsi strada in settori
consistenti - e spesso ufficialmente "qualunquisti" - del Paese.
In questo senso, se è vero che non siamo (come troppo spesso abbiamo
dimenticato) autosufficienti, è anche vero che non siamo assolutamente
isolati, ed è ragionevole prevedere che ancor meno lo saremo in futuro.
5 GENNAIO
I Siciliani, decembre 1984
Questo giornale si stampa in una città, Catania, che ha due magistrati in
carcere e altri due sotto esame per scandali d'ogni tipo. In una città in cui
quasi tutti gli amministratori degli ultimi cinque anni sono stati incriminati
per un intrallazzo o per l'altro. In una città dove un pomeriggio di pioggia
basta a produrre gli effetti di un bombardamento, e non si osa tuttavia
parlare del dissesto urbano. In una città dove i criminali mafiosi vivono o
liberi o in "libertà provvisoria". In una città dove il principale uomo
politico, Drago, non si vergogna di affermare che "la mafia non esiste". In
una città in cui la legge La Torre sui sequestri ai mafiosi è stata fattivamente
applicata una sola volta, rispetto alle duecentoventuno di Palermo. Nella
città di Santapaola, Ferrera e Ferlito; nella città in cui tuttora operano e
fanno affari i quattro cavalieri - Graci, Rendo, Costanzo e Finocchiaro - su
cui Dalla Chiesa spese le sue ultime parole.
In questa situazione, occorre essere qualcosa di più che un giornale. Avere
qualcosa da dire, e dirlo liberamente; informare senza paura, dire le cose
come stanno; fare i nomi, le cifre, i documenti - tutto questo è importante,
ma non basta. Non basta denunciare le ingiustizie, bisogna porvi fine. Non
basta dire che il nemico è feroce, bisogna sapere che è debole. E' debole, in
confronto alla forza d'una intera popolazione: e il problema è dunque di
risvegliare questa forza.
Così, i primi due anni di vita del nostro giornale terminano - e iniziano
insieme i successivi - non solo qui dentro la redazione, ma nelle assemblee e
nelle piazze. Non solo per protestare contro gli amici della mafia ma anche
per cominciare a costituire insieme la Sicilia del dopo-mafia. Una Sicilia
libera dai mafiosi, ma anche una Sicilia sorridente; una vita quotidiana
senza minacce e senza paura, ma anche una vita più felice, capace di
liberare la creatività e la fantasia di tutti e di renderci veramente - dentro e
fuori - più umani. Non solo la sconfitta della mafia, ma qualcosa di più.
Non non sappiamo ancora per quali tappe arriveremo - non da soli - a
vedere tutto questo. Ma siamo certi che ci arriveremo. E sarà curioso, alla
fine, veder con che diversi e vari contributi si sarà costruito tutto questo.
Senza stupircene del resto: quando i tempi cominciano a cambiare - e questo
sono tempi di grande cambiamento, in Sicilia - le cose più straordinarie
appaiono già normali mentre la vecchia "normale" prepotenza appare
all'improvviso intollerabilmente strana.
Si tratta adesso di dare alla lotta contro la mafia una dimensione
realmente regionale e non solo cittadina: non è possibile che mentre a
Palermo si comincia a colpire il terzo livello a Catania non si facciano
nemmeno le indagini bancarie. Si tratta di dare una dimensione regionale
anche e soprattutto al movimento di massa antimafioso, finora privo di un
collegamento stabile e organizzato fra le ormai numerose realtà esistenti
nelle varie città della Sicilia. Si tratta anche di cominciare ad individuare
degli obiettivi - a cominciare dalla gestione popolare dei beni sequestrati
con la legge La Torre - che consentano di aprire una fase più avanzata, non
più semplicemente difensiva, della lotta contro il potere mafioso e di
mobilitare su di essi tutte le forze della Sicilia civile.
Si tratta infine - e forse soprattutto - di cominciare ad acquisire l'abitudine
mentale alla proposta, all'organizzazione e al progetto, di non fermarsi alla
semplice protesta del momento. Bisogna abituarsi a pensare che c'è da
mettere insieme, in ogni città e paese dell'isola, ogni energia più giovane e
viva: combattendo la mafia, fare la Sicilia di domani. Questa guerra sarà
ancora molto lunga, ma un giorno finirà: e allora bisognerà ricostruire, nelle
coscienze e nelle cose.
Questa lotta, ma più ancora questa ricostruzione civile, per noi hanno un
nome, ed è quello di Giuseppe Fava. Non è il nome di un simbolo, ma di un
essere umano. Un uomo che ha avuto il coraggio di lottare contro
l'ingiustizia e quello, ancor più difficile, di vivere la propria vita giorno per
giorno, rispettando l'umanità in sé stesso e negli altri, amandola
profondamente nella sua libertà e nella sua completezza. Possano i siciliani
ritrovarsi attorno a questo nome, raccoglierne il coraggio e l'allegria, essere
degni di esso.
UN UOMO E LA SUA LOTTA
I Siciliani, gennaio 1985
Per noi de "I Siciliani", questo è un numero particolare. Esso esce nel
momento in cui finalmente si è cominciato a colpire - non per iniziativa
della magistratura locale - il sistema di potere mafioso catanese. Esce a due
anni dal "numero uno" del gennaio '83, che aprì il cammino di cui gli
avvenimenti di questi giorni sono una tappa. Esce un anno esatto dopo il 5
gennaio 1984
La mafia sapeva bene, quando uscì questo giornale, dove esso avrebbe
portato. Sapeva che se qualcuno avesse cominciato la battaglia sarebbe stato
difficile porvi fine. E difatti così è stato. Oggi a Catania i mafiosi
cominciano ad andare in galera, la gente ad esprimersi liberamente, e i
potenti a tremare.. E non è che un inizio.
Ognuno può facilmente comprendere, adesso, perché la mafia avesse
paura di Giuseppe Fava. Il sistema era minato, bastavano poche verità per
farlo franare. Ognuno può comprendere, adesso, quanto diversa sarebbe
stata la storia della nostra città se Giuseppe Fava avesse trovato, in luogo
dell'isolamento e del silenzio, una solidarietà. Un asolidarietà che non c'è
stata perché non poteva esserci: e ognuno può comprendere, dopo i verbali
torinesi, perché. Ma non importa, Giuseppe Fava ha vinto lo stesso. Da solo.
Solo?
Solo, rispetto ai "colleghi" giornalisti e agli uomini del Palazzo. Non certo
rispetto alla gente. Come risuonava chiaro il suo nome, l'altra settimana in
via Etnea! I giovani catanesi non s'erano dimenticati di Giuseppe Fava; non
avevano paura di gridare a tutti le imprese dei cavalieri e dei loro uomini.
C'era un sole gentile, in quella mattinata di dicembre; illuminava allo stesso
modo, in piazza del palazzo di giustizia, il corteo dei ragazzi e le severe
mura. La gioventù che spera e il privilegio che teme, gli sguardi limpidi e i
volti cupi, la libertà di domani e il feroce passato: il nome di Giuseppe Fava
divideva irreparabilmente i due mondi.
E quei ragazzi sfilavano allegri, ma egualmente risoluti; con loro, passava
certamente l'avvenire. L'avvenire di Giuseppe Fava, dell'uomo che i potenti
credevano "solo".
Non basta essere, nella situazione che viviamo, semplicemente un
giornale. Bisogna che cento diverse iniziative, liberamente sostenute e
liberamente gestite da tutti, convergano su un unico obiettivo: che è quello
di liberarci dalla mafia, da tutta la mafia, e di cominciare a costruire una
Sicilia più umana.
Il progetto - ma ormai è solida realtà - dell'Associazione "I Siciliani"
nasce da questo bisogno: formare dappertutto gruppi di cittadini che, senza
distinzioni di parte, contribuiscano a questo obbiettivo con le proprie idee e
la propria attività: per lottare contro la mafia, ma anche per costruire il
dopo-mafia; per testimoniare un principio, ma anche per affrontare problemi
concreti di ogni piccola o grande comunità. Combattendo la mafia, fare la
Sicilia di domani. Non solo sequestrare le aziende dei mafiosi, ma darle in
gestione ai lavoratori. Non solo stroncare i trafficanti di droga, ma dare ai
ragazzi dove passare allegramente il loro tempo libero. E così via.
L'Associazione verrà ufficialmente formalizzata, per mezzo di una serie di
assemblee, nelle prossime settimane. Ma in realtà nasce già di fatto - nelle
scuole, nei quartieri, nelle università, nelle strade - da tutti coloro che hanno
risposto all'appello del cinque gennaio. Appello di solidarietà e di memoria,
ma anche già di lotta.
Meglio di ogni lungo discorso, questa circostanza indica con quale spirito
nasca l'Associazione "I Siciliani" e quale cammino si prefigga. E' il
cammino iniziato da Giuseppe Fava: ad esso noi chiamiamo tutti i siciliani
di buona volontà, in ogni città e paese della Sicilia. Non solo un appello
ideale, ma una precisa proposta organizzativa.
Abbiamo dato puntualmente conto ai lettori, durante l'anno che è
terminato, dei nostri problemi e delle nostre azioni. Quanto al giornale, i
problemi sono i soliti, e non c'è motivo di nasconderli. Ai circa seicento
milioni di vecchi debiti, che la legge strappata questa estate basta
malamente (o meglio: basterà quando effettivamente verrà eseguita) a
coprire, si aggiungono dunque ogni mese milioni di debiti nuovi: Ma, dirà
qualcuno, le copie vendute del giornale? Aumentano ogni mese, più che
mai. Ma paradossalmente, più se ne vendono, e più cresce il passivo.
Il paradosso, però, è solo apparente: tutti i giornali, infatti, vengono
venduti a un prezzo largamente inferiore alle spese di produzione; la
differenza viene coperta dalla pubblicità che rappresenta, generalmente,
almeno il 55-60 per cento del fatturato complessivo. Noi, non per nostra
scelta, praticamente non ne abbiamo e sino ad oggi le uniche entrate del
giornale sono venute dalla sua vendita; come ultima carta, siamo a contatto
con un'agenzia pubblicitaria, la Sipra, che potrebbe consentirci di superare
questo boicottaggio (perché di boicottaggio, purtroppo, si è trattato). Se ce
la faremo, avremo risolto il problema; se no, cercheremo di andare avanti
come e finché potremo (e già questo numero è a pagine ridotte, e già sarà
assai difficile aver carta per febbraio. Certo notizie simili non si usa darle
fra parentesi. Ma sono egualmente gravi, per noi e per chi attribuisce
qualche importanza all'esistenza di questo giornale).
Del resto, per quanto starà in noi, continueremo a lavorare con il consueto
impegno. Molte nuove inchieste giornalistiche sono già in cantiere, e non
solo di mafia. Molto più che per il passato, intendiamo impegnarci anche
sugli altri aspetti della vita siciliana: la vita nei quartieri e i problemi delle
città, la tutela ambientale e l'impegno per la pace, il rifiorire culturale e i
nuovi movimenti. Di tutto quell'immenso cantiere che è oggi la Sicilia
sommersa - i cortei dei sedicenni e i preti di quartiere, le lotte degli operai e
le assemblee delle donne, i paesi contro i missili e i magistrati impegnati vogliamo essere, ancor più di prima, la puntuale e fedele cronaca, aperta a
tutti e ricca dell'apporto di ogni libera voce.
Questo giornale non sarà mai un giornale di Palazzo: non ci riguarda la
cronaca dei corridoi del potere; ma quella, ben altrimenti feconda e viva,
della nostra vita quotidiana. Nostra, di milioni e milioni di siciliani, che
vivono in Sicilia o sono sparsi per il mondo, uomini e donne "comuni",
come si suol dire, con le loro quotidiane umanissime vicende che non
interessano i giornalisti "ufficiali" ma che il nostro direttore ci ha insegnato
a rispettare e a descrivere prima di ogni altra cosa. Di esse noi siamo i
cronisti, non dei pettegolezzi dei potenti. Ed è una lunga strada, dai bambini
di Palma di Montechiaro a quelli dell'Albergheria e di Monte Po: ma è
sempre la strada del nostro direttore, esattamente come quella della
denuncia implacabile del potere mafioso di cui questi bambini - allora come
oggi - sono le vittime che nessuno difende.
E' stato un anno lunghissimo, di amara solitudine e di pena. Ma anche un
anno di speranza. Siamo stati soli, quanto non credevamo possibile
potessero esserlo degli esseri umani; ma siamo stati anche uniti, in una
maniera che non si può immaginare, con tanti e tanti altri siciliani come noi.
Grazie, Sabina, Fabio, Antonio, Giusi, Massimo, Pinella, grazie a tutti i
ragazzi di Catania: siete stati anche voi, nel momento in cui altri facevano
terra bruciata attorno a noi, a darci la speranza e la forza di andare avanti.,
voi per primi.
Grazie ai nostri corrispondenti, ai fotografi, ai disegnatori, a tutti coloro
che hanno collaborato a questo giornale. Nessuno di loro ha ricevuto una
lira per il proprio lavoro; ed era un lavoro che stava alla pari, almeno, con
quello per qualunque grande giornale. Senza di loro, questo giornale non si
sarebbe potuto fare.
Grazie ai colleghi famosi, pochi di numero ma non di cuore, che non
hanno avuto timore di compromettersi coi Siciliani. Dei tanti loro articoli,
quelli pubblicati da noi non hanno portato loro nessun guadagno materiale;
eppure essi si sono sentiti ugualmente gratificati. Grazie agli uomini di
giustizia, dall'insigne magistrato al brigadiere, che hanno avuto fiducia in
noi; non c'è stata notizia, per quanto in loro potere, che non ci abbiano dato,
sapendo benissimo perché ed a chi essi la davano. E' grazie anche a loro, e
alle segnalazioni di decine e decine di onesti - e non anonimi - cittadini che
abbiamo potuto lavorare come abbiamo lavorato; nessuna notizia è stata
pubblicata se non attentamente vagliata; di molte cose ci hanno accusato,
ma mai di imprecisione.
Grazie agli amici coraggiosi, che si sono esposti con noi; alcuni da pochi
mesi, altri ormai da più anni, con ragionata passione e intelligente
entusiasmo lavorano all'opera comune; e sono indispensabili. Formazioni
culturali diverse, diverse fedi politiche o nessuna; diversissime esperienze
personali; e fra tutti un'idea, combattere la mafia fino in fondo.
Una scarica di mitra può essere il loro premio domani; o la piccola
angheria quotidiana, o anche perdere il pane; non aiuta la carriera, dirsi dei
Siciliani. Eppure sono qui, ogni giorno più saldi e più decisi, con la ragione
e col cuore. Il progetto dell'Associazione è opera loro, e loro la gestione di
questo nuovo fronte di lotta. Il giornale è la voce, loro l'organizzazione:
l'una e l'altra al servizio non d'un qualunque ristretto obiettivo di parte ma di
tutti i siciliani liberi ed onesti. Perché stavolta non si tratta di cambiare in
superficie, si tratta di fare una Sicilia ben differente.
Ringraziamo infine i lettori, i nostri amici lettori, che son qualcosa di
molto diverso dai lettori di un giornale comune. Chi legge "I Siciliani" non
lo fa per ingannare il tempo, la fa per sentirsi ed essere partecipe di qualcosa
che vive e può cambiare la sua vita. Pochissimi giornali hanno avuto, nel
tempo, una tale fiducia e una tale responsabilità. Noi facciamo il possibile
per mostrarcene degni; se non sempre ci riusciamo, non è per difetto di
volontà o eccesso di presunzione. Ci siamo trovati a reggere una bandiera
molto più grande di noi; ma nessun altro poteva raccoglierla, fuorché noi.
Così, se non ci ha trovati sempre all'altezza del compito, il lettore dia pure
la colpa alla nostra inadeguatezza; ma se legge in noi qualcosa di non
indegno, dia tutto il merito a chi ci ha insegnato questo mestiere.
Perché di Giuseppe Fava, per quanto di buono esso contiene, è questo
nostro lavoro; perché tuttora suo è questo nostro giornale; e più alta di
prima, sconfiggendo sicari e mandanti, parla da queste pagine la sua voce.
Certo, ci sarebbero da aggiungere molte cose, qui, su quel che è successo
in queste settimane, sui fatti, sulle parole, e sui silenzi. Silenzio sui
Cavalieri: citati da Dalla Chiesa quando Santapaola cenava ancora alla Perla
Ionica con Graci o con Costanzo (in non miglior compagnia essendo i
rimanenti, Rendo e Finocchiaro), questi nomi non sono stati fatti, salvo che
da pochi giornali, anche ora che Santapaola latita con altri trecento: perché
fare quei nomi voleva dire andare oltre. Silenzio su chi li ha combattuti:
perché fare quel nome voleva dire riconoscere che il male avrebbe potuto
essere stroncato in tempo. E dunque, rimozione: e questo sarebbe il
momento di denunciare questa rimozione, e di combatterla con buoni
argomenti.
Ma tutto sommato, non ne vale la pena. Tutto sommato, non vale la pena
di spendere grandi parole quando la situazione si è fatta ormai così chiara,
che non resta altro che scegliere.
Ed è una scelta semplice: o la Sicilia dei Cavalieri, o la Sicilia di
Giuseppe Fava. Tutto il resto son parole.
Oggi, cinque gennaio, saremo in piazza, i siciliani onesti, per ricordare un
uomo. Un uomo, e la sua lotta: cos'altro si può dire? Tutti sappiamo di che
si tratta. Ritroviamoci dunque tutti insieme; questa sera, e nelle migliaia di
giorni che seguiranno. Perché ci saranno ancora migliaia di giorni, migliaia
di mattinate a Palazzolo, migliaia di dolci sere a Siracusa, migliaia e
migliaia di giorni sulla faccia della terra; e migliaia di speranze, passioni,
entusiasmi, delusioni, amicizie, progetti, ed ancora entusiasmi e delusioni, e
rinnovate speranze ed amore; e in ciascuna di esse ci sarà qualcosa di
Giuseppe Fava, qualche cosa di lui e di tutti gli esseri umani come lui.
E a questo, non potranno sparare.
UN VOLANTINO
dicembre 1984
IN PIAZZA CONTRO LA MAFIA
AL FIANCO DI GIUSEPPE FAVA
Il 5 gennaio i siciliani onesti saranno in piazza a Catania per ricordare un
uomo che ha avuto il coraggio della verità e per dire a tutti che la battaglia
di Giuseppe Fava continuerà finché la Sicilia non sarà libera dalla mafia.
Nel momento in cui sempre più decisivo si fa lo scontro e sempre più
vicina appare la possibilità di colpire non solo gli esecutori, ma le menti
politiche e finanziarie - a Palermo come a Catania - della piramide mafiosa,
bisogna che la Sicilia di Giuseppe Fava e di tutti gli altri combattenti
antimafiosi getti in campo tutta la propria forza, che oggi può essere
decisiva.
Bisogna ridare ai cittadini di Catania e di tutta la Sicilia la certezza dei
propri diritti, la possibilità di partecipare alle scelte essenziali per il proprio
destino, la capacità di progredire verso la soddisfazione dei bisogni
fondamentali dei lavoratori, delle donne, dei giovani, di tutti coloro che oggi
vogliono realizzare una convivenza sociale pacifica e rispettosa della
democrazia politica. Tutte queste esigenze sono oggi profondamente
mortificate da un blocco di potere politico-economico, espressione dei
grandi gruppi finanziari, de settori dell'apparato statale e del sistema politico
dominante, che per connivenze, compiacenze e insipienze si pone come il
principale nemico delle giuste aspirazioni del popolo siciliano.
In questo spirito, facciamo appello a tutti i cittadini onesti senza
distinzione di parte e a tutte le organizzazioni democratiche e antimafiose,
affinché dimostrino con la loro presenza a Catania il 5 gennaio che la lotta
di Giuseppe Fava è anche la loro lotta.
L'Associazione "I Siciliani"
UNA LAPIDE
5 gennaio 1985
"Qui è stato ucciso
Giuseppe Fava
La mafia ha colpito chi con coraggio
l'ha combattuta, ne ha denunciato le
connivenze col potere politico ed
economico, si è battuto contro
l'installazione dei missili in Sicilia"
Gli studenti di Catania
UN VOLANTINO
marzo 1985
CONTRO LA MAFIA PER L'UNITA'
Le elezioni amministrative del 12 maggio rappresentano una scadenza
molto importante. Esse contribuiranno certamente a indicare la possibilità di
sconfiggere il sistema di potere mafioso che - con precise responsabilità dei
partiti di maggioranza e nell'inerzia di quelli dell'opposizione - ha gettato
nel baratro la nostra città ponendo il "Caso Catania" all'attenzione dell'intero
Paese.
Con questo invito alla riflessione ci rivolgiamo a tutte le forze sociali e
politiche che intendono opporsi a questo sistema di potere, a tutti coloro che
- ciascuno a suo modo - si sono riconosciuti nella grande manifestazione
popolare del 5 gennaio.
Ad essi, e a tutti i cittadini consapevoli della gravità della situazione, noi
diciamo che non è il momento di dividersi. Occorre impedire che false
operazioni di "rinnovamento" servano a legittimare "nuovi" personaggi
politici il cui obiettivo è ancora e solo quello di perpetuare le vecchie
logiche.
Il blocco di potere mafioso, al di là dei contrasti contingenti, è unito
attorno ai propri interessi. Bisogna che anche l'opposizione democratica sia
unita. Bisogna che tutte le espressioni della Catania antimafiosa e
progressista riescano a superare settarismi e diffidenze per concentrare le
forze sull'obiettivo comune: cacciare la mafia, rinnovare la città. Questo
obiettivo passa anche attraverso le istituzioni.
Noi riteniamo quindi che queste elezioni debbano essere affrontate dalle
organizzazioni e dai partiti antimafiosi in una maniera nuova: con una sola
lista, unitaria, aperta e senza simboli di partito.
Una lista caratterizzata anzitutto dalla volontà di tutti coloro che lavorano,
che studiano, che vogliono vivere in una città civile, che non incanalano
necessariamente il proprio impegno nei partiti: da tutti coloro che sono
decisi a lottare per il cambiamento.
Una lista nelle cui persone e nei cui programmi possano riconoscersi i
giovani, i lavoratori, le donne, tutti i cittadini che credono nella Catania del
5 gennaio: su questo preciso obiettivo si misurerà l'impegno di ciascuna
forza politica contro il potere mafioso ed occulto, in tutte le sue forme
criminali, imprenditoriali, istituzionali e politiche.
L'Associazione "I Siciliani"
ANTIMAFIA, UNA NUOVA FRONTIERA
I Siciliani, 1985
La cosa, a un dipresso, funziona così: dopo essermi fatto i miei bravi
miliardi con gli appalti e con l'eroina, io mafioso metto su un'azienda che
impiega, poniamo, duecento persone. Tu Stato ti poni il problema di
sequestrarmela in base alla legge La Torre. Io rilascio, o faccio rilasciare,
un'intervista in cui minaccio di chiudere tutto e mandare tutti a casa. A
questo punto tu sei costretto a fermarti e a pensarci su due volte. Difatti,
oltre che sull'aiuto dei politici, dei giornalisti e dei magistrati che io pago, io
posso contare, contro la Stato, anche sulla solidarietà oggettiva dei miei
duecento dipendenti e delle loro duecento famiglie. Il gioco è facile: appena
uno dei miei magistrati mi avverte che tira brutta aria, io ordino ai miei
giornalisti di scatenare una campagna "per la Sicilia diffamata" e ai miei
amici politici di "difendere l'economia siciliana". Così potrò continuare
tranquillamente a sfruttare i miei duecento operai (che i miei amici non
mancheranno di dissuadere energicamente, per esempio, dall'iscriversi alla
Cgil), a spacciar droga ai miei duecentomila ragazzini e a mantenere la
popolazione delle mie tre regioni - Campania, Calabria e Sicilia esattamente ai tre ultimi posti dell'economia nazionale.
Diversamente andrebbero le cose se, il giorno dopo l'uscita della mia
intervista, ai cancelli della mia azienda si presentassero il signor sindaco o il
signor prefetto, con tanto di fascia tricolore e di decreto di requisizione, e,
convocato il consiglio di fabbrica, comunicassero che dalle ore tali del
giorno tale, la gestione dell'azienda risulterebbe affidata all'organo da esso
designato. In questo deplorevole caso, non solo mi sarebbe impossibile
usare ancora il ricatto della disoccupazione, ma sarei costretto a mettere una
certa distanza fra me e i miei stessi operai, liberi finalmente di esprimere
apertamente la loro personale opinione sugl'imprenditori mafiosi, e su chi li
protegge.
Quando si comincerà effettivamente ad applicare la legge La Torre in
Sicilia? Sappiamo che buona parte degli enti pubblici che hanno avuto a che
fare con la legge hanno fatto il possibile per sabotarla; fino a questo
momento, del resto, l'utilizzazione concreta della La Torre è stata
abbastanza episodica, legata più alla buona volontà di magistrati locali che a
un piano organico e coordinato.
Si sono avuti casi, al confine fra l'insipienza e ilsabotaggio, che fanno
chieder in quali mani sia andata a finire, a livello amministrativo,
l'applicazione quotidiana della legge. Senza riandare alle circolari
interpretative, in qualche caso scandalose, a suo tempo emanate dai vari
ministeri e dai vari assessorati, basti pensare che forniture di macchine da
scrivere, per una ventina di milioni, effettuate dalla Olivetti di Ivrea a un
ente pubblico siciliano sono state bloccate in attesa che si stabilisse se la
Olivetti di Ivrea è una azienda mafiosa o meno.
Peggio ancora, si può dare benissimo il caso - e in effetti non è detto che
non si sia dato - di una cooperativa agricola, composta da un duecento
contadini, che abbia bisogno di un mutuo regionale l'acquisto di un trattore
che venga invitata a presentare - a spese della cooperativa - duecento
certificati per attestare come nessuno dei duecento soci abbia mai avuto a
che fare con la mafia. E mentre i duecento contadini, maledicendo la legge
antimafia e chi l'ha inventata, aspettano il loro trattore, i finanzieri mafiosi
continueranno tranquillamente, in assenza di un'applicazione efficiente e
rapida della legge La Torre, a spostare i loro capitali da una banca all'altra: a
tutt'oggi, non esiste una banca dati computerizzata, a disposizione della
magistratura, in grado di seguire i movimenti dei capitali sospetti che la
legge La Torre dovrebbe, in teoria, controllare.
Quando poi, grazie all'eccezionale impegno del magistrato e, diciamolo
pure, a un bel po' di fortuna (perché ci vuole anche fortuna per riuscire a
concludere qualcosa con i mezzi che hanno a disposizione i magistrati
siciliani) si riesce a mettere sotto sequestro un'azienda mafiosa, si verificano
situazioni paradossali, come nel caso di un'azienda agricola - di rispettabili
proporzioni - dei boss mafiosi Greco che, posta sotto sequestro, non si sa
bene a chi affidare per la custodia giudiziaria che, in questo caso, equivale
ad una vera e propria, sia pur provvisoria gestione. Non è facile trovare,
infatti, un professionista del ramo che abbia il coraggio di intromettersi in
un affare dei Greco; d'altra parte, a questo professionista, non si può dare
altra remunerazione che le poche migliaia di lire giornaliere previste dalla
legge per i custodi giudiziari.
In queste condizioni, può benissimo andare a finire, e non si vede
logicamente perché non dovrebbe, che un'azienda del valore di decine di
miliardi venga, in mancanza di meglio, affidata alla stessa custodia dei due
o tre motorini sequestrati dal pretore, il giorno prima, per eccessiva
rumorosità...
Tutto questo, mentre lo scontro fra le forze antimafiose e quelle schierate
- nella politica, nelle istituzioni, nella stessa magistratura, nella stampa - a
difesa degl'interessi mafiosi non solo non è ancora deciso, ma tende a
radicalizzarsi: a parte l'eliminazione fisica degli operatori del diritto più
esposti, una vera e propria campagna d'opinione viene periodicamente
sollevata da ambienti ben determinati, con mezzi notevolissimi e precise
scelte di tempo, per isolare i magistrati leali.
Nonostante tutto questo, la posizione della struttura mafiosa è
intrinsecamente, rispetto ai movimenti sociali emergenti, molto meno forte
di quanto non possa sembrare. Nel giro di non più di uno o due anni - la
campagna contro la magistratura antimafiosa è finora infatti sostanzialmente
fallita - le condizioni per una reale gestione della legge molto probabilmente
ci saranno, e a quel punto il problema non sarà più solo di contrastare i
sabotaggi "di principio" di questo o di quel pubblico ufficio, ma di riuscire
ad utilizzare fino in fondo tutte le potenzialità della legge.
Viviamo in una regione che è leader mondiale della produzione di eroina,
esattamente come gli Stati Uniti lo sono per le automobili o il Giappone per
l'elettronica. Questo dato elementare, prima ancora di ogni indagine a
carattere penale, ci fa dire che l'economia regionale è "mafiosa": non nel
senso che tutte le sue componenti, o la maggior parte di esse, siano legate
alla mafia, ma nel senso che ciascuna di esse opera in un mercato in cui i
capitali più numerosi e più agili vengono, ragionevolmente, dal settore
leader - per avventura, illegale... - dell'economia locale. Non tutti gli
industriali piemontesi sono azionisti della Fiat, ma è indubbio che il sistema
economico di quella regione sia basato sulla Fiat. Da noi, anziché la Fiat, c'è
la mafia.
Il problema non è dunque solo giuridico - individuare le responsabilità
personali nei singoli episodi criminosi - ma anche e soprattutto economico
e, in senso lato, politico; esso consiste nel riconvertire l'economia siciliana
dalle attuali strutture segnate da questa accumulazione originaria ad altre
legate a forme di accumulazione e a settori produttivi legali (ovviamente, si
tratta di "riconvertire" anche le sovrastrutture politiche che su un tale
sistema economico si sono sviluppate... ). Un'impresa di queste dimensioni
non può essere improvvisata sotto la pressione delle circostanze; dev'essere
programmata nel lungo periodo, preparando per tempo gli strumenti
necessari e programmando la loro efficacia non solo sui casi singoli ma sul
complesso del sistema.
In questa situazione, il problema della gestione delle strutture economiche
- sempre più, presumibilmente numerose e sempre più complesse - che si
riuscirà, mediante la legge penale, a sottrarre al controllo della mafia sarà
non soltanto importante, ma decisivo: sarà l'unica maniera per giungere non
solo a una sconfitta "militare" della mafia, ma allo sradicamento dalle sue
basi economiche e quindi politiche nel Paese.
Quale gestione? Non tocca a noi proporre le scelte tecniche da adottare:
nelle sedi competenti sarà indubbiamente possibile individuare quelle più
efficienti sul piano gestionale e più garantite sul piano istituzionale. Due
punti ci sembrano tuttavia, indipendentemente da ogni questione tecnica, da
sottolineare.
In primo luogo, la gestione delle imprese di grosse dimensioni sequestrate
ai mafiosi dovrà avere, per sua natura, un carattere di emergenza, e non
potrà quindi essere assorbita dagli attuali carrozzoni "di risanamento" più o
meno assistenziali (non prendiamo nemmeno in considerazione l'idea di un
intervento degli assessorati regionali). Si potrebbe pensare piuttosto, per
esempio, a qualcosa come un secondo commissariato, parallelo a quello per
il coordinamento della lotta antimafia; o, comunque, ad un organo
straordinario e dipendente dal governo centrale.
In secondo luogo, la gestione dovrebbe essere in ogni caso coordinata, e
se possibile direttamente affidata, con gli organismi rappresentativi
aziendali esistenti, o da istituire, nelle aziende in questione. Ciò al duplice
scopo di coinvolgere concretamente il più gran numero possibile di
lavoratori nel cuore della lotta antimafiosa e di formare progressivamente, a
partire dal mondo del lavoro, una nuova classe dirigente siciliana, in
possesso di precise competenze tecniche, di ampi poteri decisionali e di una
ideologia collettiva indissolubilmente legata alla lotta antimafiosa.
Saranno questi gli uomini che potranno dare una base di massa alla lotta
contro la mafia, coloro che realmente la vinceranno; a noi - magistrati,
giornalisti, funzionari fedeli, politici d'opposizione - che cerchiamo di fare il
nostro dovere qui ed ora tocca semplicemente di tenere le posizioni fino a
quel momento. Come altre volte nella storia, una minoranza risoluta non
può rovesciare l'oppressione; ma può preparare le condizioni perché siano le
masse a farlo.
Ci piacerebbe se, su questa proposta, altri siciliani volessero intervenire.
Una proposta "giacobina"? Forse. Ma è che la rivoluzione francese, in
Sicilia, non l'abbiamo mai fatta; e il risultato si vede. Sarebbe ora di
cominciare a pensarci.
SICILIANI GIOVANI
settembre 1984
Siciliani/giovani ha una "politica" molto semplice e chiara, e cioè: primo,
schierarsi apertamente contro la mafia; secondo, affrontare liberamente tutti
i problemi dei giovani: Quanto alla politica ufficiale, quella dei partiti, non
siamo né favorevoli né contrari. Semplicemente, non è il nostro campo; chi
vuole affrontarlo, può farlo a titolo personale (del resto ci sembra che in
questo momento la lotta alla mafia e per una migliore condizione di vita dei
giovani siano la cosa fondamentale, senza la quale tutto il resto è poesia.
Ma allora a che serve Siciliani/giovani?
A dare la parola alla gente, a fare parlare i ragazzi in prima persona,
direttamente e senza bisogno di nessuno. E quindi a farli contare nella
società. Noi non siamo qualunquisti, non diciamo che tutto è uguale e che
non vale la pena di far niente. Però non siamo nemmeno ideologici,
vogliamo imparare dalla realtà e dalla gente e non dai professionisti della
politica.
In tutto questo cosa c'entrano "I Siciliani"?
"I Siciliani" da soli possono riuscire a denunciare la mafia, ma non a
creare una mentalità antimafiosa. Non si tratta solo di distruggere la mafia,
ma anche di costruire qualcos'altro. Questo qualcos'altro non lo possiamo
inventare a freddo, ma deve venire dalla gente, e specialmente dai giovani,
liberamente e senza prediche inutili. Si tratta di sviluppare al massimo grado
la creatività di ciascuno, perché ciascuno è in grado di contribuire e d'altra
parte nessuno oggi è in grado di costruire qualcosa di buono da solo. Si
tratta in sostanza di capire come si può fare a vivere meglio, non nelle
grandi teorie, ma nella realtà di ogni giorno.
Ma questo è un giornale o un'organizzazione?
Non lo sappiamo ancora, probabilmente può diventare l'uno e l'altra. Ma
attenzione: un giornale di tipo nuovo, e cioè assolutamente libero e fatto
dalla base; e un'organizzazione di tipo nuovo, senza ideologie fisse e
soprattutto senza professionisti, ideologie e leaderini. Un'organizzazione
tutta da inventare.
E come si può fare a mettere in piedi questa organizzazione?
Non ne abbiamo la più pallida idea. A questo dobbiamo pensarci tutti,
strada facendo. Finora abbiamo i gruppi di lavoro su argomenti concreti e il
collegamento fra gente di varie scuole. Questo non è venuto fuori perché
qualcuno l'ha detto, ma semplicemente perché erano il modo più semplice di
affrontare le cose da fare. Anche quando si tratterà di organizzarsi in
maniera più ampia, bisognerà continuare a seguire questo metodo, e cioé:
prima i problemi concreti: a secondo dei problemi, il tipo di organizzazione,
senza troppe teorie.
Si è parlato pure di manifestazioni.
Una manifestazione seria si potrebbe fare, in tutta la Sicilia, per il cinque
gennaio: purché non sia una semplice manifestazione ma un modo di
ricordare a tutti "tutti" i nostri problemi, da quelli della mafia a quelli della
vita quotidiana. Ma anche in questo caso, andiamoci per gradi: prima
bisogna che si sia d'accordo tutti e che si discuta fra tutti per tutto il tempo
che ci vuole. Non bisogna imporre mai niente "dall'alto" a nessuno.
Ma come facciamo a essere certi di non venire strumentalizzati?
Per quanto riguarda noi Siciliani, non abbiamo interessi elettorali, quindi
il problema si pone solo fino a un certo punto. Quello che vogliamo fare lo
diciamo apertamente e chiaramente, e non crediamo che possa far paura a
nessuno che abbia un minimo di buonsenso. La parola "Siciliani" appartiene
a tutti, comunque la pensino su tutto il resto, purché siano d'accordo che
bisogna eliminare la mafia. "Siciliani" non è un generale che comanda, è
semplicemente una bandiera. Dove portarla, dipende da tutti noi.
E gli altri?
Per gli altri, non possiamo farci niente. Ognuno ha il diritto di parlare, e
noi non possiamo censurare nessuno. Sta a noi ragionarci sopra, scegliere
fra le varie proposte e, in caso di contrasti, decidere in assemblea. C'è solo
da ricordarci che, in ogni caso, le cose importanti non sono le grandi parole
ma i fatti concreti, anche se si notano poco.
UN VOLANTINO
novembre 1984
L'attuale classe dirigente inefficiente e corrotta ha provocato la gravissima
crisi della città di Catania e di tutta la Sicilia: per questo si leva oggi una
volontà popolare di sopravvivenza e di lotta. Essa si è espressa con la
massima chiarezza nelle giornate catanesi per Giuseppe Fava. Essa non può
aspettare.
L'Associazione "I Siciliani" nasce per raccogliere questa volontà, per
darle corpo e voce, per organizzarsi con tutti coloro che vogliono
apertamente combattere il sistema di potere mafioso e i suoi alleati. non è
un partito politico, non chiede potere né voti. Chiede a ciascun siciliano di
prendere il proprio posto in un movimento democratico che affronti i nodi
centrali della lotta contro la mafia e della questione morale.
L'Associazione "I Siciliani", raccogliendo il messaggio di Giuseppe Fava
e di due anni di lotta del suo giornale, ha lo scopo di promuovere in Sicilia
il libero ed effettivo esercizio della sovranità popolare, a tutti i livelli; di
opporsi ai blocchi di potere mafiosi ed a tutte le forze palesi ed occulte che
di fatto ostacolano l'attuarsi dei principi fondamentali del dettato
costituzionale; di tutelare in tutte le sedi l'esercizio dei diritti civili, eticosociali, economici e politici.
L'Associazione intende, in particolare, vigilare sul funzionamento
democratico delle istituzioni; chiedere l'applicazione della legge La Torre e
battersi per l'individuazione di sistemi democratici di gestione dei patrimoni
mafiosi sequestrati; lottare contro la diffusione del mercato della droga;
creare le condizioni per la formazione di centri autogestiti per il tempo
libero dei giovani; rompere le barriere dei ghetti dando voce agli emarginati:
con questo obiettivi e con altre battaglie concrete che scaturiranno dai
problemi reali della gente, l'Associazione "I Siciliani" intende contribuire
alla lotta contro la mafia e alla costruzione di ina Sicilia migliore.
Facciamo appello a tutti i cittadini, di ogni orientamento ideale
democratico, affinché aderiscano all'associazione, ne organizzano sedi locali
e ne sviluppino l'iniziativa in ogni città ed in ogni paese della Sicilia.
Associazione I Siciliani
UN VOLANTINO
1985
Gli imprenditori catanesi arrestati da Carlo Palermo (miracolosamente
sfuggito, durante le indagini, ad un attentato che ha fatto tre morti) sono
accusati di reati molto gravi: associazione a delinquere e organizzazione di
una colossale truffa in combutta con gruppi mafiosi trapanesi. Quanti
miliardi ha perso la collettività con questa truffa? Quali uomini politici se ne
sono resi complici? E, soprattutto: come venivano riciclate le colossali
somme così guadagnate?
E' questo che adesso bisogna sapere: in questa direzione stanno ora
indagando i giudici trapanesi, e anche alcuni giudici di Catania dove una
truffa analoga ("fatture false") era stata messa in piedi, secondo il giudice
istruttore, dagli stessi imprenditori.
Queste indagini sono l'occasione buona per chiarire finalmente l'origine e
i meccanismi di buona parte del potere politico e finanziario della città di
Catania, di cui si sono occupati Carlo Alberto Dalla Chiesa ("Da Catania
alla conquista della Sicilia") e Giuseppe Fava ("I quattro cavalieri
dell'apocalisse mafiosa"). Sarà possibile anche chiarire i rapporti fra i centri
del potere occulto e alcuni imprenditori catanesi (il nome di Rendo è stato
trovato nell'agenda personale di Gelli; è ancora oscuro il ruolo di Graci
nell'affare Sindona). E chiarire infine che rapporto c'è fra tutto questo e
l'enorme potenza accumulata in tutt'Italia (vedi blitz di Torino e Milano)
dalle Famiglie mafiose catanesi.
Di fronte a indagini così importanti e così decisive, qual'è l'atteggiamento
del potere politico? Per il sindaco di Trapani "la mafia a Trapani non c'è";
per l'onorevole Drago "non esiste mafia a Catania"; per il sindaco Attaguile
c'è da preoccuparsi per l'arresto di questi "imprenditori"; per il presidente
della Regione ci vogliono "dei fatti che giustifichino gli arresti" (quelli che
si sanno evidentemente non bastano); per il presidente del Banco di Sicilia
l'imprenditoria siciliana è "sana" anche se soffre delle malefatte di qualche
"forza marginale"; secondo "La Sicilia" si tratta di "semplici evasioni
fiscali"...
E' un'intera classe dirigente che, dopo averne coperto per decenni le
malefatte, cerca ancora disperatamente di difendere come può
gl'imprenditori sott'accusa. Non si tratta solo di cinismo: è la totale
irresponsabilità e l'assoluta mancanza di ogni senso della realtà in chi
dovrebbe "difendere l'economia" e addirittura "difendere l'occupazione".
L'una e l'altra sono per fortuna in condizioni di essere difese ben
diversamente...
I lavoratori e le forze produttive della città, contrariamente a quanto
scrivono gli articolisti de "La Sicilia", non versano affatto nell'"incertezza
psicologica" e non rimpiangono affatto i cavalieri. I catanesi andranno
avanti senza di loro, e svilupperanno così finalmente tutte quelle energie
produttive che il blocco di potere incriminato da Carlo Palermo aveva finora
compresso ed emarginato. La storia di Catania comincia ora.
Associazione I Siciliani
UN VOLANTINO
1985
NOI E "LORO"
C'è un sacco di gente a cui non sta affatto bene che i ragazzi siciliani
stiano allegri, si divertano e cerchino di riprendersi in mano la propria vita.
Proviamo a fare qualche nome:
- i mafiosi come Santapaola, Ferlito e Ferrera, che "mantengono l'ordine"
(assieme ai vari colonnelli Licata) nei quartieri, ammazzando chi si ribella o
si fanno i miliardi con l'eroina;
- i politicanti come Aleppo e Drago, che da un alto danno i contributi ai
mafiosi e dall'altro dicono che "la mafia non esiste";
- i padroni come Rendo, Graci, Costanzo o Finocchiaro, che licenziano gli
operai, vanno a braccetto con i mafiosi e poi si incazzano se qualcuno gli
chiede da dove vengono tutti quei soldi;
- i giornali come "La Sicilia", che fanno casino quando trovano un
ragazzo con un po' di fumo, ma di fronte a mafiosi e cavalieri se ne stanno
zitti.
La mafia non danneggia le persone importanti, ma va avanti sulla pelle di
tutti noi. Allora, ricordiamo quelli che hanno avuto il coraggio di lottare
contro la mafia, appoggiamo quelli che continuano a lottare ancora ma,
soprattutto, organizziamoci nella nostra vita quotidianamente per non subire
prepotenze da nessuno e per vivere come desideriamo noi, non come
vogliono gli altri.
E per cominciare, fra un mese tutti in piazza per il centro giovanile
autogestito.
Siciliani/Giovani
UN VOLANTINO
1985
I CAVALIERI IN GALERA
L'arresto dei cavalieri dimostra la validità della lotta portata avanti da
Giuseppe Fava, dal suo giornale "I Siciliani" e da tutti gli antimafiosi di
questa città. E' stato ordinato dal giudice Carlo Palermo, che i mafiosi
(anche catanesi) hanno cercato di uccidere poco tempo fa. Dev'essere un
punto di partenza per ricostruire Catania su basi completamente diverse.
Questa città, in mano ai cavalieri e ai loro amici, è diventata il paradiso dei
mafiosi, dei corrotti, dei politicanti disonesti e dei trafficanti di droga. Una
città in cui per i giovani non c'è il minimo spazio e la minima speranza di
vivere bene.
Ora bisogna cominciare a far valere i diritti di noi giovani catanesi.
Vogliamo una città che non ci emargini in continuazione, una città in cui i
giovani contino e possano portare avanti i loro bisogni e le loro idee. A
partire dalla conquista di un posto tutto per noi, un centro giovanile
autogestito per discutere e organizzare le cose nuove e per passare il nostro
tempo liberamente e insieme.
Siciliani/Giovani
Questo non è un volantino elettorale
UN VOLANTINO
1985
L'ALTRA SICILIA E LA SUA VOCE
I Siciliani Settimanale: un giornale che, dopo aver lottato per anni contro
il potere mafioso e i suoi complici, vuole "alzare il tiro" diventando la voce
degli studenti, degli intellettuali, dei lavoratori, delle donne, di tutti coloro
che giorno per giorno, nel silenzio della stampa ufficiale, costruiscono le
basi della Sicilia di domani. Il giornale di Giuseppe Fava.
I Siciliani S.p.a.: l'editore collettivo (cinquemila azioni a centomila lire
l'una, cinquemila siciliani combattivi) che porta avanti, senza padroni e
senza padrini, questa civile avventura.
Ne parleremo lunedì 16 dicembre alle ore 17 alla facoltà di Lettere con
Davide Fais, padre Pintacuda, Aldo Rizzo, i redattori dei Siciliani e quelli di
Siciliani/Giovani. Interverranno magistrati, uomini di cultura, esponenti del
movimento studentesco palermitano. E tutti i palermitani che credono in
un'altra Sicilia - e vogliono darle una voce.
I Siciliani
Siciliani/Giovani
UN VOLANTINO
1985
Per la prima volta in Italia un movimento giovanile comincia al Sud e si
sviluppa verso il Nord. Il movimento dei ragazzi dell'85, infatti, trova la sua
radice nella mobilitazione antimafiosa degli studenti di Napoli, Palermo e
Catania negli ultimi tre anni. Come mai? Evidentemente, i giovani
meridionali hanno capito prima degli altri che lottare contro le
malformazioni delle strutture scolastiche non basta, se dopo la scuola si è
condannati a restare senza lavoro; e che lottare contro la disoccupazione
non è sufficiente, se non si aggredisce la struttura di potere e sottopotere
mafioso che, soprattutto al Sud, mortifica lo sviluppo economico e i livelli
occupazionali ed i livelli occupazionali.
Non è un caso che le tre regioni in cui il potere mafioso è più forte siano
quelle che, negli ultimi anni, sono precipitate agli ultimi posti del reddito
nazionale. Non è un caso che in queste regioni decine di migliaia di miliardi
vengano tenuti inutilizzati nelle banche a fornire interessi per gli
speculatori, anziché essere investite per dare lavoro ai giovani.
Occorre che il movimento contro la mafia si traduca anche in movimento
per il lavoro. In che modo?
- applicando seriamente e dappertutto la legge La Torre;
- gestendo le imprese sequestrate agli imprenditori mafiosi secondo criteri
sociali, e cioè usandole anche per aumentare l'occupazione giovanile;
- sviluppando, sull'esempio della Campania, una serie di centri sociali in
cui i giovani possano liberamente incontrarsi, di carattere e sviluppare
insieme le iniziative contro la mafia e per il lavoro;
- pretendendo che le risorse finanziarie pubbliche non utilizzate (in Sicilia
sono circa dodicimila miliardi...) vengano destinate ad affrontare non
episodicamente né clientelarmente la pressante richiesta di lavoro dei
giovani nel Sud.
APPUNTI PER SICILIANI/GIOVANI
promemoria interno, 1985
Intanto, sta succedendo qualcosa. Che cosa esattamente, è ancora presto
per dirlo, e probabilmente non ha nemmeno tanta importanza. Di certo c'è
che dopo tanti anni è finita l'epoca del "riflusso" (farsi i cazzi propri e non
pensare al resto) e che molti ragazzi, adesso, ricominciano a prender gusto a
fare le cose insieme, piccole o grandi che siano.
Tutto questo, naturalmente, per i moderati vuol dire "vogliamo studiare e
non fare politica", per il Pci "le masse giovanili bla bla", per gli autonomi
"la rivoluzione bla bla bla", e così via. Per me vuol dire semplicemente che i
giovani, o almeno una buona parte di loro, stanno ricominciando a pensare
con la propria testa e a fare esperienze. Dove andrà a finire tutto questo non
lo so; l'importante, è starci dentro con fiducia e senza ideologie preconcette.
"Un altro sessantotto"? No, e nemmeno "un'altra qualsiasi cosa": il bello
del sessantotto, ai suoi tempi, era proprio che era una cosa nuova, non una
ripetizione di altri tempi. E così, se il movimento di adesso durerà, sarà
"questo" movimento, del 1985, non un revival del passato. Poi, fra
vent'anni, magari gli daranno un nome.
I ragazzi di Milano o quelli dei Segnali d'Accelerazione di Napoli hanno
con la "politica" un rapporto, a quel che se ne può capire, molto maturo.
Non sono qualunquisti, ma neppure vanno dietro ai partiti: "moderati" o
"estremisti" a secondo dei casi, non fanatici, difficili da strumentalizzare; in
questo, assomigliano molto a Siciliani/giovani nell'84.
Non stanno partendo, del resto, dalla "grande politica" ma dai problemi
concreti della vita quotidiana: credo che, via via che il movimento andrà
avanti, i "problemi concreti" si allargheranno (studiare con meno tasse, ma
poi dove fare musica, e poi dove passare il tempo, e dove fare l'amore, e
dove lavorare senza raccomandazioni...), e spero che stavolta si riuscirà ad
allargarli senza finire in ideologismi vari.
Ma la novità più grossa, rispetto ai vecchi temi, è che stavolta il
movimento si è visto prima in Sicilia e poi a Milano. Nell'82 sono
cominciati i cortei antimafia nelle scuole di Palermo. Nell'83 la lista di base
allo Spedalieri. Nel gennaio 84 le assemblee per Giuseppe Fava. Nel
maggio il corteo antimafia a Roma. In autunno Sicliani/giovani a Catania, e
poi la manifestazione del 14 dicembre e quella del 5 gennaio. All'inizio
dell'85 le manifestazioni studentesche contro la mafia a Milano, sulla scia di
quelle siciliane. E solo adesso, a Milano e poi in altre città del Centro-nord,
il movimento è partito su altri temi.
L'impressione è quella di una grande voglia di contare che cresce un po'
dappertutto a poco a poco, e che viene alla luce prima nei luoghi in cui i
problemi sono più gravi e si vive peggio - in Sicilia - e poi negli altri. In
Sicilia, cioè, siamo stati costretti ad affrontare prima dei problemi più
grossi.
C'è questo filo fra ciò che sta succedendo a Milano e il nostro movimento
dell'anno scorso, e noi Siciliani abbiamo quindi ancora molte cose da dire, a
noi stessi e agli altri. E possiamo avere fiducia nella continuità del
movimento in Sicilia, anche se ora sembra addormentato.
Dell'"addormentato", del resto, la responsabilità è soprattutto nostra. Se si
ferma la Fgci si fermeranno i simpatizzanti comunisti, se si fermano gli
autonomi quelli "estremisti". Ma se ci fermiamo noi, il guaio è più grosso,
perché noi siamo gli unici che possono farsi sentire (non essendo un partito)
da tutti gli studenti.
Noi abbiamo cominciato con molti fatti (14 dicembre e 5 gennaio) e
poche parole. poi, pochi fatti e poche parole. Ora, niente fatti e poche
parole.
In realtà, noi abbiamo fatto dei grossi passi avanti nei settori, come il
giornale, che richiedono poche persone "specializzate". Siamo invece
rimasti indietro nelle cose in cui è necessario coinvolgere molti: sei mesi fa
aprivamo nuove sedi, eravamo presenti dappertutto ed intervenivamo su
ogni cosa. Adesso abbiamo perso quasi completamente il contatto con i
ragazzi delle scuole (quelli che ci sono, evidentemente, non trovano spazio
da noi perché partecipano poco) e abbiamo perso la nostra componente
"estremista", che era pure importante.
Intanto, bisogna intervenire subito nella scuola a partire dal fatto che c'è
aria di movimento. A questo punto, dobbiamo intervenire non tanto sulla
questione delle tasse scolastiche, quanto su un allargamento del dibattito.
Come al solito, per fortuna, non abbiamo ricette miracolose da proporre:
possiamo però segnalare quello che succede, dare voce, fare circolare le
idee, segnalare i problemi concreti della nostra vita. E poi aspettare con
pazienza.
Come primissima cosa, ci vuole un bel volantino. Non tanto per il
volantino in se stesso, quanto per riabituare la gente a vederci in giro, e
soprattutto per riabituare noi stessi a farci vedere in giro, che è il nostro
compito principale.
Poi, possiamo metterci in contatto direttamente coi ragazzi di Milano presso Radio Popolare - e di Napoli - Segnali d'accelerazione,
Coordinamento antimafia - e vedere cos'hanno da dirci; proporre uno
scambio di idee, ed eventualmente delle iniziative parallele, a una stessa
scadenza. Rispetto a queste realtà "lontane", noi abbiamo più difficoltà di
collegamento immediato rispetto ai partiti politici, perché ci mancano gli
strumenti tecnici che essi hanno; però, una volta che il collegamento sia
stato stabilito, abbiamo una credibilità molto maggiore, proprio perché noi
non siamo un partito politico ma un'espressione di base. Rispetto a Milano,
a Napoli e a qualunque altra situazione possiamo e dobbiamo presentarci
senza timidezze, per imparare qualcosa da loro ma anche per insegnare la
nostra esperienza, che non è da sottovalutare.
Più in generale, dobbiamo finalmente abituarci a parlare con tutti senza
timidezze e ritrosie. Secondo me è sbagliato non intervenire - per esempio alla festa dell'Unità per paura di "fare politica". In realtà noi, concretamente,
abbiamo fatto e facciamo molta più "politica" (nel senso migliore della
parola) dei partiti tradizionali: abbiamo perciò il diritto, e forse anche il
dovere, di dire quello che sappiamo e che abbiamo sperimentato senza
timori di "strumentalizzazioni" e senza complessi di inferiorità nei riguardi
di nessuno.
Sia per la questione del movimento (volantini ecc.) che per il giornale e il
resto, dobbiamo fare delle scelte organizzative semplici e precise, senza le
quali non andremo molto lontano.
In primo, luogo è assurdo continuare a organizzarci come se un liceale di
diciassette anni e un universitario di ventitrè fossero la stessa cosa. A partire
da ora, i ragazzi delle scuole che fanno parte di Siciliani/giovani debbono
cominciare ad organizzarsi da soli gli interventi sulle varie scuole e decidere
autonomamente le cose da fare; magari faranno degli errori qua e là, ma
almeno non saranno più a rimorchio dei "grandi"; e certamente, con la loro
spontaneità, avranno anche qualcosa da insegnare a tutti gli altri. Questo
vuol dire che i "ragazzini" faranno la loro riunione a parte, ogni settimana
(naturalmente continueranno a partecipare anche all'assemblea generale): se
lo vorranno, si faranno aiutare anche da qualcun altro, ma sotto la loro
responsabilità.
In secondo luogo, abbiamo perso buona parte dei contatti che avevamo
costruito in Sicilia (e che erano uno dei nostri maggiori successi).
Dobbiamo prendere sistematicamente l'abitudine, quando facciamo una
cosa, di fare un giro di telefonate fuori Catania per comunicarla e invitare a
generalizzare le iniziative anche in altre città.
A Palermo, in particolare, c'è un gruppo di Siciliani/giovani agguerrito ed
efficiente, sotto alcuni aspetti più avanti di noi; eppure, a parte il giornale,
non siamo mai riusciti a farci un'iniziativa in comune. A partire dal
prossimo volantino, bisogna intervenire contemporaneamente nelle due
città, tenendosi in contatto quotidiano per telefono e delegando una persona
a questo specifico compito.
Sui centri giovanili abbiamo fatto moltissime parole e ben pochi fatti.
"Fatti" può voler dire: affittare un locale; utilizzare una piazza; fare
occupazioni simboliche alla palermitana. Ciascuna di queste soluzioni ha i
suoi pro e i suoi contro, ma il fatto è che noi in realtà non ne abbiamo
sperimentato nessuna.
A questo punto, proporrei di organizzarci su un'ipotesi precisa:
organizzare per il 10-15 dicembre, una seconda festa di Siciliani/giovani
ma stavolta in un locale utilizzabile come centro giovanile, in modo da dare
un esempio concreto di come il centro potrebbe funzionare. Fare un piccolo
passo, farlo!
Ammettiamo, per esempio, che decidiamo di fare la festa alle ciminiere.
In questo caso:
- per prima cosa, convochiamo una riunione di tutti i gruppi interessati sul
tema preciso "come passare tre giorni alle ciminiere";
- dopo fare domanda al comune; se il comune l'accetta, bene; se non
l'accetta saremo sempre in tempo a cambiare obiettivo, ma almeno avremo
impostato un dibattito e avremo cominciato a lavorare con altri su un
obiettivo preciso e non su un'idea in generale.
Come dovrebbe essere la festa? Intanto, dovrebbe essere organizzata
come la precedente, ma meglio. Finanziamento con le sponsorizzazioni;
gruppi musicali meglio scelti; presentazione seria (possibile Minà);
panineria; interventi nostri meglio preparati.
In secondo luogo, non dovrebbe essere solo la nostra festa, ma dovremmo
organizzarla fin dal primo momento insieme con la Comunità S. Pietro e
Paolo (ed eventualmente altri "non partitici").
Infine, non dovrebbe essere solo una festa. Tre giorni di musica, ma
attorno alla musica cinque o sei attività da centro giovanile, scelte in base
alla partecipazione della gente fra quelle che abbiamo elencate nel paginone
di giugno. Spazi e angoli per attività specifiche, angoli di ritrovo, e così via.
Far vedere insomma come potrebbe essere concretamente un centro
giovanile a Catania. Meglio tre giorni di centro giovanile "vero" che tre
mesi di mini-centro in un appartamento, in una piazza o in un pertuso.
Se avremo un minimo di abilità, e riusciremo a collegare la propaganda
per la festa e il centro con quella per il movimento (tasse e dibattito su
Milano, ecc.), i partecipanti all'iniziativa, fin dal momento organizzativo,
potrebbero essere molti: a condizione, al solito, di non mettersi a fare
ideologia.
A proposito di ideologia: io credo che un minimo di "ideologia" di
Siciliani/giovani (quella che ci distingue da ogni altro gruppo organizzato)
esista. Ed è la lotta alla mafia. Lotta alla mafia non vuol dire solo lotta alla
delinquenza, che è la parte meno profonda di essa. Vuol dire lotta a una
situazione in cui la Sicilia non parla di mafia, la Regione dà i soldi ai
mafiosi, l'onorevole dice che la mafia non esiste, i cavalieri vengono protetti
dalle autorità, e così via. Magari è una cosa banale, che abbiamo detto tante
volte (e su cui è nato Siciliani/giovani). Ma è bene ripeterla, anche perché
negli ultimi tempi, sia per I Siciliani che per Siciliani/giovani, queste cose si
sono sentite un po' meno del solito. Ora, è vero che "la lotta alla mafia non
basta", che bisogna fare proteste concrete in positivo; ma senza lotta al
potere mafioso tutto il resto è poesia. Se fossimo in Polonia, noi diremmo
"vogliamo vivere meglio, ma prima via i russi"; se fossimo in Cile
"vogliamo vivere meglio, ma via la dittatura". In Sicilia la mafia ha colpito
più che in Polonia e più che in Cile. "Vogliamo vivere meglio, ma via i
mafiosi e tutto il loro potere!".
Questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Non dobbiamo far finta di essere
in una situazione "normale", perché la mafia è ancora là, e uccide e
comanda: e se non la combattiamo noi che siamo I Siciliani (e
Siciliani/giovani dovrebbe essere la punta avanzata dei Siciliani), non si
vede chi dovrebbe farlo.
Sia quando facciamo volantini che quando organizziamo una festa,
perciò, noi dobbiamo sapere - e dobbiamo dire! - che stiamo facendo questo
in questa situazione. Non credo che questo spaventerà la gente. Noi il 14
dicembre e il 5 gennaio siamo stati molto "estremisti" in questo senso,
eppure la gente è venuta, molto più di quando ci siamo "moderati". Questo
ci dovrebbe far riflettere. Non abbassiamo mai la nostra bandiera, perché ci
sono molti che credono in essa, anche se non si vedono: e senza di loro
resteremmo davvero soli.
Potremmo prendere in considerazione l'idea di fare una manifestazione
(ma di tipo nuovo, come quella che voleva fare Antonio Scuderi in
primavera) in coincidenza con la prima giornata della festa; in ogni caso,
dobbiamo cominciare a prepararci alla manifestazione del cinque gennaio,
per la parte che ci riguarda. L'anno scorso, il cinque gennaio noi non ci
siamo limitati a "commemorare", ma abbiamo portato avanti delle proposte
precise: per esempio, "via i cavalieri". Siciliani/giovani è stata la prima
organizzazione ad avere il coraggio di attaccare pubblicamente i quattro
cavalieri).
Quest'anno, io penso che "via i cavalieri" - che bisogna ripetere - non
basta più: il cinque gennaio potrà essere anche una giornata di proposte sui
nostri problemi; sarebbe bello, nel corteo, dare un volantino (o addirittura
un giornale) che faccia una serie di proposte precise sui centri giovanili,
sulle scuole, sulla vita quotidiana e così via. Naturalmente, non devono
essere le proposte di una o dieci persone: debbono essere il frutto di un
dibattito con molti giovani, che bisogna cominciare a lanciare nelle scuole
di Catania.
Questo dibattito, l'intervento nelle scuole, la festa, le eventuali
manifestazioni non sono tante cose separate. Sono tanti modi di esplorare la
stessa realtà, e vanno tenute in contatto fra loro, e in contatto ancora più
stretto col nostro giornale.
Il giornale è molto cambiato, in bene e in male, rispetto ai primi numeri.
In male, vale quello che sappiamo per la parte organizzativa di
Siciliani/giovani: collabora meno gente "qualunque", ed è molto minore il
legame con i ragazzi delle scuole; è inutile ripetere tutto quello che s'è detto
sopra, basta dire che questa situazione può essere superata abbandonando le
timidezze e la paura di "fare movimento" e tornando allo spirito d'iniziativa
che avevamo una volta.
Di buono, c'è che ora il giornale può contare su un nucleo redazionale
abbastanza consapevole, con un minimo di serietà e su qualche idea chiara
su come si fa un giornale. Possiamo cioè dire che adesso esiste una
redazione di Siciliani/giovani. Questa può essere una forza, se riusciremo a
"usare" la redazione senza separarla dal movimento; se invece la redazione
del giornale sarà l'unico aspetto di Siciliani/giovani, avremo fatto tanto
lavoro solo per formare alcuni giornalisti, il che sarebbe davvero triste. Si
tratta dunque - non è una novità, ma è lo stesso fondamentale, non solo per
Siciliani/giovani - di unire intelligentemente professionalità e
"dilettantismo".
La redazione potrebbe essere composta - questa è soltanto una proposta,
ma dobbiamo cominciare a discutere anche sui nomi - dalle seguenti
persone:
Gianfranco Faillaci, Salvo Ferrara, Edoardo Frivitera, Ester Saitta, Piero
Cimaglia, Massimo Arcidiacono, Rosalba Cannavò, Dante Cristina, Renata
Grillo, Fabio D'Urso, Antonella Mascali. Questo è un elenco minimo di
nomi, che può senz'altro essere completato con l'aggiunta di chi intende far
parte della redazione; ma ai suoi componenti si richiedono delle cose
precise: la presenza in sede o fuori almeno tre giorni alla settimana, in
giorni e orari precisi, a turno; la partecipazione al lavoro redazionale
collettivo, in stretto contatto con i responsabili di turno e comunque in stato
di reperibilità; la disponibilità a svolgere gli incarichi redazionali che via via
saranno assegnati (servizi, inchieste, giri di cronaca, ecc.). Ad essi, va
aggiunto almeno Nuccio Fazio, come fotografo.
La redazione deve organizzarsi in maniera autonoma, nella seguente
maniera:
- due responsabili, a turno, per la durata di un mese, che coordino (sempre
sotto l'approvazione dell'assemblea) il numero in corso e ne rispondano;
- un redattore che coordini le lettere e le storie di vita (la quarta pagina);
- un redattore che si occupi di sollecitare e ricevere i pezzi da fuori
catania, e che si tenga in contatto con la redazione palermitana;
- tre redattori che, a turno, si occupino di leggere i giornali cittadini,
segnalare i fatti di cronaca più utilizzabili e andarli ad approfondire, tenere
il contatto con le fonti d'informazione;
- un redattore che si occupi di seguire le notizie della scuola;
- un redattore che si occupi di seguire le notizie dall'università;
- dei redattori che lavorino su settori particolari, come musica e sport.
Come avevamo stabilito in precedenza, l'organizzazione del giornale
dev'essere il più possibile democratica. Non potremo ricominciare a votare i
singoli pezzi, ma su richiesta anche di uno solo dei componenti dei
Siciliani/giovani l'assemblea potrà intervenire per eliminare un pezzo e
suggerirne un altro; l'assemblea continuerà ad aver luogo ogni venerdì
pomeriggio, e continuerà ad avere potere decisionale nei confronti del
giornale e del resto. E' importante però cominciare a lavorare sulla base di
incarichi precisi, in modo che ognuno possa occuparsi bene di un settore
preciso.
In generale, la ripartizione del giornale potrebbe essere così organizzata:
- prima pagina, i pezzi più importanti (con giro in ultima);
- pagina due, cronaca (relativamente a problemi giovanili);
- pagina tre, musica, sport e altri settori specifici (pagina due può
"invadere" parte di pagine tre, e viceversa);
- pagina quattro, storie di vita e rubriche.
I pezzi da fuori Catania andrebbero ripartiti fra le pagine esattamente
come quelli catanesi.
Il "servizio" (di due cartelle, massimo tre) dev'essere la struttura portante
del giornale. Tre servizi bastano a fare l'ossatura di un numero, se sono
completi e interessanti. Il tema di un servizio dev'essere il più possibile
mirato: più è specifico l'argomento e più è interessante; più persone, storie,
interviste ci sono dentro e più è leggibile.
E' inutile fare qui un elenco degli argomenti su cui si può fare un servizio.
La cronaca, la lotta alla mafia, i movimenti giovanili, lo sport, la musica, il
corpo, la vita quotidiana possono essere altrettanti settori generali all'interno
dei quali cercare spunti da approfondire. E' importante invece imparare a
sviluppare un'idea. Fino a questo momento, abbiamo curato poco il
momento dell'intuizione, l'abbiamo trattato in modo approssimativo e
disordinato; adesso dobbiamo cercare di analizzare sistematicamente il
processo da formazione delle idee.
All'inizio c'è l'idea!, e può averla chiunque, in tante forme diverse. "La
Plaja è un posto poco sicuro", "come si fa a diventare giornalisti?", "chi è il
padrone della centrale del latte?", ecc.
Da questa prima intuizione, bisogna passare alla fase successiva, che non
è ancora il pezzo, ma il "promemoria" (8-10 righe) sul contenuto del pezzo.
Infine, il pezzo vero e proprio.
Un buon metodo di lavoro, quando qualcuno ha un'idea, anche
strampalata, è di appuntarla immediatamente su un pezzo di carta, così
come viene, e poi di arricchirla di qualche particolare, senza approfondirla
troppo, in modo da avere un primo promemoria. Poi vedere cosa c'è da fare
(interviste, notizie, ecc.) per mettere in pratica il promemoria, e solo alla
fine cominciare a scrivere il pezzo.
Quanto al pezzo, la prima stesura dev'essere il più possibile spontanea,
libera; nella rilettura bisognerà invece limare, tagliare, e rimontare tutto in
modo da avere un inizio vivace e non lasciare che l'attenzione del lettore si
addormenti.
Dopo i servizi vengono i materiali da fuori redazione: corrispondenti,
notizie dalle scuole, collaboratori saltuari. Questo materiale (per lo più brevi
pezzi) dovrà essere riveduto con molta attenzione, possibilmente dalla
stessa persona, in modo da comporre tanti frammenti omogenei fra loro.
In particolare, le storie di vita dovrebbero rappresentare (molto più che
sull'ultimo numero) un carattere tipico del nostro giornale. La storia di vita
può essere scritta da chiunque; se si riesce a pubblicarla mantenendone il
carattere di spontaneità, dà un tono vivace al giornale, corregge l'eventuale
eccesso di "serietà" dei servizi e soprattutto evita che il giornale sia fatto
solo dai soliti redattori. Specialmente per i ragazzi più giovani, è un inizio
fondamentale; difficilmente avremmo potuto sviluppare una redazione se
non avessimo cominciato con questo tipo di scrittura, alla portata di tutti e
tale quindi da creare fiducia in chi scrive e da costituire un primo tipo
d'esperienza.
Infine, le rubriche. Possono essere spazi "tecnici" (mercatino, salute, ecc.)
o contenitori più ampi (spazio donna, se riusciremo a farlo), ma in ogni caso
rappresentano un appuntamento che contribuisce a mantenere il lettore
legato al giornale.
Non è il caso di dilungarsi oltre sull'organizzazione del giornale di cui
avremo modi di parlare quotidianamente nella pratica. Vorrei insistere però
sul fatto che questa redazione, oltre che ben organizzata, dev'essere aperta,
cioè portavoce di tutti coloro che nella redazione non ci sono; e che questo
giornale, oltre che un buon giornale, dev'essere un giornale in movimento,
cioè espressione di ciò che succede fra la gente e degli obiettivi e delle
speranze di coloro che vogliono migliorare la vita: a partire, naturalmente,
dai Siciliani/giovani e dalle loro iniziative.
Un buon giornale, delle idee per un movimento, delle iniziative concrete e
rivolte a tutti, un collegamento con quelli che ci assomigliano nelle altre
città, una denuncia continua (e non noiosa) del potere mafioso, una buona
organizzazione generale: se riusciamo a tenerci su questi binari, in quindici
faremo un ottimo lavoro e nei vari momenti riusciremo a mobilitare molte
più persone. Se ci baseremo soprattutto sulla fantasia e sull'inventiva, sulle
idee nuove e non sui regolamenti, sull'ottimismo creativo e non sulla
difensiva, riusciremo senz'altro a fare qualcosa che duri.
Il giornale - come la cooperativa che dobbiamo costituire al più presto e
come tutte le altre forme organizzative - dev'essere insomma uno strumento
per fare delle cose, e non una gabbia per dividerci quelli che sono fuori.
4 CHIACCHIERE SU...
promemoria interno per SicilianiGiovani, 1985
La maggioranza del corteo è meridionale? Se è così, vuol dire che è
abbastanza realistico pensare che il movimento è cominciato in Sicilia
(perché proprio in Sicilia? Riflettere...) e che evidentemente nei cortei
dell'83-84 non c'era solo un "contro-la-mafia" ma anche un "per-qualcosa"
da identificare. Ovviamente non sappiamo ancora (lo ripeterò fino alla
nausea) che cosa, e del resto non tocca solo a noi scoprirlo. Però, anche a
noi. (Parentesi: in ogni caso, è provato che i giovani meridionali sono
disponibili a ragionare (di mafia, e poi di tasse, e poi della qualunque) se
solo si rispettano i loro tempi e gli si da fiducia).
Contemporaneamente (inchiesta Amnesty Int.) pare che a Catania il 50%
dei giovanissimi sia per la pena di morte. Inciviltà e immaturità "politica"?
Eppure, sono gli stessi che fanno i cortei: a quanto pare, si può essere
"maturi" su alcuni temi, e "immaturi" su altri. Domanda numero uno:
continuerà così in eterno, e prima o poi i livelli di coscienza si
unificheranno? Domanda numero due: che facciamo se diciamo che siamo
contro la pena di morte e loro non ci battono le mani?
(Parentesi. Ci sono due modi di strumentalizzare un movimento. Uno:
"evviva, evviva, è il sessantotto". Due: "meno male, non è il sessantotto").
La soluzione ideale è, banalmente, di ragionare con la propria testa
fottendosene del sessantotto-non sessantotto. In realtà questo è il 68 (o l'89,
o il 71 - in cui è nato Fabio - o una qualsiasi altra data "storica") se vuol dire
che è un anno di cambiamento. Non è il 68 (o il 78 o il 128 o un qualunque
altro modello fuori produzione) se vuol dire fare il remake di un film già
visto, e dare potere a chiunque non sia il movimento di ora.
(Parentesi. Ragionare con la propria testa non è semplice. Però non c'è
altra via. Farsi domande, non dare nulla per scontato, e soprattutto le cose
"normali". "E' normale" vuol dire "Sono pigro". Pensare come se il mondo
cominciasse ora. In realtà, comincia ora).
Un buon obiettivo, in generale, sarebbe l'unità. Fra chi la pensa in un
modo e chi in un altro (e chi pensa di non pensare). Fra i problemi grossi e
quelli piccoli. Fra quello che siamo e quello che che possiamo essere. Fra
quelli come noi e quelli no. Fra quelli con cui stiamo bene e quelli con cui
litighiamo. Ogni unità in meno indebolisce tutti. Noi non siamo completi.
Nessuno, da solo, lo è.
E' stata una giornata violenta, il 16 dicembre? Violentissima, a Roma e
altrove. A Roma, c'era un giudice che doveva stare lì per forza, sennò gli
ammazzavano la figlia. A Napoli, una tizia è stata costretta a prostituirsi per
avere un po' di droga. A Catania, un'impiegata è stata costretta a dire cose
che non pensava, per evitare il licenziamento. A Treviso, una ragazzina ha
avuto problemi per il suo ragazzo, perché era meridionale: a Canicattì,
un'altra, perché "faceva la bottana". A Perugia, un ragazzo è stato costretto a
passare il pomeriggio da solo, in quanto omosessuale; a Bagheria, un padre
di famiglia è stato costretto a comportarsi da vigliacco davanti a tutti,
tacendo alcune cose che sapeva. A Catanzaro, un brillante matematico è
stato costretto a fare il manovale, perché a tredici anni doveva lavorare. A...
Ma tutto questo è successo anche ieri e l'altro ieri e succederà domani.
Come si suol dire è "normale". E - "normalmente" - non è violenza...
In tutti questi casi, la polizia non interviene, i giornali non parlano, non si
formano movimenti. E' "ingenuo" chiedersi perché? E' "inutile"? E in
questo momento, leggendo queste cose, state perdendo tempo rispetto al
vostro lavoro? E, infine: ce la fate a leggere una cosa in cui ci sono tutti
questi punti interrogativi? Vi sareste sentiti più tranquilli con un po' più di
punti esclamativi? (e fra parentesi: e fra noi, c'è violenza? Ne siete proprio
sicuri? Che rapporto c'è fra la violenza in noi e quella fuori?). E infine: siete
già stanchi di porvi - e farvi porre - domande?
Attenzione: Forse tutto questo è politica...
APPUNTI
gennaio 1986
Cercare di capire che cosa è successo in questi due anni. Non ho le idee
chiare su tutto, ma non credo che questo sia un male. Abbiamo bisogno
d'individuare delle tendenze, non d'inventarci un'analisi globale che
probabilmente, in questo periodo, finirebbe per essere più una palla al piede
che uno strumento di lavoro. Le cose vanno troppo in fretta per poterle
fotografare davvero.
Si tratta dunque d'individuare rozzamente dei primi dati, e di svilupparli
in continuazione, via via che l'esperienza procede; senza pretendere di
ricavarne una "linea", ma piuttosto delle direzioni di ricerca. Questa ricerca,
che è uno dei compiti fondamentali di questi anni, non può essere, per sua
natura, che collettiva. Ma se all'interno di essa dovessi sintetizzare un
contributo personale, potrebbe essere il seguente: non aver paura delle "cose
strane" - cercarne le radici - fare politica su di esse.
La lotta alla mafia, infatti, o è politica o è polizia. O riesce a liberare
qualcosa che ne superi i confini, o prima o poi rifluisce in una generica
richiesta di "ordine pubblico". Da Santapaola si può arrivare, nella testa
della gente, tanto agli scippatori quanto ai ministri; quello che non si può
fare è fermarsi a Santapaola.
Per questo, più che di "lotta alla mafia", noi abbiamo sempre parlato di
"lotta al potere mafioso"; e abbiamo introdotto concetti e parole (gli
"antimafiosi") che vanno ben al di là del puro significato tecnico per
suggerire qualcosa di più ampio e radicale. La parola "antifascista", a suo
tempo, indicava di più che la generica opposizione a un regime; solo più
tardi, debitamente castrata, è entrata nell'inoffensivo vocabolario di Palazzo.
Non credo che, per quel che s'è visto in questi anni, ci sia da farsi molte
illusioni sull'"impegno delle istituzioni" contro il potere mafioso. Ma anche
se un impegno ci fosse, le dimensioni della posta in gioco sarebbero
comunque tali da sfuggire completamente a ogni possibilità d'incasellarle
nell'ordinaria amministrazione degli equilibri politici. Esse hanno bisogno,
per essere affrontate (o anche solo percepite), di un vero e proprio
movimento popolare. Che si presenterà - se si presenterà - in modo "strano"
senza bandiere, molto prima nelle coscienze che nelle piazze; e non avrà
una risolutiva "ora X" ma una lenta e inframezzata costruzione.
Questo non vuol dire, naturalmente, che sia inutile il lavoro "diplomatico"
nelle istituzioni. Ma è un lavoro, per l'appunto, diplomatico,
complementare. Il lavoro reale sta altrove.
A questi criteri ho cercato, finché ho potuto di attenermi in questi anni;
ritenendo che le alternative "realistiche" (concentrarsi sul giornale; puntare
sui rapporti con le istituzioni "buone"; "non siamo più nel sessantotto";
insomma "l'uovo oggi e non la gallina domani") fossero più rassicuranti, più
semplici, ma anche più profondamente illusorie. E che convenisse dunque usando i rapporti istituzionali per tappare alla meglio i buchi - guardare in
faccia la realtà e mirare alto, considerando la nostra esperienza e il nostro
modo di pensare e la lotta antimafiosa e le stesse prospettive di vita del
nostro giornale indissolubilmente legate allo sviluppo del movimento
sociale e culturale che, secondo me, va annunciandosi in questi anni. Certo,
potrebbe essere un'utopia. Ma io credo ancora di no.
C'è una quantità di domande a cui non è stata data, fino a questo
momento, una risposta. E neanch'io presumo di darla, da solo, ma voglio
almeno pormi le domande.
Perché i movimenti antimafiosi, nei loro momenti più alti, sono stati così
"popolari"? Perché la gente - tanta gente, in certi momenti la maggioranza ha dato così tanta importanza alla "questione morale"? Perché il caso
Pertini? Perché la gente comune si allontana (tesseramento alla mano) dal
Pci ma si ritrova come non mai nella storia attorno ai funerali di Berlinguer?
Che cosa viene percepito, in un caso del genere, dell'uomo politico
Berlinguer? Cosa viene percepito politicamente voglio dire? Perché gli
studenti cominciano a muoversi in Sicilia due anni prima che nel resto del
paese? Perché le posizioni "estreme" vengono isolate nel caso della scala
mobile ma seguite nel caso della lotta alla mafia o della questione morale?
Perché adesso "salgono" Bobbio e Ingrao e "scendono" Natta o Lama?
Il movimento antimafioso: come mai sono riusciti a convivervi
tranquillamente, nei momenti alti, un'anima di "conservazione" ed una
"rivoluzionaria"? Cosa esattamente la gente teme della mafia? Perché non
tutti hanno un figlio tossicodipendente, e non tutti hanno molto interesse a
come vengono spesi i soldi degli appalti...
E ancora: cosa spera la gente dalla vittoria dell'antimafia? Mandare i
colpevoli in galera non è mai stato un obiettivo di alcuna lotta popolare, in
Italia: ma si tratta solo di questo?
E la gente che ha partecipato al movimento antimafia nelle varie grandi e
piccole occasioni, perché mai ha partecipato? Per quale motivo comune,
intendo? Perché gente diversissima, quanto a composizione e a radici
culturali; eppure, in certi istanti, s'è incontrata. Solo emozione? O che altro?
L'autonomo e il "moderato" sono tornati a litigare nei momenti bassi, di
riflusso. Ma prima stavano insieme. Come mai? E, più curioso di tutto: che
strane caratteristiche possono aver avuto in comune i "militanti" di questa
strana lotta - il professore di paese, il cattolico e quello che sottoscrive
l'azione - per impegnarsi, per qualche mese, a far delle cose insieme?
Sempre e solo "emozione", è la risposta ufficiale.
Ma io credo che ci sia qualcosa di più. Troppi di questi episodi,
individuali e collettivi, sono inspiegabili se non si pensa a qualcosa di più
profondo. Qualcosa che viene da molto lontano, con radici molto antiche
nel sentimento comune. In particolare, in Sicilia.
Qui, per la prima volta, è stato messo in discussione il potere. Perché è
come potere incontrollato, prima ancora che come "violazione delle leggi"
che la gente comune qui percepisce i Cavalieri. Ed è stato messo in
discussione esattamente là dove esso è più potente, dove maggiormente
pesa sulla vita quotidiana della gente, e dove più radicale e liberatorio
potrebbe essere il suo rovesciamento. Fuori della Sicilia questo significa che
per alcuni momenti la Sicilia è stata (se potrà tornare ad esserlo in futuro)
l'avanguardia o quantomeno la prima linea di una lotta che appartiene a
tutti; altro che "problemi del mezzogiorno" e "questione meridionale"! In
Sicilia, la percezione della questione è stata ancora più istintivamente, e
commoventemente, profonda: in alcuni momenti e luoghi la parola
"Siciliani" ha coinciso, senz'altre mediazioni, con la parola speranza.
Ognuno di noi ha ormai l'esperienza del primo impatto con l'assemblea di
una scuola, o d'un piccolo paese; e può agevolmente constatare come questo
impatto sia più carico di aspettative e di richieste, più "caldo" esattamente
nei paesi, nei luoghi e nei gruppi sociali in cui più forte e radicata era la
memoria di una qualche passata lotta e solidarietà civile. Ma se ognuno di
noi potesse avere anche l'esperienza umana di una qualunque di quelle
sconfitte e dimenticate lotte nei paesini della Sicilia, di tutte quelle speranze
via via sgretolate ogni volta, di generazione in generazione, ostinatamente e
faticosamente ricostruite, potrebbe avere il senso delle radici profonde della
"simpatia" verso i Siciliani, della solidarietà di tanta gente comune non dico
a quella che facciamo, ma certo a quel che in qualche modo rappresentiamo.
E potrebbe rendersi conto fino in fondo della responsabilità di dover gestire
tutto questo.
MILLE EDITORI PER I SICILIANI
novembre 1985
C'è Antonella che è dovuta andar via - scopo sopravvivenza - da Comiso,
la cerchi ora e "lei adesso lavora in Lombardia". Anche Antonella deve
campare, per questo se ne è dovuta andare a fare la maestra su al nord.
Come Fabio che era l'unico qui che riusciva a fare un pezzo sui punk, come
Francesco che faceva il sindacalista al paese, come Stefano che era uno dei
ragazzi della radio al quartiere... Mica facile restare al sud.
Poi c'è il professor Lomonaco, preside di scuola media, che ha una vera
scuola in pieno ghetto di Catania. C'è Gaetano Giardina, del Consiglio di
fabbrica dei Cantieri, che organizza gli scioperi contro la mafia nella città
dei Salvo. C'è l'ingegner Scuderi, che fa ricerca in aerodinamica
all'università di Palermo. Ci sono i liceali di Catania, che come movimento
studentesco hanno dato dei punti a Bologna. Ci sono cooperative e gruppi
ecologici, ci sono artisti e scrittori. Ci sono questi siciliani, e molti altri
come loro.
Essi, oggi come oggi, non contano. Non contano in Sicilia, e non contano
fuori. Troppo seri, per fare i siciliani. E' più semplice, per il vecchio
Palazzo, avere a che fare coi Lima. Ma se avessero una voce? Se potessero
discutere organizzarsi, confrontarsi, mettere insieme qualcosa? Se potessero
scoprire di essere loro, in realtà, la vera classe dirigente degli anni a venire?
Se, anziché carne da fabbrica senza difesa, il treno del Sole cominciasse a
riversare sul Paese idee vive, progetti, una nuova ragione?
A questo vogliamo che serva, partendo da questa Sicilia, questo nostro
giornale. E' un progetto molto ambizioso, culturalmente e materialmente.
Portarlo avanti da soli, non servirebbe. Per questo, dev'essere da subito un
progetto collettivo: a cominciare dall'assetto proprietario del giornale.
Il "padrone" de "I Siciliani" a questo punto non può essere un editore
come gli altri. Neanche più, come finora, la nostra cooperativa di tipografi e
redattori. Il ruolo storico di questo giornale, giunti a questa svolta, è ben più
grande di noi; non abbiamo il diritto di chiuderlo in noi soli. Editori de "I
Siciliani", nel senso letterale della parola, debbono essere tutti i siciliani
impegnati, tutti coloro che credono in ciò per cui lavoriamo.
Un editore collettivo composto da tanti cittadini proprietari di questo
giornale e di quest'idea; un capitale messo limpidamente insieme lira su lira,
con tanti diversi contributi; un'impresa cui possa partecipare chiunque se la
sente, ma su cui non possa speculare nessuno. E' una sfida contro i
monopolisti editoriali, contro i "comprati e venduti": ma è anche una precisa
chiamata in causa che noi in questo momento rivolgiamo ai nostri lettori.
Non bastano più solidarietà e simpatia: ognuno deve e può prendersi una
piccola ma concreta responsabilità. Noi facciamo la nostra parte; ma tu che
leggi devi fare, e non a parole, la tua.
La forma che i nostri legali hanno studiato per l'assetto proprietario del
giornale dà a ciascuno, adesso, la possibilità di assumersi questa
responsabilità secondo le proprie - piccole o grandi - disponibilità.
L'operaio, l'intellettuale, lo studente può diventare azionista, a tutti gli effetti
legali, con centomila lire; il consiglio di fabbrica, il circolo culturale, la
scuola può assumersi cinque, dieci, venti azioni; altre possono prenderne il
piccolo industriale, il commerciante, la cooperativa. Crediamo che per tutti particolarmente per coloro che già sono impegnati sul terreno del
rinnovamento civile - ci sia la necessità morale non solo di aderire
all'impresa, ma di farsene apertamente e attivisticamente promotori.
Nessuna scadenza "politica" e civile, in questo fine anno siciliano, è
infatti più importante di questa. Non il tentativo malcerto d'un pugno di
intellettuali, ma il cantiere in cui si fonda lo strumento della nuova cultura
siciliana e meridionale. Nessuno può mancare.
Questo giornale continuerà come e più ancora che in passato a far guerra
alla mafia e ai poteri occulti, in tutti i modi. La politica mafiosa,
l'imprenditoria mafiosa, le forme culturali mafiose - la mafia come potere continueranno ad essere al centro del nostro lavoro. Nel momento in cui il
riflusso (non della gente comune, ma di classi dirigenti e istituzioni) manda
a casa i giudici onesti e copre i miliardi dei mafiosi, noi continuiamo
semplicemente a fare il nostro mestiere, che è quello di informare la gente
su quel che succede. In una regione in cui i grandi mezzi di informazione
informano solo quando e quanto conviene, potremo sembrare troppo
intransigenti e - ci dicono - "eccessivi": ma qui d'eccessivo c'è soltanto la
realtà.
Ma i movimenti antimafiosi di questi anni (perché di movimenti s'è
trattato, com buona pace dei politologhi) non sono stati soltanto contro la
mafia, ma anche - confusamente - per qualcosa di nuovo, che ancora non si
riesce esattamente a definire, ma che ha già una sua vitalità. Qualcosa che si
muove nell'anima della Sicilia profonda.
C'è una nuova generazione di Siciliani, cresciuta negli anni di piombo.
Non li incontri solo nei cortei contro la mafia, ma anche e soprattutto nelle
mille occasioni della vita quotidiana: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei
laboratori di ricerca, nelle università, negli ospedali. Anni difficili li hanno
formati. Hanno imparato a diffidare delle parole e a esaminare
irriverentemente i fatti. Vogliono sapere cosa succede nei quartieri e nella
società, perché è così indietro la ricerca scientifica e così avanti
l'emarginazione, chi minaccia la tutela ambientale e come la si può
migliorare, di che cosa si discute realmente nei vari ambiti, chi c'è nella
cultura europea e cosa si può fare per la pace. Forse non hanno ancora molte
risposte da dare, ma sanno già porsi le domande. Vogliono essere informati,
non imboniti di parole. Noi lavoriamo con loro.
Noi abbiamo fede in questa generazione. Siciliana, e conseguentemente
europea. "Siciliana" a Palermo e Catania, ma anche - in un certo senso - a
Napoli o a Bologna o alla periferia di Milano. La parola Sicilia, in questi
anni, indica ben più che una terra. Primi nella barbarie, lo siamo altrettanto
nella lotta: siciliani gli imprenditori Salvo e i Greco, ma siciliani i Pio La
Torre e i Chinnici. Da qui la mafia può conquistare il Paese, ma qui può
nascere per tutti una nuova coscienza civile. Nel bene e nel male, mai più
saremo un'isola.
Abbiamo dunque il diritto di mantenere, nel momento in cui ci
espandiamo ben oltre i limiti regionali, il nostro vecchio nome di Siciliani.
Sicilia come Sud, Sicilia come luogo in cui si stronca per sempre la mafia o
la si lascia dilagare in tutta Italia, Sicilia come laboratorio in cui oggi o si
risolvono o si affossano definitivamente tutti i grandi problemi, le passioni e
le speranze non solo di noi siciliani ma dell'intera Nazione.
Cercheremo quindi di esprimere con l'esperienza di quattro anni di
mensile "I Siciliani" ma con la puntualità e la completezza che ora ci
consente il passaggio al settimanale, tutto l'arco dei temi che insieme
formano la nostra vita di questi anni. Le cronache gli avvenimenti, la vita
quotidiana nelle città e nei paesi, l'economia, la politica, il costume, gli
sport, la cultura, gli spettacoli, il tempo libero, la natura: nulla sarà
trascurato, ogni aspetto della realtà avrà su queste pagine la sua fedele
cronaca e la sua testimonianza. E la sua umanità. Noi non scriviamo sul
meridione del colonialismo culturale di chi calato qui da tre giorni già
presume di insegnarci cos'è il Sud. Noi scriviamo dal Sud. Condividendone
le pene e le passioni, pagandone il prezzo se occorre. La Sicilia di domani
sarà come noi tutti la costruiremo già oggi, nel vivo della lotta contro il
potere mafioso. Non ci basta una Sicilia senza mafia, vogliamo una Sicilia
che sorrida, una Sicilia giovane, europea. Per questo non saremo neutrali.
Gli appuntamenti per i nostri lettori cominciano già nei prossimi giorni e
settimane con le assemblee che terremo in tutte le città dell'isola e nelle
principali d'Italia per presentare il settimanale e la sua Società editrice. Ma
bisogna mobilitarsi già da subito per raccogliere le adesioni all'impresa de "I
Siciliani" e in particolare per diffondere e far sottoscrivere le azioni della I
Siciliani Settimanale SpA. Ogni lettore può esserne, nel suo ambiente di
vita e di lavoro, un socio fondatore; ogni gruppo di amici, un nucleo
organizzatore.
Saranno due mesi intensissimi, fondamentali per il successo del progetto.
Il settimanale comincerà ad uscire regolarmente a dicembre dopo la fase
"silenziosa" di organizzazione. Vogliamo che sia definitivamente lanciato e
presente dappertutto - e con una rete diffusa di azionisti e sostenitori - per il
cinque gennaio, in concomitanza con la grande manifestazione contro la
mafia con la quale ricorderemo il nostro fondatore.
Questi sono gli obiettivi, e siamo sicuri che lavorando tutti insieme li
raggiungeremo. Noi abbiamo fiducia nei Siciliani. Vogliamo esprimerla con
le parole di chi ha dato loro questo giornale, Giuseppe Fava.
"Dal fondo della sua antica, riconosciuta infelicità viene avanti, lottando
ogni giorno ed ognuno lottando per suo conto. Tutti i suoi ideali, l'odio e
l'amore, la pietà e la vendetta, sono ancora intatti e spesso ancora confusi e
terribili, ma tutti insieme formano una grande anima. E non c'è prezzo di
violenza o di dolore ch'essa non sia disposta a pagare, pur di conquistare la
sua dignità.
In verità non c'è in tutta Europa un popolo così orgoglioso e infelice,
come quello siciliano, che faccia tanto male a se stesso, ma non c'è
nemmeno un popolo che abbia tanta devozione alla sua terra, e che abbia
altrettanto coraggio di lottare per l'esistenza, tanta violenza, tanto amore per
la vita".
UN VOLANTINO
1986
MENO CELEBRAZIONI E PIU' LOTTA
La lotta alla mafia è già al riflusso? No. Al riflusso sono gli antimafiosi a
parole, gli intellettuali da convegno, le autorità del Palazzo. Per loro "non
c'è più niente da fare", "ormai la mafia ha vinto". Ma non è così. Per i
lavoratori, per i giovani, per le migliaia e le migliaia di siciliani onesti che
hanno risposto agli appelli di questi anni la lotta contro la mafia non è
affatto finita ed anzi, nella sua fase più decisiva, comincia ora.
Ricomincia senza retorica e senza grandi parole, senza aspettarsi nulla
dagli uomini del Palazzo e senza credere nelle promesse di quanti hanno
dimostrato di essere o impotenti o complici della mafia. Ricomincia con
alcuni obiettivi chiari, semplici e concreti:
- sequestrare le proprietà dei mafiosi e usarle per dare lavoro. C'è metà dal
fatturato siciliano o in galera o in procinto di andarci: la loro ultima carta, è
il ricatto della disoccupazione. Ma è possibile rompere questo ricatto
utilizzando bene la legge La Torre, combattendo insieme mafia e
disoccupazione.
- Pensare sul serio ai giovani siciliani. Hanno partecipato in tanti ai cortei
contro la mafia. poi sono tornati a casa ad aspettare la disoccupazione. Cosa
si è fatto per loro, dopo le belle parole? Esigiamo subito un centro giovanile
autogestito in ogni città siciliana. In edifici comunali: per stare insieme, per
avere un punto di riferimento, e per cominciare ad organizzare sul serio il
cambiamento.
- Conquistare la libertà di stampa. La libertà di stampa in Sicilia non
esiste. I padroni dei grandi giornali (quelli che si sanno) tutto sono fuorché
nemici della mafia. Bisogna lavorare subito, e tutti, per un grande giornale
popolare antimafioso, a partire da esperienze come I Siciliani di Giuseppe
Fava.
- Essere uniti come sono uniti i mafiosi. Non c'è più "vincenti" e
"perdenti", la mafia oggi è tutta unita attorno alla sua droga. Bisogna:
stabilire un coordinamento permanente fra le forze antimafiose delle diverse
città;; invitare fin d'ora tutti i partiti democratici e antimafiosi a presentare,
alle prossime elezioni, una sola lista, unitaria e sotto il segno della lotta alla
mafia.
Solo riprendendo e radicalizzando l'iniziativa popolare si può veramente
onorare la memoria di Dalla Chiesa, di Fava, di Zucchetto, di Cassarà e di
tutti gli altri caduti antimafiosi. Sostenere contro i sabotaggi del governo i
giudici e i poliziotti impegnati in prima fila; liberare i quartieri dalla miseria
e dalla paura; denunciare i complici dei padrini e cavalieri palermitani e
catanesi; alzare il tiro fino al terzo livello e ai poteri occulti che (come dice
Falcone) gli sono alleati; tornare senza paura nelle piazze. Su questi
obiettivi bisogna che gli antimafiosi siciliani riflettano, si organizzano
insieme e ricomincino a lottare.
UN VOLANTINO
1986
I SICILIANI ALLA MARCIA PER IL LAVORO
Per la prima volta in Italia un movimento giovanile comincia al Sud e si
sviluppa verso il Nord. Il movimento dei ragazzi dell'85, infatti, trova la sua
diretta radice nella mobilitazione anti-mafiosa degli studenti di Napoli,
Palermo e Catania negli ultimi tre anni. I giovani meridionali hanno capito
che lottare contro le malformazioni delle strutture scolastiche non basta, se
dopo la scuola si è condannati a restare senza lavoro e se non si aggredisce
la struttura del potere mafioso. E' necessario che il movimento contro la
mafia si traduca anche in movimento per il lavoro. In che modo?
- Applicando seriamente e dappertutto la legge La Torre.
- Gestendo le imprese sequestrate agli imprenditori mafiosi per aumentare
l'occupazione giovanile.
- Sviluppando una serie di centri sociali in cui i giovani possano
liberamente incontrarsi per sviluppare iniziative contro la mafia e per il
lavoro.
- Destinare le risorse finanziarie pubbliche non utilizzate (in Sicilia sono
più di 12.000 miliardi) ad affrontare non episodicamente né clientelarmente
la pressante richiesta di lavoro dei giovani nel Sud. Per questo aderiamo alla
Marcia per il lavoro che si terrà a Napoli il 10 dicembre.
UN VOLANTINO
1986
PERCHE' NON VOGLIAMO VIVERE CON LA MAFIA
Siamo qui perché non crediamo in questa Sicilia di mafia e di
raccomandazioni, la Sicilia dei cavalieri del lavoro e dei politici corrotti. Per
noi giovani questa Sicilia significa il ricatto del posto di lavoro, oggi sempre
più pesante, la mancanza di spazi dove vederci e dove comunicare e
conoscere le nostre iniziative musicali, teatrali, culturali.
Opporsi diventa essenziale. Bisogna costruire qualcosa di diverso. Creare
nuovi posti di lavoro con i beni sequestrati ai mafiosi in base alla legge La
Torre e con i 12.000 miliardi di "residui passivi" attualmente inutilizzati
nelle casse della regione siciliana; creare degli spazi e dei luoghi d'incontro
liberamente gestiti dai giovani.
Giuseppe Fava è stato ucciso da chi non vuole cambiare la realtà, per
dominarla col suo potere mafioso, con i soldi accumulati illegalmente, e
manipolando l'informazione. Giuseppe Fava è stato ucciso, ma noi siamo
qui per fare pesare la sua assenza e perché domani sia come se lui fosse
ancora vivo. Perché come lui ce ne siano altri mille. E a tutti, non potranno
sparare.
Siciliani giovani
UN VOLANTINO
gennaio 1987
Già da sei mesi "I Siciliani" sono assenti dalle edicole e, com'è evidente,
un giornale che non esce è già virtualmente un giornale morto. "I Siciliani"
sono infatti sul punto di chiudere. Un destino che aleggiava da anni sul
giornale e che oggi, in occasione del terzo anniversario dell'assassinio di
Giuseppe Fava, rischia di realizzarsi definitivamente.
La chiusura de "I Siciliani" sarebbe l'ultima di una lunga serie di sconfitte
del movimento antimafioso sorto in Sicilia - soprattutto fra gli studenti, ma
anche nel mondo del lavoro e in vari settori della società - all'indomani della
morte del generale Dalla Chiesa: un movimento che ha chiesto verità e
giustizia contro la mafia e le sue connessioni politiche e finanziarie, che ha
rivendicato i diritti più elementari calpestati dal sistema di potere mafioso,
che ha cercato di riempire di contenuti positivi e civili la propria
opposizione alla mafia e ai suoi potenti ispiratori. La chiusura de "I
Siciliani" sarebbe oggettivamente un ennesimo segnale negativo per la
gente che in Sicilia e nel Paese ha creduto in quegli ideali di giustizia e che
in questi anni ha letto sulle pagine del giornale la fedele cronaca e i
commenti ispirati da essi.
I redattori de "I Siciliani" hanno fatto quanto era in loro potere per
scongiurare una simile eventualità, ma nessun giornale al mondo può
sopravvivere indefinitamente senza adeguate risorse economiche e senza
pubblicità. Ancor oggi, la redazione è professionalmente in grado di
presentare un progetto tecnico-editoriale di rilancio del giornale - quello
diffuso contestualmente a questo documento - ma non di assicurarne una
pur limitata copertura finanziaria.
La chiusura de "I Siciliani" concluderebbe logicamente - se chiusura
dovrà esserci - l'operazione iniziata la sera del 5 gennaio 1984, a Catania,
con l'assassinio di Giuseppe Fava. Chiudere la bocca alla società civile
siciliana, non far parlare nessuno su quanto di nefando e delittuoso, ma
anche di positivo e civile, accade in Sicilia, abolire le voci della democrazia:
il silenzio era l'obiettivo di quella sera.
Contro questa logica di silenzio e di morte noi redattori de "I Siciliani"
chiamiamo a prendere posizione tutte le forze realmente democratiche:
vogliamo in ogni caso da tutti, e principalmente da loro, una risposta chiara
sul destino di questo giornale.
E' stata una solidarietà grande, in tutti questi anni, quella che centinaia e
centinaia di semplici cittadini hanno voluto riversare su questo giornale. Più
di mille abbonati hanno seguito "I Siciliani" in tutte le loro vicissitudini;
quasi seicento hanno risposto all'appello di sottoscrizione con cui,
esattamente un anno fa, chiedevamo il sostegno di tutti per dare una nuova
base economica alla nostra impresa. Ben diversa sarebbe stata la sorte di
questo giornale se il loro esempio fosse stato seguito da chi aveva i mezzi
per andare oltre la semplice attestazione di solidarietà.
Molte volte, in questi anni, abbiamo chiesto a tutte le forze democratiche
di dare un contributo al nostro lavoro. Si sono avuti, da parte loro, interventi
occasionali e contingenti ma privi di ogni coerenza e continuità. Oggi, un
istante prima della chiusura, non è più tempo per essi: si tratta di discutere
seriamente il nostro progetto giornalistico-editoriale, e di muoversi in
conseguenza. Non è in discussione la storia e il patrimonio ideale de "I
Siciliani"; si tratta di verificare se questo giornale possa finalmente avere la
continuità e la solidità che gli sono sempre mancati. Si tratta di capire se
esistono forze culturali, sociali, politiche democratiche che vogliono
condividere con noi lo sforzo di gestire e consolidare questa voce
antimafiosa.
E' questa l'ultima scommessa che facciamo con la nostra storia, circondata
spesso da scetticismi, sospetti e rimozioni. In gioco, stavolta, c'è l'essenza
stessa della democrazia: il pluralismo delle voci, la libertà di esprimerle,
l'antimafia non come rito d'occasione ma come spartiacque fondamentale
fra chi vuole cambiare le cose e chi no. Se "I Siciliani" spariranno dalla
scena definitivamente, vorrà dire che nessuno avrà raccolto il nostro
appello. E ciò rappresenterà un messaggio chiaro per una società che negli
ultimi mesi ha visto ricomporsi e ricompattarsi ordinatamente il vecchio
sistema di potere mafioso nelle due principali città siciliane.
I redattori de "I Siciliani" hanno avuto in sorte, in tutti questi anni, la
possibilità di collaborare a un'esperienza giornalistica fra le più ricche, nel
suo genere, e avanzate del Paese, e di contribuire in maniera decisiva al
rinnovamento della professione giornalistica in Sicilia: non solo mediante il
lavoro redazionale svolto, ma anche con la formazione di un consistente
nucleo di nuovi giovani giornalisti - a partire dall'esperienza di
"Siciliani/giovani", e poi col settimanale "I Siciliani" - il cui livello
professionale non è ormai inferiore, proporzionalmente all'esperienza, a
quello di nessuna realtà analoga in Sicilia. E' amaro rilevare come in
quest'opera di difesa e rinnovamento della professione i giornalisti de "I
Siciliani" non abbiano avuto al proprio fianco gli organi di categoria che
istituzionalmente avrebbero dovuto sostenerla.
Questo giornale è l'esempio di una lotta al potere mafioso condotta senza
mezzi termini e senza rispetti per nessuno: non limitata alla manovalanza
criminale di Cosa Nostra ma mirata ai massimi livelli, imprenditoriali e
politici; non ristretta a una semplice denuncia in negativo ma aperta alla
ricerca dei possibili assetti di una Sicilia nuova.
I movimenti giovanili e i loro luoghi d'incontro; il dramma della
disoccupazione e la possibilità di affrontarlo con una gestione alternativa
delle aziende sequestrate ai mafiosi; il dibattito nella società civile e le
nuove aggregazioni all'interno di essa: su ciascuno di questi temi "I
Siciliani" si sono impegnati non solo col giornale, ma promuovendo una
serie di spazi organizzativi - "Siciliani/giovani", l'"Associazione I Siciliani"
- che potessero contribuire, nel rispetto delle scelte ideali di ciascuno, a
coagulare nuovi livelli civili e culturali nelle componenti migliori della
società siciliana. Su tutti questi terreni, oltre che nella denuncia puntuale dei
vari nodi del potere mafioso, "I Siciliani" hanno lavorato con tutte le loro
forze, con alterni successi ma sempre con totale dedizione e in assoluta
autonomia politica e intellettuale.
Oggi che i poteri mafiosi vanno sempre più arrogantemente alla
restaurazione mentre sempre più evidente si la latitanza dello Stato, oggi
che i giudici onesti vengono sempre più risospinti nella loro solitudine
mentre gli amici di Lima e Drago tornano sul balcone, oggi che
nell'indifferenza generale si giustiziano i bambini nelle città siciliane, i
siciliani onesti hanno il dovere di non arrendersi, individualmente e
collettivamente, alla Sicilia del potere, di lottare contro di essa e di
contribuire a costruire, ognuno per la sua parte, la Sicilia di domani.
L'esperienza e le idee de "I Siciliani" sono tuttora un patrimonio comune
per tutte le componenti civili della società siciliana, e un punto di partenza
per tutti coloro che non vogliono rassegnarsi alla Palude.
Ridare ai giornalisti onesti la possibilità di fare onestamente il loro
mestiere, di informare senza censure su ciò che succede in Sicilia;
ricostruire pazientemente, con una rete larga e articolata di esperienze, di
dibattiti e di movimenti organizzativi, il tessuto della Sicilia civile;
continuare la lotta per la pace, contro la mafia, per il lavoro, per la tutela
dell'ambiente; muoversi coi giovani che ancora adesso, in Italia e altrove, si
affacciano disordinatamente ma con immensa forza di cambiamento nella
società; seguire le speranze che agitano l'umanità degli altri sud, delle altre
Sicilie del mondo; collegare tutte le forze di cambiamento, riflettere su tutte
le esperienze, andare avanti insieme: ciascun cittadino siciliano, ciascuna
forza antimafiosa, può ancora far molto, partendo anche dall'esempio de "I
Siciliani", su questa strada.
E' una strada, noi crediamo, non isolata e non perdente. Assenti le
istituzioni, contrastanti i partiti di governo, titubanti quelli di opposizione,
ostili o muti i grandi mezzi di informazione, in tutti questi anni tuttavia non
solo un piccolo gruppo di giornalisti, ma migliaia e migliaia di cittadini
hanno dato vita a qualcosa che non può essere cancellata dalla storia del
Paese.
C'è stato un movimento, in questi anni, in Sicilia, per la prima volta dopo
molti decenni: un movimento che partendo dalla mafia e dal potere mafioso
ha messo in discussione, senza zavorra d'ideologie ma con coerenza
profonda, gli assetti di società e di potere su cui si basano l'infelicità di
quest'isola e i mali oscuri dell'intero Paese. Di questo movimento civile,
indifferente al Palazzo ma profondamente radicato nella gente che vive
fuori, "I Siciliani" sono stati una voce, e forse anzi la voce. Ora, non
possono più esserlo da soli.
La redazione de "I Siciliani"
GLI ANNI DI GIUSEPPE FAVA
1986
Catania, un anno dopo l'effetto Dalla Chiesa, è ancora una città
militarmente occupata dalla mafia. Esaurita la guerra fra i SantapaolaFerrera e i Ferlito, esecuzioni sommaria (sovente precedute da tortura) e
sparizioni provvedono a ripristinare il "rispetto" fra la miserabile malavita
dei ghetti. La situazione politica, dopo la buriana provocata dall'intervento
di Dalla Chiesa sull'assessore Ferlito (parente del boss assassinato nel
giugno dell'82 sulla circonvallazione di Palermo), torna a stabilizzarsi
attorno ai vecchi assi del potere, basati essenzialmente sull'equilibrio fra i
notabili storici alla Drago e i giovani "emergenti" alla Andò; pochissimi gli
amministratori esenti da comunicazioni giudiziarie, ma assoluta fluidità nonostante questo, e forse proprio per questo - del meccanismo politicoclientelare.
Quanto agli imprenditori (i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa di
Fava) a suo tempo indicati dal generale come fruitori "del consenso della
mafia", mostrano - adesso - un'immagine d'ostentata sicurezza. Nessuno fa
più il loro nome in pubblico, e non solamente a Catania; accordi intercorsi
con alcuni gruppi editoriali assicurano loro l'amicizia non solo di una parte
della stampa isolana ma anche di quella nazionale.
Il fronte dei cavalieri è ben lontano, in questa fase, dall'essere omogeneo,
ma non esiste ancora, tuttavia, alcuna forza che abbia la capacità, o anche
soltanto l'intenzione, di puntare su queste divisioni per approfondirne i
contenuti e fare politica su di esse. Sui cavalieri, dunque, si è ridisteso il
silenzio: l'ordine regna a Catania.
Eppure, qualcosa si muove. A livello istituzionale, intanto, il dopo Dalla
Chiesa non è passato invano. Carabinieri e Guardia di finanza, in
particolare, passano sotto nuovi comandi; in prefettura, Abatelli lascia il
posto ad un "settentrionale"; gli ufficiali e i funzionari che negli anni passati
sono stati di fatto emarginati nell'ordinaria amministrazione e cominciano a
non sentirsi più isolato. Alcune indagini, sia pure messe in moto da Palermo
o da Roma, cominciano a lasciare il segno: Santapaola continua a restar
latitante, ma in autunno un'operazione combinata di carabinieri e Finanza
scompagina la "famiglia" Ferrera, il nucleo storico della mafia catanese; si
riesce a far mettere sotto sequestro i beni della "famiglia" Santapaola
(saranno peraltro dissequestrati a dicembre).
Questi primi timidi segni di disgelo nelle istituzioni incoraggiano, o
almeno non frenano come per l'addietro, ciò che - in maniera ancora
confusa e occasionale - s'agita nella coscienza cittadina. Catania non è città
mafiosa. L'immagine tradizionale che i catanesi hanno di se stessi è quella
di una città convulsa, senza grandi ideali, probabilmente cinica - ma non
violenta. Ancora nella metà degli anni settanta, la criminalità locale ha i
connotati culturali della malavita, non della mafia; catanesi sono
tradizionalmente i grandi truffatori e falsari, non i killer; sbarcano sigarette,
non eroina.
Con l'effetto Dalla Chiesa il catanese medio scopre improvvisamente la
realtà; la droga, la mafia, l'imprenditoria mafiosa. E' una realtà difficile da
accettare, che suscita nell'immediato un sentimento d'incredulità, poi di
rimozione: su di esso, non a caso, cercheranno esplicitamente di far leva
(campagne "per Catania diffamata", per "gli imprenditori che danno
lavoro") le forze di fiancheggiamento del potere mafioso. Il fondo della
cultura catanese è tutto sommato sano, non inquinato come altrove da
quarant'anni di dominazione (non solo "militare") mafiosa. La gente, qui,
prova ancora disagio a convivere con una simile realtà; la rimuove, ma non
l'accetta; ed è ancora disponibile, se gliene si offre la possibilità, a discutere,
a ragionare, a non rifiutare eventualmente la mobilitazione. Ed è proprio qui
che s'innesta il lavoro, e la funzione, di Giuseppe Fava.
Intellettuale di estrazione popolare (padre maestro, nonno contadino)
Fava è tutto fuorché un uomo di potere, di qualunque potere. Provocatorio,
guascone, all'occorrenza sfrontato; non privo - a conoscerlo - d'una sua
antica, e assai siciliana, riflessività; profondamente "romantico" ma nello
stesso tempo "impegnato", come nessun altro in quel momento, a Catania.
Nell'autunno del 1983 Fava non è un isolato. E' riuscito a concludere tutto
sommato vittoriosamente l'esperienza del "Giornale del sud", il quotidiano
alternativo (poi riassorbito dall'editoria costituita) del 1980-81, a uscirne,
con un profondo gesto di rottura; a "usare" l'esperimento del quotidiano, e la
stessa sua traumatica conclusione, per consolidare un primo nucleo di
giornalisti veri e una prima consistente fascia di opinione pubblica
disponibile. E questo in una situazione in cui la stampa "ufficiale" tace
sistematicamente, per esempio, o altrettanto sistematicamente sottostima
tutte le notizie relative all'attività dei clan mafiosi. E' riuscito a imporre, al
centro del dibattito culturale cittadino, il suo ennesimo lavoro teatrale di
denuncia, l'"Ultima violenza" (forse la più plastica rappresentazione
esistente della mafia metropolitana); è riuscito soprattutto a lanciare e
consolidare fra mille difficoltà il suo primo strumento veramente collettivo,
quello su cui ha saputo coagulare non solo una generica opinione
"antimafiosa", ma il preciso impegno militante di un gruppo di giovani
giornalisti, la rivista "I Siciliani".
Osteggiata in tutti i modi dai poteri costituiti (l'ente regionale preposto
concede un prestito: ma in tempi tali da renderlo, oggettivamente un
sabotaggio) il mensile si impone intanto, grazie alla solida professionalità di
Fava, come un prodotto editorialmente valido, difficile da emarginare, non
velleitario. I contenuti vanno dall'inchiesta di mafia a quella sulla vita
quotidiana, dal servizio su "i cavalieri di Catania e la mafia" a quello su "le
donne siciliane e l'amore", in una miscela originalissima di "popolarità" e
militanza. Convergono tutti, in sostanza, verso una sorta di nuovo
sicilianismo, nettamente democratico e progressista, e sicuramente europeo:
per qualche verso analogo - nella diversità di tempi e situazioni - al
rivoluzionario e antifascista "sardismo" di Lussu; e con un'attenzione al
privato e ai movimenti profondi del sociale, con un colore caldo (ma
tuttavia "illuministico") della scrittura che ricordano, ma con più popolari
radici, certo "giornalismo" pasoliniano.
Nell'autunno 1983, I Siciliani sono già una forza che aggrega, e che
disturba. Un dibattito "politico" ampio e articolato viene aperto, per la prima
volta, fra le componenti della sinistra già schierate (e per molti versi ancora
legate ad antichi limiti di diffidenza e di minoritarismo) e quelle ancora in
formazione; denunce specifiche e puntuali vengono portate avanti, senza
cercare lo scoop ma elaborando sistematicamente i dati esistenti, sui punti
nodali del sistema di potere politico-finanziario della mafia. L'esigenza
d'una iniziativa della magistratura per far luce, coi poteri conferiti dalla
legge La Torre, all'interno delle banche siciliane "pubbliche" e private; le
inchieste sul (malcerto) funzionamento di parte del Palazzo catanese e la
difesa a oltranza, corrispettivamente, dei magistrati impegnati contro la
mafia; l'indicazione, inoppugnabilmente documentata, delle agevolazioni
finanziarie concesse dai politici ai mafiosi; l'appassionata rivendicazione del
diritto alla pace cioè- nel momento in cui Comiso diventa obiettivo, e
strumento d'olocausto - del diritto alla vita; i resoconti periodicamente
aggiornati, senza iattanza e senza timore, sui Santapaola, sui Greco, sui
Salvo, sui Costanzo, sui Rendo: su tutto ciò Fava riesce a rendere omogenei,
nella Sicilia degli anni ottanta, una dozzina di giornalisti ed alcune decine di
migliaia di lettori.
E' ancora presto per valutare esattamente il peso che ha avuto,
nell'evoluzione della società siciliana e catanese in particolare, questo punto
di riferimento "improvvisamente" (ma in realtà portato dall'evoluzione degli
eventi: nulla viene mai a caso, e nemmeno gli uomini) apparso sulla scena.
Fra il novembre e il dicembre del 1983, comunque, i primi contatti con altri
settori del movimento democratico - cooperative, sindacati - assicurano
ormai alla rivista una ragionevole certezza di continuità. Esattamente nello
stesso periodo gli assetti istituzionali, a Catania e fuori, attraversano il loro
momento di maggiore instabilità. A metà dicembre, per esempio, un
intervento pubblico e pubblicizzato dal potere esecutivo mette - di fatto - in
condizioni insostenibili il magistrato che, da Trento, aveva fatto maggiori
progressi nell'indagine sulle connessioni fra mafia e potere. Altri segnali,
minori, concordano.
E' indubbio che al di là delle specifiche tematiche di volta in volta agitate
dalla rivista di Fava (alcune molto e immediatamente incisive: per esempio
tutte quelle in qualche modo connesse con i controlli bancari), ciò che, nella
situazione di instabilità che il potere mafioso attraversa in questi mesi, non
si può ulteriormente tollerare è la stessa esistenza della rivista I Siciliani, il
punto di riferimento che essa già rappresentava e quello che potrebbe
maggiormente rappresentare in futuro. A differenza di tanti sedicenti esperti
di politica e di istituzioni, la mafia è in grado - non per la prima volta d'individuare un obiettivo storico, di percepire con lucidità l'immediata
rilevanza - e, per essa, pericolosità - di una mobilitazione per intanto poco
più che potenziale, ma fra non molto inarrestabile. Non è da escludere che,
in tale percezione, non siano mancati suggerimenti e segnali d'allarme anche
da ambienti non propriamente - non esplicitamente - mafiosi. Come sarebbe
stato possibile imporre una gestione di comodo a un assessorato o a un
pubblico ufficio sapendo che una tale gestione sarebbe stato sottoposta, e
non episodicamente, al controllo dell'opinione? Come sarebbe stato
possibile salvare la libertà del capitalismo "selvaggio" di fronte a una
magistratura solerte, in possesso di strumenti appropriati, e continuamente
pungolata da libere voci? Come sarebbe stato possibile continuare a
controllare lo stesso braccio "militare" dell'Organizzazione, se non si fosse
stati in grado di garantirgli, oltre che l'impunità, anche il silenzio-stampa?
Infine: rassegnarsi ad avere a Catania una sentinella e un nemico come all'altro capo dell'isola, e per la vecchia mafia - fu il giornale l'Ora, e per
decine di anni; o attaccare il male alla radice, prevenire il nemico, stroncare
il movimento antimafioso prima che possa condensarsi attorno ad una
bandiera?
Unico errore di valutazione: i tempi. Alla fine dell'83, il processo era
ormai troppo avviato. Uccidere un uomo sarebbe servito a qualcosa nell'80,
nell'81, forse ancora nell'82. Ma dall'autunno di Dalla Chiesa la coscienza
popolare era oramai in crescita: non le era più indispensabile un uomo, o un
gruppo di uomini. Come certi fiumi sotterranei che risgorgano molto
lontano da dove li hai veduti immergersi, e son sempre gli stessi: così quei
visi di studenti siciliani, quelli dei primi timidi temerari cortei dell'ottobre
'82, li rivedremo improvvisamente a Catania il 6 gennaio 1984. Esattamente
gli stessi, ma con più coraggio e più forza, e più speranza di vincere, perché
un anno, in certe confluenze della storia, non va via invano. Ma questo,
loro, non potevano saperlo.
Aveva conosciuto, anche quel giorno, delle persone nuove ed aveva
parlato con loro, imparandone qualcosa, probabilmente, ed insegnando loro
qualcosa. La giornata era stata impiegata prevalentemente con sindaci di
paese e con distratti assessori; qualcuno di loro, forse, avrebbe
magnanimamente acconsentito a contrattare qualche centinaio di migliaia di
lire di pubblicità - di quei pochi denari viveva l'impresa che faceva tremare
la mafia. Lascia il giornale, quella sera, su una vecchia automobile prestata:
perché la sua era davvero oramai troppo logora. Giuseppe Fava, scrittore, di
cinquantanove anni compiuti, figlio di maestri di scuola e nipote di
contadini, muore per il suo paese alle ore 22,20 del 5 gennaio 1984.
IL VATE E IL POTERE
Società Civile, 1987
Lasciamo perdere la letteratura, e vediamo i fatti.
Borsellino. Sciascia mette sotto accusa la nomina del giudice Borsellino a
Marsala perchè non ha abbastanza scatti di anzianità. In provincia di
Trapani, negli ultimi tempi, sono emerse le piste più interessanti sui concreti
rapporti fra mafia e politica: una loggia massonica di tipo piduista e una
banca coi dirigenti mafiosi. Il trapanese è un crocevia importantissimo per
gli equilibri mafiosi di alto livello; forse il più importante. Catanesi e
palermitani vi operano con tutti i loro mezzi, tanto militari quanto
finanziari. L'ultimo "professionista dell'antimafia" che ha cercato di
Indagarci è stato il giudice carlo Palermo; minacciato, bombardato e infine
costretto - non innocente il governo - a cambiare praticamente mestiere. Ora
tocca a Borsellino. Del quale, dice Sciascia "nel momento in cui ho scritto
nulla sapevo".
Orlando. Non si tratta di generiche polemiche sul nongoverno. In questo
momento, in Sicilia, il gioco politico è incontestabilemente nelle mani
dell'onorevole Salvo Lima. Ha vinto le elezioni, sfrutta le fortune di
Andreotti, è fortissimo nel partito. Adesso, nel momento in cui il Pci
siciliano è allo sbando, scavalca tutti e propone alla Dc un'apertura ai
comunisti. Il nome di Lima, come Sciascia sa, ricorre qualche decina di
volte nei verbali dell'antimafia; adesso è quello del nuovo candidato alla
guida del "rinnovamento" cattolico. Unico ingranaggio incompatibile, in
questo meccanismo, è il sindaco Orlando: isolato, sotto tiro, scomodo per
tutti, è nondimeno il segno di qualche cosa; bisogna passare su di lui prima
di dar corso ufficiale alla restaurazione. E Sciascia individua in Orlando, qui
e ora, il politico da contrastare. E' suo diritto, naturalmente; e anche di
Lima, del resto; ognuno fa politica come può. Che "Sciascia non fa politica,
d'altra parte, è un mito da sfatare. Adesso, per esempio, Sciascia fa sapere di
avere il sostegno di quei sindacalisti palermitani che da tempo cercano di
opporre all'incontrollabile" (e indipendente) coordinamento antimafia un
loro più malleabile comitato concordato fra le forze politiche ufficiali.
Processi. I processi alla mafia andranno, probabilmente, allo sfascio; non
per una qualche metafisica "mostruosità giuridica" ma perché, più
semplicemente, si sarà infine riusciti a impedirne il regolare svcolgimento.
A Messina, fra imputati, legali e testimoni, i morti ammazzati sono già
mezza dozzina; a Palermo si è bloccato il processo per ottenere la lettura in
aula di tutti gli atti: ma una volta ottenutala... gli atti sono stati letti in mezzo
a un'aula deserta. Garantismo? Furberia da piccola pretura? Mah.
D'altronde, sono tattiche difensive giustificabili, probabilmente, sul piano
del rapporto professionale fra l'avvocato e il cliente, che paga e vuol essere
ben servito; soltanto, non ci sembra il caso di proporle come modelli di
civismo e democrazia.
Democrazia. Per quanto strano, qualche po' di questa merce, in questi
anni feroci, è attivato perfino in Sicilia. Gli studenti che hanno fatto i cortei
(ma: "i ragazzi bisogna lasciarli a scuola" ammonisce Sciascia) hanno
imparato, perlomeno, che la cosa pubblica attiene a ciascuno di noi; qualche
professionista ha pur rischiato la pelle per svolgere onestamente la sua
professione; qualche giornalista ha pur stampato per quattr'anni a
duecentomila al mese per poter scrivere senza censure; una donna
qualunque è pur andata, in feroce solitudine, al tribunale per denunciare peraltro invano - gli assassini di suo marito; duecento cittadini comuni insultati da Sciascia, guardati con sufficienza dalla sinistra perbene,
denunciati alal mafia dal Giornale di Sicilia - hanno pur trovato il coraggio,
vivendo a Palermo, di essere il Coordinamento Antimafia. Questa è la
democrazia, cari amici milanesi, una democrazia per cui si può anche
morire in Sicilia, come in Polonia o in Cile. Perché in Sicilia, purtroppo,
oggi come oggi c'è ben poco da garantire; la Costituzione, qui, non ha mai
avuto vigore se non nei discorsi ufficiali. Unico potere reale: i Rendo e i
Lima. Unica reale opposizione: i movimenti antimafiosi.
Certo, è una democrazia, la nostra, che Sciascia non può comprendere. "I
ragazzi a scuola!". Certo: e i preti a dir messa, e i sindaci chiusi in
municipio, e i cittadini tranquilli, e le donne a casa; ciascuno al proprio
posto, nella migliore delle Sicilie possibili. E i giudici? I giudici a farsi i
loro processi in santa pace, lontani da ogni curiosità indiscreta: "non resta
che applicare il pieno e intero segreto istruttorio. La rescissione di ogni
legame, a parte le eventuali conferenze stampa fra giudici e giornalisti...": il
regime, insomma, nel nome delle garanzie; e al più con qualche mafioso
"all'antica", alla don Mariano Arena, raccontato in pensose pagine al
pubblico italiano.
Non c'è una lapide, in Sicilia, non una piccolissima piazza che ricordi,
tanto per dirne una, uno scrittore come Giuseppe Fava; anche lui siciliano
come Sciascia, ma in ben diverso rapporto col potere mafioso; ucciso, e
dimenticato. Per Sciascia, il potere s'è mosso, e con molto senso della
tempestività: fra le molte istituzioni della Regione siciliana da ora ci sarà
anche una Fondazione Sciascia, inaugurata in pompa magna dai rispettabili
esponenti del buongoverno siciliano.
Sarebbe interessante studiare come mai tanta parte della letteratura
italiana finisca, prima o poi, in feluca; e come mai il dannunzianesimo - il
giudizio apodittico, la superficialità nel dar rapido conto di ciò su cui altri
travaglia la vita, la facilità a dar dell'asino o del criptocomunista al
diversamente pensante - abbia ancor tanto corso tra l'ufficialità intellettuale
del Paese, e come mai soprattutto i problemi più seri da noi finiscano
regolarmente in letteratura da terza pagina, in intrattenimento televisivo, in
"spettacolo" culturale. Perché insomma in Italia, prima o poi, le questioni
controverse finiscano sul tavolo del Vate Nazionale di turno, ex garibaldino
o ex futurista o ex illuminista che sia.
Una cosa soprattutto ha destato scandalo nel comunicato del
Coordinamento antimafia di Palermo (quello "ingenuo", intendiamo, quello
da cui era cosi' "facile" dissociarsi), il fatto che fosse stato redatto da due
studenti e un commerciante: gente ordinaria, ohibò!, certo strumentalizzata,
ma da compatire. A me va benissimo che a prendere la parola, oltre ai
Grandi Intellettuali di turno, siano anche gli studenti e i bottegai;
specialmente quando rischiano ogni giorno la pelle in una città tradita. Mi
piacerebbe se la sinistra civile su questa e su altre questioni desse loro,
umilmente, qualche po' di attenzione.
L'ESPERIENZA DEI SICILIANI
1987
Parlare di esperienza ha il tono d'epitaffio, cioè è stata una cosa bella,
simpatica, coraggiosa, che adesso si può mettere tra due fogli d'album e si
conserva. La storia dei Siciliani è una storia segnata da profonde immaturità
e da grandi debolezze perché eravamo pochi, periferici, e ci siamo trovati
d'improvviso in un mare che non era il nostro, con problemi specifici locali,
Catania non è Palermo, da certi punti di vista è peggio, da altri punti di vista
la vicenda è stata come un'esplorazione che vale per tutti, io credo, e che ha
acquisito un salto di qualità in quella che io sono stufo di chiamare "lotta
alla mafia", che in effetti è anche lotta per qualche cosa. E per che cosa?
Ecco, la storia dei Siciliani è anche in questa domanda: qual'è l'alternativa,
l'obiettivo, storico, non arbitrario, non derivante dalla fantasia o dagli studi
elitari di qualcuno, ma scaturente dalla struttura della società, qual'è questo
salto di qualità che, in qualche modo, può servire da orizzonte?
Naturalmente noi non abbiamo mai teorizzato, il tempo delle teorizzazioni è
passato, è abbiamo cercato di mettere insieme tanti frammenti, tanti pezzetti
d'esperienza, tante ipotesi, verificate o no.
La prima fotografia è quella di una sera come tutte le altre, con Antonio
che ha appena finito il suo pezzo e si alza per andarsene via, con Claudio
che sta dicendo qualcosa a Garilli, il nostro tipografo, quarant'anni di lavoro
a Milano, è tornato perché voleva fare qualcosa in Sicilia, Lillo che, come al
solito, sta litigando con l'altro tipografo, Miki sta facendo ancora un pezzo,
il direttore è arrivato verso le otto, contento perché ha strappato dal sindaco
di un paesino un contratto pubblicitario di 150.000 lire, che avrebbero
pagato nel giro di un mese: eravamo felici, perché, facendo i conti, quel
mese avremmo avuto quasi un milione e duecentomila di pubblicità: in quel
momento è entrata la fotografina, che era stata col direttore a fare queste
foto pubblicitarie, io ero scocciato, non ricordo per quale ragione, c'era
Antonio sulla porta, "be', mi dai un passaggio, be', ci vediamo domani
allora".
La telefonata è arrivata alle dieci e mezza e, in questi casi, credo che la
fisiologia dell'uomo ha le sue salvezze. Alle undici mi trovavo a fare il mio
mestiere di cronista di nera e a rilevare distanze, a ricostruire traiettorie, a
parlare con i testimoni, con i poliziotti; alle undici e un quarto eravamo
all'ospedale, molto calmi, c'erano delle cose da fare. Verso l'una e mezzo di
notte ci siamo ritrovati, senza darci alcuna indicazione, perché la sede ci
faceva paura, a casa di una nostra amica, la signora Roccuzzo, che ha
preparato il tè per tutti, e abbiamo cominciato a discutere: Lillo Venezia ha
detto che bisognava uscire subito, qualcun altro ha detto "in sede alla
redazione domani alle nove e mezzo". L'indomani trovammo davanti alla
sede un gruppo di ragazzi di un paesino in cui c'era la nostra tipografia, che
erano venuti per fare la "diffusione militante" del giornale. Non sentivo da
parecchi anni la parola "militante", ero venuto a Catania per fare il
borghese, non il rivoluzionario e alcuni meccanismi mentali si sono messi in
moto: fare il giornale, organizzare la "diffusione militante", mandare subito
qualcuno nelle scuole dove i ragazzi avevano le assemblee in corso.
Un'altra fotografia potrebbe essere la nostra Cettina, che era a capo delle
fotocompositrici, che piangeva e teneva in mano la strisciata delle
fotocomposizioni, e così via. Uscita l'edizione straordinaria ci siamo trovati
in una situazione che avevamo previsto molte volte, contro la quale nessuno
di noi aveva la minima obiezione sul piano dell'analisi, è ovvio, siamo a
Catania, c'è la mafia, la mafia ammazza, può capitare anche a noi, è nelle
regole del gioco. Però una cosa è pensarlo, altra cosa è trovarsi
improvvisamente immersi in una realtà che fa saltare ogni precedente punto
di riferimento, impone per forza, a calci nel sedere, di cominciare a
ragionare in modo radicalmente diverso. Alcune delle scelte fatte allora, non
come scelte del momento, ma come scelte della realtà e come le uniche cose
da fare in quel momento, erano scelte che, viste adesso, a cinque anni di
distanza, hanno del miracoloso e sono come l'eredità che noi lasciamo al
resto del movimento antimafioso. A partire da quel momento la redazione si
riunì ogni giorno, per tre quarti d'ora circa, per le riunioni operative, a turno
qualcuno organizzava la scaletta con i punti da trattare, si davano gli
incarichi, poi si riferiva sugli incarichi del giorno prima, nel modo più
naturale, senza che dovessimo obbligatoriamente schierarci per una
posizione o per un partito.
Nei primi giorni ci trovavamo totalmente isolati e ci siamo resi conto che
non potevamo fare marcia indietro, che eravamo ormai troppo avanti e che
l'avversario era estremamente potente, quindi dovevamo avere l'obiettivo
immediato di moltiplicarci il più possibile, di esplodere, di non essere più
giornale, ma di diventare, in tempi velocissimi movimento di massa. Come
fare? Non eravamo politicizzati come gruppo, eravamo un giornale, non
volevamo cadere nell'orbita ideologica di qualcuno, per motivi difensivi,
dovevamo elaborare un'"ideologia" con obiettivi strategici intermedi e non
ci aiutavano molto i libri, ma i ragazzini con cui parlavamo nelle assemblee
nelle scuole eccetera. Nel giro di tre-quattro mesi si organizzò un mod di
pensare molto caratteristico, basato sulle riunioni operative e su piccoli
gruppi, non c'erano più di due o tre persone a fare la stessa cosa, con
l'individuazione di una serie di obiettivi che centravano i punti di maggiore
contraddizione di una società mafiosa. Nostri interlocutori erano i ragazzi
delle scuole, che non avevano il problema del posto o del lavoro, ma
intendevano lottare per qualche cosa di più, una realizzazione della vita, una
realizzazione di noi stessi: si trattava di una situazione emozionalmente
molto alta che saltava i passaggi intermedi: il lavoro serve ad avere una
sicurezza, una vita serena, mentre il ragazzino di liceo percepiva che si
poteva essere immediatamente felici, che si poteva cercare immediatamente
la sicurezza, che si potevano cercare subito alcune cose, non dopo il
diploma o dopo il posto di lavoro, che si poteva avere molto senza bisogno
di chiederlo a nessuno.
Si formò così il movimento per i Centri Giovanili Autogestiti: si trattava
di ragazzi che cercavano di aggregarsi intorno ad attività inventate sul
momento. Grazie al lavoro della sinistra ufficiale non riuscimmo a
conseguire l'obiettivo di occupare alcuni spazi, stabilimenti industriali
abbandonati, perché questi locali erano già nell'ottica di, non vorrei usare la
parola "intrallazzo", di un'operazione in cui doveva entrare l'Arci, un
architetto di sinistra, che non andò mai in porto, ma sufficiente a mobilitare
tutti contro il nostro tipo di progetto. Un'altra situazione contro cui ci
trovammo a cozzare fu questa: sì, lottiamo contro la mafia, ma qui a Catania
i mafiosi sono importanti, hanno le fabbriche, hanno i posti di lavoro in
mano, e se acchiappano i mafiosi, che cavolo facciamo, le fabbriche
chiudono e tutti a casa, discorso non di un professore, ma di una ragazzina,
Sabina, figlia di un operaio di questi: rispondemmo elaborando una
proposta alternativa, quella dell'utilizzo popolare dei beni mafiosi
sequestrati, che dovevano essere posti sotto controllo di un organismo
apposito e utilizzati per mantenere e aumentare l'occupazione. Questi due
obiettivi, centri popolari autogestiti e utilizzazione alternativa dei beni
mafiosi poi, due o tre anni dopo, divennero oggetto di conferenze, incontri,
dibattiti della sinistra ufficiale, la Fgci, a fase conclusa, fece un bel
documento sui centri giovanili e il Pci cominciò, timidamente, a parlare di
utilizzazione alternativa, ma nei sei mesi in cui questi obiettivi
cominciavano ad aggregare forze, il ruolo della sinistra organizzata fu di
netta e intransigente opposizione.
Nella nostra storia abbiamo fatto da collettore, da canale catalizzatore, ma
non erano nostre né le idee né la spinta che queste idee riuscivano a
raccogliere: il solo nome dei Siciliani riuscì a coagulare, per un anno e
mezzo circa una diversa sinistra che si basava sulla contraddizione reale
esistente a Catania, tra il potere mafioso e la grande massa di coloro che da
questo potere erano espropriati. L'Associazione dei Siciliani, sorta
parallelamente intorno al giornale, con intenti molto modesti, di aiutare
materialmente la diffusione, si trasformò rapidamente in un'avanguardia
politica che diventò un interlocutore ricercato dai partiti: ne facevano parte
svariate persone, alcuni venivano dagli autonomi, altri erano liberali, altri
comunisti in servizio permanente effettivo, altri cattolici: nel giro di pochi
mesi queste componenti si erano omogeneizzate su ipotesi concrete, non
tanto per la forza della nostra proposta, quanto per la debolezza delle
proposte di partiti ufficiali.
Ripensando a quegli anni ho una grande rabbia e un grande rimpianto: la
rabbia è quella che, con il senno del poi, mi ispira la condotta della sinistra
ufficiale, quasi mai d'appoggio, qualche volta di sabotaggio, in ogni caso
d'incomprensione totale; gli intellettuali che si raccolsero intorno all'ipotesi
ebbero due tipi di comportamento, alcuni rimasero sino alla fine insieme a
noi, quelli di sinistra, che non avevano mai fatto politica attiva eccetera,
altri invece, alla prima possibilità, utilizzarono il peso nuovo acquisito
individualmente, per precipitarsi in quella o questa soluzione di partito,
molti in buona fede, ma con il risultato di bloccare lo sviluppo di un
movimento a Catania, senza che nessuno peraltro riuscisse poi a spostare
alcunché all'interno del palazzo in cui era entrato con il famoso obiettivo
"cambiare dall'interno".
Sotto l'aspetto professionale I Siciliani erano già qualcosa di
estremamente anomalo: il gruppo giornalistico nasce intorno al 1980, come
gruppo dei cronisti del Giornale del Sud, con la precisa caratteristica della
libertà d'iniziativa: non eravamo molto ortodossi come giornalisti, eravamo
molto liberi nell'espressione, dopo una serie d'inchieste sulle carceri
passammo per il "giornale della malavita", ed eravamo disponibilissimi a
valerci delle fonti più svariate, per ultime quelle ufficiali; peraltro invece le
esigenze del direttore erano ferocissime, l'orario di lavoro, teoricamente seisette ore, era assolutamente libero, ma per acquisire il fondamentale diritto
di andare la notte in pizzeria, bisognava non andare via dal giornale prima
delle due di notte.
Il giornale avversario era La Sicilia, il giornale dei cattivi, noi eravamo i
buoni e non potevamo permetterci la minima svista, bisogna spesso creare
la notizia, o far diventare notizia il crollo di un cornicione via Palermo 234,
il direttore ci tirò fuori due pagine e mezzo bellissime perché la signora cui
era caduto addosso il cornicione era la moglie di una guardia notturna,
licenziata giorni prima per intrallazzi nella sua ditta, a pianoterra abitava un
ragazzino arrestato pochi giorni prima per un furto, a sua volta "sciarriato"
con il cognato per una storia di giornaletti pornografici rubati, insomma
siamo stati su questa storia per quindici giorni scrivendo cose molto belle.
Fummo licenziati tutti quando il direttore cominciò a fare campagna contro
la base di Comiso ed io contro Ferlito; ai Siciliani fu più dura, perché non
avevamo una struttura organizzativa alle spalle, si andava col biglietto
d'andata per fare un'intervista, non si parlava d'alberghi o rimborsi, e
tuttavia c'era questa forma di autodisciplina che ci spingeva a cercare e
scrivere una cosa che nessun altro al mondo aveva.
Non ci sentivamo, a partire dal direttore, dei grandi giornalisti e forse non
ci sentivamo neanche dei giornalisti, ci sentivamo dei portavoce, gente che
facesse un lavoro, diciamo per conto di qualcun altro: a questo buon
mestiere ci siamo aggrappati soprattutto dopo il 5 gennaio 1984, lasciando
entrare in dialettica, a nostra insaputa, due cose differenti, da un lato un
livello molto alto di efficienza tecnica, le notizie erano buone e non sono
mai state smentite, dall'altro la necessità pressante di uscire dal ghetto, di
essere punto di riferimento. Su questo abbiamo commesso infiniti errori, per
lo più di timidezza nella campagna per la legge La Torre o nella vicenda dei
Siciliani giovani, nato con un'assemblea di venti ragazzi, che alla seconda
assemblea erano diventati una sessantina e successivamente riuscì a
coinvolgere 320 ragazzi. Eravamo molto forti su alcuni terreni, molto meno
su altri, sul piano politico avevamo molta spinta, ma poca consapevolezza, e
avevamo una fiducia smisurata nei cosiddetti intellettuali della sinistra
catanese, nel Pci, nei sindacati, nella Lega delle cooperative: non erano
l'ideale, ma altra cosa dalla Democrazia Cristiana, vuoi mettere? E tuttavia
le delusioni erano frequenti. Questa situazione è durata per quattro anni,
sino a quando non ci siamo trovati davanti a una scelta: o arroccarsi nel
mensile, che andava bene, oppure giocare la carta del settimanale popolare,
dove tutti potessero scrivere: abbiamo fatto tardi questa scelta, quando
eravamo ridotti in pochi, isolati dalle forze politiche ufficiali. Era un brutto
giornale sotto molti aspetti, fatto con mezzi deboli e in fretta.
Per quanto riguarda la lotta alla mafia abbiamo portato, la realtà ci ha
portato dei contenuti specifici, come nel caso dei "cavalieri di Catania": da
quando I Siciliani hanno cominciato a lottare, Rendo non è stato più il
grande industriale progressista, la gente non ci crede più. C'era a Catania,
non solo nel Pci, questa solida convinzione: Catania è una città miserabile,
africana, messicana, brasiliana, con i contadini col forcone, con Brancati, le
donne vestite di nero, e quindi, giustamente, ci vuole la rivoluzione
industriale, la borghesia moderna, ci vuole Rendo, non per un fatto di
corruzione, ma per l'incapacità di elaborare un'analisi specifica sulla Sicilia,
e così la maggior parte dei giornalisti del giornale di Rendo è iscritta al Pci.
I "cavalieri" rappresentano una forma di potere mafioso, secondo me
"ultima": la tipologia dei "cavalieri" catanesi, il tipo di potere, il tipo di
rapporto mafia-politica si è sviluppato più tardi e più lentamente che a
Palermo, in una situazione più moderna, più metropolitana: Rendo è meno
classico, meno radicato, ma molto più grosso di un Cassina, per esempio,
opera con tipologie differenti.
Un secondo contributo è stato quello del rapporto tra mafia e poteri
occulti, per esempio la Massoneria, non privo di connessioni con il primo.
Un terzo contributo, troncato dalla chiusura del giornale, è quello del
rapporto "nuovo" tra mafia e politica: il rapporto tradizionale era di
corruzione, nel senso che era il mafioso a corrompere il politico, il rapporto
nuovo può essere inteso in senso opposto, cioè lo stato corrompe la mafia,
ossia lo stato ha suoi interessi specifici, ad esempio l'intervento in un
determinato scacchiere politico, tramite la fornitura di armi e si serve di
strumenti adatti, tra i quali può esserci qualche gruppo mafioso, collegato
con l'imprenditorialità, cosicché il rapporto tra mafia e politica, le
contraddizioni che ne conseguono, si spostano a livelli più alti, per cui,
mentre ieri potevamo dire che il politico mafioso è Lima e che Andreotti è
mafioso in quanto protettore di Lima, oggi possiamo dire che il politico
mafioso è Andreotti e che Lima è mafioso in quanto dipendente da
Andreotti: diciamo che la mafia non è più un fatto parassitario dentro lo
stato, ma tende ad inserirsi nel centro dello stato e, in taluni aspetti, a
coincidere, quasi meccanicamente, con esso.
Come in tutte le storie, diciamo pure come va a finire: I Siciliani non
escono più da un anno e mezzo, è in corso una trattativa con la Lega delle
Cooperative per fare un consorzio e rilanciare il giornale: alla fine il
consorzio è stato fatto, ma con i "cavalieri" e non con noi e per tutte altre
storie, per cui, proprio in questi giorni è partita una lettera di denuncia di
questa trattativa; nel frattempo a Catania il giornale padronale, La Sicilia, ha
cambiato direttore e ha cambiato il carattere delle testatine: questo è stato
sufficiente a convincere i compagni perbene che La Sicilia era cambiata; il
Pci sta facendo a Catania una buona campagna elettorale, con una bella
lista, e con un programma in cui c'è la mafia a pagina uno, per dire che i
commercianti sono incazzati per via delle estorsioni, e poi, da pagina due a
pagina 143 un elenco di belle cose da fare. E' più o meno la nuova linea
politica della Democrazia Cristiana, che non dice più a Catania che la mafia
non esiste, che non bisogna fare indagini sui "cavalieri", non spara più, il
capolista è un signore perbene che fa parte del consiglio superiore della
magistratura, tutto ritorna normale e si propone un grande patto con dentro
il Pci: La Sicilia fa le lodi dei comunisti, i quali fanno le lodi de La Sicilia, è
arrivato il pluralismo e anche nella stampa, perché non c'è più il giornale di
Costanzo, ma anche il settimanale di Rendo, I Siciliani sono spariti, Antonio
sta facendo un articolo per Il Manifesto, e forse glielo pagano, Claudio è
appena tornato dal Sud-America, dove ha cercato di raccogliere qualche
cosa, Miki neanche questo, io sono qui, Elena ha abbandonato il mestiere e
sta facendo le supplenze, ogni tanto ci si vede e si chiacchiera: ci siamo dati
appuntamento tra un anno, le idee sono tante e belle, siamo abbastanza
ottimisti, e adesso sappiamo come si fa un giornale in Sicilia, cioè
coinvolgendo centinaia di persone che giornalisti non sono, sappiamo che
un giornale in Sicilia non ce lo farà nessuno e che potrà spuntare se un
organismo collettivo, non legato al "palazzo", si porrà quest'obiettivo in
tempi lunghi, lavorando intanto per realizzarlo senza sperare in vie di
mezzo; sappiamo anche che dall'aspetto tecnico si possono fare molte cose e
con pochi soldi attraverso i computers.
Quando abbiamo iniziato I Siciliani ci siamo indebitati per circa 250
milioni, comportandoci da milanesi, rispetto a furbi milanesi che si sono
comportati da catanesi: gli stessi materiali, con la stessa funzionalità, adesso
si potrebbero trovare per 60 milioni. Infine, sul piano dell'esperienza di
mestiere, per una volta voglio ricordare persone di cui nessuno parla, Miki
Gambino, il miglior cronista di nera in Sicilia, il nostro fotografo, Nuccio
Fazio, la fotografina Giusi Spampinato, la nostro compositrice Cettina,
adesso a Milano perché non ha più trovato lavoro, Mario Sparti, il nostro
tipografo, il prof. D'Urso, il primo in Italia a intuire il rapporto tra logge
massoniche e mafia. Insomma un'esperienza come la nostra ha coinvolto
tante persone ed ha lasciato in ognuno qualcosa: io penso che saranno loro a
girare la prossima puntata.
LETTERA A UN DIRIGENTE COMUNISTA
1988
Caro * * *
le mie critiche - fra compagni - al vostro lavoro riguardano
essenzialmente quattro punti, che vorrei cercare di esporti.
1. Quanti sono i cavalieri? Solo Graci, Costanzo e Finocchiaro, oppure
anche Rendo? Non è una questione da poco. Eppure, io temo che non siano
molti oggi i vostri compagni in grado di rispondere in maniera univoca a
questa domanda. I motivi sono molti e non necessariamente deplorevoli: un
aspetto molto positivo della tradizione comunista è la tendenza a
disaggregare l'avversario, a non considerarlo monolitico. E, nel momento in
cui tu e Adriana siete in scontro diretto coi tre, e la linea su Graci e
Costanzo è d'attacco, si potrebbe anche pensare a dei nemici da attaccare
subito, e altri in un secondo momento. Ma la faccenda è diversa.
Io temo fortemente che salvare Rendo ("democratico", "costretto", "con
cui si può ragionare") sia l'equivalente attuale della ideologia di appena
dieci anni fa, secondo cui i cavalieri ("moderni" rispetto agli agrari o ai
Massiminio) erano l'equivalente locale della famosa borghesia produttiva,
oggettivamente interessate al cambiamento, con cui si può utilizzare se non
un'alleanza quanto meno una temporanea convergenza d'interessi. Quel
modo di pensare allora portò al disastro, e aprì i varchi a un compromesso
più strutturale che praticamente tagliò fuori il Pci catanese da ogni
possibilità d'opposizione. Ieri i cavalieri nel loro complesso, e oggi Rendo
(e Ciancio, e Conservo ecc.)? State attenti. Voi oggi vi state finalmente
battendo, e hai visto che già non è facile portare il partito contro Costanzo:
ma non lasciate questa mina vagante sulla vostra rotta, perché non potreste
gestirne in alcuna maniera le conseguenze di medio e lungo periodo. Io
sono a Catania da nove anni: all'inizio litigavo con voi perché non volevo la
pubblicità di Costanzo alla festa dell'Unità; e poi dagli altri cavalieri, e poi
di Rendo. Certo, il tempo passa, ma vorrei che passasse più in fretta.
Scusa le cattiverie. Il fatto è che voi in questo momento non avete affatto
una linea chiara e inequivocabile su Rendo, e sono in molti ad avere
interesse che possibilità d'equivoco ci sia. E' chiaro l'orientamento del
nuovo (radicato?) gruppo dirigente catanese. Non lo è affatto quello
dell'area comunista (professioni, cooperative, sindacato) nel suo complesso,
senza il quale ci si salva l'anima individualmente ma non si fa peso.
2. Io non vi accuso di farvi pagare la sede da Costanzo. Mi piacerebbe,
perché in tal caso la faccenda sarebbe relativamente facile da sanare - un
problema "di polizia", non politico. Purtroppo, il problema è invece di
struttura. La grande maggioranza del mondo delle professioni catanese - in
cui il vostro ceto dirigente è inserito quasi interamente - era dieci anni fa, e
in misura notevole è tuttora, del tutto organica al sistema di potere dei
cavalieri. Non nel senso di una corruzione spicciola, che in alcuni casi non
poteva mancare ma che è patologia. Ma nel senso di una sostanziale
identificazione del proprio status professionale e sociale con l'implicita
accettazione del regime vigente - che qui, per avventura, è mafioso. Questo
non appartiene più alla patologia del sistema, ma alla sua fisiologia; e
richiede quindi, per essere contrastato, interventi molto più consapevoli,
"esemplari" e radicali.
A me non interessa affatto se un professor Barcellona, come suo otium,
produca uno o più poemetti di filosofia rivoluzionaria: anche i nostri baroni
del '700 erano spesso "illuministi" (ma sul feudo facevano i baroni).
M'interessa semplicemente che prenda posizione contro il giornale dei
padroni, o perlomeno che non faccia danno. A me non interessa che un
avvocato, un architetto, un giornalista "scendano in piazza contro la mafia";
m'interessa quel che fanno in ciascuno degli altri trecentosessantaquattro
giorni come avvocato, come architetto, come giornalista. Chi sono i loro
clienti, per chi e cosa lavorano, chi li paga - non di notte al bar del porto, ma
alla luce del sole e nell'esercizio delle loro funzioni.
Ma la neutralità del tecnico, ma il proprio privato, ma la professionalità...
Tutte cose sante e benedette. Però nel trentasei un comunista non avrebbe
costruito la villa di un Farinacci. Intanto, non gliel'avrebbero chiesto; e poi
il partito l'avrebbe comunque espulso, col massimo della pubblicità
consentita dalle circostanze. E anch'io faccio il professionista: ma so
scegliermi i miei clienti. Certo, non è agevole: la struttura sociale, qui, non
lascia molto spazio fra integrazione ed emarginazione. Ma non sono stato io
a inventare Catania. E nessuno è tenuto a fare il comunista se non se la
sente. A Bronte c'erano i "berretti" e c'erano i "cappelli"; e c'erano i
borbonici e c'erano i liberali. I "cappelli" liberali parlavano molto bene, ma i
contadini intuivano che il notaio prima è notaio e poi è liberale: come
potevano credere nella "Talia"?
E' questo il nocciolo del problema. Non è un problema "comunista" e
neppure propriamente "politico", ma semplicemente una questione di classe.
Nella sinistra catanese, a un certo punto, è diventata opinione comune
(favorita dalla particolare ideologia di cui s'è detto sopra) che fosse
possibile e comunque tollerabile servire contemporaneamente l'opposizione
e i cavalieri. Su questo "senso comune" (di classe!) si è innestato il decennio
di compromesso fra area comunista e cavalieri. Compromesso strutturale,
non culturale. Io credo, adesso, alla vostra volontà di rimuoverlo. Ma questo
si può fare, solo in maniera traumatica: il genero di Breznev non è stato
allontanato alla chetichella, ma è finito in galera.
L'esempio del caso Leone, in questo quadro, è illuminante. Io vi avevo
pur passato la palla buona: voi avreste potuto riprendere in maniera
altrettanto felice l'iniziativa: avevate le carte per un gesto clamoroso, utile,
vincente. Avete preferito lavare i panni sporchi in famiglia, nell'ingenua
convinzione del minor danno. Leone, naturalmente, alla fine è passato ai
craxisti, gestendo lui fino all'ultimo il proprio rapporto col partito: prima vi
ha usato stando con voi, poi lasciandovi; il danno per il partito, prima e
dopo, è stato incalcolabile. Io pezzo isolato, prima l'ho contrastato come
infiltrato, poi vi ho dato modo di liberarvene; voi abili dirigenti di partito
prima l'avete lasciato fare, poi non siete stati capaci di ricavare almeno il
vantaggio politico della sua espulsione.
Non è ozioso aggiungere che i miei interventi su Leone, e su altro, io li ho
pagati. Prima, quando attaccavo Leone, facendovi la nomea di
rompicoglioni presso il gruppo dirigente (non innocente) del partito; e ora,
quando "ho sbattuto sul tavolo di Colajanni" le carte che vi avrebbero
dovuto indurre a espellerlo, attirandomi l'ostilità dei vecchi dirigenti e dei
nuovi. Tu sai che Mancuso, a Palermo, si sentì apostrofare "Ma perché
appoggiate quel mascalzone di Orioles?" da una vostra autorevole
esponente? Sai che Rizzo minacciò la crisi se orlando avesse dato corso al
suo progetto di farmi fare un giornale? E che fino a due mesi fa dirigenti
meno autorevoli del partito palermitano hanno fatto pressioni molto serie
nello stesso senso? Io ho perso l'ultima occasione di restare in Sicilia,
perché alcuni dirigenti del partito comunista palermitano lo hanno impedito,
o hanno concorso ad impedirlo: non accuso il partito per questo, ma
gl'individui sì, politicamente e moralmente. E mi scuso di aver tirato in
ballo una questione "personale", ma è una questione politica anch'essa, e
non va rimossa.
3. Sul terzo punto - che diamine sperate di ricavare schierandovi con La
Sicilia - non presumo di riuscire minimamente a scalfire le vostre certezze e
desidero solo lasciare una testimonianza a futura memoria, per quando il
prevedibile svolgersi degli avvenimenti vi chiarirà il vostro errore meglio di
mille discorsi. Voi in questo momento siete molto commossi dal fatto che la
Sicilia non protegge più i mafiosi del plotone fucilieri, e ne ricavate le stesse
irrazionali aspettative di dieci anni fa: finalmente La Sicilia è cambiata,
adesso c'è almeno un po' di democrazia da gestire, ci saranno degli spazi là
dentro anche per noi. Illusioni. I padroni de La Sicilia sono sempre Ciancio
e Costanzo, e nessuno di loro è un editore puro. Essi non potranno mai dare
uno spazio reale a delle battaglie di opposizione; lo darebbero - e di fatto lo
danno - solo a passatempi inoffensivi; e in questo caso, farebbe loro comodo
che fossero targati Pci, primo perché inoffensivi e secondo perché utili a dar
loro il mezzo di mostrarsi "democratici" e "pluralisti". Ma sulle cose serie,
come comunisti, non vi accetteranno mai: il giorno che vi accetteranno,
vorrà dire semplicemente che avrete cessato di essere tali.
Fate pure, comunque, le vostre esperienze. Evidentemente, bisogna che
percorriate fino in fondo questa strada: perché è la strada facile, e voi qui
non avete lo spessore storico per ipotizzarne un'altra. Ci sono dei giornalisti,
fra voi, e alcuni hanno pure ancora l'età in cui si possono investire alcuni
anni della propria vita su una bella avventura. Vi siete mai chiesti come mai
ci sia voluto un gruppo "anomalo", esterno al partito, per intuire che a
Catania bisognava fare un altro giornale? E' possibile che, non dico come
opposizione, ma almeno come partito, non sentiate il bisogno di spazi
d'informazione vostri, che non comprendiate quanto sia precario e perdente
ritagliarsi angolini nella stampa del padrone?
Ma davvero c'è ancora bisogno di ripetere queste cose? Io mi chiedo
ancora, e non riesco a farmene una ragione, quali possano essere le radici di
una situazione penosa come quella delle assemblee di dicembre in cui una
vostra ottima militante - seria, colta, impegnata - con ogni studio cercava di
salvare La Sicilia di Ciancio. "Il monopolio dell'informazione della Sicilia
di Ciancio e Costanzo..." Della Sicilia di Ciancio. "Il monopolio
dell'informazione della Sicilia di Ciancio...". Della Sicilia e basta. "Il
monopolio dell'informazione della Sicilia..." Non potremmo mettere il
monopolio dell'informazione e basta?
Su un episodio del genere, io sono stato male, perché per me è stato un
campanello d'allarme. La compagna che esprimeva là quelle posizioni aveva
tenuto botta bene, negli anni più duri; su La Sicilia di Ciancio, aveva fatto
interventi, opuscoli e parte d'un libro. E ora eccola là a difendere, in buona
sostanza, quelle posizioni. Come ci si è potuti arrivare? E' solo colpa sua? Io
credo che ci sia molto da riflettere, prima di poter dare una risposta.
Ho sempre a distinguere, nella vicenda delle trattive per I Siciliani, le
responsabilità della Lega (e anche qui: la nazionale dalla catanese; in dubio
pro reo) da quelle del Pci di Catania, che si è schierato dalla parte nostra.
Ma nei vostri documenti, nei vostri interventi da sette mesi a questa parte, I
Siciliani sono spariti del tutto e c'è invece, a tutto campo, La Sicilia di
Milazzo. Voi forse non ve ne sarete accorti, ma mezza dozzina di giornalisti
in qualche modo vostri sono spariti da Catania; e ve ne andate mendicando
le benevolenze del direttore di Ciancio. Io mi sforzo molto di trovare una
qualche razionalità, un qualche abbozzo di metodo in questo vostro
atteggiamento; ma non ci riesco; e non posso, e malvolentieri, che
attribuirlo a superficialità politica e a una forte sottovalutazione, da parte
vostra, di voi stessi.
Non credo sia facile far comprendere ad altre persone come alcuni di noi
hanno vissuto questa fase del "problema dell'informazione" a Catania. Voi
del Pci vi battevate per noi in corridoio di Lega, ma intanto rimuovevate dai
vostri documenti politici, la nostra esistenza, vi schieravate - nel settore
specifico - con Ciancio e Milazzo, e quanto a linea politica antimafiosa,
precipitavate esattamente in quell'unanimismo che noi (prima e dopo
Giuseppe Fava) abbiamo sempre cercato di denunciare. Le trattative; ci
veniva chiesto passo dopo l'altro di rinunciare al direttore, di cambiare linea
politica (ricordo ancora le discussioni su "troppo cavalieri"), di partire
dall'idea di prendere o lasciare, di restar fuori - come Siciliani - dalle
trattative fatte dalla Radar; ci venivano cestinati promemoria e preventivi
professionali costati tempo, soldi e fatica e ci venivano sprezzantemente
gettati davanti ("prendere o lasciare") preventivi abborracciati alla meglio
da "eccelsi professionisti", roba che ignorava persino l'esistenza dei
computer; ci si faceva capire in tutte le maniere che la nostra esperienza
politica era nel migliore dei casi folle, e le nostre professionalità alquanto da
verificare. E noi, in buona sostanza, sottostavamo a tutto questo. C'eravamo
opposti a Rendo e Costanzo, avevamo combattuto, rischiato la vita,
organizzato, fatto un giornale esemplare con mezzi inesistenti e ora
dovevamo accettare la lezione dei burocrati di Catania, di Palermo, di
Roma. Quante volte, del resto, questo si era già visto nella storia! Quanti
garibaldini di fronte ai generali piemontesi, quanti ex-partigiani di fronte ai
compagni "responsabili"! E d'altronde, avevamo perduto la nostra guerra; e
dovevamo accettare. Perché sentivamo il dovere quasi religioso, profondo,
di salvare perlomeno il salvabile, di non permettere che un'esperienza com
questa andasse dispersa senza lasciare traccia. "Fondatore Giuseppe Fava":
non hai idea della responsabilità, e del peso, che queste parole possono
comportare, e dei rischi a cui ci si può sottoporre per esse, e delle pene, e
delle umiliazioni.
Due anni e mezzo di trattativa. E in due anni e mezzo, mese per mese,
cercare di resistere e di riorganizzare qualcosa, e vedere intanto con terrore i
compagni che (non per loro colpa) cominciano a sbandarsi, e nel frattempo
fare letteralmente la fame, cercare di "sopravvivere in qualche modo a un
maccartismo; non essere ing rado, restando qui in Sicilia, neanche di curare
i propri cari; e restare lo stesso, in nome di un dovere. E dopo tutto questo,
venire a sapere che in tutto questo frattempo la Lega - I Siciliani, gli
emiliani, Roma: ci sarà tempo per analizzare le singole colpe - faceva affari
con i cavalieri! Ti riesce difficile comprendere perché uno, a questo punto,
decide - alla disperata, per fargliela almeno pagare - di dare battaglia? E tu,
cos'avresti fatto al mio posto?
4. Ci sono due modi conosciuti per fare un movimento. Il più semplice
consiste nel riunirsi, almeno in tre, nei locali della federazione, mettere la
questione del movimento all'ordine del giorno, fare un comunicato ai
giornali e stampare un volantino: contro la mafia, per il Nicaragua, per la
riduzione della leva: gli argomenti non mancano e non è difficile scegliere.
Se, fra tutt'e tre i partecipanti al movimento, si riesce a non fare o dire
alcunché che dia atto a sospetti di effettiva pericolosità sociale, il
movimento avrà successo: nel senso che i giornali - anche quelli dei
mafiosi, dei contres, dello Stato Maggiore - ne daranno simpaticamente
conto ai loro lettori, daranno con regolarità notizie delle attività del
movimento, assessori e notabili lo prenderanno a interlocutore, si verrà
invitati ai dibattiti al Club della Stampa ecc. ecc. Tutto ciò non è
tecnicamente difficile da conseguire, produce un surplus di status sociale
"progressista", non suscita grandi opposizioni ed ha l'unico inconveniente di
essere, a parte i vantaggi sopraelencati, assolutamente inutile.
In effetti non c'è nulla al mondo che ci vieti - purché cittadini italiani,
maggiorenni e vaccinati - di giocare al coordinamento antimafia, al prete
Pintacuda o al sindaco Orlando. Il fatto è che i preti palermitani, per
esempio, han cominciato a far intervento di quartiere circa sedici anni fa. Il
Coordinamento antimafia di Palermo, lungi dal farsi coccolare dalla stampa
locale, in almeno tre casi ha condotto operazioni di rottura traumatica e
"settaria" non solo nella città, ma nella stessa sinistra organizzata. E quanto
al sindaco Orlando, non è il frutto di un accordo fra Andò e Nicolosi.
Sindaco coordinamento e preti, con tutto ciò vivono precariamente, appesi a
un filo, fra continue invenzioni tattiche e continue forzature, costretti a
inventarci un fronte nuovo ogni giorno per non essere travolti su tutti gli
altri. Ci riescono perché hanno le idee chiare su possibili alleati e nemici,
perché non dimenticano neanche per un istante gli assetti di potere reali,
perché hanno (che non guasta) un altissimo grado di professionalità politica,
e soprattutto perché non sono partiti da palazzo Biscari ma dall'Albergheria.
Qui, l'unico che - dopo I Siciliani - abbia una vera presenza nel sociale, e la
consapevolezza di giocar la partita su di essa - è il gruppo di padre Resca:
mentre gli antimafiosi perbene organizzavano le desolanti discussioni su La
Sicilia che ho detto, a San Pietro e Paolo facevano la festa degli immigrati
con due o trecento senegalesi. Con tutto ciò, Resca - da persona seria - non
crede affatto di aver fatto un movimento. Ma di avere appena cominciato a
lavorarci. Noi - sinistra catanese intendo - possiamo puntare su aggregazioni
di questo genere, lavorare seriamente al loro fianco (con assoluta umiltà e
senza fessi tentativi di "manovre dall'interno") per un paio d'anni, e poi forse - fare domande in bollo per chiamarci movimento. Prima, no: non
tanto perché sarebbe ridicolo; ma perché sarebbe equivoco e dannoso.
Io non ho alcun entusiasmo, per esempio, per il vostro "movimento" di
piazza Europa, per il vostro sindaco che guida l'autobus, per i vostri
cantastorie di quartiere. Tutte cose bellissime, non lo nego. Ma non mi fido.
E' roba che non divide; roba che la Sicilia può tranquillamente applaudire;
roba da "cappelli" liberali, non sedimento d'opposizione.
Un movimento, a Catania, in qualche rudimentale maniera aveva
cominciato a formarsi. Quello che si stava sedimentando attorno a Siciliani
Giovani e (in minor misura) all'Associazione I Siciliani. Una cosa rozza,
d'accordo, con mille ambiguità e debolezze e difficilissima da seguire. Ma
sostanzialmente sana, e perlomeno reale.
Si trattava di organizzare in un'opposizione di fatto della gente quasi
completamente spoliticizzata, senza strumenti culturali preesistenti, ma
nuova, e vogliosa di fare. Arrivava il liceale diciassettenne e ti chiedeva
(giustamente: perché cominciava ora, a chiedersi le cose) se davvero a
Catania ci fosse la mafia. E tu, dopo qualche anno di Siciliani e un amico
ammazzato dai mafiosi, calavi doverosamente le corna e gli dimostravi
oggettivamente, con tutte la pazienza di questo mondo, come e qualmente si
può parlare di mafia a Catania! E cercavi di farlo senza imporgli
sedimentazioni culturali non sue, rispettandolo; insegnandogli le cose fino a
un certo punto, ma scommettendo per il rimanente che ci sarebbe arrivato
da solo, avendo fiducia in lui; cercando di metterlo in grado di operare
concretamente, di contare, di rendersi indipendente da te. Buon cuore? No:
buon marxismo, di quello serio: di quello che distingue tra filosofia e
ideologia, che conosce il concetto di dialettica, che considera la struttura
prima della sovrastruttura, che fa lotte di classe (ora!? e dove sono le classi?
Anche cent'anni fa, non vedendole nelle forme solite, se lo chiedevano in
molti) e non propaganda.
Assemblee interminabili, logoranti, per convincere quel ragazzo là in
fondo che non ci stiamo "facendo strumentalizzare", e che però non
possiamo limitarci e protestare, e che quindi dobbiamo prendere noi
l'iniziativa, e che quindi ci vuole una buona organizzazione, e che
organizzarsi ha certi vantaggi e certi rischi, e che... Cercando di
convincerlo, e anche di imparare da lui qualcosa. E incontri da Helzapoppin,
con cooperative sindacato - e non ti dico il partito - e anime belle, cercando
pazientemente di non rompere, di tirarteli dietro almeno per un poco di
strada, almeno su qualche cosa, almeno in parte. E tutto questo, in mezzo al
fare il giornale, al dolore e alla povertà, alle centouna piccolissime
incombenze di ogni giorno, alla inesperienza propria e dei compagni, alla
paura fisica e alla paura di non fare in tempo: perché si vedeva nitidamente
che il tempo - prima che la porta si richiudesse - era molto poco. E alla fine
di tutto questo, qualcosa che cominciava vagamente ad assomigliare a un
movimento: qualche decina di militanti più o meno omogenei ma tutto
sommato coesi, un gruppetto - efficientissimo! - di ragazzi per ogni scuola,
un paio di obiettivi intermedi (la gestione sociale della legge La Torre e i
centri giovanili: dopo qualche anno ci siete arrivati anche voi) per tenere
insieme in maniera non episodica tutta la faccenda. E funzionava. Col
tempo, avrebbe potuto arrivare ad essere il famoso "movimento" di cui con
tanta leggerezza ora si parla.
Ma il tempo non c'è stato. La caduta del giornale è arrivata prima che
tutto ciò che stava attorno al giornale avesse raggiunto la possibilità di stare
sulle proprie gambe. due anni e mezzo di "trattative"! Prova a rileggere
questa frase alla luce di quel che hai sentito dire: del ruolo politico dei
Siciliani, voglio dire: di tutto quel che veramente poteva cambiare a Catania
e non è cambiato. Perché non c'è più stato qualcosa, qui, di paragonabile a
quel che si aggregò allora attorno al giornale; e passerà molto tempo prima
che ci sia.
Nuccio, fotografo, vent'anni d'emarginazione alle spalle, che viene
mandato a organizzare SicilianiGiovani a Enna o Caltanissetta, e ci riesce
perfettamente come il più consumato militante; Ester, fisioterapista, che in
sei mesi diventa una discreta cronista e un'efficientissima agitatrice;
Rosalba che torna al suo paese in montagna e subito mette in piedi il
collettivo femminista e il giornaletto locale; Sabina, Fabio, Antonella,
Gianfranco, che prima organizzano Siciliani/Giovani nelle scuole e dopo la
caduta del giornale cercano come possono, senza collegamenti, di
continuare a lottare (ci sono anche loro nell'Experia: tre mesi d'occupazione,
e quattro "avvertimenti"); Maurizio della Fgci di Battiati, che il 6 gennaio
84 era alla porta della redazione per organizzare la diffusione militante di un
giornale che nessuno sapeva se sarebbe uscito ancora... Non credo che a te
possano dire molto questi nomi. E invece sono loro i compagni, loro i veri
riferimenti politici, altro che i vostri intellettuali perbene: su di loro,
bisognava avere il coraggio di puntare.
E ora che me ne devo andare - non per mia volontà - da Catania, e che è il
momento di tirare le somme, mi restano questi nomi; i loro, e quelli di
pochissimi intellettuali (D'Urso, Scidà, "Castoro", Resca, forse altri tre o
quattro) che hanno avuto il coraggio di prendere fino in fondo sul serio le
cose che scrivevamo e di costruirci attorno la loro vita. Essi, nella loro
ingenuità e inesperienza, avevano capito tuttavia la cosa principale: che non
si dà opposizione qui che non sia totale: non per partito preso, per
malaccorto estremismo, ma perché proprio il sistema non lascia spazio, qui
ed ora, per mezze misure e mediazioni.
Era commovente veder con quanta esitante determinazione questi ragazzi
cercavano di assumere questo ruolo, di star dietro alle cose, d'imparare.
Esseri umani diversissimi fra loro, provenienti dai più diversi pregiudizi,
sconosciuti l'uno all'altro fino a pochi giorni prima, che rapidamente si
amalgamavano, maturavano con i compagni, si schieravano col cervello e
col cuore dov'era necessario che si schierassero; mai, in tanti anni, avevo
visto nulla di così profondamente rivoluzionario come questo loro venire
avanti. E quando mai, d'altra parte, è possibile vedere tutto questo, se non
nei momenti di vera e propria Resistenza?
Ma ora sto divagando. E' che ero, e sono, profondamente orgoglioso di
loro. E mi fa male vederli spazzati via dal meccanismo cui anche voi vi
siete adeguati, sostituiti sprezzantemente dal "rinnovamento" ufficiale. Ma
preferisco essere perdente insieme a loro, che vincitore senza: perché so
quel che hanno rappresentato, e che potevano rappresentare, per questa
città, e la tragedia dell'emarginazione di questa possibile sinistra, di questa
possibile classe dirigente. Chi voi, incredibilmente, non avete visto. se da
parte vostra ci fosse stato non dico un progetto politico ma un minimo di
consapevolezza, noi già nell'85 saremmo andati al Comune con una lista
unitaria, avremmo spaccato veramente la Dc, vi avremmo - fra l'altro portato là non come il fiore all'occhiello di Andò e Nicolosi, ma come
un'avanguardia del movimento.
Un movimento è una cosa seria, difficile e concreta, non una sommatoria
di movimentatori di mestiere. Un movimento deve avere una sua
piattaforma, una sua dinamica autonoma, soprattutto dei suoi militanti. Un
movimento non può permettersi di "unire le forze democratiche", di mediare
per principio, perché il suo ruolo è esattamente l'opposto: rompere le
contraddizioni, far venire fuori nuove forze, dare coscienza a dei soggetti
nuovi.
E' scomodo, un movimento: metà della città lo applaude, ma l'altra metà
gli spara. Non è "brillante" né viene invitato ai dibattiti, ed è in cattivi
rapporti coi provveditorati. E' semplice, rozzo e chiaro. Vuoi sapere com'è
fatto, per esempio, un movimento contro la droga? C'era da fare un corteo,
alla fine dell'84, di studenti contro i cavalieri. Un gruppetto dei nostri la
settimana prima la passò a Piazza Roma, a Largo Aquileia e negli altri posti
di spaccio. Parlarono con tutti, e soprattutto con quelli con cui di solito non
si parla (se non dall'alto di una cattedra e con grandi parole, ai convegni
ufficiali). La mattina della manifestazione c'erano venticinque
tossicodipendenti, nel corteo, senza vittimismo e senza particolari parole, a
gridare Graci, Rendo, Costanzo, Finocchiaro con tutti gli altri ragazzi della
loro età, come tutti gli altri.
Ma forse queste cose non si vedono, dai palazzi (e dalle università, e dalle
federazioni). E mi scuso per essermi dilungato, e per la confusione, perché
tanto è un capitolo finito.
E confuso, veramente, dev'essere tutto questo quaderno, scritto in fretta,
fra una cosa e l'altra della partenza; ma scritto con l'intento di giovare.
Perché ti sembrerà strano, ma in questa e in altre occasioni un compagno
può anche ritenere di essere obbligato, in mancanza di altri che lo facciano,
a dire le cose scomode, ad avvertire i compagni. Certo, questo non serve a
creare particolari popolarità: tutto quel che ho detto o fatto a Catania, d'altra
parte, l'ho regolarmente pagato di persona: le critiche ai compagni, come gli
attacchi ai nemici. Non me ne vado ricco, né avendo fatto carriera. Questo
non significa che bisogni necessariamente condividere ciò che dico.
Significa che si può almeno ascoltarlo come l'opinione di uno che, a dire
quel che dice non ci guadagna niente; e che medita prima di parlare di
argomenti come questi; e che non è del tutto privo di esperienze tali da
permettergli di parlarne.
Hai avuto la pazienza di seguirmi fin qua? Non è poco merito. Ma attento:
la vostra responsabilità di militanti, e la tua personale, in questo momento è
molto più grave del solito, perché voi siete l'unico gruppo dirigente
antimafioso sopravvissuto nel Pci in Sicilia. Siate all'altezza di questa
responsabilità. Non seguite le strade facili. Abbiate il coraggio, e la
saggezza, di essere una forza di rottura. I compromessi hanno un senso
quando si è egemoni, non quando si ha un partito da ricostruire. Non
fidatevi dei vostri attuali interlocutori - dentro e fuori il partito. Ricordatevi
sempre delle cose banali, tanto banali che nessuno ci fa più caso: chi sono
materialmente i padroni dei giornali siciliani? Come mai la Dc a Catania
non ha un Orlando? A chi è legato Andò? Perché Pannella ha chiesto soldi ai
cavalieri? chi erano gli amici di Curti Giardina a Catania? E così via.
D'Urso, Scidà, Resca, i ragazzi di SicilianiGiovani, sono stati in questi
anni - per quel che può valere il mio parere - i miei "interlocutori politici"
privilegiati. Cercate i loro consigli, abbiate rispetto per loro. E ricordatevi
che fare i comunisti in una situazione come questa è un mestiere durissimo,
perché le parole possono essere tante ma gli incontri cruciali, alla fine dei
conti, non ammettono scappatoie né mezze misure.
E infine. Io parto, come sai, il sei o il sette gennaio. Non vado a fare il
grande giornalista ma ancora, per come potrò, il militante. E non me ne
vado di mia volontà, no: me ne vado costretto, espulso di fatto da questa
città: esattamente come, negli anni cinquanta e sessanta, partivano i
segretari di sezione e i sindacalisti, costretti dall'isolamento e dalla fame a
prendere la via della Germania.
Più amaro della sconfitta e dei prezzi personali, per quella generazione di
compagni, fu l'oblio in cui il potere e la cultura ufficiali si affrettarono a far
cadere le loro lotte. Essi dovettero partire, dopo aver combattuto per anni,
lasciando le sezioni vuote, gli agrari seduti davanti al circolo dei civili, i
preti che spiegavano ai contadini la ragionevolezza. Io ho conosciuto,
quand'ero giovane, al mio paese, di questi compagni. In questo momento,
mentre sgombero casa mia, con la mia compagna malata e due anni e mezzo
di fame alle spalle, penso che non li ho traditi. Cercate di non tradirli
neppure voi.
Ringrazio per tuo tramite i compagni che ci sono stati vicini in questi
anni. A te e a tutti gli altri, auguro buon lavoro.
UNA LETTERA
dicembre 1988
Caro Luca,
subito dopo il cinque me ne andrò a Roma per dare una mano al giornale
di Fracassi, e quindi la mia disponibilità per il vostro giornale si farà più
complicata. Ho già detto ad Alongi di disporre liberamente del progettino
che gli ho lasciato; in ogni caso, il giornale cercate di farlo lo stesso perché,
usato bene (cioè con aggressività e fantasia; per la strada), può essere uno
strumento decisivo. Ad Alongi ho detto anche che, avendo seguito con
attenzione l'andamento di tutta questa vicenda, ho avuto modo di farmene
un'idea abbastanza precisa e di valutare gli schieramenti che vi si sono
formati ; e di essere sinceramente riconoscente a te, a Letizia, ad Alongi e
agli altri compagni che avete almeno tentato di affrontare politicamente il
mio caso. Personalmente, penso che sarebbe stato meglio usarlo come
terreno forte per uno scontro, e anche ora non credo opportuno lasciarlo
cadere in modo indolore; ma voi che siete sul posto potete valutare meglio
di me costi e vantaggi di un atteggiamento "duro". E poi, tutto sommato, è
una questione laterale.
Fra pochi giorni, comunque, Antonella ed io partiremo per quest'altra
avventura. Contrariamente a quel che si potrebbe credere, la banda
municipale non verrà ad accompagnarci alla stazione; partiremo, come
sempre, da zingari, con un bel po' di debiti alle spalle, l'anoressia di
Antonella, i padroni di casa che ci cercheranno fino all'ultimo momento, e
tutto il resto. Due borse di vestiti pesanti, le fiabe di Antonella, un po' di
carte mie e la raccolta del giornale. Con tutto ciò partiamo spavaldamente,
da compagni, come se la banda ci fosse e suonasse forte l'Internazionale.
L'altro giorno, che era festa, la mia Antonella ha trovato la forza di
organizzare una giornata allegra, di regalarmi un tabacco, di sorridere tutto
il giorno. "Al nuovo giornale!". Le avevano trovato un edema la mattina
prima e non c'era niente in casa. Ma lei mi ha fatto forza e ha sorriso.Così,
adesso noi - che stiamo partendo obbligati, esattamente come se ci avessero
cacciato fuori dalla Sicilia con le guardie - non stiamo andando a cercar di
sopravvivere in qualche modo, ma stiamo andando a continuare la lotta in
qualche altra maniera, dove potremo e come potremo. E, in qualsiasi modo
vada a finire, siamo almeno sicuri che saremo sempre noi.
Mi piacerebbe se tu riuscissi a spiegare tutte queste cose al collega *: a
fargli capire che egli può permettersi di fare l'Autorevole Politico
Antimafioso solo perché esiste - indipendentemente dalla sua volontà - della
gente non dico come me che sono un militante di mestiere, ma come
Antonella; che egli non conosce e non ha alcun bisogno di conoscere ma
alla quale egli deve integralmente il suo attuale status sociale e politico.
Bene: salutami i compagni, stai attento a scegliere i tuoi interlocutori
catanesi, non permettere che ti accomunino a una cosa buffa come Bianco, e
il resto più o meno lo sai già. Buon lavoro.
(Ah: vedi che la parola "compagno" io la uso in un senso un po'
particolare).
GIUSEPPE FAVA, UN PRECURSORE
Il manifesto, gennaio 1989
Ottanta righe per il cinque gennaio, quinto anniversario dell'omicidio di
Giuseppe Fava? Mica facile. Perché intanto bisognerebbe spiegare chi fu
veramente Giuseppe Fava: non l'innocente poeta che ora ci vogliono
consegnare, ma uno scrittore europeo, e un militante. Come scrittore, Fava è
stato l'unico italiano a raccontare davvero l'operaio massa degli anni '70,
quello che dal sud dell'Europa andò alle catene di montaggio. Non usava
queste parole, non veniva da esse. Ma il suo ragazzo Michele ("La
passione"), dal paesino siciliano alla città-fabbrica tedesca, è esattamente
questo.
Peccato che la sinistra italiana, con le altre cose, si sia persa anche questo
libro. E' che per la cultura italiana rimuovere Fava (come per paralleli
motivi Pasolini) fu una necessità. La mafia, per esempio, lui la collocava,
lucidamente, in questa Europa: meglio i donmariani innocui di Sciascia.
Come militante politico Fava - esterno a ogni politica ufficiale e
profondamente diffidente di essa - non attaccò questa o quella maschera del
teatro istituzionale, ma direttamente il potere. Che si fonda, come ha scritto
qualcuno, essenzialmente sulla struttura dell'economia. Che in Sicilia (ma
non più solo in Sicilia) si fonda sull'intreccio tra fabbrica della droga e
impossessamento degli appalti. I quali a Catania (ma non più solo a
Catania) sono dominati dai "quattro cavalieri" Rendo, Graci, Costanzo e
Finocchiaro.
Fava si batté contro i cavalieri. In ogni momento di questa lotta ebbe
sempre davanti coloro per cui lottava: i bambini di Palma di Montechiaro, i
ragazzi di paese, i milioni di emigranti siciliani "dispersi sulla faccia della
terra". Unì profondamente il vissuto quotidiano suo e di altri con una
sedimentazione "politica": una politica di fondazione, senza zavorre
ideologiche, tutta dei tempi nuovi. In questo, come avviene nei finesecolo,
egli fu un precursore.
Come giornalista, non gli ho mai sentito pronunciare la parola
"professionalità". Era all'antica, in questo: "mestiere". Una volta sola usò il
termine "giornalismo borghese", per spiegare ad alcuni ragazzi ciò che il
suo mestiere non era.
Poche ore dopo la morte di Giuseppe Fava, i redattori dei Siciliani si
riunirono in assemblea. Era notte. La madre di uno di loro portava in giro il
caffè: fuori, il potere si preparava a uccidere la stessa memoria dell'ucciso.
Nessuno di loro era particolarmente dotato di genialità o di coraggio. Ma
qualcosa li muoveva. Essi deliberarono che avrebbero continuato l'impresa;
si divisero i compiti. Alcuni, "il settore mafia", produssero in diciassette
mesi quaranta inchieste ancora oggi fondamentali. Altri furono mandati in
giro per l'Italia a cercare alleati per una guerra, che si prevedeva lunga. Altri
ancora ricevettero la cassa vuota e l'incarico, che assolsero con successo, di
stampare comunque il giornale. Altri cominciarono a organizzare - scuole
piazze quartieri - l'opposizione. Mentre con terrificante regolarità i numeri
del giornale, uno dopo l'altro, analizzavano gli affari dei cavalieri, si
ramificavano come "SicilianiGiovani" nelle scuole e con l'altro "braccio
organizzativo", l'Associazione "I Siciliani", nelle città.
Noi non siamo vissuti abbastanza per collegarci con la primavera di
Palermo. Non c'illudevamo. Sapevamo che il tempo era poco, i mezzi
inesistenti, che le promesse di solidarietà non sarebbero state mantenute,
che il varco si stava chiudendo. Cercammo di forzarlo sullo slancio. Non ci
siamo riusciti - non, almeno, per il momento.
Fra le promesse non mantenute ci fu quella della Lega delle Cooperative,
che doveva consorziarsi con noi per rilanciare il giornale. La relativa
"trattativa" durò due anni e mezzo e, per quel che ne so, forse dura tuttora.
Non è stato possibile sapere chi abbia bloccato questa trattativa, il
"migliorista" Turci accenna a "livelli Siciliani" che, a loro volta, rilanciano a
Roma. Di certo c'è solo che consorzi furono fatti, ma con i cavalieri:
Costanzo, Cassina e Rendo. Li firmò, nella civilissima Ravenna, il consiglio
d'amministrazione della Cooperativa Muratori e Cementieri, tardi scopritori
dei valori del mercato (tardi: perché se li avessero già scoperti i loro padri,
quattrini a palate sarebbero stati, con l'appalto degli stivali della Wermacht.
Ma, a rifarsi c'è sempre tempo).
A Catania, adesso, ferve il "rinnovamento" del Palazzo. Il sindaco guida il
bus, gli assessori commemorano Robespierre, tutti sono gentili e buoni,
soprattutto il giornale dei cavalieri, La Sicilia. Ha un senso, dopotutto.
Bisognò pure affrettarsi, appena fatta l'Italia, a mettere il bavaglio ai
mazziniani; o nella Repubblica democratica, a manganellare chi odorava
troppo di Resistenza. Qui, ora, nel "dopomafia", silenzio agli antimafiosi.
PROMEMORIA PER AVVENIMENTI 1
estate 1988
Non so quanta roba, qui dentro, potrà tornarvi utile (la scelta, poi, è stata
fatta molto disordinatamente e in fretta), ma forse può interessarvi uno
sguardo "dall'interno" sul processo di formazione dei Siciliani; molti dei
problemi che abbiamo dovuto affrontare erano d'altronde, più in piccolo,
quelli che ora toccano a voi. Fra i materiali che accludo, il progetto di
ristrutturazione avrebbe dovuto servire di base alla seconda fase del
settimanale (se hai tempo leggi Altri Sud e Computerizzazione, pagine 15 e
34), l'archivio riporta alcuni materiali "politici", fra cui forse possono
interessarti quelli relativi al rapporto settimanale/società civile/forme
organizzative di sostegno (Promemoria settembre 84) e quelli ripresi dai
Siciliani Giovani, che è un settore poco conosciuto ma fondamentale nel
nostro lavoro.
Io credo che i punti su cui potrebbe essere utile una riflessione della
nostra esperienza, siano in particolare gli Altri Sud, il collegamento fra
testate alternative, la computerizzazione (questi, rimasti allo stato di
progetto) e l'area Siciliani Giovani /Associazione I Siciliani.
Siciliani Giovani e l'Associazione erano le proiezioni "politiche" del
nostro progetto, sostenute con strumenti idonei e con estrema flessibilità.
Fin dall'inizio, abbiamo pensato che un giornale come il nostro sarebbe
rimasto isolato se non avesse provveduto per proprio conto a creare un'area
organizzata di dibattito e sostegno. Timidezze di vario genere ci hanno
impedito di portare fino in fondo questo progetto, che nei limiti in cui
l'abbiamo realizzato, ha dato risultati brillantissimi. E' mia ferma
convinzione che la sconfitta della nostra impresa sia dovuta proprio a questi
limiti e alle conseguenze di questo (prevedibile) isolamento rispetto alle
forze politiche ufficiali. Credo che la riuscita di un'impresa come l'Altritalia
si giochi proprio su questo terreno, e che qui bisogna fare scelte decise:
imparate dalla nostra esperienza, non fatevi illusioni; e organizzatevi da
subito anche su questo terreno.
I servizi in parallelo dal Sud d'Italia e dal Sudamerica (Altri Sud)
definiscono meglio di mille dichiarazioni d'intenti una precisa - e non
strumentalizzabile - collocazione politica; anche giornalisticamente sono,
credo, un modo nuovo e solido di impostare il settore esteri.
Il rapporto fra testate "alternative" (Società Civile è solo uno degli
esempi; ce n'é una mezza dozzina in giro) ha a che fare col criterio esposto
sopra di "creare movimento", di avere subito non un centro, ma un
arcipelago di realtà radicate ognuna nella propria regione. Il modello
organizzativo di fondo, qui, è quello dei primi tempi dell'esperienza dei
Verdi in Italia, basato sul collegamento di realtà autonomamente
sviluppatesi e su una progressiva e prudente opera di omogeneizzazione
d'immagine attorno ad alcune specifiche campagne d'opinioni. Fatte tutte le
differenze, è un metodo che credo possa valere ancor oggi, e anche soprattutto - per voi.
La computerizzazione, in questo quadro, non è uno strumento tecnico (fra
l'altro, economico) fine a se stesso, ma un mezzo per dare un'impostazione
aperta fin nella struttura del processo produttivo (redazione stellare, ecc.) al
giornale. In questo senso, l'innovazione tecnica costituita dal desktop
publishing ha implicazioni politiche analoghe a quelle che potevano avere le
radio libere nel '76. Questo non implica assolutamente (e l'esperienza delle
radio è illuminante) una diminuzione del livello di professionalità, che è
essenziale; semplicemente, un'integrazione delle tecniche professionali con
un quadro di "movimento" e con tecnologie che ne esaltino le
caratteristiche.
A questo punto, penso che potrai farti un'idea del tipo di contributo che
vorremmo cercare di dare in questi mesi. A Palermo, in particolare, il
dibattito sul giornale è avviato in termini non semplicemente professionali:
l'obiettivo è di avere una redazione siciliana che sia punto di riferimento in
termini professionali ma anche civili. E' un obiettivo possibile - avremo
tempo e modo di discuterne particolareggiatamente - purché ci sia, da parte
vostra, una precisa e non equivoca scelta degli interlocutori, che non vanno
cercati, secondo me, fra i più o meno riciclati révenants della sinistra
ufficiale, ma nelle espressioni organizzate dalla società civile, che a Palermo
sono ormai più che mature: il Coordinamento Antimafia, il Cocipa, il
Comitato per l'informazione Città Insieme a Catania.
La bozza di copertina non è una proposta grafica per voi. Semplicemente,
molti anni fa, "l'Altritalia" è stata in ballottaggio per la nostra testata e allora
ho fatto uno schizzo per vedere che effetto faceva. Mi pare giusto che ora
l'abbiate voi e spero che vi venga buono almeno come portafortuna.
PROMEMORIA PER AVVENIMENTI 2
estate 1988
Caro F., ti accludo alcuni stralci del nostro progetto di ristrutturazione, fra
cui i riepiloghi di settore - potrebbero interessarvi il settore "a scambio" e
"Altri Sud" -,i promemoria interni del gennaio '84 e del settembre '84,
l'editoriale del numero zero del settimanale. E ora, qualche appunto così alla
rinfusa, via via chez la roba mi viene in mente.
Noi avevamo scelto di costruire la nostra immagine su due terreni
specifici, l'identiità siciliana e la lotta alla mafia. Terreni apparentemente
neutri (tali quindi da garantirci la massima indipendenza rispetto alle
ideologie di partito) ma, in sè, profondamente politici. Noi abbiamo quindi
potuto costruire su di essi una identità politica "forte" dei Siciliani, e
raccogliere intorno ad essa uno "zoccolo duro" di circa ottomila lettori e
millecinquecento fra abbonati e sostenitori. Su questo e parallelamente al
giornale abbiamo messo in piedi delle strutture organizzate, l'Associazione I
Siciliani e Siciliani Giovani, che hanno moltiplicato (e diversificato)
l'impatto politico del gionale. La sconfitta della nostra esperienza, quando è
arrivata (ma tardi, in rapporto alle forze disponibili) è venuta sul terreno
imprenditoriale e forse anche giornalistico, non su quello "politico". Le
strutture "militanti" hanno tenuto. Io ritengo che questo possa essere un
esempio anche per voi: tenendo conto, naturalmente, che concetti come
"militanza", "organizzazione", "linea politica" vanno intesi, almeno nel
nostro caso, in senso "soffice", e tuttavia estremamente determinato.
Ora, quale può essere la linea politica di un giornale come il vostro?
Finora, è una serie di nomi: Galasso + Turone + Novelli + Fracassi +
Menapace, ed è già qualcosa perché si tratta di altrettanti momenti specifici
della sinistra, sufficientemente omogenei fra loro e abbastanza
caratterizzati. Ma al di là dei nomi? Una generica dichiarazione di
professionalità e di civismo - quella in buona sostanza contenuta nel vostro
dépliant - non mi convince. Tutti vogliamo la libera informazione e tutti
siamo contro la corruzione e tutti abbiamo una mamma. Ma perché
dovremmo leggere e soprattutto aggregarci proprio attorno a questo giornale
a preferenza di altri? (Non mi dire che non vogliamo aggregare nessuno,
che siamo solo un giornale, ecc.: se siamo solo un giornale, non dura: per
questioni di economia di scala).
Io penso che ci siano già ora una serie di argomenti precisi, "neutri", ma
estremamente politici, che individuano di per se una serie di precisi
meccanismi politici (e successivamente aggregativi) e contestualmente dei
targets, diversi ma complementari. La lotta al sistema di potere mafioso
(Sud); la lotta contro la cultura dello stupro (donne); gli altri sud (sinistra
intellettuale) e la lotta contro il razzismo metropolitano; le comunità di base
e la società civile (sinistra, cattolici di alcune città) non sono gli unici
argomenti al mondo, ma sono quelli, qui ed ora, che insieme possono
fornire da subito un'immagine "forte" del giornale. Attorno a cisacuno di
essi può svilupparsi col tempo una rete autogenerantesi di iniziative
"organizzative" e "militanti" parallele al giornale. Torna un attimo indietro,
per favore: all'elenco. Vedi che aria scolastica ha, da lista della spesa?
Eppure, è il cuore di tutto, la cellula che deve essere individuata prima.
Questi quattro argomenti e non altri: non dare fondo al mondo. Ancora:
"lotta alla mafia (sud), lotta allo stupro (donne)": vedi che aria cinica ha la
nostra lista della spesa? Eppure, non è così. "Sud", "donne", non sono quelli
che cacciano i soldi e comprano il giornale, sono quelli che "ricevono" al
loro servizio il giornale, che "usano" il giornale. Non la "nostra" base, ma i
nostri padroni. E anche questo è scolastico, ma fa pure parte della cellula
iniziale: perché non è facile, per degli intellettuali con una storia alle spalle,
assumere l'umiltà e l'orgoglio di sentirsi al servizio di qualcosa di
preesistente (di solito tendiamo a metterci alla testa di una massa indistinta,
che non c'interessa percepire diversamente). Fine della parentesi salesianpopulista (Servire il).
Dalla "cellula-base", discendono alcune conseguenze. Per esempio, il
giornale dev'essere altamente professionale, e nel contempo non deve
esserlo. Idem, per farlo c'è bisogno di professionisti feroci, ma anche di
dilettanti. E le due faccende debbono incontrarsi in un punto preciso, non
casuale. Nei quattro settori che ho detto, il giornale non è un giornale, è "il"
giornale. E' l'organo ufficiale della lotta alla mafia, come l'orario della
ferrovia per i treni. Non può avere bucature. Deve avere la notizia a ogni
numero. Deve avere griglie di lavorazione rigidissime. Deve abituare il
lettore. In altri settori, il giornale può "giocare", fare esperimenti, rischiare.
Può essere un pezzo di Frigidaire, può essere sedici pagine di fumetti, può
essere sedici pagine di cronaca di una storia di zingari a Roma; può gettare
un sasso e lasciarlo lì oppure costruirci sopra una cattedrale, di volta in
volta.
Ehi: non è che il lavoro del primo tipo lo fanno i professionisti e quello
del secondo i dilettanti. La cucina, la fanno tutta i professionisti; e così i
servizi che garantiscono il numero nei quattro settori. I dilettanti, che vanno
scelti accuratamente, fanno il lavoro "esterno" che però esterno non è
perché dà la direzione al giornale: a parlare con gli zingari ci va il
professionista, ma la sera, la riunione con gli zingari e la gente del quartiere
la fa il "dilettante": se fa un buon lavoro, nel quartiere entro sei mesi ci
debbono essere dieci copie vendute, un "corrispondente", un abbonato,
un'assemblea di quartiere in preparazione. In rapporto organico con quel che
sul giornale nel frattempo viene pubblicato. E adesso cambiamo discorso. Il
giornale può avere, inizialmente, una redazione a Roma, una redazione
(uno-due redattori, cinque-sei "dilettanti") a Milano ed una in Sicilia. La
redazione romana può essere dotata di cinque-sei MacIntosh con circa 160
Mb di memoria. Un Mac alla redazione di Milano, uno alla siciliana. I
Macintosh, da 4 a 10 milioni ciascuno, servono a battere i pezzi e
impaginarli (a cura degli stessi redattori). I pezzi vengono mandati a Roma,
già impaginati, via modem a 2400 baud (di notte).
Fin dall'inizio, cioè, la redazione si configura come "stellare". Non c'è una
redazione con dei corrispondenti distaccati. C'è un'unica redazione, le cui
scrivanie si trovano per avventura a qualche chilometro l'una dall'altra, ma
sono perfettamente in grado di comunicare fra loro in tempo reale (il
modem e i Mac servono ancghe per discutere il palinsesto, mandarsi
messaggi, insultarsi e rivedersi le bucce a vicenda).
Perché MacIntosh e non un grosso elaboratore? Perché i Mac sono
perfettamente in grado, con qualche accorgimento, di fare il lavoro di
macchine molto più grosse. Soprattutto, sono interfacciabili Linotronic: il
dischetto col giornale può cioè essere dato a un'unità di fotocomposizione
professionale (da voi, c'è almeno quella dei F.lli Bottoni; ma informatevi)
che lo "digerisce" perfettamente. Via modem, il Mac riceve files anche da
altri tipi di computer: il corrispondente di Canicattì può mandare la notizia
così e "dialogare" con la redenzione "vedendo" il proprio lavoro sul proprio
schermo: per alcuni minuti, la redazione si sarà trasferita a casa sua, e non
viceversa.
Accorgimenti: l'impaginazione via computer non è difficile; è lenta; e
richiede molta memoria. Allora: adottare un'impaginazione che concentri in
aree omogenee gli elementi che il computer tratta meglio insieme, e che
contemporaneamente possa essere mossa a volontà muovendo moduli. Le
quattro paginette che trovi accluse (e che non sono un modello)
esemplificano questo concetto.
Debbo interrompere, mando questo e continuerò appena posso. Struttura
di un punto di corrispondenza ("politico" e redazionale) locale; iniziative in
ciascuno dei quattro settori sotto il profilo organizzativo: giovani; ancora
computer; lancio; punti di riferimento a Milano, Palermo, Napoli: spero di
farti avere presto degli appunti su questi argomenti. Tieniti in contatto con
Palermo. Scusami la fretta e la confusione.
PROMEMORIA PER AVVENIMENTI 3
autunno 1988
Ci scusiamo di intervenire così, ma vorremmo essere presenti almeno con
una parola di solidarietà e di adesione. Questa iniziativa si colloca infatti
perfettamente, io credo, nell'ispirazione di questi anni dei Siciliani, e ne è
anzi una logica prosecuzione. Noi abbiamo sempre pensato e scritto che i
poteri reali del Paese sono ben altri ormai da quelli definiti dalla
Costituzione; che non sono ormai loro estranee centrali di potere
paramassonico e mafioso; che nessuna dichiarazione di lotta alla mafia può
più venir presa sul serio se non accompagnata da una lotta intransigente a
questo sistema di potere; che ben poco affidamento può essere riposto, per
questa lotta, nelle rappresentanze politiche ufficiali, connotantesi ormai - nei
casi muigliori - come oneste oligarchie; e che le sole speranze di
cambiamento sono legate alla progressiva autoorganizzazione di settori
sempre più ampi della società civile.
Noi abbiamo creduto che un giornale come il nostro dovesse porsi come
punto d'aggregazione di un movimento di cittadini - nel nostro caso
l'Associazione I Siciliani - basato su questi principi, in grado di utilizzare il
giornale come strumento di collegamento e di autoorganizzazione e di
arricchirlo a sua volta di nuovi e sempre più articolati contenuti culturali.
Abbiamo anche cercato di affrontare, all'interno di questo quadro, punti
specifici di particolare importanza: il bisogno di esprimersi del mondo
giovanile, con Siciliani Giovani; l'elaborazione di un progetto culturale di
vasto respiro, con la campagna per i centri giovanili autogestiti; la necessità
di una presenza non ideologica nelle istituzioni, con la proposta di un
programma e di una linea unitari e antimafiosi; il rapporto imprenditoria
mafiosa/occupazione, con la proposta di un utilizzo sociale dei beni
sequestrati con la legge La Torre. Nessuno disconosce più ormai,
nell'ambito della sinistra, la validità di questi punti: ma sono stati ben pochi,
nel momento che bisognava, le forze impegnate attorno ad essi. Forze
istituzionali, intendiamo, di sinistra "ufficiale" e d'intellettuali
"riconosciuti".
A distanza di due anni, non mi chiedo più dove sono le forze organizzate partiti, sindacati, leghe - che dovevano sostenerci in quest'impresa. Né mi
meraviglio più del fatto che il più grosso partito di opposizione riempia
decine di pagine di diligenti programmi elettorali senza nominare una sola
volta i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa - Rendo, Graci, Costanzo e
Finocchiaro - che sono ancora al centro del sistema di potere della nostra
città. Osservo soltanto che la nostra sconfitta è stata dovuta non tanto alla
prevedibile diserzione della sinistra "ufficiale" quanto alle esitazioni, alle
ingenuità e alle certezze di noi stessi che c'eravamo aggregati attorno al
progetto politico dei Siciliani. Esitazioni, ingenuità e incertezze pagate a
carissimo prezzo dai singoli, e dalla città.
Per questo, crediamo che ora sia importante partire bene, vale a dire senza
equivoci. Costruire un movimento antimafioso è una cosa, portare la regina
Elena a carezzare i bimbi di Librino un'altra. Nessuna enunciazione di
principio, a Catania, può essere presa sul serio, in nessun campo, se non si
accompagna a una chiara presa di posizione sui quattro cavalieri. Nessun
intellettuale può pretendere di venire ascoltato da nessuna persona per bene
se mantiene un qualunque rapporto - professionali compresi - col sistema di
potere e coi suoi esponenti. Nessuno può dire che la società civile va bene,
ma l'organizzazione bisogna lasciarla ai partiti. Nessuno può chiedere ad
altri di impegnare la propria esistenza in un'impresa comune, se non è
disposto a sostenerla fino in fondo e non come mero esperimento
intellettuale.
Tutte queste cose, nell'esperienza dei Siciliani, si sono pur verificate, e
sono state pagate molto care. Io mi auguro che voi possiate ricominciare da
dove noi abbiamo dovuto fermarci, e andare più avanti. Riprendendo la
nostra impostazione politica generale, che è stata confermata dai fatti e di
cui andiamo a buon diritto orgogliosi, ma riconoscendo ed evitando i nostri
errori. Gli errori nostri, e soprattutto gli errori nostri che noi abbiamo
colpevolmente subito per ingenuità, debolezza e impreparazione. Ci siamo
organizzati poco, ci siamo organizzati tardi, ci siamo organizzati a
malincuore, ci siamo organizzati male. Non imitateci in questo.
LA LEGGE DEI CAVALIERI
Avvenimenti, dicembre 89
Non sapremo mai, probabilmente, con quali motivazioni i giudici catanesi
hanno respinto il rapporto di polizia che indiziava di mafia tre dei maggiori
imprenditori italiani, i "cavalieri dell'apocalisse" Rendo, Costanzo e
Graci.Pure, non sarebbe secondario conoscerle: si tratta di personaggi che,
in bene o in male,condizionano la vita dei loro concittadini almeno quanto
un segretario di partito greco o tedesco-orientale.
Ma in Italia, in un caso come questo, a noi cittadini viene comunicato
soltanto (e nemmeno spontaneamente) ciò che è stato; e ci deve bastare. Ma
- è l'obiezione - e voi giornalisti? Noi giornalisti, ai sensi di legge e
specialmente della nuova legge che inasprisce il segreto istruttorio,
ufficialmente non ci possiamo fare niente.
Se decidiamo d'informarvi, è una scelta nostra, non più insita nel
mestiere. La verità, in altre parole, è divenatata una faccenda del tutto
personale; non è prevista dalla legge.
La legge: un giudice, ha deciso il Csm, può stare in una loggia segreta al
comando di Gelli, come il bolognese Monti, ma non può regolare nel modo
che preferisce (come il palermitano Ayala) i propri rapporti con la moglie
separata. Che faccia giustizia o meno, è affar suo personale, ininfluente ai
fini della carriera. E' esattamente il punto a cui era arrivato, una generazione
fa, un altro paese dell'Occidente: la Colombia.
Dove ora le cose hanno seguito il loro corso naturale, e la mafia tratta da
ari a pari, alla luce del sole, con lo Stato, e giornalisti e magistrati vengono
uccisi liberamete, ufficialmente e preventivamente perché evidentemente
quella costitutzione di fatto non può riconoscere la loro funzione.
La stessa funzione, gli stessi diritti-doveri - la libertà d'informazione,
l'indipendenza dei magistrati - che all'est stanno faticosamente e con
trepidazione riscoprendo e che noi qui, ora, andiamo allegramente
abbandonando ogni giorno di più.
UN'IDEA DI GIORNALISMO
1990?
La situazione della libertà d'informazione a Catania è quella che è, non è
il caso di starci troppo a girare attorno, di citare l'ennesimo episodio buffo o
vergognoso, di ripetere ancora una volta che qui la libertà di stampa è
esattamente al livello di una qualunque dittatura sudamericana. Dopo tanti
anni, chi non l'ha capito finora non lo capirà certamente stasera; non lo
capirà soprattutto chi non lo vuole capire, o perché non vuol rinunciare alla
cronachetta - sul giornale di Ciancio - delle proprie attività "d'opposizione"
o perché, più semplicemente, appartiene alla stessa classe sociale che, con
diversi appellativi ideologici, dà luogo al blocco di potere catanese e quindi
al suo giornale: gli eterni cappelli e galantuomini - liberali o borboni conta
poco. Vorrei invece chiedermi ancora una volta (anche qui, roba vecchia:
ma repetita juvant) di chi è la colpa, e cosa si può fare.
Per anni e anni abbiamo ripetuto, a partire dal gennaio 1984, che non ce
l'abbiamo con i giornalisti catanesi, ma con i loro padroni; e abbiamo ogni
volta sottolineato con la massima attenzione quei conati rivendicativi che
quei colleghi hanno a volte cercato di esprimere. Ma il fatto resta che essi
lavorano - sono costretti a lavorare - in condizioni assolutamente anomale,
lesive del diritto del lettore a un'informazione veritiera e corretta, e della
loro stessa dignità professionale. Sono costretti, o gli va bene? Questo
chiedo di sapere da sei anni, e questo chiedo anche stasera. Nel primo caso,
tutta la mia solidarietà. Nel secondo - nel caso cioé di "Catania diffamata",
della "stampa catanese in prima fila" eccetera - essi sono complici, e
complici di qualcosa di molto grave.
Perché la libertà, nel nostro mestiere, è possibile. Ha dei prezzi, ma si
può. Noi dei Siciliani l'abbiamo dimostrato. E, su scala più ampia,
Avvenimenti sta rinnovando l'esempio di un giornale che fa informazione
libera e tiene mercato senza bisogno di sottomettersi ai padroni del vapore,
e delle cosche. Se, invece di piagnucolare su questi "nordisti" che diffamano
noi poveri catanesi, invece di cercare - ma perché poi? - di difendere alla
men peggio l'indifendibile, di abbaiare - legati alla catena - contro le
Samarcande e i Marrazzo, cercassimo invece una buona volta di
rimboccarci le maniche, di ritrovare l'orgoglio di noi stessi, di decidere che
siamo giornalisti e non impiegati di Ciancio o Berlusconi...
Ma, neanche questi sono discorsi nuovi. Auguriamo ogni bene ai colleghi
che preferiscono continuare ad arrancare nella palude. Noi, andiamo avanti.
Giuseppe Fava ci ha lasciato alcune precise cose da fare. Ci ha lasciato
l'esempio di come si fa un giornale, e di come si fanno dei giornalisti. Un
giornale si fa da liberi, senza padroni, affidandolo alla gente comune,
sapendo che così è più difficile, ma che anche nei momenti più bui non si
resterà del tutto soli. I giornalisti si fanno tirandoli su dalle radici,
selezionando intelligenze e volontà fra i giovani che sono degni di fare
questo mestiere ed insegnando pazientemente loro - senza paternalismi e
compiacenze, dando ed esigendo serietà ed attenzione - tutti i rudimenti
dell'arte. Così fu per noi "ragazzi di Fava" ai Siciliani; così fu nostro
compito fare, col gruppo dei Siciliani/Giovani, quando restammo soli; così
continuiamo ancora oggi a formare, in continuità con questa storia, nuovi
giovani gruppi di redattori. Lasciamo volentieri ai colleghi della
corporazione il carico di difendere, se ne hanno voglia, l'immagine del
giornalismo ufficiale. Noi attendiamo a un compito un po' differente, che è
di conservare e trasmettere una tradizione di buon mestiere e di etica
professionale, di giornalismo "all'antica" e di libertà.
Ed è una strada vincente. Gli studenti che oggi - c'è una scritta bellissima
alla facoltà di Lettere a Roma: "sono orgoglioso di essere siciliano" guidano il movimento studentesco del Novanta, sono siciliani. La città che
oggi è più avanti nello scontro politico e civile, la città su cui entro
quest'anno cadrà il governo Andreotti-Craxi, è la capitale siciliana. Le idee e
il dibattito su cui si sta formando la sinistra che in questi anni andrà al
potere non sarebbero immaginabili senza le esperienze e le lotte siciliane. E
in queste, il contributo del giornale di Fava, del suo esempio, di tutto ciò
che attorno ad esso si è aggregato ed è cresciuto, ha avuto un ruolo non
piccolo e non marginale. E' un particolare trascurabile, a questo punto, che
contingentemente il giornale non sia in edicola. Certamente, è nostro
preciso e non utopistico intento - e senza alcun bisogno di sedicenti amici
dell'ultim'ora - di riportarcelo; ma già ora I Siciliani vivono, in Sicilia e
altrove, dovunque abbia attecchito un seme di ciò che fu lanciato allora.
Noi che siamo stati costretti - esattamente come altri giornalisti
d'opposizione in altri paesi sotto dittatura - a lasciare la nostra città
guardiamo oggi con fiducia a ciò che succede in Sicilia, a ciò che dalla
Sicilia s'irradia. Dalle varie città d'Italia in cui siamo stati dispersi,
conserviamo non il ricordo ma l'insegnamento attuale delle idee che hanno
dato vita all'impresa dei Siciliani. La consideriamo non chiusa, ma in fase di
affermazione e di rinascita: sotto lo stesso o sotto altri nomi, ma stavolta
non più solo in Sicilia ma in tutta Italia
UN UOMO E LA SUA LOTTA
Antimafia, marzo 1990
La sede dei Siciliani a Roma era in via Cola di Rienzo ed era in realtà un
mezzo appartamento, completamente vuoto salvo che per una branda, un
tavolo e due sedie. Con l'affitto, eravamo molto indietro: bisognava perciò
cercare di salire senza farsi notare dal portiere, il quale tuttavia
immancabilmente ci fulminava con uno sguardo di disprezzo. Il giornale era
uscito, il numero uno, da tre settimane, e i cavalieri avevano già mandato i
loro messaggi. Uno, il più bestia dei quattro, aveva offerto senz'altro dei
denari. Un altro, il più raffinato, aveva invece mandato suo figlio (un
giovane assai perbene, studente a Oxford e senza il minimo accento
siciliano) a congratularsi col direttore per il bellissimo giornale e a
osservare però che limitarsi a fare un mensile era, per giornalisti del suo
valore, del tutto inadeguato: perché non fare invece una televisione? La
prima tv privata della Sicilia, budget iniziale un miliardo: i soldi, si
sarebbero trovati; s'intende, libertà assoluta. Io ero a Roma, in quei giorni,
per gli esami di giornalista; lui per rintracciare non so che funzionario Rai
che aveva vagamente parlato di citare in qualche trasmissione il giornale,
Antonio per un servizio e poi c'erano anche Claudio e Miki e il direttore
raccontò del miliardo di Rendo e l'assemblea, seduta sulle due sedie e sulla
branda, decise all'unanimità di rifiutare. Eravamo allegri quella sera,
mandare al diavolo un miliardo non è cosa di tutti i giorni, poi lui e Miki si
misero a commentare le tre brasiliane che c'erano al ristorante sotto, poi io
dissi che all'esame mi avevano chiesto chi era Fossati, poi scendemmo
passando con indifferenza davanti al portiere che non ci salutò, poi salimmo
sulla macchina del direttore che era una cinquecento rosso ruggine e ce ne
andammo tutti alla Rai e fummo ricevuti, dopo tre ore d'attesa, dalla
segretaria del dottore. Della televisione se ne riparlò a settembre, venne
l'onorevole Andò a parlare col direttore e gli fece esattamente la stessa
proposta che a gennaio aveva fatto Rendo, e anche a lui fu garbatamente
spiegato che non c'interessavano le televisioni.
Non so: ci sarebbe la birreria di Catania dove, dall'una in poi, passavano
solo scippatori e metronotte, e noi. I metronotte prendevano una birra in
fretta, al banco, gli scippatori invece grandi scodelle di pasta alla Norma.
"Potremmo fare un settimanale" venne fuori l'idea, una notte, e allora
facemmo i conti sui tovagliolini di carta per vedere quanto poteva costare
fare un settimanale. Eravamo immortali, allora, niente di male avrebbe mai
potuto accaderci. (Ne sono morti parecchi, di quegli scippatori, da allora; di
uno fecero trovare la testa sotto la statua di Garibaldi, per una rapina
sbagliata; ma bevevano intanto e scherzavano fra di loro, come tutti).
Oppure la vecchia sede, in un paesino sopra Catania, quando arrivarono prese a cambiali - le macchine da stampa. Il direttore non c'era, e noi ragazzi
festeggiammo con uno spinello; qualcuno di noi ha ancora il filtro di
cartone, con le firme di tutti e la data. Oppure la "conferenza stampa" per il
primo numero dei Siciliani, avevamo invitato tutti i giornalisti della città e il
bar di fronte aveva mandato un quintale di pasticcini e spumanti per il
buffet, ma venne solo un anziano giornalista sportivo, vecchio amico del
direttore, e per tutta la sera rimase disciplinatamente là, a un capo
dell'enorme e solitaria tavolata, a fare le regolamentari domande e auguri
che si fanno alla presentazione di un giornale nuovo, e noi mangiammo
amaramente pasticcini per una settimana.
Certo: bisognerebbe parlare di mafia adesso, e di lotta alla mafia e
dell'informazione coraggiosa e di quella puttana. Ma a volte è una fatica
troppo grande ripetere sempre le stesse cose. Il direttore è morto, sei anni fa,
e questo è un fatto. I cavalieri sono ancora al potere, a Catania ed altrove, e
anche questo è un fatto. Ci sono più ragazzini scippatori, a Catania, di ogni
altra città d'Europa, esattamente come sei anni fa: e anche questo - che
gl'intrallazzi e le vigliaccherie finiscano per essere selvaggiamente e
pacificamente pagate dai più indifesi, che un ragazzo che nasce a Catania
non abbia diritto a nient'altro che a finire in galera - è un fatto come gli altri.
Ci siamo illusi, per alcuni anni, che una parte almeno dello stato italiano
considerasse questi e altri fatti come estranei da sé, come nemici, e che
sarebbe stato possibile - come si dice - "fare giustizia". Ma era un'illusione,
e basta guardare la faccia del giudice Ayala - cacciato perché voleva fare il
giudice - per averne un'idea. Sono state illusioni nostre, non di Giuseppe
Fava. Lui sapeva perfettamente (era molto più siciliano di noi) che in fondo
era tutta una questione di "berretti" e di "cappelli", di disgraziati sfruttati e
di galantuomini: e che mai i disgraziati hanno avuto giustizia dai
galantuomini, tranne che costruirsela da sé, a poco a poco.
IL PARTITO DELLA MAFIA
E QUELLO DELL'ANTIMAFIA
Antimafia, luglio 1990
Una volta le cose erano più chiare. C'era un partito che combatteva la
mafia, ed era il partito comunista. C'era un partito che appoggiava la mafia,
ed era la democrazia cristiana. La mafia non esiste, dicevano i preti. Con la
mafia non si tratta, dicevano i sindacalisti. E tanti anni son passati. Anni di
lotte dure, di battaglie feroci, di guerra: decine e decine di militanti, sotto la
bandiera sindacale o la falce e martello, sono morti per essa. In ogni più
sperduto angolo della Sicilia, chi era nemico della mafia sapeva
immediatamente con chi stare. Ancora sul finire degli anni sessanta, un
ragazzo fu fatto assassinare dal padre, boss mafioso, semplicemente perchè
comunista. Le prime manifestazioni contro la mafia, nell'ottantatrè, furono
quelle della Fgci; e il coordinamento antimafia nacque principalmente per
impulso di uomini e donne comunisti.
Non è che ora vogliamo metterci a far lezioni sui partiti. E' che una volta
la lotta fra i partiti coincideva quasi letteralmente con la lotta fra mafia e
antimafia, fra società dell'arbitrio e società civile; e abbiamo nostalgia di
quel tempo, quando tutto era tanto più lineare e facile da capire; e degli
esseri umani, pure, che di quel tempo furono, con umile orgoglio, gli eroi.
Ma la nostalgia non aiuta molto. Dobbiamo tornare alla nostra realtà, e
guardarla bene. Per esempio: c'è un professionista comunista, un certo
Leone di Catania, che la sua professione l'ha esercitata per decine di anni in
sostegno dei cavalieri del lavoro catanesi; e la professione, in questi casi, è
difficilmente distinguibile dalla vita politica e privata. Adesso che il vento
cambia, il professionista - prima membro autorevole del Pci, poi passato ai
socialisti di Andò, poi coinvolto di nuovo nelle faccende del vecchio partito
- ha bisogno che non si parli troppo di lui, o che almeno non se ne parli in
termini troppo precisi: e manda in giro due esponenti del suo partito (o expartito: non è stato possibile precisare il particolare) a raccomandarsi per
lui. Di questi, uno - l'onorevole Emanuele Macaluso - appartiene alla
maggioranza occhettiana, sostiene il cambio del nome, ecc.; l'altro - il
professor Pietro Barcellona - è fra i leader del "fronte del no". Pacioso e
arguto il primo, con la figura amabile di un "civile" di fine secolo; fiero
intellettuale il secondo, propugnatore di lotte e di riscosse; eppure, su un
punto si ritrovano senza contrasto: quello di negare che il compagno (o excompagno) Leone abbia mai avuto a che fare con imprenditori chiaccherati.
Ci sembra una circostanza interessante; e molto siciliana.
C'era una volta in Sicilia, molti anni fa, il "galantuomo" borbonico e
quello liberale. I borbonici erano per la tradizione e il codino, i liberali per
re Vittorio e la Talia: passavano intere serate a litigare su questo, al Circolo
dei Civili. Però, se qualche estraneo - qualcuno che non fosse un
"galantuomo" - si permetteva di mettere in discussione il ruolo sociale di
uno qualunque di loro, insorgevano tutti a difesa del galantuomo
"calunniato", liberale o borbone che fosse: la politica è bella, però ognuno al
suo posto. Anche il "sì" e il "no" sono importanti: ma il ruolo del
professionista di buona famiglia, nella società siciliana, è più importante
ancora; e quando questo ruolo vien messo in discussione, la solidarietà di
classe scatta ancora, oggi come cent'anni fa. Perchè il Circolo dei Civili
esiste ancora.
Il partito comunista, ai suoi begli anni, è stato l'esatto opposto del circolo
dei civili. Il luogo cioè in cui lo schieramento che si assume vale per tutta la
vita. Prima galantuomini, poi liberali; ma, prima comunisti, e poi
eventualmente tutto il resto. Non sappiamo quanto le teorizzazioni di
Togliatti e Amendola abbiano giovato al popolo siciliano. Ma la presenza di
un partito che "non ci stava", l'esistenza di qualcosa che stava fuori dal
Circolo dei Civili, di qualcosa che i "galantuomini" non potevano
controllare, questa è stata la cosa più utile e più grande che noi siciliani
abbiamo mai avuto. Contro i "galantuomini" tutti, liberali e codini; e se i
galantuomini si fanno sostenere dalla mafia, contro la mafia, sempre, senza
mezze misure. Licausi, Portella delle Ginestre, Pio La Torre.
Queste cose ci mancano, e non ne possiamo fare a meno ancora per
molto. Abbiamo bisogno di qualcosa su cui i "galantuomini" non possano
mettere le mani. Qualcosa che esprima la radicalità, la visceralità, la faziosa
irriducibile avversione dei Siciliani non-galantuomini al potere mafioso.
Non è più questa la vecchia sinistra, e non c'è ancora la nuova. Ma forse il
Coordinamento antimafia, una strada siffatta, l'ha cominciata ad aprire.
Rozzo, maleducato, difficile da ragionare: però schierato là fino in fondo,
fuori da ogni circolo perbene e impossibile da gattopardare. Il ruolo del
sindaco Orlando, il rinnovamento della sinistra, il nome dei comunisti, gli
assetti di palazzo di giustizia, i pentiti, l'estate palermitana, la pidue; la
stessa sopravvivenza fisica - infine - dei militanti antimafiosi. Tutti
argomenti importanti, su cui ci sarà molto da ragionare. Ma, a monte di tutti
questi, e di ciascuno di essi, resta l'argomento fondamentale che è il
seguente: che cosa sostituiremo, nella lotta di tutti, a ciò che avevamo una
volta e ora - digerito dai "galantuomini" - non abbiamo più.
IL NOSTRO DOVERE
Antimafia, gennaio 1991
La colpa non è di Cossiga. Nè di Salvo Lima, di Craxi, di Andreotti, di
nessuno di coloro che, fra uno scandalo e l'altro, hanno consegnato un Paese
a tutti i poteri del male,fra cui la mafia.E che altro potevano fare? Erano qui
per questo. Un tribunale dichiara ufficialmente,in Italia, che la mafia non
esiste (al massimo, i singoli mafiosi); un pubblico funzionario, al vertice
dello Stato, "decide e dispone" che i magistrati della Repubblica non son
degni d'ascoltarlo (al massimo, quelli scelti da lui); avventurieri e
mascalzoni raccontano compiaciuti ai giornali come avevano bene
organizzato il colpo di Stato e la guerra civile (magari,coi mafiosi a far da
sgherri). La colpa, di tutto questo, non è loro.
La colpa è nostra. Nostra, di noi antimafiosi. Perchè non è vero che la
gente, a tutto questo, non si oppone. Gli studenti di Gela, la loro parte,
l'hanno fatta.La primavera di Palermo,in Sicilia,c'è stata. Ma la primavera è
finita - e i ragazzi di Gela, traditi dal loro Stato, sono rimasti soli. Certo, la
primavera continua, sotterraneamente: ma intanto a Palermo comandano di
nuovo i comitati d'affari. Certo, gli studenti hanno saputo - a Gela ome
altrove - reagire con dignità, rinfacciando allo Stato la sua fuga e andando
avanti da soli: ma intanto la mafia occupa militarmente la zona. Si può
lottare insomma, in questo modo, ma non vincendo. Salva la dignità, non
l'avvenire.
Non mancano le forze. Manca il punto di riferimento, l'aggregazione. Qui,
dico che la colpa è nostra. La gente sta aspettando una bandiera, che noi
abbiam timore a innalzare. Chi è stato il più votato a Palermo,chi a Torino?
Due persone perbene, due antimafiosi. E dov'è Orlando adesso, dov'è
Novelli? A far belle battaglie,a denunciare,a polemizzare coi partiti - non a
vincere, non a ricostruire. Chi era, in Sicilia,il comunista più legato - dopo
Pio La Torre - al movimento antimafioso? E dov'è Galasso adesso, se non a
testimoniare, combattivo e isolato,la sua idea? Chi è riuscito a muovere la
società civile a Milano, chi ha contrastato fin lasssù, ai primi segni, la mafia
che avanzava in Lombardia? Ma che strumenti ha Dalla Chiesa, adesso, per
vincere e non solo denunciare?
Non mancano le forze. Nè a Orlando nè a Novelli né a Galasso né a Dalla
Chiesa è mai mancato, in campo aperto, il sostegno popolare. Contrastati e
isolati dai partiti, non lo furono mai dalla gente comune: pochi personaggi
pubblici, in Italia, son forse stati più popolari. Con tutto ciò,si continua ad
arretrare; mentre la bella Repubblica va in pezzi, coloro che dovrebbero
esserne i campioni combattono sì, ma come combattevano i cavalieri della
Tavola rotonda: che partivano quando garbava loro, isolatamente, cercavano
i loro orchi e i loro draghi, e tornavano - da punti diversi - dopo un anno,
fieri delle loro individuali avventure. I barbari, frattanto, devastavano il
paese.
Noi non abbiamo bisogno di sangiorgi a cavallo. Vogliamo uomini che
sappiano unirsi fra loro, raccordare le varie esperienze e il coraggio, creare
un polo su cui, fuori dalla "politica",ogni buon cittadino si riconosca.
Vogliamo che la protesta e la collera, che crescono quotidianamente, trovino
dove coagularsi; non più disperse, o raccolte da furbi e lestofanti. Vogliamo
che ognuno faccia il proprio dovere, e il dovere di chi ha responsabilità di
politico in questi momenti - quando essa venga da libera simpatia popolare
e non da segreterie di palazzo - è di assumere il proprio ruolo fino in fondo,
senza ritrosie inopportune e titubanze; con senso dei propri limiti e infinita
umiltà, ma sapendo che qualcuno, quando l'ora viene,deve pur chiamare a
raccolta. Perchè l'ora è gravissima, e tutto ciò che amiamo è minacciato.
Fare un partito nuovo, dunque? No: quelli, se li faccia chi ci crede. Se lo
faccia chi vuol levare un Cossiga dalla poltrona per metterci un Craxi, se lo
faccia chi sogna repubbichine bergamasche e varesotte, se lo faccia - o, se
già c'è, ci rimanga - chi vuol girare intorno alle cose, cambiare perché non
cambi niente. A noi serve qualcosa di più serio di un partito. Una forza
diversa, un comitato di liberazione e d'azione: che stia al nord come al sud e
dappertutto; che non abbia zavorra d'ideologia ma unisca senza tanti
fronzoli chiunque sia personalmente disposto a far qualcosa. Che, quando
occorre, presenti liste di cittadini: liste non di partito vecchio o nuovo, nè
commissionate - sia pure con nobili intenzioni - a tavolino, ma scelte
liberamente in libere assemblee di cittadini. Non per costituire delle
aggregazioni permanenti di potere ma semplicemente per aver nelle
istituzioni, qui ed ora, uomini che - per un tempo rigidamente determinato, e
con un programma essenziale e d'emergenza - provvedano dove bisogna.
IL CASO NON E' CHIUSO
Antimafia, luglio 1991
I giudici di Catania che si sono succeduti - con rare e isolate eccezioni nel corso degli ultimi sette anni non hanno atteso l'intimazione del
presidente Cossiga per adottare la norma che "non è compito dei giudici
combattere la mafia". E' il primo pensiero che viene in mente leggendo le
motivazioni con cui la magistratura catanese dichiara ufficialmente chiusa
l'indagine sull'assassinio del direttore de "I Siciliani" Giuseppe Fava,
avvenuto per mano mafiosa il 5 gennaio 1984. Non perchè anche questo
delitto rimane - come infiniti altri - "ad opera d'ignoti", nè perchè
manifestamente emerge dalle carte depositate l'inefficienza tecnicoprofessionale dei magistrati preposti ad indagare: questo si sarebbe potuto
anche comprendere, forse persino perdonare. Ma perchè in realtà
quest'inchiesta - e la cosa appare evidentissima dalle carte processuali - non
s'è voluta fare. Non si sono volute seguire le piste che uno sguardo anche
superficiale ai fatti avrebbe suggerito. Non si sono volute tenere in alcun
conto le indicazioni che amici e familiari dell'assassinato non avevano
mancato di dare. Non si è voluto insomma applicare alle indagini su un
delitto di mafia la serietà che indagini di questo genere implicherebbero, e si
è anzi cercato di negare il più a lungo possibile che di delitto di mafia si
trattasse. Il risultato, sono quegli striminziti quinterni in cui, al termine di
sette anni di "indagini" successivamente condotte da una dozzina di
magistrati, si compendia tutto ciò che la giustizia catanese è stata capace di
produrre su questo caso. Cioè niente.
Per tutto il 1984, obiettivo principale dei magistrati preposti al caso è
stato di dimostrare che la mafia col delitto non c'entrava nulla. Per almeno
sei mesi, hanno indagato minuziosamente sulla vita privata della vittima e
dei suoi collaboratori, nell'intento di trovare un qualche appiglio che potesse
consentire di scagionare i mafiosi. Hanno esaminato minuziosamente tutti
gli assegni firmati negli ultimi dieci anni da Giuseppe Fava e dai suoi
collaboratori e familiari, utilizzando le facoltà previste dalla legge La Torre,
istituita per indagare sulla finanza mafiosa ma a Catania utilizzata per
indagare sulle vittime della mafia. E così via. Si distinsero particolarmente,
in questa prima fase dell'inchiesta, i magistrati Giulio Cesare di Natale ed
Aldo Grassi, entrambi oggetto più tardi di provvedimenti del Consiglio
Superiore della Magistratura; dei due, il primo fu costretto a dimettersi dalla
magistratura mentre il secondo, trasferitosi prudentemente, proseguì la sua
carriera fino alla Corte di Cassazione, dove siede tuttora.
Sarebbe lungo rifare la storia di questi sette anni di "indagini" che non
furono tali. Dei pentiti che si dichiaravano disposti a parlare e venivano
immediatamente minacciati con la pubblicazione sul giornale "La Sicilia"
del loro nome cognome indirizzo e foto. Dei collaboratori di Fava
minacciati e - in almeno un'occasione - accusati, nei locali della questura, di
essere i veri autori del delitto. Delle campagne di stampa con cui il giornale
degl'imprenditori catanesi portava avanti le tesi di volta in volta più
favorevoli all'assoluzione delle responsabilità mafiose. Di tutti questi anni,
non un istante è stato dimenticato.
Sono stati anni di feroce menzogna, questi, per i potenti; ma anche, per
molti e molti giovani catanesi, anni di apprendimento della dignità. La lotta
per la verità, in questi anni, non ha mai avuto molti mezzi materiali, ma
isolata non è rimasta mai; nella coscienza della gente comune, la verità è
arrivata molto presto, su chi avesse ucciso Giuseppe Fava e perchè; soltanto
nel Palazzo non è arrivata mai. Il caso, per quanto ci riguarda, non è chiuso.
E non lo sarà finchè giustizia non sarà fatta. Non sappiamo se ciò riguarda
ancora il Palazzo di giustizia, e in generale i palazzi; riguarda sicuramente
tutti gli esseri umani che stanno faticosamente ricostruendo la loro società.
Quanto ai magistrati catanesi, ce n'è di giovani, negli ultimi tempi, che
cercano di operare onestamente, per quanto le loro forze consentono, per
fare il loro dovere con serietà. Non che siano incoraggiati dall'alto
(appartengono a quei "giudici ragazzini" che il presidente della Repubblica
si compiace d'ingiuriare), ma insomma vanno avanti. Auguriamo loro di
riscattare la vergogna che sul palazzo di Giustizia della loro città è stata
gettata da questi sette anni.
L'ESTATE CHE
volantino, estate 1991
Sabato 11 luglio, a Roma, ci siamo incontrati cinquanta gruppi giovanili
di base provenienti da tutta Italia. Associazioni cattoliche, centri sociali
autogestiti, gruppi di volontariato, nuclei d'immigrati: c'era di tutto. Storie
molto diverse fra loro, con quasi nulla in comune salvo il fatto di essere tutti
impegnati in prima persona e senza mediazioni "politiche" per cambiare
ognuno il proprio an
golo di società. E' stata una giornata molto bella. Ciascuno dei ragazzi che
sono intervenuti (e sono intervenuti tutti) aveva una sua esperienza da
raccontare: quelli di Aversa l'assistenza agli immigrati, quelli di Capaci la
conquista di una spiaggia libera in un paesino in cui tutte le spiagge sono a
pagamento, quelli del Corto Circuito il lavoro che fanno nel loro quartiere,
quelli di Catania il doposcuola organizzato coi ragazzini del quartiere "di
mafia", e così via. Tutti s'incontravano per la prima volta ma c'era
un'atmosfera di grande fiducia reciproca, di molto lavoro serio da fare
insieme. Nessuno aveva in mente, naturalmente, di fare il centesimo
gruppo/partito/partitino. Ma tutti si rendevano conto che un collegamento
fra tutte queste situazioni male non ne farebbe.
Così sono venute a galla alcune idee. Intanto, di stabilire questo
collegamento sotto forma di agende, di giri di telefonate ecc., senza nessuna
ufficialità. Vedere se questo collegamento può avere bisogno di una spece di
foglio da fare e far girare nelle varie situazioni. Poi, di stabilire delle
iniziative da fare insieme in autunno. Quali iniziative? Bisognerà definirle
tutti insieme. Intanto, però, alcuni punti su cui riflettere, quelli che eravamo
all'incontro, siamo riusciti a stabilirli:
- Quelli che venivano dalla Sicilia hanno parlato di mafia e antimafia.
Non è, hanno spiegato, una faccenda di polizia. E' una faccenda che
riguarda tutta la gente e che può essere affrontata solo se il movimento
antimafia diventa nazionale e riesce a togliere dalla scena i politici e i
cavalieri mafiosi. Questo significa meno Maurizio Costanzo show e più
organizzazione di base contro i potenti mafiosi.
- La faccenda di Di Pietro e delle tangenti. Chi deve "fare pulizia", oltre ai
giudici? I personaggi perbene (Rotary, La Malfa, leghisti vari) oppure i
semplici cittadini che pagano per tutti e non vengono mai consultati? Ci
piace "viva Di Pietro", ma non dev'essere una cosa da spettacolo,
discoteche: dev'essere un movimento serio, di gente di base, che si colleghi
fraternamente con coloro che contemporaneamente lottano contro la mafia a
sud. Tangentisti e mafiosi, tutti insieme.
- Il mestiere più diffuso in Italia è ancora l'operaio. L'operaio, e in genere
quello che vive di stipendio, a dicembre si vedrà portar via mezza
tredicesima, per pagare le tasse dell'"emergenza" (lasciamo perdere
l'aumento delle tasse all'università). Questo è profondamente immorale. La
lotta contro il potere mafioso e contro le tangenti non deve significare "paga
Pantalone". Diritti e doveri, tutti uguali. Non ci dimentichiamo degli operai.
Tutto qui. Non abbiamo moltissime idee, come vedete, non siamo i
maestri di nessuno. Però vogliamo discuterle, unirle con le idee degli altri,
mettere in moto un processo. Con umiltà e pazienza, ma anche con
moltissima fiducia e determinazione.
Chiediamo a tutti, ma soprattutto a tutti i gruppi, di qualsiasi tipo, che
fanno una qualunque attivià di base, di contribuire a questo processo. Di
portare ognuno la propria esperienza, le proprie idee, con altrettanta fiducia,
con altrettanta serietà.
NON vogliamo fare un partito! Ma vogliamo smetterla di essere delle
isole ognuna per sè. Non c'è niente, profondamente, che ci divide.
Dobbiamo solo imparare a rispettarci reciprocamente, a parlare con persone
diverse da noi, a lavorare insieme.
Centro sociale Corto Circuito, Roma; Il pane e e mele, mensile dei
giovani di Napoli; Seminario Società, Università di Palermo; Gridalo Forte,
Roma; Abc Musicanti di Brema; Centro sociale Cecchina; Lega per il diritto
al lavoro degli handicappati, Roma; gruppo rock Drago e i Coyots, Roma;
Centro sociale Brancaleone, Roma; Zero95, mensile dei giovani
Antimafiosi, Catania; Centro sociale Auro, Catania; Associazione
anticamorra I Care, Napoli; Dipingi la Pace, Palermo; Aurentinoccupato,
Roma ; Ti Con Zero, collettivo degli studenti di fisica, Palermo; La
Spiaggia, collettivo di Sciacca; C'era una volta una terra libera, studenti di
scienze politiche, Padova; Teatro Movimento '90, Roma; Associazione Il
Fortino, San Felice Circeo; Associazione Movida, Napoli; Centro sociale
Auro e Marco, Spinaceto ROoma; Collettivo comunista universitario,
Roma; Federazione democratica, Milazzo; Circolo Robert Owen, San
Giorgio Ionico; Movi movimento volontariato, Napoli; Pensionati occupati
Politecnico e Statale, Milano; Collettivo politico San Leonardo, Milano;
Gruppo Giovanile '88, Capaci; Collettivo Il Graffio, Torino; Associazione
Senza Confine, Roma; Lega Obiettori Di Coscienza, Napoli; Laboratorio
Antimafia, Milano; Centro sociale Officina 99, Napoli; Associazione La
Mongolfiera, Catanzaro; Centro socioculturale Garbatella, Roma; Circolo
Mare Aperto Roma; Centro assistenza extracomunitari La Roccia, Aversa;
Associazione italiana paraplegici, Roma; Conosud, cooperazione nord-sud,
Taranto; Movi movimento volontariato, Salerno; Uawa, Union Asiatic
Workers Association, Roma; Comitato per la difesa di Villa Pamphili,
Roma; Nero E Non Solo, Caserta; Associazione studenti Charlie Brown,
Taurianova; Giovani Oltre Limite, Gela; Cordinamento antimafia, Palermo
LA RETE
Antimafia, luglio 1991
Prima del referendum e delle elezioni in Sicilia, Craxi Cossiga e Bossi
sembravano i padroni del mondo. Dopo il referendum e le elezioni, ne
restano le caricature: Cossiga e Bossi a proclamare repubbliche e
repubblichette, Craxi a fare i conti col suo Gran Consiglio, dove fra molti
staraci s'affaccia già qualche Ciano. Tutto questo, s'intende, potrebbe anche
non servire a niente, se Cossiga e Craxi continuassero a venir presi sul serio
da Occhetto (che si ostina a considerare il primo un presidente e il secondo
un socialista); ma, se la sinistra sapesse cogliere le occasioni, per il regime
potrebbe anche essere l'inizio della fine. In ogni caso, la campagna gelliana
per la Seconda Repubblica finisce qui: grazie al signor Mario Rapisarda,
cittadino di Belpasso (Catania) il quale - insieme a un bel po' d'altri italiani
come lui - nel giro di otto giorni ha legnato Craxi prima col "sì" al
referendum e poi con la crocetta sulla Rete, mentre intellettuali e strateghi
della sinistra perbene discutevano garbatamente i pro e i contro di una
repubblica piduista. Un ultimo saluto agli ex-conquistatori spiaccicati per
terra, e passiamo alla Politica Seria.
Fra i protagonisti della quale, a questo punto, il lettore non mancherà
probabilmente di mettere il Partito della Rete: che dev'essere un partito ben
serio, per essere riuscito a strappare, con un'abile e ben congegnata
campagna elettorale, la prima vittoria della sinistra di questi anni; e dunque
un partito degno di dialogare con tutti gli altri partiti seri d'Italia.
E invece no. La Rete non è affatto un partito serio, anzi, a Dio piacendo,
non è affatto un partito: ha provato qua e là ad esserlo, ma con esiti - sul
piano propriamente partitico - disastrosi. La campagna elettorale della Rete
in Sicilia, in particolare, è quanto di meno "serio" si possa immaginare. In
sette province su nove, in effetti, la campagna elettorale non c'è stata: sono
stati distribuiti dei volantini e appiccicati dei manifesti da gruppi sparsi di
simpatizzanti, spesso non "ufficiali" (i rappresentanti "ufficiali" spesso
erano semplicemente i primi che s'erano presentati a chiedere la maglietta
della Rete). A Palermo, invece, di campagne elettorali ce ne sono state
almeno tre, del tutto distinte fra loro: gli ex-democristiani; il Coordinamento
Antimafia; e gli ex-Verdi di Capanna, avvolti in una complicatissima
strategia di Egemonia Leninista dentro-e-fuori la Rete). A Catania infine la
campagna elettorale c'è stata ed è stata una sola, ma solo perchè persone di
buon senso avevano tempestivamente provveduto ad accoltellare prima tutti
coloro che cercavano d'imbarcarsi alla gattoparda in Rete, e a nasconderne i
cadaveri nell'armadio; e anche lì, qualche gattopardino sopravvissuto (un Di
Mauro, ad esempio) non è mancato. Il tutto, coordinato da un
coordinamento nazionale che ha brillato, nei momenti migliori, per la sua
assenza. Per condimento, l'isolamento in cui - giustamente - il sistema
dell'informazione ha lasciato la Rete fino all'ultimo momento, avendo
l'intelligenza di isolare ulteriormente, all'interno di essa, i candidati e le
culture mmeno compatibili con esso.
Con tutto questo, la Rete ha vinto strepitosamente. Secondo me, non ha
vinto il partito della Rete; hanno vinto i cittadini che si sono serviti della
Rete. Non per le insufficienze tecniche del partito-Rete: ma proprio perchè
un soggetto politico vero, oggigiorno, può essere "semplicemente" questo:
uno strumento aperto, povero di sovrastrutture "politiche" ma ricco di
combattività e di valori, che la gente utilizza quando vuole e come vuole. E
la politica? Ma la politica vera è un progetto che si riempie a poco a poco,
che non nasce già completo nella testa di qualcuno, ma che va raccogliendo
strada facendo le cose che la gente ci mette (e bisogna vedere che tipo di
gente, come sociologicamente e culturalmente determinata). Che poi non è
nemmeno una novità, perchè è esattamente quel che è successo nei grandi
momenti di fondazione della sinistra; il Terzo Stato è nato prima del
"partito" giacobino, il movimento operaio prima dei partiti socialisti; l'uno e
l'altro hanno avuto bisogno di parecchio tempo per sviluppare delle strutture
politiche formali.
La Rete, in Sicilia, è una tappa di questo "poco a poco". Una tappa
particolarmente veloce, rispetto ad altre, perchè in Sicilia la società e il
potere sono così direttamente contrapposti (il potere mafioso è una forma
molto totalitaria di dominio sulla società) che è impossibile andare piano;
altrove c'è tempo e voglia per molte, diciamo così, mediazioni; qui da noi
no. In Sicilia, inoltre, già negli anni ottanta la società civile ha conosciuto
esperienze di scontro diretto col potere mafioso (il Coordinamento
Antimafia a Palermo, I Siciliani a Catania) che grazie alla Rete non sono
andate disperse, ma sono entrate in un circuito potenzialmente nazionale; e
anche ora - per esempio, nel passaggio della Rete da fenomeno regionale a
nazionale, e da movimento della sinistra cattolica a movimento della società
civile nel suo complesso - hanno svolto una funzione essenziale spingendo
in avanti e verso l'unità forze che diversamente avrebbero potuto anche
rimanere meno avanzate, e divise.
La Rete, adesso, ha delle scelte da fare. Può trasformarsi,
consapevolmente o meno, in un partito tradizionale, raccogliere subito i
frutti della vittoria siciliana, rafforzarsi organizzativamente e andare avanti
con "sano realismo" verso il cinque per cento alle prossime elezioni. Oppure
può cercare di diventare sempre più una rete, un collegamento fra cittadini,
un metodo di lavoro. Ci sono degli obiettivi realistici - ad esempio:
esprimere un governo della Repubblica fra il 1992 e il 1997 - che solo essa
può avere l'ambizione di porsi: ma a condizione di avere
contemporaneamente l'umiltà di porli non per se stessa in quanto tale, ma
per se stessa in quanto struttura di servizio di una parte molto ampia della
società civile.
Concretamente, credo che bisogni parlare fin dall'anno prossimo di un
governo ombra. Ma non nel senso caricaturale delle pie aspettative di un
partito, bensì come risultato finale di una serie di elaborazioni, di
proposizioni, di selezioni che avvengano nel seno stesso della società civile,
al di fuori del sistema dei partiti oggi esistenti. Credo che bisogna parlare da
subito di una lista da presentare alle elezioni dell'anno nuovo; ma non nel
senso minoritario di una ennesima lista - elaborata a tavolino - "del buon
partito", bensì come risultato finale di una serie di assemblee, di
convenzioni, di votazioni formali che avvengano nel seno stesso della
società civile, al di fuori del sistema dei partiti oggi esistenti. Credo ancora
che bisogna riflettere profondamente sul messaggio che la parola
"referendum" lancia ancor oggi - come il povero Craxi ha dovuto constatare
- ai cittadini; e organizzare dunque al più presto almeno un altro referendum
(i temi, sono quelli di questi anni) perchè la società civile possa riprendersi
di forza, uno dopo l'altro, tutto ciò che il regime le ha strappato questi anni
in fatto di diritti civili e di qualità della vita e di valori.
Abbiamo alcune poche strutture, ma abbiamo soprattutto un metodo da
offrire a tutti, e prima degli altri a noi stessi. Perchè anche noi della Rete
abbiamo molto da imparare, su come si fa una Rete. Il Movimento per la
Democrazia non è certamente l'unico, a poter imparare-insegnare tutto
questo. Ma intanto è il primo. Ha delle esperienze, ha un'immagine, ha la
simpatia di tantissime donne e uomini che istintivamente lo sentono dalla
loro; ha dunque una notevole - e non delegabile - responsabilità. Ha un
gruppo dirigente nazionale di buon livello, assolutamente pulito, ancora
poco veloce ma già molto solido e sufficientemente coeso. Gli mancano i
dirigenti e i quadri intermedi, che prima o poi bisognerà decidere (o non
decidere: che è lo stesso) come e da dove selezionare, se con metodi e in
ambiti - come in buona parte è avvenuto finora - tradizionali, o con metodi e
provenienze da esplorare rischiando; su questo, in buona parte, si
decideranno delle cose importanti nei prossimi anni.
Nei primi giorni del 1991 il popolo italiano scoprì, improvvisamente, che
la sua classe dirigente voleva fare una guerra. I vecchi hanno le idee molto
chiare, in Italia, su quel che vuol dire una guerra. Per alcune settimane,
nonostante giornali televisioni e Minculcop di vario genere, gli italiani
hanno avuto una maggioranza assolutamente antiregime, una maggioranza
contro la guerra. A metà del 1991 il popolo italiano scoprì,
improvvisamente, che esisteva una vaga possibilità di dire alla sua classe
dirigente quel che pensava della moralità di essa. E ancora una volta, ma su
un argomento completamente diverso dal precedente, nonostante giornali
televisioni e Minculcop di vario genere, gli italiani hanno avuto una
maggioranza assolutamente antiregime.
Infine, la Sicilia: un palermitano su quattro, nella capitale del potere
mafioso, cioè del più massiccio potere dell'Italia intera, ha votato per la
ribellione. Come non essere ottimisti, di fronte a questo? Il nemico non è
invincibile, siamo noi che non siamo ancora all'altezza. Ma c'è una prima
volta per tutto, e a poco a poco s'impara. Intanto, la società civile è uscita in
campo: battendosi nella politica, stavolta, non solo facendo discussioni.
Bene o male, molti o pochi che siano gli errori da commettere e commessi,
la strada è questa, ed è una strada ormai aperta.
QUIXADA
1991?
Caro amico, avrei così tante cose da scriverLe, ma la più immediata
secondo me è questa: sul prossimo numero di Avvenimenti che Le porterà
Antonella ci sarà un articolo di Miki, e uno di Antonio, e uno di Claudio.
Provvede Lei a tirare la somma? Tutto questo, per dirLe che sarebbe
veramente di pessimissimo gusto se, in questa nuova partita che si va- non
so come - ad aprire, non ci fosse anche Lei. Posso saltare un paio di
passaggi? Sarebbe molto bello se, fra qualche mese, la situazione
dell'universo fosse la seguente:
a) la gentile signorina C., che la settimana scorsa ha dato Storia Moderna
II, è intenta a riscrivere per la settima volta il suo ultimo racconto, che verrà
pubblicato quanto prima da La Luna;
b) il valente signor Orioles, che ha appena preparato i palinsesti peril
primo numero dei Siciliani, sta passando in tipografia l'articolo di Miki su
Rendo;
c) l'eccellentissimo dottor Quixada è alle prese con i primi due capitoli
dell'attesissimo volume sulla criminalità minorile in Italia;
d) il cameriere del Caffè della Pace sta raccontando al collega come gli
siano stati richiesti ieri, da tre inqualificabili figuri, altrettanti gelati per un
totale di quattordici gusti diversi.
Vorrei Lisia o Demostene, qui, perchè non ci vorrebbe meno della loro
eloquenza per essere convincente quanto vorrei: ma il succo è che se Lei
volesse comandarsi decisamente di provvedere alla Sua salute - non per
sopravvivere, ma per tornare in campo - molte belle cose avremmo ancora
da fare; e quel che finora Lei ha fatto a Catania, si potrebbe cominciare a
portarlo anche fuori. "Non ci sono uccelli nei nidi di ieri...". Ma forse, se
Sancho fosse riuscito a far comprendere veramente quanto affetto aveva
dentro, e quanta nostalgia, forse Quixada si sarebbe alzato coraggiosamente
in piedi, avrebbe raccolto elmo e scudo, e sarebbero ripartiti insieme, alla
faccia di tutti i cacadubbi e i farabutti. E chissà. Ci sono almeno due esseri
umani, in questo mondo, che per la propria felicità dipendono assolutamente
dalla Sua; una è Antonella, e l'altro sono io. Rimanga con noi, per favore,
non si lasci smontare.
NAZI
Avvenimenti, gennaio 1992
Vergogna ai parlamentari del Pds, di Rifondazione comunista e della Rete
che non hanno cercato d'impedire, sabato 13 a Roma, l'ennesimo raduno di
nazisti venuti a esaltare i genocidi ed a prepararne degli altri. Vergogna ai
loro dirigenti locali, troppo occupati in discussioni metafisiche per
accorgersi di quel che succedeva nella loro città. Vergogna agli studenti,
vergogna agli operai che hanno lasciato piazza libera agli hitleriani.
Vergogna ai democratici e agli antifascisti. E vergogna a noi, che non
c'eravamo.
Il 13 giugno 1992 è una data da ricordare, nella storia di questa città. Per
la prima volta, dopo tredici mesi di preparazione, i nazisti sono scesi in
campo apertamente e con le loro parole, gettando in campo un progetto
politico e una cultura, l'una che accetta e comprende il genocidio, l'altro che
nuovamente lo programma. L'altra data è il 19 maggio 1991, la prima
Soluzione Finale organizzata - si comincia sempre con poco - a Roma, il
primo non-ariano eliminato in nome della Razza: Auro Bruni. A ricordare
Auro, a lottare per lui, sono stati in pochi, durante un anno; sostanzialmente,
gli amici del centro sociale dove fu ucciso. A muoversi contro i nazisti, il
giorno che hanno portato i loro Goebbels a Roma, sono stati solo gli ebrei:
un paio di centinaia di giovani e di ragazze, e otto sopravvissuti dei campi.
E questo è stato tutto, e non c'è altro da dire.
C'è invece qualcosa da fare per il domani. Intanto, mai più dev'essere
permessa una manifestazione nazista a Roma. Bisogna impegnarsi, chi si
dice ancora civile, ad impedire a qualunque costo, e con qualunque mezzo,
che manifestazioni naziste possano ancora avvenire a Roma. Questa città ha
avuto morti. Questa città ha visto spingere figli e madri sui camion dei
nazisti. Ha avuto via Tasso. Mai più.
Il capo del servizio di polizia, il 13 giugno, era un certo vicequestore Elio
Cioppa, e il suo nome sta nelle liste della P2. Sarà solo una coincidenza. Ma
intanto, sia trasferito. "Sono state fatte poche saponette", ha urlato un
poliziotto agli ebrei, e il questore "annuncia provvedimenti".
Provvedimenti? Ma in quale carcere si trova in questo momento costui, che
ha commesso dinanzi a decine di pubblici ufficiali il reato gravissimo di
istigazione al genocidio? In quale carcere si trova il nazista Maurizio
Boccacci, che al vecchio che gli gridava "Ho fatto quattro anni ad
Auschwitz" ha urlato "Troppo pochi"? Chi l'ha arrestato sul posto, come
ordina e prevede la legge? Quale funzionario si è assunta la responsabilità di
non procedere, come era suo preciso obbligo, a questi arresti? Quale
sostituto procuratore di turno sta indagando - o non sta indagando - su
questi reati?
E' vero che a Roma esistono delle vere e proprie sedi, conosciute dalla
questura e tuttavia tollerate, di un'organizzazione neonazista che si chiama
Movimento Politico e che opera in flagrante violazione della legge sulla
ricostituzione del partito fascista? Sotto quale ufficio di polizia ne ricade,
territorialmente la competenza? E quali provvedimenti questo ufficio ha
assunto? Chi si prende insomma, nome e cognome, le responsabilità? O
deve finire come per gl'immigrati accoltellati a Colle Oppio, cogli
accoltellatori nazisti allegramente liberi dopo pochi mesi, o come il corteo
dei nazi a Santa Maria Maggiore, con sindaco e questore che si palleggiano
garbatamente la responsabilità? Davvero deve finire così? Quella volta fu
Dacia Valent l'unica a mettersi in mezzo alla strada, di traverso al corteo dei
nazisti; e gli altri trecento parlamentari della sinistra dov'erano? Sabato 13
giugno, fra l'altro, dicono, l'Italia aveva un Presidente della Repubblica
antifascista, uno che nel Quarantacinque c'era: perchè è stato zitto, i giorni
dopo sabato, il presidente Scalfaro? Perchè?
Non c'è da chiedere, stavolta, le dimissioni del questore di Roma. C'è da
chiedersi, piuttosto, se egli debba rispondere, per azione od omissione, di
responsabilità penali. Sulle quali, e su quelle dell'agente che ha insultato, e
del nazista Boccacci, e dei responsabili di polizia che non hanno proceduto
agli arresti, e degli attivisti nazisti, e di chiunque altro, è bene che cominci
da subito a fare accertamenti un comitato di giuristi, che avanzi precise
denunce, e che ne esiga il rispetto. Il resto, tocca ai cittadini democratici,
fuori del Parlamento, e in Parlamento.
UN DIBATTITO A CATANIA
1992?
Ancora una volta si torna a parlare di Catania solo dopo un morto
ammazzato. Per qualche giorno il "problema Catania" va in tv e sui giornali,
si parla, si discute, e poi, come sempre, tutti se ne tornano - meno il morto alla vita di prima. Succederà molte altre volte ancora, e sta succedendo
anche in questo preciso momento.
Un esempio, per capirci. E' dieci anni che il giudice Scidà denuncia il
fatto che i ragazzi catanesi, quelli dei quartieri poveri, sono i più emarginati
d'Europa, che abbiamo il record internazionale di giovani rapinatori e
disperati. Ed è da dieci anni che Scidà spiega perchè questo succede: perchè
vengono da quartieri costruiti - costruiti dai cavalieri - per pura
speculazione, senza nessuna struttura umana; perchè a chi comanda
conviene che ci siano giovani disperati, diversamente il ruolo della mafia di
garante dell'ordine non avrebbe senso; perchè gli esempi che questi giovani
subiscono quotidianamente dall'alto sono solo e sempre di corruzione, di
potere corrotto, di abuso. Bene, per dieci anni silenzio completo: Scidà
veniva isolato, di quel che diceva non si doveva parlare, tutto come se non
ci fosse. Poi finalmente un onorevole del governo ha scoperto le statistiche
di Scidà: ah, ma allora è vero che a Catania c'è la criminalità minorile! Qui
bisogna intervenire. Come? Risanando i quartieri? Mettendo questi ragazzi
in condizione di vivere alla pari, di avere gli stessi diritti di tutti gli altri
ragazzi italiani di vivere normalmente, in una città normale e non dominata
dai cavalieri? No. Semplicemente, aumentando le pene e decidendo di
mettere in galera più ragazzini. Perchè alla fine naturalmente debbono
essere loro a pagare. Di cercare sul serio - per esempio - il boss Santapaola,
e questo è un altro tema su cui Scidà da anni batte e ribatte completamente
isolato, e senza nessun ministro che lo stia a sentire, di catturare il boss non
si parla nemmeno. Tutti sanno che se Santapaola fosse preso, parlerebbe; e
se parlasse, salterebbe per aria mezza Catania-bene. Dunque, prendiamo i
ragazzini, e lasciamo in pace Santapaola. E poi facciamo tutte le
manifestazioni che vogliamo contro la mafia, facciamo i cortei con
l'arcivescovo che ha benedetto il supermercato di Costanzo, facciamo i
dibattiti con Tony Zermo che ora fa il giornalista pensoso ma sei anni fa
cercava di far passare Giuseppe Fava per un altro Pecorelli, facciamo le
tavole rotonde con gli architetti di Costanzo come l'architetto Leone,
facciamo le interviste con Pietro Barcellona che a Roma è un grande
rivoluzionario ma qui difende Leone, facciamo gli incontri con Ciancio,
riempiamoci la bocca di grande antimafia e gran società civile, e stiamo
tranquilli che di questo passo nessuno ci metterà mai i bastoni fra le ruote. A
chi possono fare paura tutte queste cose? Non certo alla mafia, non certo ai
cavalieri che comandano Catania: ai quali invece facevano paura i Siciliani
e faceva paura Giuseppe Fava.
Una cosa hanno subito detto tutti coloro che hanno indagato su Catania
con un minimo di serietà, Giuseppe Fava, Il generale Dalla Chiesa e Ccarlo
Palermo. Hanno detto che Catania è caratterizzata dal dominio di quattro
grandi famiglie. Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. Per anni noi dei
Siciliani, che per il resto non pretendiamo d'insegnar niente e nessuno,
abbiamo battuto e ribattuto ossessivamente su questo tasto: Rendo, Graci,
Costanzo e Finocchiaro; fino alla noia. Se avevamo ragione o no, e noi
questo lo dicevamo quando la versione ufficiale era ancora "a Catania non
c'è mafia", se avevamo ragione ormai ognuno può giudicarlo. Eppure, chi
ha avuto il coraggio di ripeterlo in questi anni? Chi, dei vari rinnovatori, di
tutti i vari Pannella, Bianco, Bommarito e compagnia bella ha avuto il
coraggio e il senso di responsabilità di dire "noi vogliamo salvare Catania, e
perciò invitiamo i catanesi a mobilitarsi contro i cavalieri"? Nessuno.
Eppure, molti catanesi li avrebbero seguito, come hanno seguito noi,
soprattutto i giovani, quando abbiamo avuto i mezzi per poter dire queste
cose. Zermo, ora, piange le lacrime di coccodrillo e dice "abbiamo nascosto
la verità per vent'anni". E lui dov'era? Ma noi non ce la pigliamo con
Zermo, che è Zermo. Ce la pigliamo con tutti coloro che, giovani
progressisti e pieni di belle parole, in buona sostanza si comportano - certo,
meno rozzamente - esattamente come lui. Ce la pigliamo con tutti coloro,
anche e soprattutto qui dentro, che prendono ancora questa gente per
interlocutore, perchè dopo sei anni nessuno può ancora essere ingenuo e
nessuno può più dire "io non sapevo".
La salvezza di Catania non può venire da altri dibattiti e da altre eleganti
discussioni, di queste ce ne sono state fin troppe e proppo spesso sono state
un alibi per mascherare ciò che non si faceva, e ciò che si faceva. Bisogna
invece riprendere, senza aspettarsi miracoli ma avendo fiducia nei giovani,
la dura e onesta pedagogia dei Siciliani. I Siciliani non promettevano niente
a nessuno, ma dicevano le verità, tutte le verità. I Siciliani non
appartenevano a nessun partito, ma indicavano un nemico preciso, i
cavalieri, e uno scopo preciso, cacciare i cavalieri. Questo si era cominciato
a fare, questo dopo i Siciliani non s'è fatto più, e questo bisogna
ricominciare a fare.
Non è più la situazione di prima. Nessuno può più dire nemmeno per
scherzo che a Catania la mafia non esiste. Nessuno può più far finta di non
sapere che cos'è la famiglia Costanzo, o Finocchiaro, o Graci o Rendo.
Nessuno che abbia a che fare con loro - qui una richiesta formale al Pci:
Leone è ancora un vostro iscritto o no? - più può essere in nessuna maniera
giustificato. Molte cose che dicevano i Siciliani - ad esempio il legame
organico fra mafie e massonerie e servizi segreti, che noi denunciammo per
primi, e da soli, molti anni fa, col professor Giuseppe D'Urso - ormai sono
senso comune. E i Siciliani, attraverso mille difficoltà, non sono affatto
dispersi. Siamo ancora qui, ancora collegati fra noi, ancora legati a questa
città, ancora in grado di lavorare per essa, e più decisi di prima. E forse è il
momento di rilanciare di nuovo gli strumenti organizzativi che, in questi
anni, hanno permesso ai cittadini più responsabili e decisi di organizzarsi
seriamente: a cominciare dall'associazione I Siciliani, in cui si sono riuniti e
possono riunirsi ancora tutti coloro che, al di là delle appartenenze che
ormai contano ben poco, vogliono lottare senza mezzeparole e compromessi
contro il potere dei quattro cavalieri.
Infine. Non è mai stato nostro costume rimuovere le cose più antipatiche,
quelle che per diplomazia e buona creanza si preferisce dire fuori
dell'assemblea. Per esempio, le elezioni, e i partiti. Il nostro giudizio sul
complesso della Catania politica esistente è abbastanza noto. Si va dagli
episodi tragici, come quello di un Caragliano che viene candidato alle
elezioni, e addirittura votato, a quelli comici, come Pannella che arriva a
Catania, imbroglia i catanesi, si fa dare i voti per combattere il potere... e
poi regala cinque consiglieri alla Dc; e si passa per gli ormai numerosi
rinnovatori, da Mirone ad Attaguile, da Bianco a Ziccone, ciascuno dei quali
ha fatto milioni di dichiarazioni contro la mafia, e nessuno dei quali ha
osato però prendere posizione sui cavalieri. Noi pensiamo che sarebbe un
gran bene che qui a Catania ci fosse una lista nuova, anche proprio
elettorale, e che non avrebbe molta importanza chi la promuovesse, purchè
fosse, esplicitamente e senza tentennamenti, contro i cavalieri; perchè la
radice del male sta lì. Appoggeremmo con piacere, anche se non siamo
politici, una simile lista; ma denunceremmo come un ennesimo gattopardo
chiunque venisse ad annunciare liste nuove e nuovi partiti e movimenti, e
poi sulla faccenda dei cavalieri, e di gli uomini che del loro sistema sono
parte, se ne stesse zitto. Una struttura nostra insomma, in tutte le istituzioni
elettive; e dunque delle nostre liste e dei nostri voti. Ma "nostro" di chi?
Ecco: se nostro significa di noi cittadini antimafiosi, che la pensiamo
diversamente su mille altre cose e ci rispettiamo a vicenda, ma intanto
contro mafia e cavalieri vogliamo fare qualcosa come un comitato di
liberazione, allora è un bel "nostro", un "nostro" in cui possiamo
tranquillamente entrarci tutti. Se invece vuol dire farumenti che non
dipendano da nessuno, una struttura nostra insomma, in tutte le istituzioni
elettive; e dunque delle nostre liste e dei nostri voti. Ma "nostro" di chi?
Ecco: se nostro significa di noi cittadini antimafiosi, che la pensiamo
diversamente su mille altre cose e ci rispettiamo a vicenda, ma intanto
contro mafia e cavalieri vogliamo fare qualcosa come un comitato di
liberazione, allora è un bel "nostro", un "nostro" in cui possiamo
tranquillamente entrarci tutti. Se invece vuol dire facciamo un altro partito,
un buon vecchio partito come gli altri, allora, altrettanto tranquillamente,
non vale la pena di perderci tempo.
IL PARTITO DI FALCONE E DEI RAGAZZINI
Avvenimenti, gennaio 1992
"Il partito di Falcone e dei ragazzini" non aveva un comitato centrale o
uno stemma, ma in realtà era l'unico partito esistente in Sicilia, oltre alla
mafia. Il rumore di fondo, in quegli anni, era costituito dall dichiarazioni dei
sindaci che escludevano l'esistenza della mafia nella loro città, dai giornali
ad azionariato mafioso che invocavano silenzio, dalla brava gente che
lavorava chiassosamente all'autodistruzione della sinistra, e dai colpi di
pistola. Furono i ragazzini di Palermo a scendere in campo per primi. Il
liceo Meli, l'Einstein, il Galilei, poi via via tutti gli altri. Si passava sotto il
Palazzo di Giustizia e il corteo,che fino a quel momento aveva gridato a
voce altissima i Nomi, faceva improvvisamente silenzio. Là dentro
lavoravano i nostri magistrati. Falcone, Borsellino, Di Lello, Ayala, Agata
Consoli, Conte: metà del Partito erano loro. L'altra metà, i liceali. A Catania,
fra il 1984 e il 1986, furono almeno trecento i ragazzi che in una maniera o
nell'altra parteciparono, da militanti, alle iniziative dei Siciliani Giovani:
furono i primi a gridare in piazza i nomi dei Cavalieri e a lavorare
quotidianamente - il volantino,il centro sociale, l'assemblea - per strappargli
dagli artigli la città. A Gela, a Niscemi, a Castellammare del Golfo, nei
paesini dove i padroni hanno la dittatura militare, essi vennero fuori e
lottarono, paese per paese e città per città. "La Sicilia non è mafiosa affermavano orgogliosamente - La Sicilia è militarmente occupata dalla
mafia". La Sicilia, dove ancora nel 1969 un ragazzo fu fatto uccidere dal
padre - boss mafioso - perchè era iscritto alla Fgci. La Sicilia che ha
combattuto, che non s'è arresa mai.
Ha combattuto, ed ha fatto politica, ha ragionato. La politica come
partecipazione, come trasversalità, come sociatà civile nasce nelle lotte
palermitane e catanesi di quegli anni: oggi è common sense dappertutto. La
fine del vecchio ceto politico, di tutta la vecchia storia, fu intuita per la
prima volta qui. Non è un caso se il movimento studentesco, due anni fa, è
ripartito da Palermo, e se là dura tuttora. Non è un caso se Palermo è l'unica
città d'Italia dove sia cresciuta un'opposizione di massa, dove l'opposizione
sia vincente. Non è un caso se a Catania il più totale black-out di tv e
stampa non riesca - due volte in due anni - a fermare i candidati
dell'opposizione. Non è un caso se a Capo d'Orlando i commercianti si
ribellano, non è un caso se a Gela gli studenti restano organizzati; e non è
un caso se a Palermo la gente non reagisce invocando la pena di morte ma
individuando lucidamente le responsabilità dei politici di governo e
prendendosela con loro. Dal 1983 - e sono ormai nove anni - in Sicilia è in
atto, con alti e bassi ma con una sostanziale continuità; non ancora
maggioritario ma già ben lontano dal minoritarismo. - un vero e proprio
movimento di liberazione. Contro la mafia, ma anche contro tutto ciò che
essa porta con sé.
Questo movimento avrebbe potuto essere esattamente l'anello che
mancava alla sinistra italiana, il punto di partenza per ricostruire tutto.
Invece, è rimasto solo. Solo a livello di palazzi, di comitati centrali, di
radical-chic, di giornali: non a livello di ragazzini. Domani, ad esempio ma non è una novità, perchè avviene regolarmente ogni settimana - c'è
assemblea dei liceali dell'Antimafia a Roma. Sono i soli, in Italia, a non
avere paura dello sfascio. Perché sanno che c'è una classe dirigente pronta a
prendere la responsabilità del Paese anche domattina, se fosse necessario - e
non è detto che non lo sia. Orlando, Claudio Fava, Carmine Mancuso, Dalla
Chiesa? Sì: ma anche - e soprattutto - Davide Camarrone del liceo Meli,
Antonio Cimino di Corso Calatafimi, Fabio Passiglia, Nuccio Fazio, Vito
Mercadante, Angela Lo Canto, Carmelo Ferrarotto di Siciliani Giovani,
Nando Calaciura, Tano Abela, il professor D'Urso: avete mai letto questi
nomi sui giornali? Benissimo. Infatti, neanche i nomi dei primi socialisti
uscivano sui giornali, cent'anni fa.
Una metà del "partito" oggi non c'è più. Martelli, il giudice Carnevale,
Pannella e Cossiga sono riusciti, ognuno con i suoi mezzi, a svuotare il
Palazzo dai nostri magistrati e lo stesso Falcone, ben prima d'essere ucciso,
era già stato messo in condizione di non essere più quello di prima. Dei
"vecchi", solo Borsellino e Conte sono rimasti al loro posto. Ma nel
frattempo sono cresciuti i Felice Lima, i Di Pietro, i Casson.
TEMPO D'ELEZIONI
Antimafia, febbraio 1992
Non so se il regime che verrà dopo quello democristiano sarà migliore o
peggiore. So però che, di questo, siamo agli ultimi mesi. Cossiga, che come
personaggio politico è mediocre, è tuttavia esemplarmente il sintomo di
un'atmosfera culturale, una di quelle apparizioni che, nella storia di un
paese, non possono aver luogo che in precisi e determinati momenti.
Cossiga, Sgarbi, il giudice Carnevale, il socialista Chiesa: è la fotografia più
puntuale dell'evoluzione cui è giunta la classe dirigente nazionale (c'è
un'altra foto che si contrappone specularmente ad essa, ed è quella dei
supermercati di un anno fa, con la gente che fa incetta di viveri, perchè non
si fida). Bossi, D'Annunzio, Eltsin, Mussolini: in un regime che muore
primeggiano gli avventurieri. Cossiga, fra i politici di mestiere, è stato
quello che con più lucidità ha compreso questo dato di fatto, fino a decidere
conseguentemente di farsi avventuriero egli stesso, con l'obiettivo sempre
meno nascosto d'instaurare una sua dittatura personale. E qui arrivano le
elezioni: che potranno andare meglio o peggio per il partito di Cossiga, ma
ne sanciranno in ogni caso ufficialmente l'esistenza. Un terzo degli elettori,
in diversa maniera, sarà schierato fuori e contro, dopo il cinque aprile, la
nostra democrazia costituzionale.
Sono stato ospite, l'ultima volta che sono andato a Palermo, da una delle
compagne del Coordinamento. Trent'anni, una casa non ricca, un bambino
che fa i compiti sul tavolo da pranzo; una cinquantina di libri in uno scaffale
(biografie, antimafia, un po' di buona letteratura), tre o quattro fascicoli,
semiaperti sul tavolo, di preparazione a un concorso. Il bambino sapeva
perfettamente un sacco di cose su Palermo, e domandava e spiegava con
vivacità e intelligenza. Io mi guardavo attorno, e sentivo un che di familiare
e di noto, che tuttavia non riuscivo a precisare. I libri meticolosamente
ordinati, il bambino, la compagna che riordinava rapidamente la cucina,
l'aria di dignità - per così dire - militante che aleggiava per la casa. Solo
parecchi giorni dopo, improvvisamente, ho collegato la scena a un'altra, di
molti - almeno venti - anni fa, di quand'ero stato ospitato, in circostanze
simili e sempre in Sicilia, da un compagno bracciante del Pci; anche là mi
avevano colpito la pulizia e l'ordine della casa, e i libri raccolti alle pareti. E
anche allora io cercavo una risposta a delle domande - diciamo così
"politiche" - e a un tratto, improvvisamente, mi ero reso conto di averla
avuta.
E' facile essere un movimento in piazza. Ma io credo che un movimento
vero - di quelli che cambiano il mondo, ogni cent'anni - consista soprattutto
nella vita quotidiana di alcuni esseri umani. Al paese di Di Vittorio, molti e
molti anni fa, i signori giravano con il cappotto, i contadini con la mantella.
Di Vittorio era un giovane contadino. Un giorno decise di procurarsi un
cappotto, e di andare in cappotto sulla piazza del paese. "Dopo" si accorse
che quello che aveva fatto era stato un gesto politico. " Noi contadini siamo
uguali a voi" voleva dire quel cappotto. Ed era il punto di partenza per tutto
il resto.
Sono stati molti i punti di partenza, in Sicilia, in questi anni. Ciascuno dei
suoi protagonisti incontrava sempre sulla sua strada l'impatto con il sistema
di potere, che da noi chiamiamo mafia, e che da noi è molto più esplicito e
diretto che nel resto del paese. Per questo siamo stati costretti, fin dall'inizio
e per tutto questo tempo, ad essere molto espliciti e diretti anche noi. Sono
passati diversi anni prima che ci accorgessimo che tutti questi "punti di
partenza" (col loro carico di vite quotidiane, di singole esperienze,
d'umanità) potevano essere collegati fra loro; ma alla fine ci siamo arrivati.
E siamo arrivati anche a capire che questo collegamento è "politico", ed è
anzi la politica nella sua forma non corrotta e originale, quale compare nei
tempi di crisi e di rifondazione. Parecchio tempo dopo, man mano che il
regime democristiano (e dei partiti) aentrava in crisi, questa percezione si è
fatta senso comune, a macchia di leopardo, un po' in tutto il paese. Ma
siamo stati noi - noi movimento antimafia -, pur con tutte le nostre
approssimazioni e rozzezze, a intravvederla per primi. Per questo abbiamo,
oggi, una responsabilità.
Dal momento che esistono delle istituzioni, e dal momento che abbiamo
deciso che la nostra, fra l'altro, è una "politica", si è posto il problema di
come portare questa politica "anche" nelle istituzioni (se toglieste
quest'"anche" tutto il discorso assumerebbe un altro aspetto, e il movimento
antimafia finirebbe dritto in qualche logica di partito o gruppettara). La
maggior parte di noi abbiamo ritenuto che, qui ed ora, lo strumento migliore
in questo senso fosse la Rete. La rete a cui pensavamo, per la verità, era
molto più una rete con la erre minuscola, un insieme di collegamenti e di
azioni, una Resistenza insomma, che una Rete con tanto di maiuscola come
quella che ogni tanto minaccia di saltar fuori. Ma tant'è: avevamo, e in
buona parte abbiamo ancora, fiducia in una serie di storie personali, in
Orlando, in Dalla Chiesa, in Pintacuda, in Galasso, in loro ma soprattutto in
una serie di realtà di base che in questa rete hanno trovato, bene o male, un
riferimento. E anche oggi (per quanto le scelte elettorali del movimento
antimafia siano lungi dall'essere omogenee: io ad esempio, al mio paese,
voto alla camera per uno dei Siciliani nella Rete, ma al senato per un
vecchio operaio che ora è a Rifondazione) anche oggi la scelta fatta mi
sembra complessivamente giusta. Solo che adesso, diciamo dalle elezioni in
poi, bisognerà mettere un bel po' di puntini dove ce n'è bisogno. Bisognerà
stabilire se questa benedetta maiuscola, nella rete, ci sta bene oppure no, e
di chi è questa rete, e con chi si fa. Non sarà una faccenda facile stabilirlo, e
probabilmente litigheremo parecchio. Ma è meglio così: i compagni si
aiutano molto di più litigandoci, chi gli vuol bene, che non lasciandogliele
passare tutte. E questo vale per la Rete ma vale anche - beninteso - per tutto
le altre bande di rossi, verdi, rosa e compagnia bella che, ognuno per la sua
parte e senza filarsi per niente,disordinati e generosi, pieni di pregiudizi e di
coraggio tentano tuttavia di ricostruire qualcosa.
Se le elezioni non saranno un disastro, se il colpo di Stato non avverrà
prima delle elezioni e non avverrà neanche immediatamente dopo, se la
campagna elettorale sarà riuscita a portare a galla un certo numero di
militanti di base, se le sinistre politiche riusciranno (a cominciare dalla
Rete) a liberarsi almeno in parte da troppi politicanti e tromboni che ne
affollano le file, se riusciranno magari a dare un minimo d'attenzione alle
varie realtà di base che ne sono state finora le cenerentole e cassandre
inascoltate; se riusciremo tutti ad ascoltarci l'uno con l'altro, a ricordarci in
ogni momento della nostra "politica" la politica vera da cui siamo nati,
allora forse avremo qualche possibilità di costruire qualcosa. Diversamente,
in tempi rapidissimi, crollerà ciò che resta dell'attuale regime, e s'instaurerà
qualcosa che prima farà ridere, e poi farà orrore. I Cossiga, i Carnevale,
saranno senza remore i padroni; e abbiamo già visto cosa essi sentono per la
mafia, di quale giustizia intendono farsi i vendicatori. Avranno campo libero
i gerarchi: gli Starace, i Farinacci, i Chiesa, i Fini e i Bossi, gli Andò. Sul
quale, voglio chiudere.
La condanna dei giornalisti migliori che abbia oggi il Paese, condanna
decretata sul tamburo e fulminata di getto, non merita - mi riferisco al
processo contro Fracassi e Fava, indetto dallo stesso Andò - commento
alcuno se non questo, che essa entra nella storia giudiziaria accanto a quella
del giudice Russo che assolse gli amici dei mafiosi per "stato di necessità";
l'una e l'altra, per avventura, attinenti a faccende catanesi. Onorata
condanna, per chi l'ha subita; da tenere a mente. Il giorno dopo, in Sicilia, le
autorità (sentendosi evidentemente incoraggiate da essa) mandarono a
chiudere, con gran spiegamento d'uomini e mezzi, i locali che i giovani
avevano occupato per farsene centri sociali, e che le autorità intendevano
invece regalare all'imprenditore Ciancio perchè ci facesse i suoi affari. Va
bene: dopo le condanne del Tribunale, ai loro tempi, son solevano i fascisti
andare - incoraggiati - a far festa bruciando sindacati e cooperative? Ma i
regimi passano, la forza degli uomini liberi resta. Dell'onorevole Andò,
personalmente, ricordiamo quanto ci disse Giuseppe Fava. Il primo numero
dei Siciliani uscì nel dicembre 1982. A gennaio, arrivarono le prime
"offerte": fra cui quella di un componente della Famiglia Rendo, che offrì
per l'appunto al Direttore - senza, s'intende, far cenno minimamente ai
Siciliani - la direzione di un'emittente televisiva, budget iniziale un
miliardo. L'offerta, naturalmente, fu respinta. Sette mesi dopo l'onorevole
Andò venne a trovare Giuseppe Fava e gli offrì - neanche lui fece il minimo
accenno ai Siciliani - la direzione di un'emittente televisiva, budget iniziale
un miliardo. Anche quest'offerta fu respinta, ed era l'autunno del 1983.
UN PROMEMORIA PER LA RETE
1992
Non so a che punto sia il documento finale, ma vorrei uscire un attimo - ci
torno subito! - dalla mia inossidabile Neutralità Professionale con qualche
osservazione. Il documento a cui state lavorando ora non è infatti un
semplice strumento di lavoro per l'oggi ma un imprinting per il complesso
dell'iniziativa. Più che il programma, dà lo stile: e mentre l'uno può (e deve)
essere facilmente superato e aggiornato dai fatti, l'altro viene definito,
qualunque siano le intenzioni, una volta per sempre
Il documento di cui la Mia Neutralità ha finora potuto prender visione è,
in questo senso, piuttosto carente e richiama molto più il club che il
comitato di liberazione. Non perché manchino - non è la sede - gli obiettivi
d'azione ma perché i grandi e generali principi esposti non possono
surrogare gli esempi, le fattispecie immediate e la tensione che un appello
del genere dovrebbe avere ora. Qualcosa d'analogo vorrei osservare - ma ci
sarebbe da analizzare assai più, sotto il profilo del messaggio - sulla sintassi
e sul vocabolario usati e insomma sul linguaggio (che anch'essso fa
imprinting, "almeno" quanto il contenuto); giustamente tenuto sottotono; ma
è il sottotono di Micromega, non quello di Gobetti. Almeno quattro punti
avrebbero potuto, e possono ancora, fare da ossatura al documento, quattro
punti concreti, con una specificità operativa, e una immediata rispondenza
nella coscienza comune
Il primo, evidentemente, è la guerra. "Repubblica" ha censurato l'ultimo
capoverso dell'appello ai parlamentari di Pax Christi, capoverso che
costituisce il massimo di radicalità e sovversione degli ultimi vent'anni:
"Risparmiateci, vi preghiamo, la sofferta decisione, quale extrema ratio, di
dover esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a
riconsiderare secondo la propria coscienza la enorme gravità morale dell'uso
delle armi che essi hanno in pugno". Firmato, monsignor presidente e il
Comitato esecutivo di Pax Christi; non smentito, la Chiesa. I preti, dunque,
si rivolgono alla classe dirigente e le dicono: se voi farete la guerra, noi
chiameremo i soldati a disertare. La classe dirigente, giustamente, censura il
terrificante messaggio. Ma noi, ce ne siamo accorti? In queste ore fra il
quindici e il sedici gennaio, non tanto nei comitati e nelle piazze quanto
nella quotidianità della vita e nelle coscienze, l'Italia ha cambiato
maggioranza. Io non esito a dire - ma le cronache istituzionali, a ben vedere,
mi danno ragione - che questa maggioranza è cattolica e comunista,
profondamente; nel senso che aveva al mio paese, subito dopo l'alluvione.
L'Italia delle vetrine, in questa notte, s'è rivelata artificiale; l'Italia che s'era
data per sepolta invece è viva, e molto spesso ha sedici anni. Io ve lo dico
molto male, per come posso; ma è un preciso dato politico, non un
sentimento. E' una richiesta precisa, a cui va data una risposta precisa - su
guerra e dopoguerra - adeguatamente radicale. Di passaggio, nel vostro
documento non si parla - mi pare - di studenti. Perché? In questo momento,
fra i giovani si è andati - a livello di massa - anche al di là della Pantera:
anche questa, per dei politici, è una richiesta precisa
Il secondo punto riguarda, diciamo così, la giustizia: tutto ciò che ad essa
si riferisce, compreso il funzionamento del nuovo codice, è generalmente
vissuto come inaccettabile; e già si comincia ad affrontarlo da destra, nella
cultura della paura. Affrontiamola noi, prima: campagna contro i nuovi
codici, campagna per i magistrati, campagna contro lo smantellamento
dell'antimafia; non sono battaglie già finite; sono semplicemente battaglie
su cui, al momento in cui il potere le impose, non c'erano le forze e le
culture; ma ora ci siamo noi, coi nostri otto milioni di elettori e il nostro
laboratorio culturale. Sono battaglie nostre, possiamo riaprirle in qualsiasi
momento, e il momento può benissimo essere ora. Il terzo, è la legge sulla
droga: che ha colpito i giovani non tanto come consumatori di fumo (il che
già è fascista) quanto come giovani propriamente: come gli esseri cioè che
fanno o potrebbero fare qualcosa di non previsto, e che bisogna dunque
incanalare a forza lungo una precisa e codificata "normalità". Il terzo punto
potrebbe essere questo: riaprire il casino sulla legge Jervolino, fare il
bilancio dei costi, rimetterla sfrontatamente in discussione, collegarla
all'avanzare della mafia. Qui vorrei fermarmi un momento
Sulla questione della mafia e delle massonerie, cioè della classe dirigente
del Meridione e, fra due anni, dell'Italia, il documento è molto carente, nei
contenuti ma soprattutto e sorprendentemente nella tensione e nel
linguaggio. Proprio noi? Questo mi fa pensare. Qui, evidentemente,
l'argomento è tanto radicale che Micromega fa più danno che altrove. Gli
esempi concreti - noi abbiamo usato i Cavalieri - qui non sono utili, ma
indispensabili; perchè qui proprio di lotta di liberazione, in senso stretto, si
tratta: e non si può assolutamente pensare di ricavarla da principi generali.
Quanto poi del movimento antimafioso nostro possa essere "esportato",
quanta parte della sua cultura possa funzionare altrove, quanto esso possa
complessivamente e dovunque prefigurare - in quanto movimento - la
sinistra di domani, è tutto da discutere (io rispondo settariamente "tutto" a
tutt'e tre le questioni: ma è personale) e soprattutto da verificare
concretamente nei fatti, non certo ora: ma l'esperienza antimafiosa è la parte
più vitale, più generalizzabile e più calda del nostro imprinting, e non va
semplicemente enunciata
Il quarto punto che proporrei è relativo all'organizzazione. Che per noi
non dev'essere l'allegato meno nobile, e separato, del progetto, ma una sua
parte politica, e integrante. Organizzazione di chi? Non dell'associazione
separata che per avventura chiamiamo Rete, ma di ogni qualunque
associazione di cittadini (e "anche" della nostra) che voglia far società
direttamente, e senza mediarsi nei partiti. Servono delle tecniche: quali
sono? Come potrebbero configurarsi da un punto di vista associativo, e
giuridicamente? Vogliamo cominciare a studiarne qualcheduna? E a
metterne in comune con tutti i risultati, come primo contributo istituzionale
concreto? Non si tratta di abolire i partiti - ha ragione Diego - ma di
proporne un modello alternativo. La parola "partito" può essere mutata, ma
il concetto no. Pure, sotto questo concetto si sono succedute cose tanto
diverse come il club giacobino e il comitato liberale, la sezione comunista e
il sindacato brasiliano, che ormai è tempo di pensare un po' meno alla
polemica sui nomi e un po' più allo studio, e alla proposizione concreta,
delle strutture. E' un nodo decisivo - consente d'uscire dalla scelta fra partito
burocratico e folla di seguaci - e la gente lo comprende. E' un punto politico
del progetto
Non è tutto qui. Una delle novità rispetto al modello tradizionale di
progetto è proprio questa, che non bisogna essere esaustivi. Basta sapere ma dire con chiarezza totale, e con nitidezza e umiltà di linguaggio - il dieci
per cento delle cose; le altre, toccherà ai diretti interessati di portarle, e
sedimentarle e amalgamarle via via con quel che c'è già. Non mi azzarderei,
per esempio, di parlare di problemi delle donne; o di operai. Ma posso
annotare che un movimento in cui prima o poi non venga sollecitato, o non
irrompa, un input specifico di questo genere sarà portato inevitabilmente ad
essere nei suoi momenti "medi" un movimento "borghese" e "maschilista";
non sarà, in ogni caso, un movimento di tutti. Ma, per questo c'è tempo
Affettuosamente, vostro neutralissimo
P.S.: Istituite gruppi di lavoro per robe specifiche, aperti a tutti. Ogni città
(= ogni Rete) un gruppo di lavoro su un problema diverso.
MODESTA PROPOSTA
per trarre celermente a fine, con reciproca e duratura soddisfazione delle
Parti, i Conflitti presentemente in atto nei Balcani
1992
Da che mondo è mondo le guerre si fanno principalmente - ed è principio
ormai universalmente compreso - per conseguire benefici economici di
breve o lungo periodo. La maniera di condurle è peraltro completamente
diversa da quella dei capitani del passato: ci si bombarda reciprocamente i
bambini finchè una delle due parti non cede; il che è indubbiamente un
vantaggio per i soldati. E sarebbe senz'altro da approvarsi se conducesse
allo scopo; ma così non è. Possiamo infatti agevolmente osservare come i
bombardamenti non abbiano finora dato luogo a beneficio economico
alcuno per chicchessia, ma con ogni evidenza il contrario. Se ne ricava una
legge, che enuncerei così: "Il degrado economico dei Paesi belligeranti è
direttamente proporzionale all'aumento del numero dei bambini
bombardati". Il che, a prima vista, non apparirebbe razionale, essendo stato
l'evento prodotto in vista di un obiettivo esattamente contrario.
Ma, a una più approfondita riflessione, la contraddizione si spiega. Dietro
la semplice locuzione "bombardare i bambini" si cela infatti tutto un
congegno di procedure - fabbricare i missili e gli apparecchi, condurli in
volo, rimpiazzar quelli perduti e le artiglierie - e dunque un complesso non
indifferente di costi: il totale dei quali annulla il vantaggio economico
derivato dall'aver bombardato dei bambini e torna dunque a gravare sullo
stato dell'economia. Che fare dunque? E' agevole intuire che la condizione
per riportare equilibrio economico nell'operazione non può essere che una,
portare a zero o ridurre il costo dell'abbattimento dei bambini: ma questo
apparirebbe un assurdo. Poichè nessun bambino è infatti disponibile a
presentarsi spontaneamente per farsi abbattere, è necessario raggiungerlo al
suo domicilio con artifici dispendiosi: e dunque, inevitabilmente, con un
costo: che nessun Governo può fare a meno di affrontare, se vuol fare la
guerra che gli è indispensabile per risolvere duraturamente i problemi della
sua economia. Il cane che si morde la coda.
Impossibile, dunque? Non è così. C'è un piccolo impercettibile
particolare, in quel che abbiamo detto, che consente di rovesciare la
costruzione. Abbiamo detto infatti "nessun Governo"; ma "nessun Governo
da solo", avremmo dovuto dire in realtà. Il Governo Serbo, ad esempio,
affronta sì dei costi per bombardare i bambini Croati; ma non ne
affronterebbe alcuno, o ne affronterebbe di molto ridotti, per bombardare i
bambini suoi propri. La distanza che intercorre fra Belgrado e Belgrado è
infatti incontestabilmente inferiore a quella che intercorre fra Zagabria e
Belgrado. Analogamente, il Governo Croato affronterebbe costi
incomparabilmente inferiori se decidesse di bombardare i suoi propri
bambini invece di quelli altrui. Certo, ciascuno dei detti Governi non
ricaverebbe alcun vantaggio militare, isolatamente preso, bombardando
bambini non ostili; ma se ciascuna delle parti, contestualmente,
bombardasse i bambini più economici (vale a dire, i propri) il risultato
complessivo sarebbe lo stesso di un bombardamento incrociato, ma a costo
zero.
Certo, la natura umana è quel che è, e non ci sarebbe da stupirsi se una
delle due parti tentasse astutamente di sottrarsi all'impegno, lasciando che la
parte avversaria bombardasse i suoi bambini e rifiutandosi poi di
bombardare i propri. Ma le organizzazioni internazionali esistono per
questo. Le Nazioni Unite, in particolare, potrebbero vigilare - attraverso
un'apposita Commissione, dotata di poteri esecutivi - sulla rigorosa e
contemporanea esecuzione dei bambini. La Commissione effettuerebbe
delle ispezioni all'improvviso, e sarebbe dotata di un proprio Corpo di
spedizione multinazionale. Nessun bambino illegale potrebbe assolutamente
sfuggirle. Lo stesso meccanismo potrebbe essere posto in opera per le
Potenze che intendessero direttamente o indirettamente partecipare, anche
solo occasionalmente o parzialmente, al conflitto. Il Governo Francese
avrebbe potuto ad esempio - per trarre una fattispecie dalla cronaca recente cobelligeare agevolmente mediante l'economica esecuzione di uno o due
scolari a Parigi o a Marsiglia, senz'essere obbligato a chiassosi e dispendiosi
mitragliamenti stradali (almeno 80 proiettili cal. 9 lungo, al costo di 25
franchi ciascuno!) di automobili profughe, colà peraltro rare. Gl'Italiani, che
attualmente spendono miliardi (un esercito e una flotta mobilitati in Puglia e
nelle acque adiacenti) per difendersi dagli Albanesi, potrebbero provare
esattamente le stesse emozioni con un facile rastrellamento, seguito magari
da bombardamento navale (il quale però alzerebbe i costi) nel plesso
scolastico di Molfetta di Bari. E così via.
Ma c'è ancora un'obiezione.
Nella Carta delle Nazioni Unite si leggono proposizioni (da lungo tempo
disattese, è vero, ma formalmente vigenti) che potrebbero forse crear
ostacoli quanto meno procedurali allo scorrevole funzionamento della
Commissione. Osservo però che io non ho mai detto che i bambini in
questione debbano essere abbattuti con uno strumento bellico determinato.
Ho usato il termine "bombardati" perchè è quello che, mi sembra, più si
assimila alle disordinate esperienze finora in corso. Ma ogni altro mezzo
andrebbe anche bene allo scopo: teoricamente, i bambini potrebbero anche
essere abbattuti singolarmente, con uno strumento qualunque purché atto
allo scopo. E' da osservarsi però che, tanto per motivi di praticità quanto per
un qual certo simbolismo che, nella civiltà dell'immagine, tiene pure il suo
peso, sarebbe auspicabile di poter continuare a impiegare strumenti
esplosivi: spogliati, evidentemente, di tutti quelli accessori - vettori, alette di
stabilizzazione, dispositivi di ricerca elettronica e così via - che nella nuova
situazione non avrebbero più molto senso, e costituirebbero solo un inutile
aggravio di costi. Dei bauli esplosivi andrebbero bene; al limite, anche delle
valigie. E qui vengo al superamento dell'obiezione testé avanzata.
Per singolare coincidenza, difatti, possiamo vantare nel nostro Paese una
considerevole esperienza nell'uso di strumenti siffatti. Mafia, servizi segreti,
estremisti di destra, gladiatori, camorra - son pochi gl'Italiani amanti
dell'ordine che non abbiano avuto occasione, prima o poi, di bombardar dei
bambini, o almeno di favorire, in un modo o nell'altro, il bombardamento. E
se l'Italia fosse, in questo campo innovativo e vitale, quel che la Svizzera fu
per la Croce Rossa? Nessuno contesta alla Nazione elvetica, dopo tante
esperienze, il diritto di dar la propria assistenza, in tutti i Paesi del mondo,
ai prigionieri e ai feriti. Perché l'Italia no? Gli Stati belligeranti potrebbero
accordarsi, sotto l'egida delle Nazioni Unite, per scambiarsi reciprocamente
squadre di esecutori Italiani, per le operazioni anzidette; la Commissione
dell'Onu vigilerebbe su di esse, ma a loro e solo a loro andrebbe l'onere di
portare a esecuzione quanto pattuito. Nessuno dovrebbe aver nozione di
loro, fuorché i Governi interessati (il csapo della Repubblica Italiana,
eventualmente interrogato, sarebbe per legge tenuto a smentirne finanche
l'esistenza); a nessuno - ma a questo sono abituati - dovrebbero dar conto. Il
numero dei bambini interessati, non aumenterebbe di certo; e si eviterebbe
di coinvolgere - considerazione umanitaria da non sottovalutare degl'innocenti soldati.
Numerosi programmi televisivi potrebbero essere prodotti, a edificazione
del Pubblico e beneficio degli Operatori e Imprenditori del settore, in
occasione del primo, secondo, quinto, decimo e venticinquesimo
anniversario di ogni singolo bombardamento. Gli Allievi Generali
dell'Aeronautica Militare avrebbero a disposizione gran messe di Segreti di
Stato su cui esercitarsi a nascondere - cosa certo non inutile ai fini della
formazion e professionale- la verità. I Giornalisti non difetterebbero di
lavoro, né i Telespettatori d'emozioni.
Non voglio riconoscimenti per questa proposta. Rinuncio anticipatamente
al brevetto e libero chicchessìa da ogni e qualsiasi obbligo nei miei
confronti. Sono solo un cittadino che crede che il ruolo dell'Italia nel mondo
abbia ancora un senso e vada decisamente riproposto facendo appello a quei
valori di capacità creativistica e propositiva, di professionalità e di libera
iniziativa che soli potranno, un giorno, riportarci in Europa.
GATTOPARDI E GARIBALDINI
Antimafia, marzo 1992
"Antimafia" è stato l'unico giornale italiano che, in pieno craxismo e con
Cossiga trionfante, abbia previsto il crollo, a brevissima scadenza, del
regime. Che sta avvenendo adesso, sotto gli occhi di tutti. Cossiga,
Andreotti, Craxi non ci sono più. Capitribù locali al soldo dell'Impero,
avevano un senso finché l'Impero aveva bisogno di loro. Adesso è lotta per
la successione. Dal polverone generale spunta fuori un nome, Galeazzo
Martelli, che aggregherà rapidamente attorno a sè "rinnovatori": i La Malfa,
i Macaluso, i Segni, forse subalterno qualche altro. Su queste basi, nei
prossimi mesi (ma forse già mentre questo "Antimafia" sarà in edicola)
cadrà il governo Amato, l'ultimo del vecchio regime. Andrà giù nel
l'apocalisse generale, coi marchi tedeschi accampati in Italia, l'inflazione per
le strade, i vecchi capitribù scatenati a contendersi bocconi di potere, i
gerarchi che proclamano "fermeremo la crisi sul bagnasciuga", e i generali
del Regio Esercito che scappano in mutande. Sarà in questa situazione che
verranno fuori i "rinnovatori": polso fermo, voce sicura: "Morte ai borboni!
E' ora di cambiare".
Ora, noi siciliani di tante cose non c'intenderemo, ma di una siamo
maestri, anzi professori: l'arte di riconoscere i gattopardi. Ne abbiamo visti
tanti! "Lotta alla mafia!": sì, ma indagherete sui Costanzo? "Basta con le
tangenti!": sì, ma continuerete a dare gli appalti a Graci? "Trasparenza
dappertutto!": va bene, ma le liste della massoneria? "Rinnoviamo i
partiti!": sì, ma coi vecchi vicesegretari al posto dei vecchi segretari?
"Salviamo l'economia! Sacrifici!". Sì, ma farete pagare le tasse a Rendo?
"Cambiare tutto, perché tutto resti come prima" diceva il vecchio principe
di Salina. Ha funzionato un sacco di volte, in Sicilia. Prima della
rivoluzione, gentiluomini di Re Franceschiello. Dopo la rivoluzione,
ministri di Vittorio Emanuele. Sempre alla faccia dei villani.
Allora. Primo, chi era gerarca, non pretenda d'essere stato partigiano.
Martelli, se è davvero pentito di essere stato craxista, si ritiri in un convento
e scriva le sue memorie; la patria può fare a meno di lui. Secondo, stavolta
cerchiamo, noi garibaldini, di non lasciarci imbrogliare a belle parole. Per
una volta nella storia, non facciamoci fregare dal Gattopardo.
***
Il Gattopardo, fra l'altro, è debole; i rapporti di forza, in questo trapasso di
regime, sono tutti a nostro favore. Nostro, di chi? Della sinistra vera. Quelli
che hanno fatto antimafia; quelli che sono stati contro la guerra del petrolio;
quelli che hanno difeso gli immigrati; quelli che non si sono mai appattati
né coi tangentisti né coi cavalieri: la vera sinistra del popolo italiano è
questa. Non ha un suo partito, anzi spesso non ne ha nessuno. Ma ha i suoi
valori comuni, la sua continuità, la sua organizzazione, i suoi capi.
Organizzazione, certo: quante persone sono concretamente attive, nella tua
città, con le sezioni di partito? E quante invece col volontariato, coi centri
sociali, con le attività di quartiere? Chi sono più numerosi, già ora, i
cittadini del vecchio, o quelli del nuovo Stato?
Abbiamo anche dei leader, degli esseri umani che già ora sono - fra molta
confusione, rozzamente - dei punti di riferimento molto più ampi di uno
specifico partito. A Roma, per esempio, a quale partito appartiene Renato
Nicolini? Lui è del Pds, ma fra i ragazzi delle borgate pochi sono quelli che
lo sanno. Di Nicolini ricordano, ed è l'essenziale, che è stato quello che ha
aperto il centro di Roma ai borgatari. Ma davvero Carmine Mancuso o
Nando Dalla Chiesa, chi li va ad ascoltare, ci va solo perché sono della
Rete? Dacia Valent, di Rifondazione, cos'è prima: una di Rifondazione o
una che può parlare per gli immigrati? I ragazzi che stanno facendo attività
sociale nel quartiere più difficile di Catania, di che partito sono? Ma
davvero v'interessa saperlo? E che sigla c'è sulla bandiera rossa di quel
gruppo di operai che sfila nel corteo con tro la stangata? E' proprio così
importante? Che cosa succederebbe se questi ragazzi e questi operai si
riconoscessero reciprocamente, capissero di far parte, in realtà, di un'unico
"partito"?
Ecco, il momento è questo. Esistono molte e vitali situazioni di base, che
a volte sono persino "politiche" (Pds, Verdi, Rete, Ri fondazione), ma molto
più spesso no. Hanno radici culturali diversissime, dai centri sociali "rossi"
ai preti di quartiere, passando per tutta la gamma delle radici popolari di
questo Paese. Cos'hanno in comune fra loro? Una cosa semplice e profonda:
insieme, essi sono l'Italia.
***
Sono la stessa Italia, due generazioni più tardi, dell'otto settembre del
1943. Anche allora un regime, per anni e anni, aveva strombazzato
"guardate i nostri giornali: l'Italia è questa". Ma al momento della prova, si
vide la loro menzogna. I gerarchi, i capifabbricato, le folle dei comandati,
non erano il paese reale. Il paese reale erano il carabiniere che aiutava gli
ebrei a scappare, la donna che li nascondeva, il ragazzo con le idee confuse
che senza sapere bene perché strappava la cartolina militare e se ne andava
in montagna. Semplici, ma non passivi, esseri umani che seppero
riconoscersi l'uno con l'altro, collegarsi fra loro, individuare una linea
politica, crearsi una propria classe dirigente e in fine - mentre i generali
ancora scappavano - salvare il Paese.
Noi dell'antimafia non abbiamo atteso le strombazzate dei politicanti per
parlare di nuova Resistenza. E' dal 1984, dai "Siciliani", che la nostra lotta
al potere mafioso l'abbiamo chiamata, e condotta, esattamente così. Solo
che per noi, a differenza dei politicanti, non è soltanto una parola, ma una
cosa seria e concreta, su cui ogni giorno puntiamo tutto ciò che compone la
nostra vita. Proprio perché è una Resistenza, bisogna condurla insieme,
scavalcando le appartenenze, superando con fiducia reciproca le diffi enze e
gli steccati. E proprio perché è una Resistenza bisogna portarla avanti fino
in fondo, non fino al primo o al secondo livello, ma fino a quello dei
politici, degli imprenditori, delle stesse istituzioni invase dello Stato.
***
La sinistra politica, oggi, a differenza di due anni fa, è divisa in quattro
principali partiti: Pds, Rete, Rifondazione, Verdi. Nes suno di essi, in
sostanza, tende a porsi come l'unica guida di tutta la sinistra e ciascuna
tende a riconoscere, sia pure rozza mente e senza troppo entusia smo,
l'esistenza e persino qu alche volta l'utilità delle altre. Esistono poi una
quantità di re altà minori, che un tempo sa rebbero state relegate (o si sa
rebbero relegate) nell'estremismo, ma alle quali adesso viene più o meno
pacificamente riconosciuta una dignità politica. All'interno di ciascuno dei
quattro partiti ci sono poi diverse "anime"e diverse culture, spesso più
sensibili alle somiglianze trasversali che alla ragion di partito; e sempre più
spesso militanti di partiti diversi militano insieme senza problemi in uno
stesso movimento di base. Potrebbe perfino essere, se nessuno si fa
incantare dai gattopardi, e se davvero c'è in giro voglia di ripartire, un buon
ricominciamento per la sinistra ita liana. Però, la questione fon damentale
resta (anche dal punto di vista della sinistra "politica", se vuol tornare ad
essere popolare) quella del colle gamento fra le realtà di base, e soprattutto
fra quelle più diverse "politicamente" fra loro: che spesso sono, per
avventura, le più efficienti e radicate.
Sappiamo, per quanto ci riguarda, di diversi "lavori in corso" per dare un
contributo a questo collegamento. Fra i giovani, in una ventina di città, si
lavora a mettere in piedi un giornale au togestito comune. Fra le
associazioni di base, da luglio in qua, almeno una cinquantina stanno
cercando di collegarsi per sviluppare delle iniziative insieme, città per città
e a livello nazionale. Ma sono pochi e timidi passi. Un passo decisivo in
questo senso potrebbe compierlo il movimento antimafia di Pa lermo. Se
esso fosse capace di riunirsi, in un'occasione, in tutte le sue componenti di
base (alcune delle quali, come l'Associazione Coordinamento Antimafia o,
fra i giovani, gli universitari del movimento studentesco, hanno una
popolarità nazionale, e dunque una responsabilità, del tutto particolari) e di
lanciare con tutta l'autorevolezza che gli compete un appello a una sorta di
costituente di base, noi crediamo che questo appello non resterebbe
inascoltato. Appello a che cosa? A cominciare a muoversi in un'ottica di
Stato.
Definire gli strumenti non violenti a cominciare dal rifiuto d'obbedienza,
esteso ai funzionari e dipendenti dello Stato, di fronte a ordini e
comportamenti palese mente anticostituzionali attraverso cui il popolo possa
eserci tare con efficacia e senza traumi il suo controllo sulle istituzioni;
Costituire, non sulla base di appartenenze politiche e di accordi fra partiti
ma della rappresentatività d'esperienze e delle indicazioni di realtà di base,
un vero e proprio governo alternativo, che sia pronto a reggere il Paese in
caso di sfascio istituzionale e che abbia già oggi l'autorità morale di
richiedere, se accorra, collaborazione ed appoggio ai cittadini e a settori
delle istitu zioni.
Definire una serie di compor tamenti e di strumenti mediante i quali le
prime "zone civilmente liberate" del Paese possano servire da esempio e da
punto d'appoggio a tutte le altre.
***
Durante Cossiga e dopo Cossiga, la classe dirigente ita liana ha
dimostrato un'unica coerenza: quella di abolire di fatto, un segmento dopo
l'altro, gli istituti più intimi della Costituzione. "L'Italia ripudia la guerra": il
"nuovo modello di difesa" prevede un esercito professionale, e con compiti
di polizia internazionale lontano dal Paese. "La magistratura costituisce un
ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere": il pubblico ministero
sottoposto al governo. "La condizione giuridica dello straniero...": le
persecuzioni contro gl'immi grati. Giudici pubblicamente minacciati dai
capipartito, paracadutisti per le strade a pattugliare "contro la mafia",
governi che chiedono autorità dittatoriale "per risanare l'economia": ma
questa è ancora la Repubblica di Pertini?
Non siamo ancora in una dittatura, non siamo già più in una democrazia
occidentale. Il cossighismo (o il "Piano di rinascita" di Gelli) è
sopravvissuto a Cossiga, e rischia di fare ancora molto danno. Per questo
bisogna stare attenti, e soprattutto bisogna fare in fretta. Per difendere la
Costituzione, e se occorre per rifare lo Stato.
PERCHE' NON POSSIAMO NON DIRCI PALERMITANI
Avvenimenti, agosto 1992
"Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Questo cartello è stato
scritto esattamente dieci anni fa, sul luogo dove poche ore prima il potere
mafioso aveva ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Dieci anni
sono abbastanza per decidere che quel cartello era sbagliato, e per eccesso e
per difetto di ottimismo. In dieci anni la mafia ha avuto modo, col sostegno
di una classe politica che ne ha condiviso i valori, di minacciare la stessa
esistenza civile non di Palermo soltanto, ma dell'Italia intera. Ma in dieci
anni i palermitani hanno dato vita a una ribellione, a una crescita della
coscienza collettiva e del senso di responsabilità individuale che
costituiscono un esempio per l'intero Paese. Dall'esercizio del potere
mafioso in Sicilia è venuto il modello, per le classi dirigenti nazionali, di
una gestione dello Stato svincolata da ogni valore che non sia il profitto e
l'autoconservazione. Dai movimenti antimafiosi di Sicilia è venuto
l'esempio di una nuova possibile tecnica della politica e di una sua nuova
moralità.
Spartizione violenta delle risorse pubbliche fra i vari clan affaristicofamigliari, o iniziativa diretta e autoliberatoria della società civile:
l'"alternativa siciliana" vale - dieci anni dopo - per l'intera Nazione.
Per questo ciascuno di noi oggi si trova, in un certo senso - che ne sia
cosciente o meno, e ovunque sia in realtà il suo domicilio legale - in piazza
a Palermo. O fra i manifestanti antimafiosi che per il decimo anno
consecutivo, ma adesso con ben più forza, sfilano contro il potere. O fra
coloro che li guardano passare, senza una parola, da dietro le persiane
chiuse.
L'ATTIMO
Antimafia, gennaio 1993
Via Craxi, via Andreotti, via Martelli, via Cossiga: e ora? Ma davvero la
crisi italiana deve essere risolta dalle varie alleanze "democratiche", dai La
Malfa, dagli Andò, dagli Amato - dai gattopardi, insomma? Dai Pannella,
dai Bossi, dai buffi derivati della crisi? Oppure, cosa?
Il momento, è ora. Se l'antimafia avesse avuto la forza di unirsi, dopo
Falcone e Borsellino, e di lanciare un grido forte al Paese. Se gli operai ce
l'avessero fatta, nelle giornate d'ottobre, a unirsi dentro e fuori il sindacato.
Se la Rete fose rimasta trasversale. Se Rifondazione avesse, nella testa dei
suoi dirigenti, trent'anni di meno. Se il Pds imparasse una buona volta chi è
Martelli. Se i Verdi non si fossero lasciati ingabbiare. Se le centinaia e
centinaia di giovani militanti che abbiamo visto crescere sotto i nostri occhi
in questi anni prendessero in mano la sinistra. Se la smettessimo di
dividerci, di chiacchierare, di sofisticare astrattamente fra di noi, di
aspettare un san Giorgio che ci levi dai guai. Se.
Mai la crisi del sistema di potere in Italia è stata tanto profonda, tanto
disperata. I mafiosi sono nei guai. Il partito craxista è ferito mortalmente. La
Dc inossidabile, adesso trema dei prossimi avvisi di garanzia. Persino
Carnevale, hanno dovuto mettere da parte. Eppure il vento nuovo non si
leva. Eppure Amato e Scalfaro, oggettivamente, stanno riuscendo a
normalizzare tutto.
Per quarant'anni, in questo Paese, il potere è stato retto da un sistema
mafioso. Gli uomini di Cosa Nostra, e nessuno ormai ne può dubitare, sono
stati un braccio esecutivo - non l'unico - del potere. Le elezioni - l'ha
confessato il golpista Cossiga -, una mera formalità: se gli uomini del potere
avessero perso, c'era la Gladio pronta ad assumere sanguinosamente, in
qualsiasi momento, il potere. L'informazione libera? Pensate alla Rai e a
Berlusconi. I diirtti dei lavoratori? I primi soldi di Tangentopoli sono serviti
proprio a finanziare la campagna per togliergli di prepotenza la scala
mobile. La "sana imprenditoria", la "quarta potenza dell'Occidente"? Balle.
Gl'industriali, rubavano i soldi pubblici con le mazzette; quanto alla
"potenza economica", guardate come hanno ridotto la lira.
Oggi e solo oggi, per la prima volta, possiamo cominciare a parlare,
seriamente, di democrazia. Non d'utopie rassicuranti, non di più o meno
seriose ideologie, ma proprio di questa semplice parola: democrazia. Quella
- per capirci subito - che stava scritta in faccia al presidente Pertini.
L'antimafia, in Sicilia e poi via via sempre più oltre la Sicilia, non è stata
solo una lotta contro qualcosa; esattamente come la mafia non è stata solo la
degenerazione, la patologia di una regione. Nate, l'una e l'altra, dentro
un'isola, hanno simboleggiato e assorbito le due polarità della Nazione. Il
bene e il male, l'impegno civile e l'intrallazzo, la lotta dei cittadini e la
prepotenza del potere, tutto si è condensato in queste due parole. Il regime
non ha potuto fare a meno della mafia: l'Italia che viene adesso non può
nascere che dall'antimafia. In nessun altro movimento di questi anni si sono
fusi insieme, nei suoi momenti migliori, ribellione e unità.
Scriviamo in fretta, lavoriamo in fretta, in questi momenti decisivi, perché
c'è molto da fare, per noi e per tutti coloro che, in questi dieci anni, hanno
saputo credere alla mortalità del regime. Non c'è neanche il tempo di
ricordare per quali tappe si sia arrivati a questo, quali dolori umani e quali
sacrifici e speranze abbiano permesso di percorrere tutta la strada fino ad
ora. Chinnici, Peppino Impastato, Roberto Antiochia, Cassarà, Giuseppe
Fava: nessuna di queste vicende umane, e di diecine d'altre, è caduta nel
vuoto. Purchè, adesso, sappiamo fare il nostro dovere.
In questa stanza dove i compagni-amici di "Antimafia" aspettano la
chiusura del giornale, in questo preciso momento, c'è molta confusione.
Vedo Michele Gambino che sta lavorando a un articolo di "Avvenimenti",
uno dei tanti che hanno smascherato il potere, due ragazzi dell'"Alba", Carlo
e Francesco, che parlano della manifestazione di Gela, Marco che sta
correggendo una pagina dei "Siciliani"... Non siamo soli, non siamo pochi.
E' il momento di unirci, e di concludere la partita.
"I Siciliani" che tornano in questi giorni, dopo sette anni di lontananza
dall'edicola ma non di silenzio e tanto meno d'inattività, vogliono dire
esattamente questo. A tutti si rivolgono, a tutti - specialmente a Palermo e
Catania, ma in tutte le città in cui si lotta - chiedono un impegno concreto.
Ai lettori di "Antimafia" e a quelli di "Avvenimenti", ai militanti della Rete
e a quelli di Rifondazione e del Pds, a quelli che hanno fatto la Pantera e a
quelli dell'autunno degli operai, ai giovani venuti fuori quest'anno e ai
militanti che hanno attraversato senza paura dieci inverni di lotte, a tutti, a
tutti: forza ch'è giunta l'ora, il momento è questo.
QUATTRO CHIACCHIERE FRA AMICI
CHE FANNO IL GIORNALISTA
febbraio 1992
Mah, io non metterei l'accento sulla patologia della professione. Mi pare
che, prima ancora, i problemi siano proprio nella fisiologia - oggi come oggi
- del mestiere. Morto il vecchio cronista, il giornalista medio è sempre più
un deskista. Prima, la selezione era dura e, in qualche modo, onesta: non
sopravvivevano i migliori umanamente, ma almeno i più "giornalisti". Ora,
la selezione è fiacca e disonesta: sopravvivono proprio coloro che hanno
meno qualità giornalistiche e più capacità d'adattamento. Poi la corruzione,
la lottizzazione, ecc. Buona parte degli iscritti all'Ordine lavora in ufficistampa. La "professionalità", insomma, ha ammazzato il mestiere. I vecchi
tempi, d'altra parte, avevano - per altri versi, i loro guai; e comunque,
proprio per ragioni tecnologiche, non torneranno mai più. Si può recuperare
una parte della vecchia figura di giornalista (e in questo c'è da essere assai
conservatori), ma è proprio il concetto di giornalista in quanto tale va
ricostruito completamente dalle fondamenta (è già successo altre volte, del
resto: per esempio, alla fine del Settecento).
E qui arriva il Progetto Politico DeI Siciliani. Che innanzitutto, come
prima buona qualità, non è affatto un "progetto", cioè una cosa studiata a
tavolino, ideologica, ma un'esperienza concreta e una progressiva
sedimentazione - sempre sulla base dell'esperienza - di elementi che poi si
possono generalizzare. Primo elemento: niente puzza al naso. Gambino,
Faillaci o Paolo Petrucci sono possibili giornalisti. Chi, quel ragazzo là, che
a momenti non sa se un giornale è quadrato o tondo? Proprio lui. Se ha delle
qualità "civili" di base, se è disposto a passare i suoi anni di addestramento
nel Campo Uno (e se sopravvive ad esso), e se trova dei professionisti con i
coglioni molto ma molto quadrati disposti a scendere da cavallo e a
insegnare (non si può insegnare se c'è superbia da una parte o dall'altra. E
nessuno può insegnare senza affetto).
Secondo elemento: questo insegnamento parte ferocemente dalla pratica
giornalistica vecchio stile (la casa di via Palermo), non è affatto gentile e
premuroso e anzi si preoccupa di essere il più duro possibile. Ciò che
bisogna imparare è molto di più di quel che poi effettivamente servirà
(soprattutto sul piano caratteriale). Un giornalista (= un essere umano che
fra l'altro è anche giornalista) formato così, sarà sempre nettamente
superiore, professionalmente, a qualunque suo omologo del giornalismo
ufficiale: cosa scientificamente dimostrata, negli ultimi dieci anni, in
almeno una dozzina di casi.
Terzo: "anche". Non si può più essere giornalisti se non si è "anche"
politici. Politici nel senso solito nostro, naturalmente, cioè di rifondazione
di una cultura, che cambia strada facendo con le esperienze concrete, che
costruisce progressivamente una "ideologia" esclusivamente pratica ma
proprio per questo radicale, che autosviluppa per logica interna momenti
organizzativi, ecc. ecc.
Quarto punto: sotto i quarant'anni. E' l'età massima fissata da Mazzini,
quando le carbonerie erano ormai superate e si trattava di fondare una
cultura-politica-figura sociale nuova.
Quinto. Molte cose "politiche" (esempio: fare parlare tutti è bello) almeno
oggigiorno sviluppano direttamente delle conseguenze tecniche (esempio:
adottare una routine con molte riscritture, per far parlare tutti ma davvero e
senza demagogie). E molte cose tecniche hanno conseguenze politiche
(esempio: due computer a cinquecento chilometri di distanza possono...). Il
computer costa poco, è facile da usare, si può collegare. Un'occasione simile
c'era al tempo delle prime radio libere: i compagni, nella loro bestialità, non
la seppero sfruttare, e quindi lo fece Berlusconi.
Personalmente, vorrei ripartire di qua. E' una faccenda piuttosto lunga, ma
non - parlando da storico - nuova. Una delle tante lunghe marce che
periodicamente si verificano nell'umanità.
LETTERA A UN RAGAZZO SICILIANO
febbraio 1992
Caro Orazio, hai perfettamente ragione. I cavalieri sono il frutto di una
precisa configurazione, in termini sempre più oligarchici, del sistema
economico-sociale che, nelle specifiche condizioni date, assume per
avventura "anche" caratteristiche "mafiose". Dissento da te solo su un
punto, che però è centrale: "anche se non fossero stati mafiosi". Non
avrebbero potuto non esserlo; esattamente come la Fiat o l'Ansaldo, nella
congiuntura del 1914, non avrebbero potuto non essere interventisti; o come
un mercante di Liverpool, nel diciassettesimo secolo, non avrebbe potuto
non essere un mercante di schiavi. La mafia, cioè, non è più una patologia
del sistema ma una sua componente strutturale. Questo è il motivo per cui il
sistema politico-mafioso catanese non solo si estende al resto d'Italia, ma
tende anche a imporsi come modello nazionale. Parallelamente, è anche il
motivo per cui le esperienze dei movimenti antimafiosi siciliani non solo
tendono a uscire dai confini regionali ma si propongono sempre più come
modello organizzativo e politico globale.
Così, se da un lato un operatore del sistema di potere "locale" come, p.es.,
Salvo Andò può assumere un peso notevole nel sistema di potere nazionale,
dall'altro esperienze di movimento "locali" come il Coordinamento
Antimafia o I Siciliani possono venire in larga parte riprese da movimenti
d'opposizione - come la Rete di Novelli e Orlando - a livello nazionale. Il
discorso vale anche in ambiti più specialistici: nel mio campo, che è il
giornalismo, c'è per esempio un filo nettissimo di continuità (anche sul
piano delle scelte tecniche-organizzative) fra I Siciliani di Giuseppe Fava, I
Siciliani dell'84-85 e l'attuale Avvenimenti: il che, oltre che ai sentimenti
personali che puoi immaginare, m'induce a ritenere d'essere in presenza di
un dato innovatore, e significativo.
E' possibile individuare con precisione gli aspetti che contengono abbiamo visto che dal lato del potere il fatto nuovo è dato dall'integrazione
"mafiosa" - l'elemento di novità dell' opposizione "siciliana", della sua
politica e cultura, e delle sue forme organizzative? Ritengo di sì, ed è anzi il
mio lavoro di questi anni. Abbiamo dimostrato che si può fare politica senza
ideologie - un termine che Marx aborriva - e senza tuttavia scadere nei
qualunquismi; che l'oppposizione può essere condotta direttamente non solo
contro le sovrastrutture ideologico-culturali del sistema di potere, ma
direttamente contro le sue strutture portanti economiche e sociali, col
massimo di concretezza e di radicalità; che questa opposizione può essere
confortata da una solidarietà popolare vasta e attiva, molto più che nel caso
di un'opposizione ideologicamente connotata; che essa può essere gestita al
di fuori dei modelli organizzativi verticistici e "professionali" attualmente in
uso in tutte le forze politiche, le progressiste comprese. E siamo appena ai
primi passi, alle prime - spesso maldestre - esplorazioni. Ti ringrazio di
avermi scritto. Affettuosamente.
CATANIA
marzo 1992
Sono stati molti i punti di partenza, in Sicilia, in questi anni. Ciascuno dei
suoi protagonisti incontrava sempre sulla sua strada l'impatto con il sistema
di potere, che da noi chiamiamo mafia, e che da noi è molto più esplicito e
diretto che nel resto del paese. Per questo siamo stati costretti, fin dall'inizio
e per tutto questo tempo, ad essere molto espliciti e diretti anche noi. Sono
passati diversi anni prima che ci accorgessimo che tutti questi "punti di
partenza" (col loro carico di vite quotidiane, di singole esperienze,
d'umanità) potevano essere collegati fra loro; ma alla fine ci siamo arrivati.
E siamo arrivati anche a capire che questo collegamento è "politico", ed è
anzi la politica nella sua forma non corrotta e originale, quale compare nei
tempi di crisi e di rifondazione. Parecchio tempo dopo, man mano che il
regime democristiano (e dei partiti) aentrava in crisi, questa percezione si è
fatta senso comune, a macchia di leopardo, un po' in tutto il paese. Ma
siamo stati noi - noi movimento antimafia, noi siciliani -, pur con tutte le
nostre approssimazioni e rozzezze, a intravvederla per primi. Per questo
abbiamo, oggi, una responsabilità.
A Catania, più che altrove. A Catania il sistema di potere ha assunto, più
che in ogni altro luogo d'Italia (ma ponendosi, e con successo, come
modello negativo per tutti), un ruolo totalitario, senza mediazioni. C'è un
braccio politico, che va dai piccoli ladri (ricordate quelli che rubavano la
refezione ai bambini? Hanno fatto scuola: ora c'è chi ruba agli ospizi dei
vecchi, su a Milano...) ai grandi manovratori, legati alla massoneria e alle
centrali occulte. C'è un braccio finanziario, col suo comitato d'affari, pronto
a muovere quando occorra deputati e ministri. C'è un braccio militare, la
mafia più efficiente d'Europa, la mafia che nessuno vuol sconfiggere perchè
non ne può fare a meno nessuno.
***
I Drago, gli Andò, i Nicolosi si danno il cambio fra loro, un anno dopo
l'altro, sempre intenti - apparentemente - a combattersi ma in realtà
d'accordissimo, fra loro, per dividersi ferreamente il potere (accanto a loro
le figure minori, un po' furbe un po' patetiche, dei vari architetti "comunisti"
come Leone, dei vari Pannella che vengono a farsi la campagna elettorale
coi soldi dei cavalieri, dei vari Bianco che riempiono Catania di tavolinetti e
fiorellini ma si guardano bene dal toccare gli appalti dei Cavalieri.
I Graci, i Rendo, i Costanzo, i Finocchiaro sono i padroni veri della città.
Tre uomini hanno parlato di loro: il generale Dalla Chiesa che li accusava di
"andare alla conquista di Palermo" col consenso della mafia, Giuseppe Fava
che li definì "i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa" e il giudice Carlo
Palermo che li mise in galera. Ma non è reato, a Catania, essere amici dei
mafiosi catanesi: l'ha sentenziato un giudice, è "stato di necessità".
I Santapaola, infine: "latitanti" da anni ed anni, eppure tranquillamente in
giro per la città. Non possono essere arrestati: perché se lo fossero,
parlerebbero: e se parlasse un Santapaola, chi poi si salverebbe in questa
città?
Lo stato di necessità! Ah, se si applicasse davvero, ma per chi ne ha
davvero bisogno, lo "stato di necessità"! Al pensionato che campa con
quattrocentomila lire, e viene umiliato ogni giorno, e - dopo una vita di
sacrifici - deve ingoiare; o al ragazzo che ha fatto lo scippo - una catenina,
poche migliaia di lire - perchè non gli hanno insegnato nient'altro altro nella
vita; o alla donna che ingoia prepotenze, o al poveraccio che stenta il finemese; o al ragazzo che deve vivere per la strada, perché aprire un centro
sociale, a Catania, è proibito dalla mafia e dalla legge! Cosa non avrebbero
diritto di fare costoro, se un giudice impazzito regalasse - per una volta nella
vita - lo "stato di necessità" anche per loro?
Ma nessuno fa regali, nel mondo; chi vuole, deve aiutarsi da sé. Tutti noi
abbiamo chiaro chi comanda a Catania, e chi sta sotto: non c'è bisogno
d'insegnarla, questa storia qua. Una cosa ci divide: alcuni a questa storia si
rassegnano, e sono molti; alcuni altri, no. Noi confidiamo in questi ultimi:
non sono pochi. Più di ventimila esseri umani hanno votato qui, l'hanno
scorso, per dire che non si vogliono rassegnare. Quest'anno saranno ancora
di più. E anno dopo anno si arriverà.
ALLONSANFAN
I Siciliani, marzo 1993
Un giorno d'autunno del 1943, su una montagna vicino Genova poco oltre
il Bisagno, quattro uomini s'incontrarono per fondare il movimento
partigiano in Liguria. Erano un operaio di Sampierdarena, un appuntato
sardo dei Regi Carabinieri, un soldato della provincia di Agrigento e un
antifascista genovese con sei anni di carcere alle spalle. Il soldato aveva con
sé due moschetti sottratti all'armeria del reggimento, l'appuntato una
vecchia rivoltella; sedici colpi in tutto. Lontano, nelle città, vecchi notabili e
gerarchi "dissidenti" ordivano improbabili manovre per salvare quel che si
poteva del regime; i generali preparavano già gli abiti borghesi per la fuga;
tedeschi e fascisti venivano tranquillamente avanti, fra i bombardamenti e lo
sbando. Passarono gli anni. Il venti aprile 1945, il presidio tedesco di
Genova si arrese alla Divisione garibaldina "Pinan-Cichero". Dei quattro,
uno soltanto era sopravvissuto fino a quel punto. Ed è stato lui a raccontarci,
molti anni più tardi, questa storia.
Non servono grandi parole, nell'anno di grazia 1993, per spiegare perchè
tornano "I Siciliani". Caduto Craxi, fuggito Andreotti, naufragati i tentativi
golpisti di Cossiga e quelli "rinnovatori" di Martelli, siamo all'otto
settembre. Non ne usciremo con improbabili alleanze, più o meno ribollite,
di vecchi notabili e gerarchi. Se ne esce con una Resistenza.
Noi, questa parola, la possiamo usare. Abbiamo avuto tredici anni di
tempo per misurarne il significato, per pagarne i prezzi, per comprenderne il
peso. Sappiamo cosa vuol dire: ribellione, e unità.
Abbiamo visto migliaia di palermitani, nelle giornate di luglio, sollevarsi
spontaneamente contro il potere mafioso: decine di migliaia di operai, a
ottobre, scendere di forza in piazza per il loro pane. Se i leader antimafiosi,
divisi da antiche liti, avessero saputo raccogliere la sfida - se i capi degli
operai, sindacalisti e Cobas, "estremisti" e moderati, fossero riusciti a
trovare un minimo d'unità - se avesse potuto incontrarsi, la collera popolare,
dal Nord al Sud!
Tante cose si muovono, dopo tredici anni. Noi possiamo tornare in edicola
oggi con "I Siciliani" anche grazie all'esistenza di un giornale libero e
autogestito come "Avvenimenti": che a sua volta difficilmente avrebbe
potuto crescere se non avesse avuto alle spalle l'esperienza dei "Siciliani".
Oggi contiamo sull'aiuto, in quaranta città d'Italia, di un movimento
giovanile come "L'Alba"; che è nato e si è sviluppato, quest'estate,
riprendendo elementi dei Siciliani-Giovani degli anni ottanta. Abbiamo fra i
nostri primi interlocutori testate e associazioni come il Coordinamento
antimafia di Palermo, Società Civile di Milano, la "Voce della Campania", e
altre ancora; ciascuna di esse ha imparato qualcosa dai "Siciliani", e da
ciascuna a nostra volta abbiamo imparato qualcosa. Decine di giornalisti, e
centinaia di militanti civili, in giro per l'Italia sono nati in quegli anni. E' il
momento di unirsi, diciamo a tutti loro, di fare qualcosa di più grande
ancora.
Si vedono tante cose, in tredici anni. Si vedono funerali di Stato - i
mandanti, diceva Giuseppe Fava, schierati compuntamente in prima fila -, si
vedono funerali di serie B, con pochi amici attorno e una rabbia immensa.
Si vedono Chinnici e Cordova che lottano, traditi dai loro stessi governi,
senza illusioni e senza paura. Si vede il ragazzo Robertino Antiochia che
torna in Sicilia per morire, come un partigiano di Vittorini, accanto al suo
amico Cassarà. Si vede Rosario Di Salvo che quando sente la moto dei
killers avvicinarsi tira fuori la pistola e muore sopraffatto dai mitra accanto
a Pio La Torre, combattendo. Si vedono i liceali di Palermo, in quel
durissimo inverno dell'ottantatré, che difendono contro i politici Falcone, e
sono i soli. Si vedono accademici e scrittori, siciliani d'anagrafe, che voltano
dall'altra parte lo sguardo e disquisiscono sulla Sicilia "irredimibile" nei
salotti. E operai e gesuiti, e giudici ragazzini e professoresse e bancarellari
della Vucciria e poliziotti: e dietro a loro, dispersi sulla faccia del mondo,
milioni e milioni di esseri umani nati in Sicilia che cercano, per un giorno
ancora, di vivere umanamente, di guadagnarsi onestamente un pane.
Queste sono le nostre radici. Per esse, nel momento in cui il nostro
progetto si fa nazionale, riteniamo di conservare, una volta ancora, il nostro
vecchio nome di "Siciliani". Sicilia come frontiera, Sicilia come memoria,
ma soprattutto Sicilia come luogo simbolico dello scontro italiano. "Ma che
c'entro coi Siciliani io che sono di Milano?". E che c'entravano con la
Marsigliese - a quei tempi - i cittadini di Parigi?
Allons, enfants...
PAGINE DAL SUD DEL MONDO
I Siciliani, marzo 1993
Ciascuno degli amici che firmano gli editoriali di queste due pagine ha, a
suo modo, contribuito alla continuità e alla ripresa della nostra impresa. Nel
gennaio dell'84, subito dopo l'assassinio di Giuseppe Fava, Piero Pratesi allora responsabile di "Paese Sera" - fu l'unico direttore italiano che volle
ripubblicare integralmente sul suo giornale l'edizione straordinaria de "I
Siciliani". "Contro la rassegnazione" fu il titolo dell'editoriale di Alfredo
Galasso per il primo numero de "I Siciliani settimanale" del 1986. Sergio
Turone del nostro giornale di quegli anni fu uno dei collaboratori più
brillanti e contribuì ad allargarne il respiro sul piano nazionale. Claudio
Fracassi è il direttore di "Avvenimenti", l'unica grande testata attuale che
abbia avuto il coraggio di riprendere in gran parte argomenti e battaglie dei
"Siciliani".
Palermo, Catania, Milano e Barcellona in provincia di Messina sono le
città attorno a cui si muove questo numero del giornale: la città della
vecchia mafia e quella dei cavalieri, la metropoli delle tangenti e il paesino
dove si uccide per un articolo di giornale. Nando Dalla Chiesa e Vittorio
Corona da Milano, Tano Grasso da Capo d'Orlando e Francesco Pira da
Gela sono i testimoni civili di questa Italia che solo apparentemente ha
ancora un nord e un sud.
La seconda parte del giornale è equamente divisa fra le cronache siciliane
e quelle del Sud. Delle prime - opportunamente precedute da una memoria
dall' isola di Aurelio Grimaldi - siamo fieri di poter dire che sono
interamente affidate, e con la massima autonomia e indipendenza, alla
seconda generazione dei "Siciliani", quella formatasi attorno a
"SicilianiGiovani", ai movimenti antimafiosi e poi alle cronache del vecchio
settimanale. Adesso fanno parte a pieno titolo dei "Siciliani": le fortuna o
l'insuccesso del giornale sono in buona parte in mano loro.
Il Sud di cui parliamo nelle pagine immediatamente successive a quelle
siciliane è ancora il nostro sud di siciliani, ma in senso più lato il Sud del
mondo. Un Sud sempre più indifeso e dipendente - lo spiega Lucio Manisco
- da un Impero totale, e fragile, come non mai; un Sud popolato da milioni e
milioni di esseri umani - dalla ragazza di Sarajevo di Francesca Ferrucci
all'esule scienziato somalo di Renato Camarda, dalle donne indiane di Maria
Cuffaro all'amaro reportage di Gianni Minà - tutti fratelli, e compagni di
destino, nostri.
Al centro del nostro giornale, le due pagine di Giuseppe Fava. E' un
vecchio-giovane articolo dell'83. La sua Sicilia allegra e combattiva, carnale
e lieve, illuminata dal mare.
UNA STORIA DI CARTA
I Siciliani, marzo 1993
Il paese più tranquillo d'Italia è sicuramente Barcellona Pozzo di Gotto,
quarantamila abitanti, provincia di Messina: niente tossicodipendenti visibili
in giro, niente spacciatori, neanche una rapina denunciata negli ultimi dodici
mesi. Trenta morti ammazzati, questo è vero, nel giro di un anno: ma son
morti di mafia e a Barcellona la mafia - dice la Linea del Partito - non
esiste. Dunque non esistono nemmeno quei morti e in particolare non esiste
l'ultimo di questi morti, il giornalista Beppe Alfano. Che fosse un
giornalista, per la verità, se ne sono accorti solo dopo che è morto e gli
hanno fatto, meglio tardi che mai, il tesserino professionale alla memoria.
Dalla "Sicilia" di Catania, il giornale di cui era corrispondente, prendeva
cinquemila lire a pezzo, più eventualmente qualcosa per le foto; ha avuto
anche una colonnina di piombo il giorno dopo che l'hanno ammazzato e
alcuni articoli elogiativi - cosa che richiede una più matura riflessione - nei
giorni dopo. Ha avuto infine l'onore di un diretto interessamento - lui
povero cronista rompicoglioni - delle Autorità Cittadine, qualche giorno
dopo: non per participare al funerale, dioceneliberi, o per proclamare il lutto
cittadino; ma per far ritirare, sia pure non subito e dopo le istanze della
famiglia, i cassonetti della spazzatura che qualche altra autorità aveva fatto
piazzare, poco dopo l'omicidio, sul luogo della sua morte.
"Ho chiesto alla "Sicilia" la raccolta degli articoli di Alfano - dice il
giudice Olindo Canali, l'unico del paese che si ricordi ancora di lui - Mi
servivano per le indagini. Li sto aspettando ancora. Finora, non me li hanno
mandati". L'altro ieri, una scuola - il tecnico industriale "Galileo" - doveva
fare un'assemblea-dibattito sulla mafia, la prima del paese. L'unico posto in
cui a Barcellona è possibile infilare trecento persone insieme è il cinema
"Corallo": gli studenti ci sono andati e si son sentiti rispondere che
l'assemblea sulla mafia si paga trecentomila lire all'ora, per la prima ora, e
duecentomila per ogni ora successiva. Sulla via del ritorno, qualcuno di loro
è passato davanti all'enorme carcassa del Teatro Mandanici, dove di
assemblee così se ne potrebbero fare venti, e gratis visto che è una struttura
pubblica: solo che il teatro, regolarmente appaltato, "lavorato" e pagato
almeno vent'anni fa, da allora non è mai stato finito ed è tuttora inagibile, e
desolatamente vuoto. Lo stesso vale per il Palazzetto dello sport, ancora da
completare dopo vent'anni, e per l'ospedale, iniziato vent'anni fa.
Nella storia di Barcellona, corrispondono - grosso modo - alle piramidi
egizie, del tutto inutili all'apparenza ma investite in realtà del preciso scopo
di testimoniare nei secoli la potenza del faraone: nella fattispecie, Carmelo
Santalco, che dopo la morte di Lima e il ritiro del catanese Drago è rimasto
l'ultimo grande andreottiano di Sicilia. Questo per l'evo antico. L'era
moderna comincia invece con la Pista dell'Oregon, ovvero la nuova ferrovia
Messina Palermo, cominciata - chissà perchè - nei feudi di Pace del Mela e
faticosamente procedente, anno dopo anno e subappalto dopo subappalto
(ma l'appalto principale è saldamente in mano ai Fratelli Costanzo, famosi
cavalieri catanesi), verso il lontano ovest. Via via che la pista procede si
sposta la linea dei miliardi, e arrivano le estorsioni, i morti ammazzati e i
subappalti. Ciascuno dei morti ammazzati ha diritto a qualche riga in
cronaca sui giornali locali del giorno dopo, e poi al più rispettoso e totale
silenzio-stampa.
(Morire ammazzati è brutto dappertutto, ma da queste parti è
particolarmente incazzante. Come per quel tizio che uccisero, uno che con
queste storie non c'entrava niente ma faceva il falegname come un tale della
Famiglia rivale, l'aprile scorso qui a Terme. I killer si accorsero, una
settimana dopo, di aver fatto fuori il falegname sbagliato: sorry, pensarono
fra sé, abbiamo sbagliato. Uccisero anche il falegname giusto e se ne
andarono con la coscienza in pace).
A Barcellona, la Pista è arrivata fra l'Ottantasei e l'Ottantotto e la guerra è
stata fra la Famiglia Chiofalo e la Famiglia Milone: i primi della vicina
Terme Vigliadore e dissidenti; i secondi, articolati in una costellazione di
cognomi (Ofria, Beneduci, Marchetta) barcellonesi puri e seguaci della
Famiglia Santapaola di Catania. I Santapaola, nella zona, c'erano già da
molto tempo: negli anni Ottanta con Antonino Santapaola, "detenuto" al
manicomio di Barcellona dove in realtà faceva, protetto dalle autorità
dell'istituto, il bello e il cattivo tempo; ma già prima ancora, fra il 1979 e il
1980, sulle montagne dei Nebrodi, a Cesarò, dove in un rifugio di montagna
tenevano i loro incontri "don" Nitto Santapaola e i catanesi fratelli Cutaia,
trafficanti internazionali di morfina-base e cocaina. La guerra della ferrovia
finì comunque dopo un numero imprecisato di morti, con l'ergastolo di
"don" Antonino Chiofalo e l'arresto, per carico di droga, di "don" Carmelo
Milone; nel frattempo la Pista passò avanti.
Il principale accumulo ufficiale di capitali, nella zona, risulta essere
adesso quello delle "finanziarie di fatto" che si sono venute a formare
attorno all'Aias: ne abbiamo scritto su "Avvenimenti", ne aveva scritto
anche Giuseppe Alfano; la Procura di Barcellona ha aperto un'inchiesta che
rischia di estendersi su tutta la Sicilia.
In casa Alfano, un computer Macintosh, dei libri su Charles Aznavour,
delle foto... Le povere cose che restano della vita di un uomo che ha avuto
dignità. "Mio marito, mio marito che sorrideva...". "Mio padre e
l'indifferenza di questa città...".
"Indagate sulle donne, vedete un po' se giocava a carte...". Anche agli
investigatori di Barcellona son giunti gli autorevoli suggerimenti che
arrivano immancabilmente in questi casi. Anche stasera, come ogni sera, le
centinaia di tossici di Barcellona si "faranno" con la roba fornita, a prezzi
popolari, dagli uomini dei boss. Anche stasera i ragazzi dell'Arci e don
Pippo Inzana apriranno la loro sede a chi avrà bisogno di loro, alla comunità
dei lavoratori immigrati. E anche stasera alle dieci chiuderà l'ultimo bar di
piazza San Sebastiano e la città resterà silenziosa, e apparentemente
addormentata. Come sempre.
UOMINI E NO
I Siciliani, aprile 1993
La giustizia è molte cose diverse, per ciascuno di noi, a volte è una cosa
facile e a volte no. C'è quello che s'è craxato il conto protezione nella banca
svizzera e allora giustizia è facile, recuperare i soldi e metter dentro il tipo.
C'è quello che è diventato onorevole, a furia di soldi craxati, o
sottosegretario o ministro o padrone d'industria o di giornali: e anche qui è
una faccenda semplice fare giustizia, si prende il tizio, gli si fa un processo
pulito e poi si va dalla gente e "Ecco qua - si dice alla gente, al buon popolo
italiano - questo tizio qua l'avete votato per quarant'anni in cambio di una
pensione d'invalidità o di un telefonino, se lo volete ancora tenetevelo, però
onestamente sappiate che vi tenete un ladro".
In tutti questi casi fare giustizia è tecnicamente molto facile, basta avere
buon senso e - in alcuni momenti e luoghi della storia: per esempio in Italia
negli anni Novanta - anche un po' di coglioni. Poi ci sono quei casi in cui
incontri il tuo amico che hai visto crescere, da ragazzino, dieci anni fa, lo
incontri adesso e ha gli occhi di fuori perchè dopo dieci anni di pere magari
è diventato un po' differente da quando correva nella squadra di pallone.
Incontri dunque questo tuo amico, che non ti riconosce e che tu riconosci
solo perchè gli vuoi bene, e pensi che per farlo così c'è voluto lo
spacciatore, e sopra lo spacciatore il boss Santapaola, e sopra il boss
Santapaola il cavaliere Costanzo che invitava Santapaola alle feste, e sopra
Costanzo l'onorevole Drago che diceva "Smettetela di rompere le scatole a
Costanzo" e sopra il capocorrente Giulio Andreotti. E venga Di Pietro,
allora, venga Di Lello e Carlo Palermo e Borsellino, e vengano Conte da
Gela e il vecchio Chinnici da dove l'hanno mandato, e Ciaccio Montalto e
Cordova e Terranova e Falcone, e li lascino in pace per una volta e li
facciano indagare in santa pace - tutti quanti insieme, con tutto il loro
coraggio e la loro bravura, non riusciranno a rifarti il tuo amico com'era
prima. Dov'è la giustizia, allora.
Oppure non incontri nessuno ma sei in un bar di Catania che stai bevendo
qualcosa e improvvisamente "Un gin tonic anche per me - dice l'amico al
tuo fianco - ma presto che dobbiamo tornare a lavorare": ma il bar è un altro
e non è davanti alla vecchia sede dei Siciliani e soprattutto nessuno ha detto
niente ma sei solo davanti al bancone e il tuo amico è stato ammazzato da
quella gente nove anni e quattro mesi fa. Allora ti brucia dentro, la giustizia.
La nostra giustizia, è questa: nove anni fa, in una città d'Italia che è
Catania, è stato ucciso il nostro amico Giuseppe Fava. Noi siamo ancora
qui, non l'abbiamo dimenticato. Per nove anni, abbiamo raccolto gli indizi e
le tracce che avrebbero consentito, se una giustizia ci fosse stata, di fare
delle indagini sulla sua morte. Non diciamo di trovare sicuramente i
colpevoli. Ma perlomeno di provarci. Invece, queste indagini,
coscientemente, non sono state fatte.
Noi qui chiediamo ufficialmente che queste indagini siano riaperte. Noi
documentiamo qui - non per la prima volta; e non per l'ultima - la maniera
irresponsabile e scandalosa con cui sono state cancellate dalla faccia della
terra le indagini sull'assassinio mafioso di Giuseppe Fava. Noi testimoniamo
qui che queste indagini potevano essere condotte fattivamente, e possono
esserlo ancora.
Noi qui facciamo appello ufficialmente. al ministro di Giustizia Conso, al
Consiglio superiore della magistratura, perchè facciano il loro dovere.
Facciamo appello a chiunque parli oggi di onestà e giustizia e di
rinnovamento. Da questo, non dalle parole, li giudicheremo.
Vogliamo sapere se la vile Italia del 1984 comanda ancora oggi, nel 1993.
Vogliamo saperlo, perchè se l'Italia ufficiale dovesse - per assurda ipotesi essere ancora la stessa, sicuramente non sono più gli stessi gli italiani. E ad
essi faremmo appello.
Parliamo del nostro amico, ma in realtà di tanti altri. Sparati da un killer o
fatti a pezzi da una bomba - di Gladio, di Cosa Nostra, della P2 - o
assassinati da un buco d'eroina, erano tutti esseri umani che conoscevamo o
che qualcuno di noi conosceva, che erano vivi, a cui qualcuno voleva bene.
Ora è il momento della giustizia; Tangentopoli, non ci basta. Giustizia, tutta.
A questo servono I Siciliani.
QUELLI DI ELLECCI'
I Siciliani, aprile 1993
Siccome Lotta Continua era un'organizzazione di pericolosi giacobini
dediti alla sovversione, gl'indirizzi dei suoi militanti - dei quali mi onoravo
di far parte, e non sono affatto pentito - erano mantenuti riservati. Così
l'indirizzo di Mauro Rostagno, nuovo responsabile palermitano
dell'Organizzazione, io l'avevo su un foglio di carta accuratamente
consegnatomi a Messina; ma il foglio, naturalmente, l'avevo
perso..Telefonare alla sede? Ma ti pare. Passano in quel momento tre
ragazzi di qualche scuola: "Ehi, ma tu sei di Elleccì ?" (avevo il giornale
ben visibile in tasca, nella tasca dell'eskimo regolamentare). Dieci minuti
dopo ero a casa di Mauro, dalle parti di via Notarbartolo. C'erano lui, la
Chicca che allora era una militante milanese col chiodo, Lello ricercato per
occupazione di case a Milano e che poi finì anche lui in quella faccenda del
Macondo, Saro dell'organizzazione, una compagna di cui non mi ricordo il
nome e se me lo ricordassi non lo direi anche se a lei di Elleccì
interessavano soprattutto i ragazzi, molti volumi marxisti che qualcuno
prima o poi avrebbe letto e un paio di chitarre; e la bambina, che allora
aveva un paio di mesi e la si portava in braccio su e giù per villa Sperlinga
che non era ancora diventata villa Siringa.
Un secolo fa. A Palermo, la Lotta Continua di Rostagno - l'altro
gruppazzo serio, in città, era il Manifesto di Mario Mineo e Umberto
Santino - contava su quattro sedi, non moltissimi studenti ma un bel po' di
gente dei quartieri, e tre comitati di lotta per la casa. Non era una roba da
fighetti, Elleccì di Palermo, né gli Straccio Liguori né i Bretella Ferrara
sono cresciuti qui. Era una cosa rozza, allegra, coraggiosa e gentile, molto nel senso migliore - sudamericana. La Primavera di Palermo, forse, è
cominciata senza saperlo proprio da lì, quando s'occupò la cattedrale, coi
baraccati, per ottenere case e dignità.
Che brutta fine hanno fatto i miei compagni di Lotta Continua, da tenente
in su, esclusi Mauro Rostagno e Guido Viale. Viale, non so più dove sia.
Rostagno è morto in Sicilia, alla maniera sua, fra affetto confusione e amici
malfidati. "Muertos con dignidad" diceva una canzone dei nostri tempi, di
gente come lui.
Alla commemorazione, gli "amici" suoi hanno invitato poi - chissà perché
- a parlare "Turi" Lombardo, che sarebbe l'assessore socialista smascherato
da Gianni Bonsignore poco prima l'ammazzassero. Di lui, di Mauro, mi
hanno raccontato un aneddoto, degli ultimi mesi, che non so se è vero:
l'avrebbero cioé messo fuori, lui che non aveva paura di nessuno,
dall'edificio principale di Saman e mandato in una dipendenza laterale, fuori
dai piedi.
Ma - diceva Calogero Gasparazzo: e da tenente in giù ci ricordiamo
ancora chi era - ma "non finisce qui".
COME ANDO'
I Siciliani, maggio 1993
Ci sono i "sorci", i gattopardi e i garibaldini. I sorci ormai non contano
più tanto, e ne attribuiscono la colpa a una serie terrificante di complotti
organizzati da giudici, giacobini e sovversivi vari per convincere il buon
popolo italiano che Andreotti è un mafioso, Gava un camorrista, Craxi un
capobanda e Martelli un capobanda imbranato.
I gattopardi sono stati sudditi fedelissimi per trent'anni; poi, quando hanno
visto che Sua Maestà (Dio guardi) non era più in grado di garantire le
baronìe si son scoperti patrioti tutt'a un tratto: e promettono costituzioni e
riforme, a patto però d'essere sempre loro a comandare.
I garibaldini infine - quelli cioé che hanno buttato giù materialmente i
Borboni, quelli che hanno rischiato la pelle quando nessuno avrebbe
scommesso un soldo sulla "libbittà" - sono divisi in mazziniani,
costituzionali, repubblicani puri, seguaci degli Statuti di Spagna e
ammiratori del bicameralismo all'inglese. Sono parimenti esecrati, nel loro
complesso, dai "sorci" e dai gattopardi: i quali, senza tanti distinguo, li
accusano tutt'insieme d'anarchia e di quarantotto.
Riusciranno i nostri eroi garibaldini a mettersi finalmente d'accordo fra di
loro, a fare la libertà e il Quarantotto (o il Sessantotto) senza farsi
imbrogliare un'altra volta dai gattopardi? Ce la facciamo, per una volta, ad
essere più furbi del Principe di Salina?
Che poi, diciamola tutta, non è che i gattopardi d'oggi siano quei gran
volponi d'una volta. I Mariotti, i senatùr, i Pinocchimartelli, i Marchi
Giacinti d'annata: tutto qua. Non dureranno a lungo, non sono semplicemente - all'altezza. Entro sei mesi, finita in galera l'antica e in
bancarotta quella "rinnovata", il Paese chiederà a gran voce una nuova
classe dirigente che volti pagina davvero.
Voltiamo pagina noi lettori, per intanto, ma proprio letteralmente: a
pagina due di questo numero del giornale c'è un tizio con una proposta di
buon senso: perché non farla finita, con tutte queste divisioni fra noi di
Garibaldi, e mettere in piedi una baracca in comune? Lui la chiama - in
linguaggio cattolico - "nuova sinistra": ci sta dentro un sacco di gente,
secondo noi, gli operai milanesi dell'Alfa e gli antimafiosi di Palermo, Luca
col ciuffo e il vecchio incontentabile poeta Pietro. Ci stiamo dentro anche
noi.
INTORNO AI BOSS
I Siciliani, giugno 1993
Al centro di Catania c'è una piazza quadrata. Da un lato il comando
carabinieri del colonnello Licata: controlla gli scippatori della città,
parallelamente a Santapaola. Sul secondo lato l'albergo dove ogni settimana
s'incontrano i manager del narcotraffico, fra cui quelli della Famiglia
Santapaola. Sul terzo lato le bische in teoria clandestine, ma in realtà
frequentate da tutta la Catania bene, di proprietà dei Ferrera-Santapaola. Il
quarto lato è il Palazzo di Giustizia del procuratore aggiunto Giulio Cesare
Di Natale, non nemico di Santapaola. Al centro della piazza, un
monumento-fontana e intorno al monumento una decina o più, secondo le
sere, di tossicodipendenti.
Catania era così, negli anni Ottanta. Una delle città più gradevoli d'Italia,
per chi aveva i soldi. I trecento più ricchi di Catania potevano girare di
giorno e di notte senza paura di sequestri (la mafia non ne permetteva),
potevano aprire meravigliose boutiques in pieno centro senza paura
d'indagini tributarie né di rapine, potevano comprare qualunque essere
umano o cosa, da una terracotta ellenistica a una ragazzina di quindici anni,
senza renderne conto e senza formalità. Non pagavano tasse - non allo Stato
- e venivano rapidamente assolti, o amnistiati, se qualche poliziotto li
denunciava. Magistrati e generali dei carabinieri - non catanesi - che
ficcavano il naso nelle loro faccende venivano uccisi a colpi di mitra, o
saltavano in aria. Avevano i loro politici - i Lo Turco, i Coco, gli Attaguile,
gli Aleppo, gli Andò, i Tignino, i Drago - carì sì, ma che funzionavano bene.
Avevano il loro giornale (e ce l'hanno tuttora) che si chiamava "La Sicilia".
"La Sicilia" è il giornale che rifiutò il necrologio di una vittima della mafia,
perché offendeva la mafia.
Per tutti gli altri catanesi Catania, in questi ultimi quindici anni, è stata un
tritacarne. Anno dopo anno, una quota prefissata della gioventù cittadina
veniva tirata fuori dai quartieri, gettata nella "microcriminalità" e
sterminata. Nessun'altra città d'Europa ha mai avuto, in questi quindici anni,
una percentuale tanto elevata d'emarginazione giovanile. Mentre la boutique
o il ritrovo elegante del centro andava avanti tranquillamente grazie alla
protezione di Santapaola (quanti "scassapagghiari" sono stati giustiziati per
uno "sgarro" contro un negozio "amico"?) il piccolo bottegaio di periferia
aspettava con terrore le otto di sera, quando bande di ragazzini disperati
irrompevano alla ricerca delle cento-duecentomila lire dell'incasso. Un
circuito perfetto: gli appaltatori progettano i quartieri in modo da garantire il
massimo guadagno a se stessi e la massima emarginazione per chi ci andrà
ad abitare; dall'emarginazione nasce una microcriminalità che genera la
richiesta di un controllo "forte" sul territorio, assicurato dai Santapaola e dai
colonnelli Licata; Stato e mafia trovano così un terreno, se non comune,
parallelo; su qesto terreno si sviluppano rapporti, connivenze,
interconnessioni che, sommate alla degradazione sociale, distruggono ogni
possibilità di gestione civile, regolata da leggi e controllata da elezioni,
della città.
La politica, in una situazione come questa, è una gestione d'affari, coi
"cittadini" imbrancati periodicamente e portati a "votare" - dai capiclientela,
dai capimafia, dagli stessi imprenditori - senza sapere dove né perrché; il
ceto politico ingloba rapidamente i professionisti, i sindacalisti, i magistrati,
gli stessi capi della gran parte delle "opposizioni", tutti fusi in un amalgama
soddisfatto e confuso, all'interno del quale le distinzioni fra funzione e
funzione tendono sempre più a sparire: il direttore di giornale emette
sentenze, il magistrato scrive articoli, l'imprenditore nomina le giunte
comunali, il politico specula in proprio sugli affari, il mafioso "mantiene
l'ordine" e il poliziotto manda gli "avvertimenti" a chi occorre.
Questo era il potere mafioso nella città di Catania. Di esso Santapaola era
il braccio militare, ma non la massima autorità. Il vertice della piramide, da
un punto di vista sociale, consisteva nei "quattro maggiori imprenditori"
Rendo Graci Costanzo e Finocchiaro, orgogliosamente uniti - per loro stessa
ammissione - in un patto di ferro che governava gli appalti e, di riflesso, la
città. In cerchi concentrici, attorno al potere dei cavalieri ruotavano gli
esecutori politici (i più presentabili dei quali venivano promossi al
collegamento coi poteri nazionali) e buona parte degli uomini "dello Stato".
Parliamo di potere mafioso al passato non perché esso sia oggi sconfitto
da qualche poderosa mobilitazione dello Stato né perché vi sia stata, da
parte del ceto politico tradizionale, una qualche spinta verso qualche
"rinnovamento" (essendo siciliani, conosciamo fin troppo bene la tecnica
del Gattopardo). No. Ma anni e anni di lotta hanno pur prodotto qualcosa. Il
ministero della Difesa, ad esempio, da cui gerarchicamente dipendono i
carabinieri, era retto fino a poco tempo fa da un uomo come Salvo Andò.
Gli antimafiosi non sono ancora abbastanza forti da imporre un ministro
della Difesa antimafioso. Lo sono però già abbastanza da rendere comunque
molto difficile la permanenza di un Andò; e da consentire dunque una
maggior libertà di movimento a coloro che non condividono - nella polizia,
nei carabinieri, nella magistratura - l'opinione che un Andò può avere della
questione mafiosa.
Parliamo di potere mafioso a Catania perché quindici anni fa, quando il
meccanismo ha cominciato a funzionare, il potere mafioso era un affare di
Catania, di Palermo e di poche altre città. Ma questo, quindici anni fa. Oggi
il meccanismo "catanese" è perfettamente diffuso in tutto il Paese. Il ruolo
di un Romiti in Tangentopoli non è diverso da quello di un Rendo a Catania.
E la stessa parola "tangenti" è un modo molto eufemistico di indicare quel
che è accaduto in Italia negli anni Ottanta - un vero e proprio colpo di stato,
la sostituzione di un potere democratico con un comitato d'affari politicoimprenditoriale: su più larga scala, ma esattamente come a Catania; con
strutture come il Sismi o Gladio al posto di Santapaola e Andreotti e Craxi
al posto di Nino Drago e Salvo Andò.
Quello che è successo a Catania "con" Santapaola è dunque una metafora
- non tanto piccola - dell' ultimo decennio di storia nazionale. Ma a Catania
è successo qualcosa anche contro Santapaola, contro i cavalieri, contro le
collusioni di Stato e contro il comitato d'affari. Si sono mossi i giovani,
sono sorti dei movimenti, l'opposizione ha trovato dapprima dei maestri e
poi dei capi.
Certo, noi siamo gli ultimi a farci delle facili illusioni sulla durata di
questa lotta, qui a Catania. Ma per le tendenze che emergono alla base, e
che vediamo rafforzarsi mese dopo mese, siamo sicuri di vincerla entro
questa generazione. Una Catania senza padroni, noi - ne siamo certi - la
vedremo. Non solo: crediamo che anche quest'altra Catania abbia discrete
possibilità di diventare, nel giro d'una decina d'anni, metafora dell'intera
Nazione.
LE STRAGI
I Siciliani, giugno 1993
Le stragi, in questo paese, hanno sempre contato molto più delle elezioni.
Piazza Fontana ha contato di più del Sessantotto, piazza della Loggia e il
treno Italicus molto di più del referendum sul divorzio, l'assassinio di Rocco
Chinnici più del movimento antimafia palermitano. Il meccanismo, ogni
volta, è lo stesso: su una questione qualunque si comincia a formare nel
Paese un movimento d'opinione di massa, un abbozzo di aggregazione
politica, una possibile classe dirigente alternativa che però ha bisogno di
tempo per crescere, maturarsi e venir fuori dagli specifici confini originari.
L'intervento terroristico, ogni volta, inchioda questo processo: il movimento
in formazione si rattrappisce nella difesa dell'esistente, ritira la propria
candidatura implicita al governo del Paese, finisce nell'estremismo o nei
gattopardi: e un'altra generazione di regno è assicurata ai vecchi poteri.
Questi, tecnicamente, hanno sempre disposto in Italia di uno strumento
preciso, finalizzato agli interventi "irregolari" sulla vita pubblica italiana,
organizzato da lungo tempo, chiamato - nelle sue varie accezioni - "Gladio".
Pasolini diceva "Io so - da intellettuale - chi possono essere i mandanti".
Noi, da intellettuali, possiamo dir di sapere - a vent'anni di distanza - anche
chi possono essere gli organizzatori. "Gladio" ha dei nomi precisi, nella
storia di questo Paese. E la polemica riguarda, in queste settimane, due
entità con nome e cognome: Francesco Cossiga e Giulio Andreotti. Non
sappiamo quali messaggi e minacce esattamente essi si scambino, in queste
settimane, dalle colonne dei giornali. Sappiamo che se le scambiano, e ci
basta. Sappiamo che l'argomento è "Gladio".
Non sappiamo neanche che schieramento specifico ciascuno di essi
rappresenti (l'America preclintoniana, i vecchi notabili-massoni degli anni
Cinquanta, i tempi della massomafia, le logge?) e non c'interessa nemmeno,
per il momento. Sappiamo che lo scontro è in corso, come nel 1969 e nel
1980, che all'interno di questo scontro i segmenti mafiosi superstiti vengono
probabilmente usati, che nel corso di esso saranno probabilmente
minacciate le soluzioni più estreme - ma che la vera posta in gioco, alla resa
dei conti, sarà lo sbocco politico degli anni di Di Pietro. Che noi non
chiamiamo così.
Noi in Sicilia sappiamo che gli anni di Di Pietro cominciano in realtà
molto lontano, almeno dall'inverno '82. Quell'inverno a Palermo, stando
tutto il Paese sotto il craxismo, spente o in dissoluzione le forme della
sinistra tradizionale, quell'anno a Palermo nei quartieri più degradati, fra i
giovani delle scuole, in una minoranza "giacobina" di cittadini, è nata una
nuova cultura d'opposizione e, in lunga prospettiva, di governo. A Palermo,
dove lo scontro fra sfruttati e potere era più disperato e inconciliabile che in
ogni altro luogo, è sorta la percezione che quel potere si poteva contrastare,
con rozza immediatezza, in tutte le articolazioni della vita sociale: dal
militante di quartiere al magistrato. Questa prima rudimentale percezione,
nel giro di undici anni, è dilagata a macchia d'olio per il Paese. Non ci
sarebbe stato nessun Di Pietro se non ci fosse stato Chinnici. Non ci sarebbe
stato Chinnici se non ci fossero stati i primi militanti del Coordinamento
Antimafia e di Città per l'Uomo e gli studenti del Meli.
Nel giro di quasi una generazione, tutto ciò ha prodotto - sempre
rudimentalmente e rozzamente, con grandissime generosità e altrettanto
grandi superficialità e approssimazioni - dapprima una nuova cultura, poi un
nuovo intervento sociale e infine, sempre rudimentalmente ma con una
solidità ormai acquisita - ha portato all'individuazione di una politica
adeguatamente nuova. A una sinistra politica, insomma, in grado di
espandersi linearmente e maturando, e di giungere probabilmente, per la
prima volta dal 1946, a governare il Paese. Sempre che non venga bloccata
sulla difensiva e sull'accettazione - come male minore - dell'esistente.
Le stragi arrivano a questo punto.
I SANTI PAOLI
I Siciliani, giugno 1993
Il sindaco di Catania, si chiamava Santapaola? I "quattro cavalieri
dell'apocalisse mafiosa", secondo Giuseppe Fava e Carlo Alberto dalla
Chiesa, erano tutt'e quattro Santapaola? Santapaola era il direttore del
giornale "La Sicilia"? Le indagini sull'omicidio Fava, sono state insabbiate
dal giudice Santapaola? L'appalto per il centro direzionale, andrà a
Santapaola? Com'è che hanno fatto ministro della difesa Santapaola? Il
quartiere Librino, è stato costruito da Santapaola? "La mafia non esiste": lo
diceva Santapaola? Il capo della Dc era l'onorevole Santapaola? E chi lo
difendeva: l'avvocato Santapaola? Chi ha tolto di mezzo il giudice Felice
Lima: Santapaola? La Nuova Pretura di Catania, è stata costruita sui terreni
di Santapaola? Al Comune rubano per conto di Santapaola? L'ospedale
nuovo, a uno sputo dai jet dell'aeroporto, lo fanno sui terreni di Santapaola?
Perché Santapaola ha impedito per dieci anni di arrestare Santapaola? E
insomma, chi c'era sopra Santapaola: Santapaola?
Il terzo livello non esiste, ripetono i commentatori ufficiali. Una volta,
"non esisteva" neanche la mafia. Adesso esiste solo Santapaola. E zitti su
tutto il resto. "Santapaola? - dichiarano virtuosamente politici e cavalieri mai visto né conosciuto". E avanti ai prossimi appalti.
Catania, Sicilia? Non solamente. Chinnici, Borsellino e Falcone, Carlo
Palermo, Di Pietro, Cordova, Caselli - hanno indagato abbastanza, i
magistrati del popolo italiano, hanno scoperto abbastanza verità da
permettere diandare molto oltre i Santapaola e i don Totò. Ma chi vuole
andare oltre davvero? Non è meglio lasciare che il "passato" se ne vada via
tranquillamente, senza rompere le scatole al "nuovo"? Non s'è fatto sempre
così, qui da noi, fin dal tempo dei Gattopardi?
E allora: Santapaola, Riina, "vendetta di Cosa Nostra", "mafia alle corde",
"oscura strategia della tensione". E via così. Senza troppe domande, né a
Catania né a Roma.
A proposito, domanda: dei tre potenti messi sotto accusa nei giorni delle
bombe, chi era il più potente: Santapaola, Andreotti o Romiti?
FACCIAMO UN QUOTIDIANO?
I Siciliani, luglio 1993
Ma voi li leggete, i giornali? Non c'è più il Psi, non c'è più la Dc, ma per i
giornali - in sostanza- non è successo niente. Nel corso di questi due anni è
stato scoperto: a) che per quarant'anni le elezioni - con Gladio pronto a fare
il colpo di Stato appena la destra Dc avesse perso il governo, e con la P2
messa lì a distribuire bombe- non hanno contato niente; b) che il più
importante esponente del più importante partito era in rapporti amichevoli
con Cosa Nostra; c) che il secondo più importante partito di governo era in
realtà un'associazione d'affari, esclusivamente finalizzata all'arricchimento
dei suoi membri; d) che l'"industria" praticata dai principali imprenditori
italiani, quelli che predicavano i sacrifici per salvare l'economia, era in
realtà quella di mettersi d'accordo con i politici tangentari per dividersi
fraternamente i denari pubblici, fifty-fifty.
Di tutto questo, sulla maggior parte dei giornali italiani, non trovate che
poche e fievoli tracce. Come non trovate traccia del fondamentale
interrogativo - "Chi paga?" - che deciderà le sorti del paese per i prossimi
vent'anni. E si capisce: quasi nella loro totalità, i giornali sono quelli
riempiti al tempo di Tangentopoli dagli uomini della Dc, del Psi, di Romiti e
di Berlusconi. Che interesse possono mai avere, a dire la verità fino in
fondo? Meglio per loro uscirne "all'italiana": chi era craxista prenderà la
tessera della Lega, chi era democristiano o massone si butterà nel
"rinnovamento" di Segni o dell'Alleanza, chi faceva l'"industriale" a buon
mercato a colpi di mazzette adesso spanderà due lacrimucce di pentimento
e. farà pagare i danni - in nome dell'economia da salvare - alle buste-paga
dei lavoratori. E tutto continuerà come prima, con qualche piccolo cambio
di etichette. Con la benedizione commossa - in nome naturalmente del
"cambiamento" - dei giornali ufficiali e delle tv.
A noi tutto questo non va giù. Un giornale, secondo noi, dovrebbe aver
molto da dire in questo momento. Facciamo quel che possiamo, ma ci
rendiamo conto che uscire una volta al mese non è granchè. Ci rendiamo
conto, anche, che noi abbiamo una nostra storia, un modo di pensare, una
cultura, ma che altri hanno la loro, non meno importante della nostra, ed è
giusto che dicano quel che hanno da dire anche loro. Ci rendiamo conto
insomma che solo unendo tante forze è possibile dare una risposta adeguata
alla domanda d'informazione che la grande maggioranza degli italiani oggi
esprime e a cui certamente non potranno rispondere i giornali che fino a ieri
erano apertamente del regime. E' un problema grosso, e non c'è modo di
girarci intorno. L'Italia cambia, i giornali no. Quindi, bisogna fare dei
giornali completamente nuovi, dei giornali che siano espressione immediata
e diretta, e fino in fondo democratica, del cambiamento. Dei giornali
adeguati, non dei mensili di battaglia come questo. Dei quotidiani,
insomma.
Noi, da soli, non ce la facciamo. Ma insieme con tutti gli altri antimafiosi,
e sostenuti massicciamente da voi lettori, crediamo proprio di sì. Qualche
idea abbiamo già cominciato a metterla insieme - vedi l'inserto al centro del
giornale. Ne parliamo?
CHI SI VEDE, LA SINISTRA
I Siciliani, luglio 1993
La sinistra è una cosa che in Italia possiede alcune tonnellate di analisi,
che raramente qualcuno legge, una mezza dozzina di astuti progetti politici
tutti rigorosamente incompatibili fra loro e tre o quattro partiti organizzati
ciascuno dei quali ritiene di essere l'unico destinato col tempo a costituire la
sola e vera sinistra; e alcune centinaia di brillantissimi dirigenti che nel giro
di pochi anni sono riusciti a portarla - per quanto umanamente stava in loro
- sulle soglie della dissoluzione. Possiede tuttavia anche, ed è l'unico suo
patrimonio reale, la memoria e il buonsenso di alcune decine di milioni di
esseri umani, figli di un'esperienza storica di generazioni e generazioni
d'incivilimento, di pene, di lungo e faticoso impossessamento della cultura e
dei principi della vita associata e collettiva.
Sono stati loro a portare la sinistra, fra gli ultimi mesi dell'anno scorso e i
primi di quest'anno, alla conquista della maggioranza assoluta e a portare le
rappresentanze politiche della sinistra a un passo - a un brevissimo passo dal governo del Paese. E' una maggioranza che non ha ancora avuto modo
di esprimersi in un'elezione generale e che perciò, come sempre, sfugge ai
politologi di professione. Ma è una maggioranza reale.
Alle ultime elezioni amministrative la sinistra ha preso fra il quaranta e il
sessanta per cento, a seconda dei luoghi, dei voti validamente espressi dagli
elettori. Ha superato la maggioranza assoluta nelle zone di antico e
moderato buongoverno dell'Italia centrale. Ha preso il quarantacinque per
cento a Milano, in presenza di un'ondata di destra sostenuta da gran parte
degli opinion leaders e dei poteri industriali. Comprende probabilmente la
maggioranza degli elettori a Torino, dove solo l'irresponsabilità di dirigenti
locali ha impedito ai voti della sinistra moderata di far blocco, com'era
naturale, col grosso delle forze d'opposizione. Ha sfiorato la maggioranza ad
Agrigento, dove per sottrarre i pochi voti che li dividevano dal candidato
democratico i conservatori han dovuto arruolare un "rinnovatore" come
Ayala. Ha raggiunto il quarantasette per cento a Catania, dove l'errore tattico
commesso dai cattolici di "Città Insieme" ha regalato il comune a un
cartello di centrosinistra. In tutti questi casi, è mancata la strategia ma non
le forze; l'abilità dei dirigenti, ma non la coscienza della base. E' mancato
cioè qualcosa che si può facilmente imparare, che si può - se sarà il caso collettivamente imporre ai dirigenti democratici alla prossima occasione. E'
mancato il senso storico e profondo dell'unità.
A Torino e a Catania - è interessante notare - lo schieramento della sinistra
era rappresentato, di nome, soltanto da Rifondazione e dalla Rete; ad
Agrigento e Milano, il fronte comprendeva il Pds; nelle città del Centro, a
volte mancava Rifondazione a volte la Rete. L'immagine politica delle varie
liste, tuttavia, è stata più o meno la stessa dappertutto; dappertutto il numero
dei voti riportati dal candidato sindaco della sinistra è stato di molto
superiore alla somma dei voti riportati dalle singole liste di sinistra. A
Catania lo schieramento d'opposizione, che ha mancato di pochissimo la
conquista del Comune, nominalmente era sostenuto solo dal quattordici per
cento degli elettori (dieci e mezzo della Rete, poco più di tre di
Rifondazione): dei catanesi che hanno votato a sinistra, due su tre l'hanno
fatto dal di fuori dei partiti di sinistra.
Ad Agrigento - è ancora interessante notare - fra i promotori della lista
d'opposizione c'era un collettivo indipendente giovanile di recentissima
costituzione, che ha fatto la sua brava campagna elettorale non peggio né
con meno efficienza di tutti gli altri.
A Catania, alle radici dello schieramento progressista, più che le tutto
sommato deboli forze organizzate di partito, ritroviamo esperienze e culture
direttamente legate - come la nostra dei Siciliani - alle istanze di base della
società civile e a lotte immediatamente dirette, senza mediazioni "politiche",
contro il potere mafioso. In diversi paesini del meridione, soprattutto in
Sicilia, la gente ha votato massicciamente per il Pds o per la Rete, senza
tante distinzioni, a seconda dell'esponente locale considerato più
combattivo. Un'analisi del voto a Torino o a Milano porterebbe
probabilmente alla luce caratteristiche di fondo non molto differenti. La
gente, per così dire, sta imparando ad usare la sinistra. Si potrebbe dire che
la sinistra sta imparando ad usare se stessa.
Parte per malafede parte per semplice superficialità, i commentatori
ufficiali ricavano dall'esperienza delle elezioni di giugno l'idea di una
fantomatica "corsa al centro", giocata fra posizioni moderate e con la messa
fuori legge, o perlomeno fuori gioco, delle posizioni più "giacobine".
Questo potrà essere forse vero in America (dove peraltro a votare non va più
da molto tempo che una ristretta minoranza), ma non lo è affatto in Italia.
Da noi le cifre dimostrano invece che l'elettorato italiano è composto da una
forte sinistra e da una destra, la prima tendenzialmente unitaria e la seconda
divisa - per il momento almeno - fra vecchie e nuove pulsioni. Unirsi, per la
sinistra, oggi è molto più facile che per la destra.
I vari tentativi di uscire dalla crisi su un'ipotesi di centro o di
centrosinistra - Martelli, Segni, l'Alleanza di Bianco e Ayala - hanno
prodotto finora moltissimo e molto propagandato fumo, ma ben poco
arrosto. Le volte invece in cui la sinistra ha avuto il buonsenso di affidarsi a
se stessa, di puntare su un fronte ampio aperto alle forze spontanee della
società civile, è arrivata vicinissima (e abbiamo visto quanto esili e
occasionali siano state le cause che le hanno impedito di conseguirla del
tutto) alla maggioranza assoluta.
Certo, non è facile unirsi. O meglio, lo è per le persone normali, per i
militanti di base, per coloro che hanno faticosamente conquistato una "linea
politica" - se così la vogliamo chiamare - attraverso anni di faticoso
confronto con le vive e immediate traversìe della società civile; non lo è
affatto per coloro che quest'esperienza non ce l'hanno, o l'hanno così lontana
nel tempo da esserne ormai abbandonati.
Di buono c'è che, essendo ormai i partiti della sinistra diversi e non più
uno solo, possono fare i capricci a turno (o meglio, possono farli i loro
dirigenti meno avvertiti) lasciando sempre qualcuno a badare alle cose serie
nel frattempo. Nei mesi passati è stato il turno della Rete (che doveva
sciogliere l'amletico dubbio se appartenere alla sinistra o ad altre, ancora
inesplorate, contrade) e del Pds (che voleva affidare le sorti del Paese,
nell'ordine, all'Internazionale socialista, a Martelli, a Segni, a Ciampi, a
Clinton, ad Ayala). Adesso il turno, a quanto pare, tocca a Rifondazione.
Speriamo che faccia in fretta.
Nel frattempo bisogna che il processo unitario vada avanti. Bisogna che
non sia affidato principalmente ai partiti e che non sia ostacolato dai partiti.
Bisogna che possa esprimersi in una serie di iniziative unitarie di base azioni rivendicative, giornali, incontri, associazionismo di base, e alla fine,
ma proprio alla fine, anche liste elettorali comuni - e che sappia mantenersi
in ogni momento rigorosamente sincero, senza furbizie, senza egemonie. La
rivoluzione italiana tutto sommato è cominciata - è cominciata qui al Sud,
molti anni prima di Di Pietro - da una questione morale, da un bisogno di
trasparenza civile, di pulizia, di schieramenti chiari. E' una strada vincente,
sarebbe un peccato impantanarla per noia in una politica politichese.
UN'ESTATE PERICOLOSA
I Siciliani, agosto 1993
La speranza era che i servizi segreti si fossero messi a rubare
tranquillamente come tutti gli altri politici italiani e non avessero quindi più
il tempo di mettere in giro bombe e fare stragi. Forse è così, e forse no. In
ogni caso, le bombe scoppiano ancora. Forse sono semplicemente bombe
"sindacali", di rivendicazione dei vecchi piduisti e mafiosi che non vogliono
essere messi da parte per la bella faccia del "rinnovamento" dei Gattopardi.
Forse sono bombe più politiche, nel senso che nemmeno i "rinnovamenti" in
Italia si possono fare senza un po' di tritolo. Mah. In ogni caso, occhio
all'estate. Si sono fregati la scala mobile, il potere economico della lira,
trentamila miliardi di industria chimica, i soldi - che nessuno prova
nemmeno a misurare - di Tangentopoli, la democrazia: i "colpi"migliori li
hanno fatti d'estate, in quegli unici quindici giorni su trecentosessantacinque
in cui l' italiano ha finalmente il diritto di starsene spaparanzato al sole a
riposarsi un poco.
Dio sa che s'inventeranno stavolta, che manovra economica,che
"rinnovamento" in famiglia, che assoluzione generale dei ladri. La
tentazione è forte, per lorsignori. Non sono più solo i politici, sono anche i
cavalieri d'industria, se va avanti Mani Pulite, a rischiare grosso. Di solito,
negli anni passati, pensavano al colpo di stato per molto meno. Quest'anno
l'affare è difficile: la gente è talmente incazzata, e i giudici sono talmente
svegli, che molto probabilmente, non gli converrebbe provarci. Ma almeno
un pensierino qualcuno ce lo starà facendo. Mica un golpe coi carri armati:
un colpo di stato legale, un golpe "perbene". Occhio, occhio all'estate...
OPERAI
I Siciliani, settembre 1993
Non mettete la mia foto - avrebbe detto probabilmente padre Puglisi - Se
proprio ci tenete, stampate come vive la mia gente. La gente di padre
Puglisi, a Brancaccio e fuori, vive - quando va bene - con un milione al
mese. Lavora in una fabbrica, quando va bene, o scarica cassette ai mercati
generali, o vende qualche cosa per la strada, oppure va a rubare. A
Brancaccio, a Crotone, oppure alla periferia di Milano. La gente di padre
Puglisi, il giorno che si ribella, ha tutti - Giornalisti e Politici virtuosamente contro. Soffrire e sopportare, così va il mondo.
Noi siamo di chi si ribella. Di chi occupa la fabbrica il giorno prima del
licenziamento, di chi fischia i politici ai funerali di Borsellino, di chi entra
nella povera chiesa nel quartiere dei boss, sapendo la soglia che sta
varcando. Il mondo, dice padre Puglisi, non andrà sempre così. Il mondo dice Camillo Torres, i gesuiti del Salvador, i preti dei quartieri di Palermo verrà cambiato. Lo cambieranno i poveri, i cittadini di Brancaccio, il popolo
di Palermo, gli operai. I tempi degli sgherri - quelli in divisa mimetica, e
quelli di Cosa Nostra - non dureranno per sempre.
In giro fra gli operai della Sicilia, nei cantieri e le fabbriche dove si
produce la ricchezza dilapidata dai Gardini e dai Craxi, i nostri giovani
cronisti hanno raccolto molti dati ma hanno raccolto - soprattutto - una
sensazione: la gente non si rassegna più. La gente, dal suo lavoro in poi,
vuole cambiare..
Lavoratori, parola fuori moda. Operaio di Crotone, maestrina senza
lavoro di Siracusa, ingegnere di Catania costretto - poiché tangenti e mafia
non fan per lui - a vivere di lezioni private: esseri umani "perdenti", senza
futuro... Ma non è così. Gli uomini e le donne del Sud hanno ancora tutto da
dire. "Voi avete portato alla rovina l'Italia - disse ai fascisti Gramsci spetterà a noi ricostruirla". Ereditiamo un'Italia divisa, spolpata,
saccheggiata dai politici corrotti, svenduta ai cavalieri d'industria, ancora in
gran parte in mano agli sgherri di Andreotti. Ereditiamo un'Italia in cui
l'omicidio di padre Puglisi, o l'autobomba davanti alla caserma dei
Carabinieri di Gravina, sono probabilmente solo l'inizio della campagna
d'autunno. Quest'Italia, noi la ricostruiremo da cima a fondo, con ferma
fiducia nelle virtù profonde di questo Paese, nascoste oggi sotto gli
schiamazzi di politicanti e leghisti ma ben vive e presenti, e vittoriose
infine, nei momenti difficili della nostra storia. L'altra Italia, quella dei
lavoratori di Crotone, quella della gente che scende in piazza, quella di
padre Puglisi.
I MAGNIFICI
I Siciliani, ottobre 1993
Falcone e Borsellino nel pool antimafia, Orlando al Comune, i ragazzi del
liceo Meli in piazza - ricordate Palermo? Palermo degli anni duri.
Giammanco e Geraci al Palazzo di Giustizia, Martelli e Andreotti che
attaccano gli antimafiosi "giacobini", il Giornale di Sicilia che fa
propaganda al giudice Carnevale - ricordate Palermo? Palermo degli anni
duri. O da una parte o dall'altra, o col potere mafioso o con l'antimafia
popolare. In mezzo, no.
Quanto tempo è passato. Giammanco è inquisito, Martelli non c'è più,
Andreotti è un relitto. Il Giornale di Sicilia - quello che allora schedava
pubblicamente i militanti del Coordinamento antimafia - adesso s'ingegna di
trovare il modo di fare un po' di corte al vincente di oggi, Orlando. Restano
le macerie. E restiamo noi.
Quanto siamo cambiati? Il problema è tutto qui. Rissosi, incorruttibili,
profondamente devoti a un'idea (individuale e collettiva) di libertà; poveri
ed orgogliosi, carichi di speranze e utopie - quelli della primavera di
Palermo, quelli dell'autunno quarantatré. E poi, s'è vinto.
S'è vinto fra le macerie, fra mille ambiguità e gattopardi. In un paese
diviso, fra le macerie, col fiato dei "liberatori" sul collo a imporre, a modo
loro, le nuove autorità. Scendono i partigiani dai monti, ma troppi applausi
li accolgono, troppi "buoni consigli" (chi erano i fascisti in Italia, chi erano i
mafiosi?). Quelli che ieri combattevano, oggi debbono governare: almeno,
per cominciare, qui a Palermo. Noi ci auguriamo che abbiano il coraggio di
farlo, che riescano ad averne la forza, ma che lo facciano - soprattutto - da
partigiani. Che non cedano alla timidezza dei poveri, che non diventino
ragionevoli e perbene, che si facciano voler male dai signori.
Questo è un promemoria per il sindaco rivoluzionario di Palermo.
VERSO UN GOVERNO "PALERMITANO"
I Siciliani, novembre 1993
Faranno prima Fini, Bossi, Cossiga, Berlusconi a unirsi e a prendere il
potere, o lo faranno prima i leader responsabili della sinistra? L'Italia è
spaccata in due, non c'è possibilità di mediazioni. O la democrazia o la
reazione, o la sinistra o la destra. Il centro "moderato e responsabile" su cui
ha contato disperatamente, dall'inizio della crisi in qua, buona parte della
sinistra italiana in realtà non esiste, non esiste più da quasi un anno. I
"moderati" si schierano, i benpensanti s'infilano gli stivali. Weimar, la
Spagna del Trentasei, il Cile di Allende.
Stavolta deve andare diversamente. C'è una maggioranza di sinistra nel
Paese - sono i numeri a dirlo, non più noi soli - ed è una maggioranza
culturalmente omogenea, molto più omogenea dei due o tre filoni fra cui è
ancora indecisa la destra. Le differenze fra una Rifondazione comunista e
un Pds, fra un Orlando e un Rutelli, pesano e sono gravi; ma sono
infinitamente minori di quelle che ci potevano essere fra comunisti e
socialdemocratici a Weimar, fra anarchici e socialisti nella Spagna
repubblicana; molto minori, comunque, di quelle fra Bossi e Fini. Ma
bisogna far presto. Presto, presto, presto.
Ci sono i numeri, in Italia, per la formazione di un governo di sinistra
subito dopo la primavera. Sarà impossibile procrastinare le elezioni ancora.
La Rete, i Verdi, il Pds, Rifondazione Comunista, le piccole aree
indipendenti all'Adornato o all'Ayala possono vincerle insieme con larga
maggioranza, governare insieme il Paese. Avranno problemi terribili da
affrontare; il governo di sinistra troverà il Tesoro vuoto, il Paese diviso, i
debiti del passato regime da pagare, una crisi industriale anche
artificialmente esaltata. Ma dovranno governare comunque - meglio prima
che poi.
I voti della sinistra hanno superato quasi dappertutto, sia a giugno che a
dicembre, la somma dei singoli partiti di sinistra. Questo dato, troppo
facilmente attribuito a particolari carismi individuali, esprime in realtà il
profondo e massiccio radicamento nella società italiana di alcuni valori
frettolosamente dati per "superati". Su di essi bisogna puntare. Saranno essi,
i valori e non gli equilibrismi, a fare la differenza.
In Sicilia la società civile è "entrata in politica" con più radicalità e più
determinazione che altrove; ha dovuto sperimentare prima (non per sua
scelta) la politica non mediata, la politica reale. Non è merito nostro. Le
condizioni erano tali, per cui bisognava per forza o combattere o sparire.
Altrove potevano permettersi il lusso di giuocare alle repubblichette, di
rimuovere i problemi veri; noi, no. Eravamo costretti a ragionare, a
riflettere, a trovare di volta in volta una risposta ai problemi. Eravamo
costretti, indipendentemente dal talento e quasi contro la nostra stessa
volontà, a fare da battistrada per tutti.
I problemi che ieri erano della Sicilia, oggi sono dell'Italia intera. Estrema
radicalizzazione degli schieramenti politici e istituzionali, estrema
ramificazione dei soggetti sociali e dei loro legittimi interessi; necessità di
scelte nette e traumatiche sul piano degli schieramenti e dei poteri, ma contemporaneamente - di pazienti e lungimiranti mediazioni e garanzie e
salvaguardie nel sociale. Il tutto, in pochissimo tempo e imperversando la
crisi.
Arriveranno prima i leader della sinistra a percepire la posta in gioco - a
farsi le concessioni reciproche richieste dall'unità - o arriveranno prima le
forze nere? Il problema, è tutto qui. A Palermo e in Sicilia, è arrivata per
prima la democrazia. Ma adesso, bisogna far Palermo dappertutto.
IN UNA SCUOLA OCCUPATA DI PALERMO
I Siciliani, novembre 1993
Occhetto, Orlando, Cossutta e Ayala si sono incontrati ieri a Palermo, in
una scuola occupata. "Conti alla mano - ha detto Occhetto - la sinistra è
maggioranza dappertutto, tranne (ma di poco) a Milano". "Che c'entri tu con
la sinistra?" lo ha interrotto Cossutta. "Beh, qui a Palermo..." ha detto
Orlando. Ayala, per il momento, non ha detto niente. "D'accordo - ha
proseguito Occhetto - forse anch'io avrò fatto le mie cazzate. Martelli,
Segni... Vabbene, intanto qua Martelli, Amato, Segni, Martinazzoli e
compagnia centrista - Ayala s'è riacceso la pipa che s'era spenta - con noi
non ci stanno, questo è chiaro. In compenso la gente ci vota. E allora, che
vogliamo fare?". "Noi comunisti..." ha cominciato Cossutta. "Noi comunisti
eravamo un'altra cosa - l'ha interrotto Galasso - noi sapevamo fare la
politica delle alleanze, quando ce n'era bisogno!". Padre Pintacuda, che era
arrivato in quel momento, ha avuto un sorriso fine. "A prescindere dal
passato..." ha cominciato. Ma in quel momento sono entrati Rocco, Antonia
e Salvatore, del comitato d'occupazione.
"Ehi, ma ancora non avete finito? - ha detto Rocco - Guardate che l'aula ci
serve, dobbiamo fare la riunione della commissione stampa!". "Dài - ha
detto Antonia - lasciamogliela per un altro quarto d'ora, poveretti! Li devi
capire, sono politici, devono tragediare un po' prima di mettersi d'acordo".
"Va bene, ma un quarto d'ora e poi basta, eh? Non ve ne abbiate a male, ma
qui abbiamo da lavorare". I tre ragazzi uscirono in fretta, e Antonia prima di
chiudere la porta consegnò qualcosa ad Orlando con aria complice. "Ora,
prima di tutto bisogna stabilire..." fece Cossutta, ma s'interruppe guardando
incuriosito l'oggetto che il sindaco di Palermo teneva in mano con aria
indifferente. "Cos'è questo? Fa vedere...". "Fa' vedere anche a me...".
"Aspetta che provo anch'io".
Un quarto d'ora dopo, i leader della sinistra avevano già definito, nelle
grandi linee, il programma elettorale della sinistra unita, avevano deciso i
nomi (che sarebbero stati comunicati alla stampa in serata) dei componenti
del primo governo post-democristiano e avevano riconsegnato agli studenti,
in perfetto orario, la loro aula. Allontanandosi, i ragazzi li sentirono
sghignazzare allegramente fra loro. "Ci voleva tanto per convincersi - fece
Rocco - Eppure lo potevano capire subito che se si mettono insieme e non
fanno cazzate la gente, com'è successo qui a Palermo, alla fine li vota!".
"Sono politici" sentenziò Salvatore. "Eppure, alla fine l'hanno capito. Chissà
come hanno fatto, a mettersi d'accordo tanto alla svelta". "Un miracolo".
"Già".
Antonia non disse niente, ma sorrise. Effettivamente aveva avuto un
effetto miracoloso, lo spinello che aveva passato a Orlando...
E LA BANDA SUONO' BANDIERA ROSSA
I Siciliani, novembre 1993
Il mio paese, Milazzo, ha venticinquemila abitanti e un sindaco di sinistra.
Il sindaco l'hanno fatto la Rete, il Pds, la parrocchia del Sacro Cuore, i
compagni di Rifondazione comunista, quelli della Lega Ambiente, e
associazioni e congreghe e movimenti vari. I voti sono arrivati
principalmente dalle frazioni "rosse" della città, i villaggi dove un tempo il
vecchio partito comunista organizzava i contadini.
Il sindaco nuovo è un professorino cattolico con la faccia perbene; fra i
caporioni ci sono Dario Russo, che vent'anni fa era un ragazzo di Lotta
Continua e ora ha fondato la Rete, Franco Otera che allora era pure nella
lottacontinua e adesso ha combattuto la mafia come segretario della camera
del lavoro, Cesare Lispi della Raffineria, che allora era del Pci e adesso di
Rifondazione, e altri ancora che non conosco perché da troppo tempo
manco dal paese ma che sicuramente sono dei bravi compagni - o dei bravi
cristiani, a scelta loro - come questi che ho appena nominato. Sono convinto
che adesso, fra tutti quanti, rimetteranno in sesto il mio paese, che è molto
bello e al quale voglio molto bene.
Il giorno prima delle elezioni, a Milazzo, è morto Tindaro La Rosa, che
era il capo dei comunisti del mio paese negli anni Sessanta e Settanta, un
milione d'anni fa. A quel tempo i braccianti erano tanto poveri, a Milazzo,
che alcuni di loro nelle frazioni della Piana dormivano ancora su graticci di
canne. Tindaro era quello che li organizzava, gli faceva il sindacato e il
partito e gl'insegnava a lottare. Eliana, sua moglie, girava in bicicletta per la
Piana a organizzare le gelsominaie, le donne che raccolgono i gelsomini di
notte ed è un lavoro durissimo perché ci vuole una cesta di fiori per fare una
goccia di profumo. Io me li ricordo bene, queste gelsominaie e questi
braccianti, con la loro bandiera rossa nella piazza del paese, col loro silenzio
duro e la loro immensa dignità. Tindaro ed Eliana vivevano in una casa
poverissima ed estremamente pulita, sulla spiaggia dell'Acquaviola.
Avevano due bambini la cui intelligenza e buona educazione - come si
diceva allora - venivano portati ad esempio anche dai genitori più reazionari
del paese.
A casa di Tindaro, quando hanno aperto la cassaforte dove teneva i suoi
risparmi e le sue carte - aveva fatto il funzionario di partito per quarant'anni
- non hanno trovato una lira, ma circa quarantacinque pezzi di carta che
erano tutte le tessere del Partito Comunista Italiano dal 1943 in qua. Hanno
portato Tindaro in chiesa con la bandiera della vecchia sezione,
falcemartello e stella, sulla bara, e al prete non è passato neanche per
l'anticamera del cervello di obiettare qualcosa. Davanti al cimitero, in cima
alla salita in faccia al mare, la folla dei cittadini s'è fermata: un vecchio
compagno ha fatto la commemorazione parlando piano e poi la banda del
paese ha cominciato a suonare "Bandiera Rossa".
RICRAXI
I Siciliani, febbraio 1994
Ci serve per prendere i voti dei cafoni del sud, ha detto il consiliori dei
leghisti parlando di Berlusconi. I cafoni del sud saremmo noi: e
apprezziamo vivamente la semplicità e chiarezza con cui il professor Miglio
(il vero capo della Lega: l'altro è solo da piazza) ha finalmente esposto il
programma politico della destra italiana.
Da cent'anni in qua, infatti, il problema della destra è esattamente questo:
dato che la maggior parte della nazione italiana è composta da "cafoni" del
sud (contadini, emigranti, disoccupati) e da "cafoni" del nord (operai,
impiegati, disoccupati), come fare per impedire che i "cafoni" delle due
parti si uniscano e mandino a quel paese i galantuomini (politicanti,
proprietari e boss mafiosi del sud, politicanti, cavalieri d'industria e boss
massoni del nord) di cui la destra italiana è tradizionalmente l'espressione?
Il problema, come sapete, ha avuto svariate soluzioni nel corso degli anni:
il fascismo, la Dc di Andreotti, il craxismo. Nessuna di esse è rimasta senza
eredi. I fascisti di Fini partecipano oggi attivamente, a pari titolo con gli
altri, al Fronte Padronale anti-"cafoni". I leghisti, che fino a ieri votavano in
maggioranza (se la statistica non è un'opinione) per i democristiani veneti e
per Craxi, oggi costituiscono l'ala più "popolare" e più intransigentemente
razzista della nuova destra. I pattisti di Segni, vale a dire la destra Dc
riveduta e corretta, marciano tatticamente divisi ma fanno in realtà parte
integrante della maggioranza di destra (come si vedrà il giorno dopo le
elezioni). Infine, Berlusconi: che è il rappresentante ufficiale, a Milano e nel
nord, del craxismo rampante degli anni Ottanta.
Così, nell'anno di grazia millenovecentonovantaquattro, "los cuatros
generales" vennero avanti. Bossi marciava in testa, guardandosi alle spalle e
agitando bandiere: in Lombardia e nel Veneto, se tutto andrà bene, non ci
sarà più posto per sindaci né per associazioni di base né per partiti che non
siano quelli del Volk puro, del partito unico del Nord. Dietro di lui,
Berlusconi: sorride a dritta e a manca, trotterellando dietro le squadre
leghiste. "Io ho i soldi! - grida ansiosamente, sforzandosi di far la faccia
dura - Ve ne compro quanti ne volete, io, di cafoni! Ho i soldi, io!".
Qualcuno, dalle ultime file, si volta a guardarlo sogghignando. Poi, dopo
uno spazio vuoto, sfilano i fascisti di Fini. Sono una strana armata: stracci
azzurri, cravatte, vecchi frak, tricolori con un gran buco al centro, dove una
volta c'era il fascio - tutto si son buttati addosso, pur di coprire alla meglio
la camicia nera. Il comandante in testa regola freddamente la marcia sulle
orme di Bossi: il giuoco delle parti li divide, e l'ambizione feroce: ma li
unisce profondamente il loro ruolo.
Passano i riciclati, passano gli arricchiti di regime, passano i cortigiani e i
teppisti, passano nani e ballerine. E infine, i "moderati". "Noi qui con questa
gente non c'entriamo! - portano scritto su un gran cartello - Noi siamo qui
del tutto casualmente! Non siamo dei rozzi come questa gente, noi! Ma
anche noi combattiamo i bolscevichi di Occhetto e Orlando!". Il loro capo è
l'ultimo, marcia all'estrema coda del corteo, enigmatico e triste come un
Francisco Franco. Sarà lui, se le cose funzionano, a guidare il governo di
Fini e Bossi. E questo era il loro corteo.
Ma quando tutti costoro furono passati si fece avanti un vecchio, un
contadino tarchiato sui sessant'anni, e si piantò in mezzo alla piazza ormai
vuota. "Chiedo scusa! - disse - Mi chiamo Pasquale Amodio e sono di Motta
Sant'Anastasia in provincia di Catania! Sono stato dodici anni in Germania
a lavorare, perché al paese lavoro per noi non ce n'era. Scusate, ma ora
voglio dire la mia".
"Neanche per me c'era lavoro - si fece avanti un ragazzo - Perciò sono
partito anch'io. Io mi chiamo Michele Calafiore e sono di Palma di
Montechiaro". "Io faccio il maestro, mi chiamo Michele Belcore - disse un
uomo uscendo dalla folla - e al mio paese c'è la mafia e nessuno, tranne noi,
l'ha mai combattuta". "Mi chiamo Santo Buscema, di Gibellina. Il terremoto
ha distrutto la mia casa con tutto il paese. I cavalieri hanno fatto i soldi con
la ricostruzione. A noi sono rimaste le baracche". "Le tasse si mangiavano la
terra, io mi chiamo Turi, ho dovuto vendere tutto all'avvocato". "Mio figlio
è morto di tifo, da un momento all'altro, in due ore. L'ospedale più vicino
era a cento chilometri! Mi chiamo Giovanna Costantini".
E ad uno ad uno i siciliani parlavano, quel giorno, non ne restava zitto
nessuno. Uscivano dalla folla, dicevano la loro testimonianza e si
fermavano nella piazza che via via si riempiva di ombre sempre più fitte nel
sole.
Da molte generazioni e molti luoghi tornavano quel giorno i siciliani, e da
molto patire, e da molto vagare sulla faccia del mondo. Lontano, come
stivali in ritirata, sempre più fioco si spegneva lo scalpiccìo del corteo.
FORZA ETNA
I Siciliani, marzo 1994
Ricordate quando scrivevano "Forza Etna" sui muri? Noi sì. Una decina
di anni fa. La destra, allora, era ancora una faccenda pressoché medievale. I
fascisti, il massimo che potevano sperare dalla vita era un bel referendum
sulla pena di morte. La mafia, puntava fiduciosamente sul suo immobile
Andreotti, che le pareva immortale. Berlusconi era semplicemente uno dei
tanti cavalieri che allora si facevano i soldi con Craxi. Le regole del gioco.
Una tranquilla destra, un po' pigra ma sicura del proprio immodificabile
potere, e una sinistra tranquilla, placidamente assestata "all'opposizione".
Ma un bel giorno, da qualche parte nell'Europa civile, cominciarono a
comparire i primi manifesti dell'era nuova. Ausländer raus. La France aux
français. Via gli ebrei. E, qui in Italia per l'appunto, forza Etna.
Le scritte apparivano sui muri degli stadi, nei primi tempi. Ma avevano un
profondo valore culturale, di svolta storica si potrebbe dire e difatti cambiando un pochettino le parole - ben presto se ne appropriarono gli
intellettuali. Così venne spiegato che uno slogan come Forza Etna (o Ebrei
Al Rogo o altri similari) è un'espressione naturalmente estremistica e
sbagliata, ma portatrice tuttavia di istanze e problematiche non prive di una
loro, magari non del tutto condivisibile, spiegazione. Scrivendo "Forza
Etna" non s'intendeva insomma invocare la distruzione fisica di una
popolazione, ma esprimere sia pur rozzamente la protesta di una
popolazione troppo a lungo sfruttata da un sistema statalista e accentratore.
Un fenomeno tipo "Reggio capoluogo" e "Boia chi molla" s'è disperso, a
suo tempo, senza dar luogo a cristallizzazioni politiche ulteriori. Ma ora i
tempi sono maturi. Così ridendo e scherzando il partito del "Via gli ebrei"
(ché di questo si tratta, su questo un'identità culturale e politica è stata a suo
tempo faticosamente costruita: su radici, a loro volta, non occasionali né
lievi) è diventato il primo partito di Roma. Quanto a "Forza Etna", lo slogan
ha figliato un partito: che adesso è qua a fare politica perbene, insieme con
tutti gli altri. Ed è questa la genesi, al di là delle nostre illusioni, della destra
d'oggi. Non siamo alle solite; è un'altra cosa. Berlusconi non è il cavaliere
d'industria, in questo caso, che difende "politicamente" i suoi denari; o non
è solo questo. E' invece il punto di coagulo, l'esemplificatore di massa, la
Guida (non leader, che è parola e concetto occidentale) di una concezione
del mondo del tutto nuova, nuova in proporzione almeno quanto quelle
mussoliniane e centroeuropee degli anni Venti. Essa coagula e rende nel
loro
complesso
immediatamente
operativi
alcuni
valori
l'automonetizzazione, la pulizia etnica, l'antiparlamentarismo, il razzismo -
che nelle ultime due generazioni erano rimasti sostanzialmente isolati,
ciascuno per sé, fuori dal common sense della Nazione.
Questo nuovo soggetto non vincerà, probabilmente, le elezioni. Ma esiste,
e continuerà a esistere anche dopo. Le divisioni e le liti fra le sue varie
componenti gl'impediranno di governare, ma non di fare un'azione politica,
e soprattutto culturale, comune. Per almeno una generazione un terzo del
corpo politico italiano sarà rappresentato da personaggi e da valori
completamente al di fuori della tradizione civile occidentale.
Fra questi valori c'è "Forza Etna", cioé la percezione del Sud - di tutti i
sud del mondo, e del nostro in particolare - come altro da sé, come cosa da
escludere con violenza dal recinto della "modernità" nazionale. Alcuni
questa concezione la proclamano con becera sincerità, altri - fra cui gli
ascari del berlusconesimo nella Sicilia e nel Sud - si limitano a portarla
avanti alacremente.
Noi siciliani abbiamo la fortuna, se così si può dire, di essere
intrinsecamente nemici di questi valori, per stato di necessità. Non possiamo
accettare le teorizzazioni della nuova destra, perché saremmo i primi ad
esserne colpiti. Siamo felicemente "costretti" ad essere progressisti,
esattamente come siamo stati "costretti", per la nostra stessa sopravvivenza
come popolo civile, a entrare in guerra contro la mafia.
Nessun siciliano può votare per i mafiosi senza essere nemico di se stesso.
Nessun siciliano può votare per il neo-craxismo senza essere ladro di se
stesso. E nessun siciliano può votare per gli uomini di Berlusconi senza
rinnegare la Sicilia e, come siciliano, se stesso.
UN'AZIENDA DEL SUD
I Siciliani, febbraio 1994
La questione principale che ci resta da risolvere per partire coi Siciliani
quotidiano è apparentemente tecnica, ma densa in realtà di implicazioni
sulla struttura stessa del giornale. I Siciliani quotidiano nasce infatti come
giornale "stellare", articolato cioé su diverse redazioni diffuse sul territorio
regionale e non - come avviene finora - su un'unica redazione centrale; in
grado, inoltre, di ricevere input modulabili (dal "pezzo" in formato Ascii
alla pagina già impaginata) da testate in sinergia su tutto il territorio
nazionale.
Questo è reso possibile dalle tecnologie hardware e software venute fuori
negli ultimi due anni; ed è ulteriormente facilitato dagli ultimi sviluppi dei
microprocessori "economici" ad alta velocità (il Pentium di Intel e il
PowerPc di Apple-Ibm) che stanno venendo a maturazione proprio in questi
mesi. Se prima ci volevano cinquecento milioni - detto in parole povere per impiantare un punto redazionale autosufficiente collegato con altri,
adesso ne bastano meno della metà: e su questo semplice dato si basa tutta
la filosofia progettuale, sul piano tecnologico, del nostro quotidiano.
Un'azienda italiana (perché qui siamo anche un'azienda) tecnologicamente
all'avanguardia, ben conosciuta, in grado di reggere il mercato, si rivolge
alla struttura pubblica, allo Stato, non per chiedere assistenza o benefici ma
semplicemente per utilizzare i servizi tecnologici che ogni Stato moderno
deve garantire a tutte le realtà economiche nazionali; e scopre di essere in
realtà un'azienda meno italiana di altre, senza che nessuno lo dichiari,
perché materialmente opera al Sud; con tanti ossequi al mercato, alla libera
concorrenza e a tutto il resto.
Noi che siamo I Siciliani siamo in grado di far sentire la nostra voce, di
andare avanti - sia pure con qualche sacrificio - lo stesso; ma gli altri? Che
fine avrebbe fatto, in una situazione come questa, un piccolo-medio
imprenditore che avesse investito, poniamo, il suo patrimonio aziendale in
un progetto a tecnologia avanzata come questo? La verità è che il mercato al
Sud non esiste. Esiste un pigro andare avanti alla men peggio, con lo Stato
messo là a tappare i buchi (o a regalare contributi), e a controllare che non si
sviluppi - in un clima di concorrenza - un volano economico che introduca
l'economia di mercato anche al Sud. Perché in questo caso salterebbe il
tradizionale patto storico per cui il nord produce e comanda (gl'industriali
del nord, intendiamo) e il sud vivacchia e sta in coda.
Ma abbiamo voluto entrare nei particolari di questa storia anche e
soprattutto perché essa riguarda il quotidiano dei Siciliani, cioé tutti gli
amici dei Siciliani, cioé tutti voi. I nostri amministratori aziendali si
assumeranno, naturalmente, tutte le loro responsabilità e decideranno
liberamente sulle opzioni da prediligere, sui tempi da mantenere, sulle
operazioni da fare. Ma la questione riguarda anche voi. Noi dei Siciliani
saremo lieti di ricevere le vostre opinioni su queste scelte. Non vi
garantiamo, poiché un'azienda non si può portare avanti per referendum, che
esse saranno inderogabilmente seguite. Ma ne terremo conto, perché la
storia dei Siciliani è sempre stata una storia di molta gente, un popolo di
lettori e amici che ha camminato nel tempo, non un gruppo isolato di abili
professionisti.
Così, riferiamo anche sugli altri aspetti del progetto: i contatti con
gl'imprenditori siciliani (e anche non siciliani: ma questo è un altro
discorso) che continuano a supportare l'impresa sono in corso. Con tutte le
cautele del caso, possiamo dire che questi contatti sono positivi. Certo, non
abbiamo mancato di notare in diversi di loro atteggiamenti, diciamo così,
preelettorali: nel momento in cui l'assetto politico del Paese promette (o
minaccia, a secondo dei casi...) di cambiare radicalmente da un mese
all'altro, questi nostri interlocutori vogliono essere ben sicuri - conformi a
un'antichissima tradizione siciliana - di schierarsi con la parte vincente. Di
questi, alcuni ci vogliono assolutamente della Rete, altri del Pds, altri ancora
del Pds e della Rete tutt'insieme; e ci ammiccano con aria complice e
furbesca quando tentiamo di spiegare che noi siamo semplicemente - e da
più di dieci anni - I Siciliani. Non c'è verso di fargli capire che una cosa è
far giornali, e un'altra far partiti; e che un giornale se è ben fatto va avanti e
se no, no; e che tutto il resto è fumo. Ma sappiamo come va il mondo, e la
Sicilia in particolare; perciò portiamo pazienza, e andiamo avanti.
Meno sofisticati ma più concreti gli aspiranti soci non siciliani:
appartenenti, la più parte, al mondo dell'editoria e della stampa. Qui abbiam
potuto parlare di numeri, finalmente: siamo stati ascoltati con diffidente
attenzione e, dopo che i nostri conti sono stati ben bene ruminati, son
cominciati ad arrivare - ma sempre con gran fatica, e dopo lunga e grave
meditazione - i primi sì. Così è potuta nascere, ed è ora in piena attività, la
società editrice del quotidiano, I Siciliani SpA, con queste tre buffe lettere
dietro il nostro antico nome.
A questo punto i conti cominciano felicemente a tornare: i nostri
amministratori, che si riuniranno in questi giorni, potranno liberamente
scegliere fra le varie possibilità in positivo create dalle iniziative e dal
lavoro di questi mesi. Create, soprattutto, dal sostegno e dalla mobilitazione
che in questi anni si sono raccolti attorno ai Siciliani.
Viene da queste radici il successo della sottoscrizione popolare per il
quotidiano (l'azionista di riferimento, cioé la principale componente della
Siciliani SpA, sarà l'Associazione formata dalle centinaia e centinaia di
piccoli sottoscrittori). Viene anche da esse, crediamo, la straordinaria
attrazione che questa impresa ha destato nel mondo giornalistico italiano.
Quasi quaranta giornalisti professionisti di tutt'Italia hanno chiesto di venire
a lavorare in Sicilia coi Siciliani, lasciando i loro giornali attuali.
E' una risposta superba e commovente all'appello che abbiamo lanciato a
luglio e abbiamo portato avanti in questi mesi. Faremo la vostra parte, noi
del vecchio gruppo dei Siciliani, e tutti voi lettori, amici, collaboratori e
militanti vecchi e nuovi dei Siciliani, farete la vostra. Non vi deluderemo,
non ci deluderete.
Nel momento in cui ci prepariamo alla svolta, entriamo in una dimensione
aziendale, lanciamo le prime mosse operative concrete per il quotidiano, noi
non ci dimentichiamo delle nostre radici. Aiutateci a non rinnegarle mai
neanche per un momento, a restare orgogliosamente e umilmente noi stessi,
a portare sempre più avanti e sempre più lontano la piccola-grande storia dei
Siciliani.
LAVORI IN CORSO
I Siciliani, marzo 1994
Questa primavera e l'estate si annunciano come mesi di lavoro assai
intenso e di organizzazione crescente. Il ritmo finora tenuto è buono, sia nei
settori più "militanti" che in quelli professionali. Nel corso dei prossimi tre
mesi bisognerà però raccogliere i frutti concreti del lavoro fatto, cominciare
a far funzionare le strutture umane e materiali del quotidiano. E adesso
facciamo il punto.
Soldi. Abbiamo raccolto finora impegni diretti per un po' meno di due
miliardi di lire (esclusa la sottoscrizione popolare). Siamo al di sotto
dell'obiettivo, che è di quasi cinque miliardi. Bisogna però osservare che da
un certo momento in poi - e precisamente dall'inizio della campagna
elettorale - abbiamo sospeso la ricerca dei soci a livello imprenditoriale.
L'abbiamo fatto per tenere nettamente distinti il livello imprenditoriale e
quello politico della nostra impresa. E' stata una decisione saggia: alla
ripresa dei contatti - dopo le elezioni - potremo agevolmente recuperare il
tempo perduto. In questo settore, in ogni caso, i riscontri migliori sono
venuti dagli imprenditori nazionali già in qualche modo impegnati nel
campo dell'editoria, i peggiori (o quantomeno i più cauti) dagli imprenditori
siciliani. Non che, naturalmente, avessimo messo in conto qualcosa di
diverso: una cultura imprenditoriale moderna, in una regione come la
nostra, non s'improvvisa in pochi anni; ed è già tanto aver indotto buona
parte degl'imprenditori siciliani a non accettare la mafia come un fenomeno
della natura. In questo come in altri campi, abbiamo pazienza: riprenderemo
i contatti come programmato, con l'avvertenza che c'interessa creare
un'impresa concorrenziale e sana e non cercare assistenza.
Politica. Registriamo nel complesso un comportamento corretto da parte
delle forze politiche (in senso lato) della sinistra che in qualche modo
possono avere un interesse al successo della nostra iniziativa. Non ci sono
stati tentativi d'illegittima interferenza nella costruzione dei Siciliani;
qualche singolo esponente ha occasionalmente cercato di "avere
assicurazioni" e di "veder chiaro" nelle nostre intenzioni, ma si tratta di
episodi abbastanza trascurabili. Abbiamo ormai rinunciato (per stanchezza)
al tentativo di spiegare che la "linea politica" di un giornale come il nostro
consiste semplicemente nello scrivere tutto quel che si sa e si è in
condizione di provare; e che tredici anni di lavoro di questo tipo ci danno
qualche diritto di fare serenamente simili affermazioni senza che nessuno
debba scervellarsi a chiedersi dov'è il trucco. Ma tant'è: ne riparleremo dopo
avere stampato il numero uno.
Redazione. Sono finora sessantanove (cinque praticanti, dodici pubblicisti
con esperienze che noi valutiamo idonee ai compiti redazionali, e gli altri
professionisti) i colleghi che hanno chiesto di far parte della redazione de "I
Siciliani quotidiano"; l'età media è sotto i trent'anni. Teoricamente, il
numero dei redattori necessari sarebbe già superato; in effetti noi
consideriamo questi contatti solo come il momento iniziale di un processo
di selezione che, nella tradizione dei Siciliani, non è agevole né veloce. Ci
sembra insomma di avere appena cominciato a mettere insieme la
redazione, ed esamineremo con la stessa attenzione, da qui a giugno, tutte le
altre richieste che verranno avanzate. In ogni caso, crediamo di poter
garantire fin da questo momento la copertura professionale del giornale.
Riteniamo anche che il "gruppo storico" dei Siciliani, opportunamente
integrato, sia più che sufficiente ad assicurarne la direzione e la gestione
organizzativa.
Tecnologie. Non abbiamo molto da aggiungere a quanto vi abbiamo detto
nel numero precedente. La Sip ha lasciato un buco nel settore delle
telecomunicazioni e questo crea un problema imprevisto nella struttura.
Stiamo lavorando a pieno ritmo per cercare di risolverlo. Da questo mese
abbiamo messo in piedi un settore specifico per la rete telematica dei
Siciliani.
Collaboratori. Il quotidiano prevede tre grandi aree d'impiego per i
collaboratori non professionisti: locali (città e quartieri), archivio elettronico
(a Palermo e a Catania) e inserto (quattro pagine separate dal resto del
giornale per formare una vera e propria testata autosufficiente che cambia
ogni giorno). Abbiamo già detto che le disponibilità di questo settore
superano il numero di seicento. Quelle finora verificate risultano
mediamente di buon livello. Per quanto riguarda in particolare le
collaborazioni locali, un ruolo importante attribuiamo alla creazione di
piccole e piccolissime testate "di paese" che servano contemporaneamente
da luogo di aggregazione civile e da "antenne" locali dei Siciliani. Una
decina di queste mini-testate sono già state realizzate o lo saranno al
momento o fin dall'inizio del Progetto che un'impresa come questa de "I
Siciliani quotidiano" nasce anche per far da modello e da catalizzatore
(senza nessuna velleità "espansionistica") a una serie di altre iniziative
cittadine e regionali, cui possiamo senz'altro mettere a disposizione
collegamenti, tecnologia, esperienza e sinergìe.
E ORA LIBERATE TOTO' RIINA
I Siciliani, aprile 1994
Questa casa non conosce la rassegnazione. Questa piccola scritta stava
nella stanza di Winston Churchill durante la guerra. Subito dopo la sconfitta
di Dunkerque - il corpo di spedizione britannico era fuggito a stento, i
tedeschi dilagavano trionfalmente dappertutto - Churchill organizzò
immediatamente due cose, che a lui sembravano parimenti indispensabili e
urgenti. Fece scavare trincee lungo la costa, distribuì le armi ai cittadini,
predispose la resistenza di tutti dappertutto: se mai gl'hitleriani fossero
riusciti a sbarcare. E predispose gli studi - con decorrenza immediata - per
la costruzione dei nuovi mezzi da sbarco per l'esercito inglese. Perché sul
fatto che l'esercito di Sua Maestà prima o poi sarebbe tornato in Europa, egli
non aveva il minimo dubbio. E per quel giorno intendeva debitamente
tenersi pronto.
Noi siamo I Siciliani. La situazione presente ci dispensa da ogni lunga
dissertazione, che non stia in queste quattro parole, su cosa intendiamo fare
adesso. Andiamo avanti. Combatteremo il regime con le inchieste, con le
notizie, con la puntuale denuncia di piccole e grandi ingiustizie, con la
battaglia culturale, in ogni modo. Lo combatteremo per tutto il tempo che
sarà necessario, dovunque e comunque, finquando non ci sarà più. Questo è
il nostro programma, e non servono altre parole.
Noi non cerchiamo scuse. Noi non attribuiamo la deplorevole vittoria
della destra a errori o insufficienze di questi o quelli, che pur ci sono stati.
Noi diciamo che se un Caponnetto ha potuto essere sconfitto a Palermo,
evidentemente qualcosa di profondo, e di marcio, è cresciuto nell'anima
popolare. Noi non ci nascondiamo di chi è stata la vittoria; non d'una destra
moderata, civilizzata, europea, ma d'una armata nera che arruola fra i suoi
ufficiali tutto il mercenariato - soprattutto in Sicilia - del passato regime.
Non ne abbiamo paura.
Poche righe per gl'industriali siciliani. E' vostro compito civico, adesso,
sostenere questo giornale. Noi non avanziamo richieste, in un momento
come questo; richiamiamo all'osservanza di un dovere. Non vogliamo
convincervi, stavolta. Scegliete semplicemente da che parte stare. Perché
stavolta non c'è spazio in mezzo per nessuno. Noi andiamo avanti
comunque. Noi, I Siciliani.
LA RISCOSSA
I Siciliani, aprile 1994
Ci dicono: e adesso, che avete intenzione di fare? "Adesso" vuol dire
dopo le elezioni, perse dalla gente civile dappertutto, ma più
disastrosamente in Sicilia: dove i cittadini, col loro libero voto, hanno
cacciato l'amico di Borsellino e Falcone da Palermo e scelto l'uomo di
Concutelli. La nostra non è, ben s'intende, un'impresa elettorale: ma non
possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Queste elezioni, ben prima
che quello politico, hanno mostrato il livello culturale e civile del Paese; e
da noi più che altrove. "Autobiografia della nazione" scrisse, del suo
fascismo, Piero Gobetti. Allora, per ritornare civili, ci vollero vent'anni. E
adesso? Non lo sappiamo. Ci preoccupano, più che le cronache
parlamentari, le spicciole e quotidiane; le lettere d'ammirazione a Pietro
Maso, gli ebrei bastonati sotto Montecitorio dai fascisti di Bossi, le
ragazzine meridionali che vorrebbero "sposare un camorrista", la folla dei
curiosi - nella civilissima Firenze - che si raccoglie sotto l'edificio da cui un
disoccupato minaccia di buttarsi di sotto e gli urla gioiosamente "buttati".
Di fronte a questo, e contro questo, stanno i nostri ragazzi che lavorano
serenamente al giornale, che raccolgono i dati, che riscrivono i pezzi, che
imparano giorno per giorno il mestiere. Proviamo orgoglio guardandoli, e
insieme un'apprensiva tenerezza: orgoglio per ciò ch'essi continuano, per
l'antica moralità del lavoro, dell'impegno individuale, della vita ben spesa; e
apprensione per le prove che dovranno affrontare, per i passi difficili, più
difficili dei nostri, che attraverseranno. Di certo questa generazione non sarà
di quelle, come la nostra in buona parte è stata, che alla fine tradiscono se
stesse.
Ma basta con le chiacchiere e andiamo a far rapporto ai lettori. La
situazione è difficile. Cerchiamo di elencare ordinatamente i pro e i contro
che il Progetto quotidiano si trova davanti dal giorno di Berlusconi.
Cominciamo dai contro.
Diversi industriali siciliani, nel periodo precedente alle elezioni, hanno
chiesto "tempo per riflettere" sulla nostra proposta di entrare in società per
editare I Siciliani quotidiano. Prima, dovevano riflettere semplicemente sui
rischi e i vantaggi di fare un buon giornale. Ora, su quelli di fare un giornale
d'opposizione, e d'opposizione a un regime che già ora non brilla per
limpidezza antimafiosa. Noi manteniamo fede a tutti gl'impegni presi,
teniamo fede alle nostre offerte e non ritiriamo nessuna delle nostre
proposte. Ma non ci facciamo illusioni sul senso civico, e sulla
lungimiranza imprenditoriale, di molti dei nostri interlocutori.
Abbiamo messo in piedi una piccola ma efficiente struttura (grazie alla
professionalità e alla dedizione degli amici che vi sono preposti) per la
raccolta della pubblicità locale. Ma la pubblicità nazionale, in mano a
Berlusconi e al governo di proprietà di Berlusconi, non seguirà
assolutamente le leggi di mercato, ma servirà a finanziare
tangentisticamente i giornali e le televisioni di regime. Non una lira andrà
agli oppositori.
Il Progetto Siciliani, fin dalla sua presentazione nel luglio dell'anno
scorso, è stato ed è tuttora un progetto unitario. Non abbiamo mai preteso di
far tutto da soli. Abbiamo proposto una base per assemblare
progressivamente, secondo le necessità e secondo le competenze, i vari
settori dell'impresa. Non possiamo dire di avere avuto rifiuti secchi a questa
concezione. Ma si son mossi in pochi. Quesi tutti i soggetti che avrebbero
avuto interesse a una impresa comune - testate democratiche, gruppi di
società civile, imprenditori liberi, soggetti sociali - ci hanno onorato di una
grande e teorica solidarietà ma nei fatti (con alcune coraggiose eccezioni)
son rimasti ad aspettare. Questo, sia ben chiaro, non per particolari egoismi
o per ostilità preconcette. Ma perché in Italia, e nella sinistra italiana, vige il
principio che ognuno, prima di tutto, deve badare alla bottega sua. Oppure,
se volete un paragone più nobile, che ogni formazione partigiana deve
difendere, prima di tutto, la propria vallata. In astratto, ciascuno è pronto a
riconoscere che la bottega singola, alla lunga, non regge davanti ai grandi
padroni; e che certamente sarebbe bello se, prima o poi, dalle bande isolate
sortisse la grande armata di liberazione. Ma in pratica si è volato basso. Non
incolpiamo nessuno, ma diciamo che così si perde. Tutti, chi prima e chi
poi.
Il Progetto ha mobilitato simpatizzanti di base in numero assolutamente
impreveduto; ma non è riuscito a costituire attorno a sé un gruppo dirigente,
uno stato maggiore tecnico e ideale all'altezza - qualitativamente e
quantitativamente - della situazione. Eppure i numeri ci sono, c'è un
progetto solido, ci sono - nell'area nostra, e in quelle immediatamente vicine
- le persone. Anche qui, non incolpiamo nessuno. La maggior parte degli
amici che avrebbero potuto attivamente impegnarsi avevano molte altre
cose da fare, tutte utili e urgenti e tutte di gran valore civile. E poi, come si
fa a impegnarsi professionalmente per qualcosa che ancora non c'è? E'
mancata non la simpatia, ma la determinazione. La volontà di andare avanti
secondo una precisa e non occasionale strategia; e di fare anche, nei
momenti opportuni, delle precise scelte di campo, unitarie sempre ma
anche, se necessario,estremamente determinate.
Infine, gli errori nostri. Abbiamo dato poca attenzione, o un'attenzione
comunque insufficiente, agli interlocutori esistenzialmente più lontani dalle
esperienze nostre. "Non si può chiedere a chiunque di essere un lupo
solitario" ha detto una volta il nostro direttore. In questa circostanza
l'abbiamo dimenticato. Siamo andati troppo in fretta per alcuni, in alcuni
casi. Abbiamo troppo a lungo atteso altri, in altri casi. Abbiamo lasciato
mettere in discussione dei fattori (i tempi delle scadenze principali, la forma
radicale delle sinergie, il concetto stesso di giornale modulare) che erano
nella fisiologia del Progetto. Ci siamo praticamente irrigiditi, o peggio
abbiamo glissato, su questioni come le "garanzie politiche" che invece erano
indispensabili alla formazione e cultura, certo non nostra, ma di alcuni
nostri interlocutori.
E questi sono i contro. Vediamo adesso i pro. Il principale fra essi consiste
nel fatto che, nonostante tutti gli ostacoli e gli errori, il Progetto
operativamente non si è mai arrestato. Sia sul piano giornalistico-editoriale
che su quello dell'organizzazione aziendale, il lavoro di progettazione e
ricerca è stato costantemente portato avanti; si è perso forse del tempo in
altri settori, ma non in questo. Siamo dunque in condizioni di prendere
iniziative tecniche (appena ne avremo i mezzi) assolutamente tempestive e
adeguate.
La crisi diffusionale de "La Sicilia", del "Giornale di Sicilia" e della
"Gazzetta del Sud" non si è ancora risolta. Non c'è dubbio che col nuovo
regime (come con l'antico...) non mancheranno ai loro proprietari le
facilitazioni e gli aiuti. Ma il calo delle vendite, quello lo decidono i lettori.
I quali continuano a punire severamente le tre testate di destra siciliane. Lo
spazio per un quotidiano indipendente c'è dunque ancora, e non ha subito
significative variazioni - sul piano del mercato - rispetto a prima di
Berlusconi.
Il target più propriamente politico, l'area cioè dei lettori che appoggiano I
Siciliani non solo per il loro contenuto informativo ma anche come punto di
riferimento culturale, non si è di molto ridotto dopo le elezioni (qualcuno ha
provveduto a contare, fra un piagnisteo e l'altro, quanti voti ha preso in
realtà la sinistra in Sicilia?); ma si è radicalizzato di molto. Il ruolo civile e
culturale del quotidiano da questa situazione viene, a nostro parere, non solo
non sminuito, ma esaltato. Ad esso I Siciliani possono far fronte sul piano
tecnico ma anche e più, a questo punto, su quello politico: per la tradizione
di combattività e unità che ne caratterizza l'immagine, per la politica
giovanile da molto tempo sperimentata, per l'agilità organizzativa e la
diffusione capillare. I Siciliani possono contribuire in maniera decisiva a
ricompattare e riportare avanti la sinistra siciliana, e a riproporre con
credibilità e autorevolezza le esperienze della società civile e dei movimenti
sul piano nazionale.
Come abbiamo riferito nel precedente rapporto, la risposta al Progetto,
alla base, è stata di proporzioni entusiasmanti. Quasi settecento
dichiarazioni di disponibilità, da parte di altrettanti cittadini e gruppi di
base: una cosa mai vista. Abbiamo difficoltà a organizzare tutto questo, coi
nostri modesti mezzi organizzativi; non è facile trovare il canale giusto per
ciascuna delle risorse che ci vengono offerte, per ciascuna proposta di
collaborazione. Ma la disponibilità è questa, e non va ignorata.
Siamo perfettamente in condizione, con un preavviso estremamente
breve, di mettere in piedi una redazione numericamente adeguata alla
fattura di un quotidiano. Diverse decine di giornalisti professionisti (la
maggior parte sotto i trent'anni) hanno risposto al nostro appello. Sul piano
giornalistico e professionale, abbiamo quindi risorse più che adeguate. Ad
esse vanno aggiunte quelle militanti e semiprofessionali, tradizionalmente
coltivate e messe in circolazione dai Siciliani: ora più che mai, contiamo
fiduciosamente su di esse.
Nel momento in cui ci poniamo come riferimento unitario per la riscossa
della società civile siciliana, contiamo anche sul fatto che il senso di
responsabilità dei protagonisti e dirigenti della sinistra politica siciliana
finisca infine per prevalere; e che ciascuno di essi possa assumersi senza più
diffidenze e senza protagonismi le proprie responsabilità operative
nell'organizzazione e nel sostegno dell'impresa comune. La ripresa della
liberazione civile in Sicilia e altrove, sul piano culturale e ideale, postula la
formazione graduale non solo di uno staff tecnico, ma di una nuova classe
dirigente (nel senso gramsciano) collettivamente intesa; è finita la fase delle
grandi figure individuali. L'impresa del quotidiano è, fra l'altro, un terreno
per l'individuazione e il confronto di questa nuova e moderna classe
dirigente: che noi continuiamo a credere possibile e matura.
Abbiamo segnalato onestamente le difficoltà che incontriamo con parte
dell'imprenditoria (onesta) siciliana. Altrettanto onestamente, dobbiamo dire
che queste difficoltà non s'estendono dappertutto. A Siracusa e a Messina,
gli imprenditori democratici non si sono affatto tirati indietro, e ci pressano
anzi perché si vada avanti; un nuovo possibile socio s'è fatto avanti da
Agrigento, nei giorni dopo le elezioni; da diverse regioni (Toscana,
Sardegna, Calabria, Lucania, Romagna) giungono - dopo le elezioni disponibilità per iniziative locali e per sinergie. Non siamo scoraggiati noi, e
questo è normale; ma, e questa è una sorpresa gradita, non sono scoraggiati
gli altri.
Abbiamo perduto una battaglia, insomma, ma non assolutamente la
guerra; nel giorno della disgrazia, la sconfitta è servita forse per far
recuperare a tanti la consapevolezza e il coraggio. Il giorno di Berlusconi
sarà ricordato, probabilmente, fra qualche anno come il giorno della
sconfitta e rinascita della sinistra italiana.
Una sinistra più giovane, meno parolaia, senza cavalli bianchi, più
matura; una sinistra faticosamente avanzante, senza scorciatoie e settarismi,
senza facilonerie spettacolari: è di essa che I Siciliani fanno parte, è ad essa
che il Progetto quotidiano intende dare voce e sostanza.
E ora, in queste settimane, dobbiamo prendere alcune decisioni. Per
cominciare, il progetto tecnico: possiamo mantenerlo come si trova, o
dobbiamo adeguarlo alla nuova (più "politica") situazione? Dobbiamo
stabilirlo insieme. Consideriamo essenziali, nella ristrutturazione del
progetto, alcune caratteristiche che ne costituiscono il nucleo essenziale: la
redazione ripartita su più città, le "ribattute" locali almeno su Messina,
Siracusa e Catania, la modularità, le sinergie con altre testate analoghe in
tutta Italia, la ripartizione dei compiti fra redazioni e possibilmente fra
testate; la modernità dell'impostazione e del linguaggio, la traduzione in
termini grafici di una parte notevole dei contenuti; la capacità di articolarsi
capillarmente sul territorio e di rappresentare la cultura "alta",
contemporaneamente, del sud come Sud del mondo; la capacità di
aggregare varie e diverse culture, ma di perseguire nel contempo un
progetto culturale e civile non accademico né occasionale, ma ambizioso e
consapevole e coerente.
Abbiamo fiducia, nonostante tutto, nella voglia di libertà, per quanto
ritardata e confusa, dei nostri concittadini; e su di essa puntiamo le nostre
intelligenze e le nostre vite. Cerchiamo di calcolare razionalmente e
freddamente ogni cosa. Una soltanto non è oggetto di calcolo perché per
definizione assolutamente certa e scontata: il fatto che I Siciliani, qualunque
cosa succeda e in ogni caso, non abbandoneranno la lotta e andranno avanti.
UN VOLANTINO
aprile 1994
LA RESISTENZA CHE COS'E'
"Non rompere le scatole al tuo padrone. Non parlare di mafia. Non
chiedere i soldi che ti spettano. Non dire mai "i miei diritti". Perché tu di
diritti non ne hai. Tu non conti niente. Tu non sei nessuno".
Te lo dicono ogni giorno e se non bastano le parole te lo dicono a legnate.
A Catania Costanzo ha fatto sempre quello che ha voluto. Come i
democristiani e i socialisti sotto Craxi. Come i gerarchi fascisti sotto il
fascismo. Quando cambia il vento, cambiano il colore della camicia (viva il
duce, viva Andreotti, viva Craxi, viva Berlusconi) ma restano sempre al
potere.
Resistenza vuol dire che per almeno una volta nella storia non è andata
così. Che almeno per una volta nella storia tu ti sei incazzato e hai detto
"Adesso basta. Voglio contare anch'io". Questo è successo un venticinque
aprile di molti anni fa. I padroni e i gerarchi ne hanno ancora paura. Perché
se è successo una volta può succedere ancora. Per questo dicono che sono
cose vecchie e superate, e non bisogna pensarci più. Ma noi invece ce lo
ricordiamo.
Molte persone come noi e come te hanno combattuto perché gli operai
non venissero bastonati per la strada, perché i mafiosi come Costanzo
fossero inseguiti e non protetti dalla polizia, perché i ladri andassero in
galera e non tornassero invece a governare sotto un'altra bandiera. E' grazie
a loro che siamo un popolo, nonostante tutto, e non un gregge. Un popolo
può sbagliare una volta, può lasciarsi imbrogliare. Ma alla lunga, prima o
poi, ragiona.
Viva la Resistenza contro i fascisti e i mafiosi
Viva il Venticinque Aprile
I Siciliani
FALCONE
I Siciliani, maggio 1994
Prima di Falcone c'era Chinnici, e prima di Chinnici Terranova e Costa.
Dopo Falcone venne Borsellino. Tutti questi uomini, individualmente
considerati, non erano eguali fra loro. Commisero a volte degli errori,
ciascuno i suoi; non furono infallibili, né - ciascuno a suo modo - privi di
debolezze umane. Ma tutti insieme servirono come pochissimi prima di loro
la causa dei Siciliani. Succedettero l'uno all'altro senza esitazione alcuna,
inghiottendo le lacrime e il timore, prendendo senz'indugio il posto del
compagno morto. Ebbero il coraggio eroico delle battaglie e quello, ancor
più grande, del comune dovere d'ogni giorno. Insegnarono coi fatti la
dignità della vita. Di una collettività dispersa e senza legge, rassegnata
oramai a vivere alla men peggio sotto un potere, essi fecero un popolo,
orgoglioso - per alcuni anni - di chiamarsi siciliano.
Non potrebbe essere più amara la loro celebrazione di quest'anno, né più
determinata e risoluta. Le vittorie strappate anno dopo anno, a prezzo
d'infiniti sacrifici e di pene, sulla mafia, vengono ora rimesse in discussione,
in modo a volte subdolo a volte insolente, dal governo fascista. I Cordova, i
Caselli, i successori dei Costa e dei Chinnici, vengono apertamente
minacciati dagli sgherri del nuovo potere. Il popolo, dal canto suo, che
dovrebbe orgogliosamente difendere insieme i propri giudici e la propria
dignità, in questo momento dorme.
E questo è ancora niente. Gli stessi dirigenti popolari, coloro che
dovrebbero dar per primi l'esempio della più fraterna unità, coloro che
dovrebbero saper passare - di fronte alla drammaticità del momento - al di
là d'ogni sia pur motivato dissenso, si perdono in questo momento terribile
in distinzioni puerili, in diatribe fuor di luogo, in divisioni. Mai abbiamo
avuto tanto bisogno di ricordare Falcone e gli altri, e mai ne siamo stati così
lontani.
Con tutto ciò, noi abbiamo tuttora fiducia - ed anzi, a dirla tutta, abbiamo
la certezza - nella vittoria finale, e in tempi non troppo lunghi, della
democrazia. Il governo Berlusconi-Fini, con tutte le sue apparenti fortune,
ha vinto in realtà molto più per altrui debolezze che per la propria forza; le
divisioni all'interno della destra sono molto più profonde di quelle fra le
forze civili. Lo spostamento a destra dell'elettorato, specialmente in Sicilia,
è lungi dall'essere definitivo; dieci anni di lotta di massa contro la mafia non
sono arrivati a produrre (ancora) una maturazione politica, ma hanno
lasciato segni profondi su altri piani. Le divisioni a sinistra o verranno
superate dal buon senso, o daranno luogo semplicemente alla formazione di
un'altra, più giovane e più matura, classe dirigente della società civile.
La lotta contro il potere mafioso è stata in realtà in questi anni molto più
una lotta di coraggiosi e individualisti cavalieri che una battaglia di fanteria.
Questa fase è finita, e ora se ne apre un'altra, quella decisiva.
Noi abbiamo fiducia nella giovane generazione cresciuta - grazie ai
Falcone, ai Chinnici, ai Tano Grasso, agli Orlando - in questi anni. Finora
essa ha seguito, con poco spirito critico e molto entusiasmo, dei leader
carismatici e delle bandiere. Nei prossimi anni, essa sarà capace di
organizzarsi da sé, di crescere responsabilmente sui problemi concreti, di
costituire il nucleo di una nuova militanza di massa - collettiva stavolta e
non più carismatica e individuale - della sinistra.
Questa è sempre stata la strada dei Siciliani, da molti anni in qua.
Continueremo a impegnarci su di essa, con risolutezza e fiducia, ora più che
mai.
IL PUNTO SUL QUOTIDIANO
I Siciliani, maggio 1994
Non riusciremo a fare il quotidiano all'inizio dell'autunno, come avevamo
sperato. La situazione è tale, soprattutto in relazione al mancato impegno
(correlato alla vittoria della destra) di imprenditori siciliani, che sarebbe
avventuristico cercare di partire senza avere alle spalle risorse più che
adeguate.
Non intendiamo affatto rinunciare a fare il quotidiano, in tempi più larghi.
Crediamo infatti che le situazioni oggettive del mercato, il livello del
progetto e del grado d'organizzazione fin qui raggiunto, e soprattutto la
risposta di massa ricevuta,non ci consentano di rinunciare a cuor leggero a
un progetto ambizioso ma perfettamente realistico, ora più che mai. E' stata,
in particolare, sorprendente la qualità delle risposte e dei contatti a livello
imprenditoriale: dove è mancata la Sicilia, ma non il restante del Paese.
Continuiamo perciò il lavoro di costruzione e organizzazione in vista
delle strutture del quotidiano. Manteniamo in vigore, e intendiamo anzi
rafforzare, gli organismi formati (l'Associazione I Siciliani in primo luogo)
nel quadro dell'operazione quotidiano: il loro orizzonte non perderà di vista,
nei prossimi mesi, l'obiettivo del quotidiano che a questo punto comprende
una serie di obiettivi intermedi complementari, tutti - a partire dalla
ristrutturazione e rafforzamento di questo mensile - strettamente legati ad
esso. Parallelamente al Progetto Quotidiano, ma non slegato da esso,
abbiamo cominciato a lavorare (vedi in basso) a una struttura che entro
l'estate qualifichi e colleghi una rete di testate periodiche regionali.
Parallelamente alla struttura giornalistica professionale, dobbiamo a
questo punto razionalizzare e rafforzare i nostri strumenti organizzativi
come soggetto della società civile. Bisogna organizzare e dividere i compiti,
sia in sede che nei collegamenti periferici, in modo tale da garantire
interventi su specifici settori del territorio e della società.
La "linea politica" dei Siciliani, adesso come sempre, consiste
essenzialmente nell'unità e nella lotta contro i poteri mafiosi. Il regime che
s'intravvede dietro i comportamenti e le culture delle forze attualmente al
governo desta, da questo punto di vista, le più gravi preoccupazioni.
Riteniamo pertanto consono ai nostri compiti, in questa situazione, favorire
e promuovere iniziative civili di dura e unitaria opposizione. Oggi come
ieri, non aderiamo ad alcuna ideologia o partito in particolare. Riteniamo
invece indispensabile, come condizione vitale per la stessa possibilità di una
libera informazione, che il Sud nel suo complesso si ribelli a un regime che
lo condanna all'emarginazione economica, alla mafia e alla disoccupazione.
Gli operai minacciati di gabbie salariali, gl'imprenditori onesti mandati a
"coltivare bergamotti", i cavalieri collusi premiati, gli uomini di Andreotti e
Andò che diventano berlusconiani... Ma di tutto questo ci sarà modo di
parlare - e fare - più avanti. Per ora, siamo solo all'inizio: uno dei molti inizi
dei Siciliani.
GRACI
I Siciliani, giugno 1994
Per dieci anni i padroni di Catania sono riusciti a bloccare le indagini
sull'assassinio, da essi ordinato, del loro oppositore Giuseppe Fava. Hanno
usato, per questo scopo, magistrati come Giulio Cesare Di Natale e direttori
di giornale come Mario Ciancio; gli uni per insabbiare le inchieste
giudiziarie, gli altri per nascondere ed eventualmente falsificare ogni
possibile frammento di verità. Hanno usato costoro esattamente come
avevano usato, per commettere materialmente il delitto, il loro sgherro
Benedetto Santapaola.
Ma dieci anni son tanti. In dieci anni la verità trabocca. E vien fuori
adesso, grazie al senso del dovere e al coraggio di ben altri magistrati.
Furono i padroni di Catania - i cavalieri dell'apocalisse mafiosa
pubblicamente denunciati da Giuseppe Fava e da Carlo Alberto dalla Chiesa
- a voler sbarazzarsi di lui. E' il nome di uno di essi, il Cavaliere del Lavoro
Gaetano Graci, quello che un collaboratore di giustizia sta facendo in questo
momento davanti ai giudici. Noi consegnamo questo nome alla pubblica
opinione, affinché essa vigili contro ogni tentativo di minacciare i
magistrati, di portar via le carte, di chiudere la bocca al pentito. L'hanno
fatto altre volte. E anche in questa occasione cercheranno di farlo.
Ringraziamo i cittadini antimafiosi di Catania, i militanti siciliani, gli
amici di tutto il Paese che hanno contribuito, in questi più che dieci anni, a
sostenere la battaglia per la verità. Proviamo dispezzo e pena per la massa
servile di coloro che hanno invece sopportato per dieci anni, col loro
silenzio vile, il regno della menzogna e della non-dignità. Denunciamo, qui
e davanti ai magistrati, le responsabilità del padrone de "La Sicilia", Mario
Ciancio. Invitiamo infine i giornalisti de "La Sicilia" a entrare
immediatamente in isciopero e a occupare il loro giornale finché costui, che
ha prostituito il loro lavoro e il loro onore di siciliani, non se ne sarà andato
via.
PROMEMORIA
giugno 1994
Per Alessandra e Marco
- Chiamate (presto, perchè forse poi parte) Maurizio, bisogna spiegargli la
situazione attuale e coinvolgerlo col suo compare nel mensile. Fatemi anche
chiamare da lui al giornale. Attenzione: chi lo chiama lo adotta.
- Fate un fax alle sede del Comitato referendum per aderire formalmente
come Siciliani alla manifestazione del 25.
- Fate un fax ai compagni che organizzano il controvertice a Napoli per
aderire formalmente come Siciliani.
- Fatevi sentire ogni giorno.
Per Carlo
- Attenzione: devi organizzare tu i punti di riferimento Alba in Sicilia
(pochi ma buoni).
- State sopra ai milanesi!
- Avete contatato i ragazzi del Righi? Può pensarci Cecilia
- Fate adesione formale alla manifestazione del 25 per la libertà di
stampa.
- Distribuite alla manifestazione un bel po' dei giornali arretrati (Alba e
Siciliani) che avete in sede (dove ingombrano e non servono a niente)
-Vorrei notizie da Napoli: a) sul giornale locale in costruzione, b) sulla
situazione del controvertice.
- Fatevi sentire ogni sera.
Per Francesco
- Quando vai con Roberto e Marco al Corto (portando il book e facendolo
vedere)?
- Parlatene anche con Paolo, che ha un'esperienza formidabile nel settore.
- Grazie (ma cu iè 'stu Lisischi?)
- Quando mi dai la data per il casale?
Per Roberto
- Quando vai con Francesco e Marco al Corto (portando il book e
facendolo vedere)?
- Parlatene anche con Paolo, che ha un'esperienza formidabile nel settore.
- Mettiti in contatto (urgente) con Dino Frisullo. Dagli il book e il floppy.
Coinvolgilo nella faccenda del giornale romano. Digli che qui c'è un gruppo
di immigrati che vuol fare un giornaletto. Proposta operativa: giornale
immigrati fatto fra Catania e Roma, "Senza Confine", 8 pagine formato
manifeto utilizzando book e stampando coi prezzi di Firenze (vedi Marco).
- In qualche modo (ti possono aiutare Marco o Paolo) Mettimi in contatto
entro martedì in contato con l'editore di Stampa Alternativa (quello che fa i
millelire).
L'IMBROGLIO
I Siciliani, luglio 1994
Finora ti hanno imbrogliato, ma il vero imbroglio comincia adesso. Finora
si sono limitati a raccontarti balle fra una propaganda e l'altra, cercando di
raccontartene il più possibile senza che tu te ne accorgessi. Adesso, fra balle
e propaganda non c'è più distinzione, e se tu te ne accorgi non gliene frega
niente perché tanto tutte le televisioni e i giornali - nella loro intenzione sono in mano loro. Tre televisioni (Canale 5, Italia 1 e Rete 4) sono di
Berlusconi perché è Berlusconi. Tre televisioni (Rai 1, Rai 2 e Rai 3) sono
di Berlusconi perchè è capo del governo. E tutti gli altri, zitti.
Finora ti hanno imbrogliato abbastanza bene. A Catania, ad esempio, tu ti
eri stufato dei loro politici di prima, Andò Craxi Drago e compagnia. Allora
hanno mandato avanti i loro politici "nuovi", un morbido intellettuale un po'
gay come Benito Paolone e un rozzo capomanipolo fascista come Franco
Zeffirelli. E sono riusciti a farti fidare di loro, gente "nuova". (Cambiare
tutto per non cambiare niente: come prima). Adesso, quelli come Zeffirelli
verranno a fare la "cultura", e quelli come Paolone la Rai-Tv. Bellissimo. E
noi?
Noi continueremo a fare il nostro mestiere, i giornalisti. Ma con molta più
rabbia, e molto più in grande. In questo momento stiamo lavorando ad
almeno una dozzina di giornali piccoli e grandi in tutta Italia, tutti liberi e
tosti come questo. Stiamo continuando a lavorare (alla faccia degl'industriali
siciliani, diventati milanesi dopo le elezioni) per il quotidiano libero che vi
avevamo promesso, anche se ora è più difficile di prima. Stiamo facendo
delle cose. E voi? Paolone, Berlusca, Sgarbi e Zeffirelli. E tutti al mare.
Volete sapere che cosa farà fra un anno Berlusconi? Prenderà esempio dai
catanesi. A Catania c'è La Sicilia di Ciancio che ha da insegnare qualcosa
persino a lui. Ultimamente ha pubblicato una notizia falsa sapendo che era
falsa - e dunque imbrogliando - e questo ostacolando le indagini che
potrebbero far scoprire chi ha ordinato di uccidere, dieci anni fa, il nostro
direttore. Non lo diciamo noi, i giudici l'hanno detto. I giudici che stanno
indagando su un industriale catanese, il Cavaliere del Lavoro Gaetano
Graci. Che, in questo momento, non sappiamo dove sia.
Ecco che farà Berlusconi fra un anno. Mentirà apertamente come Ciancio.
Tre milioni di posti di lavoro! Due ponti sullo Stretto! Il Mondiale all'Italia!
Violante è il capo di Cosa Nostra! Andreotti è innocente! E voi italiani
perbene, sull'esempio dei catanesi, tutti zitti e buoni a sentire.
RINCORRENDO BORSELLINO
I Siciliani, luglio 1994
In Europa hanno appena vietato l'ingresso alla gente del Sud (tunisini,
neri ecc: noi siciliani siamo stati promossi a bianchi qualche anno fa). In
Italia il governo ha appena deciso l'abolizione della libertà di stampa,
mandando un ministro fascista a censurare la Rai-Tv. In Sicilia si parla della
prossima, chiamiamola così,"evasione" di Nitto Santapaola, il principale
esponente militare del regime politico-mafioso che qui (cambiato nome)
comanda come prima. E son passati due anni dalla morte di Borsellino.
Faranno commemorazioni governative, probabilmente, e uno dei
principali commemoratori sarà l'Eccellenza fascista Guido Lo Porto. "Noi di
destra - dirà - Noi e l'uomo di destra Borsellino...". I fascisti, in Sicilia, si
sono distinti negli ultimi quindici anni per la saggia prudenza con cui hanno
evitato di accorgersi dell'esistenza di un potere mafioso. Hanno difeso i boss
in tribunale (come l'avvocato missino Enzo Trantino), hanno
selvaggiamente attac cato gli antimafiosi (come il capomanipolo catanese
Benito Paolone), hanno avuto a che fare con terroristi alla Concutelli (come
la summenzionata Eccellenza Guido Lo Porto). Mai hanno rischiato la vita come noi "giacobini" - per combattere il potere mafioso. Mai hanno avuto
un palpito di pietà e di coraggio per questa loro povera terra, vigliaccamente
abbandonata all'occupazione militare mafiosa. Ma ora parlano loro.
La verità è che la lotta alla mafia, per molti anni, l'hanno fatta quasi
soltanto giudici, comunisti, poliziotti e preti. L'hanno fatta i liceali, gli
operai dei Cantieri navali, i negozianti dei Nebrodi, le ragazze di paese
come Rita Atria (chi si ricorda più di lei, povera creatura morta sola?), tutti
uomini e donne senza potere. Eppure, senza un briciolo di potere in mano,
questi esseri umani avevano quasi vinto la loro guerra. Se la sinistra
importante, quella dei bei discorsi e dei telefonini, si fosse accorta di loro...
E intanto si va avanti. In Sardegna e in Sicilia, alle ultime elezioni locali,
è stato battuto Berlusconi. Non è una vittoria storica ma una piccolissima
battaglia locale. Però è una battaglia vinta: vorrà pure dire qualcosa. Come
si chiamava il villaggio in cui i tedeschi, cinquant'anni fa, vennero respinti
per la prima volta? "Compagni, la Russia è grande - disse un soldato russo,
di cui non si ricorda più il nome - Ma noi non possiamo più ritirarci, perché
dietro di noi c'è Mosca".
Neanche noi possiamo più perdere tempo. Le forze su cui tutti quanti
contavamo (la Rete, Riforndazione, i Verdi, il Pds) sono impegnate in
drammatici confronti interni, per decidere che leader e che correnti devono
gestire l'uno, il due, l'otto per cento conquistato, o per stabilire se è più
telegenico un dirigente coi baffi o uno senza. A tutti questi amici e
compagni noi auguriamo, con affettuosa solidarietà e senz'ironia, le migliori
fortune. Ma noi seguiremo un'altra strada.
Il problema non è di fondare, o rifondare, l'ennesimo partito o partitino. Il
problema è di dare finalmente piena fiducia e responsabilità politica e piena
libertà d'azione a quella che è stata la forza principale della sinistra di questi
anni, la mobilitazione di base. Palermo, il giorno dei funerali di Borsellino,
era una città in istato prerivoluzionario. Catania, alle comunali
dell'altr'anno, ha espresso una larghisssima volontà - sociale - di sinistra. In
entrambi i casi, non per merito della Rete o del Pds o del Prc o dei Verdi, ma
per qualcosa di molto più profondo. Qualcosa che i partiti professionali
della sinistra hanno saputo solo occasionalmente sfiorare, e che noi stessi
abbiamo difficoltà ad individuare con precisione: ma che indubbiamente
esiste, e non si distrugge in un giorno o in pochi mesi. Qualcosa che bisogna
rendere coscientemente "politico" ma contemporaneamente, senza
presunzioni di partito, percepire e rispettare.
L'iniziativa dei Siciliani nei prossimi mesi sarà volta a individuare e
aggregare, città per città e paese per paese, questo "qualcosa". Non per fare
un partito, e nemmeno (è bene precisarlo subito) delle liste elettorali.
Intendiamo invece sviluppare dappertutto dei luoghi organizzativi unitari,
amici di tutti i partiti della sinistra ma distinti da essi, dei luoghi in cui si
possano sentire a casa propria il militante della Rete, del Pds, di
Rifondazione o dei Verdi ma anche e soprattutto quello che non ha un
partito preciso e non ci tiene ad averlo ma vuole operare subito e
concretamente per opporsi alle piccole e grandi angherie del regime.
Non è una novità, d'altra parte. Chi ci segue da più anni conosce bene
l'importanza, nella nostra storia, delle nostre organizzazioni di base come
Siciliani Giovani o l'Associazione I Siciliani. Hanno dato un contributo non
indifferente ai movimenti antimafiosi di questi anni, e sono stati un esempio
di organizzazione democratica per l'intera società civile.
Chiediamo quindi ai lettori di aiutarci a organizzare dappertutto i circoli e
le sedi dei Siciliani. Nel corso dell'estate c'incontreremo con tutti gli amici e
i compagni che lo richiederanno. A ottobre tireremo le somme, e
cominceremo a riconoscere formalmente, e a rendere concretamente
operative, le strutture locali dei Siciliani.
CATANIA
Avvenimenti, luglio 1994
Tre politici, quattro cavalieri e una cosca mafiosa. I cavalieri sono
Gaetano Graci, Mario Rendo, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro. I
politici sono Nino Drago, Salvo Andò e Rino Nicolosi. La cosche mafiose è
la Santapaola-Ferrera. Tutt'attorno c'è circa mezzo milione di catanesi,
arbitrariamente ripartito fra: ragazzi di scuola, giovani rapinatori, sei preti di
quartiere, scippatori, lavoratori delle poche imprese cittadine, muratori,
catanesi perbene e quindi votanti Dc, l'Ordine degli avvocati catanesi, alcuni
magistrati onesti, il quotidiano locale "La Sicilia", bottegai padroni di
pastificio e baristi, carabinieri e poliziotti quanti ne volete, pendolari,
posteggiatori abusivi, bancarellari, politici di terza, quarta, quinta e sesta
categoria e poi Fabiolino e Rosalba dei Siciliani. Tutti questi esseri umani,
ogni mattina che Dio manda a Catania, si alzano pieni di buona volontà e
cominciano alacremente il loro lavoro. I quattro cavalieri si dividono gli
appalti, i tre politici preparano gli appalti successivi, i politici minori si
aggirano dignitosamente attorno ai sette in attesa di un boccone lanciato al
volo, i mafiosi di Santapaola cominciano il loro quotidiano giro di ronda,
bottegai e baristi fanno i conti dell'incasso detratte le tasse allo Stato (che
non si pagano) e a Santapaola (che si pagano, Fabiolino e Rosalba sono in
giro con un volantino contro la mafia di Siciliani/Giovani, gli avvocati
preparano il memoriale in difesa del cavaliere o del boss del giorno (fatica
inutile, pro-forma: in realtà, basta parlare col giudice per mettere a posto
tutto), i giornalisti de "La Sicilia" rileggono affannosamente quel che hanno
scritto casomai fosse loro uscito dalla macchina da scrivere un pezzetto
anche minimo di verità. Tutti fanno Catania con grande impegno. D'estate
c'è caldo a quaranta gradi, d'autunno, appena cominciano le piogge, uno o
due catanesi muoiono annegati nel torrente che si riversa giù per le strade in
discesa e senza scoli. Alla fine della giornata si contano i morti, un
ragazzino scippatore giustiziato dai Santapaola o un tabaccaio ammazzato
per centomila lire da un ragazzino. Quindici anni fa di questi tempi ce
n'erano, se ricordiamo bene, ventisei in un mese.
Son passati quindici anni così, e non sappiamo se questo - con Graci e
Drago in galera e Nicolosi e Andò pure - è solo il sedicesimo, con
protagonisti parzialmente diversi, oppure il primo anno di qualcosa di
nuovo. Mah. I dc catanesi, che ora votano Forza Italia, non han perso tempo
a trovarsi i loro nuovi Andò e i nuovi Drago: nuovi ma promettenti, uno di
loro è già indagato per intrallazzi mafiosi; e restano ancora in giro un bel po'
di cavalieri. Bisogna vedere cosa ne pensano i ragazzini, sono loro che
decidono - qui a Catania e altrove - in ultima istanza. Graci e Drago, e Andò
e Nicolosi, ce li hanno mandati loro in galera, secondo me, loro con la
collaborazione di un paio di giudici e poliziotti volenterosi.
NON SOLO UN GIORNALE
I Siciliani, luglio 1994
I Siciliani non sono mai stati solo un giornale. I Siciliani sono stati anche,
per più di dieci anni, un luogo d'impegno civile, un punto di aggregazione
per i giovani e il movimento antimafioso, il simbolo di molte battaglie
"contro" e di molte battaglie "per". I Siciliani, oggi, continuano ad essere
tutto questo. I Siciliani lavorano per unire storie, battaglie ed esperienze
(ovunque maturate) intorno a un progetto e a dei valori comuni.
Oggi più che mai lo scontro fra il popolo dell'antimafia e i poteri mafiosi
non può rimanere questione per addetti ai lavori. Oggi più che mai, questo è
uno scontro che si tenta di esorcizzare, archiviare, dimenticare, perché da
esso dipende tutto. Oggi più che mai la questione morale dev'essere
congiunta con la questione sociale e con la questione della democrazia.
Oggi più che mai bisogna schierarsi, scegliere, prender parte: senza
mediare, senza delegare niente a nessuno.
La vittoria delle destre in Italia ci dice soprattutto una cosa: abbiamo
perso perché non abbiamo avuto il coraggio di essere noi stessi fino in
fondo. Perché abbiamo voluto a tutti i costi appiattirci sull'avversario,
copiarne parole e strategie. Per non aver saputo proporre nulla di
radicalmente alternativo a Berlusconi, nulla di visibilmente differente da
Ciampi. Mentre i padroni del vapore usavano come ricatto la promessa di
posti di lavoro, noi non abbiamo saputo contrapporre alle loro promesse
truffaldine un'idea di sviluppo che costruisse insieme occupazione e legalità,
occupazione e solidarietà, occupazione e felicità collettiva.
Non possiamo più contentarci delle forme attuali della politica, chiuderci
ognuno nel proprio recinto, combattere battaglie di retroguardia:
significherebbe regalar tutto a Berlusconi. Bisogna invece lavorare a
costruire un'alternativa credibile per il futuro. Ma costruirla dal basso,
partendo dai bisogni concreti degli esseri umani, dalle mille realtà che già
esistono, realizzando insieme, in tutta Italia, un percorso comune.
Gruppi di base, centri sociali, piccole testate libere, centri di volontariato,
associazioni: ce ne sono tanti, in Sicilia e fuori, e ne nascono ogni giorno di
più. Non è un caso che, in questi mesi, molte donne e molti uomini abbiano
sentito il bisogno d'unirsi sulle scelte concrete, sulle cose da fare. Non è più
tempo, per ciascuno di questi soggetti, di camminare da solo per la sua
strada. Non è più tempo di delegare alla politica ufficiale le battaglie che
vogliamo combattere, le risposte di cui abbiamo bisogno.
La politica dei Siciliani è una politica senza maiuscole. E' una politica
fatta di esperienze umane e di valori, costruita fuori dai Palazzi, una politica
all'insegna della radicalità. Radicalità come rifiuto delle mediazioni, delle
identità deboli, della paura di avere ragione. Radicalità come coerenza,
come capacità di andare oltre gli steccati, come capacità di conquistare alle
proprie battaglie anche coloro che apparentemente sembrano più lontani,
senza rinunciare a nulla di queste battaglie. Radicalità come ideazione e
capacità di alternativa, di organizzazione dal basso, di cultura unitaria, di
lotta.
FRESCO
I Siciliani, agosto 1994
Per Andò Nicolosi e Graci un'estate al fresco, meglio tardi che mai. Il
cavalier Berlusconi, che voleva far piazza pulita del giudice Di Pietro e dei
giudici e giornalisti liberi in generale, è rimasto fresco. E un po' di fresco, se
permettete, a questo punto ce lo prendiamo pure noi, con le foto dei galeotti
appese al muro per rinfrescare ulteriormente l'ambiente. Insomma c'è caldo
sì, ma si sta bene. Molto meglio d'un paio di mesi fa, con Craxi che si
preparava a tornare trionfalmente in Italia e il cavalier-presidente (per non
parlare dei cavalier-mafiosi più nostrani) con l'Italia in tasca, grazie al sonno
profondo degl'italiani. Che adesso dormono ancora, ma russano un po' meno
forte di prima.
Andò Nicolosi e Drago erano, insieme a Salvo Lima, i padroni assoluti
della Sicilia. Ora sono in galera. I loro capibanda Andreotti e Craxi sono
ormai pacificamente per tutti, rispettivamente, un mafioso e un ladrone. La
verità, presto o tardi, viene a galla. Chi punta sulla verità, presto o tardi
vince. Non nel senso che diventa potente, che si mette - buttati giù i vecchi a comandare lui. Ma nel senso che può andare a testa alta, perché ha fatto
del bene a tutti, perché ha insegnato qualcosa.
Nonostante la nostra tradizionale superbia, questa volta non parliamo per
noi. Parliamo per i ragazzini di Catania, per i compagni di Palermo, per gli
antimafiosi di dappertutto, per quelli che hanno lottato, in questi dodici
anni, che non ci hanno abbandonato mai. Sono stati loro, quelli senza
potere, a mettere alla fine nel sacco Andò e Craxi, il vecchio Drago e
Andreotti. Se fossimo Berlusconi - ma grazie a Dio non lo siamo staremmo molto attenti alla gente senza potere, a quelli che non contano, ai
ragazzini. Perché alla fine, è storicamente accertato, vincono loro.
Beh, questo è tutto per questa volta. Certo, avremmo molte altre cose da
dire, e con un ben altro tono, adesso che l'amico degli assassini di Giuseppe
Fava è in galera. Quanto tempo è passato, quanta strada ancora qui davanti
da fare. E quante sconfitte e resistenze, quante speranze, quanta vita di
quanti esseri umani.
Ma ne parleremo un'altra volta, di tutto questo. Per ora è estate. Buone
vacanze, amici dei Siciliani, buone vacanze e congratulazioni reciproche, e
grazie di tutto.
IL PROSSIMO
I Siciliani, settembre 1994
Finora è stato un governo divertentissimo: Bossi che spara torte in faccia
a Berlusconi,B erlusconi che ingiuria Bossi, i ministri che si bastonano
allegramente l'un l'altro, la Pivetti, Ferrara... I grandi protagonisti dell'Opera
di Berlusconi sarebbero stati, si pensava, Emilio Fede, Liguori, Zeffirelli, i
comici professionisti, gli Sgarbi, i Pannella. Invece no. Questi hanno
lavorato certo da grandi caratteristi, con interpretazioni senz'altro all'altezza
della loro fama; ma la vera sorpresa della stagione sono stati gli altri, gli
uomini nuovi (si fa per dire), quelli che fino a pochi mesi fa erano seri
politicanti e industriali, giacca cravatta e cellulare, quelli che dovevano
managerializzare il paese. Sono stati irresistibili. Gag meravigliose,
Gambadilegno che libera la Banda Bassotti mentre tutta Paperopoli è
davanti alla tv per la partita, il commissario Bassotti che bofonchia "va
bene" e dopo un'ora si batte la mano sulla fronte: "che è successo?",
Paperina alle prese con le pulizie generali di tutta la Rai, Paperino che
incoccia il lampione mentre corre al raduno dei Figli della Rivoluzione (di
Bergamo)...
Stanlio e Ollio, Walt Disney, una risata al minuto. Roba semplice,
popolare, per niente sofisticata. Che fa un onorevole fascista quando ha
bisogno di soldi? Semplice: fa una legge, e si aumenta la paga. Che fa un
governante fascista quando i giudici stanno per acchiappare suo fratello?
Semplice: fa un un decreto, e manda i giudici a casa. Che fa un governo
fascista quando ci sono debiti da pagare, ma non può chiedere soldi ai ricchi
perchè se no lo mandano via? Semplice: s'incazza coi pensionati, e annuncia
una gran campagna contro i "falsi" invalidi a quattrocentomila lire. Così
semplice, da essere persino a suo modo allegra. Torte in faccia, e
grimaldelli.
Adesso tuttavia comunicano che "la ricreazione è finita": ne ha dato
annuncio al popolo, al ritorno dalle vacanze, il panzone capomanipolo (in
queste storie, un personaggio immancabile) Ferrara. Si torna a
governicchiare all'antica, a muso lungo, senza più torte in faccia e senza far
rumore coi grimaldelli? Ci sembra difficile, perché ormai tutte le marionette
hanno preso gusto alla parte, e rificcarle nel cesto a beneficio di un Grande
Burattinaio unico e solo non è tanto facile. Berlusconi comunque - parliamo
di politica - come burattinaio ha deluso, se la cavava molto come Cavaliere
catanese. Un berlusconesimo senza Berlusconi, sarà il prossimo obbiettivo
che si porranno lor signori. Ai tempi del Sabato Fascista e del Volk
(ubbidiente) con la Wagen e del Tizio che ha sempre ragione, per la verità,
qualcosa del genere erano già riuscita a tirarla fuori. Adesso,
ammodernando l'ammodernabile, ci riproveranno, perché la tentazione è
grande e i conti da pagare son tanti, e il Berlusca è apparso un po' troppo
pirla, quest'estate, per riuscire a farli pagare lui.
IL CAPITALE
I Siciliani, settembre 1994
Riassunto delle puntate precedenti: un anno fa I Siciliani hanno lanciato
un appello per la fondazione di un quotidiano regionale siciliano, che
servisse a rompere finalmente il monopolio dell'informazione democristiana
(e ora forzitaliota) in Sicilia e che potesse fare da supporto alla crescita di
iniziative analoghe in tutta Italia. Abbiamo messo, da parte nostra, a
disposizione la nostra competenza tecnica e professionale e ci siamo
impegnati a organizzare una redazione al livello dovuto.
Al progetto tecnico del quotidiano, sviluppato nel giro di sei mesi, è stato
elaborato dalla redazione dei Siciliani per la parte giornalistica, da
Piergiorgio Maoloni per la grafica e da Raffaele Fratangelo per gli aspetti
finanziari e aziendali. La qualità del progetto è stato unanimemente
riconosciuta (Fratangelo e Maoloni sono fra i primi professionisti italiani
nei rispettivi settori, e l'esperienza del nostro gruppo redazionale non è
esattamente da gettar via) di altissimo livello; quanto all'organizzazione
della redazione, siamo stati rapidamente in grado di schierare una lista di
quaranta giornalisti professionisti pronti ad aderire al progetto, in molti casi
lasciando i loro vecchi giornali. Si sono messi in contatto con noi,
offrendoci condizioni particolarmente favorevoli e generose (e in alcuni casi
addirittura di entrare senz'altro in società con noi), importanti aziende del
settore come la Apple, la Pellegrini di Venezia, la Sinedita, la Hyphen, la
Nolmac di Roma ed altre ancora.
La reazione del pubblico, dal canto suo, è stata tale che è poco definirla
generosa. Fra dichiarazioni di disponibilità, sottoscrizioni, richieste di
abbonamento ed altro, almeno ottocento persone - al nord e al sud: quaranta
per cento circa in Sicilia, e il resto nel rimanente del Paese - hanno aderito
all'appello. Ma intanto, il quotidiano non s'è fatto.
Vogliamo assicurare i lettori, innanzitutto, e quelli in particolare che
hanno sottoscritto per noi, nonchè gli imprenditori e le aziende (tutti non
siciliani) con cui siamo stati in trattativa in questi mesi che il Progetto non è
stato affatto abbandonato. Ai sottoscrittori, in particolare, diciamo che non
ci siamo affatto dimenticati di loro. Abbiamo continuato a lavorare
regolarmente, in tutti questi mesi - per quanto in condizioni difficili - per
portare avanti il Progetto, e dunque per adempiere alla volontà che essi,
sottoscrivendo, ci hanno espressa. Ciascuno di loro ha il diritto,
naturalmente, di recedere dall'impresa in qualsiasi momento, nella maniera
più facile e senza rimetterci niente. Ma noi andiamo avanti. Il motivo è che
il quotidiano non s'è costruito, fino a questo momento, non per ragioni
tecniche o di mercato (sulle une e le altre abbiamo le carte in regola quanto
chiunque altro) ma per ragioni politiche, artificiali. Per fare il quotidiano, al
di là della sottoscrizione dei lettori, che è un incoraggiamento enorme ma
non può superare i suoi livelli, ci vogliono cinque miliardi.
Cinque miliardi si possono trovare (non, s'intende, in regalo: ma come
investimento di mercato) fra gl'imprenditori, e in particolare fra
gl'imprenditori siciliani. Dei quali, diversi erano pronti a investire
tranquillamente nell'impresa, convinti di fare un buon affare e di trovarsi in
presenza di buoni conti. Poi è arrivato Berlusconi. Allora sono cominciati i
"vedremo", i "ne riparleremo più avanti", gli "intanto andate avanti e poi se
ne parla". I capitalisti italiani insomma (o perlomeno i nostri) se ne sono
fregati del mercato, degli attivi e passivi, dei preventivi e bilanci, e si sono
comportati da accorti politici, attentissimi a non mettersi contro i politici più
forti. Noi rivoluzionari dei Siciliani, invece, ci siamo messi a fare i seri
capitalisti e siamo rimasti con le pive nel sacco.
Bene, adesso ci riproviamo - tanto per cambiare - con inossidabile serietà
e compattezza. Qualcuno di voi - quelli che hanno aziende con fatturato
superiore al miliardo, che purtroppo non sono molti - riceverà nelle
prossime settimane un fax della segreteria dei Siciliani, un pacco di carte,
progetti, conti, bilanci costi-ricavi e proiezioni computerizzate, e dopo un
po' la visita di uno dell'amministrazione del Progetto, con valigetta nera e
voce suadente.
In realtà tutto questo è molto buffo (stavamo così bene quando non
eravamo capitalisti!), ma siccome purtroppo il Progetto è una cosa possibile,
e con tutta la buona volontà non siamo riusciti a trovare perché non
dovrebbe regolarmente funzionare e aver successo, siamo costretti a
portarlo avanti pazientemente, con la solita tecnica Siciliani (riprova
tranquillamente finché non parte) che ha funzionato finora e funzionerà,
naturalmente, anche in questo caso; su questo non abbiamo dubbi. Però, che
barba.
SCIO' PERO'
I Siciliani, ottobre 1994
Campania e Lombardia gareggiano nobilmente fra loro per essere le
prime a cacciare definitivamente i Gastarbeiter, i lavoratori stranieri. A Villa
Literno la feccia del paese è scesa in piazza urlando selvaggiamente il
proprio odio verso gli immigrati. A Milano, più ipocritamente,
l'amministrazione locale studia sistemi "legali" per ripulire le strade dai
"randagi", dai lavavetri, da coloro che non sono bianchi e ariani. Il governo
centrale, a sua volta, sta preparando i decreti della sua soluzione finale.
Né Lombardia né Campania, in questi anni, hanno brillato per particolare
civismo o per senso dello Stato. Hanno tollerato e votato a larga
maggioranza, rispettivamente, i ladroni di Craxi e i camorristi di Gava.
Hanno lasciato i magistrati onesti presso che soli (con poche nobilissime ma
isolate eccezioni) a lottare per loro. A Milano, il sindaco razzista è stato
eletto da una larga maggioranza cittadina. A Villa Literno, fra gli obiettivi
della canaglia razzista ci sono non solo i lavoratori immigrati ma anche quei
preti cattolici che si permettono di aiutarli in nome del Vangelo. Tutto ciò s'è
già visto in Europa, in grandi e piccole città tedesche all'inizio degli anni
Trenta.
Tutto questo per spiegare perché lo sciopero generale, indetto - meglio
tardi che mai - dai sindacati per il 14 ottobre, non sarà affatto generale.
Stavolta non sarà solo i ricchi contro i poveri, gli operai contro i padroni
(anche se un governo sfrontatamente dei ricchi come questo, basato sulle
ville in Sardegna e sugli yacht da 29 metri, in Italia non s'era ancora visto
mai). Sarà qualcosa di più. Da una parte i servi felici, l'audience, i
Consumatori Perbene, gli ariani. Dall'altra le persone civili, i lavoratori
coscienti, coloro che hanno padri e madri, gli italiani.
Succedono cose amare, in questi giorni, che però s'inquadrano benissimo
nella tradizione non-democratica (e cialtronesca) dei ceti medi italiani. La
libertà di stampa, per dirne una; non sappiamo se questo giornale uscirà
ancora fra sei mesi, o se verrà prima chiuso d'autorità; l'abolizione di ogni
spazio televisivo non di regime, attuato con la complicità di reggicoda come
Bossi (che aveva appena ricevuto gli ingenui applausi della Rete e della
Festa dell'Unità) e con l'arruolamento di numerosi rinnegati, fra cui ci piace
segnalare almeno il caso umano di un Michele Santoro. Ma tutto ciò non ci
spaventa: ne abbiamo viste di peggio, e di ancor peggiori ne videro i nostri
padri, e sempre - alla fine - ne siamo usciti in qualche modo. Ci spaventa
invece ciò che vediamo crescere in alcuni strati profondi della cultura di
massa del Paese. Noi italiani, insomma, siamo meno italiani di un anno fa; e
infinitamente di meno che ai tempi di Pertini. Berlinguer parlava
inascoltato, molti anni fa, di questione morale. Il destino gli ha risparmiato
di vedere a che punto di malattia e di cancrena essa potesse portare l'anima
di questo Paese.
ADDAVEDI' PALERMO
I Siciliani, ottobre 1994
Il sindaco ideale, di questi tempi, sarebbe Ernesto Di Fresco. Di Fresco è
un democristiano, o meglio era un democristiano, come tanti altri, con i suoi
amici mafiosi (una volta lo misero in una camera d'albergo con don Michele
Abbenante) e i suoi santi in paradiso. Gira che ti gira, Di Fresco si fece
beccare a tal punto da dover essere sospeso dalla Dc. Questo, una decina
d'anni fa: ancora non c'era Bossi e gli unici leghisti d'Italia erano quelli di
Trieste, che avevano fondato un partito (il "Melone") al fine di combattere
gli slavi e difendere, a Trieste, la civiltà occidentale. Il capo era un avvocato
massone. Di Fresco, detto fatto, si iscrive al "Melone"; e siccome era anno
d'elezioni, per qualche settimana Palermo fu tappezzata di manifesti che
invocavano la zona libera del Carso e la battaglia contro il vicino pericolo
sloveno. Di Fresco poi, per problemi suoi (per lo più con gl'inquirenti), non
poté sviluppare la sua intuizione politica, e rimase tutto sommato un
democristiano palermitano invece che un leghista della prima ora.
Peccato. A quest'ora avrebbe potuto candidarsi a sindaco di Palermo in
nome della Lega, e sarebbe il personaggio più coccolato - dopo Bossi d'Italia. "Panorama" stamperebbe il libretto coi pensieri di Di Fresco,
Montanelli inviterebbe in buon toscano a votarlo, Bocca scriverebbe un
libro di quattrocento pagine per dimostrare come Di Fresco rappresenti la
Sicilia pulita, la Sicilia, sia pure barbara, che si ribella alle tangenti. Quanto
agli eventuali problemi coi magistrati, sarebbero presto risolti: basterebbe
dichiarare che le pallottole per i magistrati costano trecento lire l'una (Bossi
l'ha fatto, e nessuno ci ha messo becco) e smentire subito dopo: e chi vuol
capire capisca. V'immaginate che bellezza? Di Fresco ai dibattiti di
"Palermo Italia", con la faccia compunta; e la città pavesata di giganteschi
cartelli "La Lega ce l'ha duro - Vota Di Fresco - Un leghista del Carso!".
Invece dovremo accontentarci di un irresponsabile, di un khomeinista, di un
rivoluzionario giacobino, di un Orlando.
Non era una cosa straordinaria, sul piano strettamente politico, la giunta
comunale della Primavera di Palermo. Un centrosinistra un po' allargato a
sinistra (ma neanche Salvo Lima aveva difficoltà, sul piano formale, ad
aprire al Pci), degli assessori complessivamente galantuomini e moderati,
una corrente democristiana di sinistra (gli allora demitiani) che si trovava ad
avere una certa libertà di manovra rispetto al centro. Gente moderatamente
progressista, del tutto interna - sul piano formale - al sistema politico
ufficiale. Non differente, da questo punto di vista, dalla prima giunta
repubblicana di Madrid nel 1936, o dallo stesso governo Allende della
prima fase, quella moderata e unitaria, degli anni Settanta. Ciò che ha fatto
la differenza, è ciò che stava fuori. Il Coordinamento antimafia, il Cocipa, il
Centro Peppino Impastato, i preti di quartiere, le prime liste di base di Città
per l'Uomo; la ribellione che cresceva sotterraneamente da tre anni,
inconsapevole per lo più di se stessa e tuttavia pronta, alla prima occasione,
a darsi un punto di riferimento e a farsi rivoluzione politica e di massa. Il
merito di Orlando allora è stato quello di non sottrarsi a questo meccanismo,
a questa confusa richiesta di potere dal basso; e di essere stato fedele a
questo suo ruolo, di averne tratto le conseguenze più dure e sul piano
politico e su quello della scelta di vita individuale. La Primavera di Palermo
è stata, in buona parte, rappresentata all'esterno da Orlando; ma non è stata
solamente Orlando, e forse non lo è stata nemmeno principalmente. Il cuore
della Primavera è stato nelle scuole, nelle organizzazioni di base, nei
quartieri.
Sconfitta sul piano immediatamente politico, della gestione istituzionale
dell'istituzione Comune, l'esperienza palermitana non lo è stata affatto su un
piano più ampio. Non perché ha dato vita a un partito, la Rete, che ne
rappresenta dignitosamente una parte; né perché ha introdotto mutamenti
significativi nella stessa sinistra comunista (ed ora pidiessina)palermitana,
definitivamente lontana ormai dall'egemonia catastrofica dei Macaluso. Ma
perché ha dato vita soprattutto a un'esperienza e a una cultura concreta di
partecipazione di massa a un rinnovamento radicale; una partecipazione non
anarchica, non velleitaria, ma civilmente politica e in grado persino di porsi
obiettivi sia pure rudimentalmente istituzionali. I centri sociali palermitani,
le realtà di quartiere, gli interventi (che sono ormai decine) sul territorio non
si sono chiusi, come altrove, nella difesa implicita di un ghetto: ma si sono
fatti modello sociale, struttura organizzativa di base, strumento infine - per
quanto era possibile in questa fase - di una svolta politica reale. E questa è
stata la vera rivoluzione palermitana. Non ce ne sono state altre, in Italia, in
questi anni.
Man mano che le cose procedono, e i vari partiti nuovi si vanno
precisando, si vede infatti come le varie forze di "rinnovamento" tutto siano
fuorché rinnovative. I "rinnovatori" di centro, quelli raggruppati via via
attorno a Martelli, ad Amato e infine a Segni, propagandano ormai
esplicitamente, come unico possibile ideale, la Democrazia cristiana di De
Gasperi e Scelba. Quanto ai "rinnovatori" leghisti, è difficile ormai non
riconoscere in loro un filo di continuità con altri déja-vu della storia, col
fascismo moderato (quello dei Doriot, dei Laval, e più recentemente dei Le
Pen e dei Giannini) che periodicamente il ceto medio europeo secerne nei
suoi momenti di crisi; come è difficile non riconoscere "la dedizione
vigliacca degli intellettuali al fascio" di cui parlava Gobetti: i Prezzolini e i
Giorgio Bocca (maestri di ieri) come i D'Annunzio e i Montanelli.
Palermo è un'altra cosa. Palermo, non semplicemente Orlando, o la lista
Orlando, o la Rete, o il Pds più la Rete; Palermo dei movimenti antimafia,
Palermo della Pantera, dei preti di cui si parla solo da morti; dei dieci anni
di storia di migliaia di esseri umani che hanno conquistato e difeso per tutti
gl'italiani un pezzetto di civile libertà. Questa Palermo deve uscire da
Palermo, e riversarsi dappertutto.
A questo possono servire, qui e ora, le elezioni a Palermo. Se saranno
semplicemente "la vittoria di Orlando", una rivincita da contrattare
garbatamente nel Palazzo, segneranno la fine di una fase; la morte della
destra mafiosa, e l'inizio del potere di una moderata e civile (per quanto in
Italia possa...) borghesia. Se saranno la vittoria di tutti, di tutti gli
antimafiosi, di tutte nessuna esclusa le componenti della Palermo di questi
anni, allora sarà non solo la conclusione vittoriosa di un'esperienza, ma
l'inizio benaugurante di una fase ancor più democratica, ancora più nuova.
NORD & SUD
I Siciliani, novembre 1994
Calogero Gasparazzo (lo riconoscete? è da qualche parte qua attorno) è un
operaio metalmeccanico di Bronte, in provincia di Catania. Da molti anni
lavora in una grande fabbrica del Nord. Parecchi anni fa sono venuti degli
studenti, davanti alla fabbrica, e gli hanno detto che si poteva fare la
rivoluzione. Invece non c'è stata rivoluzione, ma solo un gran casino. Molti
di quegli studenti Gasparazzo li sta rivedendo ora alla televisione: chi è
direttore di giornale, chi è un'autorità governativa, chi fa il ministro di
Berlusconi. Hanno un'aria profondamente compresa della loro importanza, e
dicono che la storia che Gasparazzo voleva fare la rivoluzione in realtà era
una grandissima cazzata e che invece bisogna aspettare che i padroni e i
fascisti risolvano i problemi a modo loro. Ascoltandoli alla televisione,
Gasparazzo ha capito benissimo perché in realtà non c'è stata alcuna
rivoluzione.
Ogni anno Gasparazzo è tornato in Sicilia, in tutti questi anni, e si è
accorto che negli ultimi anni qualche cosa è cambiata. "Bacio le mani a
voscenza" non s'usa più. Alcuni addirittura (cosa che nei tempi di prima non
s'usava) si permettono di parlare in piazza, a voce alta, degli affari di don
Totò. Una volta Gasparazzo è stato anche alla manifestazione antimafia, giù
in Sicilia, ma poi è dovuto ripartire. Alla manifestazione c'erano anche molti
studenti, quel giorno, gridavano abbasso la mafia con la faccia sorridente.
Gasparazzo spera tanto che non facciano la fine di quelli là.
Bene, Gasparazzo adesso è uno che non si fida più dei discorsi delle
persone importanti, o che lo potrebbero diventare domani. Ma quella
faccenda di cambiare tutto (allora si chiamava la rivoluzione, e adesso
chissà), quella lui non se l'è dimenticata. Ogni tanto gli torna in mente
all'improvviso, in una fabbrichetta di Catania o al reparto fonderie di
Milano. E allora Gasparazzo pensa che ha una gran voglia di fare qualcosa.
MAZZETTA NERA
I Siciliani, dicembre 1994
Non sappiamo chi sarà il prossimo presidente del Consiglio. Sappiamo
invece chi sarà, prima o poi, il nuovo comandante della Guardia di Finanza;
il Generale a Sei Stelle Edoardo Valente. Edoardo Valente, che attualmente
è maggiore, in realtà non ha compiuto niente di eccezionale, né in bene né
in male: un buon ufficiale come tanti, magari migliore di altri, visto che lo
standard medio della Finanza è, in alcune materie, più elevato che altrove. Il
padre di Edoardo Valente è però il Presidente della Cassazione Arnaldo
Valente, e il Presidente della Cassazione Arnaldo Valente è quello che,
trasferendo un pezzo di Mani Pulite fuori Milano, ha salvato dalle attenzioni
di Di Pietro: 1) Berlusconi; 2) un bel po' di ufficiali della Finanza indagati.
Cosicché il povero Valente figlio si trova ad essere, senza alcuna sua colpa,
collegato al salvataggio di tanti illustri colleghi. Peccato per la Finanza, che
non si meritava questa pochade. Peccato per Valente padre, magistrato
perbene ma privo delle sfumature del buon gusto. E peccato per noi
giornalisti che ci troviamo fra i piedi, in mezzo ad una storia scespiriana, un
flash di Alberto Sordi.
Solidarietà con Di Pietro, a parole? Noi no. Tutti sono solidali con Di
Pietro, in questo momento. Fra sei mesi l'avranno dimenticato. Noi, parole
per Di Pietro non ne abbiamo. Ma è quattordici anni che facciamo la sua
stessa guerra. Chinnici, Ciaccio Montalto, Borsellino, Carlo Palermo,
Cassarà, Montana... Quanti Di Pietro son passati, in quattordici anni, per le
pagine dei Siciliani! E quante ipocrisie, quante parole, quanta ferocia nel
colpire - quando sembrava di poterlo fare senza rischi - questi uomini soli...
Soli? Noi abbiamo sempre detto di no. Chinnici e Falcone non erano soli.
Avevano i ragazzini di Palermo. E son loro che, infine, gli hanno permesso
vincere il grosso della battaglia. Non è solo Di Pietro, neanche lui. Ci son
tanti Di Pietro in questo paese, che lui non conosce per nome e noi
nemmeno; ma che però materialmente ci sono, che lottano quotidianamente
per la propria vita, per una scuola più civile, per la messa al bando dei
privilegi, per l'onestà del lavoro, per un ideale insomma che - non avendo
tuttavia un nome preciso, o avendone magari troppi - è esattamente lo stesso
di Di Pietro e di quelli che son venuti prima di lui. Quando
s'incontreranno...
Povero Berlusconi. Berlusconi, come tutti i Berlusconi di questo mondo,
va e viene. Così i Fini, i Craxi, gli Andreotti. Ce ne vuole per toglierli di
mezzo: ma prima o poi ci si riesce. I Di Pietro invece - ma i Borsellino, ma i
Carlo Palermo, ma i Chinnici - cambiano semplicemente di nome: milioni
di altri esseri umani possiedono infatti, e possono svilupparlo in qualsiasi
momento, un pezzetto di loro.
PERTINI
I Siciliani, dicembre 1994
A parte Berlinguer (e non per caso: ma ne parleremo un'altra volta)
nessun uomo politico è tanto dimenticato oggi in Italia quanto è dimenticato
Sandro Pertini. E' legalmente possibile, per il ladro, arrestare il carabiniere?
Può Pietro Maso, una volta fatti a pezzi i genitori, disperderne impunemente
i pezzi nella pubblica via? Debbono le istituzioni italiane rimodellarsi
sull'esempio ("presidenziale") zarista o su quello ("patto sociale") di
Napoleone Terzo? "Avevano ragione" i fascisti e i nazisti o i partigiani? La
prossima volta, cosa faremo degli ebrei? Ammazzare i negri, è proibito o è
una ragazzata da scusare? E le donne: davvero hanno gli stessi diritti
dell'uomo?
Di tutte queste cose si discute alacremente in Italia, e non solo a destra. Si
discute. Pertini era uno che, come pubblico funzionario, a un certo punto
troncava le discussioni. Quando un capopartito piduista andò - come
capopartito - a fargli visita al Quirinale, lui non si mise a discutere: gli
chiuse la porta in faccia.
Mai con Pertini un piduista, indagato per intrallazzi e tangenti, sarebbe
rimasto a capo del governo. Mai con Pertini un Di Pietro avrebbe potuto
andarsene solo e disperato, fra le sghignazzate dei ladri e i cincischiamenti
della gente perbene. Mai la servitù di Berlusconi avrebbe osato ingiuriare a
man salva, coi nostri soldi, i giudici che rischiano la pelle per tutti noi.
Pertini non c'è più. Ma restano i suoi cittadini. Essi hanno da battersi, ogni
giorno, per guadagnarsi la vita - la sopravvivenza privata, individuale, di
ciascuno di noi - e non hanno molto tempo per la politica. A volte anche
dormono, alle volte si fanno prendere in giro. Ma, nel loro complesso, e nei
tempi lunghi, hanno buona memoria. Ricordano perfettamente cosa vuol
dire Pertini, anche se la televisione non gliene parla più. Hanno un'idea
precisa di che cosa vuol dire "istituzioni dello Stato", "diritti degli operai",
"democrazia". Sanno con precisione che cosa c'è dopo Pertini, se Pertini
non torna, se l'anti-Pertini dura troppo: la guerra civile.
Dicono queste cose, i cittadini di Pertini, con tutti i mezzi rimasti loro a
disposizione: i cortei, gli scioperi, la lotta per sopravvivere ogni giorno nella
propria città, nel proprio luogo di lavoro. E' un linguaggio ben semplice,
eppure ben difficile da capire per chi sta al governo e anche, molto spesso,
per chi sta all'opposizione. Speriamo che sia compreso, prima che arrivi il
crack.
Linguaggio, comunicare le cose, informarsi, saperne di più: non è per
caso che i primi nemici del governo, dopo i giudici onesti, sono i giornalisti
onesti. Qui avremmo molte cose da dire. Ma tutto sommato superflue: chi
vuol discutere di informazione con noi può benissimo limitarsi a guardare
queste trentadue paginette, veder cosa c'è dentro, pensare con che sacrifici e
in che condizioni sono state fatte (e non per sei mesi o un anno, ma per
quattordici anni di fila) e avrà capito benissimo tutto quel che c'è da capire.
Se non capisce così è meglio che vada a discutersela tranquillamente, la
libera informazione, nei salotti perbene.
E questo è quanto. Finisce un anno di lotta, un altro anno di lotta va a
cominciare: coi Siciliani a volte forti e a volte deboli, a volte vincitori ed
altre no, ma sempre dalla parte della gente che affolla il mondo - lavoratori,
emigranti, giovani in cerca di un avvenire - per vivere la propria vita e non
per comprare quella degli altri. Sarà un anno, in ogni caso, da ricordare.
(Originariamente, questo foglietto, era destinato a una polemicuzza verso
la brava gente che dà solidarietà "antimafia" a gente, come l'editore Mario
Ciancio, che dei poteri mafiosi è stato, volente o nolente, una colonna. Ma
ne vale la pena? Con quel che costa la carta...)
"GARANTISCO IO!"
I Siciliani, gennaio 1995
Ricordate gli operai di Catania che avevano occupato la cattedrale per non
essere licenziati da Rendo? Alla fine, ci fu l'accordo: niente licenziamenti,
dissero al ministero del lavoro, ma contratti (a paga ridotta) "di solidarietà".
Non era granché come accordo: ma sempre meglio d'un calcio nel sedere. I
politici tornarono con gran sorrisi da Roma: "Ecco l'accordo! - dissero Ringraziate il governo".
Adesso gli operai son tornati a Roma a vedere che fine aveva fatto il loro
contratto di solidarietà. "Ci spiace tanto - gli han detto - Purtroppo il
contratto di solidarietà non è compatibile con le fabbriche in cassa
integrazione. C'è scritto qui, vedete? Hanno fatto il decreto". Gli operai si
sono guardati in faccia. "Se vi sta bene, qua c'è un piano di smantellamento
della fabbrica, prepensionamenti accelerati. Sennò, affari vostri".
Bene, uno degli ultimi atti del governo Berlusconi è stato proprio di
pensare agli operai di Catania e agli altri operai come loro. Siccome la legge
non lo prevedeva esplicitamente, han fatto un decreto apposta - all'ultimo
momento - per statuire che gli operai di Catania, e gli altri operai come loro,
non hanno diritto a niente. (Intanto, quatto quatto, Rendo s'è fatto
riconfermare gli appalti che le banche, per i suoi passati intrallazzi, non gli
finanziavano più). "Ma avevano garantito anche i politici! Ma c'era la parola
del governo!".
Appunto. Questa è una delle due strade per difendere l'occupazione.
Fidarsi dei politici, fidarsi della parola del governo. Specialmente di un
governo come quello di Berlusconi, con le ville in Sardegna. e gli yacht a
Portofino. L'altra strada è di non fidarsi dei politici, non fidarsi di
Berlusconi, non fidarsi di questi governi; e se proprio bisogna fidarsi di
qualcuno, che sia di gente come il sindacalista Giuseppe Di Vittorio o il
giudice Giorgio Chinnici.
Uno teneva uniti i lavoratori, l'altro confiscava le ricchezze dei mafiosi.
Non si sono conosciuti mai. E se ci provassimo noialtri - disoccupati,
lavoratori, giovani in cerca di vita, militanti antimafiosi - a farli incontrare?
I soldi di Tangentopoli, dei boss mafiosi, dei politici ladri, dei cavalieri
dell'apocalisse possono servire, con le dovute maniere, a creare milioni di
posti di lavoro, posti di lavoro veri e non fasulli. E' una vecchia idea dei
Siciliani a cui nessuno, chissà perché, ha mai dato conto. Ma nei prossimi
mesi, chissà, potrebbe persino tornare attuale.
L'ANNO CHE VIENE
I Siciliani, gennaio 1995
Siamo un paese di fatto già fuori della legge. Abbiamo due poteri ufficiali,
in contrasto fra loro: un presidente del Consiglio senza più maggioranza
parlamentare, che però non vuole andarsene e minaccia colpi di mano e un
presidente della Repubblica che rivendica il suo diritto ad applicare la
Costituzione - che il rivale non riconosce più.
L'ultima situazione del genere (ma infinitamente meno grave) risale al
1964, ai tempi del generale De Lorenzo: il golpe effettivo non ci fu ma la
minaccia del golpe - la deterrenza come arma effettiva, avrebbe detto von
Tirpitz - cambiò radicalmente la politica italiana dei successivi vent'anni. Il
"nuovo", rappresentato allora dal centrosinistra venne castrato delle sue
spinte innovative e ricondotto all'alveo dei poteri economici costituiti: fra
cui, allora come oggi, quelli mafiosi. Cambiare tutto perché non cambi
niente: ventilando, diversamente, il ricorso alla forza e alla guerra civile. E
siamo già a questo punto.
I poteri mafiosi, dal loro canto, fanno il loro mestiere. Con Andreotti, con
Craxi, adesso con Berlusconi e domani (il caso Mandalari è illuminante) se
non basterà Berlusconi anche con Fini. E' una regola della mafia, non ci
sorprende.
Non c'è nessun partito, oggi, culturalmente in grado di combattere questa
strettissima alleanza fra berlusconesimo, fascismo e Cosa Nostra. Non c'è
manovra politica (men che mai le buttiglionate e le bosserie su cui la
sinistra sta ora giocando le sue carte) in grado di coagulare, nei tempi stretti
che abbiamo davanti, un blocco sociale alternativo. Sono stati i pensionati,
fino a questo momento, i soli a infliggere colpi a Berlusconi: i pensionati, i
giornalisti democratici, le strutture operaie di base, gli studenti. Hanno
imposto passi indietro all'avversario, ogni volta che sono scesi in campo.
Stanno attendendo tuttora che qualcuno raccolga la loro forza. Ma stanno
attendendo invano. La democrazia è forte nelle case, fortissima in piazza,
ma debole e malcerta nei corridoi del potere.
Non bastano i partiti a raccogliere questa forza. Ci vuole una cultura forte
e complessiva, che fonda organizzazione unitaria e spirito di battaglia. Che
nasca - quanto è banale dirlo, e quanto urgente - dalla base. Che si ponga
non come aggregazione momentanea di basso profilo, ma come nucleo
prefigurante di un nuovo moderno e alternativo patto sociale. Con un
gruppo dirigente adeguato, serio "professionalmente" ma strettissimamente
legato alla base.
Noi dei Siciliani ci abbiamo provato quattro anni fa, quando siamo riusciti
a mettere attorno a un tavolo quelli che allora apparivano, nei vari segmenti
della sinistra, gli uomini più innovativi e meglio disposti a servire, con
umiltà e coraggio, la causa dell'unità popolare. Comunisti come Novelli e
Galasso, cattolici come Pintacuda e Orlando, moderati come dalla Chiesa:
abbiamo puntato su questi uomini, a suo tempo, non perché ci fosse bisogno
di un ennesimo partito nuovo ma per creare il nucleo di qualcosa che
andasse molto oltre i partiti; che unisse trasversalmente, sull'esempio della
Resistenza che avevano vissuto i nostri padri e della lotta antimafia che
avevamo vissuto in prima persona tutti noi, le forze più risolute e
responsabili di tutta la democrazia.
Mentr'essi discutevano, nelle altre stanze della rivista democratica romana
che materialmente li ospitava la redazione continuava affaccendata il suo
lavoro. Era una redazione giovane, di giovani giornalisti venuti solidamente
su dalla base sul modello dei Siciliani: nucleo ed esempio - pensavamo - di
molti e molti altri gruppi di giovani professionisti efficienti, moderni e
strettissimamente legati ai valori, alle lotte e alla vita quotidiana della
democrazia.
Le cose non sono andate esattamente come quattro anni fa - sentendo
confusamente la tempesta che da lontano si preannunciava, e oppressi da un
senso d'urgenza che non riuscivamo noi stessi a spiegarci - avremmo voluto
farle andare. Chi doveva far cielleenne ha sprecato dei tempi (da
galantuomini s'intende, e da galantuomini di coraggio: come i vecchi
socialisti che non riuscirono, a suo tempo, a contrastar Mussolini) a fare
partiti e partitini. Chi doveva por mano alle fondamenta di un meccanismo
dell'informazione radicalmente moderno e alternativo, ha preferito far bene
(da galantuomini sempre: sulle orme dei Giovanni Amendola e degli
Albertini) un giornalismo tradizionale, basato su pochi specialisti e senza
debordamenti sostanziali dall'autosufficienza della professione.
Sono passati quattro anni e la situazione è incomparabilmente più grave.
Ma noi non conosciamo altra strada. Politica e informazione si debbono
contemporaneamente rinnovare. Non per servirsi l'un l'altra, ma per
esprimere entrambe con conseguenzialità e pienezza (in ambiti assai diversi,
e a volte concorrenziali) una realtà di base che è assai più avanzata di
quanto i nostri vecchi strumenti riescano a contenere.
Da qui - in questi tempi difficili - il Progetto giornalistico dei Siciliani, da
qui il rilancio dell'Associazione I Siciliani. Sono strumenti piccoli, per tanto
e così difficile lavoro. Ma sono, per quanto piccoli, un modello.
A Barcellona in provincia di Messina l'anno comincia con una scena che,
nel dolore che evoca e nell'oscenità che vi si avventa, esemplifica bene il
clima della nazione. Parliamo della commemorazione di Giuseppe Alfano,
ucciso dalla mafia nel gennaio '93. Alfano, corrispondente locale de "La
Sicilia", è stato letteralmente tradito da questo giornale: il magistrato
indagante sul suo assassinio, per averne almeno le copie delle
corrispondenze, ha dovuto por mano ai poteri di legge. Il rappresentante de
"La Sicilia" è stato tuttavia invitato alla commemorazione.
Alfano fu ucciso mentre lavorava allo smascheramento di un affare
mafioso; contemporaneamente a lui si batterono il nostro collaboratore
milazzese, che fu poi il primo a denunciarne pubblicamente, sul primo
numero dei Siciliani, i colpevoli della morte, e un giovane sindacalista,
anche lui di Milazzo, cui incendiarono l'automobile per avvertimento. L'uno
e l'altro, due anni dopo, ignorati dalle autorità ufficiali. Italia, Italia...
L'ASSOCIAZIONE I SICILIANI
gennaio 95
L'Associazione I Siciliani, alla fine del 1994, ha raggiunto la quota di
seicentoquattro iscritti. I soci - provenienti da tutte le regioni d'Italia - si
sono aggregati, nei mesi scorsi, soprattutto intorno al Progetto Quotidiano.
Il Progetto, come sapete, ha avuto una battuta d'arresto in seguito alla
defezione di alcuni industriali siciliani, il cui impegno è venuto meno dopo
l'ascesa al potere di Berlusconi.
Non intendiamo tuttavia abbandonarlo. Intanto, per la risposta - ben
diversa da quella degli industriali - che è venuta al Progetto dalla società
civile siciliana e nazionale: una risposta (di cui le seicentoquattro adesioni
all'Associazione sono un segnale eloquente) talmente entusiasmata e decisa
da renderci assolutamente impossibile anche solo l'idea di lasciarla cadere.
E poi perché permangono intatte, a nostro vedere, le ragioni tecniche e di
mercato che ci avevano spinto, più di un anno fa, ad elaborare il Quotidiano.
Il Progetto ha dimostrato, in quest'anno, di essere perfettamente adeguato
allo stato dell'arte. Ed ha prospettato una serie di soluzioni tecnico professionali assolutamente nuove che, a distanza di mesi, sono poi state
tranquillamente recepite nel mondo dell'editoria. La sinergia con redazioni
"leggere" e fogli autonomi locali, l'uso massiccio del personal computer in
fase di prestampa, l'integrazione di reti telematiche e Bbs nella produzione
del giornale: queste innovazioni sono state teorizzate contemporaneamente
per la prima volta nel nostro progetto.
Ma il raggiungimento dell'obiettivo del quotidiano - come abbiamo già
riferito nei mesi scorsi - rimane legato ad una serie di fattori che non
dipendono dalla nostra volontà. E' vero che le condizioni di mercato che ci
avevano spinto a elaborare il Progetto sono rimaste immutate (i quotidiani
tradizionali della regione, Berlusconi o non Berlusconi, continuano a
perdere lettori; il governo che li ha salvati - insieme a tanti altri superstiti
dell'era di Craxi e Andreotti - è caduto; le forze democratiche, con tutti i
loro limiti e le loro contraddizioni, tornano ad avere prospettive vincenti, se
sapranno afferrarle, davanti a sé). Ma è anche vero che per fare un
quotidiano ci vogliono, brutalmente, svariati miliardi. Da parte nostra,
possiamo legittimamente porci l'obiettivo di tener duro, di non abbandonare
gli obiettivi più ambiziosi, di tenere alto il livello qualitativo e tecnico della
nostra impresa. Ma quando si presenterà l'occasione non potremo,in ogni
caso, coglierla da soli.
Ci sono alcuni obiettivi, però, che possiamo raggiungere fin da subito.
Perché I Siciliani non sono mai stati solo un giornale. I Siciliani sono stati
anche, per più di dieci anni, un luogo di impegno civile, un punto di
aggregazione per i giovani e per il movimento antimafioso, il simbolo di
molte battaglie "contro" e di molte battaglie "per". I Siciliani, oggi,
continuano ad essere tutto questo. I Siciliani lavorano per unire battaglie,
storie ed esperienze ovunque maturate, intorno ad un progetto e a dei valori
comuni. L'Associazione I Siciliani, da più di dieci anni, è stato lo strumento
per raggiungere tutto questo. E può diventare, da ora, il punto di riferimento
- ideale ed organizzativo - per chi intende andare avanti su questa strada.
Sono in fase di organizzazione, in diverse città d'Italia (Milano, Napoli,
Roma, da dove più numerose sono venute le adesioni), le assemblee locali
dell'associazione. Ad esse - prevedibilmente ai primi di marzo - farà seguito
l'assemblea nazionale. Saranno momenti per contarsi, per cominciare a fare
alcune cose concrete. L'obiettivo a breve termine è di organizzare
dappertutto i circoli e le sedi dei Siciliani.
E il giornale? Noi, fidando nel nostro lavoro e nella solidarietà di tutti i
nostri lettori e amici, andiamo avanti. Il pericolo più grave adesso è di
carattere professionale. L'inasprirsi della lotta politica potrebbe infatti
indurci, anche senza volerlo, ad affidare la riuscita del Progetto solo alla
"linea politica" e non anche al livello qualitativo. Se gl'industriali siciliani
sono rimasti indietro a noi spetta il dovere professionale, oggi come ieri, di
tenerci allo stato dell'arte, di lavorare perché i progetti che presentiamo
(vengano o meno accolti dai nostri interlocutori) siano sempre al massimo
livello tecnico/giornalistico e siano realisticamente posizionabili sul
mercato.
Abbiamo conosciuto vittorie e sconfitte, nella nostra storia; ma non ci
siamo mai esaltati né scoraggiati eccessivamente, e soprattutto siamo
sempre riusciti a coniugare la lotta per un ideale con la stretta osservanza
delle norme tecniche del nostro mestiere. Le due cose non possono essere
separate l'una dall'altra, a pena di diventare o dei professionisti senz'anima
(condannati prima o poi a venir riassorbiti dal sistema) o dei "rivoluzionari"
ciarloni, dalla cui predicazione non viene né danno né bene. Noi, invece,
siamo i Siciliani.
Ai nostri lettori, ai nostri amici, agli aderenti dell'Associazione chiediamo
dunque di sostenerci con fiducia e fermezza come hanno fatto finora. Non ci
attendiamo cose impossibili da loro, né loro ni, in Italia - non solo,
certamente, il nostro; ma il nostro sicuramente - che non da un anno o due,
ma da quattordici anni lotta faticosamente per la democrazia, che non ha
paura di prendere le posizioni più radicali quando ce n'è bisogno e che nel
contempo si vanta, nella propria storia, di avere raccolto insieme il giovane
del centro sociale e il notaio liberale, la professoressa di paese e gli operai
in lotta; di aver rispettato ciascun partito e sindacato ed esponente
democratico, da cittadini, in quani, in Italia - non solo, certamente, il nostro;
ma il nostro sicuramente - che non da un anno o due, ma da quattordici anni
lotta faticosamente per la democrazia, che non ha paura di prendere le
posizioni più radicali quando ce n'è bisogno e che nel contempo si vanta,
nella propria storia, di avere raccolto insieme il giovane del centro sociale e
il notaio liberale, la professoressa di paese e gli operai in lotta; di aver
rispettato ciascun partito e sindacato ed esponente democratico, da cittadini,
in quanto tale, ma senza mai legarsi in modo acritico a nessuno di essi e
avendo anzi il coraggio e il senso di responsabilità di criticare
pubblicamente e paritariamente ciascuno di essi, senza mezze parole,
quando ce n'è stato bisogno.
L'esistenza di un simile collettivo, che non è e non sarà mai un partito ma
è da molto tempo un soggetto politico che ha molte cose da dire, arricchisce
- a nostro vedere - tutta la democrazia italiana; e anche in questo senso va
sostenuta, anche sulla base di motivazioni che travalicano l'aspetto
puramente giornalistico di questo lavoro.
RADICI
I Siciliani, gennaio 1995
L'Associazione I Siciliani, alla fine del 1994, ha raggiunto la quota di
seicentoquattro iscritti. I soci - provenienti da tutte le regioni d'Italia - si
sono aggregati, nei mesi scorsi, soprattutto intorno al Progetto Quotidiano.
Il Progetto, come sapete, ha avuto una battuta d'arresto in seguito alla
defezione di alcuni industriali siciliani, il cui impegno è venuto meno dopo
l'ascesa al potere di Berlusconi.
Non intendiamo tuttavia abbandonarlo. Intanto, per la risposta - ben
diversa da quella degli industriali - che è venuta al Progetto dalla società
civile siciliana e nazionale: una risposta (di cui le seicentoquattro adesioni
all'Associazione sono un segnale eloquente) talmente entusiasta e decisa da
renderci assolutamente impossibile anche solo l'idea di lasciarla cadere. E
poi perché permangono intatte, a nostro vedere, le ragioni tecniche e di
mercato che ci avevano spinto, più di un anno fa, ad elaborare il Quotidiano.
Il Progetto ha dimostrato, in quest'anno, di essere perfettamente adeguato
allo stato dell'arte. Ed ha prospettato una serie di soluzioni tecnico professionali assolutamente nuove che, a distanza di mesi, sono poi state
tranquillamente recepite nel mondo dell'editoria. La sinergia con redazioni
"leggere" e fogli autonomi locali, l'uso massiccio del personal computer in
fase di prestampa, l'integrazione di reti telematiche e Bbs nella produzione
del giornale: queste innovazioni sono state teorizzate contemporaneamente
per la prima volta nel nostro progetto.
Ma il raggiungimento dell'obiettivo del quotidiano - come abbiamo già
riferito nei mesi scorsi - rimane legato ad una serie di fattori che non
dipendono dalla nostra volontà. E' vero che le condizioni di mercato che ci
avevano spinto a elaborare il Progetto sono rimaste immutate (i quotidiani
tradizionali della regione, Berlusconi o non Berlusconi, continuano a
perdere lettori; il governo che li ha salvati - insieme a tanti altri superstiti
dell'era di Craxi e Andreotti - è caduto; le forze democratiche, con tutti i
loro limiti e le loro contraddizioni, tornano ad avere prospettive vincenti, se
sapranno afferrarle, davanti a sé). Ma è anche vero che per fare un
quotidiano ci vogliono, brutalmente, svariati miliardi. Da parte nostra,
possiamo legittimamente porci l'obiettivo di tener duro, di non abbandonare
gli obiettivi più ambiziosi, di tenere alto il livello qualitativo e tecnico della
nostra impresa. Ma quando si presenterà l'occasione non potremo,in ogni
caso, coglierla da soli.
Ci sono alcuni obiettivi, però, che possiamo raggiungere fin da subito.
Perché I Siciliani non sono mai stati solo un giornale. I Siciliani sono stati
anche, per più di dieci anni, un luogo di impegno civile, un punto di
aggregazione per i giovani e per il movimento antimafioso, il simbolo di
molte battaglie "contro" e di molte battaglie "per". I Siciliani, oggi,
continuano ad essere tutto questo. I Siciliani lavorano per unire battaglie,
storie ed esperienze ovunque maturate, intorno ad un progetto e a dei valori
comuni. L'Associazione I Siciliani, da più di dieci anni, è stato lo strumento
per raggiungere tutto questo. E può diventare, da ora, il punto di riferimento
- ideale ed organizzativo - per chi intende andare avanti su questa strada.
Sono in fase di organizzazione, in diverse città d'Italia (Milano, Napoli,
Roma, da dove più numerose sono venute le adesioni), le assemblee locali
dell'associazione. Ad esse - prevedibilmente ai primi di marzo - farà seguito
l'assemblea nazionale. Saranno momenti per contarsi, per cominciare a fare
alcune cose concrete. L'obiettivo a breve termine è di organizzare
dappertutto i circoli e le sedi dei Siciliani.
E il giornale? Noi, fidando nel nostro lavoro e nella solidarietà di tutti i
nostri lettori e amici, andiamo avanti. Il pericolo più grave adesso è di
carattere professionale. L'inasprirsi della lotta politica potrebbe infatti
indurci, anche senza volerlo, ad affidare la riuscita del Progetto solo alla
"linea politica" e non anche al livello qualitativo. Se gl'industriali siciliani
sono rimasti indietro a noi spetta il dovere professionale, oggi come ieri, di
tenerci allo stato dell'arte, di lavorare perché i progetti che presentiamo
(vengano o meno accolti dai nostri interlocutori) siano sempre al massimo
livello tecnico/giornalistico e siano realisticamente posizionabili sul
mercato.
Abbiamo conosciuto vittorie e sconfitte, nella nostra storia; ma non ci
siamo mai esaltati né scoraggiati eccessivamente, e soprattutto siamo
sempre riusciti a coniugare la lotta per un ideale con la stretta osservanza
delle norme tecniche del nostro mestiere. Le due cose non possono essere
separate l'una dall'altra, a pena di diventare o dei professionisti senz'anima
(condannati prima o poi a venir riassorbiti dal sistema) o dei "rivoluzionari"
ciarloni, dalla cui predicazione non viene né danno né bene. Noi, invece,
siamo I Siciliani.
Ai nostri lettori, ai nostri amici, agli aderenti dell'Associazione chiediamo
dunque di sostenerci con fiducia e fermezza come hanno fatto finora. Non ci
attendiamo cose impossibili da loro, né loro se le attendono da noi:
contiamo reciprocamente gli uni sugli altri, buoni a difendere il fronte
quando la situazione della democrazia è minacciata, pronti a far passi avanti
tutti insieme appena si presenti un'occasione per estendere il terreno dei
cittadini, nel campo dell'informazione e in tutti gli altri.
Già nei prossimi mesi avremo delle novità, riguardanti il giornale, che
dovrebbero incoraggiare le aspettative di quanti hanno deciso di
riconoscersi nel nostro progetto.
Esiste un gruppo di esseri umani, in Italia - non solo, certamente, il
nostro; ma il nostro sicuramente - che non da un anno o due, ma da
quattordici anni lotta faticosamente per la democrazia, che non ha paura di
prendere le posizioni più radicali quando ce n'è bisogno e che nel contempo
si vanta, nella propria storia, di avere raccolto insieme il giovane del centro
sociale e il notaio liberale, la professoressa di paese e gli operai in lotta; di
aver rispettato ciascun partito e sindacato ed esponente democratico, da
cittadini, in quanto tale, ma senza mai legarsi in modo acritico a nessuno di
essi e avendo anzi il coraggio e il senso di responsabilità di criticare
pubblicamente e paritariamente ciascuno di essi, senza mezze parole,
quando ce n'è stato bisogno.
L'esistenza di un simile collettivo, che non è e non sarà mai un partito ma
è da molto tempo un soggetto politico che ha molte cose da dire, arricchisce
- a nostro vedere - tutta la democrazia italiana; e anche in questo senso va
sostenuta, anche sulla base di motivazioni che travalicano l'aspetto
puramente giornalistico di questo lavoro.
PRONTO, PADRINO?
I Siciliani, febbraio 1995
Ci telefona una signora di Palermo che, insieme col marito ingegnere,
porta avanti da ventisette anni una piccola impresa poco più che familiare.
L'anno scorso ha avuto delle difficoltà: si è rivolta alle banche per un
piccolo finanziamento, Le banche le hanno detto di no. Ma la solidità della
ditta, ma i ventisett'anni di scadenze rigorosamente coperte, ma l'interesse
della produzione, ma i sei-sette poveri posti di lavoro? No. Ed è rimasto no.
Quasi contemporaneamente - ed è il motivo per cui la nostra lettrice ci ha
telefonato - le banche hanno generosamente salvato le allegre finanze del
Gruppo Costanzo. Motivo: l'economia siciliana, la difesa dell'occupazione
ecc. I Costanzo, per qualunque banca di un paese civile, sarebbero un
cliente da cacciare a schioppettate: crediti inesigibili, somme "in
sofferenza", amministrazione aziendale quantomeno non trasparente. Ma
tant'è. Una volta, nelle banche c'erano i democristiani, e regalavano soldi ai
cavalieri. Adesso, ci sono i berlusconiani e i fasisti, e continuano a regalare
soldi - i nostri soldi - a Costanzo e affiliati. La Dc è morta, ma c'è sempre la
Dc.
Bene, qui avrebbe dovuto esserci un pensoso editoriale sulla situazione
politica, sui limiti dell'opposizione e sui problemi del neo-candidato Prodi.
Ma, a questo punto, è inutile perdere tempo in chiacchiere.
Un governo di sinistra, o di centro sinistra, o semplicemente occidentale,
nel caso Costanzo avrebbe dato precise istruzioni alle banche (che, nel caso
nostro, sono a capitale prevalentemente pubblico): acquisire senza
complimenti le proprietà Costanzo; affidarne la gestione a un manager di
provata esperienza; cointeressare gli operai nel risanamento mediante un
rapporto strettissimo con Consigli di fabbrica e sindacati. Salvare
l'occupazione, insomma, senza regalar denari ai collusi; sanare l'economia
dell'azienda cominciando col mettere in condizione di non nuocere i padroni
incapaci; risolvere il problema una volta per tutte, in maniera sana e
definitiva, e non mettere una pezza per trovarsi in condizione di dover
regalare altri miliardi, da qui a un anno, agli incapaci e ai collusi.
Prodi, che cosa farebbe in un caso del genere? A chi farebbe pagare il
risanamento? E a chi lo affiderebbe? Il problema, col marco a
millecinquantasei lire, è tutto qua.
ELOGIO DELL'INSUFFICIENZA
(AD USO DI NOI MEDESIMI)
I Siciliani, febbraio 1995
Questo è un buon numero dei Siciliani. Ancora una volta i nostri redattori,
dopo un paziente esame dei documenti e un'accurata verifica giornalistica di
fatti e circostanze, sono riusciti a tirar fuori una verità nascosta, a mettere al
servizio del cittadino-lettore un elemento in più. Questo lavoro è stato fatto
in circostanze difficili - come tutto il resto -, con estrema povertà di mezzi e
con assoluta professionalità e dedizione. E' stato fatto da giornalisti della
seconda e terza generazione dei Siciliani. Perciò, da "vecchio" della brigata,
me ne sento particolarmente orgoglioso. Alla salute, compagni.
Questo è un "cattivo" numero dei Siciliani. E' stato infatti interamente
diretto dal gruppo redazionale catanese, senza sostanziali allargamenti alla
capacità decisionale dei compagni fuori Catania. Questo, dal mio punto di
vista, è un peccato grave. I poteri della direzione, in un giornale come il
nostro, sono (giustamente) assai limitati. Non è quindi un peccato mio, che
sarebbe facilmente rimediabile, ma un peccato collettivo.
Noi abbiamo imparato, molto tempo fa, che non siamo autosufficienti. Ci
sono delle cose che sappiamo fare molto bene, ma ce ne sono altre che altri
sanno fare meglio di noi. Ci sono delle intuizioni e idee che noi abbiamo
sviluppato prima degli altri; ma ce ne sono altre che altri hanno sviluppato
senza di noi. Il nostro lavoro consiste nel portare avanti il meglio possibile
le idee, le intuizioni, il lavoro nostro; ma anche - e con pari importanza nell'esser punto di riferimento e strumento per molti altri esseri umani come
noi, che non hanno la nostra identica storia, che sono felicemente diversi da
noi, e che valgono quanto noi per capacità, per dignità, per attitudine a
prendere decisioni.
Perciò abbiamo sempre fatto posto, nell'impresa dei Siciliani, a delle
componenti esterne e tuttavia il più possibile libere di partecipare con
autonomia al lavoro comune; i più anziani di noi ricordano la storia del
nostro settore giovanile, SicilianiGiovani, di dieci anni fa, e ricordano anche
che il riconoscimento di quest'autonomia non fu affatto pacifico né privo di
contrasti all'interno della redazione "ufficiale". Questa libertà e questo
riconoscimento ci hanno permesso allora di andare avanti, di arricchirci di
contributi e saperi che da soli non avremmo mai potuto avere, di non
diventare una setta. Se tanti hanno guardato al nostro piccolo gruppo come a
un punto di riferimento, in questi dieci anni, è stato anche perché in noi
hanno visto anche questo riconoscimento di non-autosufficienza.
Siamo abbastanza orgogliosi da non ritenerci affatto inferiori al "grande"
giornalismo, coi nostri poveri mezzi; ma siamo - dobbiamo essere abbastanza umili da non ritenerci estranei o superiori a nessuno che faccia,
da direzioni diverse, la nostra stessa strada. I Siciliani è una cosa troppo
bella e importante per appartenere solo ai Siciliani.
LA PIOVRA
I Siciliani, marzo 1995
Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe il
"referente romano" di Cosa Nostra. Sua Eccellenza il Ministro dell'Interno
aveva a che fare con la camorra. I due massimi banchieri del paese, Sindona
e Calvi, erano rispettivamente tesoriere della mafia e della P2. Al Ministero
della Difesa (competente, fra l'altro, sui Carabinieri) per due volte sono
andati personaggi vicini a questo o quel boss mafioso: le Eccellenze Attilio
Ruffini e Salvo Andò. Dalla mafia, viceversa, sono stati ammazzati: tutti i
principali giudici di Palermo; un generale dei carabinieri; il presidente della
Regione siciliana; i poliziotti che indagavano su Cosa Nostra; il capo
dell'opposizione parlamentare in Sicilia; i giornalisti impegnati contro la
mafia; un numero indefinito di cittadini, nell'ordine delle centinaia, che in
un modo o nell'altro davano fastidio alla mafia, cioè al potere, cioè - in
definitiva - al Governo.
Questa è la situazione reale, e tutto il resto è chiacchiera, o - con un tasso
maggiore o minore di malafede - rumore di fondo. Contro i poteri definiti
sopra abbiamo lottato per quattordici anni, noi e molti altri esseri umani che
avevano a cuore il loro paese, e sempre siamo stati tacciati di "cultura del
sospetto", di "estremismo", e chi più ne ha più ne metta. Adesso siamo
arrivati a una svolta. Se Andreotti è colpevole - e ci sono voluti quattordici
anni per portarlo sotto processo - allora è un intero sistema che dev' essere
chiamato a pagare. Se gli uomini della "seconda" repubblica risultano come si sta verificando in Sicilia e come ogni mese, compreso questo, noi
documentiamo - anch'essi collusi, allora non solo un passato governo è
evidentemente colpevole, ma tutta una classe dirigente. Compresa quella gattopardescamente "rinnovata" - che ci sta governando adesso.
Tutto qua. Il momento è grave, non c'è da farsi illusioni. Cosa Nostra è
all'attacco (e ci mancherebbe altro: coi suoi massimi "referenti" costretti a
difendersi, e con la partita del governo definitivo, o meglio del potere, da
decidersi entro l'anno...). Noi siamo qui, non veniamo meno ai nostri doveri
d'informazione e di chiarezza, misuriamo attentamente le nostre parole, e
non mutiamo di campo.
PROMEMORIA
appunti interni, marzo 1995
Turni - I turni copriranno per il momento - in via sperimentale - la mattina
dalla 10 alle 14. Ogni turno comprende uno dei Siciliani e, a partire dalla
fine dello stage, uno stagista. I responsabili dei turni debbono in particolare:
- leggere un giornale nazionale ed uno regionale;
- segnalare alla fine della mattinata le tre-quattro notizie principali o
comunque meritevoli d'intervento;
- curare l'ordinaria amministrazione del giornale nella mattinata e
trasmetterla al turnista successivo.
Riunioni - La riunione settimanale ordinaria (palinsesto e altro) rimane
ogni martedì alle 18. Una riunione più breve (quindici minuti di punto della
situazione) avrà luogo ogni giorno alla stessa ora, con i redattori "anziani"
(Gianfranco, Sabastiano, Elvirta) presenti in sede e con chi vorrà
eventualmente partecipare.
Passaggio pezzi - Chi fa un pezzo deve fare anche una proposta di titolo e
sommario e proccedere, insieme con Claudio Floresta, a proporre delle
illustrazioni.
Prego tutti di farmi vedere tempestivamente le stampate dei pezzi in
lavorazione. Ipezzi di carattere investigativo debbono inoltre essere visti e
approvati, prima del passaggio in pagina, da Sebastiano o da Gianfranco.
Fuori Sicilia - Elvira terrà i contatti ordinari con i compagni fuori Sicilia,
puntando a coinvolgere ciascuno di loro nell'ideazione del palinsesto,
tenendoli aggiornati sull'andamento della lavorazione e sollecitando
costantemente da loro idee e suggerimenti.
Inserto - A partire dal numero di aprile cominceremo a pubblicare l'inserto
"L'Alba" in comune con "Rosso e Nero" di Pescara, "L'Urlo" di Ancona ed
altre eventuali testate che aderiranno dal 18 marzo in poi all'iniziativa. Gli
argomenti di carattere giovanile vanno dirottati, in linea di massima,
nell'inserto.
Modem - I compagni indicati sopra dovranno curare, a partire da maggio,
una serie di passaggi via modem. E' quindi necessario che ciascuno di loro
impari, con la collaborazione di Gianfranco, a usare il modem.
Grafica - I compagni indicati sopra debbono in condizioni di impaginare.
Sono a disposizione da subito per insegnare XPress. Alla fine dello stage,
comincerà un corso di grafica (teoria generale, architettura tipografica,
XPress e Photoshop) per gli stagisti che ne faranno richiesta e per i
redattori.
Motivazioni - Uno rilancio organizzativo molto accentuato è richiesto
dalle seguenti circostanze:
- Dobbiamo elevare la qualità del mensile e il coinvolgimento in esso del
più grande numero possibile di risorse umane, sia in Sicilia che fuori;
- Dal 18 marzo in poi cercheremo di forzare alcuni passaggi nel
rapporto/sviluppo con le testate locali, a partire da "Rosso e Nero" ma
puntando subito a un pool di tre-quattro testate;
- Dalla metà di marzo cominceremo a lavorare per il secondo prodotto, il
magazine modello '83;
- Da subito, dobbiamo metterci in moto per raggiungere (periodo previsto:
da due a quattro mesi) le condizioni organizzative per passare a settimanale.
Le condizioni finanziarie potrebbero infatti essere mature già all'inizio
dell'estate.
BAVAGLIO
I Siciliani, aprile 1995
Dopo quindici anni di tolleranza, anche il Tribunale di Catania ha stabilito
che il cavaliere del lavoro Gaetano Graci è un mafioso. E che la sua
cospicua fortuna (banche, rendite immobiliari, partecipazioni azionarie,
giardinbi, alberghi) è in buona parte frutto delle sue illecite attività. Le
conclusioni a cui giunge oggi la giustizia, e che investono non solo Graci
ma il ruolo svolto da un quarto di secolo in Sicilia da taluni capitani
d'industria (i cavalieri di Catania, i Cassina di Palermo, la dinastia dei Salvo
a Trapani) furono anticipati dalle inchieste giornalistiche di questo giornale
fin dal suo primo numero, tredici anni fa. Tredici anni di impunità. Se la
sfida per il ripristino della legalità è ancora così precaria, lo dobbiamo
anche al ritardo con cui una parte della magistratura ha scelto di operare nei
confronti dei politici e degli imprenditori collusi con la mafia.
Ma è d'altro che oggi ci interessa parlare. E' di questo patrimonio che la
giustizia ha posto sotto sequestro: i miliardi del cavaliere Graci, i suoi beni,
la sua ricchezza. Alfredo Galasso, in un editoriale su questo numero dei
Siciliani, chiede che il patrimonio di Graci venga destinato a scopi leciti e
socialmente utili. Noi facciamo una proposta: datelo ai Siciliani, datelo al
nostro giornale. Vincolato ad uno scopo di sicura utilità: la pubblicazione di
un quotidiano. Perché lo sappiamo tutti: se in questi anni fosse esistito un
quotidiano realmente libero, realmente antimafioso, oggi saremmo tutti un
po' più liberi. E i mafiosi, molto meno sicuri della loro impunità.
BAVAGGHIU
I Siciliani, aprile 1995
La Sicilia fra tutte le regioni d'Italia è quella che ha dato il più gran
numero di giornalisti uccisi nel compimento del proprio dovere. I giornalisti
hanno, a loro tutela: un sindacato unitario, che è la Fnsi, un Ordine
professionale, un direttore di testata che, loro collega, dovrebbe in linea di
massima proteggere i loro interessi contro chiunque.
Dei giornalisti uccisi, Peppino Impastato (1978) non ebbe alcuna tutela in
quanto non iscritto all'Ordine; molti colleghi si esercitarono liberamente a
dargli del terrorista. Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia, fu
ucciso mentre indagava su una questione di mafia; ma i proprietari del suo
giornale, in un'intervista, misero in dubbio la matrice mafiosa della sua
morte, senza reazioni apprezzabili da parte dei colleghi. Al funerale di
Giuseppe Fava, nel 1984, sindacato e Ordine nazionale dei giornalisti
furono assenti. Lo stesso per Mauro Rostagno, con la motivazione che non
era regolarmente iscritto all'Ordine.
Non era regolarmente iscritto neanche Giuseppe Alfano, solitario
corrispondente de La Sicilia da Barcellona, ucciso dai mafiosi; lo iscrissero
alla memoria dopo la morte, concedendogli finalmente di diventare un
giornalista "vero". Il giudice che indagava sul suo assassinio dovette sudar
sette camicie per farsi dare, dal suo giornale, gli articoli che gli servivano
per indagare; poté averli solo minacciando il ricorso a mezzi legali. E così
via. Tutto questo per dire che, se la storia dei giornalisti siciliani è spesso individualmente - una storia gloriosa, non lo è altrettanto quella dei loro
organi collettivi e dei loro giornali.
"A Catania, i giornalisti sapevano quel che succedeva, ma non si
comportavano di conseguenza - ha dichiarato il 7 aprile il magistrato della
Direzione distrettuale antimafia Amedeo Bertone - E anche questo ha
contribuito a far divampare gli omicidi e la guerra di mafia". Ma davvero il
livello civile dell'informazione a Catania è così basso? Davvero gli organi
che dovrebbero farsene garanti - sindacato dei giornalisti, Ordine
professionale - non se ne sono accorti? Due casi gravissimi, occorsi
recentemente, dovrebbero far riflettere anche loro.
Il primo e più clamoroso è quello - risultante da atti giudiziari - del
giornalista de La Sicilia Concetto Mannisi. Il quale, avendo scritto un
articolo sul mafioso Ercolano, viene convocato dal direttore Mario Ciancio
in presenza dello stesso Ercolano, severamente redarguito e invitato sempre in presenza del mafioso - a non usar più il termine "mafioso". Mario
Ciancio fa tuttora parte dell'Ordine dei giornalisti. Non risulta che Ordine o
sindacato abbiano avviato provvedimenti nei suoi confronti. Un'indagine è
stata invece aperta sull'"operato della collega Ada Mollica", chiamata
formalmente a rispondere - dal presidente dell'Ordine dei giornalisti di
Sicilia - dell'articolo in cui aveva riportato l'episodio.
Circa un anno fa, si ebbe l'episodio - altrettanto grave - del tentativo di
depistaggio operato dal giornalista de La Sicilia Toni Zermo sulle indagini
per l'omicidio Giuseppe Fava. I giudici indagavano su un pentito di mafia,
Maurizio Avola, che aveva reso gravissime testimonianze sul cavaliere del
lavoro Gaetano Graci, e sul possibile suo ruolo nell'omicidio Fava. Mentre i
giudici vagliavano gli elementi forniti da costui, Zermo pubblicò con grande
evidenza una serie di false "dichiarazioni" del pentito, platealmente
inattendibili ("Ho ucciso il generale dalla Chiesa!") e tali da gettare una luce
d'inattendibilità anche sulle vere dichiarazioni che Avola aveva in realtà
fatto.
Contro quest'operazione di depistaggio, chiaramente in malafede e non
giustificabile da alcun precedente giornalistico, i magistrati della Procura
protestarono con insolita veemenza. Il segretario dell'Associazione siciliana
della Stampa, Antonio Ravidà, non prese alcun provvedimento nei confronti
di Zermo, e ritenne anzi opportuno assicurargli, a nome della categoria, la
propria pubblica solidarietà. Il comitato di redazione de La Sicilia si associò
anch'esso alle posizioni di Zermo. Costui, già nel 1984, aveva condotto una
campagna per escludere la matrice mafiosa dell'omicidio di Fava
(accomunato, nei suoi articoli, a un personaggio come Pecorelli). Neanche
allora il sindacato dei giornalisti siciliani o i colleghi di redazione di Zermo
avevano ritenuto opportuno censurare l'operato del collega.
"In Italia dobbiamo smetterla perché i polveroni non pagano. Nessuno
vuole limitare la libertà di stampa. Solo che dobbiamo noi giornalisti
rispettare le leggi, stare alle regole del gioco. Qui non si tratta di essere pro
o contro Berlusconi. Qua si tratta di stabilire le regole del gioco. E noi
giornalisti italiani, spesso, queste regole le dimentichiamo". Un anno fa, il
collega Antonio Ravidà - sempre a nome dell'Associazione siciliana della
stampa: e dunque, teoricamente, a nome di tutti i giornalisti onesti, compresi
noi dei Siciliani... - rispose con queste righe alla sollevazione generale
scatenata dal decreto "salva-ladri" di Silvio Berlusconi. Il decreto, che
conteneva molte e gravi limitazioni alla libertà di stampa, fu ritirato
velocemente per l'opposizione suscitata in tutte le categorie interessate, a
cominciare dal sindacato dei giornalisti nazionale, e di tutti quelli regionali
ad eccezione del siciliano. Alcuni colleghi dichiararono, in quest'occasione,
Ravidà "indegno di rappresentare la categoria dei giornalisti siciliani" e
chiesero le sue dimissioni. Nella redazione de La Sicilia di Zermo, solo una
giovane cronista si associò ad essi. Quanto a Zermo, è attualmente
impegnato a scrivere pensosi articoli sulle malefatte del cavaliere Graci ormai definitivamente caduto in disgrazia - dopo esserne stato per circa
quindici anni uno dei più fedeli servitori.
(Qualche settimana fa, il sindacato dei giornalisti siciliani ha organizzato
a Villa Igea a Palermo, un bel convegno su temi di giornalismo economico.
Il pubblico nei momenti di maggiore affollamento non superava le quindici
persone. Alla fine sono arrivati un paio di assessori della Regione entrambi
abbondantemente inquisiti, hanno stretto la mano al segretario, hanno porto
i loro ossequi alla signora - la signora Ravidà, di mestiere, fa proprio
questo: organizzare congressi - e se ne sono andati)
A Messina dopo la morte di Stelio Vitale Modica, buon giornalista sempre
pronto a difendere i colleghi, il sindacato è retto da Italia Moroni Cicciò. La
signora Cicciò ha fatto campagna elettorale per il Polo delle Libertà. Di
recente è stata nominata dalla Provincia (il cui presidente è di Alleanza
nazionale) come componente del consiglio d'amministrazione dell'Ente
Teatro. All'Ente Teatro (dove non sono stati espletati i concorsi per formare
l'ufficio stampa) fa funzioni di consulente stampa Lorenzo Genitori, critico
musicale della Gazzetta. L'Ente Teatro gestisce tra l'altro il teatro lirico
Vittorio Emanuele, e ciò significa in sostanza che Genitore, sul giornale,
può fare la critica del suo stesso teatro. Per anni, all'Ente Fiera, l'ufficio
stampa è stato tenuto da Sandro Rolla, capocronista della Gazzetta. A
Messina, più in generale, gli uffici stampa pubblici sono molto spesso
irregolari per difetto di assunzioni. La gente che ci lavora scrive comunicati,
ma nella maggior parte dei casi non è giornalista. Si è parlato per molto
tempo di fare concorsi. La Provincia li ha banditi, ma non li ha ancora
espletati. Se si considera, da un lato, che in Sicilia ci sono decine di
professionisti disoccupati; e, dall'altro, che è almeno di dubbio gusto
affidare le cronache giornalistiche a colleghi che ricevono emolumenti a
vario titolo da enti pubblici e privati; si può ben intendere che tipo di lavoro
andrebbe fatto - e non è mai stato fatto - a Messina a tutela della professione
giornalistica.
A Palermo, la proprietà del principale giornale cittadino, il Giornale di
Sicilia, ha una tradizione molto antica di buon vicinato con esponenti
politici - Lima, i Salvo, fino a un certo periodo Ciancimino - legati a Cosa
Nostra. Un esponente della famiglia Ardizzone, editrice del giornale, faceva
parte della loggia massonica coperta di via Roma insieme con "uomini di
panza" della vecchia mafia. All'inizio degli anni Ottanta acquisirono
influenza sulla proprietà il cavaliere catanese Costanzo e l'editore catanese
Mario Ciancio, e questo non contribuì a spostare in senso antimafioso la
linea politica del giornale.
Celebri le campagne del giornale contro il pool antimafia di Falcone e
Borsellino, affidate alle penne del condirettore Giovanni Pepi (la direzione
formale era ed è tuttora tenuta da un Ardizzone), del giudice Enzo Geraci e
del corsivista - diventato in tempi recenti capo di gabinetto del ministero
della Giustizia sotto Biondi - Vincenzo Vitale. Crollato il vecchio sistema di
potere, Ardizzone e soci cercarono, con poca fortuna, di avviare alla meglio
un tentativo di riqualificazione del giornale, sulle cui modalità e sui cui esiti
valgono le lapidarie parole - "Ora quelle serpi mi sorridono" - della sorella
del giudice Falcone.
Nonostante l'assenza di prese di posizione ufficiali, la redazione del
Giornale di Sicilia è probabilmente oggi l'unica, fra quelle dei quotidiani
siciliani, in cui l'oltranzismo diciamo così conservatore della proprietà abbia
suscitato qualche protesta, o almeno qualche mugugno, da parte di gruppi
consistenti di redattori. Nell'ottobre '92 destarono qualche scalpore i risultati
dell'elezione dei rappresentanti all'interno della redazione. Vennero eletti nel
comitato di redazione il proprietario del giornale, Antonio Ardizzone, e il
suo braccio destro, Giovanni Pepi: caso unico nella storia dei movimenti
sindacali, non essendo fin allora mai avvenuto che dei lavoratori
delegassero il padrone a rappresentarli di fronte al padrone. Adesso, nei
corridoi del giornale, alcuni redattori osano mettere in discussione - almeno
fra persone fidate - lo jus primae vocis fin qui pacificamente esercitato dalla
proprietà.
Se fino a ieri Palermo e Catania erano, dal punto di vista dell'autonomia
professionale, particolarmente arretrate rispetto al resto del paese, adesso
rischiano di venir prese a modello e di costituire anzi, da questo punto di
vista, l'esempio del giornalismo dell'avvenire.
Alle ultime trattative per il rinnovo del contratto di lavoro, la Federazione
degli editori ha presentato un articolo (prontamente respinto, a onor del
vero, dalla controparte) in cui si richiede senz'altro un "contratto di
formazione e lavoro" per giovani a partire dai sedici anni che dovrebbero
svolgere mansioni paragiornalistiche in cambio di uno stipendio inferiore
alla metà di quello dei giornalisti "regolari", e restando soggetti al
licenziamento senza spiegazioni dopo ventiquattro mesi. La codificazione
ufficiale insomma della figura dello schiavo di redazione, la
regolamentazione per legge del lavoro nero e l'abolizione delle residue
garanzie di autonomia professionale. E' vero che in molte regioni d'Italia il
livello di coscienza sindacale delle redazioni, è abbastanza dissimile da
quello che si riscontra in Sicilia. Ma è anche vero che l'offensiva è
massiccia, e che gran parte delle resistenze - specie nei giornali locali - sta
venendo meno. Alcuni casi emblematici? L'Unione Sarda, dove l'editore ha
impiegato sistematicamente le nuove tecnologie (valendosi, a quanto ci
risulta, di specialisti provenienti dalla Fininvest) per accentrare al massimo
il ciclo di lavorazione e cancellare ogni influenza dei giornalisti su di esso;
la Notte, dove Berlusconi ha rapidamente acquisito e ucciso il rozzo ma
temibile concorrente (vedi box a pagina 5) del suo Giornale; la Voce di
Montanelli, strangolata - nell'interesse di Berlusconi - dallo stampatore.
L'introduzione delle nuove e nuovissime tecnologie, in questo senso, pone
non solo a gruppi isolati di bastian contrari, ma massicciamente all'insieme
della categoria un'alternativa piuttosto brutale: o subire il restringimento
degli spazi, accettare i nuovi ruoli ormai esclusivamente servili che ai
giornalisti vengono assegnati dal nuovo modello editoriale; o valersi
spregiudicatamente delle tecnologie, impadronirsene creativamente, porsi in
condizione di potere a un bisogno confezionare, senza bisogno di strutture
esterne, tutta la fase di prestampa dell'intero giornale e utilizzare questa
condizione tecnica o come presidio nei confronti dell'editore o, in caso di
bisogno, per mettersi audacemente in proprio e fare un giornale libero senza
editore. Perché il lettore ha diritto, qualunque cosa pensino i giornalisti e
qualunque gli editori, ad avere notizie oneste, che non dipendano dal
capriccio di un singolo, che non servano interessi. Quando questo non
avviene, il lettore se la prende col giornalista, non con l'editore: e in fondo è
giusto, perché è al giornalista, prima che a chiunque altro, che il lettore
chiede di non essere imbrogliato.
In Sicilia, l'alternativa in realtà non esiste perché le intenzioni degli attuali
editori, di accentramento totale e senza condizioni, sono fin troppo chiare. A
Catania son già allo studio, secondo indiscrezioni, progetti di integrazione
di una parte del ciclo di lavorazione con parte del ciclo di lavorazione di
altri quotidiani siciliani. Un processo di sinergia molto spinta, secondo le
nostre valutazioni, renderà entro un anno praticamente indistinguibili
almeno due dei tre quotidiani oggi esistenti. Tutti e tre già oggi sono
pubblicitariamente - e quindi finanziariamente - sotto l'egemonia
(supportata dalla Pubblikompass di Agnelli) di Mario Ciancio.
Il momento è gravissimo, per la libertà di stampa in Sicilia; il più grave
che mai si sia avuto, peggiore persino di quando i mafiosi giravano
tranquillamente per gli uffici della Sicilia in viale Odorico da Pordenone,
spalancandone le porte a calci quando avevano da notificare qualcosa,
peggiore di quando il giornale di Sicilia faceva le sue campagne "garantiste"
per Salvo Lima, contro Falcone e Orlando. Nessuno si illuda che il nuovo
monopolio editoriale sia per avere posizioni più "moderne" rispetto ai
vecchi padroni. Perché il cervello di esso è Mario Ciancio, e Ciancio è
quello che non solo nell'84, non solo in questi dieci anni, ma ancora in
questi mesi ha difeso a spada tratta il cavaliere mafioso Gaetano Graci,
arrivando a pubblicare notizie false pur di cercare di salvarlo dalla galera.
Agli editori nazionali toccherebbe ora la responsabilità di non farsi
supportatori - come deplorevolmente avviene oggi: ed è un'altro gravissimo
debito che gl'industriali del nord assumono oggi nei confronti dei Siciliani di operazioni che, limitando la libertà di stampa in una regione, finiranno
per limitarla in tutte. Ma su questo c'è da farsi poche illusioni: quasi tutti i
quotidiani nazionali, persino quelli di editori democratici come Caracciolo,
hanno a suo tempo rinunciato alle loro edizioni siciliane pur di non entrare
in conflitto con gl'interessi costituiti locali.
Ai giornalisti professionisti siciliani, invece, competerebbe in
quest'emergenza la responsabilità di sollevarsi d'un tratto dallo stato di
subalternità in cui si trovano, ormai da decenni, per dire finalmente una loro
parola sullo stato dell'informazione in questa regione. Anche qui, c'è poco
da farsi illusioni. Ma con una differenza: che mentre un Caracciolo o un
Agnelli possono giocare, in questa circostanza, con la pelle altrui, per i
giornalisti siciliani - compresi i più distratti - ci va di mezzo il proprio
avvenire. Qualcuno ha un'idea di quel che vorrebbe dire, per ciascuno di
loro, un quadro informativo siciliano ridotto di fatto a un'unica testata, in
mano agli amici di Graci? Si salverebbero solo, e letteralmente, i più servili.
Qualunque pur vaga velleità di autonomia professionale, o anche di
semplice rivendicazione della dignità professionale, sarebbe semplicemente
spazzata via. Il mondo dell'informazione in Sicilia sarebbe brutalmente
trasformato in una rozza macchina per imbrogliare.
Ci sono ancora dei mesi, forse addirittura un anno, durante i quali è
ancora possibile rovesciare la situazione. Recuperare il ruolo del sindacato,
isolare gli uomini del padrone, dar spazio ai giovani giornalisti, cominciare
a fare liberamente il proprio mestiere anche dove liberamente non s'è fatto
mai. Se fossimo ottimisti, diremmo che se ne potrebbe parlare al sindacato.
Ma ottimisti non siamo.
DUE ANNI DOPO
I Siciliani, aprile 1995
Son passati due anni dall'inizio di questa nuova serie dei Siciliani. Due
anni fa, la situazione era ben diversa da quella di ora. Finiva il tempo di
Craxi; le battaglie antimafia - portate avanti da una piccola ma non
trascurabile minoranza - sembravano vicine a raccogliere il frutto dei
sacrifici di dieci anni; il crollo della democrazia cristiana apriva le
condizioni per una svolta complessiva in senso più civile e democratico. Più
importanti di tutto, le discussioni nei bar: anche i cittadini più qualunquisti
erano finalmente giunti a rispettare e ammirare un Falcone, un Carlo
Palermo, un Borsellino, ad acquisire - dall'esempio loro, e di centinaia di
altri militanti come loro - un nucleo rudimentale d'identità collettiva e di
coscienza civile; fra i giovani, specialmente, questo processo sembrava
ormai acquisito. Quanto ai vecchi politici, alcuni - come Craxi - si
preparavano a riparare all'estero; altri - come Cossiga - cercavano di mettere
a frutto gli scheletri nei propri e negli altrui armadi per ritagliarsi un ruolo
nel mondo nuovo; la più parte, frastornata e confusa, cercava di farsi notare
il meno possibile.
L'Italia che abbiamo tratteggiato è quella del 1992; oppure anche,
mutando alcuni non sostanziali elementi, quella del 1922. Svolta a sinistra
gioiosamente minacciata ma non preparata seriamente; sbandamento del
vecchio ceto politico ma non maturazione di uno davvero nuovo; coscienza
d'una vaga necessità di rinnovamento nella nazione ma senza concreti
sbocchi politici e senza soprattutto un parallelo e diffuso risorgimento
morale. "Autobiografia della nazione", scrisse Piero Gobetti per il primo
fascismo. E noi non avremmo nulla da aggiungere per quello d'oggigiorno.
In questo quadro, tuttavia, Berlusconi è D'Annunzio, non ancora
Mussolini. E' colui che per primo ha saputo intuire - grazie alla buona
pratica nel campo della comunicazione - gli umori anarcoidi dell'Italia
profonda, che ha saputo dar loro una dignità di "politica", che ha insegnato
ai più poveri spiritualmente e ai peggiori a non vergognarsi di se stessi.
Come D'Annunzio, questo insegnamento l'ha condotto assai più con i gesti
personali che non con gli elaborati politici, riuscendogli questi ultimi in
genere malmasticati e infelici: come D'Annunzio, en passant, ha profittato
dell'occasione per liberarsi dei concorrenti e creditori personali e bollarli
anzi d'infamia come traditori della patria; come D'Annunzio, infine, ha
potuto semplicemente aprire una porta, ma non attraversarla.
Mussolini (come il mussolini che seguirà a Berlusconi) invece ci riuscì:
sul terreno individuato da D'Annunzio, e sulle patologie sociali che costui
aveva risvegliato, egli gettò un'esperienza organizzativa e un'abilità tattica
da vecchio politico (da uomo della prima repubblica, diremmo oggi),
utilizzando largamente i ricatti cui le vecchie forze politiche erano, per loro
storia, soggette e di cui egli era esperto ma tuttavia presentandosi, di fronte
alla nazione incolta, come uomo nuovo; servendo senza ritegno il gran
capitale, ma in nome di fumosi ideali "solidaristici" (allora si diceva
"corporativi") e popolari; bastonando selvaggiamente la sinistra, ma tuttavia
presentandole, quando lo richiedesse la tattica, i suoi bravi "patti di
pacificazione"; utilizzando sistematicamente la violenza delle "frange
incontrollabili" e dei servizi deviati, ma puntando essenzialmente sul
controllo monopolistico dei grandi mezzi di comunicazione. Un mussolini
ora forse c'è già, e potrebbe essere Cossiga. Ma il nome, a questo punto, non
ha grande importanza.
Noi siamo ripartiti, due anni fa, fidando in alcune precise idee: delle quali
ritenevamo d'essere una punta avanzata, e sia pur radicale, non una pattuglia
perduta. Credevamo - e crediamo tuttora: perché non si tratta d'idee che
possano essere mercanteggiate col variare della convenienza - che dal
vecchio regime non si possa uscire senza una svolta radicale e profonda
della politica e della coscienza nazionali; che di tale svolta un'efficace ed
esemplare prefigurazione si sia avuta in Sicilia negli anni alti del
movimento antimafioso; che di quegli anni e di quella lotta i protagonisti da
incoraggiare e imitare siano stati i giovani, le donne, gli amministratori di
base, i magistrati fedeli, le avanguardie civili del popolo insomma, non i
politici di mestiere; che questi ultimi, in Sicilia e altrove, abbiano avuto e
possano avere un senso solo se e in quanto riescano a farsi espressione di
questi movimenti dal basso, condannandosi diversamente alla sterilità, al
parassitismo e alla sconfitta.
Credevamo ancora, e tuttora crediamo, che in questa battaglia civile una
parte essenziale, e probabilmente la maggiore, debba essere combattuta sul
terreno dell'informazione: un'informazione agile, concreta, non demagogica,
lontana dai corridoi e dai palazzi (compresi quelli di sinistra) ma permeabile
invece alla partecipazione dei cittadini, capace tecnicamente e moralmente
di farsi contemporaneamente scuola di giornalismo e d'impegno civile.
Credevamo - e crediamo fermissimamente tuttora - che non mancassero in
astratto le forze per una simile impresa. In quindici anni di giornalismo
militante, abbiamo visto molti giovani crescere attorno ai Siciliani; e molti
di più son quelli che, nelle varie regioni e città d'Italia, a volte isolatamente
a volte aggregandosi a questo o quel punto di riferimento parziale, hanno
saputo unire (o avrebbero potuto, se appena ne avessero avuto l'occasione)
rigore tecnico e coscienza civile. Perché lasciare tutta questa ricchezza ai
padroni? Perché non cercar di coordinare, raccogliere, organizzare in un
progetto di lunga lena tutte queste energie, che insieme potrebbero cambiare
il volto dell'informazione in Italia e lasciate a se stesse vengono riassorbite o
sbandate a una a una?
Questi obbiettivi abbiamo cercato di perseguire in tempi - relativamente più facili, e questi intendiamo portare avanti anche adesso. Il piccolo popolo
dei nostri amici ben sa di quanta determinazione e costanza di ci sia stato
bisogno finora, e quante ne occorreranno in futuro. Non disgiunte, peraltro,
da uno forte spirito unitario e di cooperazione, perché la battaglia dei
Siciliani è troppo importante e vasta perché sia concepibile di condurla da
soli. In questo senso, riteniamo urgentissimo un incontro che faccia il punto,
fra tutti i giornalisti e i cittadini interessati al problema, sullo stato
dell'informazione libera al Sud, e abbiamo già chiesto ai colleghi del
Gruppo di Fiesole di farsi insieme a noi promotori di un'assemblea operativa - su questo tema. Tempi strettissimi, perché la seconda fase quella mussoliniana - già avanza.
DIVIDIAMOCELI NOI
I Siciliani, maggio 1995
A Palermo, nei giorni di Falcone. Quest'anno, per la prima volta, non ci
sarà la manifestazione contro la mafia - non ci sarà solo quella. Ci sarà
soprattutto, e dopo tanti anni finalmente se ne vedono le condizioni, il
lavoro di ricostruzione per il dopomafia. I ragazzi di Palermo che
"adottano" i monumenti e i quartieri di Palermo, non da soli, ma con gli
artigiani, i commercianti, i maestri di scuola, i lavoratori, con la parte
migliore della città, sono un segnale preciso che qualcosa di profondo è
andato avanti. Riina è in galera, Graci è in attesa di entrarci e Andreotti ci
finirà prima o poi. Quelli di adesso, al tempo.
Certo, la nostra "politica" non ha vinto finora, a livello istituzionale. Non
c'è più il giudice Carnevale, ma c'è la Tiziana Parenti. C'è Berlusconi, c'è
Fini, c'è Cossiga. "Cambiare tutto per non cambiare niente"... Tutto è
tornato come prima? No. L'operazione del Gattopardo è riuscita ai politici,
ma non è riuscita, o lo è solo in parte, nel profondo della società. Berlusconi
e compari sono riusciti a ingannare per un paio d'anni il popolo italiano. Ma
solo per un paio d'anni. Poi, la corrente ha ricominciato a scorrere,
faticosamente. Le ultime elezioni dicono qualcosa. E qualcosa dice anche il
fatto che gli studenti di Palermo, dopo dieci anni di lotta, possano
cominciare adesso a ricostruire.
Certo, non è all'altezza la sinistra ufficiale, non è all'altezza la cultura dei
"patti", delle divisioni intestine, dei salotti "democratici", delle campagne
elettorali "all'americana". Ma questi sono i particolari transeunti, che prima
o poi verranno superati. Persino con Veltroni e con Prodi, la sinistra riuscirà
a prevalere. Per intanto nel referendum, dove non c'è Prodi né Veltroni.
PALERMO, EUROPA
I Siciliani, maggio 1995
Un gruppo di studenti sta conducendo un'inchiesta su un monumento
della sua città. Questa città non è Zagabria né Sarajevo ma è stata in guerra
per molto tempo. E' stata inoltre abbandonata, per moltissimi anni, a un
governo d'occupazione, comprendente dei collaborazionisti locali ma
composto essenzialmente dai funzionari del nemico. E', infine, una città
povera, dove pochi privilegiati se la spassano fra ricchezze d'ogni genere
mentre la gran massa della gente fatica a sbarcare il lunario.
Tutto ciò considerato, non desta stupore che il monumento su cui i nostri
studenti stanno facendo i loro studi - poniamo, un'antica portale barocca sia circondato dalle erbacce e pressoché in rovina. (Una parte non piccola
della popolazione, dimenticavamo d'aggiungere, rimpiange ancora il tempo
dell'occupazione: borsari neri, pescicani, spie, ed anche poveracci
qualunque che rimpiangono i pezzi di carne distribuiti dai soldati, nei giorni
di festa, davanti alle caserme). Dei ragazzi, alcuni tirano via le erbacce, altri
schizzano un'assonometria del portale. "Ma quel vuoto in alto - fa uno cos'è?". Difatti, a un esame più ravvicinato, un tratto del portale risulta
consunto o raschiato, come se avesse ospitato un bassorilievo che ora non
c'è più. (A poche decine di metri dal punto dove stanno lavorando i ragazzi,
c'è il luogo in cui gli occupanti trucidarono, pochi anni addietro, degli
uomini della Resistenza. Di tali luoghi è costellata tutta la città). Del
bassorilievo, tuttavia, non resta il minimo frammento.
Qualche giorno più tardi, grazie a una ricerca in biblioteca d'istituto, gli
studenti scoprono che il bassorilievo non c'è perché in effetti sui portali
coevi, eretti per celebrare i fasti di viceré e sovrani del diciassettesimo
secolo, si usava ridurre al minimo le decorazioni marmoree (di lunga e
costosa esecuzione), utilizzando i più economici e veloci, e d'effetto
scenografico non minore, manufatti di stucco. Rapido da modellare e docile
alla fantasia, di poco prezzo, alla portata dell'artista di quartiere, esso
costituì il materiale d'elezione, nella nostra città, per la creatività del
Seicento; fu esso a ingentilire e a render per così dire solare il severo
barocco ideologico imposto dagli occupanti d'allora.
La città divenne così - imparano giorno dopo giorno i ragazzi - la capitale
internazionale dello stucco. Alcuni degli artigiani dei quartieri divennero
famosi in tutt'Europa, e fondarono un'arte e un mestiere che resero
orgogliosa la città per generazioni. Come i pescatori, i macellai, i ferraioli e
gli altri lavoratori, gli stuccatori avevano una loro piccola corporazione che
ne tutelava i diritti; serviva da base ai malcontenti in tempo di rivolta al
malgoverno; in tempo di guerra, le veniva affidato un tratto delle mura
cittadine perché le difendesse. Anni - studiano ancora i ragazzi - in cui il
popolo si ribellava spesso: una volta, a metà del diciassettesimo secolo,
riuscì a cacciar via per una stagione almeno gli occupanti e i loro sbirri; non
la prima, né l'ultima, rivolta di quell'antica città e di quei quartieri.
Il mestiere di stuccatore, fino a pochi anni fa, viveva ancora. Poi l'hanno
ucciso le plastiche, l'incuria dei governanti, il torpore di un popolo che,
sotto dominazione, cominciava a dimenticarsi di ciò che in tempi più felici
aveva fatto e di ciò che era stato. Ora tuttavia, dopo la guerra, la dignità del
passato tornava ad essere nebulosamente percepita. Così i nostri ragazzi,
parlando con i bottegai della zona, ne trovarono finalmente uno che si
ricordava, sì, degli stuccatori; e conosceva anzi un vecchio - ma vecchio di
quelli vecchi, uno che a mala pena ci vedeva - che forse, una diecina d'anni
fa, ci aveva avuto a che fare.
Così, due giorni dopo - due giorni di paziente indagine nel quartiere, e
contemporaneamente di studi storici, di schizzi dal vivo, di estirpazione
delle erbacce - ecco cinque ragazzi della nostra scuola che si presentano
nell'ex-bottega, e ormai sgangherata abitazione, di mastro Domenico
Licausi, artigiano stuccatore. E' dodici anni ormai che mastro Domenico è
in pensione. Ed è da allora che nessuno gli parla più del suo mestiere. Ma
dietro la tenda a fiori ci sono ancora due dei modelli di allora. Il vecchio
leva dal tavolo gli avanzi del pranzo del giorno prima, prende uno
strofinaccio pulito e tira via la polvere, spessa due dita, dal primo dei
modelli. Lo prende con delicatezza e lo posa sul tavolo. "Talè: vardati 'stu
travagghiu...".
Questa storia è successa, sta succedendo ancora e continuerà a succedere
nei prossimi anni in una città d'Europa che è Palermo. A Palermo, in questo
preciso momento, un gruppo di giovani sta riportando in vita, con l'aiuto di
vecchi artigiani, l'arte di stuccatore. Un centinaio di monumenti di Palermo
sta venendo recuperato grazie al lavoro di alcune centinaia di studenti
palermitani. Bottegai, artigiani, parrocchie, associazioni dei quartieri sono
mobilitati per dare una mano agli studenti. Sarà un lavoro lungo, ma è un
lavoro iniziato.
Nella città dell'antimafia Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito
Schifani, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Paolo Borsellino, Emanuela
Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Vincenzo Li Muri e Claudio Traina,
quest'anno verranno ricordati così. Lavorando, ricostruendo - dopo tante
battaglie - qualcosa.
Non succede nulla di più importante, in questo momento in Italia, né di
più politicamente decisivo. Lasciamo ai chiacchieroni le chiacchiere, ai
politicanti della Prima e della Seconda i loro giocarelli. Berlusconi, se ha
tempo e voglia, si presenti dai giudici a spiegare se sa qualcosa dei traffici
d'armi dei suoi caporioni siciliani. Se ha tempo; se no, prima o poi, ce lo
porteranno i carabinieri. Fini, se ne ha tempo e voglia, si pulisca dalla faccia
gli sputi che ci hanno lasciato i palermitani, davanti alla cattedrale di
Palermo, il giorno dei funerali di Borsellino. Se no, se ne vada pure in giro
così com'è, a noi non fa né caldo né freddo.
PROMEMORIA
maggio 1995
Caro ***,
spero di essere a Palermo per il 19; come ti ho detto, stiamo dando un
certo rilievo al salto di qualità rappresentato dalle iniziative di Palermo
Anno Uno. Subito dopo il 23, vorrei che vi riuniste e decideste su tre
proposte specifiche, che secondo me dovrebbero impegnarci dalla fine di
maggio in poi.
Ritengo infatti che adesso i movimenti palermitani siano ormai maturi per
cominciare a muoversi seriamente nel campo dell'informazione, con una
cultura propria, un proprio uso delle tecnologie, una propria strategia
complessiva che non si limiti a rosicchiare spazi nell'informazione ufficiale.
Dal 23 maggio, dunque, noi Siciliani consideriamo di avere le associazioni
di Palermo Anno uno fra i nostri "padroni" e intendiamo muoverci di
conseguenza, con tutte le nostre forze e la nostra esperienza.
- Sviluppare subito almeno due pagine autonome, e gestite direttamente
da voi, all'interno dei Siciliani: per ora nel mensile, ma con la prospettiva di
mantenerle stabilmente nel passaggio a settimanale, con l'intento immediato
di fare dei Siciliani la voce immediata di Palermo Anno Uno. Queste pagine
dovrebbero essere organizzate in modo tale da poter essere utilizzabili
anche autonomamente, in modo da costituire uno strumento capillare
d'intervento palermitano. Penserei di darvi una delle gabbie preconfezionate
(progettate in modo tale da essere gestibili con facilità, anche
modularmente) che vengono attualmente usate dal Foglio degli Operai, da
ImmiNews e dagli altri fogli di base.
- In più, sviluppare dei fogli di quartiere (un foglio A3 in bianco e volta,
fotocopiato e non stampato, utilizzando le gabbie-base del Foglio degli
Operai) in almeno due quartieri, come esperimento d'intervento più
localizzato che dovrebbe continuare per tutta l'estate. Questo ci
consentirebbe di cominciare a sviluppare delle esperienze di cronaca
autogestita di quartiere da riversare in autunno nel settimanale e poi, quando
sarà possibile, nel quotidiano.
- Organizzare insieme lo stage di giornalismo di base che abbiamo
progettato per Palermo (hanno già aderito na ventina di ragazzi). A livello
d'immagine, vorrei presentarlo subito come stage organizzato da Palermo
Anno Uno e dai Siciliani. Concretamente, vorrei dare allo stage un
accentuato carattere di strumento per la formazione di operatori
dell'informazione di base (volontariato, movimenti, esperienze di quartiere
ecc.) nello spirito dei punti precedenti.
E' un'idea, io credo, assai vitale e destinata sicuramente ad espandersi,
parallelamente alla crisi - ormai sotto gli occhi di tutti - dell'informazione
ufficiale; abbiamo ricevuto molte richieste di organizzare dei corsi simili e
dei giornali di questo tipo anche in altre regioni d'Italia, e contiamo di
arrivarci a poco a poco (specie dopo che il settimanale ci darà un punto di
riferimento complessivo più visibile dell'attuale mensile). Vorremmo portare
avanti quest'idea non da soli ma insieme alle associazioni palermitane, in
modo da accentuarne il carattere non solo tecnico ma lato sensu "politico"
fin dal momento dell'imprinting iniziale.
Come vedi, di carne al fuoco ce n'è. Non è impegno da poco, perché tutto
questo richiede non solo un lavoro organizzativo paziente e accurato ma
anche un salto di qualità culturale (fuori dalle singole "botteghe", fuori dai
ghetti) non indifferente. Ma io credo che ormai la situazione sia matura per
farlo, e credo - come ti ho detto - che lo siate anche voi. E se una cosa si
può fare, è un peccato non farla.
PROMEMORIA
maggio 1995
Caro ***
queste più o meno sono le gabbie. Si trovano su QDue e, in backup, su
QTre e sul syquest Numero in corso. Ti prego di mantenere costantemente
aggiornate, e ordinate, quelle su QDue. Conviene che anche i testi siano
raccolti, come luogo di riferimento, nell'apposita cartella in QDue. Se
possibile, cerca di fare in modo che chi fa un pezzo si renda conto della
gabbia in cui andrà, e che chi vuole possa utilizzare QDue come luogo di
scambio. In generale, sarebbe anche bene che ogni pezzo fosse corredato da
una proposta di titolo.
Le gabbie 4-13 (e in ispecie la 7 e la 11) subiranno probabilmente
variazioni in relazione all'andamento dei servizi e all'individuazione dei
punti-titolo, e più in generale saranno - a quel punto - maggiormente
articolate sul piano grafico. Le 19-23 e 26-32 potranno probabilmente
restare come sono. Le 28-31 hanno foto scontornate e richiedono qundi (l'ho
già detto a Claudio) una maggiore mavorazione e un'attenta scelta delle
immagini. Le irregolarità delle cornici a 28-31 sono già state corrette.
Sono ancora da definire pagina 14 e pagina 29 (il pezzo da Praga non mi
sembra granché). Per la 22-23, vorrei aspettare di parlare con Paolo, e
subordinatamente con Francesco, per vedere che idee hanno; in ogni caso,
non credo che potremo definirle prima di mercoledì.
Per l'inserto, non conosciamo ancora qualità e tempi dell'eventuale Alba.
Ho detto a Sebastiano (ma è bene che glielo ricordi anche tu) che bisogna
cominciare da subito a lavorare sull'inserto Lavoro "come se" fosse in
lavorazione ordinaria. Martedì 30 decideremo quale dei due inserti mandare
subito e quale lasciare dopo, fermo restando che per allora entrambi
debbono essere già in lavorazione.
L'inserto degli stagisti è stato disegnato solo in struttura generale. Verrà
ulteriormente arricchito in relazione ai contenuti, e anche - in questo caso a esigenze "didattiche". Per quanto riguarda Messina, avremo fra una
settimana le indicazioni dei responsabili che consentiranno di precisare le
gabbie, a partire comunque dagli standard dell'inserto Cronaca.
Il pezzo più delicato, per le connessioni con gli altri e per l'ampiezza di
spettro, è quello sui beni sequestrati; anche quello su viale Africa potrebbe
crescere d'importanza (fino a copertina) in relazione alle iniziative. Ci sono
almeno due pezzi a rischio, a pagine 19 e 20. Ci sono altri possibili pezzi
leggeri e cioé un Marescotti (digiuno da mesi) e un pezzo sulle donne.
A partire da martedì, cominciate a discutere seriamente sulla copertina.
Per il momento, la mia ipotesi è qualcosa come "L'arrembaggio" o "Tutti
prodi!" con un Prodi-formaggio e topi, o Prodi-mela e vermi, o Prodipoltrona e scale ecc.
Io sarò reperibile presso Paolo e telefonerò comunque ogni sera alle 19.30
per avere le novità da te e da R. Conto di rientrare fra venerdì e domenica.
Ricorda a Gisella che non sono disponibile per gli stagisti venerdì, e quindi
l'incontro con loro va spostato a lunedì.
GLI ACCHIAPPAPRODI
I Siciliani, giugno 1995
E dopo il referendum? Si va allo scontro. Scontro frontale, al di là delle
etichette e dei programmi, fra le due componenti pro- fonde della società.
Finite, in un modo o nell'altro, le fanfaronate e le illusioni del periodo
Berlusconi, gli italiani si ritrovano allo stesso punto di due anni fa: paese
malato, economia in crisi, bisogno urgente di scegliere fra due soluzioni del
tutto incompatibili fra loro. Destra e sinistra portano avanti i "moderati": ma
la situazione non lo è affatto. Con chi stare?
In Sicilia, il mondo cattolico si riorganizza attorno a Prodi: nel centrosinistra, qui, di sinistra tradizionale ce n'è ben poca. C'è solidarismo, c'è
volontariato; ma c'è anche una gran parte, sia pure la meno compromessa,
della vecchia Dc. Certo, tutto è preferibile ai fascisti e a Berlusconi; ma
questa di Prodi poteva essere - e forse potrebbe essere ancora - un'occasione
di risorgimento democratico e non solo di reazione moderata all'eversione
nera.
A Palermo, la gente si ricorda ancora di Falcone. Nei quartieri, la rete
delle associazioni e del volontariato ha continuato a lavorare,
nell'indifferenza della grande stampa nazionale. Padre Porcaro non c'è solo
quando gli bruciano la macchina, ma anche negli altri
trecentosessantaquattro giorni dell'anno. E alla fine i risultati si vedono,
Porcaro e le altre decine di antimafiosi come lui finiranno per trasformare, e
in parte hanno già trasformato, queste nostre città. E questa è la democrazia
in cui noi crediamo.
A Catania, la magistratura ha finalmente rinviato a giudizio gli esecutori e
organizzatori materiali dell'assassinio di Giuseppe Fava. Non ancora i
mandanti: ma ci si arriverà. Noi continuiamo a lavorare. E grazie ai
coraggiosi magistrati.
TUTTI DC?
I Siciliani, giugno 1995
Ne sai più di noi, caro lettore. Tu infatti sai già come sono andati a finire i
referendum, mentre noi ancora no (per necessità tipogra-fiche dobbiamo
chiudere il giornale entro sabato 10, che per noi è oggi e per te tre giorni fa).
Chi ha vinto, e che cosa succede ora?
Da un certo punto di vista, quello che ha vinto comunque è Berlusconi.
Pensate: in meno di due anni ha saputo farsi ripianare, senza sborsare una
lira, fior di debiti dalla collettività; ha fondato una setta religiosa; ha
promesso miracoli; e quando i miracoli non si sono verificati è riuscito a
non farsi linciare ma compatire ("non m'hanno lasciato fare i miracoli in
pace"). Adesso, dopo il referendum, Berlusconi esce - in ogni caso - di
scena; o perché superfluo, o perché ingombrante. Però esce in bellezza,
avendo dilapidato altri mille miliardi (tanto è costato il referendum) tutti in
una volta, avendo trasformato in buffonata l'istituzione referendaria, che una
volta faceva tremare il Vaticano e ora si tira via a dozzine, avendo dato nella
più assoluta impunità l'esempio di una campagna elettorale modernamente
fascista, in cui una delle parti parla a milioni di persone dalla televisione e
l'altra può fare al massimo le scritte sui muri. Berlusconi, in un anno e
mezzo, ha insegnato agl'italiani come si prende a calci la democrazia; ma in
quest'ultimo mese, ha insegnato loro anche come ci si sghignazza sopra. E'
un insegnamento, ne siamo certi, che difficilmente andrà perduto.
"Turatevi il naso e votate Dc" consigliava il povero Montanelli, nel
lontanissimo '76, ai suoi spaventati lettori. Per una divertente ironia della
storia, sembra che da qui a qualche mese lo stesso consiglio dovremo darlo
noi. Dopo il referendum infatti - e anche qui, tutto sommato, non importa
moltissimo chi l'ha vinto e chi l'ha perso - ci toccherà prepararci allo scontro
finale fra destra e sinistra. La destra, su posizioni democristiane, sarà
guidata da un democristiano di destra che potrà essere un Buttiglione, un
Mastella, un Cossiga o magari un Dini; la sinistra, su posizioni
democristiane, sarà guidata da un democristiano di sinistra, Prodi.
Nell'uno e nell'altro campo i "moderati" e i "centristi" (cioé, per come
sono andate le cose negli ultimi cinquant'anni in Italia, i democristiani)
saranno largamente prevalenti, tanto al centro quanto e soprattutto in
periferia. Tutti gli altri, nei due schieramenti, cercheranno di stringersi nella
folla per farsi notare il meno possibile, sotto pena di essere accusati di
estremismo e, nel caso dei nostri, di essere di sinistra. Col che Pio La Torre,
Turiddu Carnevale, Sandro Pertini, Berlinguer, cent'anni di movimento
operaio, gli asili-nido di Reggio Emilia, il Sessantotto, don Milani, Bob
Dylan, l'eguaglianza delle donne, Massimo Troisi sono tutti serviti: non
sono mai esistiti o, se sono esistiti, sono stati"di sinistra", da vergognarsene
dunque, magari da sorriderne con imbarazzo e compatimento come di
vecchie gag di parenti svagati e un po' originali. "Please, what means it?"
diremo fra qualche anno, da buoni progressisti italoamericani.
Ma in Sicilia! La Sicilia, in questi dodici anni, aveva reinventato per tutti
la democrazia. Non la democrazia sazia e un po' abbioccata del dopo cena,
col telecomando in mano a saltare da un canale all'altro dei buoni
sentimenti. La democrazia che ti fa rischiare la pelle, che ti fa guardare in
faccia le cose, che ti fa scoprire cose del tutto nuove e sorprendenti nei tuoi
vicini e compagni, e dentro di te. Democrazia di strada. "Il partito di
Falcone e dei ragazzini" dicevamo orgogliosamente allora, e lo ripetiamo
anche adesso, ora che è più difficile farsi ascoltare. Falcone e Borsellino nel
palazzo, a studiare le carte - a giocarsi la pelle - per dare colpi ai mafiosi; i
giovani cittadini nelle piazze, a vivere collettivamente la propria vita, a
battersi da uomini liberi, a prendersi i propri carichi per il bene comune,
senza false modestie e senza politicuzze e piccinerie.
Che bellissima classe dirigente sarebbe stata, se le aveste lasciato spazio
per crescere, quella dei ragazzi palermitani e catanesi degli anni Ottanta! E
quanto avrebbero potuto fare per la Sicilia, quanto avrebbero potuto
costruire e insegnare, quanto avrebbero potuto fare intravvedere a tutto il
resto della nazione!
Ma così non è stato. I giovani dell'antimafia popolare li avete messi da
parte, o rigettati con una manata sul petto, o risucchiati in un ufficio e
integrati. Quelli che avevate titolo per esser loro maestri, che essi avevano
scelto come loro guide, avete preferito lasciarvi cooptare nel gioco
"realistico" della politica ufficiale. D'accordo. E' andata così. E' ormai un
paese povero, il nostro paese. Un paese in cui il primo bischero si alza una
mattina e fonda parlamenti, in cui i vecchi politicanti radicali vanno in giro
ad offrirsi ogni mattina al migliore offerente, in cui un personaggio di Totò
come Berlusconi diventa, sia pure per una stagione, duce e guida
degli'italiani, e un altro personaggio di Totò come Dini riesce ad essere
contemporaneamente presidente in atto delle sinistre e presidente in pectore
delle destre. Come sarebbe stato divertente tutto questo, se fosse stato un
film.
E va bene. Appoggeremo Prodi, se ci tocca - da buoni cittadini, nemici del
fascismo e di Berlusconi - ma con malinconia. Non perché Prodi sia peggio
degli altri, o perché siano peggiori i suoi seguaci, ma semplicemente perché
avremmo voluto appoggiare i nostri, quelli del nostro partito.
Quale partito? Il solito. Guardate, in questo numero del giornale,
nell'inserto: quello che parla dei preti e volontari di quartiere, dei sindaci
che confiscano i soldi dei mafiosi e dei ragazzi dello Zen. Anche se non si
direbbe, è un inserto di propaganda politica, di un partito che non ha
bisogno - per esserci - di essere un partito e che tuttavia, ogni tre o quattro
generazioni nella storia d'Italia, viene avanti improvviso senza bandiere e in
una maniera o nell'altra dice la sua.
Prodi o non Prodi, quest'estate, per quanto ci riguarda, noi lavoreremo con quei preti, quei sindaci, quei volontari e quei ragazzini - per rafforzare
ed estendere questo "partito", con subito un obiettivo ben preciso: censire le
proprietà e le ricchezze confiscate ai boss mafiosi e studiare come possono
essere utilizzate, e da chi, per creare nuovi posti di lavoro e nuove strutture
sociali. Aspettiamo segnalazioni e proposte da tutta la Sicilia: associazioni,
volontari, singoli antimafiosi. Vi terremo al corrente. "Compagni, avanti il
gran partito...".
MEZZESTATE DI FUOCO
I Siciliani, luglio 1995
Nella graduatoria dei popoli di serie B, noi siciliani siamo appena un po'
sopra i polinesiani. A loro nessuno ha chiesto il permesso per fargli
scoppiare una bomba atomica su un'isola. A noi nessuno ha chiesto il
permesso di mettere una batteria di bombe atomiche - a Comiso, ricordate?,
una quindicina d'anni fa - installate su missili e pronte per partire. Diciamo a
Comiso e diciamo quindici anni fa, ma la verità è che nessuno può escludere
che degli ordigni nucleari siano tuttora presenti, in questo preciso momento,
nella base americana di Sigonella a cinque chilometri dalla periferia di
Catania.
Quel che accade a Mururoa, da un punto di vista politico, è una
berlusconata: il governo Chirac deve dar conto alla destra del suo elettorato,
e "quindi" deve tirar fuori uno spot pubblicitario per dimostrare di essere,
agli occhi dei fascisti, più fascista di Le Pen. Da un punto di vista più
profondo, è terrificante: un qualunque governo dei nostri tempi, né migliore
né peggiore degli altri ed anzi relativamente più civile (in Francia non c'è
mai stato un mafioso presidente del Consiglio) non esita un attimo a mettere
in pericolo d'inquinamento radioattivo un pianeta pur di guadagnare qualche
migliaio di voti alle prossime elezioni. E chi ci dice che domani il deputato
Smith dell'Arkansas, per vincere le elezioni contro il suo rivale Jones del
Nevada, non ordini di lasciar andare un paio di missili nucleari di quelli
gentilmente lasciati in deposito da noi?
Accà nisciuno è fesso. Piena solidarietà con GreenPeace che giustamente
difende l'isola di Mururoa (per il mese di agosto, niente normale Siciliani:
saremo in edicola con una roba dedicata per l'appunto a GreenPeace e a
come dargli una mano), ma piena solidarietà anche con la pelle nostra di
noi. Chiediamo al nostro governo di farsi spiegare ufficialmente dagli amici
americani (eventualmente, se serve interprete, tenendo per un altro po'
Andreotti fuori dalla galera) cos'è questa storia delle testate atomiche in
Sicilia: se ci sono davvero, a che servono e chi lo decide, e perché - in ogni
caso - proprio qua da noi.
LA MEMORIA
I Siciliani, agosto 1995
In Cecenia, probabilmente, i comunisti erano biechi tiranni e gli
anticomunisti gentiluomini liberali di civile cultura. In Sicilia, invece, i
comunisti si chiamavano Pio La Torre e gli anticomunisti Salvo Lima. Se
Veltroni fosse stato Veltronoff e avesse rilasciato le sue dichiarazioni ("io
sono anticomunista") a Tiblisi, non ci sarebbe stato niente di male. Ma
Veltroni è Veltroni, e nonostante tutto sta in Italia. E l'Italia è il paese in cui i
comunisti - tirandola a grandi linee - sono stati, assieme ai marescialli dei
carabinieri, a una ventina di preti poveri e a qualche centinaio d'intellettuali,
l'unica componente della nazione civile, pulita e a dirla in una parola
occidentale.
Ogni tanto, naturalmente, arrivava qualche comunista importante - un
Michelangelo Russo, un Macaluso, un Turci - e diceva che bisognava
allearsi coi baroni (in nome del milazzismo) oppure cogli andreottiani (per
via della solidarietà nazionale) oppure con le imprese di Costanzo e Rendo
(perché non si può fare l'esame del sangue all'economia siciliana). Così
molte buone battaglie si sono perse. Ma ormai lasciamo perdere: è passato
tanto tempo da allora...
Parliamo - in realtà - di comunisti solo perché, per una serie di
circostanze, in questo paese le persone perbene hanno finito in
maggioranza, per molti anni, col chiamarsi così. Ma avrebbero potuto
chiamarsi in qualsiasi altro modo, laburisti, plebei, citoyens, democratici,
sarebbe stato lo stesso. A un certo punto sarebbe arrivato qualcuno coglionazzo o barone - e gli avrebbe detto: "Cittadini (o comunisti, o plebei,
o quel che cavolo siete stati fino ad ora)! Basta con tutta questa diversità,
basta con 'sta storia di volervi ricordare a tutti i costi chi furono i vostri
padri e le vostre madri. Basta con essere voi stessi. Ricominciamo daccapo.
Che ci frega? Ammazziamo la storia, riportiamo la memoria a zero, e può
essere che così diventiamo signori anche noi".
Ecco, il punto è questo. Non si tratta della memoria storica - che pure
sarebbe importante - di questo o quel partito, di questa o quella storia di
esseri umani. Si tratta dello spirito con cui, passate tante tempeste e di
fronte a tanti problemi, si vuole finalmente por mano alla ricostruzione del
paese. Del futuro, insomma, non del passato.
Fino a questo momento, gli esiti di questa ricostruzione hanno dato più
che altro nel ridicolo. Il libero mercato si è tradotto nell'arrangiamento dei
debiti di Berlusconi. La democrazia liberale nel rinnegamento dell'ideale
antifascista e nell'esaltazione dei Previti e dei Fini. Il nuovo modo di far
politica, nella persecuzione dei magistrati. La partecipazione dei cittadini
alla vita democratica, già scarsa prima, è ancor più povera e rozza oggi. Il
ceto politico "rinnovato" risulta altrettanto parassita, altrettanto insolente e
un po' più maleducato di quello di prima. Dov'è il cambiamento?
La colpa non è dei politici, che sono nella loro espressione media un
portato della nazione. La colpa è, storicamente parlando, del cittadino
italiano. Privato d'una cultura civile di base, staccato improvvisamente
(aveva ragione Pasolini) dalle sue radici nazionali e regionali, sottoposto a
un bombardamento di valori sempre più subalterni e sempre più artificiali, il
cittadino medio è sempre meno cittadino e sempre più spettatore. Ci si
riferisce a lui, oramai, solo usando i termini rigorosamente ideologici,
"l'audience" e "la gente".
Se il pool Mani Pulite rischia di finire in galera al posto dei ladri, la colpa
non è dei politici, ma della massa dei cittadini. Nella città più europea e
moderna d'Italia, Mani Pulite non ha ricevuto da parte della popolazione
alcuna solidarietà sostanziale. La "gente" ha seguito la "rivoluzione" con
furba indifferenza, scendendo al massimo in piazza - o più frequentemente
nei sondaggi - con qualche inoffensivo e generico "a morte!" e "viva!". "In
galera!" e "Terroni!" è l'imprinting che la metà più avanzata d'Italia ha dato
al "rinnovamento". I risultati, si vedono ora.
Per chi ha conosciuto l'altissimo livello civile e la toccante umanità di
quella stessa Italia negli anni Sessanta e Settanta - Milano di Franco Fortini,
ma anche degli operai di Sesto; Torino di Giulio Einaudi e del Sessantotto,
Genova degli scaricatori di porto e dei cantautori - l'amarezza non potrebbe
essere maggiore. Ci sono delle radici molto profonde, in Italia, su cui si
poteva puntare per ricostruire. Avrebbe avuto molto da dire, la sinistra - una
qualunque sinistra - per risvegliare il paese. Si è preferito andare alle
politichette dozzinali, ai piccoli compromessi coi Berlusconi, alle battutine
furbesche come quella di Veltroni. Roba che vorrebbe essere rassicurante
ma che invece fa paura.
Una sola cosa volevamo sapere dalla sinistra al termine degli anni di
Andreotti, su una sola cosa volevamo una risposta forte e chiara: "Vi
rimettereste d'accordo con Andreotti, se altri Andreotti tornassero, oppure
avete appreso la lezione?". La risposta è stata il giro di valzer con
Berlusconi, all'ultimo convegno del Pds. Al solito - e certo in buonafede per nobili e logici motivi. I magistrati che esagerano, niente scontri frontali,
l'accordo sulle regole... Va bene. Ma anche l'intesa con Andreotti, ai tempi
suoi, aveva giustificazioni non meno valide di queste. E ha finito per
distruggere il paese.
Nell'accordo e nella pacificazione generale, noi non ci crediamo. Non per
preconcetto estremismo, per "ideologia". Ma perché ricordiamo ancora il
passato, e quindi prevediamo il futuro. Se la sinistra avesse combattuto
Andreotti, non sarebbe stata travolta dal crollo del regime andreottiano. Ma
per combattere Andreotti bisognava credere profondamente nella propria
storia e nei propri valori. Bisognava sostenere - e non sacrificare all'intesa
generale - coloro che per questi valori combattevano in prima linea, fra le
forze di base. Bisognava sostenere gli Alfredo Galasso (e, tanto per dire, I
Siciliani) e non i Michelangelo Russo. Senno di poi.
Facile profetizzare adesso che, fra le tante situazioni di base che saranno
abbandonate a se stesse per correr dietro agli accordi "responsabili" e
"moderati" ci saranno, oggi come allora, I Siciliani. Per noi, poco male: ci
siamo abituati. Ma per la sinistra?
Ricordiamo ancora i dibattiti, a metà degli anni Ottanta, sull'informazione
in Sicilia: dopo dieci anni. I padroni dei giornali e delle tv sono sempre gli
stessi, noialtri siamo sempre qui a tenere il fronte con le nostre forze sole, e
la sinistra perbene sta sempre lì ad organizzare meravigliosi dibattiti che
non fan paura a nessuno. Allora, eravamo "estremisti" perché dicevamo che
non si possono fare accordi con i Cavalieri. Adesso, suppongo, saremo
"estremisti" perché diciamo che non si può dialogare col sistema di potere
di Berlusconi.
Noi restiamo fedeli alla nostra storia, che è la storia della Sicilia negli
anni dell'antimafia popolare. E alla nostra esperienza, che è quella di un
giornalismo di notizie e non di spettacolo, basato sulla fiducia dei lettori e
non sulle fiammate dell'audience.
Utopia? Sano realismo. Non sono mai mancati, in quindici anni, i giovani
che, generazione dopo generazione, son venuti nei momenti più difficili a
far vivere I Siciliani. In quindici anni, abbiamo pur costruito la nostra rete di
giovani e coraggiosi giornalisti e militanti, in ogni parte d'Italia, che non si
sarebbero rivelati a se stessi senza l'"utopia" dei Siciliani.
Povero di denari e di potere, il nostro complessivo bilancio - dopo tanti
anni - è abbondantemente positivo: molte cose, nel nostro piccolo, sono
state costruite, molti esseri umani sono cresciuti insieme a noi. Se lo spirito
di questa "utopia" fosse stato ripreso da altri più importanti di noi, oggi
forse la sinistra italiana non si troverebbe a dover scegliere il minor male fra
Dini e Berlusconi, fra Pippo Baudo ed Emilio Fede.
BOSNIA, MURUROA
I Siciliani, agosto 1995
Ferragosto, tutto normale. La giornata più normale dell'anno. Cosa può
fare un piccolo giornale come il nostro per non essere "normale"? Perché
noi ci vergogniamo, di questa normalità. Normale sarebbe stato andarcene
in vacanza come tutti. Oppure fare il solito giornale "normale", con le
normali critiche a Berlusconi e compagni - anche questa, alla fin dei conti,
una "normalità".
Ma quest'estate non è normale affatto. A pochi chilometri dalle nostre
spiagge, gli uomini della Jugoslavia combattono una guerra di razza contro
le donne e i bambini jugoslavi. Vincono i serbi e massacrano le donne e i
bambini croati. Vincono i croati, e massacrano le donne e i bambini serbi.
Dall'altro lato del mondo - ma gli effetti si sentiranno anche qui - stanno
facendo scoppiare una bomba atomica "sperimentale" per combattere un
nemico che da molti anni non c'è più. Sono cose importanti, e difatti le
leggete sui giornali "normali": fra una dichiarazione di Dini e una foto di
Serena Grandi. Professionalmente. Senza rompere il filo della normalità.
Greenpeace è quattro gatti in barca a vela che vanno a rompere le scatole
ai marines della Bomba: non serve a niente, però lo fanno. I Beati
costruttori di pace sono quelli che da anni vanno in Jugoslavia disarmati,
non hanno alcun potere, danno un esempio; non serve a niente, però lo
fanno.
PeaceLink e La Città Invisibile (le associazioni telematiche "popolari" )
non hanno certo i soldi di Microsoft o di Berlusconi, sono solo alcune
centinaia di amici con dei computer in rete, eppure da anni mettono in giro
notizie e dati che altrimenti sarebbero rimasti tagliati fuori dall'informazione
ufficiale: non serve a niente. Però lo fanno.
Pensate: il Corriere e la Stampa, Panorama e l'Espresso, l'Unità e la
Repubblica che per una volta rinunciano a uscire "normalmente" e si
dedicano completamente a dare una mano a Greenpeace, a PeaceLink, alla
Città Invisibile, ai Beati costruttori di pace, ai quattro matti isolati di
quest'estate "normale". Forse servirebbe a qualcosa, forse non servirebbe a
niente. Ma tanto, non lo fanno.
Infine: tutto questo non deve restare solo teoria. Con I Siciliani o senza
Siciliani, tu che leggi hai l'obbligo morale di "fare qualcosa" (Il fatto stesso
di avere la possibilità e il diritto di leggere, di partecipare a un circuito, di
avere un interlocutore collettivo, è già di per sé un privilegio). Non puoi
dire "io non c'ero". Ma fare cosa? Informarsi, conoscere, fare informare gli
altri, far sapere. Almeno questo. Far circolare le voci di coloro che da soli
non ce la fanno.
Pubblicare, come facciamo oggi, le note tecniche di PeaceLink e della
Città Invisibile dal nostro punto di vista serve esattamente a questo: metterti
personalmente in condizione, se puoi disporre di un computer, di partecipare
a questo laoro anche tu. Imparare a usare questi strumenti, e usarli con uno
scopo ben preciso: partecipare al circuito mondiale dell'informazione e della
solidarietà. Un circuito "povero", senza grandi concentramenti di mezzi e
tuttavia efficacissimo in certi momenti.
La rivoluzione, diceva un tale di quei tempi, è il comitato dei contadini
più portare la luce elettrica nel villaggio. La rivoluzione, oggigiorno, è la
tua ripulsa morale - la tua ribellione - più i computer in rete. La solidarietà
più le tecnologie.
ANDREOTTI
Liberazione, settembre 95
La lotta contro Andreotti e il suo potere non è stata, come credevamo
allora, la crescita civile e la progressiva presa di coscienza di tutto intero un
popolo, ma la battaglia di una combattiva minoranza "azionista" - a quei
tempi si diceva giacobina - della società siciliana. Non perché fosse
particolarmente diffusa, in Sicilia, una qualche forma specifica di "cultura
mafiosa" (quella, se mai è esistita fuori dalla letteratura, è morta con la
civiltà industriale), ma perché il dominio mafioso in Sicilia corrispondeva
perfettamente alle esigenze profonde - ordine, illegalismo, pace sociale,
mantenimento dei piccoli e grandi privilegi, parassitismo sociale - della
borghesia siciliana. Nel complesso d'Italia, identiche esigenze erano
soddisfatte con meccanismi analoghi, ma con un meno frequente ricorso
all'uso dell'omicidio. Fino alla fine degli anni Settanta, il potere mafioso è
stato semplicemente la variante meridionale dell'andreottismo, subalterna
sia ai poteri politici de jure (la democrazia cristiana) che a quelli de facto
(l'ambasciata americana e le massonerie).
Il periodo andreottiano, con la sua sub-variante mafiosa, è terminato in un
periodo imprecisato verso la fine dei Settanta, quando si sono verificate in
rapida successione le seguenti evenienze, del tutto - benché in fondo logiche
- inaspettate: il cambio di velocità della politica americana nel Mediterraneo
(di lì a poco, Comiso); l'infiltrazione di personale specializzato nelle logge
massoniche più potenti, e in ispecie nella P2, e la loro conseguente
utilizzazione a fini non più clientelari ma terroristici; l'allevamento di tutta
una nuova generazione di personale politico eterodiretto e la creazione
artificiale di nuovi indirizzi politici (il Midas e il "nuovo corso" del partito
socialista: ogni resistenza al quale venne stroncata dal rapimento del figlio
del vecchio leader De Martino); e infine, nel campo della mafia,
l'eliminazione dei vecchi "uomini di rispetto" e la crescita di nuovi boss
legati non più solo ai politici ma anche ai servizi segreti. Sono gli anni in
cui - per fare un esempio significativo - a Catania emergono
improvvisamente, da un momento all'altro e senza alcun radicamento
apparente, politici come Andò (commissione P2, servizi segreti, partito
socialista), mafiosi come Santapaola (personaggio minore di un clan
periferico), imprenditori come Graci o Rendo (appalti pubblici, velocissime
accumulazioni) e diventano rapidissimamente e del tutto inspiegabilmente
protagonisti di rilievo nazionale. Sono gli anni di svolta, e Andreotti
comincia a decadere già da allora (sarà utile ancora, sul piano
internazionale, come garante dello schieramento filoamericano dell'Italia;
ma anche quest'ultima utilità verrà a mancare, ovviamente, alla fine della
guerra con l'Unione Sovietica. Attualmente, Andreotti non serve a nessuno;
ma è servito a tanti che sarà ben difficile processarlo in pace).
***
Sono anche anni di lotta: man mano che diventa - che è obbligato a
diventare - più feroce, il potere mafioso incontra un'opposizione popolare
crescente. Cose che prima erano vissute come "normali" incontrano
improvvisamente una resistenza inaspettata. Il popolo siciliano - allora non
eravamo ancora "la gente" - diffidente, passivo, abituato da millenni a farsi i
fatti suoi, scopre con meraviglia alcune bellezze civili e, timidamente, vi
mette mano. Una scoperta del vivere, a ripensarla ora, adolescenziale. E'
una scoperta costosissima, perché ogni passo fuor della gabbia costa sangue.
Ma per alcuni anni, con timidezza ed entusiasmo, i neo-cittadini siciliani
vanno avanti. "Sicilia quanta gloria/ E chiantu e cori ruttu/ La mafia e li
parrini/ t'hanno vistuta a luttu...". Da Eboli in su, solidarizzano alla
televisione. Dell'antimafia a Catania oggi nel '95 è rimasto questo, che i
ragazzini pagano il biglietto salendo sull'autobus; mi cedono il posto
vedendomi zoppicante e col bastone, si alzano sorridenti e gentili. A volte
penso che già per questo valeva la pena. Abbiamo vinto, contro Andreotti
abbiamo vinto noi.
Sono passati gli anni, e dopo Andreotti hanno votato Berlusconi. A
Palermo, non Caponetto, ma un figuro come Lo Porto. A Catania, Benito
Paolone e Zeffirelli (come dire, er Pecora e Wanda Osiris). Dopo i Borboni i
Savoia, altro che Garibaldi. E d'altra perché usare Totò Riina, quando basta
Ambra? Una televisione vale mille lupare. Ordine, illegalismo, pace sociale,
mantenimento dei piccoli e grandi privilegi, parassitismo sociale: tutto ok.
Non c'è più bisogno di sparare. Venga Franza, venga Spagna... D'altra parte,
con Fini al festival dell'Unità, con Dini se non sai se fra sei mesi te lo
ritroverai come ministro delle finanze della sinistra o primo ministro di
Berlusconi, cosa gli rispondi nel millenovecentonovantacinque alla mamma
che ti dice "ma chi te lo fa fare"?.
Una cosa di cui non c'eravamo pienamente accorti allora, o meglio ce
n'eravamo accorti ma non nelle budella, non fino in fondo, è questa: che
uomini son venuti fuori da questa Catania e Palermo, da questo popolo
gramo, da questa Sicilia. Io non mi ero mai accorto, in realtà, di avere
conosciuto Borsellino. Avevo conosciuto un buon giudice, io che facevo il
giornalista, in un posto che si rischiava la pelle; tutto qua. O Calogero
Zucchetto, o Montana, o Cassarà. Storie di quotidiano lavoro, persone che
s'incontrano, routine; cerimonie di Stato, quando tutto - alla fine - era
concluso. Invece, erano eroi greci. Non roba da monumento, non da
telegiornale: da poeti. "Voi che siete caduti per l'Ellade...". "Se passi per la
mia città, straniero, dìgli che noi siamo caduti qui, obbedienti alle leggi...".
"Mio figlio, Robertino Antiochia, che faceva il poliziotto a Palermo...". Da
una distanza infinita, da un'epoca in cui non ci sono più samarcande né
meschini ma solo un grandissimo silenzio e il vento che passa lieve e il
mare e il cielo.
***
Eppure, una carta c'era da giocare, in quegli anni, una carta che avrebbe
potuto - forse - cambiare tutto. C'era una minoranza, abbiamo detto, una
minoranza giacobina. Ma era una minoranza giovane, anche
anagraficamente. Per due o tre anni, e forse per quattro, una parte non
indifferente della gioventù siciliana è stata politicamente schierata.
Politicamente in senso serio, non chiacchiere ma antimafia, democrazia
reale, cambiare la vita quotidiana, lotta. Questi giovani hanno trovato dei
capi, delle figure carismatiche, non degli organizzatori e dei maestri. Dei
Prampolini, dei Pancho Villa, dei Bakunin, dei fratelli Bandiera. Non dei
Gramsci, non dei Gobetti. Se... Ma la storia non si fa coi "se". Essi erano, in
realtà, la nuova classe dirigente del Paese. Non guardateli come sono ora,
emarginati o integrati o incattiviti o delusi. Ricordateli com'erano allora.
Avevano tutto per esserlo, avrebbero cambiato tutto. La vecchia sinistra non
li comprese - era troppo occupata a flirtare con Andreotti o con Martelli. La
nuova non ebbe il tempo - era troppo occupata a litigarsi le candidature, in
nome della nuova politica, a questa o quell'elezione. E' andata così..
UN PROCESSO
Avvenimenti, ottobre 1995
Il due ottobre è cominciato a Catania il processo per l'assassinio di
Giuseppe Fava ed era un pomeriggio qualunque, col bianco e il rosso e il
verde dei giurati e un giudice di mezz'età che leggeva "In nome del Popolo
Italiano...". Hanno letto i preliminari, i nostri avvocati hanno fatto
brevemente una dichiarazione, c'è stato un parlottìo fra i magistrati e
l'udienza è stata rinviata, secondo procedura, alla successiva riunione.
Siamo usciti dall'aula, che è chiusa in un palazzo alla periferia di Catania aula-bunker, la chiamano - e siamo usciti nel sole. "Fa caldo" dice qualcuno.
"E dire che siamo a ottobre". "E' vero, ma qui a Catania...".
Oltre il reticolato si vedono le stoppie e i sassi della periferia, una
lucertola per un attimo fa capolino sul muretto. Tutto qua. Un giorno
qualunque di dieci anni dopo. In nome del Popolo Italiano... Ci son voluti
dieci anni. Il vecchio dei nostri avvocati, oggi al processo, era Alfredo
Galasso e io me lo ricordo quando venne al giornale, da solo, molti anni fa.
La redazione era vuota - c'era la manifestazione contro la mafia, in piazza,
la prima manifestazione antimafia della città - ed egli girava fra le scrivanie
vuote, non dicendo niente. Si fermò davanti all'ultima, uguale a tutte le altre
ma con un vasetto di fiori gialli, quelli che portava Graziella ogni mattina. E
adesso è qua, con l'aria grave e tecnica dell'avvocato, lo vedo dall'alto e di
spalle mentre indica qualcosa su un foglio di carta a un collega. Nella
tribuna del pubblico c'è Gianfranco Faillaci, non essendoci mai stati i soldi dopo nove anni di redazione - per fargli il tesserino di professionista non
può entrare in tribuna stampa. Ne sa assai più di me, di procedura, ogni
tanto gli chiedo un dettaglio tecnico (io ormai di giudiziaria non so più
niente) e lui risponde.
Sotto la tribuna del pubblico ci sono le gabbie dei mafiosi, Santapaola sta
nella prima e tutti gli altri nelle altre. Non mi fanno nessuna pietà. Un loro
avvocato sta spiegando loro qualcosa, fa ampi gesti con le mani tenendosi
prudentemente a un metro di distanza dalle sbarre,. Essi gli rispondono
urlando. Faillaci venne con altri due liceali, dieci anni fa in redazione, era
bravo in greco, quando si laureò fece una bella tesi su un illuminista
calabrese del Settecento, morto povero naturalmente. E adesso è qua. Strano
come tutto questo sembri normale, adesso che è normale. Rosalba, in questo
momento, è in giro da qualche parte a fare rilevazioni statistiche, che è il
suo lavoro. Antonellina è a Milano, una delle migliori croniste di Radio
Popolare. Piero starà dormendo, perché ha il turno di notte in tipografia.
Antonio sta a Napoli, fa l'educatore in un carcere minorile. Rosario è in un
giornale di Cosenza, Elena fa la professoressa in un paesino della provincia,
Miki è diventato uno dei migliori reporter italiani, Nanni adesso ha un figlio
di vent'anni. E Nuccio, e Lillo, e il vecchio Garilli, e il professore D'Urso, e
Cettina e la signora Roccuzzo e Aurora... Vorrei avere lo spazio per scrivere
tutti i nomi. Sono gente comune, I Siciliani, gente come voi e me. Non
hanno nulla di straordinario, se l'incontri per strada, a nessuno è venuto mai
in mente di chiedergli un'opinione o di fargli interviste in tv. Eppure questa
guerra l'hanno vinta loro. Un centinaio di esseri umani, senza nulla di
particolarmente strano, che a un certo punto si sono messi insieme e hanno
fatto la guerra a Santapaola, ai Quattro Cavalieri, al giornale di Ciancio, ai
capibanda di Andreotti: volevano bene a un loro amico ch'era morto e
avevano dignità. Ho fatto molte analisi politiche, in tutti questi anni, per
capire il meccanismo della faccenda, per capire cosa si potesse cavarne che
potesse funzionare anche in altri momenti e in altri luoghi, ma la sostanza è
questa: avevano dignità. Quando leggete i giornali per bene, quando vedete
il Costanzo Show, pensate che la lotta alla mafia c'è chi l'ha fatta davvero,
da partigiani, senza chiedere niente: ed è per gente così che alla fine
Andreotti è finito dov'è finito.
***
Il tre ottobre, a Catania, è cominciata la causa fallimentare per gli
amministratori della cooperativa Radar, quella che stampava I Siciliani di
Giuseppe Fava. Adesso dicono tutti che era uno dei più bei magazine di quei
tempi. E capirai. Ma se vai a vedere la collezione non trovi l'amaro Averna,
non trovi i cantieri Rodriguez, non trovi un rigo di pubblicità. Facevamo
uno dei più bei giornali d'Italia, sicuramente il migliore della Sicilia,
vendevamo più di ogni altro magazine meridionale, eppure non c'era un
industriale siciliano disposto a metterci una lira di pubblicità. Il Banco di
Sicilia, che allora era in mano - praticamente - degli amici dei mafiosi,
faceva pubblicità sui giornali di Mantova, ma non sul nostro. Uniche
eccezioni, il signor Timpanaro che aveva un albergo sull'Etna ed era amico
del direttore, e qualche comune diprovincia, dotato di amministratori
particolarmente coraggiosi, che venivano contattati con mille salamelecchi
dalla nostra Nanni, e poi il direttore andava da loro a cercare di concludere
l'affare. Anche il giorno che l'hanno ammazzato, era stato in uno di questi
paesini a contrattare un po' di pubblicità e forse era andata bene e ne era
contento. Così abbiamo combattuto la mafia per dieci anni, con Gianfranco
e gli altri che davano gratis gli anni migliori della loro vita e con i signori
Averna, Rodriguez e tutti i loro colleghi "imprenditori" siciliani che stavano
vigliaccamente alla finestra a guardare mentre essi rischiavano la pelle
anche per loro. Nominammo amministratrice la Graziella, dandole la cassa -
vuota - della cooperativa e comandandole di fare uscire il giornale ad ogni
costo, perché non c'era tempo da perdere e le inchieste contro la mafia
dovevano andare avanti.
E adesso eccola qui, la Graziella, alla sezione civile del tribunale. S'è
impegnata la casa, s'è giocata tutto, ma il giornale è uscito, e Santapaola ora
è lì. Ci sono stati ragazzi nostri, non solo della redazione "adulta" ma
proprio di SicilianiGiovani, che era fatto di diciottenni e di ventenni, che per
portare avanti il giornale hanno firmato cambiali con la Lega delle
Cooperative e la Lega per riavere - giustamente - i suoi soldi gli ha mandato
l'ufficiale giudiziario e gli ha sequestrato tutto quel che gli poteva
sequestrare; due di loro, che si chiamano Edoardo e Carmen, hanno dovuto
rimandare il matrimonio - a ventun anni - perché cinque o sei milioni, tutti i
loro risparmi, sono finiti così. E non si sono mai lamentati, e se li incontri
ora ti dicono che sono orgogliosi di aver servito nei Siciliani. La Lega delle
Cooperative, in quegli stessi anni, faceva buoni affari - affari legalissimi
d'altronde - con i Cavalieri.
Io credo che questa storia non debba finire così.
IL POTERE IN SICILIA
Avvenimenti, novembre 1995
Troppo piccola per non essere invasa, troppo grande per essere governata
militarmente: la Sicilia, più che una storia, ha sempre avuto piuttosto una
geografia. Le élites siciliane si sono trovate automaticamente, grazie ad
essa, nella posizione di interlocutori privilegiati ed automatici di ogni
dominatore "esterno". Dai Reyes Catolicos ai politici dell'era andreottiana,
ogni potere siciliano (il cui baricentro non risiede mai in Sicilia) s'è trovato
nella situazione di dover appaltare quasi tutte le funzioni interne (ordine
pubblico, giustizia, ricerca del consenso) alle élites preesistenti: baronìe e
cosche mafiose, da questo punto di vista, hanno adempiuto esattamente alla
medesima funzione. In cambio, acquiescenza assoluta sulla politica "alta" e
rinuncia implicita a farsi portavoce d'interessi locali.
Insieme con l'incidente storico dell'Apostolica Legazia (una specie di
gallicanesimo ante litteram ereditato dai Normanni: e cioè, in buona
sostanza, l'eliminazione dei contrappesi ecclesiastici al potere) questa
situazione ha determinato le peculiarità ideologiche - quanto alle élites:
diversissimo è il discorso per le culture popolari - degli intellettuali siciliani.
Castrata in partenza, salvo casi estremi (ed "estremisti": Di Blasi, Fava,
Pintacuda) la funzione di controllo sul potere, mai vissuta di conseguenza la
fase nazional-popolare, incanalata la ricerca esclusivamente sui livelli
formali, cosa resta alla fine? Sciascia e Meli. Fronda dall'interno dei valori
ufficiali, Parigi più vicina di Caltanissetta, scrittura come forma - elegante di potere. Arcades ambo. (Non a caso, parlando di élites di potere in Sicilia,
torna sempre più facile parlare d'intellettuali).
LETTERA A UN SINDACALISTA
1995
Caro G., mi scuso per il ritardo, ma le mie condizioni di salute in questio
periodo non sono state delle migliori. Dovete stabilire voi la data del
convegno: o subito prima, o subito dopo il referendum. Nel primo caso,
conclusione della campagna referendaria, ma conclusione forte, dal Sud,
con due o tre storie esemplari di scontro e di ricostruzione. Nel secondo
caso, il convegno potrebbe essere il primo atto politico propositivo dopo la
vittoria nel referendum: "E adesso che abbiamo vinto, ecco che cosa faremo
nel settore dell'informazione". Anche qui, il fatto di parlare dal Sud implica
una maggior radicalità e densità dei contenuti o perlomeno pone in
sottordine i filoni più salottieri della nostra gioiosa macchina da guerra. (E
se perdiamo? In questo caso, per quanto ci riguarda, il repertorio è ben noto:
lacrime e sangue, niente scoraggiamenti, restare organizzati, non mollare).
I temi del convegno: naturalmente, tocca a voi fare delle proposte
complessive. Da parte mia, vedrei alcuni punti che sono locali, ma che
rappresentano in forma estremamente concreta e precisa le questioni
fondamentali che abbiamo di fronte - quanto all'informazione - sul piano
nazionale.
1) Il caso Ciancio. Ciancio è un editore siciliano, vicino ai cavalieri e non
nemico della mafia, che per lunghi anni ha convissuto con altri editori di
provincia, in un sistema reciprocamente bilanciato e tutto sommato
periferico rispetto ai grandi imperi editoriali. La novità di quest'anno è che
Ciancio ha praticamente ingoiato gli altri, dando luogo a un monopolio di
fatto, e soprattutto che l'ha fatto giocando abilmente sui rapporti coi grandi
gruppi nazionali: appoggio politico - ma con prucenza - a Berlusconi,
accordi commerciali con Pubblikompass. Questa storia ha dei connotati
specifici "mafiosi", ma a questo punto non sono essi l'aspetto centrale: più
preoccupante è la "modernità" ed esemplarità dell'operazione, che per le
modalità con cui viene portata avanti è perfettamente compatibile tanto con
un quadro di destra quanto con uno di centrosinistra. Ciancio è l'editore di
domani, molto più di Berlusconi.
2) Repressione. I giornalisti licenziati o emarginati al Sud hanno diritto a
una conferenza stampa qualche giorno dopo il licenziamento, a un articolo
sul Manifesto e se sono molto fortunati a una presa di posizione del
sindacato (nazionale, perché quelli regionali esistono poco). Il caso di
Finocchiaro, qui a Catania, è esemplare. Finocchiaro, in un certo senso, è un
privilegiato perché e stato licenziato da professionista: ma in altri casi la
vittima è un "biondino" che, dopo anni e anni di lavoro, viene
semplicemente cancellato dalla faccia della terra: senza nessuna possibilità
di difesa, perché ufficialmente non esiste.
3) Sindacato. M'è venuto il ghiribizzo, qualche settimana fa, di vedere
come si fa a presentare una lista alle elezioni locali. Non avevano nemmeno
una copia dello statuto sindacale. A memoria di giornalista qui non sono mai
state presentate liste contrapposte. Si vota alla bulgara, allora colleghi siamo
d'accordo?, e l'unica possibilità di entrare negli organismi sindacali consiste
nel contrattare un posto nel listone.
4) Mafia. Il collega rimproverato dal suo direttore davanti al boss
mafioso, "La Sicilia" che letteralmente inventa false dichiarazioni per
salvare Graci, ecc: anche qui, casi esemplari, che avrebbero dovuto dar
luogo a grandi battaglie democratiche, e che invece hanno incontrato solo la
reazione dei Siciliani. Bisogna che qualcuno venga a dare la sveglia al
sindacato e all'Ordine locali. Da soli, non ce la facciamo.
Ecco, questa potrebbe essere una buona base per cominciare. Poi ci
sarebbero la questione del referendum - ma su questo non credo che ci sia
bisogno di discussioni - e quella del Progetto Siciliani, che ci stiamo
preparando a rilanciare. Ma di questo potremmo parlare di persona fra
qualche giorno.
LA RAGIONE
Avvenimenti, giugno 1996
"...la raison tonne en son cratère..."
Domenica 16, a Catania, è morto il professor Giuseppe D'Urso e questa è
probabilmente l'unica pagina dell'unico giornale che lo ricordi. Tuttavia è un
avvenimento storico: 16 giugno 1996, muore Giuseppe D'Urso che
sconfisse i mafiosi
E' stato il primo, in tutta Italia, a dire cos'era veramente la mafia dei nostri
tempi. Non un'escrescenza criminale, non una patologia; ma il braccio
armato, organizzato da molti anni su basi ben precise, di una parte
consistente della classe dirigente siciliana e nazionale, quella inquadrata negli ultimi decenni - dalle massonerie deviate. Fu lui ad postulare per
primo, e a descrivere con precisione, il legame organico fra mafie e
massonerie, ad analizzarne le strutture, a denunciarne la strategia. Tutti gli
altri, vennero dopo. E quando, faticosamente, il concetto di "massomafia" il termine da lui coniato nei primi anni Ottanta - divenne senso comune,
allora e solo allora la lotta ai poteri mafiosi poté cominciare davvero.
Andreotti, Licio Gelli, i cavalieri catanesi ebbero nel suo cervello il nemico
più pericoloso.
Ci fu maestro, a noi dei Siciliani. Nessun altro ebbe così pienamente
questo onore; eccetto Giuseppe Fava. Nel 1982; prima ancora - anche qui,
l'unico - dei Siciliani egli già denunciava pubblicamente i cavalieri catanesi,
i magistrati al loro servizio, le servitù, gli affari. Era allora presidente
dell'Istituto Nazionane di Urbanistica e di questa prestigiosa posizione si
valse - oltre che per una notevole attività scientifica - per una
documentatissima battaglia civile. Nel gennaio dell'84, dopo l'assassinio di
Giuseppe Fava, raccolse l'appello dei giovani e si arruolò - non c'è altra
parola - nei Siciliani. Da quel momento, la sua vita fu indissolubilmente
legata alla nostra e la sua ragione e il suo cuore appartennero ai Siciliani.
Nell'autunno del 1984 fondò l'Associazione I Siciliani, di cui fu il
Presidente. Piccolo gruppo di militanti, l'Associazione si radicò rapidamente
ed aquistò peso ed influenza; insieme col Coordinamento Antimafia di
Palermo e col Centro Peppino Impastato, fu il primo esempio in assoluto di
politica militante, nell'Italia degli anni Ottanta, fuori dei partiti. Oltre a
D'Urso, l'Associazione poté contare su uomini come il sacerdote Giuseppe
Resca, il magistrato Scidà, il professor Franco Cazzola, l'operaio Giampaolo
Riatti ed altri ancora. Era la nuova classe dirigente, quella che avrebbe
potuto davvero cambiare tutto; finché essa fu unita, non passarono i
gattopardi.
Nel 1990, il professore fu fra i ventiquattro fondatori della Rete, nata
allora non come un partito ma come un movimento unitario di liberazione .
Egli ne organizzò i primi passi dal letto in cui già era inchiodato,
contribuendo come pochialtri alle sue prime vittorie. In seguito, le
ambizioni personali vi presero - per sventura del Paese; come in tante altre
occasioni - il sopravvento, e solo il coraggio individuale, che non fu mai
tradito da alcun siciliano, sopravvisse agl'ideali con cui s'era partiti. Ma già
allora, e non casualmente, egli ne era stato emarginato.
Gli ultimi anni, di lunga malattia, furono una feroce vendetta della
Fortuna invidiosa.Egli la sopportò virilmente, ragionando fino all'ultimo. Io
ricordo una sera, quando una diagnosi dei medici gli dava poche settimane
di vita. Mi avvertì pacatamente che non avrebbe potuto, non per sua colpa,
far fronte ad alcuni impegni organizzativi predisposti. Me ne espose il
motivo. Mi dette cortesemente alcune istruzioni per continuare in sua
assenza. Il resto della serata fu speso in una conversazione su alcuni punti
controversi del pensiero di Benedetto Croce.
***
"Addio, compagno! Per buon tempo hai combattuto, e con onore/ Per la
libertà del popolo..." dice un antico canto rivoluzionario. Giuseppe D'Urso,
ingegnere, pensatore illuminista e militante del popolo siciliano, ha
combattuto come pochissimi altri per il bene comune. La sua vita è stata
utile, il suo pensiero fraterno; non ha sprecato un attimo della sua forte
intelligenza; ha vissuto. I suoi figli possono essere orgogliosi di lui, e
orgoglioso chi gli fu amico. Quando sarete liberi, voi della Sicilia e di
tutt'Italia, quando sarete dei cittadini, allora - e solo allora - portategli un
fiore.
UNA PREFAZIONE
luglio 1996
Questa in realtà è la seconda edizione delle fiabe di Antonella Consoli. La
prima, di alcuni anni fa, consta di venti esemplari fotocopiati - Edizioni "du
Chocolait au lait", Catania - dopo essere stati battuti a macchina con la
vecchia Lettera 32 della redazione dei "Siciliani" (le prime quattro fiabe) o
con una Underwood di proprietà privata (le successive). La Lettera 32 stava
allora nella redazione di Corso delle Province e a parte le fiabe serviva per
scrivere robe sulla mafia. La Underwood stava sul tavolo nella stanza
grande della casa al quartiere Cibali, sempre a Catania.
La stanza dove di norma si scriveva era assai luminosa e aveva un
balcone sulla strada. Una volta il balcone fiorì improvvisamente di fiori
porpora, molto belli; chiaramente - da un punto di vista botanico - delle
erbacce, ma tuttavia dei bei fiori. La vicina disse loro che il nome
dell'erbaccia era "fior di miseria", ed essi risero molto. In effetti c'era poco
da mangiare, l'affitto si pagava di rado ed era abbastanza difficile anche
comprare i giornali. Possedevano questa Underwood da cronisti, un
radioregistratore portatile con un po' di cassette (Mozart, Malher e qualcun
altro) e poi c'era - nel ricordo - molto sole.
Essi erano là, sintetizzando estremamente la situazione, allo scopo di
presidiare Catania nel quadro della Lotta alla Mafia. Questa, oltre loro, in
quel momento poteva contare in città su un vecchio magistrato
unanimemente considerato matto dai ben pensanti, su un altro matto
specializzato in analisi dei poteri massomafiosi, su un paio di preti e su
alcune ragazze e ragazzi. Nel resto d'Italia, a quel tempo, c'erano Andreotti e
Craxi e gl'italiani e però, salvo rare eccezioni, fuor di quella e di qualche
altra città non si sparava. Così, se uno volesse fare una storia
particolarmente pignola, potrebbe anche dire che le Fiabe in realtà sono uno
dei tanti frutti della Sicilia dell'antimafia; un samizdat, in un certo senso; un
vivere per qualcosa, un costruire, nello stesso momento in cui si viveva
contro. Ma queste probabilmente sono parole troppo importanti per una
modesta edizione da venti copie.
Bene, questo per quanto riguarda la prima edizione. Per completezza si
può aggiungere che la stampa, e cioè la fotocopiatura di tutt'e venti gli
esemplari, avvenne un paio d'anni dopo nella redazione - quattro stanze - di
un giornale di sinistra romano che nasceva allora, e di cui queste venti
fotocopie furono la prima gloriosa produzione editoriale. Traghetto,
passseggiare per Torre Argentina, l'amica francese che Antonella trovò a
Roma, e ancora gli anni... Ma questa è già un'altra storia. Per ora basta dire
che c'è dell'altra roba nel cassetto. La Sicilia difatti, almeno in tempo di
guerra, è un posto dove si vola molto alto. E Antonella Consoli, anche come
scrittrice, è un pezzo di Sicilia.
GIORNALISMO E TECNOLOGIE
OG, ottobre 1996
Molti e molti anni fa il nostro direttore ci costrinse a fare un corso di
computer - del tutto illegalmente: nel 1980 il contratto dei giornalisti non
prevedeva affatto l'uso delle tastiere - e alle nostre rimostranze rispose:
"Beh, può darsi che un giorno o l'altro vi venga voglia di farvi un giornale
vostro...". E andò proprio così: quando il giornale in cui lavoravamo chiuse
mettemmo in piedi una cooperativa e tirammo su un giornale nostro, che
riuscì a sopravvivere per parecchi anni anche grazie al fatto che eravamo in
grado di gestirci da noi le tecnologie. E questa è una delle due facce della
medaglia. L'altra faccia è che oggigiorno, in un giornale qualunque, un
ragazzo magari uscito da una scuola di giornalismo ma privo di ogni
esperienza sul terreno è in grado, nel giro di sei mesi, di montare una pagina
al desk: Internet, agenzie, un software d'impaginazione, un buon manuale di
grafica, un minimo di media cultura. La maggior parte delle cose che
servono per montare questa pagina, infatti, non sono più specifiche del
mestiere, e l'editore lo sa. Il giornalista di una volta, magari politicamente
qualunquista e non eccessivamente maturo sul piano sindacale, possedeva
tuttavia un complesso di esperienze e cognizioni che lo rendevano
praticamente insostituibile, e questo sul piano dei rapporti con l'editore
aveva un suo peso.
Allora la selezione nel nostro mestiere era durissima, ingiusta ma, a suo
modo, efficiente: non sopravvivevano i migliori umanamente, ma almeno i
più "giornalisti". Il giro degli ospedali, le venti righe di nera, la lotta
darwiniana per dare la bucatura, sentirsi giornalista fino all'ultimo pelo... Le
tecnologie consistevano in una Lettera 22, e il resto era tutto mestiere. Per
lavorare a un giornale, a quei tempi, bisognava - e bastava - essere un
giornalista. Il giornalista era colui che trova e scrive le notizie. Il giornale
era il posto dove la gente le trovava.
Tutte queste cose, negli ultimi cinque-sei anni, si sono trasformate
radicalmente. Il giornale non è più il posto principale dove la gente trova le
notizie. La stessa notizia è diventata qualcosa di molto diverso di prima, ed
è diventata un complesso simultaneo di informazioni/emozioni che prima
giungevano in tempi molto diversi, veicolate in parte dal giornalismo e in
parte dalla letteratura.
Da alcuni anni insomma - cinque, sei, forse otto anni - è stata inventata la
televisione. Ma la televisione non risale agli anni Quaranta? Niente affatto.
Dal nostro punto di vista, che è giornalistico, la televisione non è stata
affatto un'innovazione sostanziale fino ai tardi anni Ottanta: il telegiornale,
il mezzobusto, la notizia televisiva, erano semplicemente la traduzione su
una nuova tecnologia di tecniche e culture preesistenti. Poi sono arrivate la
Cnn, Tele Globo e Samarcanda: non più giornalismo "stampato" messo
davanti a una telecamera, ma qualcosa che concettualmente nasceva - nel
bene e nel male - dall'interno stesso della nuova tecnologia. Da quel
momento, la televisione ha smesso di rincorrere la carta stampata, ed è
cominciato il contrario. La prima pagina di un giornale bempensante e
tradizionale come La Stampa si ispira esplicitamente - per bocca del suo
progettista grafico, Piergiorgio Maoloni - a criteri "televisivi". Per non
parlare delle esperienze di punta come Wired o come Extra, brutalmente
basate sullo zapping fra unità elementari di lettura.
***
Tutto questo per dire che i salti tecnologici, nel nostro mestiere, non
incidono tanto nel momento in cui vengono elaborati, quanto nel momento
in cui vengono digeriti: le nuove tecnologie, in altre parole, non sono
decisive in quanto tecnologie, ma in quanto catalizzatrici di nuovi approcci
culturali. Gutenberg inventa - o reinventa - i caratteri mobili, e questa
sarebbe già una faccenda abbastanza importante ma non poi così
trascendentale; i cinesi coi caratteri di legno ci hanno convissuto
pacificamente per alcune centinaia d'anni e senza che nessuno ci facesse
gran caso, all'infuori dei mandarini della Celeste Stamperia Imperiale. Ma
Gutenberg
unisce
immediatamente
all'innovazione
tecnologica
un'innovazione culturale: se questo aggeggio serve a far tanti libri, lo uso
subito per clonare il libro-base della mia società, la Bibbia, e poi sto a
vedere che cosa succede; e nel giro di pochi anni ti arriva la Riforma
protestante con annesso rivoluzionamento d'Europa. "Un viaggiatore di
ritorno dalle Russie quindici giorni fa ha riferito...". Ma poi nasce il
telegrafo, e allora quello che è successo l'altro ieri a San Pietroburgo diventa
immediatamente materia di rivoluzionamento alla Borsa di Londra... E così
via. Kipling viaggia con la sola compagnia d'un disegnatore, e la questione
anglo-indiana arriva in Occidente sotto una rassicurante veste letteraria; ma
la Guerra civile americana è coperta dai primi fotoreporter coi loro enormi
treppiedi, e l'umanità scopre improvvisamente una visione completamente
diversa della guerra, un po' meno classica un po' più brutale. Ogni singolo
salto tecnologico ha funzionato in generale, ma soprattutto nella storia del
nostro mestiere, come moltiplicatore dei salti culturali. Quando è arrivata la
rotativa, un osservatore attento - o un poeta - avrebbe potuto preconizzare
non solo le novità del formato, della tiratura e della foliazione, ma anche la
catena Hearst, gli incidenti di Cuba, la guerra ispano-americana, e l'inizio
dell'espansione politica americana: linearmente, poiché queste cose seguono
una logica molto stretta.
***
Internet, le telecomunicazioni, i sistemi di rete vanno letti oggi,
probabilmente, da un angolo visuale di questo tipo. Il computer, da questo
punto di vista, sta venendo inventato in questi mesi. In Giappone, clonando
un computer Macintosh (il più "amichevole" sul mercato) la Pioneer è
riuscita a produrre il primo "computer per casalinghe": una macchina che
non assomiglia affatto a un computer, che s'inserisce discretamente
(esattamente come un videoregistratore) sotto il televisore, che non richiede
cognizioni di nessun tipo per essere fatto funzionare - non ha neppure
tastiera - e che concettualmente è uscito completamente dalla categoria delle
macchine "per appassionati" come il vecchio computer, la cinepresa a nastro
e la radio a galena. L'automobile ha trasformato il nonstro modo di pensare,
e il nostro mondo, non quando è stata inventata ma quando è nata la Ford
modello T. Questo momento è oggi vicinissimo per il computer, e il
dibattito attuale su Internet è semplicemente la premonizione di questo
momento.
E noi giornalisti? Fra quattro-sei anni al massimo, in quanto categoria,
semplicemente non esisteremo più; cosa d'altronde non nuova nella storia,
visto che una sorte del genere è già toccata ai De Foe, ai Rochefort, ai
Kipling - il libellista, l'agitatore, il viaggiatore, le varie categorie in cui di
volta in volta s'è incarnato il mestiere. Una via d'uscita ci sarebbe:
trasformarsi coerentemente - e continuando lucidamente ad essere
giornalisti - in qualcosa di completamente rinnovato. Come? Ne parleremo
avanti. Per intanto, il problema non è solo e tanto "imparare le tecnologie"
ma "pensare in un mondo in cui la gente comune vive con le tecnologie".
STAZIONE TERMINI
settembre 1996
Alle dieci meno un quarto sono arrivati quelli della Comunità, due
ragazze e un ragazzo con i panettoncini. Una delle due sbircia
continuamente l'orologio e tuttavia si sforza di far garbata conversazione. È
l'ultimo dell'anno e abbiamo pur diritto, noi barboni qui a Termini, a un
minimo di calore umano e di solidarietà. Lei si chiama Anna, comunica con
un sorriso Wasp la ragazza, e questi sono Massimo e Sabrina.
"Tanto piacere, Bialetti" fa allora l'Ingegnere e le sorride a sua volta,
sforzandosi che sia un formale sorriso da ascensore e non qualcosa di più
impegnativo, casomai la fighetta poi si metta paura (l'Ingegnere sa
benissimo di non avere un aspetto particolarmente elegante, qui ed ora).
Sorrido anch'io alzandomi con un mezzo inchino cosa che l'Ingegnere per
motivi d'età non riesce a fare cavandosela tuttavia con grandissimo stile con
la battuta successiva: "Buon anno, cara, e grazie della sua visita gentile"
(forse ha sorriso anche Angela, seduta sui suoi sacchetti di plastica che non
molla mai, ma d'altra parte è difficile definire esattamente se e come Angela
sorrida).
"Buon anno!" fa la fighetta rieseguendo impertubabilmente da zero il
software preinstallato. ("...anno ...anno" fanno eco l'altra fighetta e il
fighetto) . "Siamo qui con questo piccolo dono - che poi sarebbero i tre
panettoncini dell'anno scorso - e vorremmo brindare con voi al nuovo anno
che sia più fortunato di questo eccetera eccetera...". Fa un cenno al collega
che s'era tenuto pronto all'uopo, e questi tira fuori una fanta e comincia a
versare in quattro bicchieri di plastica che mette in giro: uno alla
capopattuglia, uno a me, uno all'Ingegnere, uno ad Angela (che al solito lo
guarda stonata senza riuscire a coordinare occhio, cervello e mano e il
bicchiere le resta sospeso per quindici secondi davanti al naso prima che il
fighetto sgami la situazione e se lo ritiri).
L'Ingegnere ed io ci guardiamo e alziamo con solennità i bicchieri di
plastica: "Buon anno!". Beve la Wasp con la medesima battuta e beve il
ragazzo Massimo nella plastica originariamente destinata alla Angela.
Okkèi, missione compiuta.
"Sono le dieci e venti", comunica la Sabrina, prima e ultima battuta sua
del copione. "È tardi, dobbiamo andare..." fa l'altra, "Ma prego, si figuri" la
cerimonia, pronto, l'Ingegnere. I tre se ne vanno con sorrisi e con sollievo,
noi restiamo con le plastiche in mano. Senza consultarci io e l'Ingegnere
buttiamo bicchieri e contenuti sul binario mentre Angela è ancora là che
pensa e forse le sta albeggiando sulle labbra un sorriso che tuttavia non ha
nulla a che vedere coi tre fighetti, ma risale evidentemene a qualche
dimenticata locazione del suo hard-disk che ora chissà da dove torna a galla.
"Bene - fa l'Ingegnere - io ora mi metterei a dormire" e in quella arriva
Schillaci la guardia e ha un termos di caffé caldo e noi beviamo grati e poi
lo sbirro Schillaci fa una cosa meravigliosa e tira fuori due mignon di
Grappa Rododendro o qualche schifezza del genere e "...anno!" fa e ne gira
una a me e una all'Ingegnere e poi volta le spalle e mentre s'allontana ne tira
fuori una terza che apre coi denti e si beve fottendosene con tal gesto del
Regolamento di servizio. È capodanno, giorno poco favorevole al rispetto
dei regolamenti, difatti: a) la stazione resta aperta tutta la notte
contrariamente al solito; b) si lascia dormire in sala d'attesa; c) si lasciano
accesi tutti i riscaldamenti in stazione. Non male.
Ognuno con la sua bottiglietta - i panettoncini sono tutti per Angela, che
senza precisamente percepirli si affretta a tesaurizzarli: domattina forse si
renderà conto che sono da mangiare - l'Ingegnere ed io ci separiamo.
Siccome adesso, graziadìo, siamo fra persone civili, non servono
chiacchiere per farci i complimenti, ma un cenno della testa basta a
sintetizzare il reciproco augurio di arrivare in qualche modo al capodanno
dell'anno dopo.
Dopodiché ci allontaniamo lui verso la sala d'attesa stanotte disponibile e
illuminata e io a fare due passi lungo i binari. Mi piace moltissimo vedere
arrivare i treni e stasera sono particolarmente ottimista perché ho da
mangiare per almeno 4 giorni e forse sono riuscito a risolvere il problema
non facile di come modificare in parallelo un file Gif destinato a Internet e
uno sempre Gif destinato invece, ma a più alta risoluzione, ad essere
regolarmente impaginato su XPress, escamotage utilissimo che
probabilmente un giorno applicherò non so come non so dove ma tuttavia
bisogna ragionare regolarmente "come se" facendo somma attenzione a non
perdere il ritmo e l'abitudine e in ogni caso a continuar regolarmente sia
pure in condizioni difficili il cammino intrapreso eccetera eccetera.
E in quella ti arriva in rapida successione un flash proprio di capodanno:
tuo nonno ha detto qualcosa fra le luci e tutti ridono - ma era capodanno? o
era il matrimonio di Enzo e Nuccia? il '63, il '66? no, nel '66 era già morto.
Dov'ero io nel '66? Era l'anno di Salina, del comandante Pojero, di Giusi?
Quello dell'autostop? No, l'autostop era il '67. Già. E poi, alla fine del '67 ci
fu Panaiota, quella storia dei greci e poi... E intanto lungo la banchina la
gente si muove rapida, era il treno da Pisa, e fra la folla del treno di Pisa
improvvisamente una ragazza ti guarda da sopra la spalla e ti sorride
luminossissima - a te? sì proprio a te, non c'è dubbio - per un attimo
interminabile e intenso.
STAZIONE TERMINI 2
Ossigeno, marzo 1997
Stazione Termini la domenica pomeriggio è sempre stata piena di italiani,
gente con la valigia in una pensione e la nostalgia dello struscio, la sera del
dì di festa, su e giù per la via del paese (Caltanissetta o Rovigo, non ha
importanza: italiani, venuti a conquistare la Lambretta, o la Seicento, o una
laurea in lettere o un impiego). Adesso gli italiani di Termini, fra l'ora della
schedina e la sera, sono di pelle nera. Vanno su e giù per l'atrio coperto, a
crocchi apparentemente casuali, a smicciare le ragazze del paese. Noi siamo
gli svizzeri o i tedeschi. Crediamo di vedere "extracomunitari"
(Gasterarbeiter, Macaroni) laddove invece si tratta molto semplicemente di
noialtri vent'anni dopo.
Il Dante che ha fatto Termini ha statuito dei gironi ben precisi, che
variano con le annate ma sono sostanzialmente gli stessi. I sotterranei del
metrò, ai diversi livelli, sono dedicati ai corpi stesi a) per dormire b) per
crepare c) per le varianti intermedie. Negli ultimi anni, diciamo da dopo la
lampada Osram, la variante a) tende a prevalere sulla b), ma è, come si dice,
un'ipotesi non suffragata. Il cuore del girone sotterraneo, che un tempo stava
nei bagni diurni, adesso dovrebbe coincidere - in teoria - col megadrugstore
all'americana inaugurato con molti buoni propositi sotto Rutelli: folla
aeroportuale, si progettava, e luci al posto degli angoli bui e dei barboni. Il
drugstore in realtà, salvo che in alcuni momenti, gira ben poco. E' vuoto,
comunque, esattamente nei momenti in cui avrebbe dovuto politicamente
essere pieno. Dopo la mezzanotte c'è qualche povero diavolo che ciondola
poco convinto fra le vetrine, marcato con diffidenza dalle guardie in
borghese, e questo è tutto.
I binari di deposito, dal lato opposto, hanno conosciuto una stagione di
gloria ai tempi dei primi magazine dei quotidiani: il venerdì di Repubblica,
il Sette del Corriere e così via; roba da fare in fretta, senza tempo da
perdere, per i lettori della cronaca, mica per gl'intellettuali che leggevano
Panorama o Espresso. Così bastava trovare una pattuglia di Polfer,
convincerla a fare una ronda fra i treni morti, e tenere il flash carico e la
macchinetta pronta: nel giro di due ore te ne tornavi col carniere pieno di
facce insonnolite, spacciatori ipotetici, ragazzi scappati di casa,
gasterarbeiter senza futuro, gente che dormiva là di passaggio fra una
pagina di Dickens e un mattinale di questura. Copertine. Adesso però
persino i magazine dei quotidiani si sono sofisticati, e le storie dei binari
morti si vendono molto meno.
Le storie dei sotterranei e quelle dei binari e diverse altre confluiscono in
verità (ma non è una verità da copertina) nella guerra che la società civile
che circonda la stazione conduce contro i preti. I preti (Caritas e roba del
genere) sono assolutamente contrari alla disinfestazione della stazione; e
ospitano i disinfestandi, con la scusa che sono umani, nei centri
d'accoglienza della stazione. La società civile è rappresentata dai padroni
degli alberghi della zona, che periodicamente montano campagne contro
gasterarbeiter e preti per chiedere l'eliminazione dei primi e
l'allontanamento dei secondi.
Sotterranei e binari morti sono i gironi. L'atrio coperto, la domenica
pomeriggio, invece è il Limbo. Quello in cui gli esseri umani non destinati
al paradiso vivono tuttavia una loro vita - almeno per qualche ora - senza
torture. Su e giù, a gruppi - o femminili o maschili - d'emigranti,
incrociandosi con sorrisi che noi non capiamo, frullando incomprensibili
dialetti non più calabresi o di Burinia ma nigeriani o zairoti. Ed ecco quella
ragazza dal viso grave, fasciata con maestosa eleganza in un vestituccio
lieve, che guarda con ironia - seduta al bar della cooperativa - a due tavolini
più in là... Ed ecco il ragazzo nero e incravattato, col notes degli appunti e la
borsa, che è qua perché è troppo triste studiare in pensione. Da dieci minuti
lui la puntava, alzando gli occhi dal libro con aria indifferente e
ripiombandoli subito dopo giù. Lei, che ha qualche anno in più, o forse ha
vent'anni anche lei ma in più è una donna, se l'è sgamato subito, ma è troppo
ragazzino; o forse - oggi, liberi! - vuole giocarci. Lui la guarda di nascosto,
lei placca al volo lo sguardo e glielo restituisce con ironia. Potrebbe andare
avanti moltissimo, se il cameriere tedesco o svizzero non si piantasse
davanti al ragazzo che è qui da un quarto d'ora per un unico e già consumato
cappuccino da tremila lire. Il ragazzo raccoglie i libri e si alza, da sopra la
spalla guarda con rimpianto alla donna che sta sorridendo sarcastica e si
avvia verso l'uscita della stazione. E lei, sempre con un sorriso alla Lauren
Bacall, si stacca da dove stava appoggiata e muove un passo distratto e
forse, chissà, lo segue...
***
Stazione Termini, bianco/nero, regia di Vittorio De Sica, con Montgomery
Clift e Jennifer Jones. (Non c'entra niente). Millenovecentocinquantatré...
ARIEL
Ariel, giornale di detenuti di Palermo e Pescara, maggio 1997
Questo giornale è senza censure. Potete non essere d'accordo con quel che
c'è dentro - e neanche noi che l'abbiamo fatto siamo tutti unanimi su tutto però una cosa è certa: che abbiamo scritto esattamente quello che
pensavamo. Per questo, e non per altro, questo è un giornale "strano":
perché è libero. Alcuni dei nostri redattori, la sera, tornano in carcere:
eppure, sono più liberi della maggior parte dei loro colleghi giornalisti dei
giornali "veri": perché loro, quello che pensano, lo possono dire. Non hanno
privilegi che gli tappino la bocca, né mostri da sbattere in prima pagina, né
poltrone da tenersi buone. Così scrivono, ingenuamente, nella convinzione
che fare un giornale sia una cosa nobile e bella, che sia giusto informare il
pubblico di quel che a nostro avviso succede, che le opinioni di una persona
possano interessare ad altre persone. E' una buona cosa, scrivere in un
giornale come questo, ed è un bene che un simile giornale ci sia.
Adesso, ho alcune poche cose da chiedere - senza illusioni, s'intende; ma
tanto per adempiere a un dovere - a coloro che di giornali e di carceri, nel
mondo a cui appartenevo una volta, hanno la responsabilità istituzionale.
Agli uni - ai magistrati, ai giudici di sorveglianza, ai ministri di grazia e
giustizia, a quelli che qui rappresentano "lo Stato" - chiedo di rispettare in
queste povere pagine lo spirito, che qui è presente, della Costituzione
repubblicana; quella del "tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge",
quella del "tutti hanno diritto a esprimere"; e chiedo di aiutare a diffondersi,
nel loro regno, ogni iniziativa come questa. Un foglio come questo in più
oggi, è una galera in meno domani.
Ai giornalisti, ai colleghi, a quelli che teoricamente farebbero il mio
stesso mestiere, chiedo di far quello che possono per diffondere questa
nostra voce. E possono molto. Insertare per una volta queste quattro pagine
nel quotidiano locale, questo si può fare. Dare un supporto tecnico alla
composizione e alla stampa, si può fare. Venire a confrontarsi qui, alla pari,
coi nostri redattori, perdere ventiquattr'ore del proprio tempo per insegnar
loro qualche trucco del mestiere, per imparare la loro speranza: questo si
può fare.
C' è un sacco di cose che si possono fare per aiutare una libertà; si
possono fare, e si può anche non farle. Ma in ogni caso è una scelta, non
una dimenticanza, un "non lo sapevo".
***
Ariel fa parte di un progetto dell'Associazione Ora d'aria d'Abruzzo, e
questo primo numero esce in corrispondenza di un corso di formazione alla
stampa e all'editoria per detenuti ed ex. Adesso, l'idea sarebbe di: 1)
continuare con regolarità, a partire dall'autunno, la produzione di questo
giornale; b) estendere questa esperienza, e questa prospettiva, ad altre città
d'Italia, a cominciare da Palermo e Lecce dove l'organizzazione è già in fase
avanzata.
Non abbiamo la minima idea di fare un giornale di carcerati. Vogliamo
fare un giornale che parli "anche" dei problemi del carcere (che in questa
società ti accompagnano anche molto tempo dopo che ne sei uscito), ma
solo come caso particolare dei problemi che cascano addosso a tutti coloro
che per una ragione o l'altra si trovano tagliati fuori dalla maniera "ufficiale"
di vivere, che non sono cioé al cento per cento Telespettatori, Consumatori,
Proprietari d'Automobile, Titolari di Bancomat, Cittadini Comunitari
(possibilmente non-meridionali). Riteniamo di avere molte cose da dire, a
quelli dentro e a quelli fuori: dal carcere, e dall'Italia ufficiale.
Ariel è un personaggio di Shakespeare che vive fuori dalla "società". Vive
in un'isola del mondo che non è segnata nelle normali rotte di navigazione.
Un giorno, per puro caso, alcuni cittadini "perbene" capitano in quest'isola.
In un primo momento, ne hanno paura. Poi cominciano a pensare che visto
che sono tanto civili debbono volenterosamente mettersi a insegnare agli
abitanti dell'isola i principi della civiltà. Infine - ma solo i migliori di essi capiscono che forse loro, da Ariel, potrebbero addirittura imparare qualcosa.
Se ne tornano dall'isola meno "normali". Più liberi, più - felici?
ALBERI
Ossigeno, maggio 1997
Gli alberi non possono scappare, devono starsene lì buoni e tranquilli e a
tenersi dentro tutte le storie che gli passano davanti, a volte sono storie
simpatiche ma certe altre no e allora alcuni di loro somatizzano (quelli con
meno pelo sullo stomaco, quelli che "signora albera mia dove andremo a
finire") e restano letteralmente senza una foglia addosso. Succede in via
Merulana d'inverno, tigli o ippocastani o quel che razza d'albero sono (io
non riesco a distinguerli l'uno dall'altro) con l'aria tutta cupa e preoccupata e
rami nodosi e spogli come giunture di vecchi.
Gli alberi, per me, sono: a) ulivi; b) fichi; c) mandorli; d) tutto il resto.
Tutto il resto significa alberi perbene e inutili, decorativi, alberi da città
decorosa. Alberi-vigili urbani, se mi capite. Ma come i vigili urbani
capitolini, coi loro gesti larghi e il loro inglese romanesco, restano infine
delle Autorità cordialone a dispetto della montura, così gli alberi romani
sono in sostanza dei gran bravi alberi nonostante l'autorevolezza
istituzionale. Ombreggiare Goethe, circondare Caracalla, stormire con
eleganza ai concorsi ippici a Piazza di Siena - non è che gli alberi di Roma
non abbiano le loro soddisfazioni nella vita. Con tutto ciò non si sono
montati la testa e ad esempio se andate a piazza Vittorio la domenica nel
primo pomeriggio vedete due o tre palme maghrebine ondeggiare
tranquillamente al sole, e gli alberi romaneschi tutt'intorno accoglierle
protettivamente nel giardino. E il vecchietto con "Liberazione" e la famiglia
borghese e i bambini; e alcuni di questi bambini sono magrebini come le
palme ma i romani uomini - a differenza degli alberi - non li guardano con
civile simpatia.
Mhm. Un fico, all'improvviso, lo trovi per la salita al Campidoglio, dal
lato di dietro. Non è un fico turistico, devi sporgerti dal parapetto per
vederlo tutto - poche foglie si affacciano all'ombra al lato dell'antica via. E'
una via lastricata, un opus qualchecosa, qualche migliaio di anni fa; arriva il
presidente del Messico, o anche l'ambasciatore dell'Empire, e Scalfaro lo
accoglie là, in quei trenta passi scarsi di strada romana, con due soldatini di
scorta, un paio di segretari e forse un cerimoniere, vicino all'ombra antica
degli alberi e alla non lontana presenza di Cola di Rienzi e di Marc'Aurelio.
E invece no: hanno dovuto fare Hollywood, gli imbecilli; buttar giù case
antiche e devastare il colle, e alzare quella grandguignolesca torta di
marmo, incubo di generale piemontese, che incombe selvaggiamente sul
Campidoglio; e là cerimoniare cerimoniosamente le Cerimonie di Stato, fra
drappi, cavalli di marmo e musiche d'ordinanza come una qualsiasi
repubblicuccia - Dios, Familia y Nacion - nata l'altroieri. Duci, re e
presidenti, tutti perfettamente a loro agio, pancia in dentro petto in fuori, e
le bandiere garrivano e le fanfare squillavano e i discorsi vibravano - e il
fico, inascoltato, stormiva lieve.
***
La lampada Osram non era un albero, non ufficialmente, ma noi la
mettiamo ad honorem nel catalogo degli alberi di Roma. Uno stelo d'acciaio
altissimo, e un'unica enorme lampadina elettrica risplendente in cima; "ci
vediamo alla lampada"; "io ero alla lampada, a mezzogiorno, ma tu non sei
venuta". La sera, la lampada - davanti a Termini - illuminava i dolori, e le
vite sbattute, e l'affaccendato sopravvivere degli esseri umani. La piazza dei
Cinquecento conteneva, allora, il macinacarne di Roma; la lampada gettava
ombre lunghe ai piedi dei ragazzi di vita. Ma c'era un momento di grazia,
fra il sole turisticamente ipocrita del pomeriggio e le lampade prossenetiche
della sera. Esso era quasi esattamente al crepuscolo, quando - la lampada
accesa già, pallida nel cielo roseo, da un'ora - improvvisamente fra gli alberi
della piazza passava un frullare, e subito gli storni a nuvole riempivano tutto
il cielo della stazione, fluttuando con gentile eleganza in alto in alto. "E
come li stornei ne portan l'ali/ nel freddo tempo, a schiera larga e piena,/
così quel fiato li spiriti mali/ di qua, di là, di giù, di sù li mena...". Ma non
era l'inferno, quello, sibbene - nella luce calda del crepuscolo romano - il
paradiso; felici le creature là in alto, la città delle nuvole, la libertà: senza
capi, spontanei, in ordine disordinato gli stormi evoluivano l'uno sull'altro,
viravano - milioni d'individui non soggetti a nessuno - armonicamente,
s'intersecavano con noncurante precisione. Li si guardava vivere, l'occhio in
su, l'animo alleggerito. ma già piombava rapida la sera, già nel buio
disvanivano gli stormi; gli alberi, masse cupe; sagome sfuggenti, in uno dei
tanti loro inferni, gli umani; e la lampada cruda illuminava goyescamente
ogni cosa.
***
"Dormono gli animali sulla terra/ dormono gli stormi alati...". Dormono
gli uccellini di Roma, sugli alberi del lungofiume o fra i rami di Villa
Pamphili. Dormono i senegalesi sulla banchina del Tevere, dorme il polacco
là sui gradini della chiesa. "Viva la Polonia, e birra!" c'è scritto a pennarello
sopra il muro. "L'anima a Dio Signore, il corpo all'Italia, il cuore alla
Polonia", dice un'altra loro scritta sui monti di Cassino. Un ippocastano,
adesso, stormisce a pochi passi dall'uomo che dorme ed è l'unico rumore
della notte.
***
Adesso non sono a Roma però. Ho un abete davanti, non un ippocastano;
quasi sotto l'abete c'è un cesto da pallacanestro, due ragazzi con un pallone
da basket e questa è piazza dell'Unità qui a Bologna, alla Bolognina anzi, il
quartiere "rosso" dove Achille Occhetto qualche decina d'anni fa annunciò il
pensionamento del vecchio partito comunista. Ci sono tre pensionati nella
piazza, uno qui accanto a me sulla panchina e due all'edicola dei giornali.
C'è una famigliola coreana e tre signore anziane, due col bastone, che
chiaccherano sorridendo sapute dall'altro lato della piazza; un uomo di
mezzetà col cappello, una ragazza in bicicletta, un cane vecchissimo sdraiato irregolarmente sull'erba: ma alla sua età glielo si consente - e
dignitoso. Dall'altro lato della strada c'è un chiosco con dei tavolinetti,
fanno un caffé non straordinario ma dei gelati davvero buoni, le gelataie
sono due - madre e figlia -, sorridono gentili e sicure mentre ti contano il
resto e ti augurano la buonasera. Fra le aiuole una piccola lapide: "Cittadino
che passi/ se alzi lo sguardo vedi il fabbricato al civico 5/ ove caddero 6
giovani patrioti/ combattendo per l'indipendenza della patria...". Poi c'è un
manifesto del consiglio di quartiere su un concorso per giovani scrittori, una
bacheca con avvisi vari, un paio di manifesti commerciali, la trattoria sul
marciapiede, la gentilezza del prossimo, e nessuno che dorme per terra.
Un'aria di fuorimoda. Farà fresco stasera, guarda come si muovono i rami
dell'abete.
DI LIEGRO
ottobre 1997
Purtroppo, alla fine, lo faranno santo. Con la sua brava chiesa
parrocchiale, in qualche angolo dignitoso di Monteverde o di Prati, con la
sua gente perbene col suo vassoio delle paste, la domenica a mezzogiorno
sul sagrato, e colla sua zingara sui gradini - forse, dato che la chiesa è la
sua, tollerata - e la zingarellina accanto. A San Giovanni in Laterano, alla
sua messa da morto, la zingara non c'era, non ce l'avrebbero lasciata, così
come non hanno lasciato entrare i barboni. C'era solo qualcuno - non
moltissimi - dei governatori cittadini, e c'era il cardinale più cardinalizio di
Roma, l'Eminenza Ruini, tanto saviamente ostile alle utopie di lui vivo
quanto eloquentemente celebrativo, delle utopie medesime, di lui morto.
Niente caudatari in livrea, d'altro canto, per Sua Eminenza; niente
portantine rococò - ma semplici automobili blu - ad aspettare le Eccellenze
sul sagrato. Il resto, tolto questo, era l'eterna Roma borrominiana. Roma di
don Luigi di Liegro, o di don Filippo Neri.
Un centro d'accoglienza di questi preti, maleducatamente, stava in piena
stazione Termini. Periodicamente, nella zona, usciva un giornaletto - lo
trovavi gratuitamente nelle tabaccherie e nei bar - finanziato dai grossi
albergatori del quartiere, quelli di via Cavour e di via Nazionale; ma è
fortissima la presenza economica del Vaticano in quella zona - e lanciava le
sue brave campagne contro l'invasione dei vagabondi: attirati, come le
mosche al miele, dai maledetti letti puliti e pasti caldi di monsignor Filippo
Neri. Ohimè, il povero viaggiatore che viene dalle Castiglie o d'Alemagna,
per visitar le Basiliche, e si trova - appena messo piede nell'Urbe - in una
corte dei miracoli siffatta: o perché non istituirli al Raccordo, se proprio da
fare s'hanno, codesti benemeriti centri d'accoglienza? Perché proprio nel
centro cittadino, nel cuore di una capitale come Roma, in mezzo alla vita
normale? Di Liegro non si ribellava agli Eminenti albergatori, non faceva
baccano; i santi - in tempo di Controriforma - è bene che siano dei santi-delsorriso, sennò Campo de' Fiori è lì che aspetta. Ma lavorava, tesseva, aveva
le sue brave aderenze a Corte. Una rete impalpabile e sofisticata di amicizie
importanti, di strategie diplomatiche, di politiche mazzariniane, di manovre,
teneva lontani i barboni di don Di Liegro dai due gradi sottozero
dell'inverno. La carità di Cristo, da sola - nella Roma delle Eccellenze e dei
Papi - non sarebbe bastata.
La carità di Cristo a Roma la trovi forse, ma totalmente inutile, solo nei
Pasolini e dei Caravaggio. La puttana annegata che fa, nel quadro del pittore
romano, da madonna; i ragazzi di vita, i bacchi e i sangiovannini, i
francocitti; altra pietà non trovi, nelle controriforme. I poveri, per servirli di
questi tempi, bisogna essere scaltri. Scaltri vuol dire parlare con sua
Eminenza o con Rutelli, è ma vuol dire anche parlare con i briganti della
Campagna romana, con gli autonomi, addirittura coi comunisti. Avete
presente Celio Azzurro, la cooperativa organizzata dal Centro sociale Corto
Circuito per accogliere i bambini delle varie etnie - bianchi, neri, gialli,
marrone e quant'altro - che popolano la città di Roma? E' stata finanziata
dalla Provincia grazie all'intervento di monsignor Di Liegro. Avrebbe potuto
essere, quest'incontro, un inizio di alternativa.
MODESTA PROPOSTA PER SALVARE L'ORDINE
(E L'ANTICO MESTIERE) DEI GIORNALISTI
OG, luglio 1997
Situazione della stampa italiana:
- il giornale ormai è quella cosa che vien data in omaggio con le
videocassette;
- il giornalista è sempre più un deskista e sempre meno un cronista;
- il direttore è sempre più un manager e sempre meno un giornalista;
- l'editore è sempre più un imprenditore d'altro e sempre meno un editore;
- i contenuti pubblicitari (anche mascherati) prevalgono su tutto;
- le tecnologie vengono utilizzate non per allargare, ma per centralizzare e
fordizzare il prodotto;
- l'editore chiede sempre meno giornalismo e sempre più marketing;
- il prodotto finale è quindi vecchio, grasso e ridondante;
- e alla fine, il giornale NUN SE VENDE e l'editore chiede aiuto ai
politici.
***
In questo quadro, noi giornalisti contiamo come il settebello a briscola. La
crisi dei giornali italiani nasce esattamente dalla sempre minor presenza di
cultura giornalistica nella gestione non dell'articolo o della pagina, ma del
prodotto e, in definitiva, dell'azienda-giornale. O Pavarotti o Fantozzi: il
ruolo del giornalista oggi, alla fine, non sfugge a una di queste due
categorie. Entrambe sostanzialmente senza potere. Sì, è vero, Fantozzi ha la
quattordicesima e Pavarotti dà del tu al ministro: ma sostanzialmente
nessuno dei due conta niente.
Eppure, il giornalista in quanto tale ha delle specificità culturali che
nessun altro possiede. Il giornalista sa prendere appunti, il giornalista sa
impaginare - ma sostanzialmente il giornalista, e solo il giornalista, sa
ascoltare. Il medico non è semplicemente colui che esercita la medicina, né
l'architetto colui che progetta; c'è sempre un imprinting - umanistico - in
più. E così, il medico è la scienza chirurgica, più la pietà; l'architetto, la
scienza delle costruzioni più l'armonia. E il giornalista? E' essenzialmente
un essere umano curioso; a cui appropriate tecniche, che variano da una
generazione all'altra, danno la possibilità di contare. Tutto il resto - e il
giornale e il prodotto e l'azienda - debbono partire da qui; se no, nascono
morti.
Il nostro compito di "giornalisti", qui ed ora, è dunque semplicemente
quello di riaffermare noi stessi nell'esercizio del nostro mestiere; di
difenderlo contro noi stessi - contro i privilegi e i lustrini che possono
farcelo dimenticare - e contro i poteri forti, che proprio in questi mesi si
vanno ricreando. Nel mondo "nuovo", sempre più monolitico e sempre più
"imprenditoriale" che s'avanza, non c'è posto per imprinting umanistici nelle
professioni: il medico, l'architetto, il giornalista, la prostituta, il prete
possono ambire al mero status di tecnici - del corpo, della casa, dell'anima,
del sesso, dell'informazione - ma senza che la complessiva cultura dei poteri
forti, il loro monopolio del consenso, ne sia minimamente disturbata. E
questa è la situazione.
Abbiamo tuttavia, per uno strano gioco del caso, un'ultima occasione. Noi
giornalisti siamo raggruppati in Italia in un libero Ordine professionale;
accolta di vecchi tromboni forse, ma sicuramente onesti e dunque
incontrollabili; e dunque pericolosi. Hanno provato a togliere di mezzo
quest'Ordine, col referendum di Pannusconi (indirettamente sostenuto, non
foss'altro che col silenzio, dai principali manager-direttori); ma non ci sono
riusciti. E ora la mossa tocca a noi.
E' l'ultima, dobbiamo saperlo; e quindi dev'essere fatta in fretta, e col
massimo della determinazione. Per prima cosa, non dobbiamo difendere
semplicemente, e principalmente, noi stessi; dobbiamo difendere il lettore.
Il telespettatore, il target, la massa consumatrice, l'imbecille da fottere col
gadget: questo essere che gli esperti del management hanno da tempo
incasellato nelle loro categorie, per noi è ancora, del tutto fuori moda, il
Signor Lettore. Come Ordine dei Giornalisti, dobbiamo proporre
pubblicamente dei rigidi meccanismi di difesa, che lo proteggano - e
dobbiamo essere noi a proteggerlo - dalle prepotenze e dagl'imbrogli. Senza
di che, egli continuerà a leggere libri, ma non giornali.
In secondo luogo, dobbiamo andare professionalmente avanti. Dobbiamo
essere noi a contestare l'attuale obsoleto modello di giornale, noi a esplorare
il nuovo. Se fossimo nell'Ottocento, direi che dovremmo essere noi a
scoprire l'uso del telegrafo e a imporlo agli editori (creando così, fra l'altro,
la figura dell'inviato speciale). Oggi noi dobbiamo imparare a gestire le
tecnologie prima del padrone, meglio del padrone, alla faccia del padrone.
Non ripetiamo l'errore dei tempi in cui arrivarono in redazione i primi
computer, che noi non abbiamo visto e il padrone sì: perché è quello che
paghiamo oggi.
***
La battaglia per l'autonomia, dunque, comincia ora. Da un lato, gli editori
cercheranno nei prossimi mesi di chiudere d'autorità la questione con una
leggina. Dall'altro lato, noi possiamo prendere l'iniziativa con un pacchetto
di proposte concrete che ora come non mai possono trovare udienza,
rivolgendoci direttamente alle istituzioni politiche e, nello stesso momento,
al lettore.
L'Ordine dei Giornalisti potrà dunque chiedere di essere considerato per
legge unico responsabile, direttamente e in prima persona, di due terreni
fondamentali:
1) la deontologia professionale;
2) la formazione (scuole di giornalismo) e la determinazione dell'accesso
alla professione.
***
1) La deontologia:
Ogni giornalista, all'atto della consegna del tesserino, s'impegna
solennemente con una specie di giuramento di Ippocrate a rispettare una
serie di norme etiche e ad evitare una serie di comportamenti. Per tutta il
resto della sua vita professionale dovrà attenersi ad esso. L'Ordine avrà
poteri disciplinari e di arbitrato per tutto ciò che riguardi l'applicazione e le
eventuali violazioni del giuramento.
La Commissione deontologica dell'Ordine vigila su:
- la distinzione fra contenuti redazionali e pubblicità; in caso di violazione
imporrà multe ai direttori;
- le balle in malafede (tipo la lebbra a Messina); in caso di violazione,
sospenderà i direttori;
- la difesa dei soggetti deboli (bambini ecc.); in caso di violazione,
sospenderà i direttori e li deferirà all'autorità giudiziaria nei casi previsti
dalla legge;
Ai giornali con tiratura superiore alle 5.000 copie, e alle emittenti di peso
equivalente, viene assegnato dall'Ordine dei Giornalisti un Garante del
Lettore. I lettori potranno rivolgersi al esso presso le sedi dell'Ordine. Il
Garante svolgerà la sua attività, nell'esclusivo interesse del lettore, al di
fuori delle redazioni.
2) Formazione e accesso:
Debbono essere assunti come giornalisti professionisti solo i praticanti
diplomati dalle scuole di giornalismo:
prima diplomati, poi assunti. In ogni testata, il Comitato di Redazione
dev'essere incaricato dall'Ordine di vigilare, sotto responsabilità personale,
sull'osservanza di questa norma.
Le aziende possono essere lasciate libere di accettare o meno questo
vincolo. La non accettazione, che dev'essere resa pubblica, implica tuttavia
l'esclusione dell'azienda da ogni e qualsiasi beneficio di legge.
Le scuole di giornalismo debbono essere gestite direttamente ed
esclusivamente dall'Ordine dei Giornalisti. Una o due scuole per Regione,
possibilmente con sede fisica nelle Università. Le scuole debbono insegnare
non solo gli elementi tradizionali della professione, ma anche e soprattutto
le tecnologie: internet + gli scarponi;
Il praticantato dovrebbe durare due anni, così ripartiti:
sei mesi di insegnamento in Istituto, con particolare riguardo alle nuove
tecnologie;
sei mesi di attività non retribuita presso testate no profit;
un anno di attività non retribuita presso le testate convenzionate (cioè
tutte quelle che intendono godere in qualsiasi maniera di agevolazioni di
legge);
alla fine del corso, esame di Stato, consegna del tesserino e giuramento.
***
E questo è quanto. Se ci muoviamo in fretta, forse ce la facciamo.
Diversamente, assisteremo in tempi rapidi alla scomparsa non solo
dell'Ordine dei Giornalisti, ma della stessa professione giornalistica come
esercizio indipendente di un servizio al cittadino. Il giornalismo libero, oggi
- come il magistrato indipendente; ma questa è un'altra storia - non conviene
a nessuno. Tranne che a noi cronistacci vecchia maniera, ai giovani
maghetti di Internet, al ragazzo che rischia la pelle per mandare il pezzo
sulla mafia del suo paesello, e ai lettori. Ma forse bastano questi.
LETTERA A PALERMO
novembre 1997
Un foglio in formato tabloid, a 3 o 4 colori. E' un giornale? No, non
esattamente: diciamo che è un volantino evoluto, professionalizzato,
periodico e basato sulle notizie e non sulla propaganda. Però possiamo
anche considerarlo un giornale: diciamo che è il modello di giornale del
Duemila: agile, breve, denso, allegro da leggere e molto molto veloce
(sapendo che nel frattempo hanno inventato la tv).
Quando esce? Una o due volte la settimana, secondo la necessità. Dove
esce? Innanzitutto, naturalmente, a Palermo. Ma a volte anche in qualche
altro posto dei Sud: in una grande città del Mediterraneo - per esempio,
Barcellona - o in una grande città che ha bisogno di saperne di più sul
Mediterraneo - per esempio, Milano. Quante copie? Variabili, secondo
scelta e necessità. Di solito, non più di 5.000, diffuse quasi tutte a Palermo.
Ma quando abbiamo bisogno di dire qualcosa al resto dell'umanità,ci
regoliamo di conseguenza. Un giorno possiamo decidere di mandare 1000
copie in più a Milano; un altro giorno, decidiamo che a Barcelona hanno
bisogno urgente di sentire quel che stiamo facendo su una data questione (e
allora, potremmo fare un numero in italiano e in spagnolo). Almeno una
volta ogni due mesi, facciamo un numero ad alta tiratura da dare a tutte le
famiglie di Palermo: e ci mettiamo dentro quel che è successo in quei due
mesi nella loro casa comune, cioé nel Comune di Palermo.
Che altro ci mettiamo dentro? Innanzi tutto le storie, gli avvenimenti che
capitano, le notizie: si scrive chiaro e semplice, qui, si scrive netto, perché
non è mica un giornale fatto per leggerselo fra Persone Importanti. E' fatto
per leggerlo tutti, e per capire tutti cosa c'è dentro. Avete presente don
Milani?
E che c'entra il Comune? Beh, immagina che dentro ci sia una grande
cartina di Palermo. Coloratissima. Oggi c'è dentro la mappa di tutte le
fermate dei bus. Domani, quella dei consultori. Venerdì prossimo, quella dei
palazzi in ristrutturazione. Oppure tutte le prossime dieci partite del
Palermo. Oppure i documenti che bisogna fare per ottenere il permesso di
soggiorno. Oppure la storia della statua di Re Palermo. Oppure... Insomma,
tutto quel che a un palermitano può servire, qua dentro c'è. Da leggere e da
capire, al primo sguardo. La computergrafica in fondo dovrebbe servire a
questo.
L'informazione non è per pochi intimi. L'informazione NON dev'essere
mai pallosa.
Che cosa ci vuole per farlo?
Un giornalista poco serio che conosca tutte le tecniche ma sia capace di
scherzarci sopra e usarle come una tastiera di pianoforte, allegramente. Ma
poi soprattutto una scuola, una scuola nel senso antico, una bottega.
Un gruppetto d'una decina di ragazzi, senza "professionalità" ma creativi
e con la voglia di far cose belle e d'imparare. Sei computer in rete. Forse un
telefonino. Una stampante laser, un paio d'accessi in rete. Dei corrispondenti
dappertutto, via Internet, a Roma a Milano e a Corleone, con le stesse
caratteristiche dei ragazzi di bottega (Mark Twain parlava di una"fabbrica di
uomini", e l'idea sarebbe esattamente quella). Di tanto in tanto, anche
qualche Collaboratore Importante come Aurelio, Vincenzo, Goffredo e
compagnia bella: ma senza strafare e mettendoli magari in caratteri piccoli
così.
E poi c'è l'arma segreta. A Palermo ci sono un casino di associazioni,
parrini, volontari garibaldini e non, più che in ogni altro posto d'Italia. Bene,
questo è il loro giornale. Non in senso buonista, tanto per dire: ma proprio
nel senso che se ne gestiscono un pezzo ciascuno, a giro. E questa sarebbe
anche una faccenda pericolosa e bellissima, dal punto di vista della
burocrazia.
E poi c'è il Partito. "Il partito di Falcone e dei ragazzini", se qualcuno si
ricorda ancora dei Siciliani. Ogni mese, a turno, il giornale viene appoggiato
da una scuola. Organizzazione, supporto alla redazione, ricerca di notizie,
coordinamento fra le associazioni e gli altri soggetti operanti sul territorio
(dateci un capannone per lavorare). Voi vi fidate? Io mi fido. La bottega,
periodicamente, metterebbe le gabbie grafiche a disposizione di chi, senza
fini di lucro, le richieda: studenti di Lentini, un liceo di Verona, un gruppo
d'immigrati marocchini a Catania, un gruppo di ragazze di Torino (sono
esempi reali: quelli a cui distribuivamo le gabbie dei vecchI Siciliani).
E adesso un po' di propaganda.
Un giornale così è uno strumento completamente nuovo, tanto nuovo che
fra tutti i posti della terra non può venire fuori che da Palermo. I giornali
tradizionali sono vecchi, pesanti, noiosi e - quasi tutti - servili. Questo non
ha poteri da difendere, non ha status ma funzioni. (La gente non legge i
giornali attuali. Vi siete mai chiesti perché?). Un giornale così è un biglietto
da visita per Palermo, fa capire meglio di ogni altra cosa che Palermo non
solo sta in Europa, ma sta anche in un'Europa più gentile. E' come Pavarotti
al Massimo, ma più adolescente e meno trombone. E costa molto di meno di
Pavarotti. Ed è uno strumento utile, ed è una cosa che dura.
UN VOLANTINO
5 gennaio 1998
"A CHE SERVE VIVERE, SE NON C'E'
IL CORAGGIO DI LOTTARE?"
1984: "A Catania la mafia non c'è". Si formano comitati per "difendere il
buon nome" della città contro quei pochi che sostengono il contrario e
accusano politici e Cavalieri.
1998: "A Catania la mafia non c'è più". Settanta per cento dei voti ai
progressisti, più che a Stoccolma, più che a Londra: che mafia può esserci
mai in una città così civile?
A Catania, insomma, la mafia qualche volta non c'è e qualche volta c'era
prima ma ora non più: perché Catania, come tutti sanno, è una città
laboriosa e felice. I suoi imprenditori - ieri Rendo e Costanzo, oggi Virlinzi
e Rendo - portano benessere e lavoro. I suoi politici sono tutti concordi tranne qualche matto esaltato - per il benessere della città. I suoi giornalisti ieri pagati da Ciancio, oggi con Ciancio che li paga - informano i cittadini
sulle numerose e benefiche iniziative di politici e imprenditori. Non ci sono
più mafiosi a Catania: esattamente come nel 1945 non c'erano più fascisti e
nel 1860 non c'erano più borbonici. E quanto ai garibaldini, o mettono da
parte le utopie e si fanno buoni monarchici e piemontesi, o vengono
semplicemente dimenticati.
Nel 1984, uno dei più collusi magistrati catanesi (costretto al
trasferimento per i servizi resi ai Cavalieri) era il giudice Grassi. Nel 1998,
Grassi è consigliere di Cassazione e appare destinato a una brillante
carriera, forse a sostituire il suo ex superiore, il giudice Carnevale.
Nel 1984 nessun giornale italiano osava parlare dei quattro Cavalieri di
Catania, e in particolare dell'impresa Rendo. Nel 1997, nessun giornale
italiano ha dato notizia della confessione ("ho dato tangenti alla democrazia
cristiana e ai socialisti") fatta davanti ai giudici da Eugenio Rendo.
Nel 1984, i catanesi emigravano per quattro soldi nelle fabbriche del nord.
Nel 1997, le grandi ditte del nord (Armani e gli altri) scendono fino a
Bronte per fare lavoro nero e sfuttare - a tre soldi - i giovani catanesi.
Nel 1984 nessuno faceva inchiesta sugli esatti confini dell'impero
industriale che aveva in mano la città, quello dei Cavalieri: non se ne sapeva
niente. Nel 1998, nessuno sa niente dell'impero Virlinzi e nessuno ne vuol
sapere di più.
Nel 1984, da Catania al governo ci andavano o i politici mafiosi o innocui
tromboni che, senza fare danno, gli davano copertura. Nel 1998, c'è nel
governo un vecchio democristiano catanese come Mirone, esponente del
"rinnovamento" concordato degli anni Ottanta. Degli antimafiosi veri, di
quegli stessi anni, nessuno vuol sapere nemmeno il nome: né a sinistra, né a
destra.
Nel 1984 l'unico quotidiano di Catania era La Sicilia di Ciancio, che se ne
stava zitto sui mafiosi: Ciancio è quello che non ha voluto pubblicare il
necrologio di Montana perché conteneva parole offensive per i mafiosi. Nel
1998, l'unico editore non solo di Catania ma di tutta la Sicilia e Calabria, e
fra poco della Puglia, è ancora Ciancio: né la destra né la sinistra ne
sembrano particolarmente preoccupate.
Chi vuole ricordare Giuseppe Fava lo ricordi così, controcorrente. Non è
vero che siamo tutti unanimi, tutti d'accordo. Ci sono i ricchi e ci sono i
poveri, ci sono i fighetti alla moda e ci sono i dimenticati, ci sono coloro
che vanno in televisione e ci sono coloro che si guadagnano la propria vita
giorno per giorno. Bisogna scegliere da che parte stare: con tutt'e due non si
può. Questo è ciò che ci ha lasciato Giuseppe Fava.
TRENO DI NOTTE
Italia Democratica, settembre 98
Non so. C'è un espresso di notte, un Torino-Agrigento, un treno di Natale.
Soldati dappertutto, tutti meridionali: parlano ad alta voce, si chiamano fra
loro, danno fastidio. Qui sul predellino della seconda classe ce ne sono
almeno una decina, non c'è un millimetro per muoversi. "Talé, Saru, u viisti
che minnazzi c'avia chidda?". Sono le due di notte e fa freddo. A ogni
stazione qualcuno apre lo sportello, guarda il mucchio di valigie, scatole
con lo spago, borse militari e soldati: scuote la testa e si tira indietro, fra un
coro di sghignazzate. Ma adesso lo sportello si apre per la quarantesima
volta: una gran borsa viene spinta dentro, dietro la borsa spunta la faccia di
una ragazza, e infine la figura della ragazza intera. Si arrampica per i
gradini ed è bella. Ha in braccio un bambino. Immediatamente si forma uno
spazio libero in mezzo alla massa dei militari. Il treno riparte, la ragazza è
seduta sul suo borsone, circondata da almeno cinquanta centimetri di spazio
intangibile tutt'attorno. Il tema della conversazione adesso è "che facevo
prima di partire militare". Nessuno più alza la voce, nessuno fuma. E il
treno va.
Oppure quei due contadini, marito e moglie, la sera dell'eruzione, a
Nicolosi. Avevano staccato il cancello dai cardini e se lo caricavano sulla
motoape - la lava era a centocinquanta metri. La casa, non c'era niente da
fare; ma il cancello si poteva ancora recuperare. Lavoravano con calma e
senza fretta. Il cancello sarebbe tornato utile, nella casa nuova. Oppure la
casa di Stefano, a Santo Pietro di Milazzo: pareti pulitissime imbiancate a
calce, la vanga da bracciante appoggiata al muro e i quindici libri nello
scaffale, ognuno accuratamente rilegato con la carta velina: l'Origine della
Specie, il Diciotto Brumaio, I Promessi Sposi. Oppure la piazza del paese,
col circolo dei civili da una parte, la lega bracciantile dall'altra e in messo
quei venti metri di selciato bianco e ostile.
La mafia, nella Sicilia che ho conosciuto da ragazzo, non era affatto
un'organizzazione criminale. Era il governo riconosciuto della regione.
Ottimo per i grandi proprietari, che da noi hanno sempre avuto un peso
molto maggiore che altrove; tollerabile per il medio ceto; ferocissimo e
oppressivo per la grande massa dei contadini. I soldati del treno, i contadini
di Nicolosi, i braccianti di Santo Pietro - tutti erano sotto qusto governo.
Non era un governo clandestino. Mio padre, come tutti gli altri siciliani,
andava regolarmente a pagare le tasse ai mafiosi; e non in qualche
restrobottega di bar, ma a un regolare e pubblico sportello: le tasse della
Regione Siciliana erano infatti - legalissimamente - dati in appalto a una
società di mafiosi, i cugini Salvo di Salemi. Non era un governo scomodo,
non per i ricchi: delle sei-sette rapine quotidiane di Catania, nessuna toccava
mai ai grandi negozi del centro; le rapine "sbagliate" venivano punite con la
pena di morte. E non era un governo clandestino.
Si sapeva benissimo, per esempio, da dove venisse la forza elettorale
siciliana di Andreotti. Ma, a Roma, non puzzava (non puzzava peraltro
nemmeno ai tempi di Giolitti). Si ebbero, non una volta soltanto ma più
d'una, incontri semiufficiali fra autorità di governo e boss mafiosi. Le logge
massoniche, in città come Trapani o Palermo, fungevano da camere di
compensazione. "La mafia contro lo Stato": una battuta sarcastica, agli
occhi di un siciliano.
Era un'occupazione militare, non una cultura. Oltre cento sindacalisti e
militanti contadisi sono stati uccisi, combattendo per il loro popolo, negli
anni Quaranta e Cinquanta. Nessun'altra regione ha pagato, dopo la
Resistenza, un prezzo tanto alto per la difesa della democrazia. Morivano
nel silenzio, senza che nessuno si curasse di loro: la mafia era un
"complotto dei comunisti per screditare la Sicilia" - calunniatori i La Torre e
i Li Causi, calunniati i cugini Salvo e i Ciancimino. I giornali, i politici, il
governo, la Chiesa - Cardinale Arcivescovo in testa - difendevano i mafiosi
accusati e ingiuriavano a gran voce i sovversivi.
Negli anni Sessanta la mafia, da polizia degli agrari contro i contadini,
divenne il braccio armato della speculazione edilizia, prima a Palermo e poi
nelle altre città; rendendosi ancor più indispensabile per l'ordinato
svolgimento del progresso sociale. Negli anni Settanta scoprì l'eroina; e
accumulò una ricchezza finanziaria tale da rendersi non più interlocutore
subalterno ma partner alla pari, almeno in diversi settori, della classe
dirigente nazionale. Ma qui, s'intoppò qualcosa.
C'è un buco di trent'anni, fra le lotte antimafiose del dopoguerra e quelle
dei primi anni Ottanta. Ma un filo sotterraneo rimase sempre, una memoria.
Quando La Torre e dalla Chiesa e Chinnici, dapprima come "tecnici" poi
facendo appello sempre più apertamente alle energie popolari, riaprirono la
lotta al potere mafioso, non rimasero soli. Una fortissima minoranza della
società siciliana colse rapidamente l'occasione, appena in presenza di un
interlocutore credibile (ancorché non egemone) nello Stato, e si gettò senza
riserve nella lotta.
Fu una lotta politica, contro una classe dirigente al potere e per una nuova
e più libera visione della società; ebbe una sua memoria, e delle sue radici.
Seppe costruirsi le sue alleanze, i suoi progetti politici, le sue culture; non fu
un "in galera!" e un "abbasso!" (come in parte fu, invece, la percezione
"popolare" di Mani Pulite). Nell'Italia dei tardi anni Ottanta fu forse l'unico
fenomeno compiutamente e profondamente democratico registrato nel
Paese.
E' per questo che, nel momento della crisi del Craxi-Andreotti, i valori e
le culture della lotta antimafiosa apparvero per alcuni mesi un'alternativa
non solo auspicabile ma possibile alle culture e ai valori del regime fallito.
Ed è ancora per questo che a tutt'oggi qualunque elemento che richiami
anche lontanamente quei valori viene immediatamente preso a bersaglio
prioritario dai media dell'establishment. Il panico di quei mesi, il terrore che
culture e valori realmente alternativi possano sedimentarsi attorno a
qualcosa, è infatti ancora vivo.
Come molti prima di noi - i mazziniani al tempo dell'Unità, i partigiani noi antimafiosi non siamo riusciti a dare una veste politica adeguata al
consenso popolare di cui abbiamo potuto disporre nel periodo della
transizione. E siamo rimasti sconfitti; non dalla destra che ormai (oggi come
allora) è più uno spauracchio per i democratici che un'alternativa politica
reale, bensì dalla "sinistra" moderata e "realista" che riafferma il primato
della politica professionale, del "queta non movere", delle larghissime
intese. Niente di nuovo. E' dolce esser perdenti, se proprio perdere si deve,
insieme col proprio popolo, senza tradire; e c'è abbastanza memoria, delle
vicende recenti e delle più remote, per sostener la fiducia che il filo, prima o
poi, sarà ripreso da un'altra generazione. Ci rassicurano moltissimo, in
questo senso, gli attacchi sotto qualunque pretesto al pool di Milano o a
Caselli: significano che i nemici della democrazia hanno capito benissimo
come stanno le cose, quali sono i pericoli per il loro potere e come tutto
sommato essi continuino ad essere sempre potenzialmente attuali. E se
l'hanno capito i nemici, chissà che prima o poi non lo capiscano pure gli
amici.
LA MEMORIA
Due Punti, ottobre 98
I vecchi c'erano. I giovanissimi, pure. Quelli che mancavano, e
mancavano totalmente, erano i trenta-cinquanta, quelli che stanno facendo
carriera ora. Stiamo parlando di giornalisti. Quelli che c'erano e quelli che
non c'erano alla celebrazione di Alberto Cavallari, il sedici ottobre qui a
Milano (che non ci fossero sindaci, assessori e milanesi-da-bere è tutt'un
altro discorso, che per il momento lasciamo).
Si crede comunemente che compito del giornalista sia di cercare le notizie
d'oggi. Non è nel tutto esatto. Il compito del giornalista è di cercare le
notizie, *e* di conservare la memoria. Un giovane romanista aggredisce un
laziale; un giovane romanista aggedisce un ebreo: le due "notizie"
differiscono drammaticamente perché diversamente correlate alla memoria.
La parola "extracomunitario" in Italia, e tutte le "notizie" ad essa legate, non
può assolutamente essere letta davvero se non in relazione alla parola
"Garsterarbeiter", fornita (o colpevolmente rimossa) dalla memoria. E così
via.
Alberto Cavallari, per chi fa il mestiere di giornalista, è una cifra della
memoria. Non si può lavorare senza. Il test del sedici ottobre dimostra che i
giornalisti milanesi (ma senz'altro, in tal caso: i giornalisti italiani) mancano
di questa cifra; mancano di memoria. Come possono dunque fare questo
mestiere? Anzi, in realtà, è proprio vero che essi facciano questo mestiere?
E se il giornalismo in realtà fosse estinto, se i "giornalisti" e i "giornali"
fossero già diventati, nella sostanza dei fatti, un'altra cosa? E se giornalismo
e giornalisti e giornali fossero oramai da ricercare - come delle spore sperse
al vento; o forse come dei semi - soltanto in fogli minimi come questo? Qui
dove c'è ancora memoria?
IL GIORNO DELLE ELEZIONI
giugno 1999
Il 6 gennaio del 1984, davanti alla sede del mio giornale - il direttore era
stato ammazzato dalla mafia il giorno prima - c'era un gruppo di ragazzi fra
i sedici e i diciott'anni. Erano le otto del mattino e la saracinesce del
giornale era ancora chiusa. "Che cosa volete? - li apostrofai bruscamente Abbiamo da fare, oggi. Molto da fare". "Siamo venuti per fare la diffusione
militante del giornale" rispose il più anziano di loro. Io non sapevo ancora
se sarebbe uscito, quel giorno, il mio giornale. Ma loro sì. Non ne avevano
il minimo dubbio,e venivano - com'era stato loro insegnato - a mettersi a
disposizione nel momento del pericolo. Erano comunisti.
Nessuno di quei ragazzi - Federazione Giovanile Comunista Italiana,
Circolo di Sant'Agata Battiati, provincia di Catania, Sicilia - ha fatto una
carriera nel partito. Ho incontrato quest'anno, per puro caso, il loro "capo"
(si chiamava Maurizio Parisi, se può interessare il nome di un comunista
che non conta) adesso è un giovane disoccupato sulla trentina, ma
all'ingresso di casa sua c'è sempre il manifesto col viso del Che Guevara.
Un ragazzo era stato ucciso in quegli anni, in provincia di Catania, solo
perché era della Fgci: suo padre, che era un mafioso, non si fidava di lui,che
era un comunista. Il più famoso avvocato comunista dell'isola, l'avvocato
Riela, si rese in quegli stessi anni protagonista di una polemica, perché
difendeva i mafiosi. "Professionalità: difendo chi mi paga", rispose il
compagno avvocato; e la polemica finì lì.
Ricordo i compagni del mio paese passarsi i sacchetti di sabbia, nel
Settantadue lungo l'argine, il giorno della grande alluvione. Ricordo i
figiciotti col sacco a pelo, nel 1976 su in Friuli, i primi da tutta Italia - e, per
qualche giorno, i soli - venuti inquadrati e compatti a soccorrere i
terremotati. Ricordo la compagna Eliana, ex staffetta partigiana e adesso
organizzatrice sindacale, percorrere in bicicletta i villaggi della pianura per
organizzare le contadine.
Ecco, questo partito - i comunisti - è quello che ha perduto le elezioni.
Non le ha perdute adesso, le ha perse molti anni fa. Ed è l'unico, adesso,
chepossa salvare il paese. Sottrarci alla nostra vergogna di annegatori
d'albanesi, di bombardatori dall'alto, di padroni. Si contano le percentuali e i
centesimi, adesso, si disputa su chi sia il proprietario, adesso, della parola
"di sinistra". Ma a Maurizio Parisi e ai suoi compagni nessuno ha più niente
da dire.
QUASI UN PROMEMORIA
ai ragazzi dell'Alba, 1994
Scacciato dai padroni della terra
anche il ragazzo Michele molti anni fa se ne partiva
per città senza mare, schiavo
- come tanti prima di lui - dei vincitori
Se la Sicilia ha bandiera, non ha trinacrie alate,
non colori brillanti di baroni e di re.
Una zappa fangosa è il nostro unico stemma,
una valigia pesante, per le strade del mondo, il nostro regno.
Così per molti secoli. Antichi padroni di schiavi
e baroni feudali, "sorci" di Re Ferdinando,
e borghesi di "Talia", notabili grigi di paese
e rozzi gerarchi neri, padroni dell'eroina e Cavalieri:
dalla Sicilia stessa in una ininterrotta catena
sortivano gli sfruttatori dei siciliani.
E così per molti anni. Di quando in quando
uno degli sfruttati gridava. Capi di ribelli organizzarono
- alle radici del tempo, sotto Roma - tre rivolte di schiavi:
Spartaco, loro fratello, lottò contemporaneamente a loro
che fecero della rocca di Enna la capitale degli schiavi.
Furono crocifissi. Re Federico, nel medioevo,
squartò e arse vivi a decine i servi della gleba ribelli:
fuggivano nei dammusi. Il conte
di Modica, signore di vita e di morte
dovette fuggire una volta dalla folla
- che pochi giorni dopo fu decimata - dei contadini.
Così passarono i secoli. Poi gli antichi baroni,
man mano che il progresso cresceva
e nuove cose venivano dall'Europa
si trasformarono - ma sempre
restando se stessi - in "galantuomini" e "civili".
Arrivò Garibaldi: ma un'altra abile trasformazione
li mise per altre sette generazioni al riparo
dalla sete di vivere dei siciliani. Ed è passato il tempo
e i Cavalieri di oggi non sono affatto casuali:
catene infinite li legano alle radici
dell'ingiustizia arcaica, nata all'origine, su questa terra.
Neanche noi lo siamo. Dopo generazioni di sconfitti
le generazioni dei giovani sempre si sono riannodate
all'insaputa di tutti. Le bandiere rosse nei feudi
- Portella delle Ginestre, Turiddu Carnevale, Miraglia fiorirono sulla lunghissima catena.
Ed altro tempo è passato. Oggi i discendenti degli schiavi
hanno finalmente un ponte da attraversare:
possono forse vincere, dopo anni e anni,
se fantasia e ragione s'allargheranno dappertutto
a partire da qui. E questo è tutto. Nelle poche ore
e nelle cose modeste che ci tocca fare
c'è un concentrato antichissimo, grande, di lotte e di dolori
che ora vengono al nodo. Per questo esistiamo,
ora che una strana ironia - benevola, probabilmente affida ai deboli, agli sparpagliati, ai ragazzini
la sorte dei cavalieri e degli ultimi baroni.
COLOPHON
QUESTO LIBRO
E’ STATO COMPOSTO
IN CARATTERE TIMES NEW ROMAN
NEL DICEMBRE 2005,
DA QUALCHE PARTE IN ITALIA,
PER I SUOI AMICI
MARDIPONENTE
mardiponente
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