Allonsanfàn. Storie da un`altra sinistra
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Allonsanfàn. Storie da un`altra sinistra
Riccardo Orioles Allonsanfàn storie di un'altra sinistra 1999 mardiponente mardiponente Riccardo Orioles ALLONSANFÀN storie da un'altra sinistra mardiponente Riccardo Orioles, Allonsanfàn settembre 1999 [email protected] ALLON SAN FAN __________________________________________________ INTRODUZIONE estate 1999 Si è fatto tardi, ed è tempo di cominciare a lasciare qualcosa. Qualcosa a chi? Mah. Forse a Giorgio di Lovere (in provincia di Bergamo: Giorgio era un ragazzo dei Siciliani) che è venuto a trovarmi l'altro giorno, tornando dall'Albania (volontario cattolico) e prima di partire per Tijuana, sempre da volontario della pace. Non credo che Giorgio non dorma la notte pensando alla crisi della sinistra perbene (lui "è" la sinistra, quella vera). Ma forse prima o poi avrà bisogno di sapere come sono andate, nel suo Paese, le cose. Così, queste storie successe per lo più in Sicilia, nel corso d'un quindici anni, sono in realtà successe dappertutto: una guerra feroce, senza mezze misure, dei compiti da affrontare, i compagni che crescono, una sinistra che a poco a poco si forma. Una sinistra seria, a differenza di altre, perché fin troppo seria era - nel caso nostro - la situazione. Una sinistra sconfitta, anche, alla fine del ciclo. Come i garibaldini di una volta, come i partigiani. Sconfitta, ma non perdente: le cose di questo genere restano vive molto a lungo, è ad esse che si ricorre quando l'alternativa "realistica" - il Regio Governo dei notabili, la democrazia cristiana o la "sinistra" di mercato d'oggigiorno - termina (di solito, lasciando il Paese in braghe di tela) il ciclo suo e c'è da ricominciare tutto daccapo. Allora le vecchie carte possono servire. Così, vale la pena di lasciare qualcosa a Giorgio e agli altri che stanno crescendo dopo di lui. Verrà il momento in cui per loro sarà fondamentale sapere che nella storia della sinistra non c'era solo quello che dicono i notabili ma anche - per esempio - cose come quelle che sono successe ai Siciliani. Se si riesce a lasciargli queste cose, a quei ragazzi, si può avere tranquillamente fiducia in loro. E ora basta così, perché faccio una fatica del diavolo a scrivere anche queste poche righe d'introduzione. E' molto bello perdere insieme con la propria gente, condividerne la sconfitta senza trucchi e fino in fondo. Ma ti lascia, come dire, un po' spossato. Comunque caro Giorgio e cari gli altri che non conosco ma che sicuramente ci siete, comunque fino a qui ci siamo arrivati. Prima o poi toccherà a voi continuare, anche se ora non lo sapete. R.O. I COMPAGNI Ma uno dopo l'altro, ancora impietriti dall'orrore, Li risvegliava l'affetto e li faceva parlare Sapendo, in quella pena, che c'era molto da fare Perchè non fosse inutile Perchè vivesse ancora Dieci creature sole, senza dei a portar doni Di genio o d'eroismo nella notte feroce: E una dopo l'altra prendono la parola Consigliando i compagni, inghiottendo il dolore, Decidendo con calma ciò che faranno insieme Sapendo che lo faranno, fra dieci anni o domani E che in questo se stessi resta un uomo e il suo dono UN UOMO I Siciliani, gennaio 1984 Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche. Però Pippo Fava non è mica uno importante. Per esempio, arriva una centoventiquattro scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e un'Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è Pippo Fava. Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c'è, si chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui. "Tu, come ti chiami?". "Così e cosà". "E cosa vorresti fare?". "Mah, politica estera...". "Ok, cronaca nera". La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all'avventura. Non si conosce nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un paio di stupri... Si chiude alle tre di notte; non si "buca" una notizia. Con grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c'è una cosa che si chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga. Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti. La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose. La prima è che gli americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili. E questo a Fava non va bene, e lo scrive. La seconda che a Milano acchiappano un grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto; e anche qua, Fava si comporta piuttosto - come dire - maleducatamente. La terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è - ok, avvocato, niente nomi - un importante imprenditore catanese coinvolto nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto nell'assessorato all'agricoltura. Telegramma all'illustrissimo dottor Fava: "Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il giornale ora ha un altro direttore". I matti, i ragazzi della redazione vogliamo dire, occupano il giornale. L'occupazione dura una settimana, durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell'Ansa (a pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato e, molto ragionevolmente, l'occupazione finisce. Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché nonleggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su quello vecchio?). Ma Fava nel frattempo non s'è stato con le mani in mano. Ha raccolto una decina dei "suoi" matti: "Si fa un giornale". Come, quando e se si farà non lo sa nessuno. Ma intanto si mette su una bella redazione, con le sue brave "lettera ventidue" scassate. Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due "lettera ventidue" scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di sessanta? Ovviamente, nessuno. D'altra parte dopo l'esperienza del GdS Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare. Allora si mette su una bella cooperativa - "Radar!". "E che vuol dire?". "Suona bene!" - si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano alcune tonnellate di cambiali. Due mesi dopo arrivano due bellissime Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi lo denuncerebbero per stupro. A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l'Esportazione nel portacenere e fa: "Ragazzi, si fa il giornale". "Quando?" "Con quali soldi?" "Io faccio il pezzo sulla Procura!" "Come lo chiamiamo?" "Io ho un'idea per il pezzo di colore" "Ma i soldi...". La vigilia di Natale, le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su "I Siciliani". Anno uno, numero uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l'amore nel sud. Un tipografo porta il pupo in redazione. "Be', potrebbe anche andare" fa uno dei redattori con nonchalanche, e subito dopo si mette a ballare. Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina. A mezzogiorno non ce n'è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l'ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi. Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c'è o non c'è? "Ma no... al massimo un po' di delinquenza..." (il signor Prefetto). "Cristo se c'è! E sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli" (I Siciliani). E quel signore, come si chiama quel signore là? "Noto pregiudicato..." (la stampa per bene). "Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!" (I Siciliani). E i missili, dite un po', vi dispiace se lascio un paio di missili nel sottoscala? "Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!". "Ahò! Ca quali méssili e méssili! I cutiddati a' casa vostra, si vvi l'aviti a ddàri!" E i cavalieri, vediamo un po'; anzi, i Cavalieri? "Ecco dunque cioè nella misura in cui ma però... AIUTO diffamano Catania!" "I cavalieri catanesi alla conquista di Palermo con la tolleranza della mafia. Firmato Dalla Chiesa. Noi stiamo con Dalla Chiesa". Ed è passato un anno. C'è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo primo scippo o no. C'è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta fuori dall'ospedale perché non c'era posto. C'è una tizia, a viale Regione Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C'è un manovale, alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è sua. C'è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di pattuglia lo stesso. C'è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse diventerà una puttana e forse una donna felice. E c'è un'altra bambina, in un cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la bambina ride. "Nonno, nonno, ora faccio l'attrice". "Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l'altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa... Beh, te lo prendi un caffé? E l'occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe". Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l'altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale. Certo, in una villa di Catania, s'è brindato, quella notte. Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato. Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato - uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare - sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza. Forse ha pensato che un giorno o l'altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a... Ma forse non gliene hanno dato il tempo. *** E questo è tutto. Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti. Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c'è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni. Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi. Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare. Va bene così, direttore? Elena Brancati, Cettina Centamore, Santo Cultrera, Claudio Fava, Agrippino Gagliano, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Nanni Maione, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Tiziana Pizzo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia Ancora una volta la mafia ha colpito un uomo che lottava per il bene di tutti. Noi non sappiamo ancora quali specifici settori di essa e quali specifici interessi si siano sentiti più direttamente minacciati dal lavoro che Giuseppe Fava portava avanti alla testa di questo giornale. Sappiamo però quali argomenti non sono mai mancati dalle pagine de "I Siciliani": la crescente e troppo a lungo sottovalutata potenza delle famiglie mafiose catanesi; il flusso di denaro pubblico dalle casse delle istituzioni siciliane a quelle dei soggetti equivoci o addirittura mafiosi; il pericolo, non solo di guerra ma anche di rafforzamento della presenza mafiosa, portato dall'introduzione delle basi nucleari; la necessità, segnalata a suo tempo dal genrale Dalla Chiesa, di far luce sulle fortune dei principali imprenditori catanesi; le connessioni, ormai ben più che occasionali, fra mafia e politica. Su tutti questi argomenti, a nostro avviso, non mancheranno d'investigare i responsabili delle indagini su questo delitto; quanto a noi, continueremo a porli al centro del nostro lavoro, che proseguirà regolarmente. Ringraziamo tutti coloro che hanno voluto esprimere la loro solidarietà in questo momento; e soprattutto coloro la cui solidarietà vorrà tradursi, nel tempo a venire, in concreta mobilitazione e lotta contro la mafia. La Sicilia non attenderà il duemila per abbattere la mafia. La Sicilia dei lavoratori, dei giovani, delle donne, delle persone oneste combatte già da ora la sua battaglia. Il nostro direttore non ha avuto paura di esserne la voce, di raccogliere e dare espressione a ciò che ogni siciliano sa e troppo spesso non può dire. E' una ben esigua minoranza, nel mondo del giornalismo siciliano, quella che realmente e senza compromessi tiene testa alla mafia: esigua, ma capace tuttavia di esprimenre i Mauro De Mauro, i Mario Francese, i Peppino Impastato, i Giuseppe Fava. Su questa minoranza il popolo siciliano potrà sempre contare, in qualunque circostanza e a qualunque prezzo. I redattori de "I Siciliani" APPUNTI promemoria interno, gennaio 1984 1) La cosa più difficile è di renderci veramente conto che nulla potrà essere più come prima, soprattutto non noi. Questo non è più un giornale (solo un giornale), e noi non siamo più giornalisti (solo giornalisti). Abbiamo una responsabilità che prima non avevamo; verso altri esseri umani, non verso un'idea. E siamo cambiati. Ci pare tutto assurdo ed irreale. Ma è così. (La tentazione più grande sarà quella di illuderci, di "essere come prima"). Dobbiamo fare scelte molto più grandi di noi; anche non farle sarebbe una scelta. Affrontare problemi molto più grandi di noi; nessuno può farlo al nostro posto; e risolverli, altrimenti sarebbe tutto inutile. 2) Soprattutto, imparare a contare sugli altri. Contare "istintivamente" su Pertini come sullo Spedalieri. Da soli, non ce la faremo mai. Capire di volta in volta perché e come essi possono - o "debbono"- aiutarci. Essere molto "superbi", capire fino in fondo che abbiamo il diritto (e il dovere: perché solo così potremo funzionare) di chiedere; e contemporaneamente non montarsi la testa, capire che è toccata a noi per caso (non migliori degli altri, né peggiori). Abbiamo moltissimo da imparare per essere all'altezza di quello che dobbiamo fare, e dobbiamo imparare ad analizzare spietatamente i nostri punti deboli, l'uno con l'altro e ognuno di noi da solo. Ed anche essere freddi, oggettivi in qualunque circostanza (e ci possono essere ancora circostanze molto dure) il nostro gruppo deve sempre "ragionare". E poi decidere speditamente, senza rinviare le decisioni. Ci saranno cose molto difficili, per ciascuno di noi: per esempio, accettare che un altro debba rischiare - per ora - più di te. Ma occorrerà accettare anche questo, se ce ne sarà bisogno: perché non sarà facile arrivare fino in fondo (ma ci arriveremo). 3) Non dobbiamo molto mischiarci con la "vecchia" politica, e contemporaneamente dobbiamo saperla sfruttare per quanto si può. Ma dev'essere chiaro a tutti, e soprattutto a noi, che quello che vogliamo è una cosa diversa e molto più profonda; e chiamarla politica è inadeguato. Dobbiamo essere, molto semplicemente e profondamente, l'immagine della "Sicilia onesta". E poi, "molti fatti e poche parole". Questo, possono capirlo tutti. 4) Rivista più linea editoriale più settimanale: tre cose non separabili, da articolare. La rivista deve continuare sulla stessa linea di prima: questo significa, fra l'altro, tornare già ora su argomenti "duri". Tenere alto il livello di qualità (due "firme" esterne al mese, molti collaboratori, ecc.); puntare molto sulla rete degli abbonati, scatanesizzarci; aprire tutto un versante nuovo di ecologia, vita moderna, ecc.; essere l'organo della cultura militante siciliana; ma anche mantenere un tono non intellettualistico, "popolare". Stile concreto, senza grandi parole; al limite "piemontese". 5) Siciliani Editori può diventare anche più "importante" della rivista; l'Einaudi del Sud. Cominciare dai titoli già previsti (già a loro volta articolati in sezioni...); ma affiancare al più presto una collana "politecnica" a buon livello, una collana di stampa d'arte ed una, infine di pamphlets molto scarni ed a bassissimo prezzo (uno strumento tecnico che fa capolino qua e là nella storia del giornalismo; e mai casualmente...). 6) Il settimanale - il foglio dei Siciliani - dev'essere, probabilmente, "povero"; comunque, militante (il "partito" della Sicilia onesta: contro la mafia, i missili, l'incultura; ma anche "per" un modo diverso di vivere, riscoprire se stessi individualmente e collettivamente, ragionare...). Uno stile "giovane" (non giovanilistico!), coinvolgente; un giornale di massa, non solo per lettori "evoluti e coscienti"; battere la stampa dei mafiosi, non semplicemente ritagliarsi uno spazio! Ed è possibile. Possiamo, e quindi dobbiamo, mettere in piedi entro l'autunno una rete articolatissima di collaboratori, corrispondenti, anche redattori locali; e partire in autunno con una sottoscrizione popolare da mantenere come caratteristica politica del giornale. E spiegare sempre tutto ai lettori: dire quali sono i problemi, come affrontarli, contare - e dirlo - su di loro. Forse nessun altro, come noi, può farlo. 7) Intanto, cominciare subito (metà febbraio) con i fogli volanti (giustizia, banche; ma anche sport, satira) monografici, i tabloid. dei quali, il primo ma non paternalistico, né celebrativo: sarà difficilissimo trovare il tono! per gli studenti. E dire proprio qui cosa vogliamo fare, e fare esempi concreti e chiedere (intanto, agli studenti) una serie di interventi specifici. Se ogni scuola siciliana fosse una sezione del partito-che-non-è-unpartito, e contemporaneamente un ufficio di corrispondenza dei Siciliani; se ogni scuola ricevesse le sue copie, e le diffondesse, e curasse la sottoscrizione, e contattasse il corrispondente da noi designato per aiutarlo nella scelta delle notizie; e se poi cominciasse magari a lavorare (senza fretta, coi tempi necessari) su un argomento specifico della propria zona - se tutto questo avvenisse, sarebbe indubbiamente poco "professionale", ma sarebbe bellissimo. E perché non provarci? 8) E poi, non restare ma più isolati. L'associazione degli amici dei Siciliani (convegni, organizzazione, finanziamento d'emergenza) ma anche tante piccole e grandi iniziative "spontanee", "risorgimentali", negli ambienti più diversi, nelle forme più disparate; tutti insieme, probabilmente, non siamo in grado di immaginarne la decima parte, ma grazie al cielo non abbiamo bisogno d'immaginarne solo noi. Essere al centro di mille idee, di mille iniziative che, magari slegate fra di loro e "occasionali", concorrano però a formare una trama molto netta e molto forte. E anche questo è possibile. 9) Contare sulle nostre forze non esclude (anzi richiede) contare anche su molte altre. Sapere che non siamo all'altezza non esclude (anzi rafforza) la possibilità di riuscire. E noi siamo determinati e compatti, e molta gente s'è mossa; molta di più ha cominciato a muoversi, e il nemico è diviso. Se restiamo uniti - ma basta uno a dividere - e pensiamo in termini di dieci anni, niente è impossibile; bisogna solo trovare - di volta in volta - come utilizzare tutte le forze potenziali, e ragionando ci si può certamente riuscire. Ci sarà da stare molto attenti e da fare "politica" anche; ma dovremo sempre ricordare, in ultima analisi, che gli amici sono solo ed esclusivamente quelli di quella notte. Ed anche i nemici. E non dimenticarlo mai. "MILITARMENTE OCCUPATA" febbraio 1984 Care compagne e compagni, per noi è molto importante che in una giornata come questa, al di là di tutte le divisioni che ci possono essere e che noi speriamo vengano superate al più presto, la Sicilia onesta sappia ritrovarsi insieme, unita e compatta, per lottare contro la mafia. La mafia non è fatta solo da quelli che sparano, dai killers mafiosi, ma anche e soprattutto dai boss mafiosi, dai politici mafiosi e dagli imprenditori mafiosi. Anche qui a Catania, anche se certa stampa, qui, non ha il coraggio di parlarne. Il nostro direttore questo coraggio ce l'ha avuto. Per questo l'hanno ucciso. Ma il nostro giornale, I Siciliani, vive e continuerà a vivere e continuerà a lottare, senza fermarsi, contro tutti costoro. Noi non ci tireremo indietro! E noi non chiederemo certo aiuto, come non lo abbiamo fatto in passato, ai vari cavalieri, ai pezzi grossi, ai potenti. Noi fideremo solo ed esclusivamente nell'aiuto e nella solidarietà concreta dei siciliani onesti, e dei lavoratori in primo luogo. E questo aiuto e questa solidarietà verremo fiduciosamente a chiedervi di qui a qualche settimana. Al Nord alcuni giornali, quelli stessi che gridano al lupo appena vedono operai, quelli stessi che non esitano a mettersi d'accordo coi Ciancio e coi Rendo, dicono, in sostanza, che noi siciliani siamo tutti mafiosi. Certo, qualcuno di più, qualcuno di meno; ma secondo loro, alla fine, è tutta la Sicilia che è mafiosa. Questo non è vero, questa è una menzogna. La Sicilia non è mafiosa. La Sicilia è una terra militarmente occupata dalla mafia; come una volta c'erano i tedeschi, ora ci sono i mafiosi. Ma la grandissima maggioranza dei siciliani è nemica della mafia, è nemica dei politici mafiosi, e nemica degli imprenditori mafiosi e di tutti i loro collaborazionisti e servitori. Anche qui a Catania, la Sicilia antimafiosa si va organizzando. In questi ultimi mesi ci sono state molte iniziative spontanee di studenti, di operai, di intellettuali, di donne. Tanta gente ha preso coscienza della situazione; e alcuni hanno già cominciato a muoversi; ma ognuno nel suo settore, ognuno per conto suo, separatamente. Noi, redazione dei Siciliani, pensiamo che è il momento di cominciare a muoverci tutti insieme, di organizzarci. Una buona idea sarebbe quella di formare un movimento popolare che abbia come punto di riferimento il nostro giornale, e che potremmo chiamare, per esempio, Associazione Amici dei Siciliani. Un'organizzazione aperta, senza etichette e bandiere; un'organizzazione di cui possano far parte veramente tutti coloro, da qualunque parte provengano, che vogliono fare qualche cosa, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri; e, in primo luogo, i lavoratori e i loro rappresentanti. Un'organizzazione viva, forte e combattiva, che possa cominciare ad essere, oggi a Catania quello che in altri tempi e in altri luoghi, ma sempre contro una barbarie come questa, erano i Comitati di liberazione. Non contro i tedeschi, questa volta, ma contro l'occupante mafioso, contro i boss mafiosi, contro i politici mafiosi, contro gli imprenditori mafiosi, contro tutti coloro che stanno ammazzando Catania e la Sicilia. Oggi come allora, resistenza: per cacciare la mafia, per liberare la città. CARO LETTORE I Siciliani, febbraio 1984 Caro lettore, probabilmente hai già sentito parlare del nostro giornale e sai che esso è, in questo momento, una delle poche cose che permettono a tutti noi siciliani di andare a testa alta di fronte a chiunque. Sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. ALCUNE RISPOSTE DA TROVARE INSIEME I Siciliani, settembre 1984 Sono passati sette mesi. Sette mesi senza alibi, per i siciliani onesti e per i mafiosi. Per i mafiosi, perché adesso non è più questione di "Sicilia diffamata" e di "campagna per difendere Catania" ma semplicemente di dire se si è con la mafia o contro. Per noi antimafiosi, perché adesso non abbiamo più l'alibi della solitudine e del popolo che non ci comprende. Se una cosa s'è vista, in questi mesi, è che la nuova generazione dei siciliani è nella sua grande maggioranza nettamente antimafiosa; e che ce n'è una parte, ancora minoritaria ma già abbastanza numerosa, pronta a tradurre subito in azione concreta questa prima elementare intuizione. "Car Siciliani: sono una ragazza di diciassette anni e vi scrivo per dirvi che anch'io...". "Adesso però vorrei dire un fatto che è successo al mio paese e che secondo me è pure un fatto mafioso...". "Nella nostra scuola si sono vendute settantacinque copie comunque non eravamo un granché organizzati ma la prossima volta...". Ecco: cosa dobbiamo rispondere a lettere come queste e a interventi come questi, a questi messaggi? Perché ce ne sono stati tanti, molti di più di quanto avremmo potuto credere - questo, gli assassini non l'avevano messo nel conto. Noi non possiamo rimandare questi ragazzi con risposte di generica solidarietà. Noi - noi di questo giornale, intendiamo; ma anche tutti coloro che in una qualunque maniera si sono schierati su questo fronte - abbiamo un dovere preciso nei confronti di tutti loro. Ci scrivono fiduciosamente, avendo finalmente trovato una bandiera; e fiduciosamente lavorano, ogni volta che gliene si dà l'occasione, a quel poco che osiamo loro affidare. E questa sarebbe la generazione senza ideali, di quelli che non credono più a niente, dei ragazzi del riflusso... Abbiamo attraversato questi mesi sostanzialmente da soli. Non nei confronti - tutt'altro! - dei ragazzi delle scuole, dei magistrati onesti, della gente "comune", ma rispetto a buona parte delle forze politiche, del mondo giornalistico, delle categorie istituzionali, di tutti coloro insomma che avrebbero potuto materialmente aiutarci, qui ed ora, a continuare il nostro lavoro. Quasi con le nostre sole forze, abbiamo dovuto affrontare difficoltà e ostacoli che sembravano, ragionevolmente, insuperabili; e ce l'abbiamo fatta. Al feroce messaggio della mafia, abbiamo risposto con venti articoli nuovi contro di essa. Tutto quello che hanno potuto ottenere da noi, è stato di fermarci per quattro ore, dalle 22,30 del cinque gennaio alle due e mezza del sei. Un attimo dopo, abbiamo ricominciato. In sette mesi abbiamo prodotto sei nuovi numeri della rivista mensile e tre del tabloid sperimentale; neanche una pagina, crediamo, ne è andata sprecata. Ma tutto questo non basta. Ci sono cose che non siamo riusciti a fare, ed altre che non abbiamo nemmeno provato a fare: bisogna ragionare anche su questo, avere il coraggio di criticarci. Non siamo riusciti, nella maggior parte dei casi, a contattare adeguatamente le centinaia di luoghi in cui il nostro giornale non era mai stato ma aveva già, per sola forza d'immagine, i suoi amici e i suoi lettori; non siamo riusciti a far partire prima dell'estate tutto il piano editoriale che avevamo previsto; non siamo riusciti a dare a tutti i nostri amici nel mondo politico e nel sindacato un'immagine del nostro lavoro che li aiutasse a superare la miopia con cui, non per sua colpa, la democrazia "settentrionale" tradizionalmente percepisce le lotte del Sud. Queste cose non siamo riusciti a farle - non era cosa facile, d'altronde - finora, e cercheremo dunque di riuscirci nei mesi che verranno. Per altre cose, il discorso è più complesso. Per esempio: abbiamo prodotto e diffuso un foglio speciale per le scuole, e non l'abbiamo fatto da soli ma con l'aiuto di decine di ragazzi che col giornale, in teoria, non c'entrano per niente. Questo è ancora "soltanto" un fatto giornalistico, o è già, nel suo piccolo, qualcosa di più? E se un caso come questo indicasse (e ce ne sono altri più minuti) che esiste una richiesta crescente, fra i giovani siciliani, non solo di informazione ma anche, in modo del tutto nuovo, di organizzazione? Ma: cosa significa parlare di organizzazione nel 1984? E soprattutto: chi deve parlarne, che deve fare le proposte concrete per dare un senso a questa parola? Noi, i ragazzi che hanno lavorato con noi, i nostri "lettori", tutti quanti insieme? E ancora: organizzarsi per fare cosa? Solo per diffondere un giornale, o per qualcosa di più? E "come" organizzarsi? Ha ancora un senso pensare a un centro che spieghi le cose e una periferia che le esegua, o è già possibile lavorare insieme in maniera più collettiva? E, in fondo a tutte queste domande: è davvero possibile sapere già ora cosa vogliamo costruire e dove arriveremo, o è meglio partire con pochi e concreti obbiettivi per scoprire insieme, strada facendo, tutti gli altri? Tutto ciò non ha niente a che vedere, evidentemente, con la "politica" dei candidati e dei partiti; forse, con quella più profonda e civile - ed anche più solida e reale - che, nei momenti di crisi, emerge direttamente dal crescere delle esperienze individuali e collettive. Noi attraversiamo, riteniamo, uno di questi momenti e non possiamo venir meno a nessuno dei nostri compiti rispetto ad esso, nemmeno a quelli talmente nuovi da richiederci uno sforzo di fantasia già solo per percepirli. Solo in questo quadro, fra l'altro, è possibile dare un senso reale alla nostra stessa funzione "tecnica" e professionale, che rischia diversamente di diventare una umanissima ma isolata testimonianza e non uno strumento di effettivo cambiamento della realtà esistente. Proposte concrete? Non ancora: piuttosto, due campi di ricerca su cui bisognerà ragionare, tutti insieme, nei prossimi mesi. Primo: come può essere un giornale popolare siciliano, chi può mettersi insieme per farlo, che iniziative concrete possono aggregarsi attorno ad esso? Secondo: come utilizzare fino in fondo, in questa prospettiva, un luogo d'incontro come l'Associazione dei Siciliani di cui s'è parlato nei mesi scorsi; come far sì che a raccogliersi in essa non siano solo gl'intellettuali già impegnati ma un'intera generazione di siciliani onesti? Su questi due punti sarebbe utile aprire subito -- e questo vuol esserne semplicemente un inizio - un dibattito ampio e concreto, non solo fra noi "addetti ai lavori" ma con tutti i nostri amici e lettori. Di questi tempi, la cosa più importante per chi vuole davvero cambiare le cose, è sapere imparare: le cose che non sappiamo ancora sono davvero tante, e non è detto che debbano sempre essere le "persone importanti" a spiegarcele. A CAVALLO DELLA TIGRE I Siciliani, settembre 1984 E' difficile, per coloro che non sono siciliani, rendersi conto dell'aspetto più propriamente "politico" della mafia. Non parliamo qui, s'intende, dei legami sempre più stretti che la mafia ha via via potuto stringere con il mondo politico ufficiale, ma della presenza quotidiana, continua, infine per l'appunto - "politica" con cui essa ha pesato in ogni aspetto della vita associativa siciliana: fino a diventarvi in larga misura egemone, imponendovi con la violenza un proprio modello di società e dei propri modelli di comportamento individuali e collettivi. La mafia ha dato luogo, negli ultimi quarant'anni e per la maggior parte dell'Isola, ad una vera e propria occupazione militare del territorio: con i suoi editti e i suoi bandi, le sue esecuzioni sommarie, la sua dose quotidiana di prepotenze spicciole; con i suoi corpi militari, ma anche il suo personale politico, i suoi amministratori, i suoi kapò. Immaginate una repubblica di Salò che duri per quarant'anni ed avrete un'idea di che cos'è la mafia, in linguaggio "milanese". In queste condizioni storiche, si è verificato in Sicilia un fenomeno non dissimile da quella che in altri tempi e luoghi d'Europa è stata la resistenza "politica" e clandestina contro i regimi nazifascisti. La nostra Resistenza è durata quarant'anni; ed ha avuto centinaia di morti. Ogni singolo diritto civile è stato conquistato - quando si è riusciti a conquistarlo - a prezzo di sangue. Ogni nostra sconfitta è stata pagata con la decimazione dei resistenti e la deportazione delle masse. Un quarto della popolazione attiva della nostra isola vive e lavora all'estero: le grandi ondate migratorie seguono la sconfitta della lotta sui feudi, quella della riforma agraria, quella delle lotte per l'acqua. Eppure, la Sicilia non si è mai arresa: quarant'anni fa le bandiere rosse dei braccianti, oggi le assemblee degli studenti, in nessun altro paese d'Europa tanta ostinazione e tanta disperata fierezza hanno tenuto campo così a lungo. E i pochi uomini nostri - generalmente, e non a caso, percepiti altrove più come capipopolo che come veri dirigenti politici - che hanno saputo esprimere la coscienza popolare vengono ricordati in Sicilia, assai più che nella loro qualificazione ideologica, come capi di questa lotta; i Miraglia, i Li Causi, i La Torre sono innanzitutto, nella memoria popolare, i nemici della mafia; la stessa sinistra politica e sindacale, nei suoi momenti alti nelle zone più aspre della Sicilia, è vista anzitutto come organizzazione di lotta contro il potere mafioso, e solo secondariamente in rapporto alle questioni "politiche" tradizionali. Interclassismo generico, qualunquismo? Basta guardare la piazza di un qualunque paesino dell'interno siciliano - la chiesa e il circolo dei civili su un lato della piazza; il punto di ritrovo dei braccianti e la lega contadina sull'altro - per comprendere come proprio la questione mafiosa sia la più profondamente politica che oggi possa darsi nel Paese, quella che con maggiore verticalità e nettezza separa le classi, i comportamenti collettivi, i diversi modi di vivere e le diverse visioni del mondo, la società insomma. UN VOLANTINO primavera 1984 Nonostante tutto, il potere della mafia comincia a mostrare le prime crepe. Sempre più spesso il lavoro dei magistrati onesti ottiene risultati un tempo impensabili; sempre più chiaramente il cittadino comune prende coscienza della necessità di far pulizia non solo nella malavita ma anche nel Palazzo. Adesso, bisogna andare avanti. Costringere lo Stato a sostenere i suoi uomini non solo coi bei discorsi ma con mezzi concreti; smascherare gli interessi degli appalti e della droga, a cominciare da quelli indicati da Fava, Dalla Chiesa e Chinnici; cacciare dalla politica i compromessi e i corrotti, a partire da quelli che dicono che "qui la mafia non esiste"; cominciare a confiscare sul serio i patrimoni mafiosi, e affidarne la gestione - emendando la legge La Torre - ai lavoratori ricattati con la disoccupazione: questi sono gli obiettivi che oggi possono far fare un salto di qualità alla lotta contro la mafia. Perché oggi non si tratta più solo di far celebrazioni, ma di organizzarsi per vincere. E questo oggi è possibile. Noi proponiamo a tutti i militanti e i gruppi impegnati nella nostra stessa lotta, a Palermo come a Catania come altrove: 1° - di esaminare con noi la possibilità di dare vita ad una Associazione che in maniera unitaria, organizzata e capillare raccolga in tutte le città e i paesi della Sicilia i militanti antimafiosi e ne coordini la lotta, sia attraverso momenti di mobilitazione generale su obbiettivi specifici che attraverso una rete diffusa d'iniziative locali; 2° - di esaminare con noi la possibilità di dar vita nei prossimi mesi ad un settimanale popolare, diffuso dappertutto e sostenuto da tutte le forze antimafiose, che spezzi il monopolio dell'informazione esistente e si ponga in tutta la Sicilia e fuori come la voce di tutti i siciliani antimafiosi. I Siciliani UN VOLANTINO primavera 1984 Anche se non ti promettiamo ricchi premi e cotillons vale ugualmente la pena che tu legga questo volantino e per dei motivi, ne converrai, più che seri: tanto per cominciare è gratis e non è un pretesto per venderti un'enciclopedia; poi perché è stato fatto per te, e da ragazzi uguali a te, più o meno belli, più o meno intelligenti, più o meno incavolati, insomma gente come te. Vogliamo proporti una nuova idea da realizzare insieme: Siciliani/Giovani, un mezzo di espressione libero e moderno a disposizione di chiunque voglia dire qualcosa, non il primo della classe, né quelli che salgono sempre in cattedra. Infatti non ci interessa il letterato, l'artista, il politicante, ma tutti quelli che vogliono scrivere, raccontare, disegnare, fotografare anche solo partecipare a qualcosa, esserci, sentirsi vivi e protagonisti, non solo complici della propria vita. E' una possibilità di opporci a un'esistenza grigia che scorre per inerzia, alla solitudine, alla rassegnazione inutile (ci dicono di non rompere le scatole e starci zitti, e noi ci stiamo? No). Non dormirci su ancora, vieni se hai qualcosa da dire, da raccontare. Fabio Via Reclusorio del Lume (vicino piazza S. Domenico), Facoltà di scienze politiche, Aula "A" a piano terra. IL CORAGGIO DI LOTTARE SicilianiGiovani, 1984 Caro Salvatore (o Antonio o Vincenzo o Roberto, o come diavolo ti chiami), come vedi, io non so nemmeno il tuo nome (forse ci saremo visti qualche volta, in un treno di pendolari o in una discoteca, ma naturalmente senza farci caso) e non so nemmeno che tipo sei, se tipo "ragazzino perbene" oppure tipo punk (a me personalmente piacerebbe di più così, ma questo è solo una cosa mia personale). Non so neppure che cosa stai facendo in questo momento, forse hai trovato il giornale per caso e siccome ora c'è una lezione noiosa te lo leggi sottobanco tanto per passare il tempo; o forse sei sull'autobus o forse da qualche parte con i tuoi amici (neanche tu sai granché di me: bene, sono un giornalista dei Siciliani, ho qualche anno più di te ma non molti, sono triste perché mi hanno ammazzato un amico, ho anche la paranoia che lo facciano pure a me e ne ho paura perché non sono particolarmente coraggioso. Non sono affatto un grande giornalista anzi sono alle prese con problemi molto più grandi di me). L'importante comunque è che tu capisca che io in questo momento non sto parlando al Ragazzo Impegnato, non sto facendo il discorso "simbolico" per dire che in realtà faccio appello a tutti quelli che ecc. ecc. No, io sto parlando proprio a te personalmente, perché ho bisogno di aiuto e non mi fido delle persone importanti. Ho bisogno invece della gente "comune", quella come te (e come me). Parliamoci chiaro: io non credo affatto che tu sia particolarmente interessato a tutte queste cose. L'altra volta, anzi, quando c'è stata l'assemblea Contro-La-Mafia (ci sarà stata anche nella tua scuola) tu per un po' sei stato ad ascoltare tutto quello che dicevano i professori e i tuoi compagni più "politici" poi, semplicemente, ti sei annoiato e te ne sei andato. Siccome era una bella giornata, spero che tu te ne sia anche andato in villa con la tua ragazza. Tutto questo mi va benissimo. Io non credo molto alle parole, e credo che ognuno debba fare ciò che sente e non quello che dicono gli altri. Però. vedi, c'è un trucco. Gli altri - cioè le persone importanti, i professori, i "politici" - partono da un punto di vista, e cioè che loro sanno tutto mentre tu non sai un cazzo. E che quindi debbono essere loro a dirti cosa fare. Tanto, tu sei "qualunquista", uno che se ne frega delle Cose Serie, che pensa solo a farsi la canna e ad andare in discoteca (i giornalisti come me, invece, sono "i ragazzi di Fava", bravi ragazzi certo, ma un po' troppo incazzati e un po' coglioni...). Invece non è così. Tu sai un sacco di cose, solo che non le dici nel loro linguaggio, o non lo dici affatto. Però le sai. Per esempio sai che la tua vita non è affatto una gran bella vita, che ti annoi: questo non è affatto qualunquismo, è la tua vita. Non c'è bisogno di parole difficili per dirlo. E sai pure che non ti va di continuare così e che intanto devi continuare lo stesso perché non c'è altro da fare, Sai che, nonostante tutte le belle parole, nessuno ti può aiutare a far qualcosa perché in realtà a nessuno gliene frega veramente molto di te: Sai anche altre cose, per esempio che fra un paio d'anni resterai disoccupato come il novanta per cento dei tuoi amici, che fra i tuoi amici ce n'è sicuramente qualcuno che si buca, che tu ancora sei fra i più fortunati perché sei - probabilmente - uno studente e non uno scippatore o un marchettaro (e se lo sei, il discorso vale anche per te). Sai un sacco di cose serie, insomma, ma tu stesso non ti accorgi nemmeno di saperle (non solo gli altri ti considerano un "qualunquista": sono riusciti a convincere anche te che lo sei), e perciò non contano niente, non pesano. E perciò quelli che sanno parlare continuano a comandare loro, indisturbati: tanto, tu non conti... Questo è il trucco. Se tu ti rendessi conto di quanto sia importante - e, ma in una maniera del tutto nuova, anche "politico" - anche andare in villa con la ragazza, cercare di fare quello che ti piace, vivere la tua vita come vorresti tu, tutto quanto cambierebbe. C'è stato un onorevole che, poche ore dopo che hanno ammazzato quel mio amico, è venuto fuori con aria arrogante - "la mafia non c'è, ha detto in sostanza, fatevi gli affari vostri!" a minacciarci. Bene, quell'onorevole in realtà è un debole, è un isolato, perché non ha nessunissima idea della vita reale, della gente vera: al massimo, può fare qualche danno ora, per il potere che ha. Noi invece - tu ed io - siamo molto forti e gli possiamo ridere in faccia perché la vita (la vita di ogni giorno, quella normale, la nostra) la conosciamo, ci siamo dentro, sappiamo che cos'è; ci mancano solo le parole, ma le troveremo (e non saranno mai grandi parole, grandi ideali, faccende da politici: ma parole comuni, normali, quelle della vita di ogni giorno). Allora, adesso ti faccio la mia proposta. Lasciamo perdere se hai la cravatta o l'orecchino (io, ripeto, preferirei l'orecchino: ma è questione di gusti, ognuno ha i suoi). Queste sono cose secondarie. La cosa importante è che tu vuoi vivere la tua vita, e che ti sei scocciato di quella che ti danno. Come me. Allora dammi una mano. Parole non me ne servono, mi servono poche cose da fare. Poche, ma da farle sul serio, perché noi due - tu, ed io siamo gente seria, non politicanti. Andare in villa con la ragazza è una cosa seria, e anche fare questo giornale è una cosa seria. Solo i bei discorsi non sono una cosa seria. ALCUNE COSE DA FARE SicilianiGiovani, 1984 Allora, cosa si può fare per dare concretamente una mano a questo giornale? Facciamo un esempio: l'istituto tecnico industriale di Piazza Armerina. Intanto, ci si organizza a scuola in modo tale che ci siano sempre quattrocinque ragazzi, a turno, che tengano i contatti col giornale e si occupino della varie cose da fare. Dopodiché, le cose da fare sono più o meno le seguenti: 1) Notizie. Ovviamente, il discorso "notizie" in senso stretto è roba da professionisti: stiamo mettendo in piedi una rete capillare di corrispondenti, quindi ci sarà semmai da andare dal corrispondente di Piazza Armerina e non direttamente al giornale. Però noi per "notizia" non intendiamo lo scoop, la novità clamorosa: intendiamo semplicemente sapere come vive la gente in un determinato posto. Quindi, se per esempio la III C dell'industriale di Piazza si organizza per fare una ricerca seria, poniamo, sulla distribuzione dell'acqua ai contadini della zona, questa per noi è una notizia, e c'interessa. Questo vale anche per le città più grandi, dove ci sono un sacco di situazioni (la vita nei quartieri periferici, i ragazzi dei ghetti, ecc. ) di cui nessuno mai parla e che noi non riusciremo mai a seguire con le nostre forze, perché ci vorrebbero decine di persone. Allora, se invece di Piazza Armerina si parlasse, poniamo, di Catania, una cosa buona da fare sarebbe di organizzarsi in classe e fare un lavoro di cinque o sei mesi a Montepò o a Goretti; sarebbe un lavoro utile soprattutto per chi lo fa, perché ci sarebbero anche da imparare moltissime cose che dentro la scuola non arriverebbero mai (uno studente ha molte cose da insegnare a uno scippatore: ma anche viceversa!). 2) Diffusione del giornale. Per "giornale" non intendiamo la rivista mensile, ma il settimanale che faremo in autunno e che sarà, grosso modo, come questo foglio che state leggendo, solo con più pagine e un po' più curato. Dev'essere il giornale dei Siciliani. Vogliamo diffonderlo per metà in edicola, e per metà di mano in mano. La "diffusione militante" vorremmo affidarla prevalentemente agli studenti delle superiori, che sono quelli che si possono organizzare più facilmente per farlo (non c'è paese che non abbia la sua scuola). In ogni scuola, dunque, ci dovrà essere almeno uno, a turno, al quale faremmo arrivare le dieci, venti o cento copie da distribuire: abbiamo tutta la primavera e l'estate per organizzarci. 3) Sottoscrizione. Noi, come forse oramai si è capito, non abbiamo nessuno alle spalle. Perciò siamo sempre con, diciamo così, qualche problema finanziario. Non vogliamo andare da nessun centro di potere, e quindi dobbiamo affidarci alle mille lire dell'operaio e dello studente. Non abbiamo parlato finora di sottoscrizione perché non ci piaceva mischiare discorsi di soldi a tutto ciò che stiamo vivendo. Ma è un problema serio. E va affrontato seriamente, in modo organizzato capillare: anche qui, se ne potrebbe occupare uno, a turno per ogni scuola; anche qui, abbiamo la primavera e l'estate per organizzarsi bene. 4) In generale, noi pensiamo che sia giusto che gli studenti siciliani tranne quelli proprio fighetti o proprio fatti - ci aiutino. Pensiamo però che sia anche giusto che noi aiutiamo loro, per quanto possiamo col nostro mestiere, e cercheremo di farlo. Noi non sappiamo quanti presidi provveditori e professori appoggeranno questa iniziativa e quanti la boicotteranno; ma, sia chiaro, noi ci stiamo rivolgendo in primo luogo agli studenti. Stiamo parlando di studenti perché la maggior parte dei ragazzi va a scuola: ma in effetti stiamo chiedendo - e offrendo - aiuto a tutti i ragazzi siciliani in generale; la scuola non è un posto più serio degli altri, è semplicemente un posto dove si sta più insieme. 5) Col mensile, con i libri dei "Siciliani editori" e col settimanale noi continueremo ovviamente ad occuparci prima di tutto di mafia e di missili, ma non solo di questo; cercheremo anche di parlare di storie quotidiane, di ecologia, di natura, di problemi "comuni", di sport, spettacolo e cultura, del tempo libero e di quello da liberare - in una parola, della nostra vita. Noi, come tutti i giovani siciliani, non siamo solo "contro" qualcosa, siamo anche "per" qualcos'altro che ancora non sappiamo esattamente cosa sia ma che sicuramente esiste e che vogliamo trovare a poco a poco, senza idee preconcette e senza credere d'avere la verità in tasca (di mafia, forse, ne sappiamo più di altri; ma su tutto il resto, abbiamo moltissimo da imparare, da tutti e soprattutto da voi altri). Ci rendiamo conto - infine - che i nostri collegi giornalisti davanti all'idea di un giornale come questo affidato, praticamente, agli studenti siciliani storcerano il naso e diranno: ma è pazzesco! Ma non s'è mai fatto! Ma non è professionale! Beh, che sia pazzesco non è detto, perché abbiamo visto che in giro, da un anno a questa parte, la volontà di fare qualcosa c'è e forse mancava solo l'occasione e un minimo di organizzazione. Che qualcosa del genere non sia mai stata fatta prima è vero, ma qualcuno doveva pur cominciare. Che non sia "professionale" è, decisamente, sbagliato: da oggi in poi, in Italia, c'è anche quest'altro modo di fare un giornale. LA MAFIA DI OGNI GIORNO SicilianiGiovani, 1984 La mafia, per noi, non è un argomento da comizio o da tavola rotonda, ma semplicemente un pezzo della nostra vita quotidiana. Per alcuni di noi, per esempio quelli che sono costretti a guadagnarsi da vivere alla meglio, il fatto di vivere in una società composta anche dalla mafia si fa sentire in maniera fisica e immediata, per altri in maniera fisica e immediata, per altri in maniera meno diretta ma in realtà altrettanto decisiva. Perciò abbiamo voluto mettere al centro di questo nostro primo giornale alcune storie di vita che a prima vista sembrerebbero non aver molto a che fare con la mafia ma che in realtà sono frutto di una società "mafiosa" (società mafiosa non vuol dite che tutti siano mafiosi ma semplicemente che la mafia vi è accettata come un componente "normale": certo, non la mafia che fa gli attentati ma quella che fa gli investimenti bancari...). La cosa più importante, infatti, è sapere dove vanno a finire tutti i discorsi che facciamo su questo e su altri argomenti, qual'è il loro risultato pratico. Pensiamo a mafiosi come Santapaola e Badalamenti: cosa significa, in termini di vite quotidiane di ragazze qualunque, il fatto che essi abbiano potuto operare indisturbati per tanti anni? Il ragazzo Antonino, per esempio, che adesso è in carcere per furto aggravato e spaccio, e la ragazza Primula, che probabilmente non sopravviverà a un altro anno di eroina, quando esattamente hanno cominciato ad essere ammazzati da Santapaola, Badalamenti e gli altri? E qual'è stato, in ciascun singolo caso, per ognuna delle loro vite quotidiane, il momento che ha deciso tutto. Badalamenti era stato denunciato molti anni fa, dalla radio di Giuseppe Impastato: da tempo si parlava di Santapaola sul giornale di Pippo Fava. Ma questo non è bastato per salvare Primula e Antonino: il tempo per rovinare anche loro i mafiosi l'hanno avuto... L'hanno avuto da chi? I giornalisti che hanno coperto Badalamenti, che responsabilità hanno, personalmente, rispetto alla sorte del ragazzo Antonino? E le autorità che "non "sapevano" che Santapaola era un mafioso, che condanna hanno avuto per aver lasciato distruggere la vita quotidiana della ragazza Primula? Tutti parlano, ormai, dei mafiosi che uccidono e che spacciano eroina. Prima, bisognava parlarne. Adesso, bisogna parlare di coloro che non uccidono e non spacciano eroina, perché non hanno più bisogno di farlo: i miliardi se li sono fatti, la loro parte di potere se la sono conquistata, ad Antonino e a Primula non hanno più nulla da portar via. Sono gente perbene oramai: perché prendersela proprio con loro? VIVERE CON LA MAFIA O VIVERE PER DAVVERO? SicilianiGiovani, 1984 Di mafia si continua a morire, e soprattutto si continua a vivere. Non sono gli otto morti di Palermo che ci spaventano - quelli, in un altro paese, potrebbero essere un episodio particolarmente feroce di "criminalità", in un certo senso un'eccezione. E' la vita quotidiana che qui fa paura: il fatto che a Palermo, alla Kalsa o al Capo, lo spaccio di eroina sia un mestiere riconosciuto fra i quindicenni; il fatto che a Monte Po, a Catania, la gente sia costretta a vivere in condizioni identiche a quelle di una città del Terzo Mondo; il fatto che, tanto a Catania quanto a Palermo, la classe dirigente sia esattamente la stessa che con la speculazione edilizia ha ghettizzato la Kalsa, il Capo e Monte Po, e che ora continua a gestire i frutti di questa ghettizzazione sulla pelle della gente e soprattutto dei giovani. Altro che gli otto omicidi di un "San Valentino" qualunque! E' un assassinio lento e quotidiano, di cui nessuno si accorge, la silenziosa strage di migliaia e migliaia di esseri umani, l'immiserimento della vita di milioni di altri. Leggete le statistiche delle overdosi a Palermo, della mortalità infantile in provincia di Agrigento, della criminalità minorile a Catania: il Cile e la Polonia, in confronto, sono niente. Questa è la mafia. L'emarginazione dei quartieri, il ricatto della disoccupazione, l'espulsione dei giovani dalla vita sociale, il risorgente razzismo contro le fasce più povere (meridionali e operai) della popolazione, il rincrudirsi della violenza materiale e morale sulle donne: su tutto questo s'accampa la classe dirigente del 1984. Al di sopra di essa, o accanto ad essa, o tollerata da essa, la piovra dei politicanti mafiosi e degli imprenditori mafiosi. Ciascuno di noi, nella propria vita quotidiana, subisce le conseguenze di questo stato di cose: per qualcuno la droga, per qualcun altro il piombo, per tutti la miseria di una società che non è amica. Questo è tutto. Poiché abbiamo parlato di mafia, non chiudiamo senza fare nomi: a Catania i Santapaola, i Ferlito e i Ferrera; a Palermo i Marchese, i Greco, i Vernengo e tutti gli altri. E poi bisogna ricordare anche i "personaggi importanti", quelli di cui parlavano Fava, Chinnici e Dalla Chiesa: i Salvo, i Cassina, i Rendo, i Graci, i Costanzo e i Finocchiaro. A che servono questi nomi, qui sul nostro giornale? A dire dove vogliamo arrivare. Intanto una Sicilia libera, libera da tutta questa gente; ma poi una Sicilia felice, in cui ciascuno di noi possa vivere allegramente, sviluppando finalmente tutta la creatività e la fantasia che ha dentro di sé e che è stato sempre costretto a tenersi dentro. Una Sicilia senza overdosi, senza manette e senza prediche ipocrite: sarà la nostra Sicilia, degli studenti dello Spedalieri e dei ragazzi di Monte Po. E intanto, cominciamo a prendere la parola. Tutti. GLI INTOCCABILI E GLI SCIPPATORI SicilianiGiovani, 1984 Ci sono due notizie che ci hanno colpito in queste ultime settimane, e crediamo che siano due notizie ugualmente importanti. Una, è che a Palermo Falcone e gli altri giudici antimafiosi hanno sequestrato numerose proprietà dei boss mafiosi, per un valore di quasi mezzo miliardo. Siccome non c'è ancora una legge che regoli l'uso dei beni sequestrati ai mafiosi, esse sono rimaste affidate al custode giudiziario come se fossero due motorini rubati. Eppure tutte queste proprietà (e tutte quelle ancora da sequestrare) potrebbero servire a dare lavoro a un sacco di gente. Perché non i fa una legge in questo senso? Io penso che la gente - ma soprattutto i giovani disoccupati, che sarebbero i più interessati - dovrebbe organizzarsi e fare casino per ottenere una legge così: tra l'altro, questo sarebbe anche un modo (e molto efficace) di combattere la mafia. La seconda notizia è che a Catania, ai primi di maggio, hanno condannato a tre anni e mezzo di carcere - senza condizionale - un giovane scippatore. Una pena molto dura: proporzionalmente, gli imprenditori mafiosi dovrebbero stare in galera per almeno cent'anni... mentre invece per loro spesso si trovano le attenuanti e si fanno le campagne di stampa per giustificarli. A Catania ricordiamo benissimo come, ai tempi del mafiosocolonnello Licata, da un lato si lasciavano in pace i vari Santapaola, Graci e Rendo e dall'altro si scatenavano senza pietà i "falchi" contro i piccoli balordi di quartiere, per lo più giovanissimi e quasi sempre affamati. I mafiosi sono quelli che ammazzano, quelli che trafficano eroina e soprattutto quelli che si fanno i miliardi, e la carriera politica, con la mafia e gli intrallazzi. La lotta alla mafia, chi ha il coraggio di farla, la faccia contro di loro: senza pietà. Ma per i ragazzi di quartiere non servono le condanne feroci. Servono aiuto, scuola, comprensione, e soprattutto lavoro: per esempio, nelle aziende sequestrate agli "insospettabili". I CENTRI GIOVANILI IN SICILIA SicilianGiovani, 1985 A Palermo dopo Dalla Chiesa, a Catania dopo Giuseppe Fava, a Trapani dopo l'attacco a Carlo Palermo, migliaia di giovani siciliani ci siamo ritrovati nelle strade per manifestare contro la mafia. Non eravamo lì a manifestare semplice solidarietà ad un magistrato isolato o a dei giornalisti isolati: eravamo lì da protagonisti, coscienti del fatto che ognuno di noi è costretto a scontrarsi quotidianamente con la mafia, cominciando dai problemi della vita nel proprio quartiere o nella propria scuola. Ma c'è di più: ci siamo ritrovati nelle strade nelle piazze e nelle piazze con tanta, tantissima voglia di stare insieme. E a partire da questa esigenza di stare insieme abbiamo cominciato a parlare di centri giovanili: dei posti tutti nostri per farci tutto quello che vogliamo. Fin qui nulla di nuovo dal numero scorso. La novità che è venuta fuori da questi ultimi mesi è che stiamo scoprendo, con grande gioia, che l'obiettivo del centro giovanile è sentito non soltanto a Catania, a Palermo e a Trapani, ma in molte altre città e paesi della Sicilia. Ogni nuova redazione locale di "Siciliani/giovani" che nasce (e ce n'è già parecchie) parte subito sparata con iniziative sugli spazi giovanili. Ecco allora che questo nuovo movimento che nasceva "contro la mafia", si avvia a diventare, anzi lo è già, un movimento "contro la mafia e per i movimenti giovanili". Proponiamo di organizzare in tutta la Sicilia delle bellissime feste per chiudere in allegria l'anno scolastico e per lanciare ufficialmente la campagna "Centri giovanili in tutta l'isola", dandoci appuntamento a settembre. Sarà allora che, ovunque possibile, dal più piccolo paesino alla più grande città, cominceremo a far nostri tutti i luoghi pubblici inutilizzati (edifici, terreni comunali in abbandono, ecc.) che si possano utilizzare per farsi i "nostri" centri. Dappertutto. E per cominciare, nell'immediato: sommergiamo i comuni siciliani sotto una valanga di cartoline con su scritto: "Voglio un centro giovanile perché...". Altre idee verranno dopo, man mano che andremo avanti. Antonio Chi è interessato all'iniziativa per i centri giovanili a Catania si metta in contatto con noi telefonando, venendo in redazione o partecipando alle assemblee di Siciliani/giovani (ogni venerdì alle 17 presso la comunità Ss. Pietro e Paolo). Telefonateci anche se non siete di Catania e volete affrontare insieme il problema nel vostro paese. IL MOMENTO DI FARE I Siciliani, autunno 1984 Fra la fine di settembre e i primi di ottobre, hanno avuto luogo, a Catania, le prime riunioni operative del nucleo promotore dell'Associazione dei Siciliani. Abbiamo già detto altre volte cosa, nelle nostre intenzioni, quest'Associazione vuole essere: non certamente un nuovo partito politico da aggiungere a quelli già esistenti, ma nemmeno un ennesimo cenacolo di intellettuali. Si tratta invece di un progetto organizzativo del tutto nuovo, del quale non possiamo prevedere che in parte le caratteristiche e la portata, ma che deve servire - su questo non abbiamo alcun dubbio - ad uno scopo preciso: darci la possibilità - dare a tutti noi, intendiamo: a tutti i siciliani onesti - la possibilità di intervenire concretamente sulla realtà siciliana e non solo di denunciarne i mali. Questa realtà è oggi caratterizzata, non solo a livello di fatti criminali ma nelle sue più profonde strutture di potere, dalla preponderanza della mafia; a Catania come a Palermo, nella grande città come nel piccolo paese, nella vita "politica" e nella realtà quotidiana. Ma allora, tutta la Sicilia è mafiosa? No di certo: è una piccola minoranza a gestire lo sfruttamento degli appalti, il traffico della droga, i delitti; ma questa minoranza è ferreamente organizzata, mentre noi non lo siamo. E mentre la mafia ha avuto tutto il tempo, e l'abilità, di aggregare attorno a sé una rete articolata e complessa di complicità, di fiancheggiatori, di coinvolgimento d'interessi, tanto più pericolosi quanto meno evidenti, noi noi maggioranza, intendiamo: noi siciliani onesti - siamo rimasti sulla difensiva, ci siamo arroccati in noi stessi, abituati a resistere al male ma non ad egemonizzare l'intera società. Ora - ora che la mafia subisce i primi colpi, ora soprattutto che il fronte di battaglia va finalmente avvicinandosi al "terzo livello" - è il momento di fare un salto di qualità, di passare dalla resistenza all'offensiva. Questo è il problema, ed è, prima di tutto, un problema di organizzazione. Ma non ci sono già i partiti? Certo che ci sono, e noi non intendiamo affatto - e non è tempo di qualunquismi - disconoscere la loro utilità. Ma oggi ci vuole anche qualcosa di più specifico, qualcosa a cui possano partecipare tutti coloro - di qualunque militanza politica, di qualunque classe sociale, di qualunque fede - che sentono il bisogno di schierarsi prima di tutto su questa lotta; esattamente come, quarant'anni fa, c'era bisogno di un punto di riferimento che, ferme restando le varie identità politiche individuali e di gruppo, organizzasse tuttavia in maniera specifica e unitaria la lotta di liberazione antifascista. Oggi, c'è da liberarsi dalla mafia e da tutto ciò che le sta dietro, ora o mai più: l'occasione è questa e un'altra non ci sarà. Si tratta dunque di sviluppare, in tutte le città e in tutti i paesi, dei nuclei di antimafiosi che si raccolgano insieme, discutano, decidano le prime cose da fare; non solo "cose grosse" e non solo su questioni di mafia: qua può essere la denuncia di una speculazione edilizia, là quella di un intrallazzo mafioso; qua un'assemblea per difendere una spiaggia dall'inquinamento, là una manifestazione contro un funzionario infedele; dappertutto, liberare la fantasia, la creatività e l'orgoglio di tutti coloro che, giustamente diffidenti della "politica" che coesiste con la mafia, non vogliono tuttavia rinunciare a dire la loro, e a dirla ben forte. E poi organizzarsi sempre meglio, coordinarsi con tutte le realtà esistenti, stendere sulla Sicilia una fitta rete di azione e di libertà; non permettere che la lotta fra mafiosi e antimafiosi rimanga nei corridoi del palazzo, ma gettarla apertamente nei fatti quotidiani e nelle piazze. Questa è la prospettiva che noi oggi indichiamo a tutti coloro che credono nel nostro lavoro, che non vogliono più accontentarsi della semplice denuncia; questo è ciò che rispondiamo a chi ci chiede "Ma io, che posso fare?". Ma abbiamo il diritto noi dei Siciliani di chiedere questo alla gente? Noi non siamo dei politici, non ne sappiamo più degli altri; perché dobbiamo essere proprio noi a lanciare questo appello? Proprio perché siamo gente comune, perché non ne sappiamo più degli altri. Noi non siamo dei professionisti della politica, non possiamo insegnare niente a nessuno; e proprio per questo possiamo imparare dagli altri, mettere in circolazione delle idee invece di imporle dall'alto. Possiamo coordinare e raccogliere, ma non strumentalizzare. Proprio perché siamo deboli, possiamo fare appello alla forza di tutti. E non è, d'altra parte, un appello solo nostro. Esso contemporaneamente sorge, con varie parole e coscienza diverse, da decine e decine d'esperienze diverse. Noi pensiamo semplicemente che sia il momento di dare un unico nome a tutto questo, e di cominciare a considerarlo come un insieme coerente. Un nome, diciamo, e non un programma, un'ideologia, una "linea": questi debbono sorgere dalle vive realtà, nel progresso del tempo. Sono realtà che nascono dalla lotta contro la mafia, e quindi non possiamo avere che fiducia in esse. E' interessante notare che, alle riunioni che abbiamo detto, erano presenti uomini d'origine ben differente: il liberale, il cattolico, il sessantottino, il comunista: e, più largamente di tutti, antimafiosi senza partito. Ciascuno di essi ha, più o meno inconsciamente, portato nella discussione qualcosa della sua precedente formazione, che è come dire di sé stesso; eppure non ne è derivato alcun inconveniente, e anzi si può dire che ciò che risultava alla fine serbava come una vaga traccia delle esperienze di ciascuno, e della più umana parte di esse. Così avviene quando, ad orientare le scelte, sia un obiettivo concreto, e fermamente voluto da tutti. Adesso, aspettiamo che si mettano in contatto con noi tutti i lettori e gli amici che vogliono organizzare un nucleo dell'Associazione anche dalle loro parti; entro la fine dell'anno, organizzeremo delle assemblee su questo argomento in tutte le città in cui saremo chiamati a farlo, a partire da Palermo, Messina e Siracusa. E poi andremo avanti anche su questo terreno, e da qualche parte, prima o poi arriveremo. PROMEMORIA INTERNO settembre 1984 1) Nella situazione attuale noi possiamo: - concentrarci sul mensile ed occasionalmente sui libri, migliorarne, anche con apporti professionali esterni, la qualità e la diffusione e programmare alcuni anni di "progresso senza avventure"; - o aprire un fronte completamente nuovo (settimanale ed Associazione) che potrà potarci all'avanguardia di un reale movimento antimafioso ma potrà anche mandarci in rovina nel giro di venti mesi. Le due scelte non sono compatibili: la prima può essere sostenuta dal nostro gruppo così com'è ora e richiede "soltanto" un progressivo aumento del nostro grado di professionalità; la seconda ha bisogno, oltre a questo, anche l'assunzione di una serie di compiti in buona parte completamente nuovi e implica in particolare la capacità di individuare, di contattare e di coordinare una serie di forze che in gran parte si trovano ancora a uno stato poco più che potenziale. L'ipotesi che queste forze siano in realtà l'elemento emergente, e in prospettiva egemone, della situazione attuale è quella su cui si basano tutti i progetti contenuti in questo promemoria. 2) Il progetto di settimanale e quello dell'Associazione sono in realtà due aspetti di un unico problema, infatti: - da solo il settimanale non soltanto non riuscirebbe a trovare la forza di venire alla luce e di andare avanti, ma non potrebbe nemmeno (nel caso che si riuscisse nonostante tutto a crearlo) avere il respiro ideale e i contatti sociali necessari per farne qualcosa di più di un buon giornale; esso ha quindi bisogno di un punto di riferimento "politico" e di una struttura "organizzativa" che in questo momento non esistono da nessuna parte; - l'Associazione, dal canto suo, da sola difficilmente riuscirebbe ad essere qualcosa di più di un circolo di intellettuali scontenti: il progetto di settimanale da un lato può darle lo strumento operativo per svolgere un'azione "politica" non velleitaria, dall'altro può essere il punto di riferimento concreto che permetta di aggregare forze attorno ad un progetto (e a dei sotto-progetti particolari) specifico e non su un'utopia; sono d'altronde ampiamente superate le vecchie formule organizzative basate sui modelli di pura propaganda e "di partito", mentre vi è una richiesta crescente e non casuale di momenti organizzativi basati su iniziative concrete e autogestite. 3) in questo quadro, è chiaro che i nostri due progetti fondamentali debbono fin dall'inizio procedere di pari passo ed intrecciarsi a vicenda, rappresentando l'uno il momento maggiormente tecnico-prrofessionale, l'altro il momento maggiormente politico-organizzativo di un disegno che ha le stesse radici e gli stessi obiettivi. Tuttavia, dev'essere almeno altrettanto chiaro: - che il nostro concetto di professionalità è molto diverso da quello tradizionale, ed implica non solo alcune scelte "militanti" in chi lo pratica, ma anche una disponibilità a confrontarsi con tutto ciò che sta al di fuori di esso e a ritenere essenziale, ai fini di un pieno sviluppo delle tecniche professionali, il contributo di soggetti "spontanei" del tutto estranei ad esse; - che il nostro concetto di politica non ha nulla a che vedere con quello tradizionale, e si basa (assai più che su rapporti "diplomatici" con forze più o meno istituzionali) sull'attenzione verso soggetti sociali reali, individuandone gli effettivi e non ideologici) terreni di scontro e mettendo al centro di ogni analisi e di ogni iniziativa i comportamenti quotidiani degli esseri umani: che non sono mai casuali e individuano sempre, di per sé, una "politica"; - che il nostro concetto di organizzazione non consiste nel tentativo di creare un'ennesima struttura burocratica fine a se stessa, e in definitiva di potere, ma semplicemente nel cercare di offrire alla gente comune alcuni strumenti concreti, elastici ma efficienti, che possano aiutarla a non disperdere la propria voglia di cambiare. Tutto questo, in Sicilia, diventa particolarmente evidente in presenza di una forma di potere - il sistema mafioso - che consente ben poche mediazioni. Ma forse non è impossibile pensare che il movimento antimafioso in Sicilia rappresenti oggi, e ancor più possa rappresentare in futuro, una forma particolarmente avanzata di una tendenza a riappropriarsi della vita pubblica che da alcuni anni ricomincia a farsi strada in settori consistenti - e spesso ufficialmente "qualunquisti" - del Paese. In questo senso, se è vero che non siamo (come troppo spesso abbiamo dimenticato) autosufficienti, è anche vero che non siamo assolutamente isolati, ed è ragionevole prevedere che ancor meno lo saremo in futuro. 5 GENNAIO I Siciliani, decembre 1984 Questo giornale si stampa in una città, Catania, che ha due magistrati in carcere e altri due sotto esame per scandali d'ogni tipo. In una città in cui quasi tutti gli amministratori degli ultimi cinque anni sono stati incriminati per un intrallazzo o per l'altro. In una città dove un pomeriggio di pioggia basta a produrre gli effetti di un bombardamento, e non si osa tuttavia parlare del dissesto urbano. In una città dove i criminali mafiosi vivono o liberi o in "libertà provvisoria". In una città dove il principale uomo politico, Drago, non si vergogna di affermare che "la mafia non esiste". In una città in cui la legge La Torre sui sequestri ai mafiosi è stata fattivamente applicata una sola volta, rispetto alle duecentoventuno di Palermo. Nella città di Santapaola, Ferrera e Ferlito; nella città in cui tuttora operano e fanno affari i quattro cavalieri - Graci, Rendo, Costanzo e Finocchiaro - su cui Dalla Chiesa spese le sue ultime parole. In questa situazione, occorre essere qualcosa di più che un giornale. Avere qualcosa da dire, e dirlo liberamente; informare senza paura, dire le cose come stanno; fare i nomi, le cifre, i documenti - tutto questo è importante, ma non basta. Non basta denunciare le ingiustizie, bisogna porvi fine. Non basta dire che il nemico è feroce, bisogna sapere che è debole. E' debole, in confronto alla forza d'una intera popolazione: e il problema è dunque di risvegliare questa forza. Così, i primi due anni di vita del nostro giornale terminano - e iniziano insieme i successivi - non solo qui dentro la redazione, ma nelle assemblee e nelle piazze. Non solo per protestare contro gli amici della mafia ma anche per cominciare a costituire insieme la Sicilia del dopo-mafia. Una Sicilia libera dai mafiosi, ma anche una Sicilia sorridente; una vita quotidiana senza minacce e senza paura, ma anche una vita più felice, capace di liberare la creatività e la fantasia di tutti e di renderci veramente - dentro e fuori - più umani. Non solo la sconfitta della mafia, ma qualcosa di più. Non non sappiamo ancora per quali tappe arriveremo - non da soli - a vedere tutto questo. Ma siamo certi che ci arriveremo. E sarà curioso, alla fine, veder con che diversi e vari contributi si sarà costruito tutto questo. Senza stupircene del resto: quando i tempi cominciano a cambiare - e questo sono tempi di grande cambiamento, in Sicilia - le cose più straordinarie appaiono già normali mentre la vecchia "normale" prepotenza appare all'improvviso intollerabilmente strana. Si tratta adesso di dare alla lotta contro la mafia una dimensione realmente regionale e non solo cittadina: non è possibile che mentre a Palermo si comincia a colpire il terzo livello a Catania non si facciano nemmeno le indagini bancarie. Si tratta di dare una dimensione regionale anche e soprattutto al movimento di massa antimafioso, finora privo di un collegamento stabile e organizzato fra le ormai numerose realtà esistenti nelle varie città della Sicilia. Si tratta anche di cominciare ad individuare degli obiettivi - a cominciare dalla gestione popolare dei beni sequestrati con la legge La Torre - che consentano di aprire una fase più avanzata, non più semplicemente difensiva, della lotta contro il potere mafioso e di mobilitare su di essi tutte le forze della Sicilia civile. Si tratta infine - e forse soprattutto - di cominciare ad acquisire l'abitudine mentale alla proposta, all'organizzazione e al progetto, di non fermarsi alla semplice protesta del momento. Bisogna abituarsi a pensare che c'è da mettere insieme, in ogni città e paese dell'isola, ogni energia più giovane e viva: combattendo la mafia, fare la Sicilia di domani. Questa guerra sarà ancora molto lunga, ma un giorno finirà: e allora bisognerà ricostruire, nelle coscienze e nelle cose. Questa lotta, ma più ancora questa ricostruzione civile, per noi hanno un nome, ed è quello di Giuseppe Fava. Non è il nome di un simbolo, ma di un essere umano. Un uomo che ha avuto il coraggio di lottare contro l'ingiustizia e quello, ancor più difficile, di vivere la propria vita giorno per giorno, rispettando l'umanità in sé stesso e negli altri, amandola profondamente nella sua libertà e nella sua completezza. Possano i siciliani ritrovarsi attorno a questo nome, raccoglierne il coraggio e l'allegria, essere degni di esso. UN UOMO E LA SUA LOTTA I Siciliani, gennaio 1985 Per noi de "I Siciliani", questo è un numero particolare. Esso esce nel momento in cui finalmente si è cominciato a colpire - non per iniziativa della magistratura locale - il sistema di potere mafioso catanese. Esce a due anni dal "numero uno" del gennaio '83, che aprì il cammino di cui gli avvenimenti di questi giorni sono una tappa. Esce un anno esatto dopo il 5 gennaio 1984 La mafia sapeva bene, quando uscì questo giornale, dove esso avrebbe portato. Sapeva che se qualcuno avesse cominciato la battaglia sarebbe stato difficile porvi fine. E difatti così è stato. Oggi a Catania i mafiosi cominciano ad andare in galera, la gente ad esprimersi liberamente, e i potenti a tremare.. E non è che un inizio. Ognuno può facilmente comprendere, adesso, perché la mafia avesse paura di Giuseppe Fava. Il sistema era minato, bastavano poche verità per farlo franare. Ognuno può comprendere, adesso, quanto diversa sarebbe stata la storia della nostra città se Giuseppe Fava avesse trovato, in luogo dell'isolamento e del silenzio, una solidarietà. Un asolidarietà che non c'è stata perché non poteva esserci: e ognuno può comprendere, dopo i verbali torinesi, perché. Ma non importa, Giuseppe Fava ha vinto lo stesso. Da solo. Solo? Solo, rispetto ai "colleghi" giornalisti e agli uomini del Palazzo. Non certo rispetto alla gente. Come risuonava chiaro il suo nome, l'altra settimana in via Etnea! I giovani catanesi non s'erano dimenticati di Giuseppe Fava; non avevano paura di gridare a tutti le imprese dei cavalieri e dei loro uomini. C'era un sole gentile, in quella mattinata di dicembre; illuminava allo stesso modo, in piazza del palazzo di giustizia, il corteo dei ragazzi e le severe mura. La gioventù che spera e il privilegio che teme, gli sguardi limpidi e i volti cupi, la libertà di domani e il feroce passato: il nome di Giuseppe Fava divideva irreparabilmente i due mondi. E quei ragazzi sfilavano allegri, ma egualmente risoluti; con loro, passava certamente l'avvenire. L'avvenire di Giuseppe Fava, dell'uomo che i potenti credevano "solo". Non basta essere, nella situazione che viviamo, semplicemente un giornale. Bisogna che cento diverse iniziative, liberamente sostenute e liberamente gestite da tutti, convergano su un unico obiettivo: che è quello di liberarci dalla mafia, da tutta la mafia, e di cominciare a costruire una Sicilia più umana. Il progetto - ma ormai è solida realtà - dell'Associazione "I Siciliani" nasce da questo bisogno: formare dappertutto gruppi di cittadini che, senza distinzioni di parte, contribuiscano a questo obbiettivo con le proprie idee e la propria attività: per lottare contro la mafia, ma anche per costruire il dopo-mafia; per testimoniare un principio, ma anche per affrontare problemi concreti di ogni piccola o grande comunità. Combattendo la mafia, fare la Sicilia di domani. Non solo sequestrare le aziende dei mafiosi, ma darle in gestione ai lavoratori. Non solo stroncare i trafficanti di droga, ma dare ai ragazzi dove passare allegramente il loro tempo libero. E così via. L'Associazione verrà ufficialmente formalizzata, per mezzo di una serie di assemblee, nelle prossime settimane. Ma in realtà nasce già di fatto - nelle scuole, nei quartieri, nelle università, nelle strade - da tutti coloro che hanno risposto all'appello del cinque gennaio. Appello di solidarietà e di memoria, ma anche già di lotta. Meglio di ogni lungo discorso, questa circostanza indica con quale spirito nasca l'Associazione "I Siciliani" e quale cammino si prefigga. E' il cammino iniziato da Giuseppe Fava: ad esso noi chiamiamo tutti i siciliani di buona volontà, in ogni città e paese della Sicilia. Non solo un appello ideale, ma una precisa proposta organizzativa. Abbiamo dato puntualmente conto ai lettori, durante l'anno che è terminato, dei nostri problemi e delle nostre azioni. Quanto al giornale, i problemi sono i soliti, e non c'è motivo di nasconderli. Ai circa seicento milioni di vecchi debiti, che la legge strappata questa estate basta malamente (o meglio: basterà quando effettivamente verrà eseguita) a coprire, si aggiungono dunque ogni mese milioni di debiti nuovi: Ma, dirà qualcuno, le copie vendute del giornale? Aumentano ogni mese, più che mai. Ma paradossalmente, più se ne vendono, e più cresce il passivo. Il paradosso, però, è solo apparente: tutti i giornali, infatti, vengono venduti a un prezzo largamente inferiore alle spese di produzione; la differenza viene coperta dalla pubblicità che rappresenta, generalmente, almeno il 55-60 per cento del fatturato complessivo. Noi, non per nostra scelta, praticamente non ne abbiamo e sino ad oggi le uniche entrate del giornale sono venute dalla sua vendita; come ultima carta, siamo a contatto con un'agenzia pubblicitaria, la Sipra, che potrebbe consentirci di superare questo boicottaggio (perché di boicottaggio, purtroppo, si è trattato). Se ce la faremo, avremo risolto il problema; se no, cercheremo di andare avanti come e finché potremo (e già questo numero è a pagine ridotte, e già sarà assai difficile aver carta per febbraio. Certo notizie simili non si usa darle fra parentesi. Ma sono egualmente gravi, per noi e per chi attribuisce qualche importanza all'esistenza di questo giornale). Del resto, per quanto starà in noi, continueremo a lavorare con il consueto impegno. Molte nuove inchieste giornalistiche sono già in cantiere, e non solo di mafia. Molto più che per il passato, intendiamo impegnarci anche sugli altri aspetti della vita siciliana: la vita nei quartieri e i problemi delle città, la tutela ambientale e l'impegno per la pace, il rifiorire culturale e i nuovi movimenti. Di tutto quell'immenso cantiere che è oggi la Sicilia sommersa - i cortei dei sedicenni e i preti di quartiere, le lotte degli operai e le assemblee delle donne, i paesi contro i missili e i magistrati impegnati vogliamo essere, ancor più di prima, la puntuale e fedele cronaca, aperta a tutti e ricca dell'apporto di ogni libera voce. Questo giornale non sarà mai un giornale di Palazzo: non ci riguarda la cronaca dei corridoi del potere; ma quella, ben altrimenti feconda e viva, della nostra vita quotidiana. Nostra, di milioni e milioni di siciliani, che vivono in Sicilia o sono sparsi per il mondo, uomini e donne "comuni", come si suol dire, con le loro quotidiane umanissime vicende che non interessano i giornalisti "ufficiali" ma che il nostro direttore ci ha insegnato a rispettare e a descrivere prima di ogni altra cosa. Di esse noi siamo i cronisti, non dei pettegolezzi dei potenti. Ed è una lunga strada, dai bambini di Palma di Montechiaro a quelli dell'Albergheria e di Monte Po: ma è sempre la strada del nostro direttore, esattamente come quella della denuncia implacabile del potere mafioso di cui questi bambini - allora come oggi - sono le vittime che nessuno difende. E' stato un anno lunghissimo, di amara solitudine e di pena. Ma anche un anno di speranza. Siamo stati soli, quanto non credevamo possibile potessero esserlo degli esseri umani; ma siamo stati anche uniti, in una maniera che non si può immaginare, con tanti e tanti altri siciliani come noi. Grazie, Sabina, Fabio, Antonio, Giusi, Massimo, Pinella, grazie a tutti i ragazzi di Catania: siete stati anche voi, nel momento in cui altri facevano terra bruciata attorno a noi, a darci la speranza e la forza di andare avanti., voi per primi. Grazie ai nostri corrispondenti, ai fotografi, ai disegnatori, a tutti coloro che hanno collaborato a questo giornale. Nessuno di loro ha ricevuto una lira per il proprio lavoro; ed era un lavoro che stava alla pari, almeno, con quello per qualunque grande giornale. Senza di loro, questo giornale non si sarebbe potuto fare. Grazie ai colleghi famosi, pochi di numero ma non di cuore, che non hanno avuto timore di compromettersi coi Siciliani. Dei tanti loro articoli, quelli pubblicati da noi non hanno portato loro nessun guadagno materiale; eppure essi si sono sentiti ugualmente gratificati. Grazie agli uomini di giustizia, dall'insigne magistrato al brigadiere, che hanno avuto fiducia in noi; non c'è stata notizia, per quanto in loro potere, che non ci abbiano dato, sapendo benissimo perché ed a chi essi la davano. E' grazie anche a loro, e alle segnalazioni di decine e decine di onesti - e non anonimi - cittadini che abbiamo potuto lavorare come abbiamo lavorato; nessuna notizia è stata pubblicata se non attentamente vagliata; di molte cose ci hanno accusato, ma mai di imprecisione. Grazie agli amici coraggiosi, che si sono esposti con noi; alcuni da pochi mesi, altri ormai da più anni, con ragionata passione e intelligente entusiasmo lavorano all'opera comune; e sono indispensabili. Formazioni culturali diverse, diverse fedi politiche o nessuna; diversissime esperienze personali; e fra tutti un'idea, combattere la mafia fino in fondo. Una scarica di mitra può essere il loro premio domani; o la piccola angheria quotidiana, o anche perdere il pane; non aiuta la carriera, dirsi dei Siciliani. Eppure sono qui, ogni giorno più saldi e più decisi, con la ragione e col cuore. Il progetto dell'Associazione è opera loro, e loro la gestione di questo nuovo fronte di lotta. Il giornale è la voce, loro l'organizzazione: l'una e l'altra al servizio non d'un qualunque ristretto obiettivo di parte ma di tutti i siciliani liberi ed onesti. Perché stavolta non si tratta di cambiare in superficie, si tratta di fare una Sicilia ben differente. Ringraziamo infine i lettori, i nostri amici lettori, che son qualcosa di molto diverso dai lettori di un giornale comune. Chi legge "I Siciliani" non lo fa per ingannare il tempo, la fa per sentirsi ed essere partecipe di qualcosa che vive e può cambiare la sua vita. Pochissimi giornali hanno avuto, nel tempo, una tale fiducia e una tale responsabilità. Noi facciamo il possibile per mostrarcene degni; se non sempre ci riusciamo, non è per difetto di volontà o eccesso di presunzione. Ci siamo trovati a reggere una bandiera molto più grande di noi; ma nessun altro poteva raccoglierla, fuorché noi. Così, se non ci ha trovati sempre all'altezza del compito, il lettore dia pure la colpa alla nostra inadeguatezza; ma se legge in noi qualcosa di non indegno, dia tutto il merito a chi ci ha insegnato questo mestiere. Perché di Giuseppe Fava, per quanto di buono esso contiene, è questo nostro lavoro; perché tuttora suo è questo nostro giornale; e più alta di prima, sconfiggendo sicari e mandanti, parla da queste pagine la sua voce. Certo, ci sarebbero da aggiungere molte cose, qui, su quel che è successo in queste settimane, sui fatti, sulle parole, e sui silenzi. Silenzio sui Cavalieri: citati da Dalla Chiesa quando Santapaola cenava ancora alla Perla Ionica con Graci o con Costanzo (in non miglior compagnia essendo i rimanenti, Rendo e Finocchiaro), questi nomi non sono stati fatti, salvo che da pochi giornali, anche ora che Santapaola latita con altri trecento: perché fare quei nomi voleva dire andare oltre. Silenzio su chi li ha combattuti: perché fare quel nome voleva dire riconoscere che il male avrebbe potuto essere stroncato in tempo. E dunque, rimozione: e questo sarebbe il momento di denunciare questa rimozione, e di combatterla con buoni argomenti. Ma tutto sommato, non ne vale la pena. Tutto sommato, non vale la pena di spendere grandi parole quando la situazione si è fatta ormai così chiara, che non resta altro che scegliere. Ed è una scelta semplice: o la Sicilia dei Cavalieri, o la Sicilia di Giuseppe Fava. Tutto il resto son parole. Oggi, cinque gennaio, saremo in piazza, i siciliani onesti, per ricordare un uomo. Un uomo, e la sua lotta: cos'altro si può dire? Tutti sappiamo di che si tratta. Ritroviamoci dunque tutti insieme; questa sera, e nelle migliaia di giorni che seguiranno. Perché ci saranno ancora migliaia di giorni, migliaia di mattinate a Palazzolo, migliaia di dolci sere a Siracusa, migliaia e migliaia di giorni sulla faccia della terra; e migliaia di speranze, passioni, entusiasmi, delusioni, amicizie, progetti, ed ancora entusiasmi e delusioni, e rinnovate speranze ed amore; e in ciascuna di esse ci sarà qualcosa di Giuseppe Fava, qualche cosa di lui e di tutti gli esseri umani come lui. E a questo, non potranno sparare. UN VOLANTINO dicembre 1984 IN PIAZZA CONTRO LA MAFIA AL FIANCO DI GIUSEPPE FAVA Il 5 gennaio i siciliani onesti saranno in piazza a Catania per ricordare un uomo che ha avuto il coraggio della verità e per dire a tutti che la battaglia di Giuseppe Fava continuerà finché la Sicilia non sarà libera dalla mafia. Nel momento in cui sempre più decisivo si fa lo scontro e sempre più vicina appare la possibilità di colpire non solo gli esecutori, ma le menti politiche e finanziarie - a Palermo come a Catania - della piramide mafiosa, bisogna che la Sicilia di Giuseppe Fava e di tutti gli altri combattenti antimafiosi getti in campo tutta la propria forza, che oggi può essere decisiva. Bisogna ridare ai cittadini di Catania e di tutta la Sicilia la certezza dei propri diritti, la possibilità di partecipare alle scelte essenziali per il proprio destino, la capacità di progredire verso la soddisfazione dei bisogni fondamentali dei lavoratori, delle donne, dei giovani, di tutti coloro che oggi vogliono realizzare una convivenza sociale pacifica e rispettosa della democrazia politica. Tutte queste esigenze sono oggi profondamente mortificate da un blocco di potere politico-economico, espressione dei grandi gruppi finanziari, de settori dell'apparato statale e del sistema politico dominante, che per connivenze, compiacenze e insipienze si pone come il principale nemico delle giuste aspirazioni del popolo siciliano. In questo spirito, facciamo appello a tutti i cittadini onesti senza distinzione di parte e a tutte le organizzazioni democratiche e antimafiose, affinché dimostrino con la loro presenza a Catania il 5 gennaio che la lotta di Giuseppe Fava è anche la loro lotta. L'Associazione "I Siciliani" UNA LAPIDE 5 gennaio 1985 "Qui è stato ucciso Giuseppe Fava La mafia ha colpito chi con coraggio l'ha combattuta, ne ha denunciato le connivenze col potere politico ed economico, si è battuto contro l'installazione dei missili in Sicilia" Gli studenti di Catania UN VOLANTINO marzo 1985 CONTRO LA MAFIA PER L'UNITA' Le elezioni amministrative del 12 maggio rappresentano una scadenza molto importante. Esse contribuiranno certamente a indicare la possibilità di sconfiggere il sistema di potere mafioso che - con precise responsabilità dei partiti di maggioranza e nell'inerzia di quelli dell'opposizione - ha gettato nel baratro la nostra città ponendo il "Caso Catania" all'attenzione dell'intero Paese. Con questo invito alla riflessione ci rivolgiamo a tutte le forze sociali e politiche che intendono opporsi a questo sistema di potere, a tutti coloro che - ciascuno a suo modo - si sono riconosciuti nella grande manifestazione popolare del 5 gennaio. Ad essi, e a tutti i cittadini consapevoli della gravità della situazione, noi diciamo che non è il momento di dividersi. Occorre impedire che false operazioni di "rinnovamento" servano a legittimare "nuovi" personaggi politici il cui obiettivo è ancora e solo quello di perpetuare le vecchie logiche. Il blocco di potere mafioso, al di là dei contrasti contingenti, è unito attorno ai propri interessi. Bisogna che anche l'opposizione democratica sia unita. Bisogna che tutte le espressioni della Catania antimafiosa e progressista riescano a superare settarismi e diffidenze per concentrare le forze sull'obiettivo comune: cacciare la mafia, rinnovare la città. Questo obiettivo passa anche attraverso le istituzioni. Noi riteniamo quindi che queste elezioni debbano essere affrontate dalle organizzazioni e dai partiti antimafiosi in una maniera nuova: con una sola lista, unitaria, aperta e senza simboli di partito. Una lista caratterizzata anzitutto dalla volontà di tutti coloro che lavorano, che studiano, che vogliono vivere in una città civile, che non incanalano necessariamente il proprio impegno nei partiti: da tutti coloro che sono decisi a lottare per il cambiamento. Una lista nelle cui persone e nei cui programmi possano riconoscersi i giovani, i lavoratori, le donne, tutti i cittadini che credono nella Catania del 5 gennaio: su questo preciso obiettivo si misurerà l'impegno di ciascuna forza politica contro il potere mafioso ed occulto, in tutte le sue forme criminali, imprenditoriali, istituzionali e politiche. L'Associazione "I Siciliani" ANTIMAFIA, UNA NUOVA FRONTIERA I Siciliani, 1985 La cosa, a un dipresso, funziona così: dopo essermi fatto i miei bravi miliardi con gli appalti e con l'eroina, io mafioso metto su un'azienda che impiega, poniamo, duecento persone. Tu Stato ti poni il problema di sequestrarmela in base alla legge La Torre. Io rilascio, o faccio rilasciare, un'intervista in cui minaccio di chiudere tutto e mandare tutti a casa. A questo punto tu sei costretto a fermarti e a pensarci su due volte. Difatti, oltre che sull'aiuto dei politici, dei giornalisti e dei magistrati che io pago, io posso contare, contro la Stato, anche sulla solidarietà oggettiva dei miei duecento dipendenti e delle loro duecento famiglie. Il gioco è facile: appena uno dei miei magistrati mi avverte che tira brutta aria, io ordino ai miei giornalisti di scatenare una campagna "per la Sicilia diffamata" e ai miei amici politici di "difendere l'economia siciliana". Così potrò continuare tranquillamente a sfruttare i miei duecento operai (che i miei amici non mancheranno di dissuadere energicamente, per esempio, dall'iscriversi alla Cgil), a spacciar droga ai miei duecentomila ragazzini e a mantenere la popolazione delle mie tre regioni - Campania, Calabria e Sicilia esattamente ai tre ultimi posti dell'economia nazionale. Diversamente andrebbero le cose se, il giorno dopo l'uscita della mia intervista, ai cancelli della mia azienda si presentassero il signor sindaco o il signor prefetto, con tanto di fascia tricolore e di decreto di requisizione, e, convocato il consiglio di fabbrica, comunicassero che dalle ore tali del giorno tale, la gestione dell'azienda risulterebbe affidata all'organo da esso designato. In questo deplorevole caso, non solo mi sarebbe impossibile usare ancora il ricatto della disoccupazione, ma sarei costretto a mettere una certa distanza fra me e i miei stessi operai, liberi finalmente di esprimere apertamente la loro personale opinione sugl'imprenditori mafiosi, e su chi li protegge. Quando si comincerà effettivamente ad applicare la legge La Torre in Sicilia? Sappiamo che buona parte degli enti pubblici che hanno avuto a che fare con la legge hanno fatto il possibile per sabotarla; fino a questo momento, del resto, l'utilizzazione concreta della La Torre è stata abbastanza episodica, legata più alla buona volontà di magistrati locali che a un piano organico e coordinato. Si sono avuti casi, al confine fra l'insipienza e ilsabotaggio, che fanno chieder in quali mani sia andata a finire, a livello amministrativo, l'applicazione quotidiana della legge. Senza riandare alle circolari interpretative, in qualche caso scandalose, a suo tempo emanate dai vari ministeri e dai vari assessorati, basti pensare che forniture di macchine da scrivere, per una ventina di milioni, effettuate dalla Olivetti di Ivrea a un ente pubblico siciliano sono state bloccate in attesa che si stabilisse se la Olivetti di Ivrea è una azienda mafiosa o meno. Peggio ancora, si può dare benissimo il caso - e in effetti non è detto che non si sia dato - di una cooperativa agricola, composta da un duecento contadini, che abbia bisogno di un mutuo regionale l'acquisto di un trattore che venga invitata a presentare - a spese della cooperativa - duecento certificati per attestare come nessuno dei duecento soci abbia mai avuto a che fare con la mafia. E mentre i duecento contadini, maledicendo la legge antimafia e chi l'ha inventata, aspettano il loro trattore, i finanzieri mafiosi continueranno tranquillamente, in assenza di un'applicazione efficiente e rapida della legge La Torre, a spostare i loro capitali da una banca all'altra: a tutt'oggi, non esiste una banca dati computerizzata, a disposizione della magistratura, in grado di seguire i movimenti dei capitali sospetti che la legge La Torre dovrebbe, in teoria, controllare. Quando poi, grazie all'eccezionale impegno del magistrato e, diciamolo pure, a un bel po' di fortuna (perché ci vuole anche fortuna per riuscire a concludere qualcosa con i mezzi che hanno a disposizione i magistrati siciliani) si riesce a mettere sotto sequestro un'azienda mafiosa, si verificano situazioni paradossali, come nel caso di un'azienda agricola - di rispettabili proporzioni - dei boss mafiosi Greco che, posta sotto sequestro, non si sa bene a chi affidare per la custodia giudiziaria che, in questo caso, equivale ad una vera e propria, sia pur provvisoria gestione. Non è facile trovare, infatti, un professionista del ramo che abbia il coraggio di intromettersi in un affare dei Greco; d'altra parte, a questo professionista, non si può dare altra remunerazione che le poche migliaia di lire giornaliere previste dalla legge per i custodi giudiziari. In queste condizioni, può benissimo andare a finire, e non si vede logicamente perché non dovrebbe, che un'azienda del valore di decine di miliardi venga, in mancanza di meglio, affidata alla stessa custodia dei due o tre motorini sequestrati dal pretore, il giorno prima, per eccessiva rumorosità... Tutto questo, mentre lo scontro fra le forze antimafiose e quelle schierate - nella politica, nelle istituzioni, nella stessa magistratura, nella stampa - a difesa degl'interessi mafiosi non solo non è ancora deciso, ma tende a radicalizzarsi: a parte l'eliminazione fisica degli operatori del diritto più esposti, una vera e propria campagna d'opinione viene periodicamente sollevata da ambienti ben determinati, con mezzi notevolissimi e precise scelte di tempo, per isolare i magistrati leali. Nonostante tutto questo, la posizione della struttura mafiosa è intrinsecamente, rispetto ai movimenti sociali emergenti, molto meno forte di quanto non possa sembrare. Nel giro di non più di uno o due anni - la campagna contro la magistratura antimafiosa è finora infatti sostanzialmente fallita - le condizioni per una reale gestione della legge molto probabilmente ci saranno, e a quel punto il problema non sarà più solo di contrastare i sabotaggi "di principio" di questo o di quel pubblico ufficio, ma di riuscire ad utilizzare fino in fondo tutte le potenzialità della legge. Viviamo in una regione che è leader mondiale della produzione di eroina, esattamente come gli Stati Uniti lo sono per le automobili o il Giappone per l'elettronica. Questo dato elementare, prima ancora di ogni indagine a carattere penale, ci fa dire che l'economia regionale è "mafiosa": non nel senso che tutte le sue componenti, o la maggior parte di esse, siano legate alla mafia, ma nel senso che ciascuna di esse opera in un mercato in cui i capitali più numerosi e più agili vengono, ragionevolmente, dal settore leader - per avventura, illegale... - dell'economia locale. Non tutti gli industriali piemontesi sono azionisti della Fiat, ma è indubbio che il sistema economico di quella regione sia basato sulla Fiat. Da noi, anziché la Fiat, c'è la mafia. Il problema non è dunque solo giuridico - individuare le responsabilità personali nei singoli episodi criminosi - ma anche e soprattutto economico e, in senso lato, politico; esso consiste nel riconvertire l'economia siciliana dalle attuali strutture segnate da questa accumulazione originaria ad altre legate a forme di accumulazione e a settori produttivi legali (ovviamente, si tratta di "riconvertire" anche le sovrastrutture politiche che su un tale sistema economico si sono sviluppate... ). Un'impresa di queste dimensioni non può essere improvvisata sotto la pressione delle circostanze; dev'essere programmata nel lungo periodo, preparando per tempo gli strumenti necessari e programmando la loro efficacia non solo sui casi singoli ma sul complesso del sistema. In questa situazione, il problema della gestione delle strutture economiche - sempre più, presumibilmente numerose e sempre più complesse - che si riuscirà, mediante la legge penale, a sottrarre al controllo della mafia sarà non soltanto importante, ma decisivo: sarà l'unica maniera per giungere non solo a una sconfitta "militare" della mafia, ma allo sradicamento dalle sue basi economiche e quindi politiche nel Paese. Quale gestione? Non tocca a noi proporre le scelte tecniche da adottare: nelle sedi competenti sarà indubbiamente possibile individuare quelle più efficienti sul piano gestionale e più garantite sul piano istituzionale. Due punti ci sembrano tuttavia, indipendentemente da ogni questione tecnica, da sottolineare. In primo luogo, la gestione delle imprese di grosse dimensioni sequestrate ai mafiosi dovrà avere, per sua natura, un carattere di emergenza, e non potrà quindi essere assorbita dagli attuali carrozzoni "di risanamento" più o meno assistenziali (non prendiamo nemmeno in considerazione l'idea di un intervento degli assessorati regionali). Si potrebbe pensare piuttosto, per esempio, a qualcosa come un secondo commissariato, parallelo a quello per il coordinamento della lotta antimafia; o, comunque, ad un organo straordinario e dipendente dal governo centrale. In secondo luogo, la gestione dovrebbe essere in ogni caso coordinata, e se possibile direttamente affidata, con gli organismi rappresentativi aziendali esistenti, o da istituire, nelle aziende in questione. Ciò al duplice scopo di coinvolgere concretamente il più gran numero possibile di lavoratori nel cuore della lotta antimafiosa e di formare progressivamente, a partire dal mondo del lavoro, una nuova classe dirigente siciliana, in possesso di precise competenze tecniche, di ampi poteri decisionali e di una ideologia collettiva indissolubilmente legata alla lotta antimafiosa. Saranno questi gli uomini che potranno dare una base di massa alla lotta contro la mafia, coloro che realmente la vinceranno; a noi - magistrati, giornalisti, funzionari fedeli, politici d'opposizione - che cerchiamo di fare il nostro dovere qui ed ora tocca semplicemente di tenere le posizioni fino a quel momento. Come altre volte nella storia, una minoranza risoluta non può rovesciare l'oppressione; ma può preparare le condizioni perché siano le masse a farlo. Ci piacerebbe se, su questa proposta, altri siciliani volessero intervenire. Una proposta "giacobina"? Forse. Ma è che la rivoluzione francese, in Sicilia, non l'abbiamo mai fatta; e il risultato si vede. Sarebbe ora di cominciare a pensarci. SICILIANI GIOVANI settembre 1984 Siciliani/giovani ha una "politica" molto semplice e chiara, e cioè: primo, schierarsi apertamente contro la mafia; secondo, affrontare liberamente tutti i problemi dei giovani: Quanto alla politica ufficiale, quella dei partiti, non siamo né favorevoli né contrari. Semplicemente, non è il nostro campo; chi vuole affrontarlo, può farlo a titolo personale (del resto ci sembra che in questo momento la lotta alla mafia e per una migliore condizione di vita dei giovani siano la cosa fondamentale, senza la quale tutto il resto è poesia. Ma allora a che serve Siciliani/giovani? A dare la parola alla gente, a fare parlare i ragazzi in prima persona, direttamente e senza bisogno di nessuno. E quindi a farli contare nella società. Noi non siamo qualunquisti, non diciamo che tutto è uguale e che non vale la pena di far niente. Però non siamo nemmeno ideologici, vogliamo imparare dalla realtà e dalla gente e non dai professionisti della politica. In tutto questo cosa c'entrano "I Siciliani"? "I Siciliani" da soli possono riuscire a denunciare la mafia, ma non a creare una mentalità antimafiosa. Non si tratta solo di distruggere la mafia, ma anche di costruire qualcos'altro. Questo qualcos'altro non lo possiamo inventare a freddo, ma deve venire dalla gente, e specialmente dai giovani, liberamente e senza prediche inutili. Si tratta di sviluppare al massimo grado la creatività di ciascuno, perché ciascuno è in grado di contribuire e d'altra parte nessuno oggi è in grado di costruire qualcosa di buono da solo. Si tratta in sostanza di capire come si può fare a vivere meglio, non nelle grandi teorie, ma nella realtà di ogni giorno. Ma questo è un giornale o un'organizzazione? Non lo sappiamo ancora, probabilmente può diventare l'uno e l'altra. Ma attenzione: un giornale di tipo nuovo, e cioè assolutamente libero e fatto dalla base; e un'organizzazione di tipo nuovo, senza ideologie fisse e soprattutto senza professionisti, ideologie e leaderini. Un'organizzazione tutta da inventare. E come si può fare a mettere in piedi questa organizzazione? Non ne abbiamo la più pallida idea. A questo dobbiamo pensarci tutti, strada facendo. Finora abbiamo i gruppi di lavoro su argomenti concreti e il collegamento fra gente di varie scuole. Questo non è venuto fuori perché qualcuno l'ha detto, ma semplicemente perché erano il modo più semplice di affrontare le cose da fare. Anche quando si tratterà di organizzarsi in maniera più ampia, bisognerà continuare a seguire questo metodo, e cioé: prima i problemi concreti: a secondo dei problemi, il tipo di organizzazione, senza troppe teorie. Si è parlato pure di manifestazioni. Una manifestazione seria si potrebbe fare, in tutta la Sicilia, per il cinque gennaio: purché non sia una semplice manifestazione ma un modo di ricordare a tutti "tutti" i nostri problemi, da quelli della mafia a quelli della vita quotidiana. Ma anche in questo caso, andiamoci per gradi: prima bisogna che si sia d'accordo tutti e che si discuta fra tutti per tutto il tempo che ci vuole. Non bisogna imporre mai niente "dall'alto" a nessuno. Ma come facciamo a essere certi di non venire strumentalizzati? Per quanto riguarda noi Siciliani, non abbiamo interessi elettorali, quindi il problema si pone solo fino a un certo punto. Quello che vogliamo fare lo diciamo apertamente e chiaramente, e non crediamo che possa far paura a nessuno che abbia un minimo di buonsenso. La parola "Siciliani" appartiene a tutti, comunque la pensino su tutto il resto, purché siano d'accordo che bisogna eliminare la mafia. "Siciliani" non è un generale che comanda, è semplicemente una bandiera. Dove portarla, dipende da tutti noi. E gli altri? Per gli altri, non possiamo farci niente. Ognuno ha il diritto di parlare, e noi non possiamo censurare nessuno. Sta a noi ragionarci sopra, scegliere fra le varie proposte e, in caso di contrasti, decidere in assemblea. C'è solo da ricordarci che, in ogni caso, le cose importanti non sono le grandi parole ma i fatti concreti, anche se si notano poco. UN VOLANTINO novembre 1984 L'attuale classe dirigente inefficiente e corrotta ha provocato la gravissima crisi della città di Catania e di tutta la Sicilia: per questo si leva oggi una volontà popolare di sopravvivenza e di lotta. Essa si è espressa con la massima chiarezza nelle giornate catanesi per Giuseppe Fava. Essa non può aspettare. L'Associazione "I Siciliani" nasce per raccogliere questa volontà, per darle corpo e voce, per organizzarsi con tutti coloro che vogliono apertamente combattere il sistema di potere mafioso e i suoi alleati. non è un partito politico, non chiede potere né voti. Chiede a ciascun siciliano di prendere il proprio posto in un movimento democratico che affronti i nodi centrali della lotta contro la mafia e della questione morale. L'Associazione "I Siciliani", raccogliendo il messaggio di Giuseppe Fava e di due anni di lotta del suo giornale, ha lo scopo di promuovere in Sicilia il libero ed effettivo esercizio della sovranità popolare, a tutti i livelli; di opporsi ai blocchi di potere mafiosi ed a tutte le forze palesi ed occulte che di fatto ostacolano l'attuarsi dei principi fondamentali del dettato costituzionale; di tutelare in tutte le sedi l'esercizio dei diritti civili, eticosociali, economici e politici. L'Associazione intende, in particolare, vigilare sul funzionamento democratico delle istituzioni; chiedere l'applicazione della legge La Torre e battersi per l'individuazione di sistemi democratici di gestione dei patrimoni mafiosi sequestrati; lottare contro la diffusione del mercato della droga; creare le condizioni per la formazione di centri autogestiti per il tempo libero dei giovani; rompere le barriere dei ghetti dando voce agli emarginati: con questo obiettivi e con altre battaglie concrete che scaturiranno dai problemi reali della gente, l'Associazione "I Siciliani" intende contribuire alla lotta contro la mafia e alla costruzione di ina Sicilia migliore. Facciamo appello a tutti i cittadini, di ogni orientamento ideale democratico, affinché aderiscano all'associazione, ne organizzano sedi locali e ne sviluppino l'iniziativa in ogni città ed in ogni paese della Sicilia. Associazione I Siciliani UN VOLANTINO 1985 Gli imprenditori catanesi arrestati da Carlo Palermo (miracolosamente sfuggito, durante le indagini, ad un attentato che ha fatto tre morti) sono accusati di reati molto gravi: associazione a delinquere e organizzazione di una colossale truffa in combutta con gruppi mafiosi trapanesi. Quanti miliardi ha perso la collettività con questa truffa? Quali uomini politici se ne sono resi complici? E, soprattutto: come venivano riciclate le colossali somme così guadagnate? E' questo che adesso bisogna sapere: in questa direzione stanno ora indagando i giudici trapanesi, e anche alcuni giudici di Catania dove una truffa analoga ("fatture false") era stata messa in piedi, secondo il giudice istruttore, dagli stessi imprenditori. Queste indagini sono l'occasione buona per chiarire finalmente l'origine e i meccanismi di buona parte del potere politico e finanziario della città di Catania, di cui si sono occupati Carlo Alberto Dalla Chiesa ("Da Catania alla conquista della Sicilia") e Giuseppe Fava ("I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa"). Sarà possibile anche chiarire i rapporti fra i centri del potere occulto e alcuni imprenditori catanesi (il nome di Rendo è stato trovato nell'agenda personale di Gelli; è ancora oscuro il ruolo di Graci nell'affare Sindona). E chiarire infine che rapporto c'è fra tutto questo e l'enorme potenza accumulata in tutt'Italia (vedi blitz di Torino e Milano) dalle Famiglie mafiose catanesi. Di fronte a indagini così importanti e così decisive, qual'è l'atteggiamento del potere politico? Per il sindaco di Trapani "la mafia a Trapani non c'è"; per l'onorevole Drago "non esiste mafia a Catania"; per il sindaco Attaguile c'è da preoccuparsi per l'arresto di questi "imprenditori"; per il presidente della Regione ci vogliono "dei fatti che giustifichino gli arresti" (quelli che si sanno evidentemente non bastano); per il presidente del Banco di Sicilia l'imprenditoria siciliana è "sana" anche se soffre delle malefatte di qualche "forza marginale"; secondo "La Sicilia" si tratta di "semplici evasioni fiscali"... E' un'intera classe dirigente che, dopo averne coperto per decenni le malefatte, cerca ancora disperatamente di difendere come può gl'imprenditori sott'accusa. Non si tratta solo di cinismo: è la totale irresponsabilità e l'assoluta mancanza di ogni senso della realtà in chi dovrebbe "difendere l'economia" e addirittura "difendere l'occupazione". L'una e l'altra sono per fortuna in condizioni di essere difese ben diversamente... I lavoratori e le forze produttive della città, contrariamente a quanto scrivono gli articolisti de "La Sicilia", non versano affatto nell'"incertezza psicologica" e non rimpiangono affatto i cavalieri. I catanesi andranno avanti senza di loro, e svilupperanno così finalmente tutte quelle energie produttive che il blocco di potere incriminato da Carlo Palermo aveva finora compresso ed emarginato. La storia di Catania comincia ora. Associazione I Siciliani UN VOLANTINO 1985 NOI E "LORO" C'è un sacco di gente a cui non sta affatto bene che i ragazzi siciliani stiano allegri, si divertano e cerchino di riprendersi in mano la propria vita. Proviamo a fare qualche nome: - i mafiosi come Santapaola, Ferlito e Ferrera, che "mantengono l'ordine" (assieme ai vari colonnelli Licata) nei quartieri, ammazzando chi si ribella o si fanno i miliardi con l'eroina; - i politicanti come Aleppo e Drago, che da un alto danno i contributi ai mafiosi e dall'altro dicono che "la mafia non esiste"; - i padroni come Rendo, Graci, Costanzo o Finocchiaro, che licenziano gli operai, vanno a braccetto con i mafiosi e poi si incazzano se qualcuno gli chiede da dove vengono tutti quei soldi; - i giornali come "La Sicilia", che fanno casino quando trovano un ragazzo con un po' di fumo, ma di fronte a mafiosi e cavalieri se ne stanno zitti. La mafia non danneggia le persone importanti, ma va avanti sulla pelle di tutti noi. Allora, ricordiamo quelli che hanno avuto il coraggio di lottare contro la mafia, appoggiamo quelli che continuano a lottare ancora ma, soprattutto, organizziamoci nella nostra vita quotidianamente per non subire prepotenze da nessuno e per vivere come desideriamo noi, non come vogliono gli altri. E per cominciare, fra un mese tutti in piazza per il centro giovanile autogestito. Siciliani/Giovani UN VOLANTINO 1985 I CAVALIERI IN GALERA L'arresto dei cavalieri dimostra la validità della lotta portata avanti da Giuseppe Fava, dal suo giornale "I Siciliani" e da tutti gli antimafiosi di questa città. E' stato ordinato dal giudice Carlo Palermo, che i mafiosi (anche catanesi) hanno cercato di uccidere poco tempo fa. Dev'essere un punto di partenza per ricostruire Catania su basi completamente diverse. Questa città, in mano ai cavalieri e ai loro amici, è diventata il paradiso dei mafiosi, dei corrotti, dei politicanti disonesti e dei trafficanti di droga. Una città in cui per i giovani non c'è il minimo spazio e la minima speranza di vivere bene. Ora bisogna cominciare a far valere i diritti di noi giovani catanesi. Vogliamo una città che non ci emargini in continuazione, una città in cui i giovani contino e possano portare avanti i loro bisogni e le loro idee. A partire dalla conquista di un posto tutto per noi, un centro giovanile autogestito per discutere e organizzare le cose nuove e per passare il nostro tempo liberamente e insieme. Siciliani/Giovani Questo non è un volantino elettorale UN VOLANTINO 1985 L'ALTRA SICILIA E LA SUA VOCE I Siciliani Settimanale: un giornale che, dopo aver lottato per anni contro il potere mafioso e i suoi complici, vuole "alzare il tiro" diventando la voce degli studenti, degli intellettuali, dei lavoratori, delle donne, di tutti coloro che giorno per giorno, nel silenzio della stampa ufficiale, costruiscono le basi della Sicilia di domani. Il giornale di Giuseppe Fava. I Siciliani S.p.a.: l'editore collettivo (cinquemila azioni a centomila lire l'una, cinquemila siciliani combattivi) che porta avanti, senza padroni e senza padrini, questa civile avventura. Ne parleremo lunedì 16 dicembre alle ore 17 alla facoltà di Lettere con Davide Fais, padre Pintacuda, Aldo Rizzo, i redattori dei Siciliani e quelli di Siciliani/Giovani. Interverranno magistrati, uomini di cultura, esponenti del movimento studentesco palermitano. E tutti i palermitani che credono in un'altra Sicilia - e vogliono darle una voce. I Siciliani Siciliani/Giovani UN VOLANTINO 1985 Per la prima volta in Italia un movimento giovanile comincia al Sud e si sviluppa verso il Nord. Il movimento dei ragazzi dell'85, infatti, trova la sua radice nella mobilitazione antimafiosa degli studenti di Napoli, Palermo e Catania negli ultimi tre anni. Come mai? Evidentemente, i giovani meridionali hanno capito prima degli altri che lottare contro le malformazioni delle strutture scolastiche non basta, se dopo la scuola si è condannati a restare senza lavoro; e che lottare contro la disoccupazione non è sufficiente, se non si aggredisce la struttura di potere e sottopotere mafioso che, soprattutto al Sud, mortifica lo sviluppo economico e i livelli occupazionali ed i livelli occupazionali. Non è un caso che le tre regioni in cui il potere mafioso è più forte siano quelle che, negli ultimi anni, sono precipitate agli ultimi posti del reddito nazionale. Non è un caso che in queste regioni decine di migliaia di miliardi vengano tenuti inutilizzati nelle banche a fornire interessi per gli speculatori, anziché essere investite per dare lavoro ai giovani. Occorre che il movimento contro la mafia si traduca anche in movimento per il lavoro. In che modo? - applicando seriamente e dappertutto la legge La Torre; - gestendo le imprese sequestrate agli imprenditori mafiosi secondo criteri sociali, e cioè usandole anche per aumentare l'occupazione giovanile; - sviluppando, sull'esempio della Campania, una serie di centri sociali in cui i giovani possano liberamente incontrarsi, di carattere e sviluppare insieme le iniziative contro la mafia e per il lavoro; - pretendendo che le risorse finanziarie pubbliche non utilizzate (in Sicilia sono circa dodicimila miliardi...) vengano destinate ad affrontare non episodicamente né clientelarmente la pressante richiesta di lavoro dei giovani nel Sud. APPUNTI PER SICILIANI/GIOVANI promemoria interno, 1985 Intanto, sta succedendo qualcosa. Che cosa esattamente, è ancora presto per dirlo, e probabilmente non ha nemmeno tanta importanza. Di certo c'è che dopo tanti anni è finita l'epoca del "riflusso" (farsi i cazzi propri e non pensare al resto) e che molti ragazzi, adesso, ricominciano a prender gusto a fare le cose insieme, piccole o grandi che siano. Tutto questo, naturalmente, per i moderati vuol dire "vogliamo studiare e non fare politica", per il Pci "le masse giovanili bla bla", per gli autonomi "la rivoluzione bla bla bla", e così via. Per me vuol dire semplicemente che i giovani, o almeno una buona parte di loro, stanno ricominciando a pensare con la propria testa e a fare esperienze. Dove andrà a finire tutto questo non lo so; l'importante, è starci dentro con fiducia e senza ideologie preconcette. "Un altro sessantotto"? No, e nemmeno "un'altra qualsiasi cosa": il bello del sessantotto, ai suoi tempi, era proprio che era una cosa nuova, non una ripetizione di altri tempi. E così, se il movimento di adesso durerà, sarà "questo" movimento, del 1985, non un revival del passato. Poi, fra vent'anni, magari gli daranno un nome. I ragazzi di Milano o quelli dei Segnali d'Accelerazione di Napoli hanno con la "politica" un rapporto, a quel che se ne può capire, molto maturo. Non sono qualunquisti, ma neppure vanno dietro ai partiti: "moderati" o "estremisti" a secondo dei casi, non fanatici, difficili da strumentalizzare; in questo, assomigliano molto a Siciliani/giovani nell'84. Non stanno partendo, del resto, dalla "grande politica" ma dai problemi concreti della vita quotidiana: credo che, via via che il movimento andrà avanti, i "problemi concreti" si allargheranno (studiare con meno tasse, ma poi dove fare musica, e poi dove passare il tempo, e dove fare l'amore, e dove lavorare senza raccomandazioni...), e spero che stavolta si riuscirà ad allargarli senza finire in ideologismi vari. Ma la novità più grossa, rispetto ai vecchi temi, è che stavolta il movimento si è visto prima in Sicilia e poi a Milano. Nell'82 sono cominciati i cortei antimafia nelle scuole di Palermo. Nell'83 la lista di base allo Spedalieri. Nel gennaio 84 le assemblee per Giuseppe Fava. Nel maggio il corteo antimafia a Roma. In autunno Sicliani/giovani a Catania, e poi la manifestazione del 14 dicembre e quella del 5 gennaio. All'inizio dell'85 le manifestazioni studentesche contro la mafia a Milano, sulla scia di quelle siciliane. E solo adesso, a Milano e poi in altre città del Centro-nord, il movimento è partito su altri temi. L'impressione è quella di una grande voglia di contare che cresce un po' dappertutto a poco a poco, e che viene alla luce prima nei luoghi in cui i problemi sono più gravi e si vive peggio - in Sicilia - e poi negli altri. In Sicilia, cioè, siamo stati costretti ad affrontare prima dei problemi più grossi. C'è questo filo fra ciò che sta succedendo a Milano e il nostro movimento dell'anno scorso, e noi Siciliani abbiamo quindi ancora molte cose da dire, a noi stessi e agli altri. E possiamo avere fiducia nella continuità del movimento in Sicilia, anche se ora sembra addormentato. Dell'"addormentato", del resto, la responsabilità è soprattutto nostra. Se si ferma la Fgci si fermeranno i simpatizzanti comunisti, se si fermano gli autonomi quelli "estremisti". Ma se ci fermiamo noi, il guaio è più grosso, perché noi siamo gli unici che possono farsi sentire (non essendo un partito) da tutti gli studenti. Noi abbiamo cominciato con molti fatti (14 dicembre e 5 gennaio) e poche parole. poi, pochi fatti e poche parole. Ora, niente fatti e poche parole. In realtà, noi abbiamo fatto dei grossi passi avanti nei settori, come il giornale, che richiedono poche persone "specializzate". Siamo invece rimasti indietro nelle cose in cui è necessario coinvolgere molti: sei mesi fa aprivamo nuove sedi, eravamo presenti dappertutto ed intervenivamo su ogni cosa. Adesso abbiamo perso quasi completamente il contatto con i ragazzi delle scuole (quelli che ci sono, evidentemente, non trovano spazio da noi perché partecipano poco) e abbiamo perso la nostra componente "estremista", che era pure importante. Intanto, bisogna intervenire subito nella scuola a partire dal fatto che c'è aria di movimento. A questo punto, dobbiamo intervenire non tanto sulla questione delle tasse scolastiche, quanto su un allargamento del dibattito. Come al solito, per fortuna, non abbiamo ricette miracolose da proporre: possiamo però segnalare quello che succede, dare voce, fare circolare le idee, segnalare i problemi concreti della nostra vita. E poi aspettare con pazienza. Come primissima cosa, ci vuole un bel volantino. Non tanto per il volantino in se stesso, quanto per riabituare la gente a vederci in giro, e soprattutto per riabituare noi stessi a farci vedere in giro, che è il nostro compito principale. Poi, possiamo metterci in contatto direttamente coi ragazzi di Milano presso Radio Popolare - e di Napoli - Segnali d'accelerazione, Coordinamento antimafia - e vedere cos'hanno da dirci; proporre uno scambio di idee, ed eventualmente delle iniziative parallele, a una stessa scadenza. Rispetto a queste realtà "lontane", noi abbiamo più difficoltà di collegamento immediato rispetto ai partiti politici, perché ci mancano gli strumenti tecnici che essi hanno; però, una volta che il collegamento sia stato stabilito, abbiamo una credibilità molto maggiore, proprio perché noi non siamo un partito politico ma un'espressione di base. Rispetto a Milano, a Napoli e a qualunque altra situazione possiamo e dobbiamo presentarci senza timidezze, per imparare qualcosa da loro ma anche per insegnare la nostra esperienza, che non è da sottovalutare. Più in generale, dobbiamo finalmente abituarci a parlare con tutti senza timidezze e ritrosie. Secondo me è sbagliato non intervenire - per esempio alla festa dell'Unità per paura di "fare politica". In realtà noi, concretamente, abbiamo fatto e facciamo molta più "politica" (nel senso migliore della parola) dei partiti tradizionali: abbiamo perciò il diritto, e forse anche il dovere, di dire quello che sappiamo e che abbiamo sperimentato senza timori di "strumentalizzazioni" e senza complessi di inferiorità nei riguardi di nessuno. Sia per la questione del movimento (volantini ecc.) che per il giornale e il resto, dobbiamo fare delle scelte organizzative semplici e precise, senza le quali non andremo molto lontano. In primo, luogo è assurdo continuare a organizzarci come se un liceale di diciassette anni e un universitario di ventitrè fossero la stessa cosa. A partire da ora, i ragazzi delle scuole che fanno parte di Siciliani/giovani debbono cominciare ad organizzarsi da soli gli interventi sulle varie scuole e decidere autonomamente le cose da fare; magari faranno degli errori qua e là, ma almeno non saranno più a rimorchio dei "grandi"; e certamente, con la loro spontaneità, avranno anche qualcosa da insegnare a tutti gli altri. Questo vuol dire che i "ragazzini" faranno la loro riunione a parte, ogni settimana (naturalmente continueranno a partecipare anche all'assemblea generale): se lo vorranno, si faranno aiutare anche da qualcun altro, ma sotto la loro responsabilità. In secondo luogo, abbiamo perso buona parte dei contatti che avevamo costruito in Sicilia (e che erano uno dei nostri maggiori successi). Dobbiamo prendere sistematicamente l'abitudine, quando facciamo una cosa, di fare un giro di telefonate fuori Catania per comunicarla e invitare a generalizzare le iniziative anche in altre città. A Palermo, in particolare, c'è un gruppo di Siciliani/giovani agguerrito ed efficiente, sotto alcuni aspetti più avanti di noi; eppure, a parte il giornale, non siamo mai riusciti a farci un'iniziativa in comune. A partire dal prossimo volantino, bisogna intervenire contemporaneamente nelle due città, tenendosi in contatto quotidiano per telefono e delegando una persona a questo specifico compito. Sui centri giovanili abbiamo fatto moltissime parole e ben pochi fatti. "Fatti" può voler dire: affittare un locale; utilizzare una piazza; fare occupazioni simboliche alla palermitana. Ciascuna di queste soluzioni ha i suoi pro e i suoi contro, ma il fatto è che noi in realtà non ne abbiamo sperimentato nessuna. A questo punto, proporrei di organizzarci su un'ipotesi precisa: organizzare per il 10-15 dicembre, una seconda festa di Siciliani/giovani ma stavolta in un locale utilizzabile come centro giovanile, in modo da dare un esempio concreto di come il centro potrebbe funzionare. Fare un piccolo passo, farlo! Ammettiamo, per esempio, che decidiamo di fare la festa alle ciminiere. In questo caso: - per prima cosa, convochiamo una riunione di tutti i gruppi interessati sul tema preciso "come passare tre giorni alle ciminiere"; - dopo fare domanda al comune; se il comune l'accetta, bene; se non l'accetta saremo sempre in tempo a cambiare obiettivo, ma almeno avremo impostato un dibattito e avremo cominciato a lavorare con altri su un obiettivo preciso e non su un'idea in generale. Come dovrebbe essere la festa? Intanto, dovrebbe essere organizzata come la precedente, ma meglio. Finanziamento con le sponsorizzazioni; gruppi musicali meglio scelti; presentazione seria (possibile Minà); panineria; interventi nostri meglio preparati. In secondo luogo, non dovrebbe essere solo la nostra festa, ma dovremmo organizzarla fin dal primo momento insieme con la Comunità S. Pietro e Paolo (ed eventualmente altri "non partitici"). Infine, non dovrebbe essere solo una festa. Tre giorni di musica, ma attorno alla musica cinque o sei attività da centro giovanile, scelte in base alla partecipazione della gente fra quelle che abbiamo elencate nel paginone di giugno. Spazi e angoli per attività specifiche, angoli di ritrovo, e così via. Far vedere insomma come potrebbe essere concretamente un centro giovanile a Catania. Meglio tre giorni di centro giovanile "vero" che tre mesi di mini-centro in un appartamento, in una piazza o in un pertuso. Se avremo un minimo di abilità, e riusciremo a collegare la propaganda per la festa e il centro con quella per il movimento (tasse e dibattito su Milano, ecc.), i partecipanti all'iniziativa, fin dal momento organizzativo, potrebbero essere molti: a condizione, al solito, di non mettersi a fare ideologia. A proposito di ideologia: io credo che un minimo di "ideologia" di Siciliani/giovani (quella che ci distingue da ogni altro gruppo organizzato) esista. Ed è la lotta alla mafia. Lotta alla mafia non vuol dire solo lotta alla delinquenza, che è la parte meno profonda di essa. Vuol dire lotta a una situazione in cui la Sicilia non parla di mafia, la Regione dà i soldi ai mafiosi, l'onorevole dice che la mafia non esiste, i cavalieri vengono protetti dalle autorità, e così via. Magari è una cosa banale, che abbiamo detto tante volte (e su cui è nato Siciliani/giovani). Ma è bene ripeterla, anche perché negli ultimi tempi, sia per I Siciliani che per Siciliani/giovani, queste cose si sono sentite un po' meno del solito. Ora, è vero che "la lotta alla mafia non basta", che bisogna fare proteste concrete in positivo; ma senza lotta al potere mafioso tutto il resto è poesia. Se fossimo in Polonia, noi diremmo "vogliamo vivere meglio, ma prima via i russi"; se fossimo in Cile "vogliamo vivere meglio, ma via la dittatura". In Sicilia la mafia ha colpito più che in Polonia e più che in Cile. "Vogliamo vivere meglio, ma via i mafiosi e tutto il loro potere!". Questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Non dobbiamo far finta di essere in una situazione "normale", perché la mafia è ancora là, e uccide e comanda: e se non la combattiamo noi che siamo I Siciliani (e Siciliani/giovani dovrebbe essere la punta avanzata dei Siciliani), non si vede chi dovrebbe farlo. Sia quando facciamo volantini che quando organizziamo una festa, perciò, noi dobbiamo sapere - e dobbiamo dire! - che stiamo facendo questo in questa situazione. Non credo che questo spaventerà la gente. Noi il 14 dicembre e il 5 gennaio siamo stati molto "estremisti" in questo senso, eppure la gente è venuta, molto più di quando ci siamo "moderati". Questo ci dovrebbe far riflettere. Non abbassiamo mai la nostra bandiera, perché ci sono molti che credono in essa, anche se non si vedono: e senza di loro resteremmo davvero soli. Potremmo prendere in considerazione l'idea di fare una manifestazione (ma di tipo nuovo, come quella che voleva fare Antonio Scuderi in primavera) in coincidenza con la prima giornata della festa; in ogni caso, dobbiamo cominciare a prepararci alla manifestazione del cinque gennaio, per la parte che ci riguarda. L'anno scorso, il cinque gennaio noi non ci siamo limitati a "commemorare", ma abbiamo portato avanti delle proposte precise: per esempio, "via i cavalieri". Siciliani/giovani è stata la prima organizzazione ad avere il coraggio di attaccare pubblicamente i quattro cavalieri). Quest'anno, io penso che "via i cavalieri" - che bisogna ripetere - non basta più: il cinque gennaio potrà essere anche una giornata di proposte sui nostri problemi; sarebbe bello, nel corteo, dare un volantino (o addirittura un giornale) che faccia una serie di proposte precise sui centri giovanili, sulle scuole, sulla vita quotidiana e così via. Naturalmente, non devono essere le proposte di una o dieci persone: debbono essere il frutto di un dibattito con molti giovani, che bisogna cominciare a lanciare nelle scuole di Catania. Questo dibattito, l'intervento nelle scuole, la festa, le eventuali manifestazioni non sono tante cose separate. Sono tanti modi di esplorare la stessa realtà, e vanno tenute in contatto fra loro, e in contatto ancora più stretto col nostro giornale. Il giornale è molto cambiato, in bene e in male, rispetto ai primi numeri. In male, vale quello che sappiamo per la parte organizzativa di Siciliani/giovani: collabora meno gente "qualunque", ed è molto minore il legame con i ragazzi delle scuole; è inutile ripetere tutto quello che s'è detto sopra, basta dire che questa situazione può essere superata abbandonando le timidezze e la paura di "fare movimento" e tornando allo spirito d'iniziativa che avevamo una volta. Di buono, c'è che ora il giornale può contare su un nucleo redazionale abbastanza consapevole, con un minimo di serietà e su qualche idea chiara su come si fa un giornale. Possiamo cioè dire che adesso esiste una redazione di Siciliani/giovani. Questa può essere una forza, se riusciremo a "usare" la redazione senza separarla dal movimento; se invece la redazione del giornale sarà l'unico aspetto di Siciliani/giovani, avremo fatto tanto lavoro solo per formare alcuni giornalisti, il che sarebbe davvero triste. Si tratta dunque - non è una novità, ma è lo stesso fondamentale, non solo per Siciliani/giovani - di unire intelligentemente professionalità e "dilettantismo". La redazione potrebbe essere composta - questa è soltanto una proposta, ma dobbiamo cominciare a discutere anche sui nomi - dalle seguenti persone: Gianfranco Faillaci, Salvo Ferrara, Edoardo Frivitera, Ester Saitta, Piero Cimaglia, Massimo Arcidiacono, Rosalba Cannavò, Dante Cristina, Renata Grillo, Fabio D'Urso, Antonella Mascali. Questo è un elenco minimo di nomi, che può senz'altro essere completato con l'aggiunta di chi intende far parte della redazione; ma ai suoi componenti si richiedono delle cose precise: la presenza in sede o fuori almeno tre giorni alla settimana, in giorni e orari precisi, a turno; la partecipazione al lavoro redazionale collettivo, in stretto contatto con i responsabili di turno e comunque in stato di reperibilità; la disponibilità a svolgere gli incarichi redazionali che via via saranno assegnati (servizi, inchieste, giri di cronaca, ecc.). Ad essi, va aggiunto almeno Nuccio Fazio, come fotografo. La redazione deve organizzarsi in maniera autonoma, nella seguente maniera: - due responsabili, a turno, per la durata di un mese, che coordino (sempre sotto l'approvazione dell'assemblea) il numero in corso e ne rispondano; - un redattore che coordini le lettere e le storie di vita (la quarta pagina); - un redattore che si occupi di sollecitare e ricevere i pezzi da fuori catania, e che si tenga in contatto con la redazione palermitana; - tre redattori che, a turno, si occupino di leggere i giornali cittadini, segnalare i fatti di cronaca più utilizzabili e andarli ad approfondire, tenere il contatto con le fonti d'informazione; - un redattore che si occupi di seguire le notizie della scuola; - un redattore che si occupi di seguire le notizie dall'università; - dei redattori che lavorino su settori particolari, come musica e sport. Come avevamo stabilito in precedenza, l'organizzazione del giornale dev'essere il più possibile democratica. Non potremo ricominciare a votare i singoli pezzi, ma su richiesta anche di uno solo dei componenti dei Siciliani/giovani l'assemblea potrà intervenire per eliminare un pezzo e suggerirne un altro; l'assemblea continuerà ad aver luogo ogni venerdì pomeriggio, e continuerà ad avere potere decisionale nei confronti del giornale e del resto. E' importante però cominciare a lavorare sulla base di incarichi precisi, in modo che ognuno possa occuparsi bene di un settore preciso. In generale, la ripartizione del giornale potrebbe essere così organizzata: - prima pagina, i pezzi più importanti (con giro in ultima); - pagina due, cronaca (relativamente a problemi giovanili); - pagina tre, musica, sport e altri settori specifici (pagina due può "invadere" parte di pagine tre, e viceversa); - pagina quattro, storie di vita e rubriche. I pezzi da fuori Catania andrebbero ripartiti fra le pagine esattamente come quelli catanesi. Il "servizio" (di due cartelle, massimo tre) dev'essere la struttura portante del giornale. Tre servizi bastano a fare l'ossatura di un numero, se sono completi e interessanti. Il tema di un servizio dev'essere il più possibile mirato: più è specifico l'argomento e più è interessante; più persone, storie, interviste ci sono dentro e più è leggibile. E' inutile fare qui un elenco degli argomenti su cui si può fare un servizio. La cronaca, la lotta alla mafia, i movimenti giovanili, lo sport, la musica, il corpo, la vita quotidiana possono essere altrettanti settori generali all'interno dei quali cercare spunti da approfondire. E' importante invece imparare a sviluppare un'idea. Fino a questo momento, abbiamo curato poco il momento dell'intuizione, l'abbiamo trattato in modo approssimativo e disordinato; adesso dobbiamo cercare di analizzare sistematicamente il processo da formazione delle idee. All'inizio c'è l'idea!, e può averla chiunque, in tante forme diverse. "La Plaja è un posto poco sicuro", "come si fa a diventare giornalisti?", "chi è il padrone della centrale del latte?", ecc. Da questa prima intuizione, bisogna passare alla fase successiva, che non è ancora il pezzo, ma il "promemoria" (8-10 righe) sul contenuto del pezzo. Infine, il pezzo vero e proprio. Un buon metodo di lavoro, quando qualcuno ha un'idea, anche strampalata, è di appuntarla immediatamente su un pezzo di carta, così come viene, e poi di arricchirla di qualche particolare, senza approfondirla troppo, in modo da avere un primo promemoria. Poi vedere cosa c'è da fare (interviste, notizie, ecc.) per mettere in pratica il promemoria, e solo alla fine cominciare a scrivere il pezzo. Quanto al pezzo, la prima stesura dev'essere il più possibile spontanea, libera; nella rilettura bisognerà invece limare, tagliare, e rimontare tutto in modo da avere un inizio vivace e non lasciare che l'attenzione del lettore si addormenti. Dopo i servizi vengono i materiali da fuori redazione: corrispondenti, notizie dalle scuole, collaboratori saltuari. Questo materiale (per lo più brevi pezzi) dovrà essere riveduto con molta attenzione, possibilmente dalla stessa persona, in modo da comporre tanti frammenti omogenei fra loro. In particolare, le storie di vita dovrebbero rappresentare (molto più che sull'ultimo numero) un carattere tipico del nostro giornale. La storia di vita può essere scritta da chiunque; se si riesce a pubblicarla mantenendone il carattere di spontaneità, dà un tono vivace al giornale, corregge l'eventuale eccesso di "serietà" dei servizi e soprattutto evita che il giornale sia fatto solo dai soliti redattori. Specialmente per i ragazzi più giovani, è un inizio fondamentale; difficilmente avremmo potuto sviluppare una redazione se non avessimo cominciato con questo tipo di scrittura, alla portata di tutti e tale quindi da creare fiducia in chi scrive e da costituire un primo tipo d'esperienza. Infine, le rubriche. Possono essere spazi "tecnici" (mercatino, salute, ecc.) o contenitori più ampi (spazio donna, se riusciremo a farlo), ma in ogni caso rappresentano un appuntamento che contribuisce a mantenere il lettore legato al giornale. Non è il caso di dilungarsi oltre sull'organizzazione del giornale di cui avremo modi di parlare quotidianamente nella pratica. Vorrei insistere però sul fatto che questa redazione, oltre che ben organizzata, dev'essere aperta, cioè portavoce di tutti coloro che nella redazione non ci sono; e che questo giornale, oltre che un buon giornale, dev'essere un giornale in movimento, cioè espressione di ciò che succede fra la gente e degli obiettivi e delle speranze di coloro che vogliono migliorare la vita: a partire, naturalmente, dai Siciliani/giovani e dalle loro iniziative. Un buon giornale, delle idee per un movimento, delle iniziative concrete e rivolte a tutti, un collegamento con quelli che ci assomigliano nelle altre città, una denuncia continua (e non noiosa) del potere mafioso, una buona organizzazione generale: se riusciamo a tenerci su questi binari, in quindici faremo un ottimo lavoro e nei vari momenti riusciremo a mobilitare molte più persone. Se ci baseremo soprattutto sulla fantasia e sull'inventiva, sulle idee nuove e non sui regolamenti, sull'ottimismo creativo e non sulla difensiva, riusciremo senz'altro a fare qualcosa che duri. Il giornale - come la cooperativa che dobbiamo costituire al più presto e come tutte le altre forme organizzative - dev'essere insomma uno strumento per fare delle cose, e non una gabbia per dividerci quelli che sono fuori. 4 CHIACCHIERE SU... promemoria interno per SicilianiGiovani, 1985 La maggioranza del corteo è meridionale? Se è così, vuol dire che è abbastanza realistico pensare che il movimento è cominciato in Sicilia (perché proprio in Sicilia? Riflettere...) e che evidentemente nei cortei dell'83-84 non c'era solo un "contro-la-mafia" ma anche un "per-qualcosa" da identificare. Ovviamente non sappiamo ancora (lo ripeterò fino alla nausea) che cosa, e del resto non tocca solo a noi scoprirlo. Però, anche a noi. (Parentesi: in ogni caso, è provato che i giovani meridionali sono disponibili a ragionare (di mafia, e poi di tasse, e poi della qualunque) se solo si rispettano i loro tempi e gli si da fiducia). Contemporaneamente (inchiesta Amnesty Int.) pare che a Catania il 50% dei giovanissimi sia per la pena di morte. Inciviltà e immaturità "politica"? Eppure, sono gli stessi che fanno i cortei: a quanto pare, si può essere "maturi" su alcuni temi, e "immaturi" su altri. Domanda numero uno: continuerà così in eterno, e prima o poi i livelli di coscienza si unificheranno? Domanda numero due: che facciamo se diciamo che siamo contro la pena di morte e loro non ci battono le mani? (Parentesi. Ci sono due modi di strumentalizzare un movimento. Uno: "evviva, evviva, è il sessantotto". Due: "meno male, non è il sessantotto"). La soluzione ideale è, banalmente, di ragionare con la propria testa fottendosene del sessantotto-non sessantotto. In realtà questo è il 68 (o l'89, o il 71 - in cui è nato Fabio - o una qualsiasi altra data "storica") se vuol dire che è un anno di cambiamento. Non è il 68 (o il 78 o il 128 o un qualunque altro modello fuori produzione) se vuol dire fare il remake di un film già visto, e dare potere a chiunque non sia il movimento di ora. (Parentesi. Ragionare con la propria testa non è semplice. Però non c'è altra via. Farsi domande, non dare nulla per scontato, e soprattutto le cose "normali". "E' normale" vuol dire "Sono pigro". Pensare come se il mondo cominciasse ora. In realtà, comincia ora). Un buon obiettivo, in generale, sarebbe l'unità. Fra chi la pensa in un modo e chi in un altro (e chi pensa di non pensare). Fra i problemi grossi e quelli piccoli. Fra quello che siamo e quello che che possiamo essere. Fra quelli come noi e quelli no. Fra quelli con cui stiamo bene e quelli con cui litighiamo. Ogni unità in meno indebolisce tutti. Noi non siamo completi. Nessuno, da solo, lo è. E' stata una giornata violenta, il 16 dicembre? Violentissima, a Roma e altrove. A Roma, c'era un giudice che doveva stare lì per forza, sennò gli ammazzavano la figlia. A Napoli, una tizia è stata costretta a prostituirsi per avere un po' di droga. A Catania, un'impiegata è stata costretta a dire cose che non pensava, per evitare il licenziamento. A Treviso, una ragazzina ha avuto problemi per il suo ragazzo, perché era meridionale: a Canicattì, un'altra, perché "faceva la bottana". A Perugia, un ragazzo è stato costretto a passare il pomeriggio da solo, in quanto omosessuale; a Bagheria, un padre di famiglia è stato costretto a comportarsi da vigliacco davanti a tutti, tacendo alcune cose che sapeva. A Catanzaro, un brillante matematico è stato costretto a fare il manovale, perché a tredici anni doveva lavorare. A... Ma tutto questo è successo anche ieri e l'altro ieri e succederà domani. Come si suol dire è "normale". E - "normalmente" - non è violenza... In tutti questi casi, la polizia non interviene, i giornali non parlano, non si formano movimenti. E' "ingenuo" chiedersi perché? E' "inutile"? E in questo momento, leggendo queste cose, state perdendo tempo rispetto al vostro lavoro? E, infine: ce la fate a leggere una cosa in cui ci sono tutti questi punti interrogativi? Vi sareste sentiti più tranquilli con un po' più di punti esclamativi? (e fra parentesi: e fra noi, c'è violenza? Ne siete proprio sicuri? Che rapporto c'è fra la violenza in noi e quella fuori?). E infine: siete già stanchi di porvi - e farvi porre - domande? Attenzione: Forse tutto questo è politica... APPUNTI gennaio 1986 Cercare di capire che cosa è successo in questi due anni. Non ho le idee chiare su tutto, ma non credo che questo sia un male. Abbiamo bisogno d'individuare delle tendenze, non d'inventarci un'analisi globale che probabilmente, in questo periodo, finirebbe per essere più una palla al piede che uno strumento di lavoro. Le cose vanno troppo in fretta per poterle fotografare davvero. Si tratta dunque d'individuare rozzamente dei primi dati, e di svilupparli in continuazione, via via che l'esperienza procede; senza pretendere di ricavarne una "linea", ma piuttosto delle direzioni di ricerca. Questa ricerca, che è uno dei compiti fondamentali di questi anni, non può essere, per sua natura, che collettiva. Ma se all'interno di essa dovessi sintetizzare un contributo personale, potrebbe essere il seguente: non aver paura delle "cose strane" - cercarne le radici - fare politica su di esse. La lotta alla mafia, infatti, o è politica o è polizia. O riesce a liberare qualcosa che ne superi i confini, o prima o poi rifluisce in una generica richiesta di "ordine pubblico". Da Santapaola si può arrivare, nella testa della gente, tanto agli scippatori quanto ai ministri; quello che non si può fare è fermarsi a Santapaola. Per questo, più che di "lotta alla mafia", noi abbiamo sempre parlato di "lotta al potere mafioso"; e abbiamo introdotto concetti e parole (gli "antimafiosi") che vanno ben al di là del puro significato tecnico per suggerire qualcosa di più ampio e radicale. La parola "antifascista", a suo tempo, indicava di più che la generica opposizione a un regime; solo più tardi, debitamente castrata, è entrata nell'inoffensivo vocabolario di Palazzo. Non credo che, per quel che s'è visto in questi anni, ci sia da farsi molte illusioni sull'"impegno delle istituzioni" contro il potere mafioso. Ma anche se un impegno ci fosse, le dimensioni della posta in gioco sarebbero comunque tali da sfuggire completamente a ogni possibilità d'incasellarle nell'ordinaria amministrazione degli equilibri politici. Esse hanno bisogno, per essere affrontate (o anche solo percepite), di un vero e proprio movimento popolare. Che si presenterà - se si presenterà - in modo "strano" senza bandiere, molto prima nelle coscienze che nelle piazze; e non avrà una risolutiva "ora X" ma una lenta e inframezzata costruzione. Questo non vuol dire, naturalmente, che sia inutile il lavoro "diplomatico" nelle istituzioni. Ma è un lavoro, per l'appunto, diplomatico, complementare. Il lavoro reale sta altrove. A questi criteri ho cercato, finché ho potuto di attenermi in questi anni; ritenendo che le alternative "realistiche" (concentrarsi sul giornale; puntare sui rapporti con le istituzioni "buone"; "non siamo più nel sessantotto"; insomma "l'uovo oggi e non la gallina domani") fossero più rassicuranti, più semplici, ma anche più profondamente illusorie. E che convenisse dunque usando i rapporti istituzionali per tappare alla meglio i buchi - guardare in faccia la realtà e mirare alto, considerando la nostra esperienza e il nostro modo di pensare e la lotta antimafiosa e le stesse prospettive di vita del nostro giornale indissolubilmente legate allo sviluppo del movimento sociale e culturale che, secondo me, va annunciandosi in questi anni. Certo, potrebbe essere un'utopia. Ma io credo ancora di no. C'è una quantità di domande a cui non è stata data, fino a questo momento, una risposta. E neanch'io presumo di darla, da solo, ma voglio almeno pormi le domande. Perché i movimenti antimafiosi, nei loro momenti più alti, sono stati così "popolari"? Perché la gente - tanta gente, in certi momenti la maggioranza ha dato così tanta importanza alla "questione morale"? Perché il caso Pertini? Perché la gente comune si allontana (tesseramento alla mano) dal Pci ma si ritrova come non mai nella storia attorno ai funerali di Berlinguer? Che cosa viene percepito, in un caso del genere, dell'uomo politico Berlinguer? Cosa viene percepito politicamente voglio dire? Perché gli studenti cominciano a muoversi in Sicilia due anni prima che nel resto del paese? Perché le posizioni "estreme" vengono isolate nel caso della scala mobile ma seguite nel caso della lotta alla mafia o della questione morale? Perché adesso "salgono" Bobbio e Ingrao e "scendono" Natta o Lama? Il movimento antimafioso: come mai sono riusciti a convivervi tranquillamente, nei momenti alti, un'anima di "conservazione" ed una "rivoluzionaria"? Cosa esattamente la gente teme della mafia? Perché non tutti hanno un figlio tossicodipendente, e non tutti hanno molto interesse a come vengono spesi i soldi degli appalti... E ancora: cosa spera la gente dalla vittoria dell'antimafia? Mandare i colpevoli in galera non è mai stato un obiettivo di alcuna lotta popolare, in Italia: ma si tratta solo di questo? E la gente che ha partecipato al movimento antimafia nelle varie grandi e piccole occasioni, perché mai ha partecipato? Per quale motivo comune, intendo? Perché gente diversissima, quanto a composizione e a radici culturali; eppure, in certi istanti, s'è incontrata. Solo emozione? O che altro? L'autonomo e il "moderato" sono tornati a litigare nei momenti bassi, di riflusso. Ma prima stavano insieme. Come mai? E, più curioso di tutto: che strane caratteristiche possono aver avuto in comune i "militanti" di questa strana lotta - il professore di paese, il cattolico e quello che sottoscrive l'azione - per impegnarsi, per qualche mese, a far delle cose insieme? Sempre e solo "emozione", è la risposta ufficiale. Ma io credo che ci sia qualcosa di più. Troppi di questi episodi, individuali e collettivi, sono inspiegabili se non si pensa a qualcosa di più profondo. Qualcosa che viene da molto lontano, con radici molto antiche nel sentimento comune. In particolare, in Sicilia. Qui, per la prima volta, è stato messo in discussione il potere. Perché è come potere incontrollato, prima ancora che come "violazione delle leggi" che la gente comune qui percepisce i Cavalieri. Ed è stato messo in discussione esattamente là dove esso è più potente, dove maggiormente pesa sulla vita quotidiana della gente, e dove più radicale e liberatorio potrebbe essere il suo rovesciamento. Fuori della Sicilia questo significa che per alcuni momenti la Sicilia è stata (se potrà tornare ad esserlo in futuro) l'avanguardia o quantomeno la prima linea di una lotta che appartiene a tutti; altro che "problemi del mezzogiorno" e "questione meridionale"! In Sicilia, la percezione della questione è stata ancora più istintivamente, e commoventemente, profonda: in alcuni momenti e luoghi la parola "Siciliani" ha coinciso, senz'altre mediazioni, con la parola speranza. Ognuno di noi ha ormai l'esperienza del primo impatto con l'assemblea di una scuola, o d'un piccolo paese; e può agevolmente constatare come questo impatto sia più carico di aspettative e di richieste, più "caldo" esattamente nei paesi, nei luoghi e nei gruppi sociali in cui più forte e radicata era la memoria di una qualche passata lotta e solidarietà civile. Ma se ognuno di noi potesse avere anche l'esperienza umana di una qualunque di quelle sconfitte e dimenticate lotte nei paesini della Sicilia, di tutte quelle speranze via via sgretolate ogni volta, di generazione in generazione, ostinatamente e faticosamente ricostruite, potrebbe avere il senso delle radici profonde della "simpatia" verso i Siciliani, della solidarietà di tanta gente comune non dico a quella che facciamo, ma certo a quel che in qualche modo rappresentiamo. E potrebbe rendersi conto fino in fondo della responsabilità di dover gestire tutto questo. MILLE EDITORI PER I SICILIANI novembre 1985 C'è Antonella che è dovuta andar via - scopo sopravvivenza - da Comiso, la cerchi ora e "lei adesso lavora in Lombardia". Anche Antonella deve campare, per questo se ne è dovuta andare a fare la maestra su al nord. Come Fabio che era l'unico qui che riusciva a fare un pezzo sui punk, come Francesco che faceva il sindacalista al paese, come Stefano che era uno dei ragazzi della radio al quartiere... Mica facile restare al sud. Poi c'è il professor Lomonaco, preside di scuola media, che ha una vera scuola in pieno ghetto di Catania. C'è Gaetano Giardina, del Consiglio di fabbrica dei Cantieri, che organizza gli scioperi contro la mafia nella città dei Salvo. C'è l'ingegner Scuderi, che fa ricerca in aerodinamica all'università di Palermo. Ci sono i liceali di Catania, che come movimento studentesco hanno dato dei punti a Bologna. Ci sono cooperative e gruppi ecologici, ci sono artisti e scrittori. Ci sono questi siciliani, e molti altri come loro. Essi, oggi come oggi, non contano. Non contano in Sicilia, e non contano fuori. Troppo seri, per fare i siciliani. E' più semplice, per il vecchio Palazzo, avere a che fare coi Lima. Ma se avessero una voce? Se potessero discutere organizzarsi, confrontarsi, mettere insieme qualcosa? Se potessero scoprire di essere loro, in realtà, la vera classe dirigente degli anni a venire? Se, anziché carne da fabbrica senza difesa, il treno del Sole cominciasse a riversare sul Paese idee vive, progetti, una nuova ragione? A questo vogliamo che serva, partendo da questa Sicilia, questo nostro giornale. E' un progetto molto ambizioso, culturalmente e materialmente. Portarlo avanti da soli, non servirebbe. Per questo, dev'essere da subito un progetto collettivo: a cominciare dall'assetto proprietario del giornale. Il "padrone" de "I Siciliani" a questo punto non può essere un editore come gli altri. Neanche più, come finora, la nostra cooperativa di tipografi e redattori. Il ruolo storico di questo giornale, giunti a questa svolta, è ben più grande di noi; non abbiamo il diritto di chiuderlo in noi soli. Editori de "I Siciliani", nel senso letterale della parola, debbono essere tutti i siciliani impegnati, tutti coloro che credono in ciò per cui lavoriamo. Un editore collettivo composto da tanti cittadini proprietari di questo giornale e di quest'idea; un capitale messo limpidamente insieme lira su lira, con tanti diversi contributi; un'impresa cui possa partecipare chiunque se la sente, ma su cui non possa speculare nessuno. E' una sfida contro i monopolisti editoriali, contro i "comprati e venduti": ma è anche una precisa chiamata in causa che noi in questo momento rivolgiamo ai nostri lettori. Non bastano più solidarietà e simpatia: ognuno deve e può prendersi una piccola ma concreta responsabilità. Noi facciamo la nostra parte; ma tu che leggi devi fare, e non a parole, la tua. La forma che i nostri legali hanno studiato per l'assetto proprietario del giornale dà a ciascuno, adesso, la possibilità di assumersi questa responsabilità secondo le proprie - piccole o grandi - disponibilità. L'operaio, l'intellettuale, lo studente può diventare azionista, a tutti gli effetti legali, con centomila lire; il consiglio di fabbrica, il circolo culturale, la scuola può assumersi cinque, dieci, venti azioni; altre possono prenderne il piccolo industriale, il commerciante, la cooperativa. Crediamo che per tutti particolarmente per coloro che già sono impegnati sul terreno del rinnovamento civile - ci sia la necessità morale non solo di aderire all'impresa, ma di farsene apertamente e attivisticamente promotori. Nessuna scadenza "politica" e civile, in questo fine anno siciliano, è infatti più importante di questa. Non il tentativo malcerto d'un pugno di intellettuali, ma il cantiere in cui si fonda lo strumento della nuova cultura siciliana e meridionale. Nessuno può mancare. Questo giornale continuerà come e più ancora che in passato a far guerra alla mafia e ai poteri occulti, in tutti i modi. La politica mafiosa, l'imprenditoria mafiosa, le forme culturali mafiose - la mafia come potere continueranno ad essere al centro del nostro lavoro. Nel momento in cui il riflusso (non della gente comune, ma di classi dirigenti e istituzioni) manda a casa i giudici onesti e copre i miliardi dei mafiosi, noi continuiamo semplicemente a fare il nostro mestiere, che è quello di informare la gente su quel che succede. In una regione in cui i grandi mezzi di informazione informano solo quando e quanto conviene, potremo sembrare troppo intransigenti e - ci dicono - "eccessivi": ma qui d'eccessivo c'è soltanto la realtà. Ma i movimenti antimafiosi di questi anni (perché di movimenti s'è trattato, com buona pace dei politologhi) non sono stati soltanto contro la mafia, ma anche - confusamente - per qualcosa di nuovo, che ancora non si riesce esattamente a definire, ma che ha già una sua vitalità. Qualcosa che si muove nell'anima della Sicilia profonda. C'è una nuova generazione di Siciliani, cresciuta negli anni di piombo. Non li incontri solo nei cortei contro la mafia, ma anche e soprattutto nelle mille occasioni della vita quotidiana: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei laboratori di ricerca, nelle università, negli ospedali. Anni difficili li hanno formati. Hanno imparato a diffidare delle parole e a esaminare irriverentemente i fatti. Vogliono sapere cosa succede nei quartieri e nella società, perché è così indietro la ricerca scientifica e così avanti l'emarginazione, chi minaccia la tutela ambientale e come la si può migliorare, di che cosa si discute realmente nei vari ambiti, chi c'è nella cultura europea e cosa si può fare per la pace. Forse non hanno ancora molte risposte da dare, ma sanno già porsi le domande. Vogliono essere informati, non imboniti di parole. Noi lavoriamo con loro. Noi abbiamo fede in questa generazione. Siciliana, e conseguentemente europea. "Siciliana" a Palermo e Catania, ma anche - in un certo senso - a Napoli o a Bologna o alla periferia di Milano. La parola Sicilia, in questi anni, indica ben più che una terra. Primi nella barbarie, lo siamo altrettanto nella lotta: siciliani gli imprenditori Salvo e i Greco, ma siciliani i Pio La Torre e i Chinnici. Da qui la mafia può conquistare il Paese, ma qui può nascere per tutti una nuova coscienza civile. Nel bene e nel male, mai più saremo un'isola. Abbiamo dunque il diritto di mantenere, nel momento in cui ci espandiamo ben oltre i limiti regionali, il nostro vecchio nome di Siciliani. Sicilia come Sud, Sicilia come luogo in cui si stronca per sempre la mafia o la si lascia dilagare in tutta Italia, Sicilia come laboratorio in cui oggi o si risolvono o si affossano definitivamente tutti i grandi problemi, le passioni e le speranze non solo di noi siciliani ma dell'intera Nazione. Cercheremo quindi di esprimere con l'esperienza di quattro anni di mensile "I Siciliani" ma con la puntualità e la completezza che ora ci consente il passaggio al settimanale, tutto l'arco dei temi che insieme formano la nostra vita di questi anni. Le cronache gli avvenimenti, la vita quotidiana nelle città e nei paesi, l'economia, la politica, il costume, gli sport, la cultura, gli spettacoli, il tempo libero, la natura: nulla sarà trascurato, ogni aspetto della realtà avrà su queste pagine la sua fedele cronaca e la sua testimonianza. E la sua umanità. Noi non scriviamo sul meridione del colonialismo culturale di chi calato qui da tre giorni già presume di insegnarci cos'è il Sud. Noi scriviamo dal Sud. Condividendone le pene e le passioni, pagandone il prezzo se occorre. La Sicilia di domani sarà come noi tutti la costruiremo già oggi, nel vivo della lotta contro il potere mafioso. Non ci basta una Sicilia senza mafia, vogliamo una Sicilia che sorrida, una Sicilia giovane, europea. Per questo non saremo neutrali. Gli appuntamenti per i nostri lettori cominciano già nei prossimi giorni e settimane con le assemblee che terremo in tutte le città dell'isola e nelle principali d'Italia per presentare il settimanale e la sua Società editrice. Ma bisogna mobilitarsi già da subito per raccogliere le adesioni all'impresa de "I Siciliani" e in particolare per diffondere e far sottoscrivere le azioni della I Siciliani Settimanale SpA. Ogni lettore può esserne, nel suo ambiente di vita e di lavoro, un socio fondatore; ogni gruppo di amici, un nucleo organizzatore. Saranno due mesi intensissimi, fondamentali per il successo del progetto. Il settimanale comincerà ad uscire regolarmente a dicembre dopo la fase "silenziosa" di organizzazione. Vogliamo che sia definitivamente lanciato e presente dappertutto - e con una rete diffusa di azionisti e sostenitori - per il cinque gennaio, in concomitanza con la grande manifestazione contro la mafia con la quale ricorderemo il nostro fondatore. Questi sono gli obiettivi, e siamo sicuri che lavorando tutti insieme li raggiungeremo. Noi abbiamo fiducia nei Siciliani. Vogliamo esprimerla con le parole di chi ha dato loro questo giornale, Giuseppe Fava. "Dal fondo della sua antica, riconosciuta infelicità viene avanti, lottando ogni giorno ed ognuno lottando per suo conto. Tutti i suoi ideali, l'odio e l'amore, la pietà e la vendetta, sono ancora intatti e spesso ancora confusi e terribili, ma tutti insieme formano una grande anima. E non c'è prezzo di violenza o di dolore ch'essa non sia disposta a pagare, pur di conquistare la sua dignità. In verità non c'è in tutta Europa un popolo così orgoglioso e infelice, come quello siciliano, che faccia tanto male a se stesso, ma non c'è nemmeno un popolo che abbia tanta devozione alla sua terra, e che abbia altrettanto coraggio di lottare per l'esistenza, tanta violenza, tanto amore per la vita". UN VOLANTINO 1986 MENO CELEBRAZIONI E PIU' LOTTA La lotta alla mafia è già al riflusso? No. Al riflusso sono gli antimafiosi a parole, gli intellettuali da convegno, le autorità del Palazzo. Per loro "non c'è più niente da fare", "ormai la mafia ha vinto". Ma non è così. Per i lavoratori, per i giovani, per le migliaia e le migliaia di siciliani onesti che hanno risposto agli appelli di questi anni la lotta contro la mafia non è affatto finita ed anzi, nella sua fase più decisiva, comincia ora. Ricomincia senza retorica e senza grandi parole, senza aspettarsi nulla dagli uomini del Palazzo e senza credere nelle promesse di quanti hanno dimostrato di essere o impotenti o complici della mafia. Ricomincia con alcuni obiettivi chiari, semplici e concreti: - sequestrare le proprietà dei mafiosi e usarle per dare lavoro. C'è metà dal fatturato siciliano o in galera o in procinto di andarci: la loro ultima carta, è il ricatto della disoccupazione. Ma è possibile rompere questo ricatto utilizzando bene la legge La Torre, combattendo insieme mafia e disoccupazione. - Pensare sul serio ai giovani siciliani. Hanno partecipato in tanti ai cortei contro la mafia. poi sono tornati a casa ad aspettare la disoccupazione. Cosa si è fatto per loro, dopo le belle parole? Esigiamo subito un centro giovanile autogestito in ogni città siciliana. In edifici comunali: per stare insieme, per avere un punto di riferimento, e per cominciare ad organizzare sul serio il cambiamento. - Conquistare la libertà di stampa. La libertà di stampa in Sicilia non esiste. I padroni dei grandi giornali (quelli che si sanno) tutto sono fuorché nemici della mafia. Bisogna lavorare subito, e tutti, per un grande giornale popolare antimafioso, a partire da esperienze come I Siciliani di Giuseppe Fava. - Essere uniti come sono uniti i mafiosi. Non c'è più "vincenti" e "perdenti", la mafia oggi è tutta unita attorno alla sua droga. Bisogna: stabilire un coordinamento permanente fra le forze antimafiose delle diverse città;; invitare fin d'ora tutti i partiti democratici e antimafiosi a presentare, alle prossime elezioni, una sola lista, unitaria e sotto il segno della lotta alla mafia. Solo riprendendo e radicalizzando l'iniziativa popolare si può veramente onorare la memoria di Dalla Chiesa, di Fava, di Zucchetto, di Cassarà e di tutti gli altri caduti antimafiosi. Sostenere contro i sabotaggi del governo i giudici e i poliziotti impegnati in prima fila; liberare i quartieri dalla miseria e dalla paura; denunciare i complici dei padrini e cavalieri palermitani e catanesi; alzare il tiro fino al terzo livello e ai poteri occulti che (come dice Falcone) gli sono alleati; tornare senza paura nelle piazze. Su questi obiettivi bisogna che gli antimafiosi siciliani riflettano, si organizzano insieme e ricomincino a lottare. UN VOLANTINO 1986 I SICILIANI ALLA MARCIA PER IL LAVORO Per la prima volta in Italia un movimento giovanile comincia al Sud e si sviluppa verso il Nord. Il movimento dei ragazzi dell'85, infatti, trova la sua diretta radice nella mobilitazione anti-mafiosa degli studenti di Napoli, Palermo e Catania negli ultimi tre anni. I giovani meridionali hanno capito che lottare contro le malformazioni delle strutture scolastiche non basta, se dopo la scuola si è condannati a restare senza lavoro e se non si aggredisce la struttura del potere mafioso. E' necessario che il movimento contro la mafia si traduca anche in movimento per il lavoro. In che modo? - Applicando seriamente e dappertutto la legge La Torre. - Gestendo le imprese sequestrate agli imprenditori mafiosi per aumentare l'occupazione giovanile. - Sviluppando una serie di centri sociali in cui i giovani possano liberamente incontrarsi per sviluppare iniziative contro la mafia e per il lavoro. - Destinare le risorse finanziarie pubbliche non utilizzate (in Sicilia sono più di 12.000 miliardi) ad affrontare non episodicamente né clientelarmente la pressante richiesta di lavoro dei giovani nel Sud. Per questo aderiamo alla Marcia per il lavoro che si terrà a Napoli il 10 dicembre. UN VOLANTINO 1986 PERCHE' NON VOGLIAMO VIVERE CON LA MAFIA Siamo qui perché non crediamo in questa Sicilia di mafia e di raccomandazioni, la Sicilia dei cavalieri del lavoro e dei politici corrotti. Per noi giovani questa Sicilia significa il ricatto del posto di lavoro, oggi sempre più pesante, la mancanza di spazi dove vederci e dove comunicare e conoscere le nostre iniziative musicali, teatrali, culturali. Opporsi diventa essenziale. Bisogna costruire qualcosa di diverso. Creare nuovi posti di lavoro con i beni sequestrati ai mafiosi in base alla legge La Torre e con i 12.000 miliardi di "residui passivi" attualmente inutilizzati nelle casse della regione siciliana; creare degli spazi e dei luoghi d'incontro liberamente gestiti dai giovani. Giuseppe Fava è stato ucciso da chi non vuole cambiare la realtà, per dominarla col suo potere mafioso, con i soldi accumulati illegalmente, e manipolando l'informazione. Giuseppe Fava è stato ucciso, ma noi siamo qui per fare pesare la sua assenza e perché domani sia come se lui fosse ancora vivo. Perché come lui ce ne siano altri mille. E a tutti, non potranno sparare. Siciliani giovani UN VOLANTINO gennaio 1987 Già da sei mesi "I Siciliani" sono assenti dalle edicole e, com'è evidente, un giornale che non esce è già virtualmente un giornale morto. "I Siciliani" sono infatti sul punto di chiudere. Un destino che aleggiava da anni sul giornale e che oggi, in occasione del terzo anniversario dell'assassinio di Giuseppe Fava, rischia di realizzarsi definitivamente. La chiusura de "I Siciliani" sarebbe l'ultima di una lunga serie di sconfitte del movimento antimafioso sorto in Sicilia - soprattutto fra gli studenti, ma anche nel mondo del lavoro e in vari settori della società - all'indomani della morte del generale Dalla Chiesa: un movimento che ha chiesto verità e giustizia contro la mafia e le sue connessioni politiche e finanziarie, che ha rivendicato i diritti più elementari calpestati dal sistema di potere mafioso, che ha cercato di riempire di contenuti positivi e civili la propria opposizione alla mafia e ai suoi potenti ispiratori. La chiusura de "I Siciliani" sarebbe oggettivamente un ennesimo segnale negativo per la gente che in Sicilia e nel Paese ha creduto in quegli ideali di giustizia e che in questi anni ha letto sulle pagine del giornale la fedele cronaca e i commenti ispirati da essi. I redattori de "I Siciliani" hanno fatto quanto era in loro potere per scongiurare una simile eventualità, ma nessun giornale al mondo può sopravvivere indefinitamente senza adeguate risorse economiche e senza pubblicità. Ancor oggi, la redazione è professionalmente in grado di presentare un progetto tecnico-editoriale di rilancio del giornale - quello diffuso contestualmente a questo documento - ma non di assicurarne una pur limitata copertura finanziaria. La chiusura de "I Siciliani" concluderebbe logicamente - se chiusura dovrà esserci - l'operazione iniziata la sera del 5 gennaio 1984, a Catania, con l'assassinio di Giuseppe Fava. Chiudere la bocca alla società civile siciliana, non far parlare nessuno su quanto di nefando e delittuoso, ma anche di positivo e civile, accade in Sicilia, abolire le voci della democrazia: il silenzio era l'obiettivo di quella sera. Contro questa logica di silenzio e di morte noi redattori de "I Siciliani" chiamiamo a prendere posizione tutte le forze realmente democratiche: vogliamo in ogni caso da tutti, e principalmente da loro, una risposta chiara sul destino di questo giornale. E' stata una solidarietà grande, in tutti questi anni, quella che centinaia e centinaia di semplici cittadini hanno voluto riversare su questo giornale. Più di mille abbonati hanno seguito "I Siciliani" in tutte le loro vicissitudini; quasi seicento hanno risposto all'appello di sottoscrizione con cui, esattamente un anno fa, chiedevamo il sostegno di tutti per dare una nuova base economica alla nostra impresa. Ben diversa sarebbe stata la sorte di questo giornale se il loro esempio fosse stato seguito da chi aveva i mezzi per andare oltre la semplice attestazione di solidarietà. Molte volte, in questi anni, abbiamo chiesto a tutte le forze democratiche di dare un contributo al nostro lavoro. Si sono avuti, da parte loro, interventi occasionali e contingenti ma privi di ogni coerenza e continuità. Oggi, un istante prima della chiusura, non è più tempo per essi: si tratta di discutere seriamente il nostro progetto giornalistico-editoriale, e di muoversi in conseguenza. Non è in discussione la storia e il patrimonio ideale de "I Siciliani"; si tratta di verificare se questo giornale possa finalmente avere la continuità e la solidità che gli sono sempre mancati. Si tratta di capire se esistono forze culturali, sociali, politiche democratiche che vogliono condividere con noi lo sforzo di gestire e consolidare questa voce antimafiosa. E' questa l'ultima scommessa che facciamo con la nostra storia, circondata spesso da scetticismi, sospetti e rimozioni. In gioco, stavolta, c'è l'essenza stessa della democrazia: il pluralismo delle voci, la libertà di esprimerle, l'antimafia non come rito d'occasione ma come spartiacque fondamentale fra chi vuole cambiare le cose e chi no. Se "I Siciliani" spariranno dalla scena definitivamente, vorrà dire che nessuno avrà raccolto il nostro appello. E ciò rappresenterà un messaggio chiaro per una società che negli ultimi mesi ha visto ricomporsi e ricompattarsi ordinatamente il vecchio sistema di potere mafioso nelle due principali città siciliane. I redattori de "I Siciliani" hanno avuto in sorte, in tutti questi anni, la possibilità di collaborare a un'esperienza giornalistica fra le più ricche, nel suo genere, e avanzate del Paese, e di contribuire in maniera decisiva al rinnovamento della professione giornalistica in Sicilia: non solo mediante il lavoro redazionale svolto, ma anche con la formazione di un consistente nucleo di nuovi giovani giornalisti - a partire dall'esperienza di "Siciliani/giovani", e poi col settimanale "I Siciliani" - il cui livello professionale non è ormai inferiore, proporzionalmente all'esperienza, a quello di nessuna realtà analoga in Sicilia. E' amaro rilevare come in quest'opera di difesa e rinnovamento della professione i giornalisti de "I Siciliani" non abbiano avuto al proprio fianco gli organi di categoria che istituzionalmente avrebbero dovuto sostenerla. Questo giornale è l'esempio di una lotta al potere mafioso condotta senza mezzi termini e senza rispetti per nessuno: non limitata alla manovalanza criminale di Cosa Nostra ma mirata ai massimi livelli, imprenditoriali e politici; non ristretta a una semplice denuncia in negativo ma aperta alla ricerca dei possibili assetti di una Sicilia nuova. I movimenti giovanili e i loro luoghi d'incontro; il dramma della disoccupazione e la possibilità di affrontarlo con una gestione alternativa delle aziende sequestrate ai mafiosi; il dibattito nella società civile e le nuove aggregazioni all'interno di essa: su ciascuno di questi temi "I Siciliani" si sono impegnati non solo col giornale, ma promuovendo una serie di spazi organizzativi - "Siciliani/giovani", l'"Associazione I Siciliani" - che potessero contribuire, nel rispetto delle scelte ideali di ciascuno, a coagulare nuovi livelli civili e culturali nelle componenti migliori della società siciliana. Su tutti questi terreni, oltre che nella denuncia puntuale dei vari nodi del potere mafioso, "I Siciliani" hanno lavorato con tutte le loro forze, con alterni successi ma sempre con totale dedizione e in assoluta autonomia politica e intellettuale. Oggi che i poteri mafiosi vanno sempre più arrogantemente alla restaurazione mentre sempre più evidente si la latitanza dello Stato, oggi che i giudici onesti vengono sempre più risospinti nella loro solitudine mentre gli amici di Lima e Drago tornano sul balcone, oggi che nell'indifferenza generale si giustiziano i bambini nelle città siciliane, i siciliani onesti hanno il dovere di non arrendersi, individualmente e collettivamente, alla Sicilia del potere, di lottare contro di essa e di contribuire a costruire, ognuno per la sua parte, la Sicilia di domani. L'esperienza e le idee de "I Siciliani" sono tuttora un patrimonio comune per tutte le componenti civili della società siciliana, e un punto di partenza per tutti coloro che non vogliono rassegnarsi alla Palude. Ridare ai giornalisti onesti la possibilità di fare onestamente il loro mestiere, di informare senza censure su ciò che succede in Sicilia; ricostruire pazientemente, con una rete larga e articolata di esperienze, di dibattiti e di movimenti organizzativi, il tessuto della Sicilia civile; continuare la lotta per la pace, contro la mafia, per il lavoro, per la tutela dell'ambiente; muoversi coi giovani che ancora adesso, in Italia e altrove, si affacciano disordinatamente ma con immensa forza di cambiamento nella società; seguire le speranze che agitano l'umanità degli altri sud, delle altre Sicilie del mondo; collegare tutte le forze di cambiamento, riflettere su tutte le esperienze, andare avanti insieme: ciascun cittadino siciliano, ciascuna forza antimafiosa, può ancora far molto, partendo anche dall'esempio de "I Siciliani", su questa strada. E' una strada, noi crediamo, non isolata e non perdente. Assenti le istituzioni, contrastanti i partiti di governo, titubanti quelli di opposizione, ostili o muti i grandi mezzi di informazione, in tutti questi anni tuttavia non solo un piccolo gruppo di giornalisti, ma migliaia e migliaia di cittadini hanno dato vita a qualcosa che non può essere cancellata dalla storia del Paese. C'è stato un movimento, in questi anni, in Sicilia, per la prima volta dopo molti decenni: un movimento che partendo dalla mafia e dal potere mafioso ha messo in discussione, senza zavorra d'ideologie ma con coerenza profonda, gli assetti di società e di potere su cui si basano l'infelicità di quest'isola e i mali oscuri dell'intero Paese. Di questo movimento civile, indifferente al Palazzo ma profondamente radicato nella gente che vive fuori, "I Siciliani" sono stati una voce, e forse anzi la voce. Ora, non possono più esserlo da soli. La redazione de "I Siciliani" GLI ANNI DI GIUSEPPE FAVA 1986 Catania, un anno dopo l'effetto Dalla Chiesa, è ancora una città militarmente occupata dalla mafia. Esaurita la guerra fra i SantapaolaFerrera e i Ferlito, esecuzioni sommaria (sovente precedute da tortura) e sparizioni provvedono a ripristinare il "rispetto" fra la miserabile malavita dei ghetti. La situazione politica, dopo la buriana provocata dall'intervento di Dalla Chiesa sull'assessore Ferlito (parente del boss assassinato nel giugno dell'82 sulla circonvallazione di Palermo), torna a stabilizzarsi attorno ai vecchi assi del potere, basati essenzialmente sull'equilibrio fra i notabili storici alla Drago e i giovani "emergenti" alla Andò; pochissimi gli amministratori esenti da comunicazioni giudiziarie, ma assoluta fluidità nonostante questo, e forse proprio per questo - del meccanismo politicoclientelare. Quanto agli imprenditori (i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa di Fava) a suo tempo indicati dal generale come fruitori "del consenso della mafia", mostrano - adesso - un'immagine d'ostentata sicurezza. Nessuno fa più il loro nome in pubblico, e non solamente a Catania; accordi intercorsi con alcuni gruppi editoriali assicurano loro l'amicizia non solo di una parte della stampa isolana ma anche di quella nazionale. Il fronte dei cavalieri è ben lontano, in questa fase, dall'essere omogeneo, ma non esiste ancora, tuttavia, alcuna forza che abbia la capacità, o anche soltanto l'intenzione, di puntare su queste divisioni per approfondirne i contenuti e fare politica su di esse. Sui cavalieri, dunque, si è ridisteso il silenzio: l'ordine regna a Catania. Eppure, qualcosa si muove. A livello istituzionale, intanto, il dopo Dalla Chiesa non è passato invano. Carabinieri e Guardia di finanza, in particolare, passano sotto nuovi comandi; in prefettura, Abatelli lascia il posto ad un "settentrionale"; gli ufficiali e i funzionari che negli anni passati sono stati di fatto emarginati nell'ordinaria amministrazione e cominciano a non sentirsi più isolato. Alcune indagini, sia pure messe in moto da Palermo o da Roma, cominciano a lasciare il segno: Santapaola continua a restar latitante, ma in autunno un'operazione combinata di carabinieri e Finanza scompagina la "famiglia" Ferrera, il nucleo storico della mafia catanese; si riesce a far mettere sotto sequestro i beni della "famiglia" Santapaola (saranno peraltro dissequestrati a dicembre). Questi primi timidi segni di disgelo nelle istituzioni incoraggiano, o almeno non frenano come per l'addietro, ciò che - in maniera ancora confusa e occasionale - s'agita nella coscienza cittadina. Catania non è città mafiosa. L'immagine tradizionale che i catanesi hanno di se stessi è quella di una città convulsa, senza grandi ideali, probabilmente cinica - ma non violenta. Ancora nella metà degli anni settanta, la criminalità locale ha i connotati culturali della malavita, non della mafia; catanesi sono tradizionalmente i grandi truffatori e falsari, non i killer; sbarcano sigarette, non eroina. Con l'effetto Dalla Chiesa il catanese medio scopre improvvisamente la realtà; la droga, la mafia, l'imprenditoria mafiosa. E' una realtà difficile da accettare, che suscita nell'immediato un sentimento d'incredulità, poi di rimozione: su di esso, non a caso, cercheranno esplicitamente di far leva (campagne "per Catania diffamata", per "gli imprenditori che danno lavoro") le forze di fiancheggiamento del potere mafioso. Il fondo della cultura catanese è tutto sommato sano, non inquinato come altrove da quarant'anni di dominazione (non solo "militare") mafiosa. La gente, qui, prova ancora disagio a convivere con una simile realtà; la rimuove, ma non l'accetta; ed è ancora disponibile, se gliene si offre la possibilità, a discutere, a ragionare, a non rifiutare eventualmente la mobilitazione. Ed è proprio qui che s'innesta il lavoro, e la funzione, di Giuseppe Fava. Intellettuale di estrazione popolare (padre maestro, nonno contadino) Fava è tutto fuorché un uomo di potere, di qualunque potere. Provocatorio, guascone, all'occorrenza sfrontato; non privo - a conoscerlo - d'una sua antica, e assai siciliana, riflessività; profondamente "romantico" ma nello stesso tempo "impegnato", come nessun altro in quel momento, a Catania. Nell'autunno del 1983 Fava non è un isolato. E' riuscito a concludere tutto sommato vittoriosamente l'esperienza del "Giornale del sud", il quotidiano alternativo (poi riassorbito dall'editoria costituita) del 1980-81, a uscirne, con un profondo gesto di rottura; a "usare" l'esperimento del quotidiano, e la stessa sua traumatica conclusione, per consolidare un primo nucleo di giornalisti veri e una prima consistente fascia di opinione pubblica disponibile. E questo in una situazione in cui la stampa "ufficiale" tace sistematicamente, per esempio, o altrettanto sistematicamente sottostima tutte le notizie relative all'attività dei clan mafiosi. E' riuscito a imporre, al centro del dibattito culturale cittadino, il suo ennesimo lavoro teatrale di denuncia, l'"Ultima violenza" (forse la più plastica rappresentazione esistente della mafia metropolitana); è riuscito soprattutto a lanciare e consolidare fra mille difficoltà il suo primo strumento veramente collettivo, quello su cui ha saputo coagulare non solo una generica opinione "antimafiosa", ma il preciso impegno militante di un gruppo di giovani giornalisti, la rivista "I Siciliani". Osteggiata in tutti i modi dai poteri costituiti (l'ente regionale preposto concede un prestito: ma in tempi tali da renderlo, oggettivamente un sabotaggio) il mensile si impone intanto, grazie alla solida professionalità di Fava, come un prodotto editorialmente valido, difficile da emarginare, non velleitario. I contenuti vanno dall'inchiesta di mafia a quella sulla vita quotidiana, dal servizio su "i cavalieri di Catania e la mafia" a quello su "le donne siciliane e l'amore", in una miscela originalissima di "popolarità" e militanza. Convergono tutti, in sostanza, verso una sorta di nuovo sicilianismo, nettamente democratico e progressista, e sicuramente europeo: per qualche verso analogo - nella diversità di tempi e situazioni - al rivoluzionario e antifascista "sardismo" di Lussu; e con un'attenzione al privato e ai movimenti profondi del sociale, con un colore caldo (ma tuttavia "illuministico") della scrittura che ricordano, ma con più popolari radici, certo "giornalismo" pasoliniano. Nell'autunno 1983, I Siciliani sono già una forza che aggrega, e che disturba. Un dibattito "politico" ampio e articolato viene aperto, per la prima volta, fra le componenti della sinistra già schierate (e per molti versi ancora legate ad antichi limiti di diffidenza e di minoritarismo) e quelle ancora in formazione; denunce specifiche e puntuali vengono portate avanti, senza cercare lo scoop ma elaborando sistematicamente i dati esistenti, sui punti nodali del sistema di potere politico-finanziario della mafia. L'esigenza d'una iniziativa della magistratura per far luce, coi poteri conferiti dalla legge La Torre, all'interno delle banche siciliane "pubbliche" e private; le inchieste sul (malcerto) funzionamento di parte del Palazzo catanese e la difesa a oltranza, corrispettivamente, dei magistrati impegnati contro la mafia; l'indicazione, inoppugnabilmente documentata, delle agevolazioni finanziarie concesse dai politici ai mafiosi; l'appassionata rivendicazione del diritto alla pace cioè- nel momento in cui Comiso diventa obiettivo, e strumento d'olocausto - del diritto alla vita; i resoconti periodicamente aggiornati, senza iattanza e senza timore, sui Santapaola, sui Greco, sui Salvo, sui Costanzo, sui Rendo: su tutto ciò Fava riesce a rendere omogenei, nella Sicilia degli anni ottanta, una dozzina di giornalisti ed alcune decine di migliaia di lettori. E' ancora presto per valutare esattamente il peso che ha avuto, nell'evoluzione della società siciliana e catanese in particolare, questo punto di riferimento "improvvisamente" (ma in realtà portato dall'evoluzione degli eventi: nulla viene mai a caso, e nemmeno gli uomini) apparso sulla scena. Fra il novembre e il dicembre del 1983, comunque, i primi contatti con altri settori del movimento democratico - cooperative, sindacati - assicurano ormai alla rivista una ragionevole certezza di continuità. Esattamente nello stesso periodo gli assetti istituzionali, a Catania e fuori, attraversano il loro momento di maggiore instabilità. A metà dicembre, per esempio, un intervento pubblico e pubblicizzato dal potere esecutivo mette - di fatto - in condizioni insostenibili il magistrato che, da Trento, aveva fatto maggiori progressi nell'indagine sulle connessioni fra mafia e potere. Altri segnali, minori, concordano. E' indubbio che al di là delle specifiche tematiche di volta in volta agitate dalla rivista di Fava (alcune molto e immediatamente incisive: per esempio tutte quelle in qualche modo connesse con i controlli bancari), ciò che, nella situazione di instabilità che il potere mafioso attraversa in questi mesi, non si può ulteriormente tollerare è la stessa esistenza della rivista I Siciliani, il punto di riferimento che essa già rappresentava e quello che potrebbe maggiormente rappresentare in futuro. A differenza di tanti sedicenti esperti di politica e di istituzioni, la mafia è in grado - non per la prima volta d'individuare un obiettivo storico, di percepire con lucidità l'immediata rilevanza - e, per essa, pericolosità - di una mobilitazione per intanto poco più che potenziale, ma fra non molto inarrestabile. Non è da escludere che, in tale percezione, non siano mancati suggerimenti e segnali d'allarme anche da ambienti non propriamente - non esplicitamente - mafiosi. Come sarebbe stato possibile imporre una gestione di comodo a un assessorato o a un pubblico ufficio sapendo che una tale gestione sarebbe stato sottoposta, e non episodicamente, al controllo dell'opinione? Come sarebbe stato possibile salvare la libertà del capitalismo "selvaggio" di fronte a una magistratura solerte, in possesso di strumenti appropriati, e continuamente pungolata da libere voci? Come sarebbe stato possibile continuare a controllare lo stesso braccio "militare" dell'Organizzazione, se non si fosse stati in grado di garantirgli, oltre che l'impunità, anche il silenzio-stampa? Infine: rassegnarsi ad avere a Catania una sentinella e un nemico come all'altro capo dell'isola, e per la vecchia mafia - fu il giornale l'Ora, e per decine di anni; o attaccare il male alla radice, prevenire il nemico, stroncare il movimento antimafioso prima che possa condensarsi attorno ad una bandiera? Unico errore di valutazione: i tempi. Alla fine dell'83, il processo era ormai troppo avviato. Uccidere un uomo sarebbe servito a qualcosa nell'80, nell'81, forse ancora nell'82. Ma dall'autunno di Dalla Chiesa la coscienza popolare era oramai in crescita: non le era più indispensabile un uomo, o un gruppo di uomini. Come certi fiumi sotterranei che risgorgano molto lontano da dove li hai veduti immergersi, e son sempre gli stessi: così quei visi di studenti siciliani, quelli dei primi timidi temerari cortei dell'ottobre '82, li rivedremo improvvisamente a Catania il 6 gennaio 1984. Esattamente gli stessi, ma con più coraggio e più forza, e più speranza di vincere, perché un anno, in certe confluenze della storia, non va via invano. Ma questo, loro, non potevano saperlo. Aveva conosciuto, anche quel giorno, delle persone nuove ed aveva parlato con loro, imparandone qualcosa, probabilmente, ed insegnando loro qualcosa. La giornata era stata impiegata prevalentemente con sindaci di paese e con distratti assessori; qualcuno di loro, forse, avrebbe magnanimamente acconsentito a contrattare qualche centinaio di migliaia di lire di pubblicità - di quei pochi denari viveva l'impresa che faceva tremare la mafia. Lascia il giornale, quella sera, su una vecchia automobile prestata: perché la sua era davvero oramai troppo logora. Giuseppe Fava, scrittore, di cinquantanove anni compiuti, figlio di maestri di scuola e nipote di contadini, muore per il suo paese alle ore 22,20 del 5 gennaio 1984. IL VATE E IL POTERE Società Civile, 1987 Lasciamo perdere la letteratura, e vediamo i fatti. Borsellino. Sciascia mette sotto accusa la nomina del giudice Borsellino a Marsala perchè non ha abbastanza scatti di anzianità. In provincia di Trapani, negli ultimi tempi, sono emerse le piste più interessanti sui concreti rapporti fra mafia e politica: una loggia massonica di tipo piduista e una banca coi dirigenti mafiosi. Il trapanese è un crocevia importantissimo per gli equilibri mafiosi di alto livello; forse il più importante. Catanesi e palermitani vi operano con tutti i loro mezzi, tanto militari quanto finanziari. L'ultimo "professionista dell'antimafia" che ha cercato di Indagarci è stato il giudice carlo Palermo; minacciato, bombardato e infine costretto - non innocente il governo - a cambiare praticamente mestiere. Ora tocca a Borsellino. Del quale, dice Sciascia "nel momento in cui ho scritto nulla sapevo". Orlando. Non si tratta di generiche polemiche sul nongoverno. In questo momento, in Sicilia, il gioco politico è incontestabilemente nelle mani dell'onorevole Salvo Lima. Ha vinto le elezioni, sfrutta le fortune di Andreotti, è fortissimo nel partito. Adesso, nel momento in cui il Pci siciliano è allo sbando, scavalca tutti e propone alla Dc un'apertura ai comunisti. Il nome di Lima, come Sciascia sa, ricorre qualche decina di volte nei verbali dell'antimafia; adesso è quello del nuovo candidato alla guida del "rinnovamento" cattolico. Unico ingranaggio incompatibile, in questo meccanismo, è il sindaco Orlando: isolato, sotto tiro, scomodo per tutti, è nondimeno il segno di qualche cosa; bisogna passare su di lui prima di dar corso ufficiale alla restaurazione. E Sciascia individua in Orlando, qui e ora, il politico da contrastare. E' suo diritto, naturalmente; e anche di Lima, del resto; ognuno fa politica come può. Che "Sciascia non fa politica, d'altra parte, è un mito da sfatare. Adesso, per esempio, Sciascia fa sapere di avere il sostegno di quei sindacalisti palermitani che da tempo cercano di opporre all'incontrollabile" (e indipendente) coordinamento antimafia un loro più malleabile comitato concordato fra le forze politiche ufficiali. Processi. I processi alla mafia andranno, probabilmente, allo sfascio; non per una qualche metafisica "mostruosità giuridica" ma perché, più semplicemente, si sarà infine riusciti a impedirne il regolare svcolgimento. A Messina, fra imputati, legali e testimoni, i morti ammazzati sono già mezza dozzina; a Palermo si è bloccato il processo per ottenere la lettura in aula di tutti gli atti: ma una volta ottenutala... gli atti sono stati letti in mezzo a un'aula deserta. Garantismo? Furberia da piccola pretura? Mah. D'altronde, sono tattiche difensive giustificabili, probabilmente, sul piano del rapporto professionale fra l'avvocato e il cliente, che paga e vuol essere ben servito; soltanto, non ci sembra il caso di proporle come modelli di civismo e democrazia. Democrazia. Per quanto strano, qualche po' di questa merce, in questi anni feroci, è attivato perfino in Sicilia. Gli studenti che hanno fatto i cortei (ma: "i ragazzi bisogna lasciarli a scuola" ammonisce Sciascia) hanno imparato, perlomeno, che la cosa pubblica attiene a ciascuno di noi; qualche professionista ha pur rischiato la pelle per svolgere onestamente la sua professione; qualche giornalista ha pur stampato per quattr'anni a duecentomila al mese per poter scrivere senza censure; una donna qualunque è pur andata, in feroce solitudine, al tribunale per denunciare peraltro invano - gli assassini di suo marito; duecento cittadini comuni insultati da Sciascia, guardati con sufficienza dalla sinistra perbene, denunciati alal mafia dal Giornale di Sicilia - hanno pur trovato il coraggio, vivendo a Palermo, di essere il Coordinamento Antimafia. Questa è la democrazia, cari amici milanesi, una democrazia per cui si può anche morire in Sicilia, come in Polonia o in Cile. Perché in Sicilia, purtroppo, oggi come oggi c'è ben poco da garantire; la Costituzione, qui, non ha mai avuto vigore se non nei discorsi ufficiali. Unico potere reale: i Rendo e i Lima. Unica reale opposizione: i movimenti antimafiosi. Certo, è una democrazia, la nostra, che Sciascia non può comprendere. "I ragazzi a scuola!". Certo: e i preti a dir messa, e i sindaci chiusi in municipio, e i cittadini tranquilli, e le donne a casa; ciascuno al proprio posto, nella migliore delle Sicilie possibili. E i giudici? I giudici a farsi i loro processi in santa pace, lontani da ogni curiosità indiscreta: "non resta che applicare il pieno e intero segreto istruttorio. La rescissione di ogni legame, a parte le eventuali conferenze stampa fra giudici e giornalisti...": il regime, insomma, nel nome delle garanzie; e al più con qualche mafioso "all'antica", alla don Mariano Arena, raccontato in pensose pagine al pubblico italiano. Non c'è una lapide, in Sicilia, non una piccolissima piazza che ricordi, tanto per dirne una, uno scrittore come Giuseppe Fava; anche lui siciliano come Sciascia, ma in ben diverso rapporto col potere mafioso; ucciso, e dimenticato. Per Sciascia, il potere s'è mosso, e con molto senso della tempestività: fra le molte istituzioni della Regione siciliana da ora ci sarà anche una Fondazione Sciascia, inaugurata in pompa magna dai rispettabili esponenti del buongoverno siciliano. Sarebbe interessante studiare come mai tanta parte della letteratura italiana finisca, prima o poi, in feluca; e come mai il dannunzianesimo - il giudizio apodittico, la superficialità nel dar rapido conto di ciò su cui altri travaglia la vita, la facilità a dar dell'asino o del criptocomunista al diversamente pensante - abbia ancor tanto corso tra l'ufficialità intellettuale del Paese, e come mai soprattutto i problemi più seri da noi finiscano regolarmente in letteratura da terza pagina, in intrattenimento televisivo, in "spettacolo" culturale. Perché insomma in Italia, prima o poi, le questioni controverse finiscano sul tavolo del Vate Nazionale di turno, ex garibaldino o ex futurista o ex illuminista che sia. Una cosa soprattutto ha destato scandalo nel comunicato del Coordinamento antimafia di Palermo (quello "ingenuo", intendiamo, quello da cui era cosi' "facile" dissociarsi), il fatto che fosse stato redatto da due studenti e un commerciante: gente ordinaria, ohibò!, certo strumentalizzata, ma da compatire. A me va benissimo che a prendere la parola, oltre ai Grandi Intellettuali di turno, siano anche gli studenti e i bottegai; specialmente quando rischiano ogni giorno la pelle in una città tradita. Mi piacerebbe se la sinistra civile su questa e su altre questioni desse loro, umilmente, qualche po' di attenzione. L'ESPERIENZA DEI SICILIANI 1987 Parlare di esperienza ha il tono d'epitaffio, cioè è stata una cosa bella, simpatica, coraggiosa, che adesso si può mettere tra due fogli d'album e si conserva. La storia dei Siciliani è una storia segnata da profonde immaturità e da grandi debolezze perché eravamo pochi, periferici, e ci siamo trovati d'improvviso in un mare che non era il nostro, con problemi specifici locali, Catania non è Palermo, da certi punti di vista è peggio, da altri punti di vista la vicenda è stata come un'esplorazione che vale per tutti, io credo, e che ha acquisito un salto di qualità in quella che io sono stufo di chiamare "lotta alla mafia", che in effetti è anche lotta per qualche cosa. E per che cosa? Ecco, la storia dei Siciliani è anche in questa domanda: qual'è l'alternativa, l'obiettivo, storico, non arbitrario, non derivante dalla fantasia o dagli studi elitari di qualcuno, ma scaturente dalla struttura della società, qual'è questo salto di qualità che, in qualche modo, può servire da orizzonte? Naturalmente noi non abbiamo mai teorizzato, il tempo delle teorizzazioni è passato, è abbiamo cercato di mettere insieme tanti frammenti, tanti pezzetti d'esperienza, tante ipotesi, verificate o no. La prima fotografia è quella di una sera come tutte le altre, con Antonio che ha appena finito il suo pezzo e si alza per andarsene via, con Claudio che sta dicendo qualcosa a Garilli, il nostro tipografo, quarant'anni di lavoro a Milano, è tornato perché voleva fare qualcosa in Sicilia, Lillo che, come al solito, sta litigando con l'altro tipografo, Miki sta facendo ancora un pezzo, il direttore è arrivato verso le otto, contento perché ha strappato dal sindaco di un paesino un contratto pubblicitario di 150.000 lire, che avrebbero pagato nel giro di un mese: eravamo felici, perché, facendo i conti, quel mese avremmo avuto quasi un milione e duecentomila di pubblicità: in quel momento è entrata la fotografina, che era stata col direttore a fare queste foto pubblicitarie, io ero scocciato, non ricordo per quale ragione, c'era Antonio sulla porta, "be', mi dai un passaggio, be', ci vediamo domani allora". La telefonata è arrivata alle dieci e mezza e, in questi casi, credo che la fisiologia dell'uomo ha le sue salvezze. Alle undici mi trovavo a fare il mio mestiere di cronista di nera e a rilevare distanze, a ricostruire traiettorie, a parlare con i testimoni, con i poliziotti; alle undici e un quarto eravamo all'ospedale, molto calmi, c'erano delle cose da fare. Verso l'una e mezzo di notte ci siamo ritrovati, senza darci alcuna indicazione, perché la sede ci faceva paura, a casa di una nostra amica, la signora Roccuzzo, che ha preparato il tè per tutti, e abbiamo cominciato a discutere: Lillo Venezia ha detto che bisognava uscire subito, qualcun altro ha detto "in sede alla redazione domani alle nove e mezzo". L'indomani trovammo davanti alla sede un gruppo di ragazzi di un paesino in cui c'era la nostra tipografia, che erano venuti per fare la "diffusione militante" del giornale. Non sentivo da parecchi anni la parola "militante", ero venuto a Catania per fare il borghese, non il rivoluzionario e alcuni meccanismi mentali si sono messi in moto: fare il giornale, organizzare la "diffusione militante", mandare subito qualcuno nelle scuole dove i ragazzi avevano le assemblee in corso. Un'altra fotografia potrebbe essere la nostra Cettina, che era a capo delle fotocompositrici, che piangeva e teneva in mano la strisciata delle fotocomposizioni, e così via. Uscita l'edizione straordinaria ci siamo trovati in una situazione che avevamo previsto molte volte, contro la quale nessuno di noi aveva la minima obiezione sul piano dell'analisi, è ovvio, siamo a Catania, c'è la mafia, la mafia ammazza, può capitare anche a noi, è nelle regole del gioco. Però una cosa è pensarlo, altra cosa è trovarsi improvvisamente immersi in una realtà che fa saltare ogni precedente punto di riferimento, impone per forza, a calci nel sedere, di cominciare a ragionare in modo radicalmente diverso. Alcune delle scelte fatte allora, non come scelte del momento, ma come scelte della realtà e come le uniche cose da fare in quel momento, erano scelte che, viste adesso, a cinque anni di distanza, hanno del miracoloso e sono come l'eredità che noi lasciamo al resto del movimento antimafioso. A partire da quel momento la redazione si riunì ogni giorno, per tre quarti d'ora circa, per le riunioni operative, a turno qualcuno organizzava la scaletta con i punti da trattare, si davano gli incarichi, poi si riferiva sugli incarichi del giorno prima, nel modo più naturale, senza che dovessimo obbligatoriamente schierarci per una posizione o per un partito. Nei primi giorni ci trovavamo totalmente isolati e ci siamo resi conto che non potevamo fare marcia indietro, che eravamo ormai troppo avanti e che l'avversario era estremamente potente, quindi dovevamo avere l'obiettivo immediato di moltiplicarci il più possibile, di esplodere, di non essere più giornale, ma di diventare, in tempi velocissimi movimento di massa. Come fare? Non eravamo politicizzati come gruppo, eravamo un giornale, non volevamo cadere nell'orbita ideologica di qualcuno, per motivi difensivi, dovevamo elaborare un'"ideologia" con obiettivi strategici intermedi e non ci aiutavano molto i libri, ma i ragazzini con cui parlavamo nelle assemblee nelle scuole eccetera. Nel giro di tre-quattro mesi si organizzò un mod di pensare molto caratteristico, basato sulle riunioni operative e su piccoli gruppi, non c'erano più di due o tre persone a fare la stessa cosa, con l'individuazione di una serie di obiettivi che centravano i punti di maggiore contraddizione di una società mafiosa. Nostri interlocutori erano i ragazzi delle scuole, che non avevano il problema del posto o del lavoro, ma intendevano lottare per qualche cosa di più, una realizzazione della vita, una realizzazione di noi stessi: si trattava di una situazione emozionalmente molto alta che saltava i passaggi intermedi: il lavoro serve ad avere una sicurezza, una vita serena, mentre il ragazzino di liceo percepiva che si poteva essere immediatamente felici, che si poteva cercare immediatamente la sicurezza, che si potevano cercare subito alcune cose, non dopo il diploma o dopo il posto di lavoro, che si poteva avere molto senza bisogno di chiederlo a nessuno. Si formò così il movimento per i Centri Giovanili Autogestiti: si trattava di ragazzi che cercavano di aggregarsi intorno ad attività inventate sul momento. Grazie al lavoro della sinistra ufficiale non riuscimmo a conseguire l'obiettivo di occupare alcuni spazi, stabilimenti industriali abbandonati, perché questi locali erano già nell'ottica di, non vorrei usare la parola "intrallazzo", di un'operazione in cui doveva entrare l'Arci, un architetto di sinistra, che non andò mai in porto, ma sufficiente a mobilitare tutti contro il nostro tipo di progetto. Un'altra situazione contro cui ci trovammo a cozzare fu questa: sì, lottiamo contro la mafia, ma qui a Catania i mafiosi sono importanti, hanno le fabbriche, hanno i posti di lavoro in mano, e se acchiappano i mafiosi, che cavolo facciamo, le fabbriche chiudono e tutti a casa, discorso non di un professore, ma di una ragazzina, Sabina, figlia di un operaio di questi: rispondemmo elaborando una proposta alternativa, quella dell'utilizzo popolare dei beni mafiosi sequestrati, che dovevano essere posti sotto controllo di un organismo apposito e utilizzati per mantenere e aumentare l'occupazione. Questi due obiettivi, centri popolari autogestiti e utilizzazione alternativa dei beni mafiosi poi, due o tre anni dopo, divennero oggetto di conferenze, incontri, dibattiti della sinistra ufficiale, la Fgci, a fase conclusa, fece un bel documento sui centri giovanili e il Pci cominciò, timidamente, a parlare di utilizzazione alternativa, ma nei sei mesi in cui questi obiettivi cominciavano ad aggregare forze, il ruolo della sinistra organizzata fu di netta e intransigente opposizione. Nella nostra storia abbiamo fatto da collettore, da canale catalizzatore, ma non erano nostre né le idee né la spinta che queste idee riuscivano a raccogliere: il solo nome dei Siciliani riuscì a coagulare, per un anno e mezzo circa una diversa sinistra che si basava sulla contraddizione reale esistente a Catania, tra il potere mafioso e la grande massa di coloro che da questo potere erano espropriati. L'Associazione dei Siciliani, sorta parallelamente intorno al giornale, con intenti molto modesti, di aiutare materialmente la diffusione, si trasformò rapidamente in un'avanguardia politica che diventò un interlocutore ricercato dai partiti: ne facevano parte svariate persone, alcuni venivano dagli autonomi, altri erano liberali, altri comunisti in servizio permanente effettivo, altri cattolici: nel giro di pochi mesi queste componenti si erano omogeneizzate su ipotesi concrete, non tanto per la forza della nostra proposta, quanto per la debolezza delle proposte di partiti ufficiali. Ripensando a quegli anni ho una grande rabbia e un grande rimpianto: la rabbia è quella che, con il senno del poi, mi ispira la condotta della sinistra ufficiale, quasi mai d'appoggio, qualche volta di sabotaggio, in ogni caso d'incomprensione totale; gli intellettuali che si raccolsero intorno all'ipotesi ebbero due tipi di comportamento, alcuni rimasero sino alla fine insieme a noi, quelli di sinistra, che non avevano mai fatto politica attiva eccetera, altri invece, alla prima possibilità, utilizzarono il peso nuovo acquisito individualmente, per precipitarsi in quella o questa soluzione di partito, molti in buona fede, ma con il risultato di bloccare lo sviluppo di un movimento a Catania, senza che nessuno peraltro riuscisse poi a spostare alcunché all'interno del palazzo in cui era entrato con il famoso obiettivo "cambiare dall'interno". Sotto l'aspetto professionale I Siciliani erano già qualcosa di estremamente anomalo: il gruppo giornalistico nasce intorno al 1980, come gruppo dei cronisti del Giornale del Sud, con la precisa caratteristica della libertà d'iniziativa: non eravamo molto ortodossi come giornalisti, eravamo molto liberi nell'espressione, dopo una serie d'inchieste sulle carceri passammo per il "giornale della malavita", ed eravamo disponibilissimi a valerci delle fonti più svariate, per ultime quelle ufficiali; peraltro invece le esigenze del direttore erano ferocissime, l'orario di lavoro, teoricamente seisette ore, era assolutamente libero, ma per acquisire il fondamentale diritto di andare la notte in pizzeria, bisognava non andare via dal giornale prima delle due di notte. Il giornale avversario era La Sicilia, il giornale dei cattivi, noi eravamo i buoni e non potevamo permetterci la minima svista, bisogna spesso creare la notizia, o far diventare notizia il crollo di un cornicione via Palermo 234, il direttore ci tirò fuori due pagine e mezzo bellissime perché la signora cui era caduto addosso il cornicione era la moglie di una guardia notturna, licenziata giorni prima per intrallazzi nella sua ditta, a pianoterra abitava un ragazzino arrestato pochi giorni prima per un furto, a sua volta "sciarriato" con il cognato per una storia di giornaletti pornografici rubati, insomma siamo stati su questa storia per quindici giorni scrivendo cose molto belle. Fummo licenziati tutti quando il direttore cominciò a fare campagna contro la base di Comiso ed io contro Ferlito; ai Siciliani fu più dura, perché non avevamo una struttura organizzativa alle spalle, si andava col biglietto d'andata per fare un'intervista, non si parlava d'alberghi o rimborsi, e tuttavia c'era questa forma di autodisciplina che ci spingeva a cercare e scrivere una cosa che nessun altro al mondo aveva. Non ci sentivamo, a partire dal direttore, dei grandi giornalisti e forse non ci sentivamo neanche dei giornalisti, ci sentivamo dei portavoce, gente che facesse un lavoro, diciamo per conto di qualcun altro: a questo buon mestiere ci siamo aggrappati soprattutto dopo il 5 gennaio 1984, lasciando entrare in dialettica, a nostra insaputa, due cose differenti, da un lato un livello molto alto di efficienza tecnica, le notizie erano buone e non sono mai state smentite, dall'altro la necessità pressante di uscire dal ghetto, di essere punto di riferimento. Su questo abbiamo commesso infiniti errori, per lo più di timidezza nella campagna per la legge La Torre o nella vicenda dei Siciliani giovani, nato con un'assemblea di venti ragazzi, che alla seconda assemblea erano diventati una sessantina e successivamente riuscì a coinvolgere 320 ragazzi. Eravamo molto forti su alcuni terreni, molto meno su altri, sul piano politico avevamo molta spinta, ma poca consapevolezza, e avevamo una fiducia smisurata nei cosiddetti intellettuali della sinistra catanese, nel Pci, nei sindacati, nella Lega delle cooperative: non erano l'ideale, ma altra cosa dalla Democrazia Cristiana, vuoi mettere? E tuttavia le delusioni erano frequenti. Questa situazione è durata per quattro anni, sino a quando non ci siamo trovati davanti a una scelta: o arroccarsi nel mensile, che andava bene, oppure giocare la carta del settimanale popolare, dove tutti potessero scrivere: abbiamo fatto tardi questa scelta, quando eravamo ridotti in pochi, isolati dalle forze politiche ufficiali. Era un brutto giornale sotto molti aspetti, fatto con mezzi deboli e in fretta. Per quanto riguarda la lotta alla mafia abbiamo portato, la realtà ci ha portato dei contenuti specifici, come nel caso dei "cavalieri di Catania": da quando I Siciliani hanno cominciato a lottare, Rendo non è stato più il grande industriale progressista, la gente non ci crede più. C'era a Catania, non solo nel Pci, questa solida convinzione: Catania è una città miserabile, africana, messicana, brasiliana, con i contadini col forcone, con Brancati, le donne vestite di nero, e quindi, giustamente, ci vuole la rivoluzione industriale, la borghesia moderna, ci vuole Rendo, non per un fatto di corruzione, ma per l'incapacità di elaborare un'analisi specifica sulla Sicilia, e così la maggior parte dei giornalisti del giornale di Rendo è iscritta al Pci. I "cavalieri" rappresentano una forma di potere mafioso, secondo me "ultima": la tipologia dei "cavalieri" catanesi, il tipo di potere, il tipo di rapporto mafia-politica si è sviluppato più tardi e più lentamente che a Palermo, in una situazione più moderna, più metropolitana: Rendo è meno classico, meno radicato, ma molto più grosso di un Cassina, per esempio, opera con tipologie differenti. Un secondo contributo è stato quello del rapporto tra mafia e poteri occulti, per esempio la Massoneria, non privo di connessioni con il primo. Un terzo contributo, troncato dalla chiusura del giornale, è quello del rapporto "nuovo" tra mafia e politica: il rapporto tradizionale era di corruzione, nel senso che era il mafioso a corrompere il politico, il rapporto nuovo può essere inteso in senso opposto, cioè lo stato corrompe la mafia, ossia lo stato ha suoi interessi specifici, ad esempio l'intervento in un determinato scacchiere politico, tramite la fornitura di armi e si serve di strumenti adatti, tra i quali può esserci qualche gruppo mafioso, collegato con l'imprenditorialità, cosicché il rapporto tra mafia e politica, le contraddizioni che ne conseguono, si spostano a livelli più alti, per cui, mentre ieri potevamo dire che il politico mafioso è Lima e che Andreotti è mafioso in quanto protettore di Lima, oggi possiamo dire che il politico mafioso è Andreotti e che Lima è mafioso in quanto dipendente da Andreotti: diciamo che la mafia non è più un fatto parassitario dentro lo stato, ma tende ad inserirsi nel centro dello stato e, in taluni aspetti, a coincidere, quasi meccanicamente, con esso. Come in tutte le storie, diciamo pure come va a finire: I Siciliani non escono più da un anno e mezzo, è in corso una trattativa con la Lega delle Cooperative per fare un consorzio e rilanciare il giornale: alla fine il consorzio è stato fatto, ma con i "cavalieri" e non con noi e per tutte altre storie, per cui, proprio in questi giorni è partita una lettera di denuncia di questa trattativa; nel frattempo a Catania il giornale padronale, La Sicilia, ha cambiato direttore e ha cambiato il carattere delle testatine: questo è stato sufficiente a convincere i compagni perbene che La Sicilia era cambiata; il Pci sta facendo a Catania una buona campagna elettorale, con una bella lista, e con un programma in cui c'è la mafia a pagina uno, per dire che i commercianti sono incazzati per via delle estorsioni, e poi, da pagina due a pagina 143 un elenco di belle cose da fare. E' più o meno la nuova linea politica della Democrazia Cristiana, che non dice più a Catania che la mafia non esiste, che non bisogna fare indagini sui "cavalieri", non spara più, il capolista è un signore perbene che fa parte del consiglio superiore della magistratura, tutto ritorna normale e si propone un grande patto con dentro il Pci: La Sicilia fa le lodi dei comunisti, i quali fanno le lodi de La Sicilia, è arrivato il pluralismo e anche nella stampa, perché non c'è più il giornale di Costanzo, ma anche il settimanale di Rendo, I Siciliani sono spariti, Antonio sta facendo un articolo per Il Manifesto, e forse glielo pagano, Claudio è appena tornato dal Sud-America, dove ha cercato di raccogliere qualche cosa, Miki neanche questo, io sono qui, Elena ha abbandonato il mestiere e sta facendo le supplenze, ogni tanto ci si vede e si chiacchiera: ci siamo dati appuntamento tra un anno, le idee sono tante e belle, siamo abbastanza ottimisti, e adesso sappiamo come si fa un giornale in Sicilia, cioè coinvolgendo centinaia di persone che giornalisti non sono, sappiamo che un giornale in Sicilia non ce lo farà nessuno e che potrà spuntare se un organismo collettivo, non legato al "palazzo", si porrà quest'obiettivo in tempi lunghi, lavorando intanto per realizzarlo senza sperare in vie di mezzo; sappiamo anche che dall'aspetto tecnico si possono fare molte cose e con pochi soldi attraverso i computers. Quando abbiamo iniziato I Siciliani ci siamo indebitati per circa 250 milioni, comportandoci da milanesi, rispetto a furbi milanesi che si sono comportati da catanesi: gli stessi materiali, con la stessa funzionalità, adesso si potrebbero trovare per 60 milioni. Infine, sul piano dell'esperienza di mestiere, per una volta voglio ricordare persone di cui nessuno parla, Miki Gambino, il miglior cronista di nera in Sicilia, il nostro fotografo, Nuccio Fazio, la fotografina Giusi Spampinato, la nostro compositrice Cettina, adesso a Milano perché non ha più trovato lavoro, Mario Sparti, il nostro tipografo, il prof. D'Urso, il primo in Italia a intuire il rapporto tra logge massoniche e mafia. Insomma un'esperienza come la nostra ha coinvolto tante persone ed ha lasciato in ognuno qualcosa: io penso che saranno loro a girare la prossima puntata. LETTERA A UN DIRIGENTE COMUNISTA 1988 Caro * * * le mie critiche - fra compagni - al vostro lavoro riguardano essenzialmente quattro punti, che vorrei cercare di esporti. 1. Quanti sono i cavalieri? Solo Graci, Costanzo e Finocchiaro, oppure anche Rendo? Non è una questione da poco. Eppure, io temo che non siano molti oggi i vostri compagni in grado di rispondere in maniera univoca a questa domanda. I motivi sono molti e non necessariamente deplorevoli: un aspetto molto positivo della tradizione comunista è la tendenza a disaggregare l'avversario, a non considerarlo monolitico. E, nel momento in cui tu e Adriana siete in scontro diretto coi tre, e la linea su Graci e Costanzo è d'attacco, si potrebbe anche pensare a dei nemici da attaccare subito, e altri in un secondo momento. Ma la faccenda è diversa. Io temo fortemente che salvare Rendo ("democratico", "costretto", "con cui si può ragionare") sia l'equivalente attuale della ideologia di appena dieci anni fa, secondo cui i cavalieri ("moderni" rispetto agli agrari o ai Massiminio) erano l'equivalente locale della famosa borghesia produttiva, oggettivamente interessate al cambiamento, con cui si può utilizzare se non un'alleanza quanto meno una temporanea convergenza d'interessi. Quel modo di pensare allora portò al disastro, e aprì i varchi a un compromesso più strutturale che praticamente tagliò fuori il Pci catanese da ogni possibilità d'opposizione. Ieri i cavalieri nel loro complesso, e oggi Rendo (e Ciancio, e Conservo ecc.)? State attenti. Voi oggi vi state finalmente battendo, e hai visto che già non è facile portare il partito contro Costanzo: ma non lasciate questa mina vagante sulla vostra rotta, perché non potreste gestirne in alcuna maniera le conseguenze di medio e lungo periodo. Io sono a Catania da nove anni: all'inizio litigavo con voi perché non volevo la pubblicità di Costanzo alla festa dell'Unità; e poi dagli altri cavalieri, e poi di Rendo. Certo, il tempo passa, ma vorrei che passasse più in fretta. Scusa le cattiverie. Il fatto è che voi in questo momento non avete affatto una linea chiara e inequivocabile su Rendo, e sono in molti ad avere interesse che possibilità d'equivoco ci sia. E' chiaro l'orientamento del nuovo (radicato?) gruppo dirigente catanese. Non lo è affatto quello dell'area comunista (professioni, cooperative, sindacato) nel suo complesso, senza il quale ci si salva l'anima individualmente ma non si fa peso. 2. Io non vi accuso di farvi pagare la sede da Costanzo. Mi piacerebbe, perché in tal caso la faccenda sarebbe relativamente facile da sanare - un problema "di polizia", non politico. Purtroppo, il problema è invece di struttura. La grande maggioranza del mondo delle professioni catanese - in cui il vostro ceto dirigente è inserito quasi interamente - era dieci anni fa, e in misura notevole è tuttora, del tutto organica al sistema di potere dei cavalieri. Non nel senso di una corruzione spicciola, che in alcuni casi non poteva mancare ma che è patologia. Ma nel senso di una sostanziale identificazione del proprio status professionale e sociale con l'implicita accettazione del regime vigente - che qui, per avventura, è mafioso. Questo non appartiene più alla patologia del sistema, ma alla sua fisiologia; e richiede quindi, per essere contrastato, interventi molto più consapevoli, "esemplari" e radicali. A me non interessa affatto se un professor Barcellona, come suo otium, produca uno o più poemetti di filosofia rivoluzionaria: anche i nostri baroni del '700 erano spesso "illuministi" (ma sul feudo facevano i baroni). M'interessa semplicemente che prenda posizione contro il giornale dei padroni, o perlomeno che non faccia danno. A me non interessa che un avvocato, un architetto, un giornalista "scendano in piazza contro la mafia"; m'interessa quel che fanno in ciascuno degli altri trecentosessantaquattro giorni come avvocato, come architetto, come giornalista. Chi sono i loro clienti, per chi e cosa lavorano, chi li paga - non di notte al bar del porto, ma alla luce del sole e nell'esercizio delle loro funzioni. Ma la neutralità del tecnico, ma il proprio privato, ma la professionalità... Tutte cose sante e benedette. Però nel trentasei un comunista non avrebbe costruito la villa di un Farinacci. Intanto, non gliel'avrebbero chiesto; e poi il partito l'avrebbe comunque espulso, col massimo della pubblicità consentita dalle circostanze. E anch'io faccio il professionista: ma so scegliermi i miei clienti. Certo, non è agevole: la struttura sociale, qui, non lascia molto spazio fra integrazione ed emarginazione. Ma non sono stato io a inventare Catania. E nessuno è tenuto a fare il comunista se non se la sente. A Bronte c'erano i "berretti" e c'erano i "cappelli"; e c'erano i borbonici e c'erano i liberali. I "cappelli" liberali parlavano molto bene, ma i contadini intuivano che il notaio prima è notaio e poi è liberale: come potevano credere nella "Talia"? E' questo il nocciolo del problema. Non è un problema "comunista" e neppure propriamente "politico", ma semplicemente una questione di classe. Nella sinistra catanese, a un certo punto, è diventata opinione comune (favorita dalla particolare ideologia di cui s'è detto sopra) che fosse possibile e comunque tollerabile servire contemporaneamente l'opposizione e i cavalieri. Su questo "senso comune" (di classe!) si è innestato il decennio di compromesso fra area comunista e cavalieri. Compromesso strutturale, non culturale. Io credo, adesso, alla vostra volontà di rimuoverlo. Ma questo si può fare, solo in maniera traumatica: il genero di Breznev non è stato allontanato alla chetichella, ma è finito in galera. L'esempio del caso Leone, in questo quadro, è illuminante. Io vi avevo pur passato la palla buona: voi avreste potuto riprendere in maniera altrettanto felice l'iniziativa: avevate le carte per un gesto clamoroso, utile, vincente. Avete preferito lavare i panni sporchi in famiglia, nell'ingenua convinzione del minor danno. Leone, naturalmente, alla fine è passato ai craxisti, gestendo lui fino all'ultimo il proprio rapporto col partito: prima vi ha usato stando con voi, poi lasciandovi; il danno per il partito, prima e dopo, è stato incalcolabile. Io pezzo isolato, prima l'ho contrastato come infiltrato, poi vi ho dato modo di liberarvene; voi abili dirigenti di partito prima l'avete lasciato fare, poi non siete stati capaci di ricavare almeno il vantaggio politico della sua espulsione. Non è ozioso aggiungere che i miei interventi su Leone, e su altro, io li ho pagati. Prima, quando attaccavo Leone, facendovi la nomea di rompicoglioni presso il gruppo dirigente (non innocente) del partito; e ora, quando "ho sbattuto sul tavolo di Colajanni" le carte che vi avrebbero dovuto indurre a espellerlo, attirandomi l'ostilità dei vecchi dirigenti e dei nuovi. Tu sai che Mancuso, a Palermo, si sentì apostrofare "Ma perché appoggiate quel mascalzone di Orioles?" da una vostra autorevole esponente? Sai che Rizzo minacciò la crisi se orlando avesse dato corso al suo progetto di farmi fare un giornale? E che fino a due mesi fa dirigenti meno autorevoli del partito palermitano hanno fatto pressioni molto serie nello stesso senso? Io ho perso l'ultima occasione di restare in Sicilia, perché alcuni dirigenti del partito comunista palermitano lo hanno impedito, o hanno concorso ad impedirlo: non accuso il partito per questo, ma gl'individui sì, politicamente e moralmente. E mi scuso di aver tirato in ballo una questione "personale", ma è una questione politica anch'essa, e non va rimossa. 3. Sul terzo punto - che diamine sperate di ricavare schierandovi con La Sicilia - non presumo di riuscire minimamente a scalfire le vostre certezze e desidero solo lasciare una testimonianza a futura memoria, per quando il prevedibile svolgersi degli avvenimenti vi chiarirà il vostro errore meglio di mille discorsi. Voi in questo momento siete molto commossi dal fatto che la Sicilia non protegge più i mafiosi del plotone fucilieri, e ne ricavate le stesse irrazionali aspettative di dieci anni fa: finalmente La Sicilia è cambiata, adesso c'è almeno un po' di democrazia da gestire, ci saranno degli spazi là dentro anche per noi. Illusioni. I padroni de La Sicilia sono sempre Ciancio e Costanzo, e nessuno di loro è un editore puro. Essi non potranno mai dare uno spazio reale a delle battaglie di opposizione; lo darebbero - e di fatto lo danno - solo a passatempi inoffensivi; e in questo caso, farebbe loro comodo che fossero targati Pci, primo perché inoffensivi e secondo perché utili a dar loro il mezzo di mostrarsi "democratici" e "pluralisti". Ma sulle cose serie, come comunisti, non vi accetteranno mai: il giorno che vi accetteranno, vorrà dire semplicemente che avrete cessato di essere tali. Fate pure, comunque, le vostre esperienze. Evidentemente, bisogna che percorriate fino in fondo questa strada: perché è la strada facile, e voi qui non avete lo spessore storico per ipotizzarne un'altra. Ci sono dei giornalisti, fra voi, e alcuni hanno pure ancora l'età in cui si possono investire alcuni anni della propria vita su una bella avventura. Vi siete mai chiesti come mai ci sia voluto un gruppo "anomalo", esterno al partito, per intuire che a Catania bisognava fare un altro giornale? E' possibile che, non dico come opposizione, ma almeno come partito, non sentiate il bisogno di spazi d'informazione vostri, che non comprendiate quanto sia precario e perdente ritagliarsi angolini nella stampa del padrone? Ma davvero c'è ancora bisogno di ripetere queste cose? Io mi chiedo ancora, e non riesco a farmene una ragione, quali possano essere le radici di una situazione penosa come quella delle assemblee di dicembre in cui una vostra ottima militante - seria, colta, impegnata - con ogni studio cercava di salvare La Sicilia di Ciancio. "Il monopolio dell'informazione della Sicilia di Ciancio e Costanzo..." Della Sicilia di Ciancio. "Il monopolio dell'informazione della Sicilia di Ciancio...". Della Sicilia e basta. "Il monopolio dell'informazione della Sicilia..." Non potremmo mettere il monopolio dell'informazione e basta? Su un episodio del genere, io sono stato male, perché per me è stato un campanello d'allarme. La compagna che esprimeva là quelle posizioni aveva tenuto botta bene, negli anni più duri; su La Sicilia di Ciancio, aveva fatto interventi, opuscoli e parte d'un libro. E ora eccola là a difendere, in buona sostanza, quelle posizioni. Come ci si è potuti arrivare? E' solo colpa sua? Io credo che ci sia molto da riflettere, prima di poter dare una risposta. Ho sempre a distinguere, nella vicenda delle trattive per I Siciliani, le responsabilità della Lega (e anche qui: la nazionale dalla catanese; in dubio pro reo) da quelle del Pci di Catania, che si è schierato dalla parte nostra. Ma nei vostri documenti, nei vostri interventi da sette mesi a questa parte, I Siciliani sono spariti del tutto e c'è invece, a tutto campo, La Sicilia di Milazzo. Voi forse non ve ne sarete accorti, ma mezza dozzina di giornalisti in qualche modo vostri sono spariti da Catania; e ve ne andate mendicando le benevolenze del direttore di Ciancio. Io mi sforzo molto di trovare una qualche razionalità, un qualche abbozzo di metodo in questo vostro atteggiamento; ma non ci riesco; e non posso, e malvolentieri, che attribuirlo a superficialità politica e a una forte sottovalutazione, da parte vostra, di voi stessi. Non credo sia facile far comprendere ad altre persone come alcuni di noi hanno vissuto questa fase del "problema dell'informazione" a Catania. Voi del Pci vi battevate per noi in corridoio di Lega, ma intanto rimuovevate dai vostri documenti politici, la nostra esistenza, vi schieravate - nel settore specifico - con Ciancio e Milazzo, e quanto a linea politica antimafiosa, precipitavate esattamente in quell'unanimismo che noi (prima e dopo Giuseppe Fava) abbiamo sempre cercato di denunciare. Le trattative; ci veniva chiesto passo dopo l'altro di rinunciare al direttore, di cambiare linea politica (ricordo ancora le discussioni su "troppo cavalieri"), di partire dall'idea di prendere o lasciare, di restar fuori - come Siciliani - dalle trattative fatte dalla Radar; ci venivano cestinati promemoria e preventivi professionali costati tempo, soldi e fatica e ci venivano sprezzantemente gettati davanti ("prendere o lasciare") preventivi abborracciati alla meglio da "eccelsi professionisti", roba che ignorava persino l'esistenza dei computer; ci si faceva capire in tutte le maniere che la nostra esperienza politica era nel migliore dei casi folle, e le nostre professionalità alquanto da verificare. E noi, in buona sostanza, sottostavamo a tutto questo. C'eravamo opposti a Rendo e Costanzo, avevamo combattuto, rischiato la vita, organizzato, fatto un giornale esemplare con mezzi inesistenti e ora dovevamo accettare la lezione dei burocrati di Catania, di Palermo, di Roma. Quante volte, del resto, questo si era già visto nella storia! Quanti garibaldini di fronte ai generali piemontesi, quanti ex-partigiani di fronte ai compagni "responsabili"! E d'altronde, avevamo perduto la nostra guerra; e dovevamo accettare. Perché sentivamo il dovere quasi religioso, profondo, di salvare perlomeno il salvabile, di non permettere che un'esperienza com questa andasse dispersa senza lasciare traccia. "Fondatore Giuseppe Fava": non hai idea della responsabilità, e del peso, che queste parole possono comportare, e dei rischi a cui ci si può sottoporre per esse, e delle pene, e delle umiliazioni. Due anni e mezzo di trattativa. E in due anni e mezzo, mese per mese, cercare di resistere e di riorganizzare qualcosa, e vedere intanto con terrore i compagni che (non per loro colpa) cominciano a sbandarsi, e nel frattempo fare letteralmente la fame, cercare di "sopravvivere in qualche modo a un maccartismo; non essere ing rado, restando qui in Sicilia, neanche di curare i propri cari; e restare lo stesso, in nome di un dovere. E dopo tutto questo, venire a sapere che in tutto questo frattempo la Lega - I Siciliani, gli emiliani, Roma: ci sarà tempo per analizzare le singole colpe - faceva affari con i cavalieri! Ti riesce difficile comprendere perché uno, a questo punto, decide - alla disperata, per fargliela almeno pagare - di dare battaglia? E tu, cos'avresti fatto al mio posto? 4. Ci sono due modi conosciuti per fare un movimento. Il più semplice consiste nel riunirsi, almeno in tre, nei locali della federazione, mettere la questione del movimento all'ordine del giorno, fare un comunicato ai giornali e stampare un volantino: contro la mafia, per il Nicaragua, per la riduzione della leva: gli argomenti non mancano e non è difficile scegliere. Se, fra tutt'e tre i partecipanti al movimento, si riesce a non fare o dire alcunché che dia atto a sospetti di effettiva pericolosità sociale, il movimento avrà successo: nel senso che i giornali - anche quelli dei mafiosi, dei contres, dello Stato Maggiore - ne daranno simpaticamente conto ai loro lettori, daranno con regolarità notizie delle attività del movimento, assessori e notabili lo prenderanno a interlocutore, si verrà invitati ai dibattiti al Club della Stampa ecc. ecc. Tutto ciò non è tecnicamente difficile da conseguire, produce un surplus di status sociale "progressista", non suscita grandi opposizioni ed ha l'unico inconveniente di essere, a parte i vantaggi sopraelencati, assolutamente inutile. In effetti non c'è nulla al mondo che ci vieti - purché cittadini italiani, maggiorenni e vaccinati - di giocare al coordinamento antimafia, al prete Pintacuda o al sindaco Orlando. Il fatto è che i preti palermitani, per esempio, han cominciato a far intervento di quartiere circa sedici anni fa. Il Coordinamento antimafia di Palermo, lungi dal farsi coccolare dalla stampa locale, in almeno tre casi ha condotto operazioni di rottura traumatica e "settaria" non solo nella città, ma nella stessa sinistra organizzata. E quanto al sindaco Orlando, non è il frutto di un accordo fra Andò e Nicolosi. Sindaco coordinamento e preti, con tutto ciò vivono precariamente, appesi a un filo, fra continue invenzioni tattiche e continue forzature, costretti a inventarci un fronte nuovo ogni giorno per non essere travolti su tutti gli altri. Ci riescono perché hanno le idee chiare su possibili alleati e nemici, perché non dimenticano neanche per un istante gli assetti di potere reali, perché hanno (che non guasta) un altissimo grado di professionalità politica, e soprattutto perché non sono partiti da palazzo Biscari ma dall'Albergheria. Qui, l'unico che - dopo I Siciliani - abbia una vera presenza nel sociale, e la consapevolezza di giocar la partita su di essa - è il gruppo di padre Resca: mentre gli antimafiosi perbene organizzavano le desolanti discussioni su La Sicilia che ho detto, a San Pietro e Paolo facevano la festa degli immigrati con due o trecento senegalesi. Con tutto ciò, Resca - da persona seria - non crede affatto di aver fatto un movimento. Ma di avere appena cominciato a lavorarci. Noi - sinistra catanese intendo - possiamo puntare su aggregazioni di questo genere, lavorare seriamente al loro fianco (con assoluta umiltà e senza fessi tentativi di "manovre dall'interno") per un paio d'anni, e poi forse - fare domande in bollo per chiamarci movimento. Prima, no: non tanto perché sarebbe ridicolo; ma perché sarebbe equivoco e dannoso. Io non ho alcun entusiasmo, per esempio, per il vostro "movimento" di piazza Europa, per il vostro sindaco che guida l'autobus, per i vostri cantastorie di quartiere. Tutte cose bellissime, non lo nego. Ma non mi fido. E' roba che non divide; roba che la Sicilia può tranquillamente applaudire; roba da "cappelli" liberali, non sedimento d'opposizione. Un movimento, a Catania, in qualche rudimentale maniera aveva cominciato a formarsi. Quello che si stava sedimentando attorno a Siciliani Giovani e (in minor misura) all'Associazione I Siciliani. Una cosa rozza, d'accordo, con mille ambiguità e debolezze e difficilissima da seguire. Ma sostanzialmente sana, e perlomeno reale. Si trattava di organizzare in un'opposizione di fatto della gente quasi completamente spoliticizzata, senza strumenti culturali preesistenti, ma nuova, e vogliosa di fare. Arrivava il liceale diciassettenne e ti chiedeva (giustamente: perché cominciava ora, a chiedersi le cose) se davvero a Catania ci fosse la mafia. E tu, dopo qualche anno di Siciliani e un amico ammazzato dai mafiosi, calavi doverosamente le corna e gli dimostravi oggettivamente, con tutte la pazienza di questo mondo, come e qualmente si può parlare di mafia a Catania! E cercavi di farlo senza imporgli sedimentazioni culturali non sue, rispettandolo; insegnandogli le cose fino a un certo punto, ma scommettendo per il rimanente che ci sarebbe arrivato da solo, avendo fiducia in lui; cercando di metterlo in grado di operare concretamente, di contare, di rendersi indipendente da te. Buon cuore? No: buon marxismo, di quello serio: di quello che distingue tra filosofia e ideologia, che conosce il concetto di dialettica, che considera la struttura prima della sovrastruttura, che fa lotte di classe (ora!? e dove sono le classi? Anche cent'anni fa, non vedendole nelle forme solite, se lo chiedevano in molti) e non propaganda. Assemblee interminabili, logoranti, per convincere quel ragazzo là in fondo che non ci stiamo "facendo strumentalizzare", e che però non possiamo limitarci e protestare, e che quindi dobbiamo prendere noi l'iniziativa, e che quindi ci vuole una buona organizzazione, e che organizzarsi ha certi vantaggi e certi rischi, e che... Cercando di convincerlo, e anche di imparare da lui qualcosa. E incontri da Helzapoppin, con cooperative sindacato - e non ti dico il partito - e anime belle, cercando pazientemente di non rompere, di tirarteli dietro almeno per un poco di strada, almeno su qualche cosa, almeno in parte. E tutto questo, in mezzo al fare il giornale, al dolore e alla povertà, alle centouna piccolissime incombenze di ogni giorno, alla inesperienza propria e dei compagni, alla paura fisica e alla paura di non fare in tempo: perché si vedeva nitidamente che il tempo - prima che la porta si richiudesse - era molto poco. E alla fine di tutto questo, qualcosa che cominciava vagamente ad assomigliare a un movimento: qualche decina di militanti più o meno omogenei ma tutto sommato coesi, un gruppetto - efficientissimo! - di ragazzi per ogni scuola, un paio di obiettivi intermedi (la gestione sociale della legge La Torre e i centri giovanili: dopo qualche anno ci siete arrivati anche voi) per tenere insieme in maniera non episodica tutta la faccenda. E funzionava. Col tempo, avrebbe potuto arrivare ad essere il famoso "movimento" di cui con tanta leggerezza ora si parla. Ma il tempo non c'è stato. La caduta del giornale è arrivata prima che tutto ciò che stava attorno al giornale avesse raggiunto la possibilità di stare sulle proprie gambe. due anni e mezzo di "trattative"! Prova a rileggere questa frase alla luce di quel che hai sentito dire: del ruolo politico dei Siciliani, voglio dire: di tutto quel che veramente poteva cambiare a Catania e non è cambiato. Perché non c'è più stato qualcosa, qui, di paragonabile a quel che si aggregò allora attorno al giornale; e passerà molto tempo prima che ci sia. Nuccio, fotografo, vent'anni d'emarginazione alle spalle, che viene mandato a organizzare SicilianiGiovani a Enna o Caltanissetta, e ci riesce perfettamente come il più consumato militante; Ester, fisioterapista, che in sei mesi diventa una discreta cronista e un'efficientissima agitatrice; Rosalba che torna al suo paese in montagna e subito mette in piedi il collettivo femminista e il giornaletto locale; Sabina, Fabio, Antonella, Gianfranco, che prima organizzano Siciliani/Giovani nelle scuole e dopo la caduta del giornale cercano come possono, senza collegamenti, di continuare a lottare (ci sono anche loro nell'Experia: tre mesi d'occupazione, e quattro "avvertimenti"); Maurizio della Fgci di Battiati, che il 6 gennaio 84 era alla porta della redazione per organizzare la diffusione militante di un giornale che nessuno sapeva se sarebbe uscito ancora... Non credo che a te possano dire molto questi nomi. E invece sono loro i compagni, loro i veri riferimenti politici, altro che i vostri intellettuali perbene: su di loro, bisognava avere il coraggio di puntare. E ora che me ne devo andare - non per mia volontà - da Catania, e che è il momento di tirare le somme, mi restano questi nomi; i loro, e quelli di pochissimi intellettuali (D'Urso, Scidà, "Castoro", Resca, forse altri tre o quattro) che hanno avuto il coraggio di prendere fino in fondo sul serio le cose che scrivevamo e di costruirci attorno la loro vita. Essi, nella loro ingenuità e inesperienza, avevano capito tuttavia la cosa principale: che non si dà opposizione qui che non sia totale: non per partito preso, per malaccorto estremismo, ma perché proprio il sistema non lascia spazio, qui ed ora, per mezze misure e mediazioni. Era commovente veder con quanta esitante determinazione questi ragazzi cercavano di assumere questo ruolo, di star dietro alle cose, d'imparare. Esseri umani diversissimi fra loro, provenienti dai più diversi pregiudizi, sconosciuti l'uno all'altro fino a pochi giorni prima, che rapidamente si amalgamavano, maturavano con i compagni, si schieravano col cervello e col cuore dov'era necessario che si schierassero; mai, in tanti anni, avevo visto nulla di così profondamente rivoluzionario come questo loro venire avanti. E quando mai, d'altra parte, è possibile vedere tutto questo, se non nei momenti di vera e propria Resistenza? Ma ora sto divagando. E' che ero, e sono, profondamente orgoglioso di loro. E mi fa male vederli spazzati via dal meccanismo cui anche voi vi siete adeguati, sostituiti sprezzantemente dal "rinnovamento" ufficiale. Ma preferisco essere perdente insieme a loro, che vincitore senza: perché so quel che hanno rappresentato, e che potevano rappresentare, per questa città, e la tragedia dell'emarginazione di questa possibile sinistra, di questa possibile classe dirigente. Chi voi, incredibilmente, non avete visto. se da parte vostra ci fosse stato non dico un progetto politico ma un minimo di consapevolezza, noi già nell'85 saremmo andati al Comune con una lista unitaria, avremmo spaccato veramente la Dc, vi avremmo - fra l'altro portato là non come il fiore all'occhiello di Andò e Nicolosi, ma come un'avanguardia del movimento. Un movimento è una cosa seria, difficile e concreta, non una sommatoria di movimentatori di mestiere. Un movimento deve avere una sua piattaforma, una sua dinamica autonoma, soprattutto dei suoi militanti. Un movimento non può permettersi di "unire le forze democratiche", di mediare per principio, perché il suo ruolo è esattamente l'opposto: rompere le contraddizioni, far venire fuori nuove forze, dare coscienza a dei soggetti nuovi. E' scomodo, un movimento: metà della città lo applaude, ma l'altra metà gli spara. Non è "brillante" né viene invitato ai dibattiti, ed è in cattivi rapporti coi provveditorati. E' semplice, rozzo e chiaro. Vuoi sapere com'è fatto, per esempio, un movimento contro la droga? C'era da fare un corteo, alla fine dell'84, di studenti contro i cavalieri. Un gruppetto dei nostri la settimana prima la passò a Piazza Roma, a Largo Aquileia e negli altri posti di spaccio. Parlarono con tutti, e soprattutto con quelli con cui di solito non si parla (se non dall'alto di una cattedra e con grandi parole, ai convegni ufficiali). La mattina della manifestazione c'erano venticinque tossicodipendenti, nel corteo, senza vittimismo e senza particolari parole, a gridare Graci, Rendo, Costanzo, Finocchiaro con tutti gli altri ragazzi della loro età, come tutti gli altri. Ma forse queste cose non si vedono, dai palazzi (e dalle università, e dalle federazioni). E mi scuso per essermi dilungato, e per la confusione, perché tanto è un capitolo finito. E confuso, veramente, dev'essere tutto questo quaderno, scritto in fretta, fra una cosa e l'altra della partenza; ma scritto con l'intento di giovare. Perché ti sembrerà strano, ma in questa e in altre occasioni un compagno può anche ritenere di essere obbligato, in mancanza di altri che lo facciano, a dire le cose scomode, ad avvertire i compagni. Certo, questo non serve a creare particolari popolarità: tutto quel che ho detto o fatto a Catania, d'altra parte, l'ho regolarmente pagato di persona: le critiche ai compagni, come gli attacchi ai nemici. Non me ne vado ricco, né avendo fatto carriera. Questo non significa che bisogni necessariamente condividere ciò che dico. Significa che si può almeno ascoltarlo come l'opinione di uno che, a dire quel che dice non ci guadagna niente; e che medita prima di parlare di argomenti come questi; e che non è del tutto privo di esperienze tali da permettergli di parlarne. Hai avuto la pazienza di seguirmi fin qua? Non è poco merito. Ma attento: la vostra responsabilità di militanti, e la tua personale, in questo momento è molto più grave del solito, perché voi siete l'unico gruppo dirigente antimafioso sopravvissuto nel Pci in Sicilia. Siate all'altezza di questa responsabilità. Non seguite le strade facili. Abbiate il coraggio, e la saggezza, di essere una forza di rottura. I compromessi hanno un senso quando si è egemoni, non quando si ha un partito da ricostruire. Non fidatevi dei vostri attuali interlocutori - dentro e fuori il partito. Ricordatevi sempre delle cose banali, tanto banali che nessuno ci fa più caso: chi sono materialmente i padroni dei giornali siciliani? Come mai la Dc a Catania non ha un Orlando? A chi è legato Andò? Perché Pannella ha chiesto soldi ai cavalieri? chi erano gli amici di Curti Giardina a Catania? E così via. D'Urso, Scidà, Resca, i ragazzi di SicilianiGiovani, sono stati in questi anni - per quel che può valere il mio parere - i miei "interlocutori politici" privilegiati. Cercate i loro consigli, abbiate rispetto per loro. E ricordatevi che fare i comunisti in una situazione come questa è un mestiere durissimo, perché le parole possono essere tante ma gli incontri cruciali, alla fine dei conti, non ammettono scappatoie né mezze misure. E infine. Io parto, come sai, il sei o il sette gennaio. Non vado a fare il grande giornalista ma ancora, per come potrò, il militante. E non me ne vado di mia volontà, no: me ne vado costretto, espulso di fatto da questa città: esattamente come, negli anni cinquanta e sessanta, partivano i segretari di sezione e i sindacalisti, costretti dall'isolamento e dalla fame a prendere la via della Germania. Più amaro della sconfitta e dei prezzi personali, per quella generazione di compagni, fu l'oblio in cui il potere e la cultura ufficiali si affrettarono a far cadere le loro lotte. Essi dovettero partire, dopo aver combattuto per anni, lasciando le sezioni vuote, gli agrari seduti davanti al circolo dei civili, i preti che spiegavano ai contadini la ragionevolezza. Io ho conosciuto, quand'ero giovane, al mio paese, di questi compagni. In questo momento, mentre sgombero casa mia, con la mia compagna malata e due anni e mezzo di fame alle spalle, penso che non li ho traditi. Cercate di non tradirli neppure voi. Ringrazio per tuo tramite i compagni che ci sono stati vicini in questi anni. A te e a tutti gli altri, auguro buon lavoro. UNA LETTERA dicembre 1988 Caro Luca, subito dopo il cinque me ne andrò a Roma per dare una mano al giornale di Fracassi, e quindi la mia disponibilità per il vostro giornale si farà più complicata. Ho già detto ad Alongi di disporre liberamente del progettino che gli ho lasciato; in ogni caso, il giornale cercate di farlo lo stesso perché, usato bene (cioè con aggressività e fantasia; per la strada), può essere uno strumento decisivo. Ad Alongi ho detto anche che, avendo seguito con attenzione l'andamento di tutta questa vicenda, ho avuto modo di farmene un'idea abbastanza precisa e di valutare gli schieramenti che vi si sono formati ; e di essere sinceramente riconoscente a te, a Letizia, ad Alongi e agli altri compagni che avete almeno tentato di affrontare politicamente il mio caso. Personalmente, penso che sarebbe stato meglio usarlo come terreno forte per uno scontro, e anche ora non credo opportuno lasciarlo cadere in modo indolore; ma voi che siete sul posto potete valutare meglio di me costi e vantaggi di un atteggiamento "duro". E poi, tutto sommato, è una questione laterale. Fra pochi giorni, comunque, Antonella ed io partiremo per quest'altra avventura. Contrariamente a quel che si potrebbe credere, la banda municipale non verrà ad accompagnarci alla stazione; partiremo, come sempre, da zingari, con un bel po' di debiti alle spalle, l'anoressia di Antonella, i padroni di casa che ci cercheranno fino all'ultimo momento, e tutto il resto. Due borse di vestiti pesanti, le fiabe di Antonella, un po' di carte mie e la raccolta del giornale. Con tutto ciò partiamo spavaldamente, da compagni, come se la banda ci fosse e suonasse forte l'Internazionale. L'altro giorno, che era festa, la mia Antonella ha trovato la forza di organizzare una giornata allegra, di regalarmi un tabacco, di sorridere tutto il giorno. "Al nuovo giornale!". Le avevano trovato un edema la mattina prima e non c'era niente in casa. Ma lei mi ha fatto forza e ha sorriso.Così, adesso noi - che stiamo partendo obbligati, esattamente come se ci avessero cacciato fuori dalla Sicilia con le guardie - non stiamo andando a cercar di sopravvivere in qualche modo, ma stiamo andando a continuare la lotta in qualche altra maniera, dove potremo e come potremo. E, in qualsiasi modo vada a finire, siamo almeno sicuri che saremo sempre noi. Mi piacerebbe se tu riuscissi a spiegare tutte queste cose al collega *: a fargli capire che egli può permettersi di fare l'Autorevole Politico Antimafioso solo perché esiste - indipendentemente dalla sua volontà - della gente non dico come me che sono un militante di mestiere, ma come Antonella; che egli non conosce e non ha alcun bisogno di conoscere ma alla quale egli deve integralmente il suo attuale status sociale e politico. Bene: salutami i compagni, stai attento a scegliere i tuoi interlocutori catanesi, non permettere che ti accomunino a una cosa buffa come Bianco, e il resto più o meno lo sai già. Buon lavoro. (Ah: vedi che la parola "compagno" io la uso in un senso un po' particolare). GIUSEPPE FAVA, UN PRECURSORE Il manifesto, gennaio 1989 Ottanta righe per il cinque gennaio, quinto anniversario dell'omicidio di Giuseppe Fava? Mica facile. Perché intanto bisognerebbe spiegare chi fu veramente Giuseppe Fava: non l'innocente poeta che ora ci vogliono consegnare, ma uno scrittore europeo, e un militante. Come scrittore, Fava è stato l'unico italiano a raccontare davvero l'operaio massa degli anni '70, quello che dal sud dell'Europa andò alle catene di montaggio. Non usava queste parole, non veniva da esse. Ma il suo ragazzo Michele ("La passione"), dal paesino siciliano alla città-fabbrica tedesca, è esattamente questo. Peccato che la sinistra italiana, con le altre cose, si sia persa anche questo libro. E' che per la cultura italiana rimuovere Fava (come per paralleli motivi Pasolini) fu una necessità. La mafia, per esempio, lui la collocava, lucidamente, in questa Europa: meglio i donmariani innocui di Sciascia. Come militante politico Fava - esterno a ogni politica ufficiale e profondamente diffidente di essa - non attaccò questa o quella maschera del teatro istituzionale, ma direttamente il potere. Che si fonda, come ha scritto qualcuno, essenzialmente sulla struttura dell'economia. Che in Sicilia (ma non più solo in Sicilia) si fonda sull'intreccio tra fabbrica della droga e impossessamento degli appalti. I quali a Catania (ma non più solo a Catania) sono dominati dai "quattro cavalieri" Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. Fava si batté contro i cavalieri. In ogni momento di questa lotta ebbe sempre davanti coloro per cui lottava: i bambini di Palma di Montechiaro, i ragazzi di paese, i milioni di emigranti siciliani "dispersi sulla faccia della terra". Unì profondamente il vissuto quotidiano suo e di altri con una sedimentazione "politica": una politica di fondazione, senza zavorre ideologiche, tutta dei tempi nuovi. In questo, come avviene nei finesecolo, egli fu un precursore. Come giornalista, non gli ho mai sentito pronunciare la parola "professionalità". Era all'antica, in questo: "mestiere". Una volta sola usò il termine "giornalismo borghese", per spiegare ad alcuni ragazzi ciò che il suo mestiere non era. Poche ore dopo la morte di Giuseppe Fava, i redattori dei Siciliani si riunirono in assemblea. Era notte. La madre di uno di loro portava in giro il caffè: fuori, il potere si preparava a uccidere la stessa memoria dell'ucciso. Nessuno di loro era particolarmente dotato di genialità o di coraggio. Ma qualcosa li muoveva. Essi deliberarono che avrebbero continuato l'impresa; si divisero i compiti. Alcuni, "il settore mafia", produssero in diciassette mesi quaranta inchieste ancora oggi fondamentali. Altri furono mandati in giro per l'Italia a cercare alleati per una guerra, che si prevedeva lunga. Altri ancora ricevettero la cassa vuota e l'incarico, che assolsero con successo, di stampare comunque il giornale. Altri cominciarono a organizzare - scuole piazze quartieri - l'opposizione. Mentre con terrificante regolarità i numeri del giornale, uno dopo l'altro, analizzavano gli affari dei cavalieri, si ramificavano come "SicilianiGiovani" nelle scuole e con l'altro "braccio organizzativo", l'Associazione "I Siciliani", nelle città. Noi non siamo vissuti abbastanza per collegarci con la primavera di Palermo. Non c'illudevamo. Sapevamo che il tempo era poco, i mezzi inesistenti, che le promesse di solidarietà non sarebbero state mantenute, che il varco si stava chiudendo. Cercammo di forzarlo sullo slancio. Non ci siamo riusciti - non, almeno, per il momento. Fra le promesse non mantenute ci fu quella della Lega delle Cooperative, che doveva consorziarsi con noi per rilanciare il giornale. La relativa "trattativa" durò due anni e mezzo e, per quel che ne so, forse dura tuttora. Non è stato possibile sapere chi abbia bloccato questa trattativa, il "migliorista" Turci accenna a "livelli Siciliani" che, a loro volta, rilanciano a Roma. Di certo c'è solo che consorzi furono fatti, ma con i cavalieri: Costanzo, Cassina e Rendo. Li firmò, nella civilissima Ravenna, il consiglio d'amministrazione della Cooperativa Muratori e Cementieri, tardi scopritori dei valori del mercato (tardi: perché se li avessero già scoperti i loro padri, quattrini a palate sarebbero stati, con l'appalto degli stivali della Wermacht. Ma, a rifarsi c'è sempre tempo). A Catania, adesso, ferve il "rinnovamento" del Palazzo. Il sindaco guida il bus, gli assessori commemorano Robespierre, tutti sono gentili e buoni, soprattutto il giornale dei cavalieri, La Sicilia. Ha un senso, dopotutto. Bisognò pure affrettarsi, appena fatta l'Italia, a mettere il bavaglio ai mazziniani; o nella Repubblica democratica, a manganellare chi odorava troppo di Resistenza. Qui, ora, nel "dopomafia", silenzio agli antimafiosi. PROMEMORIA PER AVVENIMENTI 1 estate 1988 Non so quanta roba, qui dentro, potrà tornarvi utile (la scelta, poi, è stata fatta molto disordinatamente e in fretta), ma forse può interessarvi uno sguardo "dall'interno" sul processo di formazione dei Siciliani; molti dei problemi che abbiamo dovuto affrontare erano d'altronde, più in piccolo, quelli che ora toccano a voi. Fra i materiali che accludo, il progetto di ristrutturazione avrebbe dovuto servire di base alla seconda fase del settimanale (se hai tempo leggi Altri Sud e Computerizzazione, pagine 15 e 34), l'archivio riporta alcuni materiali "politici", fra cui forse possono interessarti quelli relativi al rapporto settimanale/società civile/forme organizzative di sostegno (Promemoria settembre 84) e quelli ripresi dai Siciliani Giovani, che è un settore poco conosciuto ma fondamentale nel nostro lavoro. Io credo che i punti su cui potrebbe essere utile una riflessione della nostra esperienza, siano in particolare gli Altri Sud, il collegamento fra testate alternative, la computerizzazione (questi, rimasti allo stato di progetto) e l'area Siciliani Giovani /Associazione I Siciliani. Siciliani Giovani e l'Associazione erano le proiezioni "politiche" del nostro progetto, sostenute con strumenti idonei e con estrema flessibilità. Fin dall'inizio, abbiamo pensato che un giornale come il nostro sarebbe rimasto isolato se non avesse provveduto per proprio conto a creare un'area organizzata di dibattito e sostegno. Timidezze di vario genere ci hanno impedito di portare fino in fondo questo progetto, che nei limiti in cui l'abbiamo realizzato, ha dato risultati brillantissimi. E' mia ferma convinzione che la sconfitta della nostra impresa sia dovuta proprio a questi limiti e alle conseguenze di questo (prevedibile) isolamento rispetto alle forze politiche ufficiali. Credo che la riuscita di un'impresa come l'Altritalia si giochi proprio su questo terreno, e che qui bisogna fare scelte decise: imparate dalla nostra esperienza, non fatevi illusioni; e organizzatevi da subito anche su questo terreno. I servizi in parallelo dal Sud d'Italia e dal Sudamerica (Altri Sud) definiscono meglio di mille dichiarazioni d'intenti una precisa - e non strumentalizzabile - collocazione politica; anche giornalisticamente sono, credo, un modo nuovo e solido di impostare il settore esteri. Il rapporto fra testate "alternative" (Società Civile è solo uno degli esempi; ce n'é una mezza dozzina in giro) ha a che fare col criterio esposto sopra di "creare movimento", di avere subito non un centro, ma un arcipelago di realtà radicate ognuna nella propria regione. Il modello organizzativo di fondo, qui, è quello dei primi tempi dell'esperienza dei Verdi in Italia, basato sul collegamento di realtà autonomamente sviluppatesi e su una progressiva e prudente opera di omogeneizzazione d'immagine attorno ad alcune specifiche campagne d'opinioni. Fatte tutte le differenze, è un metodo che credo possa valere ancor oggi, e anche soprattutto - per voi. La computerizzazione, in questo quadro, non è uno strumento tecnico (fra l'altro, economico) fine a se stesso, ma un mezzo per dare un'impostazione aperta fin nella struttura del processo produttivo (redazione stellare, ecc.) al giornale. In questo senso, l'innovazione tecnica costituita dal desktop publishing ha implicazioni politiche analoghe a quelle che potevano avere le radio libere nel '76. Questo non implica assolutamente (e l'esperienza delle radio è illuminante) una diminuzione del livello di professionalità, che è essenziale; semplicemente, un'integrazione delle tecniche professionali con un quadro di "movimento" e con tecnologie che ne esaltino le caratteristiche. A questo punto, penso che potrai farti un'idea del tipo di contributo che vorremmo cercare di dare in questi mesi. A Palermo, in particolare, il dibattito sul giornale è avviato in termini non semplicemente professionali: l'obiettivo è di avere una redazione siciliana che sia punto di riferimento in termini professionali ma anche civili. E' un obiettivo possibile - avremo tempo e modo di discuterne particolareggiatamente - purché ci sia, da parte vostra, una precisa e non equivoca scelta degli interlocutori, che non vanno cercati, secondo me, fra i più o meno riciclati révenants della sinistra ufficiale, ma nelle espressioni organizzate dalla società civile, che a Palermo sono ormai più che mature: il Coordinamento Antimafia, il Cocipa, il Comitato per l'informazione Città Insieme a Catania. La bozza di copertina non è una proposta grafica per voi. Semplicemente, molti anni fa, "l'Altritalia" è stata in ballottaggio per la nostra testata e allora ho fatto uno schizzo per vedere che effetto faceva. Mi pare giusto che ora l'abbiate voi e spero che vi venga buono almeno come portafortuna. PROMEMORIA PER AVVENIMENTI 2 estate 1988 Caro F., ti accludo alcuni stralci del nostro progetto di ristrutturazione, fra cui i riepiloghi di settore - potrebbero interessarvi il settore "a scambio" e "Altri Sud" -,i promemoria interni del gennaio '84 e del settembre '84, l'editoriale del numero zero del settimanale. E ora, qualche appunto così alla rinfusa, via via chez la roba mi viene in mente. Noi avevamo scelto di costruire la nostra immagine su due terreni specifici, l'identiità siciliana e la lotta alla mafia. Terreni apparentemente neutri (tali quindi da garantirci la massima indipendenza rispetto alle ideologie di partito) ma, in sè, profondamente politici. Noi abbiamo quindi potuto costruire su di essi una identità politica "forte" dei Siciliani, e raccogliere intorno ad essa uno "zoccolo duro" di circa ottomila lettori e millecinquecento fra abbonati e sostenitori. Su questo e parallelamente al giornale abbiamo messo in piedi delle strutture organizzate, l'Associazione I Siciliani e Siciliani Giovani, che hanno moltiplicato (e diversificato) l'impatto politico del gionale. La sconfitta della nostra esperienza, quando è arrivata (ma tardi, in rapporto alle forze disponibili) è venuta sul terreno imprenditoriale e forse anche giornalistico, non su quello "politico". Le strutture "militanti" hanno tenuto. Io ritengo che questo possa essere un esempio anche per voi: tenendo conto, naturalmente, che concetti come "militanza", "organizzazione", "linea politica" vanno intesi, almeno nel nostro caso, in senso "soffice", e tuttavia estremamente determinato. Ora, quale può essere la linea politica di un giornale come il vostro? Finora, è una serie di nomi: Galasso + Turone + Novelli + Fracassi + Menapace, ed è già qualcosa perché si tratta di altrettanti momenti specifici della sinistra, sufficientemente omogenei fra loro e abbastanza caratterizzati. Ma al di là dei nomi? Una generica dichiarazione di professionalità e di civismo - quella in buona sostanza contenuta nel vostro dépliant - non mi convince. Tutti vogliamo la libera informazione e tutti siamo contro la corruzione e tutti abbiamo una mamma. Ma perché dovremmo leggere e soprattutto aggregarci proprio attorno a questo giornale a preferenza di altri? (Non mi dire che non vogliamo aggregare nessuno, che siamo solo un giornale, ecc.: se siamo solo un giornale, non dura: per questioni di economia di scala). Io penso che ci siano già ora una serie di argomenti precisi, "neutri", ma estremamente politici, che individuano di per se una serie di precisi meccanismi politici (e successivamente aggregativi) e contestualmente dei targets, diversi ma complementari. La lotta al sistema di potere mafioso (Sud); la lotta contro la cultura dello stupro (donne); gli altri sud (sinistra intellettuale) e la lotta contro il razzismo metropolitano; le comunità di base e la società civile (sinistra, cattolici di alcune città) non sono gli unici argomenti al mondo, ma sono quelli, qui ed ora, che insieme possono fornire da subito un'immagine "forte" del giornale. Attorno a cisacuno di essi può svilupparsi col tempo una rete autogenerantesi di iniziative "organizzative" e "militanti" parallele al giornale. Torna un attimo indietro, per favore: all'elenco. Vedi che aria scolastica ha, da lista della spesa? Eppure, è il cuore di tutto, la cellula che deve essere individuata prima. Questi quattro argomenti e non altri: non dare fondo al mondo. Ancora: "lotta alla mafia (sud), lotta allo stupro (donne)": vedi che aria cinica ha la nostra lista della spesa? Eppure, non è così. "Sud", "donne", non sono quelli che cacciano i soldi e comprano il giornale, sono quelli che "ricevono" al loro servizio il giornale, che "usano" il giornale. Non la "nostra" base, ma i nostri padroni. E anche questo è scolastico, ma fa pure parte della cellula iniziale: perché non è facile, per degli intellettuali con una storia alle spalle, assumere l'umiltà e l'orgoglio di sentirsi al servizio di qualcosa di preesistente (di solito tendiamo a metterci alla testa di una massa indistinta, che non c'interessa percepire diversamente). Fine della parentesi salesianpopulista (Servire il). Dalla "cellula-base", discendono alcune conseguenze. Per esempio, il giornale dev'essere altamente professionale, e nel contempo non deve esserlo. Idem, per farlo c'è bisogno di professionisti feroci, ma anche di dilettanti. E le due faccende debbono incontrarsi in un punto preciso, non casuale. Nei quattro settori che ho detto, il giornale non è un giornale, è "il" giornale. E' l'organo ufficiale della lotta alla mafia, come l'orario della ferrovia per i treni. Non può avere bucature. Deve avere la notizia a ogni numero. Deve avere griglie di lavorazione rigidissime. Deve abituare il lettore. In altri settori, il giornale può "giocare", fare esperimenti, rischiare. Può essere un pezzo di Frigidaire, può essere sedici pagine di fumetti, può essere sedici pagine di cronaca di una storia di zingari a Roma; può gettare un sasso e lasciarlo lì oppure costruirci sopra una cattedrale, di volta in volta. Ehi: non è che il lavoro del primo tipo lo fanno i professionisti e quello del secondo i dilettanti. La cucina, la fanno tutta i professionisti; e così i servizi che garantiscono il numero nei quattro settori. I dilettanti, che vanno scelti accuratamente, fanno il lavoro "esterno" che però esterno non è perché dà la direzione al giornale: a parlare con gli zingari ci va il professionista, ma la sera, la riunione con gli zingari e la gente del quartiere la fa il "dilettante": se fa un buon lavoro, nel quartiere entro sei mesi ci debbono essere dieci copie vendute, un "corrispondente", un abbonato, un'assemblea di quartiere in preparazione. In rapporto organico con quel che sul giornale nel frattempo viene pubblicato. E adesso cambiamo discorso. Il giornale può avere, inizialmente, una redazione a Roma, una redazione (uno-due redattori, cinque-sei "dilettanti") a Milano ed una in Sicilia. La redazione romana può essere dotata di cinque-sei MacIntosh con circa 160 Mb di memoria. Un Mac alla redazione di Milano, uno alla siciliana. I Macintosh, da 4 a 10 milioni ciascuno, servono a battere i pezzi e impaginarli (a cura degli stessi redattori). I pezzi vengono mandati a Roma, già impaginati, via modem a 2400 baud (di notte). Fin dall'inizio, cioè, la redazione si configura come "stellare". Non c'è una redazione con dei corrispondenti distaccati. C'è un'unica redazione, le cui scrivanie si trovano per avventura a qualche chilometro l'una dall'altra, ma sono perfettamente in grado di comunicare fra loro in tempo reale (il modem e i Mac servono ancghe per discutere il palinsesto, mandarsi messaggi, insultarsi e rivedersi le bucce a vicenda). Perché MacIntosh e non un grosso elaboratore? Perché i Mac sono perfettamente in grado, con qualche accorgimento, di fare il lavoro di macchine molto più grosse. Soprattutto, sono interfacciabili Linotronic: il dischetto col giornale può cioè essere dato a un'unità di fotocomposizione professionale (da voi, c'è almeno quella dei F.lli Bottoni; ma informatevi) che lo "digerisce" perfettamente. Via modem, il Mac riceve files anche da altri tipi di computer: il corrispondente di Canicattì può mandare la notizia così e "dialogare" con la redenzione "vedendo" il proprio lavoro sul proprio schermo: per alcuni minuti, la redazione si sarà trasferita a casa sua, e non viceversa. Accorgimenti: l'impaginazione via computer non è difficile; è lenta; e richiede molta memoria. Allora: adottare un'impaginazione che concentri in aree omogenee gli elementi che il computer tratta meglio insieme, e che contemporaneamente possa essere mossa a volontà muovendo moduli. Le quattro paginette che trovi accluse (e che non sono un modello) esemplificano questo concetto. Debbo interrompere, mando questo e continuerò appena posso. Struttura di un punto di corrispondenza ("politico" e redazionale) locale; iniziative in ciascuno dei quattro settori sotto il profilo organizzativo: giovani; ancora computer; lancio; punti di riferimento a Milano, Palermo, Napoli: spero di farti avere presto degli appunti su questi argomenti. Tieniti in contatto con Palermo. Scusami la fretta e la confusione. PROMEMORIA PER AVVENIMENTI 3 autunno 1988 Ci scusiamo di intervenire così, ma vorremmo essere presenti almeno con una parola di solidarietà e di adesione. Questa iniziativa si colloca infatti perfettamente, io credo, nell'ispirazione di questi anni dei Siciliani, e ne è anzi una logica prosecuzione. Noi abbiamo sempre pensato e scritto che i poteri reali del Paese sono ben altri ormai da quelli definiti dalla Costituzione; che non sono ormai loro estranee centrali di potere paramassonico e mafioso; che nessuna dichiarazione di lotta alla mafia può più venir presa sul serio se non accompagnata da una lotta intransigente a questo sistema di potere; che ben poco affidamento può essere riposto, per questa lotta, nelle rappresentanze politiche ufficiali, connotantesi ormai - nei casi muigliori - come oneste oligarchie; e che le sole speranze di cambiamento sono legate alla progressiva autoorganizzazione di settori sempre più ampi della società civile. Noi abbiamo creduto che un giornale come il nostro dovesse porsi come punto d'aggregazione di un movimento di cittadini - nel nostro caso l'Associazione I Siciliani - basato su questi principi, in grado di utilizzare il giornale come strumento di collegamento e di autoorganizzazione e di arricchirlo a sua volta di nuovi e sempre più articolati contenuti culturali. Abbiamo anche cercato di affrontare, all'interno di questo quadro, punti specifici di particolare importanza: il bisogno di esprimersi del mondo giovanile, con Siciliani Giovani; l'elaborazione di un progetto culturale di vasto respiro, con la campagna per i centri giovanili autogestiti; la necessità di una presenza non ideologica nelle istituzioni, con la proposta di un programma e di una linea unitari e antimafiosi; il rapporto imprenditoria mafiosa/occupazione, con la proposta di un utilizzo sociale dei beni sequestrati con la legge La Torre. Nessuno disconosce più ormai, nell'ambito della sinistra, la validità di questi punti: ma sono stati ben pochi, nel momento che bisognava, le forze impegnate attorno ad essi. Forze istituzionali, intendiamo, di sinistra "ufficiale" e d'intellettuali "riconosciuti". A distanza di due anni, non mi chiedo più dove sono le forze organizzate partiti, sindacati, leghe - che dovevano sostenerci in quest'impresa. Né mi meraviglio più del fatto che il più grosso partito di opposizione riempia decine di pagine di diligenti programmi elettorali senza nominare una sola volta i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa - Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro - che sono ancora al centro del sistema di potere della nostra città. Osservo soltanto che la nostra sconfitta è stata dovuta non tanto alla prevedibile diserzione della sinistra "ufficiale" quanto alle esitazioni, alle ingenuità e alle certezze di noi stessi che c'eravamo aggregati attorno al progetto politico dei Siciliani. Esitazioni, ingenuità e incertezze pagate a carissimo prezzo dai singoli, e dalla città. Per questo, crediamo che ora sia importante partire bene, vale a dire senza equivoci. Costruire un movimento antimafioso è una cosa, portare la regina Elena a carezzare i bimbi di Librino un'altra. Nessuna enunciazione di principio, a Catania, può essere presa sul serio, in nessun campo, se non si accompagna a una chiara presa di posizione sui quattro cavalieri. Nessun intellettuale può pretendere di venire ascoltato da nessuna persona per bene se mantiene un qualunque rapporto - professionali compresi - col sistema di potere e coi suoi esponenti. Nessuno può dire che la società civile va bene, ma l'organizzazione bisogna lasciarla ai partiti. Nessuno può chiedere ad altri di impegnare la propria esistenza in un'impresa comune, se non è disposto a sostenerla fino in fondo e non come mero esperimento intellettuale. Tutte queste cose, nell'esperienza dei Siciliani, si sono pur verificate, e sono state pagate molto care. Io mi auguro che voi possiate ricominciare da dove noi abbiamo dovuto fermarci, e andare più avanti. Riprendendo la nostra impostazione politica generale, che è stata confermata dai fatti e di cui andiamo a buon diritto orgogliosi, ma riconoscendo ed evitando i nostri errori. Gli errori nostri, e soprattutto gli errori nostri che noi abbiamo colpevolmente subito per ingenuità, debolezza e impreparazione. Ci siamo organizzati poco, ci siamo organizzati tardi, ci siamo organizzati a malincuore, ci siamo organizzati male. Non imitateci in questo. LA LEGGE DEI CAVALIERI Avvenimenti, dicembre 89 Non sapremo mai, probabilmente, con quali motivazioni i giudici catanesi hanno respinto il rapporto di polizia che indiziava di mafia tre dei maggiori imprenditori italiani, i "cavalieri dell'apocalisse" Rendo, Costanzo e Graci.Pure, non sarebbe secondario conoscerle: si tratta di personaggi che, in bene o in male,condizionano la vita dei loro concittadini almeno quanto un segretario di partito greco o tedesco-orientale. Ma in Italia, in un caso come questo, a noi cittadini viene comunicato soltanto (e nemmeno spontaneamente) ciò che è stato; e ci deve bastare. Ma - è l'obiezione - e voi giornalisti? Noi giornalisti, ai sensi di legge e specialmente della nuova legge che inasprisce il segreto istruttorio, ufficialmente non ci possiamo fare niente. Se decidiamo d'informarvi, è una scelta nostra, non più insita nel mestiere. La verità, in altre parole, è divenatata una faccenda del tutto personale; non è prevista dalla legge. La legge: un giudice, ha deciso il Csm, può stare in una loggia segreta al comando di Gelli, come il bolognese Monti, ma non può regolare nel modo che preferisce (come il palermitano Ayala) i propri rapporti con la moglie separata. Che faccia giustizia o meno, è affar suo personale, ininfluente ai fini della carriera. E' esattamente il punto a cui era arrivato, una generazione fa, un altro paese dell'Occidente: la Colombia. Dove ora le cose hanno seguito il loro corso naturale, e la mafia tratta da ari a pari, alla luce del sole, con lo Stato, e giornalisti e magistrati vengono uccisi liberamete, ufficialmente e preventivamente perché evidentemente quella costitutzione di fatto non può riconoscere la loro funzione. La stessa funzione, gli stessi diritti-doveri - la libertà d'informazione, l'indipendenza dei magistrati - che all'est stanno faticosamente e con trepidazione riscoprendo e che noi qui, ora, andiamo allegramente abbandonando ogni giorno di più. UN'IDEA DI GIORNALISMO 1990? La situazione della libertà d'informazione a Catania è quella che è, non è il caso di starci troppo a girare attorno, di citare l'ennesimo episodio buffo o vergognoso, di ripetere ancora una volta che qui la libertà di stampa è esattamente al livello di una qualunque dittatura sudamericana. Dopo tanti anni, chi non l'ha capito finora non lo capirà certamente stasera; non lo capirà soprattutto chi non lo vuole capire, o perché non vuol rinunciare alla cronachetta - sul giornale di Ciancio - delle proprie attività "d'opposizione" o perché, più semplicemente, appartiene alla stessa classe sociale che, con diversi appellativi ideologici, dà luogo al blocco di potere catanese e quindi al suo giornale: gli eterni cappelli e galantuomini - liberali o borboni conta poco. Vorrei invece chiedermi ancora una volta (anche qui, roba vecchia: ma repetita juvant) di chi è la colpa, e cosa si può fare. Per anni e anni abbiamo ripetuto, a partire dal gennaio 1984, che non ce l'abbiamo con i giornalisti catanesi, ma con i loro padroni; e abbiamo ogni volta sottolineato con la massima attenzione quei conati rivendicativi che quei colleghi hanno a volte cercato di esprimere. Ma il fatto resta che essi lavorano - sono costretti a lavorare - in condizioni assolutamente anomale, lesive del diritto del lettore a un'informazione veritiera e corretta, e della loro stessa dignità professionale. Sono costretti, o gli va bene? Questo chiedo di sapere da sei anni, e questo chiedo anche stasera. Nel primo caso, tutta la mia solidarietà. Nel secondo - nel caso cioé di "Catania diffamata", della "stampa catanese in prima fila" eccetera - essi sono complici, e complici di qualcosa di molto grave. Perché la libertà, nel nostro mestiere, è possibile. Ha dei prezzi, ma si può. Noi dei Siciliani l'abbiamo dimostrato. E, su scala più ampia, Avvenimenti sta rinnovando l'esempio di un giornale che fa informazione libera e tiene mercato senza bisogno di sottomettersi ai padroni del vapore, e delle cosche. Se, invece di piagnucolare su questi "nordisti" che diffamano noi poveri catanesi, invece di cercare - ma perché poi? - di difendere alla men peggio l'indifendibile, di abbaiare - legati alla catena - contro le Samarcande e i Marrazzo, cercassimo invece una buona volta di rimboccarci le maniche, di ritrovare l'orgoglio di noi stessi, di decidere che siamo giornalisti e non impiegati di Ciancio o Berlusconi... Ma, neanche questi sono discorsi nuovi. Auguriamo ogni bene ai colleghi che preferiscono continuare ad arrancare nella palude. Noi, andiamo avanti. Giuseppe Fava ci ha lasciato alcune precise cose da fare. Ci ha lasciato l'esempio di come si fa un giornale, e di come si fanno dei giornalisti. Un giornale si fa da liberi, senza padroni, affidandolo alla gente comune, sapendo che così è più difficile, ma che anche nei momenti più bui non si resterà del tutto soli. I giornalisti si fanno tirandoli su dalle radici, selezionando intelligenze e volontà fra i giovani che sono degni di fare questo mestiere ed insegnando pazientemente loro - senza paternalismi e compiacenze, dando ed esigendo serietà ed attenzione - tutti i rudimenti dell'arte. Così fu per noi "ragazzi di Fava" ai Siciliani; così fu nostro compito fare, col gruppo dei Siciliani/Giovani, quando restammo soli; così continuiamo ancora oggi a formare, in continuità con questa storia, nuovi giovani gruppi di redattori. Lasciamo volentieri ai colleghi della corporazione il carico di difendere, se ne hanno voglia, l'immagine del giornalismo ufficiale. Noi attendiamo a un compito un po' differente, che è di conservare e trasmettere una tradizione di buon mestiere e di etica professionale, di giornalismo "all'antica" e di libertà. Ed è una strada vincente. Gli studenti che oggi - c'è una scritta bellissima alla facoltà di Lettere a Roma: "sono orgoglioso di essere siciliano" guidano il movimento studentesco del Novanta, sono siciliani. La città che oggi è più avanti nello scontro politico e civile, la città su cui entro quest'anno cadrà il governo Andreotti-Craxi, è la capitale siciliana. Le idee e il dibattito su cui si sta formando la sinistra che in questi anni andrà al potere non sarebbero immaginabili senza le esperienze e le lotte siciliane. E in queste, il contributo del giornale di Fava, del suo esempio, di tutto ciò che attorno ad esso si è aggregato ed è cresciuto, ha avuto un ruolo non piccolo e non marginale. E' un particolare trascurabile, a questo punto, che contingentemente il giornale non sia in edicola. Certamente, è nostro preciso e non utopistico intento - e senza alcun bisogno di sedicenti amici dell'ultim'ora - di riportarcelo; ma già ora I Siciliani vivono, in Sicilia e altrove, dovunque abbia attecchito un seme di ciò che fu lanciato allora. Noi che siamo stati costretti - esattamente come altri giornalisti d'opposizione in altri paesi sotto dittatura - a lasciare la nostra città guardiamo oggi con fiducia a ciò che succede in Sicilia, a ciò che dalla Sicilia s'irradia. Dalle varie città d'Italia in cui siamo stati dispersi, conserviamo non il ricordo ma l'insegnamento attuale delle idee che hanno dato vita all'impresa dei Siciliani. La consideriamo non chiusa, ma in fase di affermazione e di rinascita: sotto lo stesso o sotto altri nomi, ma stavolta non più solo in Sicilia ma in tutta Italia UN UOMO E LA SUA LOTTA Antimafia, marzo 1990 La sede dei Siciliani a Roma era in via Cola di Rienzo ed era in realtà un mezzo appartamento, completamente vuoto salvo che per una branda, un tavolo e due sedie. Con l'affitto, eravamo molto indietro: bisognava perciò cercare di salire senza farsi notare dal portiere, il quale tuttavia immancabilmente ci fulminava con uno sguardo di disprezzo. Il giornale era uscito, il numero uno, da tre settimane, e i cavalieri avevano già mandato i loro messaggi. Uno, il più bestia dei quattro, aveva offerto senz'altro dei denari. Un altro, il più raffinato, aveva invece mandato suo figlio (un giovane assai perbene, studente a Oxford e senza il minimo accento siciliano) a congratularsi col direttore per il bellissimo giornale e a osservare però che limitarsi a fare un mensile era, per giornalisti del suo valore, del tutto inadeguato: perché non fare invece una televisione? La prima tv privata della Sicilia, budget iniziale un miliardo: i soldi, si sarebbero trovati; s'intende, libertà assoluta. Io ero a Roma, in quei giorni, per gli esami di giornalista; lui per rintracciare non so che funzionario Rai che aveva vagamente parlato di citare in qualche trasmissione il giornale, Antonio per un servizio e poi c'erano anche Claudio e Miki e il direttore raccontò del miliardo di Rendo e l'assemblea, seduta sulle due sedie e sulla branda, decise all'unanimità di rifiutare. Eravamo allegri quella sera, mandare al diavolo un miliardo non è cosa di tutti i giorni, poi lui e Miki si misero a commentare le tre brasiliane che c'erano al ristorante sotto, poi io dissi che all'esame mi avevano chiesto chi era Fossati, poi scendemmo passando con indifferenza davanti al portiere che non ci salutò, poi salimmo sulla macchina del direttore che era una cinquecento rosso ruggine e ce ne andammo tutti alla Rai e fummo ricevuti, dopo tre ore d'attesa, dalla segretaria del dottore. Della televisione se ne riparlò a settembre, venne l'onorevole Andò a parlare col direttore e gli fece esattamente la stessa proposta che a gennaio aveva fatto Rendo, e anche a lui fu garbatamente spiegato che non c'interessavano le televisioni. Non so: ci sarebbe la birreria di Catania dove, dall'una in poi, passavano solo scippatori e metronotte, e noi. I metronotte prendevano una birra in fretta, al banco, gli scippatori invece grandi scodelle di pasta alla Norma. "Potremmo fare un settimanale" venne fuori l'idea, una notte, e allora facemmo i conti sui tovagliolini di carta per vedere quanto poteva costare fare un settimanale. Eravamo immortali, allora, niente di male avrebbe mai potuto accaderci. (Ne sono morti parecchi, di quegli scippatori, da allora; di uno fecero trovare la testa sotto la statua di Garibaldi, per una rapina sbagliata; ma bevevano intanto e scherzavano fra di loro, come tutti). Oppure la vecchia sede, in un paesino sopra Catania, quando arrivarono prese a cambiali - le macchine da stampa. Il direttore non c'era, e noi ragazzi festeggiammo con uno spinello; qualcuno di noi ha ancora il filtro di cartone, con le firme di tutti e la data. Oppure la "conferenza stampa" per il primo numero dei Siciliani, avevamo invitato tutti i giornalisti della città e il bar di fronte aveva mandato un quintale di pasticcini e spumanti per il buffet, ma venne solo un anziano giornalista sportivo, vecchio amico del direttore, e per tutta la sera rimase disciplinatamente là, a un capo dell'enorme e solitaria tavolata, a fare le regolamentari domande e auguri che si fanno alla presentazione di un giornale nuovo, e noi mangiammo amaramente pasticcini per una settimana. Certo: bisognerebbe parlare di mafia adesso, e di lotta alla mafia e dell'informazione coraggiosa e di quella puttana. Ma a volte è una fatica troppo grande ripetere sempre le stesse cose. Il direttore è morto, sei anni fa, e questo è un fatto. I cavalieri sono ancora al potere, a Catania ed altrove, e anche questo è un fatto. Ci sono più ragazzini scippatori, a Catania, di ogni altra città d'Europa, esattamente come sei anni fa: e anche questo - che gl'intrallazzi e le vigliaccherie finiscano per essere selvaggiamente e pacificamente pagate dai più indifesi, che un ragazzo che nasce a Catania non abbia diritto a nient'altro che a finire in galera - è un fatto come gli altri. Ci siamo illusi, per alcuni anni, che una parte almeno dello stato italiano considerasse questi e altri fatti come estranei da sé, come nemici, e che sarebbe stato possibile - come si dice - "fare giustizia". Ma era un'illusione, e basta guardare la faccia del giudice Ayala - cacciato perché voleva fare il giudice - per averne un'idea. Sono state illusioni nostre, non di Giuseppe Fava. Lui sapeva perfettamente (era molto più siciliano di noi) che in fondo era tutta una questione di "berretti" e di "cappelli", di disgraziati sfruttati e di galantuomini: e che mai i disgraziati hanno avuto giustizia dai galantuomini, tranne che costruirsela da sé, a poco a poco. IL PARTITO DELLA MAFIA E QUELLO DELL'ANTIMAFIA Antimafia, luglio 1990 Una volta le cose erano più chiare. C'era un partito che combatteva la mafia, ed era il partito comunista. C'era un partito che appoggiava la mafia, ed era la democrazia cristiana. La mafia non esiste, dicevano i preti. Con la mafia non si tratta, dicevano i sindacalisti. E tanti anni son passati. Anni di lotte dure, di battaglie feroci, di guerra: decine e decine di militanti, sotto la bandiera sindacale o la falce e martello, sono morti per essa. In ogni più sperduto angolo della Sicilia, chi era nemico della mafia sapeva immediatamente con chi stare. Ancora sul finire degli anni sessanta, un ragazzo fu fatto assassinare dal padre, boss mafioso, semplicemente perchè comunista. Le prime manifestazioni contro la mafia, nell'ottantatrè, furono quelle della Fgci; e il coordinamento antimafia nacque principalmente per impulso di uomini e donne comunisti. Non è che ora vogliamo metterci a far lezioni sui partiti. E' che una volta la lotta fra i partiti coincideva quasi letteralmente con la lotta fra mafia e antimafia, fra società dell'arbitrio e società civile; e abbiamo nostalgia di quel tempo, quando tutto era tanto più lineare e facile da capire; e degli esseri umani, pure, che di quel tempo furono, con umile orgoglio, gli eroi. Ma la nostalgia non aiuta molto. Dobbiamo tornare alla nostra realtà, e guardarla bene. Per esempio: c'è un professionista comunista, un certo Leone di Catania, che la sua professione l'ha esercitata per decine di anni in sostegno dei cavalieri del lavoro catanesi; e la professione, in questi casi, è difficilmente distinguibile dalla vita politica e privata. Adesso che il vento cambia, il professionista - prima membro autorevole del Pci, poi passato ai socialisti di Andò, poi coinvolto di nuovo nelle faccende del vecchio partito - ha bisogno che non si parli troppo di lui, o che almeno non se ne parli in termini troppo precisi: e manda in giro due esponenti del suo partito (o expartito: non è stato possibile precisare il particolare) a raccomandarsi per lui. Di questi, uno - l'onorevole Emanuele Macaluso - appartiene alla maggioranza occhettiana, sostiene il cambio del nome, ecc.; l'altro - il professor Pietro Barcellona - è fra i leader del "fronte del no". Pacioso e arguto il primo, con la figura amabile di un "civile" di fine secolo; fiero intellettuale il secondo, propugnatore di lotte e di riscosse; eppure, su un punto si ritrovano senza contrasto: quello di negare che il compagno (o excompagno) Leone abbia mai avuto a che fare con imprenditori chiaccherati. Ci sembra una circostanza interessante; e molto siciliana. C'era una volta in Sicilia, molti anni fa, il "galantuomo" borbonico e quello liberale. I borbonici erano per la tradizione e il codino, i liberali per re Vittorio e la Talia: passavano intere serate a litigare su questo, al Circolo dei Civili. Però, se qualche estraneo - qualcuno che non fosse un "galantuomo" - si permetteva di mettere in discussione il ruolo sociale di uno qualunque di loro, insorgevano tutti a difesa del galantuomo "calunniato", liberale o borbone che fosse: la politica è bella, però ognuno al suo posto. Anche il "sì" e il "no" sono importanti: ma il ruolo del professionista di buona famiglia, nella società siciliana, è più importante ancora; e quando questo ruolo vien messo in discussione, la solidarietà di classe scatta ancora, oggi come cent'anni fa. Perchè il Circolo dei Civili esiste ancora. Il partito comunista, ai suoi begli anni, è stato l'esatto opposto del circolo dei civili. Il luogo cioè in cui lo schieramento che si assume vale per tutta la vita. Prima galantuomini, poi liberali; ma, prima comunisti, e poi eventualmente tutto il resto. Non sappiamo quanto le teorizzazioni di Togliatti e Amendola abbiano giovato al popolo siciliano. Ma la presenza di un partito che "non ci stava", l'esistenza di qualcosa che stava fuori dal Circolo dei Civili, di qualcosa che i "galantuomini" non potevano controllare, questa è stata la cosa più utile e più grande che noi siciliani abbiamo mai avuto. Contro i "galantuomini" tutti, liberali e codini; e se i galantuomini si fanno sostenere dalla mafia, contro la mafia, sempre, senza mezze misure. Licausi, Portella delle Ginestre, Pio La Torre. Queste cose ci mancano, e non ne possiamo fare a meno ancora per molto. Abbiamo bisogno di qualcosa su cui i "galantuomini" non possano mettere le mani. Qualcosa che esprima la radicalità, la visceralità, la faziosa irriducibile avversione dei Siciliani non-galantuomini al potere mafioso. Non è più questa la vecchia sinistra, e non c'è ancora la nuova. Ma forse il Coordinamento antimafia, una strada siffatta, l'ha cominciata ad aprire. Rozzo, maleducato, difficile da ragionare: però schierato là fino in fondo, fuori da ogni circolo perbene e impossibile da gattopardare. Il ruolo del sindaco Orlando, il rinnovamento della sinistra, il nome dei comunisti, gli assetti di palazzo di giustizia, i pentiti, l'estate palermitana, la pidue; la stessa sopravvivenza fisica - infine - dei militanti antimafiosi. Tutti argomenti importanti, su cui ci sarà molto da ragionare. Ma, a monte di tutti questi, e di ciascuno di essi, resta l'argomento fondamentale che è il seguente: che cosa sostituiremo, nella lotta di tutti, a ciò che avevamo una volta e ora - digerito dai "galantuomini" - non abbiamo più. IL NOSTRO DOVERE Antimafia, gennaio 1991 La colpa non è di Cossiga. Nè di Salvo Lima, di Craxi, di Andreotti, di nessuno di coloro che, fra uno scandalo e l'altro, hanno consegnato un Paese a tutti i poteri del male,fra cui la mafia.E che altro potevano fare? Erano qui per questo. Un tribunale dichiara ufficialmente,in Italia, che la mafia non esiste (al massimo, i singoli mafiosi); un pubblico funzionario, al vertice dello Stato, "decide e dispone" che i magistrati della Repubblica non son degni d'ascoltarlo (al massimo, quelli scelti da lui); avventurieri e mascalzoni raccontano compiaciuti ai giornali come avevano bene organizzato il colpo di Stato e la guerra civile (magari,coi mafiosi a far da sgherri). La colpa, di tutto questo, non è loro. La colpa è nostra. Nostra, di noi antimafiosi. Perchè non è vero che la gente, a tutto questo, non si oppone. Gli studenti di Gela, la loro parte, l'hanno fatta.La primavera di Palermo,in Sicilia,c'è stata. Ma la primavera è finita - e i ragazzi di Gela, traditi dal loro Stato, sono rimasti soli. Certo, la primavera continua, sotterraneamente: ma intanto a Palermo comandano di nuovo i comitati d'affari. Certo, gli studenti hanno saputo - a Gela ome altrove - reagire con dignità, rinfacciando allo Stato la sua fuga e andando avanti da soli: ma intanto la mafia occupa militarmente la zona. Si può lottare insomma, in questo modo, ma non vincendo. Salva la dignità, non l'avvenire. Non mancano le forze. Manca il punto di riferimento, l'aggregazione. Qui, dico che la colpa è nostra. La gente sta aspettando una bandiera, che noi abbiam timore a innalzare. Chi è stato il più votato a Palermo,chi a Torino? Due persone perbene, due antimafiosi. E dov'è Orlando adesso, dov'è Novelli? A far belle battaglie,a denunciare,a polemizzare coi partiti - non a vincere, non a ricostruire. Chi era, in Sicilia,il comunista più legato - dopo Pio La Torre - al movimento antimafioso? E dov'è Galasso adesso, se non a testimoniare, combattivo e isolato,la sua idea? Chi è riuscito a muovere la società civile a Milano, chi ha contrastato fin lasssù, ai primi segni, la mafia che avanzava in Lombardia? Ma che strumenti ha Dalla Chiesa, adesso, per vincere e non solo denunciare? Non mancano le forze. Nè a Orlando nè a Novelli né a Galasso né a Dalla Chiesa è mai mancato, in campo aperto, il sostegno popolare. Contrastati e isolati dai partiti, non lo furono mai dalla gente comune: pochi personaggi pubblici, in Italia, son forse stati più popolari. Con tutto ciò,si continua ad arretrare; mentre la bella Repubblica va in pezzi, coloro che dovrebbero esserne i campioni combattono sì, ma come combattevano i cavalieri della Tavola rotonda: che partivano quando garbava loro, isolatamente, cercavano i loro orchi e i loro draghi, e tornavano - da punti diversi - dopo un anno, fieri delle loro individuali avventure. I barbari, frattanto, devastavano il paese. Noi non abbiamo bisogno di sangiorgi a cavallo. Vogliamo uomini che sappiano unirsi fra loro, raccordare le varie esperienze e il coraggio, creare un polo su cui, fuori dalla "politica",ogni buon cittadino si riconosca. Vogliamo che la protesta e la collera, che crescono quotidianamente, trovino dove coagularsi; non più disperse, o raccolte da furbi e lestofanti. Vogliamo che ognuno faccia il proprio dovere, e il dovere di chi ha responsabilità di politico in questi momenti - quando essa venga da libera simpatia popolare e non da segreterie di palazzo - è di assumere il proprio ruolo fino in fondo, senza ritrosie inopportune e titubanze; con senso dei propri limiti e infinita umiltà, ma sapendo che qualcuno, quando l'ora viene,deve pur chiamare a raccolta. Perchè l'ora è gravissima, e tutto ciò che amiamo è minacciato. Fare un partito nuovo, dunque? No: quelli, se li faccia chi ci crede. Se lo faccia chi vuol levare un Cossiga dalla poltrona per metterci un Craxi, se lo faccia chi sogna repubbichine bergamasche e varesotte, se lo faccia - o, se già c'è, ci rimanga - chi vuol girare intorno alle cose, cambiare perché non cambi niente. A noi serve qualcosa di più serio di un partito. Una forza diversa, un comitato di liberazione e d'azione: che stia al nord come al sud e dappertutto; che non abbia zavorra d'ideologia ma unisca senza tanti fronzoli chiunque sia personalmente disposto a far qualcosa. Che, quando occorre, presenti liste di cittadini: liste non di partito vecchio o nuovo, nè commissionate - sia pure con nobili intenzioni - a tavolino, ma scelte liberamente in libere assemblee di cittadini. Non per costituire delle aggregazioni permanenti di potere ma semplicemente per aver nelle istituzioni, qui ed ora, uomini che - per un tempo rigidamente determinato, e con un programma essenziale e d'emergenza - provvedano dove bisogna. IL CASO NON E' CHIUSO Antimafia, luglio 1991 I giudici di Catania che si sono succeduti - con rare e isolate eccezioni nel corso degli ultimi sette anni non hanno atteso l'intimazione del presidente Cossiga per adottare la norma che "non è compito dei giudici combattere la mafia". E' il primo pensiero che viene in mente leggendo le motivazioni con cui la magistratura catanese dichiara ufficialmente chiusa l'indagine sull'assassinio del direttore de "I Siciliani" Giuseppe Fava, avvenuto per mano mafiosa il 5 gennaio 1984. Non perchè anche questo delitto rimane - come infiniti altri - "ad opera d'ignoti", nè perchè manifestamente emerge dalle carte depositate l'inefficienza tecnicoprofessionale dei magistrati preposti ad indagare: questo si sarebbe potuto anche comprendere, forse persino perdonare. Ma perchè in realtà quest'inchiesta - e la cosa appare evidentissima dalle carte processuali - non s'è voluta fare. Non si sono volute seguire le piste che uno sguardo anche superficiale ai fatti avrebbe suggerito. Non si sono volute tenere in alcun conto le indicazioni che amici e familiari dell'assassinato non avevano mancato di dare. Non si è voluto insomma applicare alle indagini su un delitto di mafia la serietà che indagini di questo genere implicherebbero, e si è anzi cercato di negare il più a lungo possibile che di delitto di mafia si trattasse. Il risultato, sono quegli striminziti quinterni in cui, al termine di sette anni di "indagini" successivamente condotte da una dozzina di magistrati, si compendia tutto ciò che la giustizia catanese è stata capace di produrre su questo caso. Cioè niente. Per tutto il 1984, obiettivo principale dei magistrati preposti al caso è stato di dimostrare che la mafia col delitto non c'entrava nulla. Per almeno sei mesi, hanno indagato minuziosamente sulla vita privata della vittima e dei suoi collaboratori, nell'intento di trovare un qualche appiglio che potesse consentire di scagionare i mafiosi. Hanno esaminato minuziosamente tutti gli assegni firmati negli ultimi dieci anni da Giuseppe Fava e dai suoi collaboratori e familiari, utilizzando le facoltà previste dalla legge La Torre, istituita per indagare sulla finanza mafiosa ma a Catania utilizzata per indagare sulle vittime della mafia. E così via. Si distinsero particolarmente, in questa prima fase dell'inchiesta, i magistrati Giulio Cesare di Natale ed Aldo Grassi, entrambi oggetto più tardi di provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura; dei due, il primo fu costretto a dimettersi dalla magistratura mentre il secondo, trasferitosi prudentemente, proseguì la sua carriera fino alla Corte di Cassazione, dove siede tuttora. Sarebbe lungo rifare la storia di questi sette anni di "indagini" che non furono tali. Dei pentiti che si dichiaravano disposti a parlare e venivano immediatamente minacciati con la pubblicazione sul giornale "La Sicilia" del loro nome cognome indirizzo e foto. Dei collaboratori di Fava minacciati e - in almeno un'occasione - accusati, nei locali della questura, di essere i veri autori del delitto. Delle campagne di stampa con cui il giornale degl'imprenditori catanesi portava avanti le tesi di volta in volta più favorevoli all'assoluzione delle responsabilità mafiose. Di tutti questi anni, non un istante è stato dimenticato. Sono stati anni di feroce menzogna, questi, per i potenti; ma anche, per molti e molti giovani catanesi, anni di apprendimento della dignità. La lotta per la verità, in questi anni, non ha mai avuto molti mezzi materiali, ma isolata non è rimasta mai; nella coscienza della gente comune, la verità è arrivata molto presto, su chi avesse ucciso Giuseppe Fava e perchè; soltanto nel Palazzo non è arrivata mai. Il caso, per quanto ci riguarda, non è chiuso. E non lo sarà finchè giustizia non sarà fatta. Non sappiamo se ciò riguarda ancora il Palazzo di giustizia, e in generale i palazzi; riguarda sicuramente tutti gli esseri umani che stanno faticosamente ricostruendo la loro società. Quanto ai magistrati catanesi, ce n'è di giovani, negli ultimi tempi, che cercano di operare onestamente, per quanto le loro forze consentono, per fare il loro dovere con serietà. Non che siano incoraggiati dall'alto (appartengono a quei "giudici ragazzini" che il presidente della Repubblica si compiace d'ingiuriare), ma insomma vanno avanti. Auguriamo loro di riscattare la vergogna che sul palazzo di Giustizia della loro città è stata gettata da questi sette anni. L'ESTATE CHE volantino, estate 1991 Sabato 11 luglio, a Roma, ci siamo incontrati cinquanta gruppi giovanili di base provenienti da tutta Italia. Associazioni cattoliche, centri sociali autogestiti, gruppi di volontariato, nuclei d'immigrati: c'era di tutto. Storie molto diverse fra loro, con quasi nulla in comune salvo il fatto di essere tutti impegnati in prima persona e senza mediazioni "politiche" per cambiare ognuno il proprio an golo di società. E' stata una giornata molto bella. Ciascuno dei ragazzi che sono intervenuti (e sono intervenuti tutti) aveva una sua esperienza da raccontare: quelli di Aversa l'assistenza agli immigrati, quelli di Capaci la conquista di una spiaggia libera in un paesino in cui tutte le spiagge sono a pagamento, quelli del Corto Circuito il lavoro che fanno nel loro quartiere, quelli di Catania il doposcuola organizzato coi ragazzini del quartiere "di mafia", e così via. Tutti s'incontravano per la prima volta ma c'era un'atmosfera di grande fiducia reciproca, di molto lavoro serio da fare insieme. Nessuno aveva in mente, naturalmente, di fare il centesimo gruppo/partito/partitino. Ma tutti si rendevano conto che un collegamento fra tutte queste situazioni male non ne farebbe. Così sono venute a galla alcune idee. Intanto, di stabilire questo collegamento sotto forma di agende, di giri di telefonate ecc., senza nessuna ufficialità. Vedere se questo collegamento può avere bisogno di una spece di foglio da fare e far girare nelle varie situazioni. Poi, di stabilire delle iniziative da fare insieme in autunno. Quali iniziative? Bisognerà definirle tutti insieme. Intanto, però, alcuni punti su cui riflettere, quelli che eravamo all'incontro, siamo riusciti a stabilirli: - Quelli che venivano dalla Sicilia hanno parlato di mafia e antimafia. Non è, hanno spiegato, una faccenda di polizia. E' una faccenda che riguarda tutta la gente e che può essere affrontata solo se il movimento antimafia diventa nazionale e riesce a togliere dalla scena i politici e i cavalieri mafiosi. Questo significa meno Maurizio Costanzo show e più organizzazione di base contro i potenti mafiosi. - La faccenda di Di Pietro e delle tangenti. Chi deve "fare pulizia", oltre ai giudici? I personaggi perbene (Rotary, La Malfa, leghisti vari) oppure i semplici cittadini che pagano per tutti e non vengono mai consultati? Ci piace "viva Di Pietro", ma non dev'essere una cosa da spettacolo, discoteche: dev'essere un movimento serio, di gente di base, che si colleghi fraternamente con coloro che contemporaneamente lottano contro la mafia a sud. Tangentisti e mafiosi, tutti insieme. - Il mestiere più diffuso in Italia è ancora l'operaio. L'operaio, e in genere quello che vive di stipendio, a dicembre si vedrà portar via mezza tredicesima, per pagare le tasse dell'"emergenza" (lasciamo perdere l'aumento delle tasse all'università). Questo è profondamente immorale. La lotta contro il potere mafioso e contro le tangenti non deve significare "paga Pantalone". Diritti e doveri, tutti uguali. Non ci dimentichiamo degli operai. Tutto qui. Non abbiamo moltissime idee, come vedete, non siamo i maestri di nessuno. Però vogliamo discuterle, unirle con le idee degli altri, mettere in moto un processo. Con umiltà e pazienza, ma anche con moltissima fiducia e determinazione. Chiediamo a tutti, ma soprattutto a tutti i gruppi, di qualsiasi tipo, che fanno una qualunque attivià di base, di contribuire a questo processo. Di portare ognuno la propria esperienza, le proprie idee, con altrettanta fiducia, con altrettanta serietà. NON vogliamo fare un partito! Ma vogliamo smetterla di essere delle isole ognuna per sè. Non c'è niente, profondamente, che ci divide. Dobbiamo solo imparare a rispettarci reciprocamente, a parlare con persone diverse da noi, a lavorare insieme. Centro sociale Corto Circuito, Roma; Il pane e e mele, mensile dei giovani di Napoli; Seminario Società, Università di Palermo; Gridalo Forte, Roma; Abc Musicanti di Brema; Centro sociale Cecchina; Lega per il diritto al lavoro degli handicappati, Roma; gruppo rock Drago e i Coyots, Roma; Centro sociale Brancaleone, Roma; Zero95, mensile dei giovani Antimafiosi, Catania; Centro sociale Auro, Catania; Associazione anticamorra I Care, Napoli; Dipingi la Pace, Palermo; Aurentinoccupato, Roma ; Ti Con Zero, collettivo degli studenti di fisica, Palermo; La Spiaggia, collettivo di Sciacca; C'era una volta una terra libera, studenti di scienze politiche, Padova; Teatro Movimento '90, Roma; Associazione Il Fortino, San Felice Circeo; Associazione Movida, Napoli; Centro sociale Auro e Marco, Spinaceto ROoma; Collettivo comunista universitario, Roma; Federazione democratica, Milazzo; Circolo Robert Owen, San Giorgio Ionico; Movi movimento volontariato, Napoli; Pensionati occupati Politecnico e Statale, Milano; Collettivo politico San Leonardo, Milano; Gruppo Giovanile '88, Capaci; Collettivo Il Graffio, Torino; Associazione Senza Confine, Roma; Lega Obiettori Di Coscienza, Napoli; Laboratorio Antimafia, Milano; Centro sociale Officina 99, Napoli; Associazione La Mongolfiera, Catanzaro; Centro socioculturale Garbatella, Roma; Circolo Mare Aperto Roma; Centro assistenza extracomunitari La Roccia, Aversa; Associazione italiana paraplegici, Roma; Conosud, cooperazione nord-sud, Taranto; Movi movimento volontariato, Salerno; Uawa, Union Asiatic Workers Association, Roma; Comitato per la difesa di Villa Pamphili, Roma; Nero E Non Solo, Caserta; Associazione studenti Charlie Brown, Taurianova; Giovani Oltre Limite, Gela; Cordinamento antimafia, Palermo LA RETE Antimafia, luglio 1991 Prima del referendum e delle elezioni in Sicilia, Craxi Cossiga e Bossi sembravano i padroni del mondo. Dopo il referendum e le elezioni, ne restano le caricature: Cossiga e Bossi a proclamare repubbliche e repubblichette, Craxi a fare i conti col suo Gran Consiglio, dove fra molti staraci s'affaccia già qualche Ciano. Tutto questo, s'intende, potrebbe anche non servire a niente, se Cossiga e Craxi continuassero a venir presi sul serio da Occhetto (che si ostina a considerare il primo un presidente e il secondo un socialista); ma, se la sinistra sapesse cogliere le occasioni, per il regime potrebbe anche essere l'inizio della fine. In ogni caso, la campagna gelliana per la Seconda Repubblica finisce qui: grazie al signor Mario Rapisarda, cittadino di Belpasso (Catania) il quale - insieme a un bel po' d'altri italiani come lui - nel giro di otto giorni ha legnato Craxi prima col "sì" al referendum e poi con la crocetta sulla Rete, mentre intellettuali e strateghi della sinistra perbene discutevano garbatamente i pro e i contro di una repubblica piduista. Un ultimo saluto agli ex-conquistatori spiaccicati per terra, e passiamo alla Politica Seria. Fra i protagonisti della quale, a questo punto, il lettore non mancherà probabilmente di mettere il Partito della Rete: che dev'essere un partito ben serio, per essere riuscito a strappare, con un'abile e ben congegnata campagna elettorale, la prima vittoria della sinistra di questi anni; e dunque un partito degno di dialogare con tutti gli altri partiti seri d'Italia. E invece no. La Rete non è affatto un partito serio, anzi, a Dio piacendo, non è affatto un partito: ha provato qua e là ad esserlo, ma con esiti - sul piano propriamente partitico - disastrosi. La campagna elettorale della Rete in Sicilia, in particolare, è quanto di meno "serio" si possa immaginare. In sette province su nove, in effetti, la campagna elettorale non c'è stata: sono stati distribuiti dei volantini e appiccicati dei manifesti da gruppi sparsi di simpatizzanti, spesso non "ufficiali" (i rappresentanti "ufficiali" spesso erano semplicemente i primi che s'erano presentati a chiedere la maglietta della Rete). A Palermo, invece, di campagne elettorali ce ne sono state almeno tre, del tutto distinte fra loro: gli ex-democristiani; il Coordinamento Antimafia; e gli ex-Verdi di Capanna, avvolti in una complicatissima strategia di Egemonia Leninista dentro-e-fuori la Rete). A Catania infine la campagna elettorale c'è stata ed è stata una sola, ma solo perchè persone di buon senso avevano tempestivamente provveduto ad accoltellare prima tutti coloro che cercavano d'imbarcarsi alla gattoparda in Rete, e a nasconderne i cadaveri nell'armadio; e anche lì, qualche gattopardino sopravvissuto (un Di Mauro, ad esempio) non è mancato. Il tutto, coordinato da un coordinamento nazionale che ha brillato, nei momenti migliori, per la sua assenza. Per condimento, l'isolamento in cui - giustamente - il sistema dell'informazione ha lasciato la Rete fino all'ultimo momento, avendo l'intelligenza di isolare ulteriormente, all'interno di essa, i candidati e le culture mmeno compatibili con esso. Con tutto questo, la Rete ha vinto strepitosamente. Secondo me, non ha vinto il partito della Rete; hanno vinto i cittadini che si sono serviti della Rete. Non per le insufficienze tecniche del partito-Rete: ma proprio perchè un soggetto politico vero, oggigiorno, può essere "semplicemente" questo: uno strumento aperto, povero di sovrastrutture "politiche" ma ricco di combattività e di valori, che la gente utilizza quando vuole e come vuole. E la politica? Ma la politica vera è un progetto che si riempie a poco a poco, che non nasce già completo nella testa di qualcuno, ma che va raccogliendo strada facendo le cose che la gente ci mette (e bisogna vedere che tipo di gente, come sociologicamente e culturalmente determinata). Che poi non è nemmeno una novità, perchè è esattamente quel che è successo nei grandi momenti di fondazione della sinistra; il Terzo Stato è nato prima del "partito" giacobino, il movimento operaio prima dei partiti socialisti; l'uno e l'altro hanno avuto bisogno di parecchio tempo per sviluppare delle strutture politiche formali. La Rete, in Sicilia, è una tappa di questo "poco a poco". Una tappa particolarmente veloce, rispetto ad altre, perchè in Sicilia la società e il potere sono così direttamente contrapposti (il potere mafioso è una forma molto totalitaria di dominio sulla società) che è impossibile andare piano; altrove c'è tempo e voglia per molte, diciamo così, mediazioni; qui da noi no. In Sicilia, inoltre, già negli anni ottanta la società civile ha conosciuto esperienze di scontro diretto col potere mafioso (il Coordinamento Antimafia a Palermo, I Siciliani a Catania) che grazie alla Rete non sono andate disperse, ma sono entrate in un circuito potenzialmente nazionale; e anche ora - per esempio, nel passaggio della Rete da fenomeno regionale a nazionale, e da movimento della sinistra cattolica a movimento della società civile nel suo complesso - hanno svolto una funzione essenziale spingendo in avanti e verso l'unità forze che diversamente avrebbero potuto anche rimanere meno avanzate, e divise. La Rete, adesso, ha delle scelte da fare. Può trasformarsi, consapevolmente o meno, in un partito tradizionale, raccogliere subito i frutti della vittoria siciliana, rafforzarsi organizzativamente e andare avanti con "sano realismo" verso il cinque per cento alle prossime elezioni. Oppure può cercare di diventare sempre più una rete, un collegamento fra cittadini, un metodo di lavoro. Ci sono degli obiettivi realistici - ad esempio: esprimere un governo della Repubblica fra il 1992 e il 1997 - che solo essa può avere l'ambizione di porsi: ma a condizione di avere contemporaneamente l'umiltà di porli non per se stessa in quanto tale, ma per se stessa in quanto struttura di servizio di una parte molto ampia della società civile. Concretamente, credo che bisogni parlare fin dall'anno prossimo di un governo ombra. Ma non nel senso caricaturale delle pie aspettative di un partito, bensì come risultato finale di una serie di elaborazioni, di proposizioni, di selezioni che avvengano nel seno stesso della società civile, al di fuori del sistema dei partiti oggi esistenti. Credo che bisogna parlare da subito di una lista da presentare alle elezioni dell'anno nuovo; ma non nel senso minoritario di una ennesima lista - elaborata a tavolino - "del buon partito", bensì come risultato finale di una serie di assemblee, di convenzioni, di votazioni formali che avvengano nel seno stesso della società civile, al di fuori del sistema dei partiti oggi esistenti. Credo ancora che bisogna riflettere profondamente sul messaggio che la parola "referendum" lancia ancor oggi - come il povero Craxi ha dovuto constatare - ai cittadini; e organizzare dunque al più presto almeno un altro referendum (i temi, sono quelli di questi anni) perchè la società civile possa riprendersi di forza, uno dopo l'altro, tutto ciò che il regime le ha strappato questi anni in fatto di diritti civili e di qualità della vita e di valori. Abbiamo alcune poche strutture, ma abbiamo soprattutto un metodo da offrire a tutti, e prima degli altri a noi stessi. Perchè anche noi della Rete abbiamo molto da imparare, su come si fa una Rete. Il Movimento per la Democrazia non è certamente l'unico, a poter imparare-insegnare tutto questo. Ma intanto è il primo. Ha delle esperienze, ha un'immagine, ha la simpatia di tantissime donne e uomini che istintivamente lo sentono dalla loro; ha dunque una notevole - e non delegabile - responsabilità. Ha un gruppo dirigente nazionale di buon livello, assolutamente pulito, ancora poco veloce ma già molto solido e sufficientemente coeso. Gli mancano i dirigenti e i quadri intermedi, che prima o poi bisognerà decidere (o non decidere: che è lo stesso) come e da dove selezionare, se con metodi e in ambiti - come in buona parte è avvenuto finora - tradizionali, o con metodi e provenienze da esplorare rischiando; su questo, in buona parte, si decideranno delle cose importanti nei prossimi anni. Nei primi giorni del 1991 il popolo italiano scoprì, improvvisamente, che la sua classe dirigente voleva fare una guerra. I vecchi hanno le idee molto chiare, in Italia, su quel che vuol dire una guerra. Per alcune settimane, nonostante giornali televisioni e Minculcop di vario genere, gli italiani hanno avuto una maggioranza assolutamente antiregime, una maggioranza contro la guerra. A metà del 1991 il popolo italiano scoprì, improvvisamente, che esisteva una vaga possibilità di dire alla sua classe dirigente quel che pensava della moralità di essa. E ancora una volta, ma su un argomento completamente diverso dal precedente, nonostante giornali televisioni e Minculcop di vario genere, gli italiani hanno avuto una maggioranza assolutamente antiregime. Infine, la Sicilia: un palermitano su quattro, nella capitale del potere mafioso, cioè del più massiccio potere dell'Italia intera, ha votato per la ribellione. Come non essere ottimisti, di fronte a questo? Il nemico non è invincibile, siamo noi che non siamo ancora all'altezza. Ma c'è una prima volta per tutto, e a poco a poco s'impara. Intanto, la società civile è uscita in campo: battendosi nella politica, stavolta, non solo facendo discussioni. Bene o male, molti o pochi che siano gli errori da commettere e commessi, la strada è questa, ed è una strada ormai aperta. QUIXADA 1991? Caro amico, avrei così tante cose da scriverLe, ma la più immediata secondo me è questa: sul prossimo numero di Avvenimenti che Le porterà Antonella ci sarà un articolo di Miki, e uno di Antonio, e uno di Claudio. Provvede Lei a tirare la somma? Tutto questo, per dirLe che sarebbe veramente di pessimissimo gusto se, in questa nuova partita che si va- non so come - ad aprire, non ci fosse anche Lei. Posso saltare un paio di passaggi? Sarebbe molto bello se, fra qualche mese, la situazione dell'universo fosse la seguente: a) la gentile signorina C., che la settimana scorsa ha dato Storia Moderna II, è intenta a riscrivere per la settima volta il suo ultimo racconto, che verrà pubblicato quanto prima da La Luna; b) il valente signor Orioles, che ha appena preparato i palinsesti peril primo numero dei Siciliani, sta passando in tipografia l'articolo di Miki su Rendo; c) l'eccellentissimo dottor Quixada è alle prese con i primi due capitoli dell'attesissimo volume sulla criminalità minorile in Italia; d) il cameriere del Caffè della Pace sta raccontando al collega come gli siano stati richiesti ieri, da tre inqualificabili figuri, altrettanti gelati per un totale di quattordici gusti diversi. Vorrei Lisia o Demostene, qui, perchè non ci vorrebbe meno della loro eloquenza per essere convincente quanto vorrei: ma il succo è che se Lei volesse comandarsi decisamente di provvedere alla Sua salute - non per sopravvivere, ma per tornare in campo - molte belle cose avremmo ancora da fare; e quel che finora Lei ha fatto a Catania, si potrebbe cominciare a portarlo anche fuori. "Non ci sono uccelli nei nidi di ieri...". Ma forse, se Sancho fosse riuscito a far comprendere veramente quanto affetto aveva dentro, e quanta nostalgia, forse Quixada si sarebbe alzato coraggiosamente in piedi, avrebbe raccolto elmo e scudo, e sarebbero ripartiti insieme, alla faccia di tutti i cacadubbi e i farabutti. E chissà. Ci sono almeno due esseri umani, in questo mondo, che per la propria felicità dipendono assolutamente dalla Sua; una è Antonella, e l'altro sono io. Rimanga con noi, per favore, non si lasci smontare. NAZI Avvenimenti, gennaio 1992 Vergogna ai parlamentari del Pds, di Rifondazione comunista e della Rete che non hanno cercato d'impedire, sabato 13 a Roma, l'ennesimo raduno di nazisti venuti a esaltare i genocidi ed a prepararne degli altri. Vergogna ai loro dirigenti locali, troppo occupati in discussioni metafisiche per accorgersi di quel che succedeva nella loro città. Vergogna agli studenti, vergogna agli operai che hanno lasciato piazza libera agli hitleriani. Vergogna ai democratici e agli antifascisti. E vergogna a noi, che non c'eravamo. Il 13 giugno 1992 è una data da ricordare, nella storia di questa città. Per la prima volta, dopo tredici mesi di preparazione, i nazisti sono scesi in campo apertamente e con le loro parole, gettando in campo un progetto politico e una cultura, l'una che accetta e comprende il genocidio, l'altro che nuovamente lo programma. L'altra data è il 19 maggio 1991, la prima Soluzione Finale organizzata - si comincia sempre con poco - a Roma, il primo non-ariano eliminato in nome della Razza: Auro Bruni. A ricordare Auro, a lottare per lui, sono stati in pochi, durante un anno; sostanzialmente, gli amici del centro sociale dove fu ucciso. A muoversi contro i nazisti, il giorno che hanno portato i loro Goebbels a Roma, sono stati solo gli ebrei: un paio di centinaia di giovani e di ragazze, e otto sopravvissuti dei campi. E questo è stato tutto, e non c'è altro da dire. C'è invece qualcosa da fare per il domani. Intanto, mai più dev'essere permessa una manifestazione nazista a Roma. Bisogna impegnarsi, chi si dice ancora civile, ad impedire a qualunque costo, e con qualunque mezzo, che manifestazioni naziste possano ancora avvenire a Roma. Questa città ha avuto morti. Questa città ha visto spingere figli e madri sui camion dei nazisti. Ha avuto via Tasso. Mai più. Il capo del servizio di polizia, il 13 giugno, era un certo vicequestore Elio Cioppa, e il suo nome sta nelle liste della P2. Sarà solo una coincidenza. Ma intanto, sia trasferito. "Sono state fatte poche saponette", ha urlato un poliziotto agli ebrei, e il questore "annuncia provvedimenti". Provvedimenti? Ma in quale carcere si trova in questo momento costui, che ha commesso dinanzi a decine di pubblici ufficiali il reato gravissimo di istigazione al genocidio? In quale carcere si trova il nazista Maurizio Boccacci, che al vecchio che gli gridava "Ho fatto quattro anni ad Auschwitz" ha urlato "Troppo pochi"? Chi l'ha arrestato sul posto, come ordina e prevede la legge? Quale funzionario si è assunta la responsabilità di non procedere, come era suo preciso obbligo, a questi arresti? Quale sostituto procuratore di turno sta indagando - o non sta indagando - su questi reati? E' vero che a Roma esistono delle vere e proprie sedi, conosciute dalla questura e tuttavia tollerate, di un'organizzazione neonazista che si chiama Movimento Politico e che opera in flagrante violazione della legge sulla ricostituzione del partito fascista? Sotto quale ufficio di polizia ne ricade, territorialmente la competenza? E quali provvedimenti questo ufficio ha assunto? Chi si prende insomma, nome e cognome, le responsabilità? O deve finire come per gl'immigrati accoltellati a Colle Oppio, cogli accoltellatori nazisti allegramente liberi dopo pochi mesi, o come il corteo dei nazi a Santa Maria Maggiore, con sindaco e questore che si palleggiano garbatamente la responsabilità? Davvero deve finire così? Quella volta fu Dacia Valent l'unica a mettersi in mezzo alla strada, di traverso al corteo dei nazisti; e gli altri trecento parlamentari della sinistra dov'erano? Sabato 13 giugno, fra l'altro, dicono, l'Italia aveva un Presidente della Repubblica antifascista, uno che nel Quarantacinque c'era: perchè è stato zitto, i giorni dopo sabato, il presidente Scalfaro? Perchè? Non c'è da chiedere, stavolta, le dimissioni del questore di Roma. C'è da chiedersi, piuttosto, se egli debba rispondere, per azione od omissione, di responsabilità penali. Sulle quali, e su quelle dell'agente che ha insultato, e del nazista Boccacci, e dei responsabili di polizia che non hanno proceduto agli arresti, e degli attivisti nazisti, e di chiunque altro, è bene che cominci da subito a fare accertamenti un comitato di giuristi, che avanzi precise denunce, e che ne esiga il rispetto. Il resto, tocca ai cittadini democratici, fuori del Parlamento, e in Parlamento. UN DIBATTITO A CATANIA 1992? Ancora una volta si torna a parlare di Catania solo dopo un morto ammazzato. Per qualche giorno il "problema Catania" va in tv e sui giornali, si parla, si discute, e poi, come sempre, tutti se ne tornano - meno il morto alla vita di prima. Succederà molte altre volte ancora, e sta succedendo anche in questo preciso momento. Un esempio, per capirci. E' dieci anni che il giudice Scidà denuncia il fatto che i ragazzi catanesi, quelli dei quartieri poveri, sono i più emarginati d'Europa, che abbiamo il record internazionale di giovani rapinatori e disperati. Ed è da dieci anni che Scidà spiega perchè questo succede: perchè vengono da quartieri costruiti - costruiti dai cavalieri - per pura speculazione, senza nessuna struttura umana; perchè a chi comanda conviene che ci siano giovani disperati, diversamente il ruolo della mafia di garante dell'ordine non avrebbe senso; perchè gli esempi che questi giovani subiscono quotidianamente dall'alto sono solo e sempre di corruzione, di potere corrotto, di abuso. Bene, per dieci anni silenzio completo: Scidà veniva isolato, di quel che diceva non si doveva parlare, tutto come se non ci fosse. Poi finalmente un onorevole del governo ha scoperto le statistiche di Scidà: ah, ma allora è vero che a Catania c'è la criminalità minorile! Qui bisogna intervenire. Come? Risanando i quartieri? Mettendo questi ragazzi in condizione di vivere alla pari, di avere gli stessi diritti di tutti gli altri ragazzi italiani di vivere normalmente, in una città normale e non dominata dai cavalieri? No. Semplicemente, aumentando le pene e decidendo di mettere in galera più ragazzini. Perchè alla fine naturalmente debbono essere loro a pagare. Di cercare sul serio - per esempio - il boss Santapaola, e questo è un altro tema su cui Scidà da anni batte e ribatte completamente isolato, e senza nessun ministro che lo stia a sentire, di catturare il boss non si parla nemmeno. Tutti sanno che se Santapaola fosse preso, parlerebbe; e se parlasse, salterebbe per aria mezza Catania-bene. Dunque, prendiamo i ragazzini, e lasciamo in pace Santapaola. E poi facciamo tutte le manifestazioni che vogliamo contro la mafia, facciamo i cortei con l'arcivescovo che ha benedetto il supermercato di Costanzo, facciamo i dibattiti con Tony Zermo che ora fa il giornalista pensoso ma sei anni fa cercava di far passare Giuseppe Fava per un altro Pecorelli, facciamo le tavole rotonde con gli architetti di Costanzo come l'architetto Leone, facciamo le interviste con Pietro Barcellona che a Roma è un grande rivoluzionario ma qui difende Leone, facciamo gli incontri con Ciancio, riempiamoci la bocca di grande antimafia e gran società civile, e stiamo tranquilli che di questo passo nessuno ci metterà mai i bastoni fra le ruote. A chi possono fare paura tutte queste cose? Non certo alla mafia, non certo ai cavalieri che comandano Catania: ai quali invece facevano paura i Siciliani e faceva paura Giuseppe Fava. Una cosa hanno subito detto tutti coloro che hanno indagato su Catania con un minimo di serietà, Giuseppe Fava, Il generale Dalla Chiesa e Ccarlo Palermo. Hanno detto che Catania è caratterizzata dal dominio di quattro grandi famiglie. Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. Per anni noi dei Siciliani, che per il resto non pretendiamo d'insegnar niente e nessuno, abbiamo battuto e ribattuto ossessivamente su questo tasto: Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro; fino alla noia. Se avevamo ragione o no, e noi questo lo dicevamo quando la versione ufficiale era ancora "a Catania non c'è mafia", se avevamo ragione ormai ognuno può giudicarlo. Eppure, chi ha avuto il coraggio di ripeterlo in questi anni? Chi, dei vari rinnovatori, di tutti i vari Pannella, Bianco, Bommarito e compagnia bella ha avuto il coraggio e il senso di responsabilità di dire "noi vogliamo salvare Catania, e perciò invitiamo i catanesi a mobilitarsi contro i cavalieri"? Nessuno. Eppure, molti catanesi li avrebbero seguito, come hanno seguito noi, soprattutto i giovani, quando abbiamo avuto i mezzi per poter dire queste cose. Zermo, ora, piange le lacrime di coccodrillo e dice "abbiamo nascosto la verità per vent'anni". E lui dov'era? Ma noi non ce la pigliamo con Zermo, che è Zermo. Ce la pigliamo con tutti coloro che, giovani progressisti e pieni di belle parole, in buona sostanza si comportano - certo, meno rozzamente - esattamente come lui. Ce la pigliamo con tutti coloro, anche e soprattutto qui dentro, che prendono ancora questa gente per interlocutore, perchè dopo sei anni nessuno può ancora essere ingenuo e nessuno può più dire "io non sapevo". La salvezza di Catania non può venire da altri dibattiti e da altre eleganti discussioni, di queste ce ne sono state fin troppe e proppo spesso sono state un alibi per mascherare ciò che non si faceva, e ciò che si faceva. Bisogna invece riprendere, senza aspettarsi miracoli ma avendo fiducia nei giovani, la dura e onesta pedagogia dei Siciliani. I Siciliani non promettevano niente a nessuno, ma dicevano le verità, tutte le verità. I Siciliani non appartenevano a nessun partito, ma indicavano un nemico preciso, i cavalieri, e uno scopo preciso, cacciare i cavalieri. Questo si era cominciato a fare, questo dopo i Siciliani non s'è fatto più, e questo bisogna ricominciare a fare. Non è più la situazione di prima. Nessuno può più dire nemmeno per scherzo che a Catania la mafia non esiste. Nessuno può più far finta di non sapere che cos'è la famiglia Costanzo, o Finocchiaro, o Graci o Rendo. Nessuno che abbia a che fare con loro - qui una richiesta formale al Pci: Leone è ancora un vostro iscritto o no? - più può essere in nessuna maniera giustificato. Molte cose che dicevano i Siciliani - ad esempio il legame organico fra mafie e massonerie e servizi segreti, che noi denunciammo per primi, e da soli, molti anni fa, col professor Giuseppe D'Urso - ormai sono senso comune. E i Siciliani, attraverso mille difficoltà, non sono affatto dispersi. Siamo ancora qui, ancora collegati fra noi, ancora legati a questa città, ancora in grado di lavorare per essa, e più decisi di prima. E forse è il momento di rilanciare di nuovo gli strumenti organizzativi che, in questi anni, hanno permesso ai cittadini più responsabili e decisi di organizzarsi seriamente: a cominciare dall'associazione I Siciliani, in cui si sono riuniti e possono riunirsi ancora tutti coloro che, al di là delle appartenenze che ormai contano ben poco, vogliono lottare senza mezzeparole e compromessi contro il potere dei quattro cavalieri. Infine. Non è mai stato nostro costume rimuovere le cose più antipatiche, quelle che per diplomazia e buona creanza si preferisce dire fuori dell'assemblea. Per esempio, le elezioni, e i partiti. Il nostro giudizio sul complesso della Catania politica esistente è abbastanza noto. Si va dagli episodi tragici, come quello di un Caragliano che viene candidato alle elezioni, e addirittura votato, a quelli comici, come Pannella che arriva a Catania, imbroglia i catanesi, si fa dare i voti per combattere il potere... e poi regala cinque consiglieri alla Dc; e si passa per gli ormai numerosi rinnovatori, da Mirone ad Attaguile, da Bianco a Ziccone, ciascuno dei quali ha fatto milioni di dichiarazioni contro la mafia, e nessuno dei quali ha osato però prendere posizione sui cavalieri. Noi pensiamo che sarebbe un gran bene che qui a Catania ci fosse una lista nuova, anche proprio elettorale, e che non avrebbe molta importanza chi la promuovesse, purchè fosse, esplicitamente e senza tentennamenti, contro i cavalieri; perchè la radice del male sta lì. Appoggeremmo con piacere, anche se non siamo politici, una simile lista; ma denunceremmo come un ennesimo gattopardo chiunque venisse ad annunciare liste nuove e nuovi partiti e movimenti, e poi sulla faccenda dei cavalieri, e di gli uomini che del loro sistema sono parte, se ne stesse zitto. Una struttura nostra insomma, in tutte le istituzioni elettive; e dunque delle nostre liste e dei nostri voti. Ma "nostro" di chi? Ecco: se nostro significa di noi cittadini antimafiosi, che la pensiamo diversamente su mille altre cose e ci rispettiamo a vicenda, ma intanto contro mafia e cavalieri vogliamo fare qualcosa come un comitato di liberazione, allora è un bel "nostro", un "nostro" in cui possiamo tranquillamente entrarci tutti. Se invece vuol dire farumenti che non dipendano da nessuno, una struttura nostra insomma, in tutte le istituzioni elettive; e dunque delle nostre liste e dei nostri voti. Ma "nostro" di chi? Ecco: se nostro significa di noi cittadini antimafiosi, che la pensiamo diversamente su mille altre cose e ci rispettiamo a vicenda, ma intanto contro mafia e cavalieri vogliamo fare qualcosa come un comitato di liberazione, allora è un bel "nostro", un "nostro" in cui possiamo tranquillamente entrarci tutti. Se invece vuol dire facciamo un altro partito, un buon vecchio partito come gli altri, allora, altrettanto tranquillamente, non vale la pena di perderci tempo. IL PARTITO DI FALCONE E DEI RAGAZZINI Avvenimenti, gennaio 1992 "Il partito di Falcone e dei ragazzini" non aveva un comitato centrale o uno stemma, ma in realtà era l'unico partito esistente in Sicilia, oltre alla mafia. Il rumore di fondo, in quegli anni, era costituito dall dichiarazioni dei sindaci che escludevano l'esistenza della mafia nella loro città, dai giornali ad azionariato mafioso che invocavano silenzio, dalla brava gente che lavorava chiassosamente all'autodistruzione della sinistra, e dai colpi di pistola. Furono i ragazzini di Palermo a scendere in campo per primi. Il liceo Meli, l'Einstein, il Galilei, poi via via tutti gli altri. Si passava sotto il Palazzo di Giustizia e il corteo,che fino a quel momento aveva gridato a voce altissima i Nomi, faceva improvvisamente silenzio. Là dentro lavoravano i nostri magistrati. Falcone, Borsellino, Di Lello, Ayala, Agata Consoli, Conte: metà del Partito erano loro. L'altra metà, i liceali. A Catania, fra il 1984 e il 1986, furono almeno trecento i ragazzi che in una maniera o nell'altra parteciparono, da militanti, alle iniziative dei Siciliani Giovani: furono i primi a gridare in piazza i nomi dei Cavalieri e a lavorare quotidianamente - il volantino,il centro sociale, l'assemblea - per strappargli dagli artigli la città. A Gela, a Niscemi, a Castellammare del Golfo, nei paesini dove i padroni hanno la dittatura militare, essi vennero fuori e lottarono, paese per paese e città per città. "La Sicilia non è mafiosa affermavano orgogliosamente - La Sicilia è militarmente occupata dalla mafia". La Sicilia, dove ancora nel 1969 un ragazzo fu fatto uccidere dal padre - boss mafioso - perchè era iscritto alla Fgci. La Sicilia che ha combattuto, che non s'è arresa mai. Ha combattuto, ed ha fatto politica, ha ragionato. La politica come partecipazione, come trasversalità, come sociatà civile nasce nelle lotte palermitane e catanesi di quegli anni: oggi è common sense dappertutto. La fine del vecchio ceto politico, di tutta la vecchia storia, fu intuita per la prima volta qui. Non è un caso se il movimento studentesco, due anni fa, è ripartito da Palermo, e se là dura tuttora. Non è un caso se Palermo è l'unica città d'Italia dove sia cresciuta un'opposizione di massa, dove l'opposizione sia vincente. Non è un caso se a Catania il più totale black-out di tv e stampa non riesca - due volte in due anni - a fermare i candidati dell'opposizione. Non è un caso se a Capo d'Orlando i commercianti si ribellano, non è un caso se a Gela gli studenti restano organizzati; e non è un caso se a Palermo la gente non reagisce invocando la pena di morte ma individuando lucidamente le responsabilità dei politici di governo e prendendosela con loro. Dal 1983 - e sono ormai nove anni - in Sicilia è in atto, con alti e bassi ma con una sostanziale continuità; non ancora maggioritario ma già ben lontano dal minoritarismo. - un vero e proprio movimento di liberazione. Contro la mafia, ma anche contro tutto ciò che essa porta con sé. Questo movimento avrebbe potuto essere esattamente l'anello che mancava alla sinistra italiana, il punto di partenza per ricostruire tutto. Invece, è rimasto solo. Solo a livello di palazzi, di comitati centrali, di radical-chic, di giornali: non a livello di ragazzini. Domani, ad esempio ma non è una novità, perchè avviene regolarmente ogni settimana - c'è assemblea dei liceali dell'Antimafia a Roma. Sono i soli, in Italia, a non avere paura dello sfascio. Perché sanno che c'è una classe dirigente pronta a prendere la responsabilità del Paese anche domattina, se fosse necessario - e non è detto che non lo sia. Orlando, Claudio Fava, Carmine Mancuso, Dalla Chiesa? Sì: ma anche - e soprattutto - Davide Camarrone del liceo Meli, Antonio Cimino di Corso Calatafimi, Fabio Passiglia, Nuccio Fazio, Vito Mercadante, Angela Lo Canto, Carmelo Ferrarotto di Siciliani Giovani, Nando Calaciura, Tano Abela, il professor D'Urso: avete mai letto questi nomi sui giornali? Benissimo. Infatti, neanche i nomi dei primi socialisti uscivano sui giornali, cent'anni fa. Una metà del "partito" oggi non c'è più. Martelli, il giudice Carnevale, Pannella e Cossiga sono riusciti, ognuno con i suoi mezzi, a svuotare il Palazzo dai nostri magistrati e lo stesso Falcone, ben prima d'essere ucciso, era già stato messo in condizione di non essere più quello di prima. Dei "vecchi", solo Borsellino e Conte sono rimasti al loro posto. Ma nel frattempo sono cresciuti i Felice Lima, i Di Pietro, i Casson. TEMPO D'ELEZIONI Antimafia, febbraio 1992 Non so se il regime che verrà dopo quello democristiano sarà migliore o peggiore. So però che, di questo, siamo agli ultimi mesi. Cossiga, che come personaggio politico è mediocre, è tuttavia esemplarmente il sintomo di un'atmosfera culturale, una di quelle apparizioni che, nella storia di un paese, non possono aver luogo che in precisi e determinati momenti. Cossiga, Sgarbi, il giudice Carnevale, il socialista Chiesa: è la fotografia più puntuale dell'evoluzione cui è giunta la classe dirigente nazionale (c'è un'altra foto che si contrappone specularmente ad essa, ed è quella dei supermercati di un anno fa, con la gente che fa incetta di viveri, perchè non si fida). Bossi, D'Annunzio, Eltsin, Mussolini: in un regime che muore primeggiano gli avventurieri. Cossiga, fra i politici di mestiere, è stato quello che con più lucidità ha compreso questo dato di fatto, fino a decidere conseguentemente di farsi avventuriero egli stesso, con l'obiettivo sempre meno nascosto d'instaurare una sua dittatura personale. E qui arrivano le elezioni: che potranno andare meglio o peggio per il partito di Cossiga, ma ne sanciranno in ogni caso ufficialmente l'esistenza. Un terzo degli elettori, in diversa maniera, sarà schierato fuori e contro, dopo il cinque aprile, la nostra democrazia costituzionale. Sono stato ospite, l'ultima volta che sono andato a Palermo, da una delle compagne del Coordinamento. Trent'anni, una casa non ricca, un bambino che fa i compiti sul tavolo da pranzo; una cinquantina di libri in uno scaffale (biografie, antimafia, un po' di buona letteratura), tre o quattro fascicoli, semiaperti sul tavolo, di preparazione a un concorso. Il bambino sapeva perfettamente un sacco di cose su Palermo, e domandava e spiegava con vivacità e intelligenza. Io mi guardavo attorno, e sentivo un che di familiare e di noto, che tuttavia non riuscivo a precisare. I libri meticolosamente ordinati, il bambino, la compagna che riordinava rapidamente la cucina, l'aria di dignità - per così dire - militante che aleggiava per la casa. Solo parecchi giorni dopo, improvvisamente, ho collegato la scena a un'altra, di molti - almeno venti - anni fa, di quand'ero stato ospitato, in circostanze simili e sempre in Sicilia, da un compagno bracciante del Pci; anche là mi avevano colpito la pulizia e l'ordine della casa, e i libri raccolti alle pareti. E anche allora io cercavo una risposta a delle domande - diciamo così "politiche" - e a un tratto, improvvisamente, mi ero reso conto di averla avuta. E' facile essere un movimento in piazza. Ma io credo che un movimento vero - di quelli che cambiano il mondo, ogni cent'anni - consista soprattutto nella vita quotidiana di alcuni esseri umani. Al paese di Di Vittorio, molti e molti anni fa, i signori giravano con il cappotto, i contadini con la mantella. Di Vittorio era un giovane contadino. Un giorno decise di procurarsi un cappotto, e di andare in cappotto sulla piazza del paese. "Dopo" si accorse che quello che aveva fatto era stato un gesto politico. " Noi contadini siamo uguali a voi" voleva dire quel cappotto. Ed era il punto di partenza per tutto il resto. Sono stati molti i punti di partenza, in Sicilia, in questi anni. Ciascuno dei suoi protagonisti incontrava sempre sulla sua strada l'impatto con il sistema di potere, che da noi chiamiamo mafia, e che da noi è molto più esplicito e diretto che nel resto del paese. Per questo siamo stati costretti, fin dall'inizio e per tutto questo tempo, ad essere molto espliciti e diretti anche noi. Sono passati diversi anni prima che ci accorgessimo che tutti questi "punti di partenza" (col loro carico di vite quotidiane, di singole esperienze, d'umanità) potevano essere collegati fra loro; ma alla fine ci siamo arrivati. E siamo arrivati anche a capire che questo collegamento è "politico", ed è anzi la politica nella sua forma non corrotta e originale, quale compare nei tempi di crisi e di rifondazione. Parecchio tempo dopo, man mano che il regime democristiano (e dei partiti) aentrava in crisi, questa percezione si è fatta senso comune, a macchia di leopardo, un po' in tutto il paese. Ma siamo stati noi - noi movimento antimafia -, pur con tutte le nostre approssimazioni e rozzezze, a intravvederla per primi. Per questo abbiamo, oggi, una responsabilità. Dal momento che esistono delle istituzioni, e dal momento che abbiamo deciso che la nostra, fra l'altro, è una "politica", si è posto il problema di come portare questa politica "anche" nelle istituzioni (se toglieste quest'"anche" tutto il discorso assumerebbe un altro aspetto, e il movimento antimafia finirebbe dritto in qualche logica di partito o gruppettara). La maggior parte di noi abbiamo ritenuto che, qui ed ora, lo strumento migliore in questo senso fosse la Rete. La rete a cui pensavamo, per la verità, era molto più una rete con la erre minuscola, un insieme di collegamenti e di azioni, una Resistenza insomma, che una Rete con tanto di maiuscola come quella che ogni tanto minaccia di saltar fuori. Ma tant'è: avevamo, e in buona parte abbiamo ancora, fiducia in una serie di storie personali, in Orlando, in Dalla Chiesa, in Pintacuda, in Galasso, in loro ma soprattutto in una serie di realtà di base che in questa rete hanno trovato, bene o male, un riferimento. E anche oggi (per quanto le scelte elettorali del movimento antimafia siano lungi dall'essere omogenee: io ad esempio, al mio paese, voto alla camera per uno dei Siciliani nella Rete, ma al senato per un vecchio operaio che ora è a Rifondazione) anche oggi la scelta fatta mi sembra complessivamente giusta. Solo che adesso, diciamo dalle elezioni in poi, bisognerà mettere un bel po' di puntini dove ce n'è bisogno. Bisognerà stabilire se questa benedetta maiuscola, nella rete, ci sta bene oppure no, e di chi è questa rete, e con chi si fa. Non sarà una faccenda facile stabilirlo, e probabilmente litigheremo parecchio. Ma è meglio così: i compagni si aiutano molto di più litigandoci, chi gli vuol bene, che non lasciandogliele passare tutte. E questo vale per la Rete ma vale anche - beninteso - per tutto le altre bande di rossi, verdi, rosa e compagnia bella che, ognuno per la sua parte e senza filarsi per niente,disordinati e generosi, pieni di pregiudizi e di coraggio tentano tuttavia di ricostruire qualcosa. Se le elezioni non saranno un disastro, se il colpo di Stato non avverrà prima delle elezioni e non avverrà neanche immediatamente dopo, se la campagna elettorale sarà riuscita a portare a galla un certo numero di militanti di base, se le sinistre politiche riusciranno (a cominciare dalla Rete) a liberarsi almeno in parte da troppi politicanti e tromboni che ne affollano le file, se riusciranno magari a dare un minimo d'attenzione alle varie realtà di base che ne sono state finora le cenerentole e cassandre inascoltate; se riusciremo tutti ad ascoltarci l'uno con l'altro, a ricordarci in ogni momento della nostra "politica" la politica vera da cui siamo nati, allora forse avremo qualche possibilità di costruire qualcosa. Diversamente, in tempi rapidissimi, crollerà ciò che resta dell'attuale regime, e s'instaurerà qualcosa che prima farà ridere, e poi farà orrore. I Cossiga, i Carnevale, saranno senza remore i padroni; e abbiamo già visto cosa essi sentono per la mafia, di quale giustizia intendono farsi i vendicatori. Avranno campo libero i gerarchi: gli Starace, i Farinacci, i Chiesa, i Fini e i Bossi, gli Andò. Sul quale, voglio chiudere. La condanna dei giornalisti migliori che abbia oggi il Paese, condanna decretata sul tamburo e fulminata di getto, non merita - mi riferisco al processo contro Fracassi e Fava, indetto dallo stesso Andò - commento alcuno se non questo, che essa entra nella storia giudiziaria accanto a quella del giudice Russo che assolse gli amici dei mafiosi per "stato di necessità"; l'una e l'altra, per avventura, attinenti a faccende catanesi. Onorata condanna, per chi l'ha subita; da tenere a mente. Il giorno dopo, in Sicilia, le autorità (sentendosi evidentemente incoraggiate da essa) mandarono a chiudere, con gran spiegamento d'uomini e mezzi, i locali che i giovani avevano occupato per farsene centri sociali, e che le autorità intendevano invece regalare all'imprenditore Ciancio perchè ci facesse i suoi affari. Va bene: dopo le condanne del Tribunale, ai loro tempi, son solevano i fascisti andare - incoraggiati - a far festa bruciando sindacati e cooperative? Ma i regimi passano, la forza degli uomini liberi resta. Dell'onorevole Andò, personalmente, ricordiamo quanto ci disse Giuseppe Fava. Il primo numero dei Siciliani uscì nel dicembre 1982. A gennaio, arrivarono le prime "offerte": fra cui quella di un componente della Famiglia Rendo, che offrì per l'appunto al Direttore - senza, s'intende, far cenno minimamente ai Siciliani - la direzione di un'emittente televisiva, budget iniziale un miliardo. L'offerta, naturalmente, fu respinta. Sette mesi dopo l'onorevole Andò venne a trovare Giuseppe Fava e gli offrì - neanche lui fece il minimo accenno ai Siciliani - la direzione di un'emittente televisiva, budget iniziale un miliardo. Anche quest'offerta fu respinta, ed era l'autunno del 1983. UN PROMEMORIA PER LA RETE 1992 Non so a che punto sia il documento finale, ma vorrei uscire un attimo - ci torno subito! - dalla mia inossidabile Neutralità Professionale con qualche osservazione. Il documento a cui state lavorando ora non è infatti un semplice strumento di lavoro per l'oggi ma un imprinting per il complesso dell'iniziativa. Più che il programma, dà lo stile: e mentre l'uno può (e deve) essere facilmente superato e aggiornato dai fatti, l'altro viene definito, qualunque siano le intenzioni, una volta per sempre Il documento di cui la Mia Neutralità ha finora potuto prender visione è, in questo senso, piuttosto carente e richiama molto più il club che il comitato di liberazione. Non perché manchino - non è la sede - gli obiettivi d'azione ma perché i grandi e generali principi esposti non possono surrogare gli esempi, le fattispecie immediate e la tensione che un appello del genere dovrebbe avere ora. Qualcosa d'analogo vorrei osservare - ma ci sarebbe da analizzare assai più, sotto il profilo del messaggio - sulla sintassi e sul vocabolario usati e insomma sul linguaggio (che anch'essso fa imprinting, "almeno" quanto il contenuto); giustamente tenuto sottotono; ma è il sottotono di Micromega, non quello di Gobetti. Almeno quattro punti avrebbero potuto, e possono ancora, fare da ossatura al documento, quattro punti concreti, con una specificità operativa, e una immediata rispondenza nella coscienza comune Il primo, evidentemente, è la guerra. "Repubblica" ha censurato l'ultimo capoverso dell'appello ai parlamentari di Pax Christi, capoverso che costituisce il massimo di radicalità e sovversione degli ultimi vent'anni: "Risparmiateci, vi preghiamo, la sofferta decisione, quale extrema ratio, di dover esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza la enorme gravità morale dell'uso delle armi che essi hanno in pugno". Firmato, monsignor presidente e il Comitato esecutivo di Pax Christi; non smentito, la Chiesa. I preti, dunque, si rivolgono alla classe dirigente e le dicono: se voi farete la guerra, noi chiameremo i soldati a disertare. La classe dirigente, giustamente, censura il terrificante messaggio. Ma noi, ce ne siamo accorti? In queste ore fra il quindici e il sedici gennaio, non tanto nei comitati e nelle piazze quanto nella quotidianità della vita e nelle coscienze, l'Italia ha cambiato maggioranza. Io non esito a dire - ma le cronache istituzionali, a ben vedere, mi danno ragione - che questa maggioranza è cattolica e comunista, profondamente; nel senso che aveva al mio paese, subito dopo l'alluvione. L'Italia delle vetrine, in questa notte, s'è rivelata artificiale; l'Italia che s'era data per sepolta invece è viva, e molto spesso ha sedici anni. Io ve lo dico molto male, per come posso; ma è un preciso dato politico, non un sentimento. E' una richiesta precisa, a cui va data una risposta precisa - su guerra e dopoguerra - adeguatamente radicale. Di passaggio, nel vostro documento non si parla - mi pare - di studenti. Perché? In questo momento, fra i giovani si è andati - a livello di massa - anche al di là della Pantera: anche questa, per dei politici, è una richiesta precisa Il secondo punto riguarda, diciamo così, la giustizia: tutto ciò che ad essa si riferisce, compreso il funzionamento del nuovo codice, è generalmente vissuto come inaccettabile; e già si comincia ad affrontarlo da destra, nella cultura della paura. Affrontiamola noi, prima: campagna contro i nuovi codici, campagna per i magistrati, campagna contro lo smantellamento dell'antimafia; non sono battaglie già finite; sono semplicemente battaglie su cui, al momento in cui il potere le impose, non c'erano le forze e le culture; ma ora ci siamo noi, coi nostri otto milioni di elettori e il nostro laboratorio culturale. Sono battaglie nostre, possiamo riaprirle in qualsiasi momento, e il momento può benissimo essere ora. Il terzo, è la legge sulla droga: che ha colpito i giovani non tanto come consumatori di fumo (il che già è fascista) quanto come giovani propriamente: come gli esseri cioè che fanno o potrebbero fare qualcosa di non previsto, e che bisogna dunque incanalare a forza lungo una precisa e codificata "normalità". Il terzo punto potrebbe essere questo: riaprire il casino sulla legge Jervolino, fare il bilancio dei costi, rimetterla sfrontatamente in discussione, collegarla all'avanzare della mafia. Qui vorrei fermarmi un momento Sulla questione della mafia e delle massonerie, cioè della classe dirigente del Meridione e, fra due anni, dell'Italia, il documento è molto carente, nei contenuti ma soprattutto e sorprendentemente nella tensione e nel linguaggio. Proprio noi? Questo mi fa pensare. Qui, evidentemente, l'argomento è tanto radicale che Micromega fa più danno che altrove. Gli esempi concreti - noi abbiamo usato i Cavalieri - qui non sono utili, ma indispensabili; perchè qui proprio di lotta di liberazione, in senso stretto, si tratta: e non si può assolutamente pensare di ricavarla da principi generali. Quanto poi del movimento antimafioso nostro possa essere "esportato", quanta parte della sua cultura possa funzionare altrove, quanto esso possa complessivamente e dovunque prefigurare - in quanto movimento - la sinistra di domani, è tutto da discutere (io rispondo settariamente "tutto" a tutt'e tre le questioni: ma è personale) e soprattutto da verificare concretamente nei fatti, non certo ora: ma l'esperienza antimafiosa è la parte più vitale, più generalizzabile e più calda del nostro imprinting, e non va semplicemente enunciata Il quarto punto che proporrei è relativo all'organizzazione. Che per noi non dev'essere l'allegato meno nobile, e separato, del progetto, ma una sua parte politica, e integrante. Organizzazione di chi? Non dell'associazione separata che per avventura chiamiamo Rete, ma di ogni qualunque associazione di cittadini (e "anche" della nostra) che voglia far società direttamente, e senza mediarsi nei partiti. Servono delle tecniche: quali sono? Come potrebbero configurarsi da un punto di vista associativo, e giuridicamente? Vogliamo cominciare a studiarne qualcheduna? E a metterne in comune con tutti i risultati, come primo contributo istituzionale concreto? Non si tratta di abolire i partiti - ha ragione Diego - ma di proporne un modello alternativo. La parola "partito" può essere mutata, ma il concetto no. Pure, sotto questo concetto si sono succedute cose tanto diverse come il club giacobino e il comitato liberale, la sezione comunista e il sindacato brasiliano, che ormai è tempo di pensare un po' meno alla polemica sui nomi e un po' più allo studio, e alla proposizione concreta, delle strutture. E' un nodo decisivo - consente d'uscire dalla scelta fra partito burocratico e folla di seguaci - e la gente lo comprende. E' un punto politico del progetto Non è tutto qui. Una delle novità rispetto al modello tradizionale di progetto è proprio questa, che non bisogna essere esaustivi. Basta sapere ma dire con chiarezza totale, e con nitidezza e umiltà di linguaggio - il dieci per cento delle cose; le altre, toccherà ai diretti interessati di portarle, e sedimentarle e amalgamarle via via con quel che c'è già. Non mi azzarderei, per esempio, di parlare di problemi delle donne; o di operai. Ma posso annotare che un movimento in cui prima o poi non venga sollecitato, o non irrompa, un input specifico di questo genere sarà portato inevitabilmente ad essere nei suoi momenti "medi" un movimento "borghese" e "maschilista"; non sarà, in ogni caso, un movimento di tutti. Ma, per questo c'è tempo Affettuosamente, vostro neutralissimo P.S.: Istituite gruppi di lavoro per robe specifiche, aperti a tutti. Ogni città (= ogni Rete) un gruppo di lavoro su un problema diverso. MODESTA PROPOSTA per trarre celermente a fine, con reciproca e duratura soddisfazione delle Parti, i Conflitti presentemente in atto nei Balcani 1992 Da che mondo è mondo le guerre si fanno principalmente - ed è principio ormai universalmente compreso - per conseguire benefici economici di breve o lungo periodo. La maniera di condurle è peraltro completamente diversa da quella dei capitani del passato: ci si bombarda reciprocamente i bambini finchè una delle due parti non cede; il che è indubbiamente un vantaggio per i soldati. E sarebbe senz'altro da approvarsi se conducesse allo scopo; ma così non è. Possiamo infatti agevolmente osservare come i bombardamenti non abbiano finora dato luogo a beneficio economico alcuno per chicchessia, ma con ogni evidenza il contrario. Se ne ricava una legge, che enuncerei così: "Il degrado economico dei Paesi belligeranti è direttamente proporzionale all'aumento del numero dei bambini bombardati". Il che, a prima vista, non apparirebbe razionale, essendo stato l'evento prodotto in vista di un obiettivo esattamente contrario. Ma, a una più approfondita riflessione, la contraddizione si spiega. Dietro la semplice locuzione "bombardare i bambini" si cela infatti tutto un congegno di procedure - fabbricare i missili e gli apparecchi, condurli in volo, rimpiazzar quelli perduti e le artiglierie - e dunque un complesso non indifferente di costi: il totale dei quali annulla il vantaggio economico derivato dall'aver bombardato dei bambini e torna dunque a gravare sullo stato dell'economia. Che fare dunque? E' agevole intuire che la condizione per riportare equilibrio economico nell'operazione non può essere che una, portare a zero o ridurre il costo dell'abbattimento dei bambini: ma questo apparirebbe un assurdo. Poichè nessun bambino è infatti disponibile a presentarsi spontaneamente per farsi abbattere, è necessario raggiungerlo al suo domicilio con artifici dispendiosi: e dunque, inevitabilmente, con un costo: che nessun Governo può fare a meno di affrontare, se vuol fare la guerra che gli è indispensabile per risolvere duraturamente i problemi della sua economia. Il cane che si morde la coda. Impossibile, dunque? Non è così. C'è un piccolo impercettibile particolare, in quel che abbiamo detto, che consente di rovesciare la costruzione. Abbiamo detto infatti "nessun Governo"; ma "nessun Governo da solo", avremmo dovuto dire in realtà. Il Governo Serbo, ad esempio, affronta sì dei costi per bombardare i bambini Croati; ma non ne affronterebbe alcuno, o ne affronterebbe di molto ridotti, per bombardare i bambini suoi propri. La distanza che intercorre fra Belgrado e Belgrado è infatti incontestabilmente inferiore a quella che intercorre fra Zagabria e Belgrado. Analogamente, il Governo Croato affronterebbe costi incomparabilmente inferiori se decidesse di bombardare i suoi propri bambini invece di quelli altrui. Certo, ciascuno dei detti Governi non ricaverebbe alcun vantaggio militare, isolatamente preso, bombardando bambini non ostili; ma se ciascuna delle parti, contestualmente, bombardasse i bambini più economici (vale a dire, i propri) il risultato complessivo sarebbe lo stesso di un bombardamento incrociato, ma a costo zero. Certo, la natura umana è quel che è, e non ci sarebbe da stupirsi se una delle due parti tentasse astutamente di sottrarsi all'impegno, lasciando che la parte avversaria bombardasse i suoi bambini e rifiutandosi poi di bombardare i propri. Ma le organizzazioni internazionali esistono per questo. Le Nazioni Unite, in particolare, potrebbero vigilare - attraverso un'apposita Commissione, dotata di poteri esecutivi - sulla rigorosa e contemporanea esecuzione dei bambini. La Commissione effettuerebbe delle ispezioni all'improvviso, e sarebbe dotata di un proprio Corpo di spedizione multinazionale. Nessun bambino illegale potrebbe assolutamente sfuggirle. Lo stesso meccanismo potrebbe essere posto in opera per le Potenze che intendessero direttamente o indirettamente partecipare, anche solo occasionalmente o parzialmente, al conflitto. Il Governo Francese avrebbe potuto ad esempio - per trarre una fattispecie dalla cronaca recente cobelligeare agevolmente mediante l'economica esecuzione di uno o due scolari a Parigi o a Marsiglia, senz'essere obbligato a chiassosi e dispendiosi mitragliamenti stradali (almeno 80 proiettili cal. 9 lungo, al costo di 25 franchi ciascuno!) di automobili profughe, colà peraltro rare. Gl'Italiani, che attualmente spendono miliardi (un esercito e una flotta mobilitati in Puglia e nelle acque adiacenti) per difendersi dagli Albanesi, potrebbero provare esattamente le stesse emozioni con un facile rastrellamento, seguito magari da bombardamento navale (il quale però alzerebbe i costi) nel plesso scolastico di Molfetta di Bari. E così via. Ma c'è ancora un'obiezione. Nella Carta delle Nazioni Unite si leggono proposizioni (da lungo tempo disattese, è vero, ma formalmente vigenti) che potrebbero forse crear ostacoli quanto meno procedurali allo scorrevole funzionamento della Commissione. Osservo però che io non ho mai detto che i bambini in questione debbano essere abbattuti con uno strumento bellico determinato. Ho usato il termine "bombardati" perchè è quello che, mi sembra, più si assimila alle disordinate esperienze finora in corso. Ma ogni altro mezzo andrebbe anche bene allo scopo: teoricamente, i bambini potrebbero anche essere abbattuti singolarmente, con uno strumento qualunque purché atto allo scopo. E' da osservarsi però che, tanto per motivi di praticità quanto per un qual certo simbolismo che, nella civiltà dell'immagine, tiene pure il suo peso, sarebbe auspicabile di poter continuare a impiegare strumenti esplosivi: spogliati, evidentemente, di tutti quelli accessori - vettori, alette di stabilizzazione, dispositivi di ricerca elettronica e così via - che nella nuova situazione non avrebbero più molto senso, e costituirebbero solo un inutile aggravio di costi. Dei bauli esplosivi andrebbero bene; al limite, anche delle valigie. E qui vengo al superamento dell'obiezione testé avanzata. Per singolare coincidenza, difatti, possiamo vantare nel nostro Paese una considerevole esperienza nell'uso di strumenti siffatti. Mafia, servizi segreti, estremisti di destra, gladiatori, camorra - son pochi gl'Italiani amanti dell'ordine che non abbiano avuto occasione, prima o poi, di bombardar dei bambini, o almeno di favorire, in un modo o nell'altro, il bombardamento. E se l'Italia fosse, in questo campo innovativo e vitale, quel che la Svizzera fu per la Croce Rossa? Nessuno contesta alla Nazione elvetica, dopo tante esperienze, il diritto di dar la propria assistenza, in tutti i Paesi del mondo, ai prigionieri e ai feriti. Perché l'Italia no? Gli Stati belligeranti potrebbero accordarsi, sotto l'egida delle Nazioni Unite, per scambiarsi reciprocamente squadre di esecutori Italiani, per le operazioni anzidette; la Commissione dell'Onu vigilerebbe su di esse, ma a loro e solo a loro andrebbe l'onere di portare a esecuzione quanto pattuito. Nessuno dovrebbe aver nozione di loro, fuorché i Governi interessati (il csapo della Repubblica Italiana, eventualmente interrogato, sarebbe per legge tenuto a smentirne finanche l'esistenza); a nessuno - ma a questo sono abituati - dovrebbero dar conto. Il numero dei bambini interessati, non aumenterebbe di certo; e si eviterebbe di coinvolgere - considerazione umanitaria da non sottovalutare degl'innocenti soldati. Numerosi programmi televisivi potrebbero essere prodotti, a edificazione del Pubblico e beneficio degli Operatori e Imprenditori del settore, in occasione del primo, secondo, quinto, decimo e venticinquesimo anniversario di ogni singolo bombardamento. Gli Allievi Generali dell'Aeronautica Militare avrebbero a disposizione gran messe di Segreti di Stato su cui esercitarsi a nascondere - cosa certo non inutile ai fini della formazion e professionale- la verità. I Giornalisti non difetterebbero di lavoro, né i Telespettatori d'emozioni. Non voglio riconoscimenti per questa proposta. Rinuncio anticipatamente al brevetto e libero chicchessìa da ogni e qualsiasi obbligo nei miei confronti. Sono solo un cittadino che crede che il ruolo dell'Italia nel mondo abbia ancora un senso e vada decisamente riproposto facendo appello a quei valori di capacità creativistica e propositiva, di professionalità e di libera iniziativa che soli potranno, un giorno, riportarci in Europa. GATTOPARDI E GARIBALDINI Antimafia, marzo 1992 "Antimafia" è stato l'unico giornale italiano che, in pieno craxismo e con Cossiga trionfante, abbia previsto il crollo, a brevissima scadenza, del regime. Che sta avvenendo adesso, sotto gli occhi di tutti. Cossiga, Andreotti, Craxi non ci sono più. Capitribù locali al soldo dell'Impero, avevano un senso finché l'Impero aveva bisogno di loro. Adesso è lotta per la successione. Dal polverone generale spunta fuori un nome, Galeazzo Martelli, che aggregherà rapidamente attorno a sè "rinnovatori": i La Malfa, i Macaluso, i Segni, forse subalterno qualche altro. Su queste basi, nei prossimi mesi (ma forse già mentre questo "Antimafia" sarà in edicola) cadrà il governo Amato, l'ultimo del vecchio regime. Andrà giù nel l'apocalisse generale, coi marchi tedeschi accampati in Italia, l'inflazione per le strade, i vecchi capitribù scatenati a contendersi bocconi di potere, i gerarchi che proclamano "fermeremo la crisi sul bagnasciuga", e i generali del Regio Esercito che scappano in mutande. Sarà in questa situazione che verranno fuori i "rinnovatori": polso fermo, voce sicura: "Morte ai borboni! E' ora di cambiare". Ora, noi siciliani di tante cose non c'intenderemo, ma di una siamo maestri, anzi professori: l'arte di riconoscere i gattopardi. Ne abbiamo visti tanti! "Lotta alla mafia!": sì, ma indagherete sui Costanzo? "Basta con le tangenti!": sì, ma continuerete a dare gli appalti a Graci? "Trasparenza dappertutto!": va bene, ma le liste della massoneria? "Rinnoviamo i partiti!": sì, ma coi vecchi vicesegretari al posto dei vecchi segretari? "Salviamo l'economia! Sacrifici!". Sì, ma farete pagare le tasse a Rendo? "Cambiare tutto, perché tutto resti come prima" diceva il vecchio principe di Salina. Ha funzionato un sacco di volte, in Sicilia. Prima della rivoluzione, gentiluomini di Re Franceschiello. Dopo la rivoluzione, ministri di Vittorio Emanuele. Sempre alla faccia dei villani. Allora. Primo, chi era gerarca, non pretenda d'essere stato partigiano. Martelli, se è davvero pentito di essere stato craxista, si ritiri in un convento e scriva le sue memorie; la patria può fare a meno di lui. Secondo, stavolta cerchiamo, noi garibaldini, di non lasciarci imbrogliare a belle parole. Per una volta nella storia, non facciamoci fregare dal Gattopardo. *** Il Gattopardo, fra l'altro, è debole; i rapporti di forza, in questo trapasso di regime, sono tutti a nostro favore. Nostro, di chi? Della sinistra vera. Quelli che hanno fatto antimafia; quelli che sono stati contro la guerra del petrolio; quelli che hanno difeso gli immigrati; quelli che non si sono mai appattati né coi tangentisti né coi cavalieri: la vera sinistra del popolo italiano è questa. Non ha un suo partito, anzi spesso non ne ha nessuno. Ma ha i suoi valori comuni, la sua continuità, la sua organizzazione, i suoi capi. Organizzazione, certo: quante persone sono concretamente attive, nella tua città, con le sezioni di partito? E quante invece col volontariato, coi centri sociali, con le attività di quartiere? Chi sono più numerosi, già ora, i cittadini del vecchio, o quelli del nuovo Stato? Abbiamo anche dei leader, degli esseri umani che già ora sono - fra molta confusione, rozzamente - dei punti di riferimento molto più ampi di uno specifico partito. A Roma, per esempio, a quale partito appartiene Renato Nicolini? Lui è del Pds, ma fra i ragazzi delle borgate pochi sono quelli che lo sanno. Di Nicolini ricordano, ed è l'essenziale, che è stato quello che ha aperto il centro di Roma ai borgatari. Ma davvero Carmine Mancuso o Nando Dalla Chiesa, chi li va ad ascoltare, ci va solo perché sono della Rete? Dacia Valent, di Rifondazione, cos'è prima: una di Rifondazione o una che può parlare per gli immigrati? I ragazzi che stanno facendo attività sociale nel quartiere più difficile di Catania, di che partito sono? Ma davvero v'interessa saperlo? E che sigla c'è sulla bandiera rossa di quel gruppo di operai che sfila nel corteo con tro la stangata? E' proprio così importante? Che cosa succederebbe se questi ragazzi e questi operai si riconoscessero reciprocamente, capissero di far parte, in realtà, di un'unico "partito"? Ecco, il momento è questo. Esistono molte e vitali situazioni di base, che a volte sono persino "politiche" (Pds, Verdi, Rete, Ri fondazione), ma molto più spesso no. Hanno radici culturali diversissime, dai centri sociali "rossi" ai preti di quartiere, passando per tutta la gamma delle radici popolari di questo Paese. Cos'hanno in comune fra loro? Una cosa semplice e profonda: insieme, essi sono l'Italia. *** Sono la stessa Italia, due generazioni più tardi, dell'otto settembre del 1943. Anche allora un regime, per anni e anni, aveva strombazzato "guardate i nostri giornali: l'Italia è questa". Ma al momento della prova, si vide la loro menzogna. I gerarchi, i capifabbricato, le folle dei comandati, non erano il paese reale. Il paese reale erano il carabiniere che aiutava gli ebrei a scappare, la donna che li nascondeva, il ragazzo con le idee confuse che senza sapere bene perché strappava la cartolina militare e se ne andava in montagna. Semplici, ma non passivi, esseri umani che seppero riconoscersi l'uno con l'altro, collegarsi fra loro, individuare una linea politica, crearsi una propria classe dirigente e in fine - mentre i generali ancora scappavano - salvare il Paese. Noi dell'antimafia non abbiamo atteso le strombazzate dei politicanti per parlare di nuova Resistenza. E' dal 1984, dai "Siciliani", che la nostra lotta al potere mafioso l'abbiamo chiamata, e condotta, esattamente così. Solo che per noi, a differenza dei politicanti, non è soltanto una parola, ma una cosa seria e concreta, su cui ogni giorno puntiamo tutto ciò che compone la nostra vita. Proprio perché è una Resistenza, bisogna condurla insieme, scavalcando le appartenenze, superando con fiducia reciproca le diffi enze e gli steccati. E proprio perché è una Resistenza bisogna portarla avanti fino in fondo, non fino al primo o al secondo livello, ma fino a quello dei politici, degli imprenditori, delle stesse istituzioni invase dello Stato. *** La sinistra politica, oggi, a differenza di due anni fa, è divisa in quattro principali partiti: Pds, Rete, Rifondazione, Verdi. Nes suno di essi, in sostanza, tende a porsi come l'unica guida di tutta la sinistra e ciascuna tende a riconoscere, sia pure rozza mente e senza troppo entusia smo, l'esistenza e persino qu alche volta l'utilità delle altre. Esistono poi una quantità di re altà minori, che un tempo sa rebbero state relegate (o si sa rebbero relegate) nell'estremismo, ma alle quali adesso viene più o meno pacificamente riconosciuta una dignità politica. All'interno di ciascuno dei quattro partiti ci sono poi diverse "anime"e diverse culture, spesso più sensibili alle somiglianze trasversali che alla ragion di partito; e sempre più spesso militanti di partiti diversi militano insieme senza problemi in uno stesso movimento di base. Potrebbe perfino essere, se nessuno si fa incantare dai gattopardi, e se davvero c'è in giro voglia di ripartire, un buon ricominciamento per la sinistra ita liana. Però, la questione fon damentale resta (anche dal punto di vista della sinistra "politica", se vuol tornare ad essere popolare) quella del colle gamento fra le realtà di base, e soprattutto fra quelle più diverse "politicamente" fra loro: che spesso sono, per avventura, le più efficienti e radicate. Sappiamo, per quanto ci riguarda, di diversi "lavori in corso" per dare un contributo a questo collegamento. Fra i giovani, in una ventina di città, si lavora a mettere in piedi un giornale au togestito comune. Fra le associazioni di base, da luglio in qua, almeno una cinquantina stanno cercando di collegarsi per sviluppare delle iniziative insieme, città per città e a livello nazionale. Ma sono pochi e timidi passi. Un passo decisivo in questo senso potrebbe compierlo il movimento antimafia di Pa lermo. Se esso fosse capace di riunirsi, in un'occasione, in tutte le sue componenti di base (alcune delle quali, come l'Associazione Coordinamento Antimafia o, fra i giovani, gli universitari del movimento studentesco, hanno una popolarità nazionale, e dunque una responsabilità, del tutto particolari) e di lanciare con tutta l'autorevolezza che gli compete un appello a una sorta di costituente di base, noi crediamo che questo appello non resterebbe inascoltato. Appello a che cosa? A cominciare a muoversi in un'ottica di Stato. Definire gli strumenti non violenti a cominciare dal rifiuto d'obbedienza, esteso ai funzionari e dipendenti dello Stato, di fronte a ordini e comportamenti palese mente anticostituzionali attraverso cui il popolo possa eserci tare con efficacia e senza traumi il suo controllo sulle istituzioni; Costituire, non sulla base di appartenenze politiche e di accordi fra partiti ma della rappresentatività d'esperienze e delle indicazioni di realtà di base, un vero e proprio governo alternativo, che sia pronto a reggere il Paese in caso di sfascio istituzionale e che abbia già oggi l'autorità morale di richiedere, se accorra, collaborazione ed appoggio ai cittadini e a settori delle istitu zioni. Definire una serie di compor tamenti e di strumenti mediante i quali le prime "zone civilmente liberate" del Paese possano servire da esempio e da punto d'appoggio a tutte le altre. *** Durante Cossiga e dopo Cossiga, la classe dirigente ita liana ha dimostrato un'unica coerenza: quella di abolire di fatto, un segmento dopo l'altro, gli istituti più intimi della Costituzione. "L'Italia ripudia la guerra": il "nuovo modello di difesa" prevede un esercito professionale, e con compiti di polizia internazionale lontano dal Paese. "La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere": il pubblico ministero sottoposto al governo. "La condizione giuridica dello straniero...": le persecuzioni contro gl'immi grati. Giudici pubblicamente minacciati dai capipartito, paracadutisti per le strade a pattugliare "contro la mafia", governi che chiedono autorità dittatoriale "per risanare l'economia": ma questa è ancora la Repubblica di Pertini? Non siamo ancora in una dittatura, non siamo già più in una democrazia occidentale. Il cossighismo (o il "Piano di rinascita" di Gelli) è sopravvissuto a Cossiga, e rischia di fare ancora molto danno. Per questo bisogna stare attenti, e soprattutto bisogna fare in fretta. Per difendere la Costituzione, e se occorre per rifare lo Stato. PERCHE' NON POSSIAMO NON DIRCI PALERMITANI Avvenimenti, agosto 1992 "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Questo cartello è stato scritto esattamente dieci anni fa, sul luogo dove poche ore prima il potere mafioso aveva ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Dieci anni sono abbastanza per decidere che quel cartello era sbagliato, e per eccesso e per difetto di ottimismo. In dieci anni la mafia ha avuto modo, col sostegno di una classe politica che ne ha condiviso i valori, di minacciare la stessa esistenza civile non di Palermo soltanto, ma dell'Italia intera. Ma in dieci anni i palermitani hanno dato vita a una ribellione, a una crescita della coscienza collettiva e del senso di responsabilità individuale che costituiscono un esempio per l'intero Paese. Dall'esercizio del potere mafioso in Sicilia è venuto il modello, per le classi dirigenti nazionali, di una gestione dello Stato svincolata da ogni valore che non sia il profitto e l'autoconservazione. Dai movimenti antimafiosi di Sicilia è venuto l'esempio di una nuova possibile tecnica della politica e di una sua nuova moralità. Spartizione violenta delle risorse pubbliche fra i vari clan affaristicofamigliari, o iniziativa diretta e autoliberatoria della società civile: l'"alternativa siciliana" vale - dieci anni dopo - per l'intera Nazione. Per questo ciascuno di noi oggi si trova, in un certo senso - che ne sia cosciente o meno, e ovunque sia in realtà il suo domicilio legale - in piazza a Palermo. O fra i manifestanti antimafiosi che per il decimo anno consecutivo, ma adesso con ben più forza, sfilano contro il potere. O fra coloro che li guardano passare, senza una parola, da dietro le persiane chiuse. L'ATTIMO Antimafia, gennaio 1993 Via Craxi, via Andreotti, via Martelli, via Cossiga: e ora? Ma davvero la crisi italiana deve essere risolta dalle varie alleanze "democratiche", dai La Malfa, dagli Andò, dagli Amato - dai gattopardi, insomma? Dai Pannella, dai Bossi, dai buffi derivati della crisi? Oppure, cosa? Il momento, è ora. Se l'antimafia avesse avuto la forza di unirsi, dopo Falcone e Borsellino, e di lanciare un grido forte al Paese. Se gli operai ce l'avessero fatta, nelle giornate d'ottobre, a unirsi dentro e fuori il sindacato. Se la Rete fose rimasta trasversale. Se Rifondazione avesse, nella testa dei suoi dirigenti, trent'anni di meno. Se il Pds imparasse una buona volta chi è Martelli. Se i Verdi non si fossero lasciati ingabbiare. Se le centinaia e centinaia di giovani militanti che abbiamo visto crescere sotto i nostri occhi in questi anni prendessero in mano la sinistra. Se la smettessimo di dividerci, di chiacchierare, di sofisticare astrattamente fra di noi, di aspettare un san Giorgio che ci levi dai guai. Se. Mai la crisi del sistema di potere in Italia è stata tanto profonda, tanto disperata. I mafiosi sono nei guai. Il partito craxista è ferito mortalmente. La Dc inossidabile, adesso trema dei prossimi avvisi di garanzia. Persino Carnevale, hanno dovuto mettere da parte. Eppure il vento nuovo non si leva. Eppure Amato e Scalfaro, oggettivamente, stanno riuscendo a normalizzare tutto. Per quarant'anni, in questo Paese, il potere è stato retto da un sistema mafioso. Gli uomini di Cosa Nostra, e nessuno ormai ne può dubitare, sono stati un braccio esecutivo - non l'unico - del potere. Le elezioni - l'ha confessato il golpista Cossiga -, una mera formalità: se gli uomini del potere avessero perso, c'era la Gladio pronta ad assumere sanguinosamente, in qualsiasi momento, il potere. L'informazione libera? Pensate alla Rai e a Berlusconi. I diirtti dei lavoratori? I primi soldi di Tangentopoli sono serviti proprio a finanziare la campagna per togliergli di prepotenza la scala mobile. La "sana imprenditoria", la "quarta potenza dell'Occidente"? Balle. Gl'industriali, rubavano i soldi pubblici con le mazzette; quanto alla "potenza economica", guardate come hanno ridotto la lira. Oggi e solo oggi, per la prima volta, possiamo cominciare a parlare, seriamente, di democrazia. Non d'utopie rassicuranti, non di più o meno seriose ideologie, ma proprio di questa semplice parola: democrazia. Quella - per capirci subito - che stava scritta in faccia al presidente Pertini. L'antimafia, in Sicilia e poi via via sempre più oltre la Sicilia, non è stata solo una lotta contro qualcosa; esattamente come la mafia non è stata solo la degenerazione, la patologia di una regione. Nate, l'una e l'altra, dentro un'isola, hanno simboleggiato e assorbito le due polarità della Nazione. Il bene e il male, l'impegno civile e l'intrallazzo, la lotta dei cittadini e la prepotenza del potere, tutto si è condensato in queste due parole. Il regime non ha potuto fare a meno della mafia: l'Italia che viene adesso non può nascere che dall'antimafia. In nessun altro movimento di questi anni si sono fusi insieme, nei suoi momenti migliori, ribellione e unità. Scriviamo in fretta, lavoriamo in fretta, in questi momenti decisivi, perché c'è molto da fare, per noi e per tutti coloro che, in questi dieci anni, hanno saputo credere alla mortalità del regime. Non c'è neanche il tempo di ricordare per quali tappe si sia arrivati a questo, quali dolori umani e quali sacrifici e speranze abbiano permesso di percorrere tutta la strada fino ad ora. Chinnici, Peppino Impastato, Roberto Antiochia, Cassarà, Giuseppe Fava: nessuna di queste vicende umane, e di diecine d'altre, è caduta nel vuoto. Purchè, adesso, sappiamo fare il nostro dovere. In questa stanza dove i compagni-amici di "Antimafia" aspettano la chiusura del giornale, in questo preciso momento, c'è molta confusione. Vedo Michele Gambino che sta lavorando a un articolo di "Avvenimenti", uno dei tanti che hanno smascherato il potere, due ragazzi dell'"Alba", Carlo e Francesco, che parlano della manifestazione di Gela, Marco che sta correggendo una pagina dei "Siciliani"... Non siamo soli, non siamo pochi. E' il momento di unirci, e di concludere la partita. "I Siciliani" che tornano in questi giorni, dopo sette anni di lontananza dall'edicola ma non di silenzio e tanto meno d'inattività, vogliono dire esattamente questo. A tutti si rivolgono, a tutti - specialmente a Palermo e Catania, ma in tutte le città in cui si lotta - chiedono un impegno concreto. Ai lettori di "Antimafia" e a quelli di "Avvenimenti", ai militanti della Rete e a quelli di Rifondazione e del Pds, a quelli che hanno fatto la Pantera e a quelli dell'autunno degli operai, ai giovani venuti fuori quest'anno e ai militanti che hanno attraversato senza paura dieci inverni di lotte, a tutti, a tutti: forza ch'è giunta l'ora, il momento è questo. QUATTRO CHIACCHIERE FRA AMICI CHE FANNO IL GIORNALISTA febbraio 1992 Mah, io non metterei l'accento sulla patologia della professione. Mi pare che, prima ancora, i problemi siano proprio nella fisiologia - oggi come oggi - del mestiere. Morto il vecchio cronista, il giornalista medio è sempre più un deskista. Prima, la selezione era dura e, in qualche modo, onesta: non sopravvivevano i migliori umanamente, ma almeno i più "giornalisti". Ora, la selezione è fiacca e disonesta: sopravvivono proprio coloro che hanno meno qualità giornalistiche e più capacità d'adattamento. Poi la corruzione, la lottizzazione, ecc. Buona parte degli iscritti all'Ordine lavora in ufficistampa. La "professionalità", insomma, ha ammazzato il mestiere. I vecchi tempi, d'altra parte, avevano - per altri versi, i loro guai; e comunque, proprio per ragioni tecnologiche, non torneranno mai più. Si può recuperare una parte della vecchia figura di giornalista (e in questo c'è da essere assai conservatori), ma è proprio il concetto di giornalista in quanto tale va ricostruito completamente dalle fondamenta (è già successo altre volte, del resto: per esempio, alla fine del Settecento). E qui arriva il Progetto Politico DeI Siciliani. Che innanzitutto, come prima buona qualità, non è affatto un "progetto", cioè una cosa studiata a tavolino, ideologica, ma un'esperienza concreta e una progressiva sedimentazione - sempre sulla base dell'esperienza - di elementi che poi si possono generalizzare. Primo elemento: niente puzza al naso. Gambino, Faillaci o Paolo Petrucci sono possibili giornalisti. Chi, quel ragazzo là, che a momenti non sa se un giornale è quadrato o tondo? Proprio lui. Se ha delle qualità "civili" di base, se è disposto a passare i suoi anni di addestramento nel Campo Uno (e se sopravvive ad esso), e se trova dei professionisti con i coglioni molto ma molto quadrati disposti a scendere da cavallo e a insegnare (non si può insegnare se c'è superbia da una parte o dall'altra. E nessuno può insegnare senza affetto). Secondo elemento: questo insegnamento parte ferocemente dalla pratica giornalistica vecchio stile (la casa di via Palermo), non è affatto gentile e premuroso e anzi si preoccupa di essere il più duro possibile. Ciò che bisogna imparare è molto di più di quel che poi effettivamente servirà (soprattutto sul piano caratteriale). Un giornalista (= un essere umano che fra l'altro è anche giornalista) formato così, sarà sempre nettamente superiore, professionalmente, a qualunque suo omologo del giornalismo ufficiale: cosa scientificamente dimostrata, negli ultimi dieci anni, in almeno una dozzina di casi. Terzo: "anche". Non si può più essere giornalisti se non si è "anche" politici. Politici nel senso solito nostro, naturalmente, cioè di rifondazione di una cultura, che cambia strada facendo con le esperienze concrete, che costruisce progressivamente una "ideologia" esclusivamente pratica ma proprio per questo radicale, che autosviluppa per logica interna momenti organizzativi, ecc. ecc. Quarto punto: sotto i quarant'anni. E' l'età massima fissata da Mazzini, quando le carbonerie erano ormai superate e si trattava di fondare una cultura-politica-figura sociale nuova. Quinto. Molte cose "politiche" (esempio: fare parlare tutti è bello) almeno oggigiorno sviluppano direttamente delle conseguenze tecniche (esempio: adottare una routine con molte riscritture, per far parlare tutti ma davvero e senza demagogie). E molte cose tecniche hanno conseguenze politiche (esempio: due computer a cinquecento chilometri di distanza possono...). Il computer costa poco, è facile da usare, si può collegare. Un'occasione simile c'era al tempo delle prime radio libere: i compagni, nella loro bestialità, non la seppero sfruttare, e quindi lo fece Berlusconi. Personalmente, vorrei ripartire di qua. E' una faccenda piuttosto lunga, ma non - parlando da storico - nuova. Una delle tante lunghe marce che periodicamente si verificano nell'umanità. LETTERA A UN RAGAZZO SICILIANO febbraio 1992 Caro Orazio, hai perfettamente ragione. I cavalieri sono il frutto di una precisa configurazione, in termini sempre più oligarchici, del sistema economico-sociale che, nelle specifiche condizioni date, assume per avventura "anche" caratteristiche "mafiose". Dissento da te solo su un punto, che però è centrale: "anche se non fossero stati mafiosi". Non avrebbero potuto non esserlo; esattamente come la Fiat o l'Ansaldo, nella congiuntura del 1914, non avrebbero potuto non essere interventisti; o come un mercante di Liverpool, nel diciassettesimo secolo, non avrebbe potuto non essere un mercante di schiavi. La mafia, cioè, non è più una patologia del sistema ma una sua componente strutturale. Questo è il motivo per cui il sistema politico-mafioso catanese non solo si estende al resto d'Italia, ma tende anche a imporsi come modello nazionale. Parallelamente, è anche il motivo per cui le esperienze dei movimenti antimafiosi siciliani non solo tendono a uscire dai confini regionali ma si propongono sempre più come modello organizzativo e politico globale. Così, se da un lato un operatore del sistema di potere "locale" come, p.es., Salvo Andò può assumere un peso notevole nel sistema di potere nazionale, dall'altro esperienze di movimento "locali" come il Coordinamento Antimafia o I Siciliani possono venire in larga parte riprese da movimenti d'opposizione - come la Rete di Novelli e Orlando - a livello nazionale. Il discorso vale anche in ambiti più specialistici: nel mio campo, che è il giornalismo, c'è per esempio un filo nettissimo di continuità (anche sul piano delle scelte tecniche-organizzative) fra I Siciliani di Giuseppe Fava, I Siciliani dell'84-85 e l'attuale Avvenimenti: il che, oltre che ai sentimenti personali che puoi immaginare, m'induce a ritenere d'essere in presenza di un dato innovatore, e significativo. E' possibile individuare con precisione gli aspetti che contengono abbiamo visto che dal lato del potere il fatto nuovo è dato dall'integrazione "mafiosa" - l'elemento di novità dell' opposizione "siciliana", della sua politica e cultura, e delle sue forme organizzative? Ritengo di sì, ed è anzi il mio lavoro di questi anni. Abbiamo dimostrato che si può fare politica senza ideologie - un termine che Marx aborriva - e senza tuttavia scadere nei qualunquismi; che l'oppposizione può essere condotta direttamente non solo contro le sovrastrutture ideologico-culturali del sistema di potere, ma direttamente contro le sue strutture portanti economiche e sociali, col massimo di concretezza e di radicalità; che questa opposizione può essere confortata da una solidarietà popolare vasta e attiva, molto più che nel caso di un'opposizione ideologicamente connotata; che essa può essere gestita al di fuori dei modelli organizzativi verticistici e "professionali" attualmente in uso in tutte le forze politiche, le progressiste comprese. E siamo appena ai primi passi, alle prime - spesso maldestre - esplorazioni. Ti ringrazio di avermi scritto. Affettuosamente. CATANIA marzo 1992 Sono stati molti i punti di partenza, in Sicilia, in questi anni. Ciascuno dei suoi protagonisti incontrava sempre sulla sua strada l'impatto con il sistema di potere, che da noi chiamiamo mafia, e che da noi è molto più esplicito e diretto che nel resto del paese. Per questo siamo stati costretti, fin dall'inizio e per tutto questo tempo, ad essere molto espliciti e diretti anche noi. Sono passati diversi anni prima che ci accorgessimo che tutti questi "punti di partenza" (col loro carico di vite quotidiane, di singole esperienze, d'umanità) potevano essere collegati fra loro; ma alla fine ci siamo arrivati. E siamo arrivati anche a capire che questo collegamento è "politico", ed è anzi la politica nella sua forma non corrotta e originale, quale compare nei tempi di crisi e di rifondazione. Parecchio tempo dopo, man mano che il regime democristiano (e dei partiti) aentrava in crisi, questa percezione si è fatta senso comune, a macchia di leopardo, un po' in tutto il paese. Ma siamo stati noi - noi movimento antimafia, noi siciliani -, pur con tutte le nostre approssimazioni e rozzezze, a intravvederla per primi. Per questo abbiamo, oggi, una responsabilità. A Catania, più che altrove. A Catania il sistema di potere ha assunto, più che in ogni altro luogo d'Italia (ma ponendosi, e con successo, come modello negativo per tutti), un ruolo totalitario, senza mediazioni. C'è un braccio politico, che va dai piccoli ladri (ricordate quelli che rubavano la refezione ai bambini? Hanno fatto scuola: ora c'è chi ruba agli ospizi dei vecchi, su a Milano...) ai grandi manovratori, legati alla massoneria e alle centrali occulte. C'è un braccio finanziario, col suo comitato d'affari, pronto a muovere quando occorra deputati e ministri. C'è un braccio militare, la mafia più efficiente d'Europa, la mafia che nessuno vuol sconfiggere perchè non ne può fare a meno nessuno. *** I Drago, gli Andò, i Nicolosi si danno il cambio fra loro, un anno dopo l'altro, sempre intenti - apparentemente - a combattersi ma in realtà d'accordissimo, fra loro, per dividersi ferreamente il potere (accanto a loro le figure minori, un po' furbe un po' patetiche, dei vari architetti "comunisti" come Leone, dei vari Pannella che vengono a farsi la campagna elettorale coi soldi dei cavalieri, dei vari Bianco che riempiono Catania di tavolinetti e fiorellini ma si guardano bene dal toccare gli appalti dei Cavalieri. I Graci, i Rendo, i Costanzo, i Finocchiaro sono i padroni veri della città. Tre uomini hanno parlato di loro: il generale Dalla Chiesa che li accusava di "andare alla conquista di Palermo" col consenso della mafia, Giuseppe Fava che li definì "i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa" e il giudice Carlo Palermo che li mise in galera. Ma non è reato, a Catania, essere amici dei mafiosi catanesi: l'ha sentenziato un giudice, è "stato di necessità". I Santapaola, infine: "latitanti" da anni ed anni, eppure tranquillamente in giro per la città. Non possono essere arrestati: perché se lo fossero, parlerebbero: e se parlasse un Santapaola, chi poi si salverebbe in questa città? Lo stato di necessità! Ah, se si applicasse davvero, ma per chi ne ha davvero bisogno, lo "stato di necessità"! Al pensionato che campa con quattrocentomila lire, e viene umiliato ogni giorno, e - dopo una vita di sacrifici - deve ingoiare; o al ragazzo che ha fatto lo scippo - una catenina, poche migliaia di lire - perchè non gli hanno insegnato nient'altro altro nella vita; o alla donna che ingoia prepotenze, o al poveraccio che stenta il finemese; o al ragazzo che deve vivere per la strada, perché aprire un centro sociale, a Catania, è proibito dalla mafia e dalla legge! Cosa non avrebbero diritto di fare costoro, se un giudice impazzito regalasse - per una volta nella vita - lo "stato di necessità" anche per loro? Ma nessuno fa regali, nel mondo; chi vuole, deve aiutarsi da sé. Tutti noi abbiamo chiaro chi comanda a Catania, e chi sta sotto: non c'è bisogno d'insegnarla, questa storia qua. Una cosa ci divide: alcuni a questa storia si rassegnano, e sono molti; alcuni altri, no. Noi confidiamo in questi ultimi: non sono pochi. Più di ventimila esseri umani hanno votato qui, l'hanno scorso, per dire che non si vogliono rassegnare. Quest'anno saranno ancora di più. E anno dopo anno si arriverà. ALLONSANFAN I Siciliani, marzo 1993 Un giorno d'autunno del 1943, su una montagna vicino Genova poco oltre il Bisagno, quattro uomini s'incontrarono per fondare il movimento partigiano in Liguria. Erano un operaio di Sampierdarena, un appuntato sardo dei Regi Carabinieri, un soldato della provincia di Agrigento e un antifascista genovese con sei anni di carcere alle spalle. Il soldato aveva con sé due moschetti sottratti all'armeria del reggimento, l'appuntato una vecchia rivoltella; sedici colpi in tutto. Lontano, nelle città, vecchi notabili e gerarchi "dissidenti" ordivano improbabili manovre per salvare quel che si poteva del regime; i generali preparavano già gli abiti borghesi per la fuga; tedeschi e fascisti venivano tranquillamente avanti, fra i bombardamenti e lo sbando. Passarono gli anni. Il venti aprile 1945, il presidio tedesco di Genova si arrese alla Divisione garibaldina "Pinan-Cichero". Dei quattro, uno soltanto era sopravvissuto fino a quel punto. Ed è stato lui a raccontarci, molti anni più tardi, questa storia. Non servono grandi parole, nell'anno di grazia 1993, per spiegare perchè tornano "I Siciliani". Caduto Craxi, fuggito Andreotti, naufragati i tentativi golpisti di Cossiga e quelli "rinnovatori" di Martelli, siamo all'otto settembre. Non ne usciremo con improbabili alleanze, più o meno ribollite, di vecchi notabili e gerarchi. Se ne esce con una Resistenza. Noi, questa parola, la possiamo usare. Abbiamo avuto tredici anni di tempo per misurarne il significato, per pagarne i prezzi, per comprenderne il peso. Sappiamo cosa vuol dire: ribellione, e unità. Abbiamo visto migliaia di palermitani, nelle giornate di luglio, sollevarsi spontaneamente contro il potere mafioso: decine di migliaia di operai, a ottobre, scendere di forza in piazza per il loro pane. Se i leader antimafiosi, divisi da antiche liti, avessero saputo raccogliere la sfida - se i capi degli operai, sindacalisti e Cobas, "estremisti" e moderati, fossero riusciti a trovare un minimo d'unità - se avesse potuto incontrarsi, la collera popolare, dal Nord al Sud! Tante cose si muovono, dopo tredici anni. Noi possiamo tornare in edicola oggi con "I Siciliani" anche grazie all'esistenza di un giornale libero e autogestito come "Avvenimenti": che a sua volta difficilmente avrebbe potuto crescere se non avesse avuto alle spalle l'esperienza dei "Siciliani". Oggi contiamo sull'aiuto, in quaranta città d'Italia, di un movimento giovanile come "L'Alba"; che è nato e si è sviluppato, quest'estate, riprendendo elementi dei Siciliani-Giovani degli anni ottanta. Abbiamo fra i nostri primi interlocutori testate e associazioni come il Coordinamento antimafia di Palermo, Società Civile di Milano, la "Voce della Campania", e altre ancora; ciascuna di esse ha imparato qualcosa dai "Siciliani", e da ciascuna a nostra volta abbiamo imparato qualcosa. Decine di giornalisti, e centinaia di militanti civili, in giro per l'Italia sono nati in quegli anni. E' il momento di unirsi, diciamo a tutti loro, di fare qualcosa di più grande ancora. Si vedono tante cose, in tredici anni. Si vedono funerali di Stato - i mandanti, diceva Giuseppe Fava, schierati compuntamente in prima fila -, si vedono funerali di serie B, con pochi amici attorno e una rabbia immensa. Si vedono Chinnici e Cordova che lottano, traditi dai loro stessi governi, senza illusioni e senza paura. Si vede il ragazzo Robertino Antiochia che torna in Sicilia per morire, come un partigiano di Vittorini, accanto al suo amico Cassarà. Si vede Rosario Di Salvo che quando sente la moto dei killers avvicinarsi tira fuori la pistola e muore sopraffatto dai mitra accanto a Pio La Torre, combattendo. Si vedono i liceali di Palermo, in quel durissimo inverno dell'ottantatré, che difendono contro i politici Falcone, e sono i soli. Si vedono accademici e scrittori, siciliani d'anagrafe, che voltano dall'altra parte lo sguardo e disquisiscono sulla Sicilia "irredimibile" nei salotti. E operai e gesuiti, e giudici ragazzini e professoresse e bancarellari della Vucciria e poliziotti: e dietro a loro, dispersi sulla faccia del mondo, milioni e milioni di esseri umani nati in Sicilia che cercano, per un giorno ancora, di vivere umanamente, di guadagnarsi onestamente un pane. Queste sono le nostre radici. Per esse, nel momento in cui il nostro progetto si fa nazionale, riteniamo di conservare, una volta ancora, il nostro vecchio nome di "Siciliani". Sicilia come frontiera, Sicilia come memoria, ma soprattutto Sicilia come luogo simbolico dello scontro italiano. "Ma che c'entro coi Siciliani io che sono di Milano?". E che c'entravano con la Marsigliese - a quei tempi - i cittadini di Parigi? Allons, enfants... PAGINE DAL SUD DEL MONDO I Siciliani, marzo 1993 Ciascuno degli amici che firmano gli editoriali di queste due pagine ha, a suo modo, contribuito alla continuità e alla ripresa della nostra impresa. Nel gennaio dell'84, subito dopo l'assassinio di Giuseppe Fava, Piero Pratesi allora responsabile di "Paese Sera" - fu l'unico direttore italiano che volle ripubblicare integralmente sul suo giornale l'edizione straordinaria de "I Siciliani". "Contro la rassegnazione" fu il titolo dell'editoriale di Alfredo Galasso per il primo numero de "I Siciliani settimanale" del 1986. Sergio Turone del nostro giornale di quegli anni fu uno dei collaboratori più brillanti e contribuì ad allargarne il respiro sul piano nazionale. Claudio Fracassi è il direttore di "Avvenimenti", l'unica grande testata attuale che abbia avuto il coraggio di riprendere in gran parte argomenti e battaglie dei "Siciliani". Palermo, Catania, Milano e Barcellona in provincia di Messina sono le città attorno a cui si muove questo numero del giornale: la città della vecchia mafia e quella dei cavalieri, la metropoli delle tangenti e il paesino dove si uccide per un articolo di giornale. Nando Dalla Chiesa e Vittorio Corona da Milano, Tano Grasso da Capo d'Orlando e Francesco Pira da Gela sono i testimoni civili di questa Italia che solo apparentemente ha ancora un nord e un sud. La seconda parte del giornale è equamente divisa fra le cronache siciliane e quelle del Sud. Delle prime - opportunamente precedute da una memoria dall' isola di Aurelio Grimaldi - siamo fieri di poter dire che sono interamente affidate, e con la massima autonomia e indipendenza, alla seconda generazione dei "Siciliani", quella formatasi attorno a "SicilianiGiovani", ai movimenti antimafiosi e poi alle cronache del vecchio settimanale. Adesso fanno parte a pieno titolo dei "Siciliani": le fortuna o l'insuccesso del giornale sono in buona parte in mano loro. Il Sud di cui parliamo nelle pagine immediatamente successive a quelle siciliane è ancora il nostro sud di siciliani, ma in senso più lato il Sud del mondo. Un Sud sempre più indifeso e dipendente - lo spiega Lucio Manisco - da un Impero totale, e fragile, come non mai; un Sud popolato da milioni e milioni di esseri umani - dalla ragazza di Sarajevo di Francesca Ferrucci all'esule scienziato somalo di Renato Camarda, dalle donne indiane di Maria Cuffaro all'amaro reportage di Gianni Minà - tutti fratelli, e compagni di destino, nostri. Al centro del nostro giornale, le due pagine di Giuseppe Fava. E' un vecchio-giovane articolo dell'83. La sua Sicilia allegra e combattiva, carnale e lieve, illuminata dal mare. UNA STORIA DI CARTA I Siciliani, marzo 1993 Il paese più tranquillo d'Italia è sicuramente Barcellona Pozzo di Gotto, quarantamila abitanti, provincia di Messina: niente tossicodipendenti visibili in giro, niente spacciatori, neanche una rapina denunciata negli ultimi dodici mesi. Trenta morti ammazzati, questo è vero, nel giro di un anno: ma son morti di mafia e a Barcellona la mafia - dice la Linea del Partito - non esiste. Dunque non esistono nemmeno quei morti e in particolare non esiste l'ultimo di questi morti, il giornalista Beppe Alfano. Che fosse un giornalista, per la verità, se ne sono accorti solo dopo che è morto e gli hanno fatto, meglio tardi che mai, il tesserino professionale alla memoria. Dalla "Sicilia" di Catania, il giornale di cui era corrispondente, prendeva cinquemila lire a pezzo, più eventualmente qualcosa per le foto; ha avuto anche una colonnina di piombo il giorno dopo che l'hanno ammazzato e alcuni articoli elogiativi - cosa che richiede una più matura riflessione - nei giorni dopo. Ha avuto infine l'onore di un diretto interessamento - lui povero cronista rompicoglioni - delle Autorità Cittadine, qualche giorno dopo: non per participare al funerale, dioceneliberi, o per proclamare il lutto cittadino; ma per far ritirare, sia pure non subito e dopo le istanze della famiglia, i cassonetti della spazzatura che qualche altra autorità aveva fatto piazzare, poco dopo l'omicidio, sul luogo della sua morte. "Ho chiesto alla "Sicilia" la raccolta degli articoli di Alfano - dice il giudice Olindo Canali, l'unico del paese che si ricordi ancora di lui - Mi servivano per le indagini. Li sto aspettando ancora. Finora, non me li hanno mandati". L'altro ieri, una scuola - il tecnico industriale "Galileo" - doveva fare un'assemblea-dibattito sulla mafia, la prima del paese. L'unico posto in cui a Barcellona è possibile infilare trecento persone insieme è il cinema "Corallo": gli studenti ci sono andati e si son sentiti rispondere che l'assemblea sulla mafia si paga trecentomila lire all'ora, per la prima ora, e duecentomila per ogni ora successiva. Sulla via del ritorno, qualcuno di loro è passato davanti all'enorme carcassa del Teatro Mandanici, dove di assemblee così se ne potrebbero fare venti, e gratis visto che è una struttura pubblica: solo che il teatro, regolarmente appaltato, "lavorato" e pagato almeno vent'anni fa, da allora non è mai stato finito ed è tuttora inagibile, e desolatamente vuoto. Lo stesso vale per il Palazzetto dello sport, ancora da completare dopo vent'anni, e per l'ospedale, iniziato vent'anni fa. Nella storia di Barcellona, corrispondono - grosso modo - alle piramidi egizie, del tutto inutili all'apparenza ma investite in realtà del preciso scopo di testimoniare nei secoli la potenza del faraone: nella fattispecie, Carmelo Santalco, che dopo la morte di Lima e il ritiro del catanese Drago è rimasto l'ultimo grande andreottiano di Sicilia. Questo per l'evo antico. L'era moderna comincia invece con la Pista dell'Oregon, ovvero la nuova ferrovia Messina Palermo, cominciata - chissà perchè - nei feudi di Pace del Mela e faticosamente procedente, anno dopo anno e subappalto dopo subappalto (ma l'appalto principale è saldamente in mano ai Fratelli Costanzo, famosi cavalieri catanesi), verso il lontano ovest. Via via che la pista procede si sposta la linea dei miliardi, e arrivano le estorsioni, i morti ammazzati e i subappalti. Ciascuno dei morti ammazzati ha diritto a qualche riga in cronaca sui giornali locali del giorno dopo, e poi al più rispettoso e totale silenzio-stampa. (Morire ammazzati è brutto dappertutto, ma da queste parti è particolarmente incazzante. Come per quel tizio che uccisero, uno che con queste storie non c'entrava niente ma faceva il falegname come un tale della Famiglia rivale, l'aprile scorso qui a Terme. I killer si accorsero, una settimana dopo, di aver fatto fuori il falegname sbagliato: sorry, pensarono fra sé, abbiamo sbagliato. Uccisero anche il falegname giusto e se ne andarono con la coscienza in pace). A Barcellona, la Pista è arrivata fra l'Ottantasei e l'Ottantotto e la guerra è stata fra la Famiglia Chiofalo e la Famiglia Milone: i primi della vicina Terme Vigliadore e dissidenti; i secondi, articolati in una costellazione di cognomi (Ofria, Beneduci, Marchetta) barcellonesi puri e seguaci della Famiglia Santapaola di Catania. I Santapaola, nella zona, c'erano già da molto tempo: negli anni Ottanta con Antonino Santapaola, "detenuto" al manicomio di Barcellona dove in realtà faceva, protetto dalle autorità dell'istituto, il bello e il cattivo tempo; ma già prima ancora, fra il 1979 e il 1980, sulle montagne dei Nebrodi, a Cesarò, dove in un rifugio di montagna tenevano i loro incontri "don" Nitto Santapaola e i catanesi fratelli Cutaia, trafficanti internazionali di morfina-base e cocaina. La guerra della ferrovia finì comunque dopo un numero imprecisato di morti, con l'ergastolo di "don" Antonino Chiofalo e l'arresto, per carico di droga, di "don" Carmelo Milone; nel frattempo la Pista passò avanti. Il principale accumulo ufficiale di capitali, nella zona, risulta essere adesso quello delle "finanziarie di fatto" che si sono venute a formare attorno all'Aias: ne abbiamo scritto su "Avvenimenti", ne aveva scritto anche Giuseppe Alfano; la Procura di Barcellona ha aperto un'inchiesta che rischia di estendersi su tutta la Sicilia. In casa Alfano, un computer Macintosh, dei libri su Charles Aznavour, delle foto... Le povere cose che restano della vita di un uomo che ha avuto dignità. "Mio marito, mio marito che sorrideva...". "Mio padre e l'indifferenza di questa città...". "Indagate sulle donne, vedete un po' se giocava a carte...". Anche agli investigatori di Barcellona son giunti gli autorevoli suggerimenti che arrivano immancabilmente in questi casi. Anche stasera, come ogni sera, le centinaia di tossici di Barcellona si "faranno" con la roba fornita, a prezzi popolari, dagli uomini dei boss. Anche stasera i ragazzi dell'Arci e don Pippo Inzana apriranno la loro sede a chi avrà bisogno di loro, alla comunità dei lavoratori immigrati. E anche stasera alle dieci chiuderà l'ultimo bar di piazza San Sebastiano e la città resterà silenziosa, e apparentemente addormentata. Come sempre. UOMINI E NO I Siciliani, aprile 1993 La giustizia è molte cose diverse, per ciascuno di noi, a volte è una cosa facile e a volte no. C'è quello che s'è craxato il conto protezione nella banca svizzera e allora giustizia è facile, recuperare i soldi e metter dentro il tipo. C'è quello che è diventato onorevole, a furia di soldi craxati, o sottosegretario o ministro o padrone d'industria o di giornali: e anche qui è una faccenda semplice fare giustizia, si prende il tizio, gli si fa un processo pulito e poi si va dalla gente e "Ecco qua - si dice alla gente, al buon popolo italiano - questo tizio qua l'avete votato per quarant'anni in cambio di una pensione d'invalidità o di un telefonino, se lo volete ancora tenetevelo, però onestamente sappiate che vi tenete un ladro". In tutti questi casi fare giustizia è tecnicamente molto facile, basta avere buon senso e - in alcuni momenti e luoghi della storia: per esempio in Italia negli anni Novanta - anche un po' di coglioni. Poi ci sono quei casi in cui incontri il tuo amico che hai visto crescere, da ragazzino, dieci anni fa, lo incontri adesso e ha gli occhi di fuori perchè dopo dieci anni di pere magari è diventato un po' differente da quando correva nella squadra di pallone. Incontri dunque questo tuo amico, che non ti riconosce e che tu riconosci solo perchè gli vuoi bene, e pensi che per farlo così c'è voluto lo spacciatore, e sopra lo spacciatore il boss Santapaola, e sopra il boss Santapaola il cavaliere Costanzo che invitava Santapaola alle feste, e sopra Costanzo l'onorevole Drago che diceva "Smettetela di rompere le scatole a Costanzo" e sopra il capocorrente Giulio Andreotti. E venga Di Pietro, allora, venga Di Lello e Carlo Palermo e Borsellino, e vengano Conte da Gela e il vecchio Chinnici da dove l'hanno mandato, e Ciaccio Montalto e Cordova e Terranova e Falcone, e li lascino in pace per una volta e li facciano indagare in santa pace - tutti quanti insieme, con tutto il loro coraggio e la loro bravura, non riusciranno a rifarti il tuo amico com'era prima. Dov'è la giustizia, allora. Oppure non incontri nessuno ma sei in un bar di Catania che stai bevendo qualcosa e improvvisamente "Un gin tonic anche per me - dice l'amico al tuo fianco - ma presto che dobbiamo tornare a lavorare": ma il bar è un altro e non è davanti alla vecchia sede dei Siciliani e soprattutto nessuno ha detto niente ma sei solo davanti al bancone e il tuo amico è stato ammazzato da quella gente nove anni e quattro mesi fa. Allora ti brucia dentro, la giustizia. La nostra giustizia, è questa: nove anni fa, in una città d'Italia che è Catania, è stato ucciso il nostro amico Giuseppe Fava. Noi siamo ancora qui, non l'abbiamo dimenticato. Per nove anni, abbiamo raccolto gli indizi e le tracce che avrebbero consentito, se una giustizia ci fosse stata, di fare delle indagini sulla sua morte. Non diciamo di trovare sicuramente i colpevoli. Ma perlomeno di provarci. Invece, queste indagini, coscientemente, non sono state fatte. Noi qui chiediamo ufficialmente che queste indagini siano riaperte. Noi documentiamo qui - non per la prima volta; e non per l'ultima - la maniera irresponsabile e scandalosa con cui sono state cancellate dalla faccia della terra le indagini sull'assassinio mafioso di Giuseppe Fava. Noi testimoniamo qui che queste indagini potevano essere condotte fattivamente, e possono esserlo ancora. Noi qui facciamo appello ufficialmente. al ministro di Giustizia Conso, al Consiglio superiore della magistratura, perchè facciano il loro dovere. Facciamo appello a chiunque parli oggi di onestà e giustizia e di rinnovamento. Da questo, non dalle parole, li giudicheremo. Vogliamo sapere se la vile Italia del 1984 comanda ancora oggi, nel 1993. Vogliamo saperlo, perchè se l'Italia ufficiale dovesse - per assurda ipotesi essere ancora la stessa, sicuramente non sono più gli stessi gli italiani. E ad essi faremmo appello. Parliamo del nostro amico, ma in realtà di tanti altri. Sparati da un killer o fatti a pezzi da una bomba - di Gladio, di Cosa Nostra, della P2 - o assassinati da un buco d'eroina, erano tutti esseri umani che conoscevamo o che qualcuno di noi conosceva, che erano vivi, a cui qualcuno voleva bene. Ora è il momento della giustizia; Tangentopoli, non ci basta. Giustizia, tutta. A questo servono I Siciliani. QUELLI DI ELLECCI' I Siciliani, aprile 1993 Siccome Lotta Continua era un'organizzazione di pericolosi giacobini dediti alla sovversione, gl'indirizzi dei suoi militanti - dei quali mi onoravo di far parte, e non sono affatto pentito - erano mantenuti riservati. Così l'indirizzo di Mauro Rostagno, nuovo responsabile palermitano dell'Organizzazione, io l'avevo su un foglio di carta accuratamente consegnatomi a Messina; ma il foglio, naturalmente, l'avevo perso..Telefonare alla sede? Ma ti pare. Passano in quel momento tre ragazzi di qualche scuola: "Ehi, ma tu sei di Elleccì ?" (avevo il giornale ben visibile in tasca, nella tasca dell'eskimo regolamentare). Dieci minuti dopo ero a casa di Mauro, dalle parti di via Notarbartolo. C'erano lui, la Chicca che allora era una militante milanese col chiodo, Lello ricercato per occupazione di case a Milano e che poi finì anche lui in quella faccenda del Macondo, Saro dell'organizzazione, una compagna di cui non mi ricordo il nome e se me lo ricordassi non lo direi anche se a lei di Elleccì interessavano soprattutto i ragazzi, molti volumi marxisti che qualcuno prima o poi avrebbe letto e un paio di chitarre; e la bambina, che allora aveva un paio di mesi e la si portava in braccio su e giù per villa Sperlinga che non era ancora diventata villa Siringa. Un secolo fa. A Palermo, la Lotta Continua di Rostagno - l'altro gruppazzo serio, in città, era il Manifesto di Mario Mineo e Umberto Santino - contava su quattro sedi, non moltissimi studenti ma un bel po' di gente dei quartieri, e tre comitati di lotta per la casa. Non era una roba da fighetti, Elleccì di Palermo, né gli Straccio Liguori né i Bretella Ferrara sono cresciuti qui. Era una cosa rozza, allegra, coraggiosa e gentile, molto nel senso migliore - sudamericana. La Primavera di Palermo, forse, è cominciata senza saperlo proprio da lì, quando s'occupò la cattedrale, coi baraccati, per ottenere case e dignità. Che brutta fine hanno fatto i miei compagni di Lotta Continua, da tenente in su, esclusi Mauro Rostagno e Guido Viale. Viale, non so più dove sia. Rostagno è morto in Sicilia, alla maniera sua, fra affetto confusione e amici malfidati. "Muertos con dignidad" diceva una canzone dei nostri tempi, di gente come lui. Alla commemorazione, gli "amici" suoi hanno invitato poi - chissà perché - a parlare "Turi" Lombardo, che sarebbe l'assessore socialista smascherato da Gianni Bonsignore poco prima l'ammazzassero. Di lui, di Mauro, mi hanno raccontato un aneddoto, degli ultimi mesi, che non so se è vero: l'avrebbero cioé messo fuori, lui che non aveva paura di nessuno, dall'edificio principale di Saman e mandato in una dipendenza laterale, fuori dai piedi. Ma - diceva Calogero Gasparazzo: e da tenente in giù ci ricordiamo ancora chi era - ma "non finisce qui". COME ANDO' I Siciliani, maggio 1993 Ci sono i "sorci", i gattopardi e i garibaldini. I sorci ormai non contano più tanto, e ne attribuiscono la colpa a una serie terrificante di complotti organizzati da giudici, giacobini e sovversivi vari per convincere il buon popolo italiano che Andreotti è un mafioso, Gava un camorrista, Craxi un capobanda e Martelli un capobanda imbranato. I gattopardi sono stati sudditi fedelissimi per trent'anni; poi, quando hanno visto che Sua Maestà (Dio guardi) non era più in grado di garantire le baronìe si son scoperti patrioti tutt'a un tratto: e promettono costituzioni e riforme, a patto però d'essere sempre loro a comandare. I garibaldini infine - quelli cioé che hanno buttato giù materialmente i Borboni, quelli che hanno rischiato la pelle quando nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla "libbittà" - sono divisi in mazziniani, costituzionali, repubblicani puri, seguaci degli Statuti di Spagna e ammiratori del bicameralismo all'inglese. Sono parimenti esecrati, nel loro complesso, dai "sorci" e dai gattopardi: i quali, senza tanti distinguo, li accusano tutt'insieme d'anarchia e di quarantotto. Riusciranno i nostri eroi garibaldini a mettersi finalmente d'accordo fra di loro, a fare la libertà e il Quarantotto (o il Sessantotto) senza farsi imbrogliare un'altra volta dai gattopardi? Ce la facciamo, per una volta, ad essere più furbi del Principe di Salina? Che poi, diciamola tutta, non è che i gattopardi d'oggi siano quei gran volponi d'una volta. I Mariotti, i senatùr, i Pinocchimartelli, i Marchi Giacinti d'annata: tutto qua. Non dureranno a lungo, non sono semplicemente - all'altezza. Entro sei mesi, finita in galera l'antica e in bancarotta quella "rinnovata", il Paese chiederà a gran voce una nuova classe dirigente che volti pagina davvero. Voltiamo pagina noi lettori, per intanto, ma proprio letteralmente: a pagina due di questo numero del giornale c'è un tizio con una proposta di buon senso: perché non farla finita, con tutte queste divisioni fra noi di Garibaldi, e mettere in piedi una baracca in comune? Lui la chiama - in linguaggio cattolico - "nuova sinistra": ci sta dentro un sacco di gente, secondo noi, gli operai milanesi dell'Alfa e gli antimafiosi di Palermo, Luca col ciuffo e il vecchio incontentabile poeta Pietro. Ci stiamo dentro anche noi. INTORNO AI BOSS I Siciliani, giugno 1993 Al centro di Catania c'è una piazza quadrata. Da un lato il comando carabinieri del colonnello Licata: controlla gli scippatori della città, parallelamente a Santapaola. Sul secondo lato l'albergo dove ogni settimana s'incontrano i manager del narcotraffico, fra cui quelli della Famiglia Santapaola. Sul terzo lato le bische in teoria clandestine, ma in realtà frequentate da tutta la Catania bene, di proprietà dei Ferrera-Santapaola. Il quarto lato è il Palazzo di Giustizia del procuratore aggiunto Giulio Cesare Di Natale, non nemico di Santapaola. Al centro della piazza, un monumento-fontana e intorno al monumento una decina o più, secondo le sere, di tossicodipendenti. Catania era così, negli anni Ottanta. Una delle città più gradevoli d'Italia, per chi aveva i soldi. I trecento più ricchi di Catania potevano girare di giorno e di notte senza paura di sequestri (la mafia non ne permetteva), potevano aprire meravigliose boutiques in pieno centro senza paura d'indagini tributarie né di rapine, potevano comprare qualunque essere umano o cosa, da una terracotta ellenistica a una ragazzina di quindici anni, senza renderne conto e senza formalità. Non pagavano tasse - non allo Stato - e venivano rapidamente assolti, o amnistiati, se qualche poliziotto li denunciava. Magistrati e generali dei carabinieri - non catanesi - che ficcavano il naso nelle loro faccende venivano uccisi a colpi di mitra, o saltavano in aria. Avevano i loro politici - i Lo Turco, i Coco, gli Attaguile, gli Aleppo, gli Andò, i Tignino, i Drago - carì sì, ma che funzionavano bene. Avevano il loro giornale (e ce l'hanno tuttora) che si chiamava "La Sicilia". "La Sicilia" è il giornale che rifiutò il necrologio di una vittima della mafia, perché offendeva la mafia. Per tutti gli altri catanesi Catania, in questi ultimi quindici anni, è stata un tritacarne. Anno dopo anno, una quota prefissata della gioventù cittadina veniva tirata fuori dai quartieri, gettata nella "microcriminalità" e sterminata. Nessun'altra città d'Europa ha mai avuto, in questi quindici anni, una percentuale tanto elevata d'emarginazione giovanile. Mentre la boutique o il ritrovo elegante del centro andava avanti tranquillamente grazie alla protezione di Santapaola (quanti "scassapagghiari" sono stati giustiziati per uno "sgarro" contro un negozio "amico"?) il piccolo bottegaio di periferia aspettava con terrore le otto di sera, quando bande di ragazzini disperati irrompevano alla ricerca delle cento-duecentomila lire dell'incasso. Un circuito perfetto: gli appaltatori progettano i quartieri in modo da garantire il massimo guadagno a se stessi e la massima emarginazione per chi ci andrà ad abitare; dall'emarginazione nasce una microcriminalità che genera la richiesta di un controllo "forte" sul territorio, assicurato dai Santapaola e dai colonnelli Licata; Stato e mafia trovano così un terreno, se non comune, parallelo; su qesto terreno si sviluppano rapporti, connivenze, interconnessioni che, sommate alla degradazione sociale, distruggono ogni possibilità di gestione civile, regolata da leggi e controllata da elezioni, della città. La politica, in una situazione come questa, è una gestione d'affari, coi "cittadini" imbrancati periodicamente e portati a "votare" - dai capiclientela, dai capimafia, dagli stessi imprenditori - senza sapere dove né perrché; il ceto politico ingloba rapidamente i professionisti, i sindacalisti, i magistrati, gli stessi capi della gran parte delle "opposizioni", tutti fusi in un amalgama soddisfatto e confuso, all'interno del quale le distinzioni fra funzione e funzione tendono sempre più a sparire: il direttore di giornale emette sentenze, il magistrato scrive articoli, l'imprenditore nomina le giunte comunali, il politico specula in proprio sugli affari, il mafioso "mantiene l'ordine" e il poliziotto manda gli "avvertimenti" a chi occorre. Questo era il potere mafioso nella città di Catania. Di esso Santapaola era il braccio militare, ma non la massima autorità. Il vertice della piramide, da un punto di vista sociale, consisteva nei "quattro maggiori imprenditori" Rendo Graci Costanzo e Finocchiaro, orgogliosamente uniti - per loro stessa ammissione - in un patto di ferro che governava gli appalti e, di riflesso, la città. In cerchi concentrici, attorno al potere dei cavalieri ruotavano gli esecutori politici (i più presentabili dei quali venivano promossi al collegamento coi poteri nazionali) e buona parte degli uomini "dello Stato". Parliamo di potere mafioso al passato non perché esso sia oggi sconfitto da qualche poderosa mobilitazione dello Stato né perché vi sia stata, da parte del ceto politico tradizionale, una qualche spinta verso qualche "rinnovamento" (essendo siciliani, conosciamo fin troppo bene la tecnica del Gattopardo). No. Ma anni e anni di lotta hanno pur prodotto qualcosa. Il ministero della Difesa, ad esempio, da cui gerarchicamente dipendono i carabinieri, era retto fino a poco tempo fa da un uomo come Salvo Andò. Gli antimafiosi non sono ancora abbastanza forti da imporre un ministro della Difesa antimafioso. Lo sono però già abbastanza da rendere comunque molto difficile la permanenza di un Andò; e da consentire dunque una maggior libertà di movimento a coloro che non condividono - nella polizia, nei carabinieri, nella magistratura - l'opinione che un Andò può avere della questione mafiosa. Parliamo di potere mafioso a Catania perché quindici anni fa, quando il meccanismo ha cominciato a funzionare, il potere mafioso era un affare di Catania, di Palermo e di poche altre città. Ma questo, quindici anni fa. Oggi il meccanismo "catanese" è perfettamente diffuso in tutto il Paese. Il ruolo di un Romiti in Tangentopoli non è diverso da quello di un Rendo a Catania. E la stessa parola "tangenti" è un modo molto eufemistico di indicare quel che è accaduto in Italia negli anni Ottanta - un vero e proprio colpo di stato, la sostituzione di un potere democratico con un comitato d'affari politicoimprenditoriale: su più larga scala, ma esattamente come a Catania; con strutture come il Sismi o Gladio al posto di Santapaola e Andreotti e Craxi al posto di Nino Drago e Salvo Andò. Quello che è successo a Catania "con" Santapaola è dunque una metafora - non tanto piccola - dell' ultimo decennio di storia nazionale. Ma a Catania è successo qualcosa anche contro Santapaola, contro i cavalieri, contro le collusioni di Stato e contro il comitato d'affari. Si sono mossi i giovani, sono sorti dei movimenti, l'opposizione ha trovato dapprima dei maestri e poi dei capi. Certo, noi siamo gli ultimi a farci delle facili illusioni sulla durata di questa lotta, qui a Catania. Ma per le tendenze che emergono alla base, e che vediamo rafforzarsi mese dopo mese, siamo sicuri di vincerla entro questa generazione. Una Catania senza padroni, noi - ne siamo certi - la vedremo. Non solo: crediamo che anche quest'altra Catania abbia discrete possibilità di diventare, nel giro d'una decina d'anni, metafora dell'intera Nazione. LE STRAGI I Siciliani, giugno 1993 Le stragi, in questo paese, hanno sempre contato molto più delle elezioni. Piazza Fontana ha contato di più del Sessantotto, piazza della Loggia e il treno Italicus molto di più del referendum sul divorzio, l'assassinio di Rocco Chinnici più del movimento antimafia palermitano. Il meccanismo, ogni volta, è lo stesso: su una questione qualunque si comincia a formare nel Paese un movimento d'opinione di massa, un abbozzo di aggregazione politica, una possibile classe dirigente alternativa che però ha bisogno di tempo per crescere, maturarsi e venir fuori dagli specifici confini originari. L'intervento terroristico, ogni volta, inchioda questo processo: il movimento in formazione si rattrappisce nella difesa dell'esistente, ritira la propria candidatura implicita al governo del Paese, finisce nell'estremismo o nei gattopardi: e un'altra generazione di regno è assicurata ai vecchi poteri. Questi, tecnicamente, hanno sempre disposto in Italia di uno strumento preciso, finalizzato agli interventi "irregolari" sulla vita pubblica italiana, organizzato da lungo tempo, chiamato - nelle sue varie accezioni - "Gladio". Pasolini diceva "Io so - da intellettuale - chi possono essere i mandanti". Noi, da intellettuali, possiamo dir di sapere - a vent'anni di distanza - anche chi possono essere gli organizzatori. "Gladio" ha dei nomi precisi, nella storia di questo Paese. E la polemica riguarda, in queste settimane, due entità con nome e cognome: Francesco Cossiga e Giulio Andreotti. Non sappiamo quali messaggi e minacce esattamente essi si scambino, in queste settimane, dalle colonne dei giornali. Sappiamo che se le scambiano, e ci basta. Sappiamo che l'argomento è "Gladio". Non sappiamo neanche che schieramento specifico ciascuno di essi rappresenti (l'America preclintoniana, i vecchi notabili-massoni degli anni Cinquanta, i tempi della massomafia, le logge?) e non c'interessa nemmeno, per il momento. Sappiamo che lo scontro è in corso, come nel 1969 e nel 1980, che all'interno di questo scontro i segmenti mafiosi superstiti vengono probabilmente usati, che nel corso di esso saranno probabilmente minacciate le soluzioni più estreme - ma che la vera posta in gioco, alla resa dei conti, sarà lo sbocco politico degli anni di Di Pietro. Che noi non chiamiamo così. Noi in Sicilia sappiamo che gli anni di Di Pietro cominciano in realtà molto lontano, almeno dall'inverno '82. Quell'inverno a Palermo, stando tutto il Paese sotto il craxismo, spente o in dissoluzione le forme della sinistra tradizionale, quell'anno a Palermo nei quartieri più degradati, fra i giovani delle scuole, in una minoranza "giacobina" di cittadini, è nata una nuova cultura d'opposizione e, in lunga prospettiva, di governo. A Palermo, dove lo scontro fra sfruttati e potere era più disperato e inconciliabile che in ogni altro luogo, è sorta la percezione che quel potere si poteva contrastare, con rozza immediatezza, in tutte le articolazioni della vita sociale: dal militante di quartiere al magistrato. Questa prima rudimentale percezione, nel giro di undici anni, è dilagata a macchia d'olio per il Paese. Non ci sarebbe stato nessun Di Pietro se non ci fosse stato Chinnici. Non ci sarebbe stato Chinnici se non ci fossero stati i primi militanti del Coordinamento Antimafia e di Città per l'Uomo e gli studenti del Meli. Nel giro di quasi una generazione, tutto ciò ha prodotto - sempre rudimentalmente e rozzamente, con grandissime generosità e altrettanto grandi superficialità e approssimazioni - dapprima una nuova cultura, poi un nuovo intervento sociale e infine, sempre rudimentalmente ma con una solidità ormai acquisita - ha portato all'individuazione di una politica adeguatamente nuova. A una sinistra politica, insomma, in grado di espandersi linearmente e maturando, e di giungere probabilmente, per la prima volta dal 1946, a governare il Paese. Sempre che non venga bloccata sulla difensiva e sull'accettazione - come male minore - dell'esistente. Le stragi arrivano a questo punto. I SANTI PAOLI I Siciliani, giugno 1993 Il sindaco di Catania, si chiamava Santapaola? I "quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa", secondo Giuseppe Fava e Carlo Alberto dalla Chiesa, erano tutt'e quattro Santapaola? Santapaola era il direttore del giornale "La Sicilia"? Le indagini sull'omicidio Fava, sono state insabbiate dal giudice Santapaola? L'appalto per il centro direzionale, andrà a Santapaola? Com'è che hanno fatto ministro della difesa Santapaola? Il quartiere Librino, è stato costruito da Santapaola? "La mafia non esiste": lo diceva Santapaola? Il capo della Dc era l'onorevole Santapaola? E chi lo difendeva: l'avvocato Santapaola? Chi ha tolto di mezzo il giudice Felice Lima: Santapaola? La Nuova Pretura di Catania, è stata costruita sui terreni di Santapaola? Al Comune rubano per conto di Santapaola? L'ospedale nuovo, a uno sputo dai jet dell'aeroporto, lo fanno sui terreni di Santapaola? Perché Santapaola ha impedito per dieci anni di arrestare Santapaola? E insomma, chi c'era sopra Santapaola: Santapaola? Il terzo livello non esiste, ripetono i commentatori ufficiali. Una volta, "non esisteva" neanche la mafia. Adesso esiste solo Santapaola. E zitti su tutto il resto. "Santapaola? - dichiarano virtuosamente politici e cavalieri mai visto né conosciuto". E avanti ai prossimi appalti. Catania, Sicilia? Non solamente. Chinnici, Borsellino e Falcone, Carlo Palermo, Di Pietro, Cordova, Caselli - hanno indagato abbastanza, i magistrati del popolo italiano, hanno scoperto abbastanza verità da permettere diandare molto oltre i Santapaola e i don Totò. Ma chi vuole andare oltre davvero? Non è meglio lasciare che il "passato" se ne vada via tranquillamente, senza rompere le scatole al "nuovo"? Non s'è fatto sempre così, qui da noi, fin dal tempo dei Gattopardi? E allora: Santapaola, Riina, "vendetta di Cosa Nostra", "mafia alle corde", "oscura strategia della tensione". E via così. Senza troppe domande, né a Catania né a Roma. A proposito, domanda: dei tre potenti messi sotto accusa nei giorni delle bombe, chi era il più potente: Santapaola, Andreotti o Romiti? FACCIAMO UN QUOTIDIANO? I Siciliani, luglio 1993 Ma voi li leggete, i giornali? Non c'è più il Psi, non c'è più la Dc, ma per i giornali - in sostanza- non è successo niente. Nel corso di questi due anni è stato scoperto: a) che per quarant'anni le elezioni - con Gladio pronto a fare il colpo di Stato appena la destra Dc avesse perso il governo, e con la P2 messa lì a distribuire bombe- non hanno contato niente; b) che il più importante esponente del più importante partito era in rapporti amichevoli con Cosa Nostra; c) che il secondo più importante partito di governo era in realtà un'associazione d'affari, esclusivamente finalizzata all'arricchimento dei suoi membri; d) che l'"industria" praticata dai principali imprenditori italiani, quelli che predicavano i sacrifici per salvare l'economia, era in realtà quella di mettersi d'accordo con i politici tangentari per dividersi fraternamente i denari pubblici, fifty-fifty. Di tutto questo, sulla maggior parte dei giornali italiani, non trovate che poche e fievoli tracce. Come non trovate traccia del fondamentale interrogativo - "Chi paga?" - che deciderà le sorti del paese per i prossimi vent'anni. E si capisce: quasi nella loro totalità, i giornali sono quelli riempiti al tempo di Tangentopoli dagli uomini della Dc, del Psi, di Romiti e di Berlusconi. Che interesse possono mai avere, a dire la verità fino in fondo? Meglio per loro uscirne "all'italiana": chi era craxista prenderà la tessera della Lega, chi era democristiano o massone si butterà nel "rinnovamento" di Segni o dell'Alleanza, chi faceva l'"industriale" a buon mercato a colpi di mazzette adesso spanderà due lacrimucce di pentimento e. farà pagare i danni - in nome dell'economia da salvare - alle buste-paga dei lavoratori. E tutto continuerà come prima, con qualche piccolo cambio di etichette. Con la benedizione commossa - in nome naturalmente del "cambiamento" - dei giornali ufficiali e delle tv. A noi tutto questo non va giù. Un giornale, secondo noi, dovrebbe aver molto da dire in questo momento. Facciamo quel che possiamo, ma ci rendiamo conto che uscire una volta al mese non è granchè. Ci rendiamo conto, anche, che noi abbiamo una nostra storia, un modo di pensare, una cultura, ma che altri hanno la loro, non meno importante della nostra, ed è giusto che dicano quel che hanno da dire anche loro. Ci rendiamo conto insomma che solo unendo tante forze è possibile dare una risposta adeguata alla domanda d'informazione che la grande maggioranza degli italiani oggi esprime e a cui certamente non potranno rispondere i giornali che fino a ieri erano apertamente del regime. E' un problema grosso, e non c'è modo di girarci intorno. L'Italia cambia, i giornali no. Quindi, bisogna fare dei giornali completamente nuovi, dei giornali che siano espressione immediata e diretta, e fino in fondo democratica, del cambiamento. Dei giornali adeguati, non dei mensili di battaglia come questo. Dei quotidiani, insomma. Noi, da soli, non ce la facciamo. Ma insieme con tutti gli altri antimafiosi, e sostenuti massicciamente da voi lettori, crediamo proprio di sì. Qualche idea abbiamo già cominciato a metterla insieme - vedi l'inserto al centro del giornale. Ne parliamo? CHI SI VEDE, LA SINISTRA I Siciliani, luglio 1993 La sinistra è una cosa che in Italia possiede alcune tonnellate di analisi, che raramente qualcuno legge, una mezza dozzina di astuti progetti politici tutti rigorosamente incompatibili fra loro e tre o quattro partiti organizzati ciascuno dei quali ritiene di essere l'unico destinato col tempo a costituire la sola e vera sinistra; e alcune centinaia di brillantissimi dirigenti che nel giro di pochi anni sono riusciti a portarla - per quanto umanamente stava in loro - sulle soglie della dissoluzione. Possiede tuttavia anche, ed è l'unico suo patrimonio reale, la memoria e il buonsenso di alcune decine di milioni di esseri umani, figli di un'esperienza storica di generazioni e generazioni d'incivilimento, di pene, di lungo e faticoso impossessamento della cultura e dei principi della vita associata e collettiva. Sono stati loro a portare la sinistra, fra gli ultimi mesi dell'anno scorso e i primi di quest'anno, alla conquista della maggioranza assoluta e a portare le rappresentanze politiche della sinistra a un passo - a un brevissimo passo dal governo del Paese. E' una maggioranza che non ha ancora avuto modo di esprimersi in un'elezione generale e che perciò, come sempre, sfugge ai politologi di professione. Ma è una maggioranza reale. Alle ultime elezioni amministrative la sinistra ha preso fra il quaranta e il sessanta per cento, a seconda dei luoghi, dei voti validamente espressi dagli elettori. Ha superato la maggioranza assoluta nelle zone di antico e moderato buongoverno dell'Italia centrale. Ha preso il quarantacinque per cento a Milano, in presenza di un'ondata di destra sostenuta da gran parte degli opinion leaders e dei poteri industriali. Comprende probabilmente la maggioranza degli elettori a Torino, dove solo l'irresponsabilità di dirigenti locali ha impedito ai voti della sinistra moderata di far blocco, com'era naturale, col grosso delle forze d'opposizione. Ha sfiorato la maggioranza ad Agrigento, dove per sottrarre i pochi voti che li dividevano dal candidato democratico i conservatori han dovuto arruolare un "rinnovatore" come Ayala. Ha raggiunto il quarantasette per cento a Catania, dove l'errore tattico commesso dai cattolici di "Città Insieme" ha regalato il comune a un cartello di centrosinistra. In tutti questi casi, è mancata la strategia ma non le forze; l'abilità dei dirigenti, ma non la coscienza della base. E' mancato cioè qualcosa che si può facilmente imparare, che si può - se sarà il caso collettivamente imporre ai dirigenti democratici alla prossima occasione. E' mancato il senso storico e profondo dell'unità. A Torino e a Catania - è interessante notare - lo schieramento della sinistra era rappresentato, di nome, soltanto da Rifondazione e dalla Rete; ad Agrigento e Milano, il fronte comprendeva il Pds; nelle città del Centro, a volte mancava Rifondazione a volte la Rete. L'immagine politica delle varie liste, tuttavia, è stata più o meno la stessa dappertutto; dappertutto il numero dei voti riportati dal candidato sindaco della sinistra è stato di molto superiore alla somma dei voti riportati dalle singole liste di sinistra. A Catania lo schieramento d'opposizione, che ha mancato di pochissimo la conquista del Comune, nominalmente era sostenuto solo dal quattordici per cento degli elettori (dieci e mezzo della Rete, poco più di tre di Rifondazione): dei catanesi che hanno votato a sinistra, due su tre l'hanno fatto dal di fuori dei partiti di sinistra. Ad Agrigento - è ancora interessante notare - fra i promotori della lista d'opposizione c'era un collettivo indipendente giovanile di recentissima costituzione, che ha fatto la sua brava campagna elettorale non peggio né con meno efficienza di tutti gli altri. A Catania, alle radici dello schieramento progressista, più che le tutto sommato deboli forze organizzate di partito, ritroviamo esperienze e culture direttamente legate - come la nostra dei Siciliani - alle istanze di base della società civile e a lotte immediatamente dirette, senza mediazioni "politiche", contro il potere mafioso. In diversi paesini del meridione, soprattutto in Sicilia, la gente ha votato massicciamente per il Pds o per la Rete, senza tante distinzioni, a seconda dell'esponente locale considerato più combattivo. Un'analisi del voto a Torino o a Milano porterebbe probabilmente alla luce caratteristiche di fondo non molto differenti. La gente, per così dire, sta imparando ad usare la sinistra. Si potrebbe dire che la sinistra sta imparando ad usare se stessa. Parte per malafede parte per semplice superficialità, i commentatori ufficiali ricavano dall'esperienza delle elezioni di giugno l'idea di una fantomatica "corsa al centro", giocata fra posizioni moderate e con la messa fuori legge, o perlomeno fuori gioco, delle posizioni più "giacobine". Questo potrà essere forse vero in America (dove peraltro a votare non va più da molto tempo che una ristretta minoranza), ma non lo è affatto in Italia. Da noi le cifre dimostrano invece che l'elettorato italiano è composto da una forte sinistra e da una destra, la prima tendenzialmente unitaria e la seconda divisa - per il momento almeno - fra vecchie e nuove pulsioni. Unirsi, per la sinistra, oggi è molto più facile che per la destra. I vari tentativi di uscire dalla crisi su un'ipotesi di centro o di centrosinistra - Martelli, Segni, l'Alleanza di Bianco e Ayala - hanno prodotto finora moltissimo e molto propagandato fumo, ma ben poco arrosto. Le volte invece in cui la sinistra ha avuto il buonsenso di affidarsi a se stessa, di puntare su un fronte ampio aperto alle forze spontanee della società civile, è arrivata vicinissima (e abbiamo visto quanto esili e occasionali siano state le cause che le hanno impedito di conseguirla del tutto) alla maggioranza assoluta. Certo, non è facile unirsi. O meglio, lo è per le persone normali, per i militanti di base, per coloro che hanno faticosamente conquistato una "linea politica" - se così la vogliamo chiamare - attraverso anni di faticoso confronto con le vive e immediate traversìe della società civile; non lo è affatto per coloro che quest'esperienza non ce l'hanno, o l'hanno così lontana nel tempo da esserne ormai abbandonati. Di buono c'è che, essendo ormai i partiti della sinistra diversi e non più uno solo, possono fare i capricci a turno (o meglio, possono farli i loro dirigenti meno avvertiti) lasciando sempre qualcuno a badare alle cose serie nel frattempo. Nei mesi passati è stato il turno della Rete (che doveva sciogliere l'amletico dubbio se appartenere alla sinistra o ad altre, ancora inesplorate, contrade) e del Pds (che voleva affidare le sorti del Paese, nell'ordine, all'Internazionale socialista, a Martelli, a Segni, a Ciampi, a Clinton, ad Ayala). Adesso il turno, a quanto pare, tocca a Rifondazione. Speriamo che faccia in fretta. Nel frattempo bisogna che il processo unitario vada avanti. Bisogna che non sia affidato principalmente ai partiti e che non sia ostacolato dai partiti. Bisogna che possa esprimersi in una serie di iniziative unitarie di base azioni rivendicative, giornali, incontri, associazionismo di base, e alla fine, ma proprio alla fine, anche liste elettorali comuni - e che sappia mantenersi in ogni momento rigorosamente sincero, senza furbizie, senza egemonie. La rivoluzione italiana tutto sommato è cominciata - è cominciata qui al Sud, molti anni prima di Di Pietro - da una questione morale, da un bisogno di trasparenza civile, di pulizia, di schieramenti chiari. E' una strada vincente, sarebbe un peccato impantanarla per noia in una politica politichese. UN'ESTATE PERICOLOSA I Siciliani, agosto 1993 La speranza era che i servizi segreti si fossero messi a rubare tranquillamente come tutti gli altri politici italiani e non avessero quindi più il tempo di mettere in giro bombe e fare stragi. Forse è così, e forse no. In ogni caso, le bombe scoppiano ancora. Forse sono semplicemente bombe "sindacali", di rivendicazione dei vecchi piduisti e mafiosi che non vogliono essere messi da parte per la bella faccia del "rinnovamento" dei Gattopardi. Forse sono bombe più politiche, nel senso che nemmeno i "rinnovamenti" in Italia si possono fare senza un po' di tritolo. Mah. In ogni caso, occhio all'estate. Si sono fregati la scala mobile, il potere economico della lira, trentamila miliardi di industria chimica, i soldi - che nessuno prova nemmeno a misurare - di Tangentopoli, la democrazia: i "colpi"migliori li hanno fatti d'estate, in quegli unici quindici giorni su trecentosessantacinque in cui l' italiano ha finalmente il diritto di starsene spaparanzato al sole a riposarsi un poco. Dio sa che s'inventeranno stavolta, che manovra economica,che "rinnovamento" in famiglia, che assoluzione generale dei ladri. La tentazione è forte, per lorsignori. Non sono più solo i politici, sono anche i cavalieri d'industria, se va avanti Mani Pulite, a rischiare grosso. Di solito, negli anni passati, pensavano al colpo di stato per molto meno. Quest'anno l'affare è difficile: la gente è talmente incazzata, e i giudici sono talmente svegli, che molto probabilmente, non gli converrebbe provarci. Ma almeno un pensierino qualcuno ce lo starà facendo. Mica un golpe coi carri armati: un colpo di stato legale, un golpe "perbene". Occhio, occhio all'estate... OPERAI I Siciliani, settembre 1993 Non mettete la mia foto - avrebbe detto probabilmente padre Puglisi - Se proprio ci tenete, stampate come vive la mia gente. La gente di padre Puglisi, a Brancaccio e fuori, vive - quando va bene - con un milione al mese. Lavora in una fabbrica, quando va bene, o scarica cassette ai mercati generali, o vende qualche cosa per la strada, oppure va a rubare. A Brancaccio, a Crotone, oppure alla periferia di Milano. La gente di padre Puglisi, il giorno che si ribella, ha tutti - Giornalisti e Politici virtuosamente contro. Soffrire e sopportare, così va il mondo. Noi siamo di chi si ribella. Di chi occupa la fabbrica il giorno prima del licenziamento, di chi fischia i politici ai funerali di Borsellino, di chi entra nella povera chiesa nel quartiere dei boss, sapendo la soglia che sta varcando. Il mondo, dice padre Puglisi, non andrà sempre così. Il mondo dice Camillo Torres, i gesuiti del Salvador, i preti dei quartieri di Palermo verrà cambiato. Lo cambieranno i poveri, i cittadini di Brancaccio, il popolo di Palermo, gli operai. I tempi degli sgherri - quelli in divisa mimetica, e quelli di Cosa Nostra - non dureranno per sempre. In giro fra gli operai della Sicilia, nei cantieri e le fabbriche dove si produce la ricchezza dilapidata dai Gardini e dai Craxi, i nostri giovani cronisti hanno raccolto molti dati ma hanno raccolto - soprattutto - una sensazione: la gente non si rassegna più. La gente, dal suo lavoro in poi, vuole cambiare.. Lavoratori, parola fuori moda. Operaio di Crotone, maestrina senza lavoro di Siracusa, ingegnere di Catania costretto - poiché tangenti e mafia non fan per lui - a vivere di lezioni private: esseri umani "perdenti", senza futuro... Ma non è così. Gli uomini e le donne del Sud hanno ancora tutto da dire. "Voi avete portato alla rovina l'Italia - disse ai fascisti Gramsci spetterà a noi ricostruirla". Ereditiamo un'Italia divisa, spolpata, saccheggiata dai politici corrotti, svenduta ai cavalieri d'industria, ancora in gran parte in mano agli sgherri di Andreotti. Ereditiamo un'Italia in cui l'omicidio di padre Puglisi, o l'autobomba davanti alla caserma dei Carabinieri di Gravina, sono probabilmente solo l'inizio della campagna d'autunno. Quest'Italia, noi la ricostruiremo da cima a fondo, con ferma fiducia nelle virtù profonde di questo Paese, nascoste oggi sotto gli schiamazzi di politicanti e leghisti ma ben vive e presenti, e vittoriose infine, nei momenti difficili della nostra storia. L'altra Italia, quella dei lavoratori di Crotone, quella della gente che scende in piazza, quella di padre Puglisi. I MAGNIFICI I Siciliani, ottobre 1993 Falcone e Borsellino nel pool antimafia, Orlando al Comune, i ragazzi del liceo Meli in piazza - ricordate Palermo? Palermo degli anni duri. Giammanco e Geraci al Palazzo di Giustizia, Martelli e Andreotti che attaccano gli antimafiosi "giacobini", il Giornale di Sicilia che fa propaganda al giudice Carnevale - ricordate Palermo? Palermo degli anni duri. O da una parte o dall'altra, o col potere mafioso o con l'antimafia popolare. In mezzo, no. Quanto tempo è passato. Giammanco è inquisito, Martelli non c'è più, Andreotti è un relitto. Il Giornale di Sicilia - quello che allora schedava pubblicamente i militanti del Coordinamento antimafia - adesso s'ingegna di trovare il modo di fare un po' di corte al vincente di oggi, Orlando. Restano le macerie. E restiamo noi. Quanto siamo cambiati? Il problema è tutto qui. Rissosi, incorruttibili, profondamente devoti a un'idea (individuale e collettiva) di libertà; poveri ed orgogliosi, carichi di speranze e utopie - quelli della primavera di Palermo, quelli dell'autunno quarantatré. E poi, s'è vinto. S'è vinto fra le macerie, fra mille ambiguità e gattopardi. In un paese diviso, fra le macerie, col fiato dei "liberatori" sul collo a imporre, a modo loro, le nuove autorità. Scendono i partigiani dai monti, ma troppi applausi li accolgono, troppi "buoni consigli" (chi erano i fascisti in Italia, chi erano i mafiosi?). Quelli che ieri combattevano, oggi debbono governare: almeno, per cominciare, qui a Palermo. Noi ci auguriamo che abbiano il coraggio di farlo, che riescano ad averne la forza, ma che lo facciano - soprattutto - da partigiani. Che non cedano alla timidezza dei poveri, che non diventino ragionevoli e perbene, che si facciano voler male dai signori. Questo è un promemoria per il sindaco rivoluzionario di Palermo. VERSO UN GOVERNO "PALERMITANO" I Siciliani, novembre 1993 Faranno prima Fini, Bossi, Cossiga, Berlusconi a unirsi e a prendere il potere, o lo faranno prima i leader responsabili della sinistra? L'Italia è spaccata in due, non c'è possibilità di mediazioni. O la democrazia o la reazione, o la sinistra o la destra. Il centro "moderato e responsabile" su cui ha contato disperatamente, dall'inizio della crisi in qua, buona parte della sinistra italiana in realtà non esiste, non esiste più da quasi un anno. I "moderati" si schierano, i benpensanti s'infilano gli stivali. Weimar, la Spagna del Trentasei, il Cile di Allende. Stavolta deve andare diversamente. C'è una maggioranza di sinistra nel Paese - sono i numeri a dirlo, non più noi soli - ed è una maggioranza culturalmente omogenea, molto più omogenea dei due o tre filoni fra cui è ancora indecisa la destra. Le differenze fra una Rifondazione comunista e un Pds, fra un Orlando e un Rutelli, pesano e sono gravi; ma sono infinitamente minori di quelle che ci potevano essere fra comunisti e socialdemocratici a Weimar, fra anarchici e socialisti nella Spagna repubblicana; molto minori, comunque, di quelle fra Bossi e Fini. Ma bisogna far presto. Presto, presto, presto. Ci sono i numeri, in Italia, per la formazione di un governo di sinistra subito dopo la primavera. Sarà impossibile procrastinare le elezioni ancora. La Rete, i Verdi, il Pds, Rifondazione Comunista, le piccole aree indipendenti all'Adornato o all'Ayala possono vincerle insieme con larga maggioranza, governare insieme il Paese. Avranno problemi terribili da affrontare; il governo di sinistra troverà il Tesoro vuoto, il Paese diviso, i debiti del passato regime da pagare, una crisi industriale anche artificialmente esaltata. Ma dovranno governare comunque - meglio prima che poi. I voti della sinistra hanno superato quasi dappertutto, sia a giugno che a dicembre, la somma dei singoli partiti di sinistra. Questo dato, troppo facilmente attribuito a particolari carismi individuali, esprime in realtà il profondo e massiccio radicamento nella società italiana di alcuni valori frettolosamente dati per "superati". Su di essi bisogna puntare. Saranno essi, i valori e non gli equilibrismi, a fare la differenza. In Sicilia la società civile è "entrata in politica" con più radicalità e più determinazione che altrove; ha dovuto sperimentare prima (non per sua scelta) la politica non mediata, la politica reale. Non è merito nostro. Le condizioni erano tali, per cui bisognava per forza o combattere o sparire. Altrove potevano permettersi il lusso di giuocare alle repubblichette, di rimuovere i problemi veri; noi, no. Eravamo costretti a ragionare, a riflettere, a trovare di volta in volta una risposta ai problemi. Eravamo costretti, indipendentemente dal talento e quasi contro la nostra stessa volontà, a fare da battistrada per tutti. I problemi che ieri erano della Sicilia, oggi sono dell'Italia intera. Estrema radicalizzazione degli schieramenti politici e istituzionali, estrema ramificazione dei soggetti sociali e dei loro legittimi interessi; necessità di scelte nette e traumatiche sul piano degli schieramenti e dei poteri, ma contemporaneamente - di pazienti e lungimiranti mediazioni e garanzie e salvaguardie nel sociale. Il tutto, in pochissimo tempo e imperversando la crisi. Arriveranno prima i leader della sinistra a percepire la posta in gioco - a farsi le concessioni reciproche richieste dall'unità - o arriveranno prima le forze nere? Il problema, è tutto qui. A Palermo e in Sicilia, è arrivata per prima la democrazia. Ma adesso, bisogna far Palermo dappertutto. IN UNA SCUOLA OCCUPATA DI PALERMO I Siciliani, novembre 1993 Occhetto, Orlando, Cossutta e Ayala si sono incontrati ieri a Palermo, in una scuola occupata. "Conti alla mano - ha detto Occhetto - la sinistra è maggioranza dappertutto, tranne (ma di poco) a Milano". "Che c'entri tu con la sinistra?" lo ha interrotto Cossutta. "Beh, qui a Palermo..." ha detto Orlando. Ayala, per il momento, non ha detto niente. "D'accordo - ha proseguito Occhetto - forse anch'io avrò fatto le mie cazzate. Martelli, Segni... Vabbene, intanto qua Martelli, Amato, Segni, Martinazzoli e compagnia centrista - Ayala s'è riacceso la pipa che s'era spenta - con noi non ci stanno, questo è chiaro. In compenso la gente ci vota. E allora, che vogliamo fare?". "Noi comunisti..." ha cominciato Cossutta. "Noi comunisti eravamo un'altra cosa - l'ha interrotto Galasso - noi sapevamo fare la politica delle alleanze, quando ce n'era bisogno!". Padre Pintacuda, che era arrivato in quel momento, ha avuto un sorriso fine. "A prescindere dal passato..." ha cominciato. Ma in quel momento sono entrati Rocco, Antonia e Salvatore, del comitato d'occupazione. "Ehi, ma ancora non avete finito? - ha detto Rocco - Guardate che l'aula ci serve, dobbiamo fare la riunione della commissione stampa!". "Dài - ha detto Antonia - lasciamogliela per un altro quarto d'ora, poveretti! Li devi capire, sono politici, devono tragediare un po' prima di mettersi d'acordo". "Va bene, ma un quarto d'ora e poi basta, eh? Non ve ne abbiate a male, ma qui abbiamo da lavorare". I tre ragazzi uscirono in fretta, e Antonia prima di chiudere la porta consegnò qualcosa ad Orlando con aria complice. "Ora, prima di tutto bisogna stabilire..." fece Cossutta, ma s'interruppe guardando incuriosito l'oggetto che il sindaco di Palermo teneva in mano con aria indifferente. "Cos'è questo? Fa vedere...". "Fa' vedere anche a me...". "Aspetta che provo anch'io". Un quarto d'ora dopo, i leader della sinistra avevano già definito, nelle grandi linee, il programma elettorale della sinistra unita, avevano deciso i nomi (che sarebbero stati comunicati alla stampa in serata) dei componenti del primo governo post-democristiano e avevano riconsegnato agli studenti, in perfetto orario, la loro aula. Allontanandosi, i ragazzi li sentirono sghignazzare allegramente fra loro. "Ci voleva tanto per convincersi - fece Rocco - Eppure lo potevano capire subito che se si mettono insieme e non fanno cazzate la gente, com'è successo qui a Palermo, alla fine li vota!". "Sono politici" sentenziò Salvatore. "Eppure, alla fine l'hanno capito. Chissà come hanno fatto, a mettersi d'accordo tanto alla svelta". "Un miracolo". "Già". Antonia non disse niente, ma sorrise. Effettivamente aveva avuto un effetto miracoloso, lo spinello che aveva passato a Orlando... E LA BANDA SUONO' BANDIERA ROSSA I Siciliani, novembre 1993 Il mio paese, Milazzo, ha venticinquemila abitanti e un sindaco di sinistra. Il sindaco l'hanno fatto la Rete, il Pds, la parrocchia del Sacro Cuore, i compagni di Rifondazione comunista, quelli della Lega Ambiente, e associazioni e congreghe e movimenti vari. I voti sono arrivati principalmente dalle frazioni "rosse" della città, i villaggi dove un tempo il vecchio partito comunista organizzava i contadini. Il sindaco nuovo è un professorino cattolico con la faccia perbene; fra i caporioni ci sono Dario Russo, che vent'anni fa era un ragazzo di Lotta Continua e ora ha fondato la Rete, Franco Otera che allora era pure nella lottacontinua e adesso ha combattuto la mafia come segretario della camera del lavoro, Cesare Lispi della Raffineria, che allora era del Pci e adesso di Rifondazione, e altri ancora che non conosco perché da troppo tempo manco dal paese ma che sicuramente sono dei bravi compagni - o dei bravi cristiani, a scelta loro - come questi che ho appena nominato. Sono convinto che adesso, fra tutti quanti, rimetteranno in sesto il mio paese, che è molto bello e al quale voglio molto bene. Il giorno prima delle elezioni, a Milazzo, è morto Tindaro La Rosa, che era il capo dei comunisti del mio paese negli anni Sessanta e Settanta, un milione d'anni fa. A quel tempo i braccianti erano tanto poveri, a Milazzo, che alcuni di loro nelle frazioni della Piana dormivano ancora su graticci di canne. Tindaro era quello che li organizzava, gli faceva il sindacato e il partito e gl'insegnava a lottare. Eliana, sua moglie, girava in bicicletta per la Piana a organizzare le gelsominaie, le donne che raccolgono i gelsomini di notte ed è un lavoro durissimo perché ci vuole una cesta di fiori per fare una goccia di profumo. Io me li ricordo bene, queste gelsominaie e questi braccianti, con la loro bandiera rossa nella piazza del paese, col loro silenzio duro e la loro immensa dignità. Tindaro ed Eliana vivevano in una casa poverissima ed estremamente pulita, sulla spiaggia dell'Acquaviola. Avevano due bambini la cui intelligenza e buona educazione - come si diceva allora - venivano portati ad esempio anche dai genitori più reazionari del paese. A casa di Tindaro, quando hanno aperto la cassaforte dove teneva i suoi risparmi e le sue carte - aveva fatto il funzionario di partito per quarant'anni - non hanno trovato una lira, ma circa quarantacinque pezzi di carta che erano tutte le tessere del Partito Comunista Italiano dal 1943 in qua. Hanno portato Tindaro in chiesa con la bandiera della vecchia sezione, falcemartello e stella, sulla bara, e al prete non è passato neanche per l'anticamera del cervello di obiettare qualcosa. Davanti al cimitero, in cima alla salita in faccia al mare, la folla dei cittadini s'è fermata: un vecchio compagno ha fatto la commemorazione parlando piano e poi la banda del paese ha cominciato a suonare "Bandiera Rossa". RICRAXI I Siciliani, febbraio 1994 Ci serve per prendere i voti dei cafoni del sud, ha detto il consiliori dei leghisti parlando di Berlusconi. I cafoni del sud saremmo noi: e apprezziamo vivamente la semplicità e chiarezza con cui il professor Miglio (il vero capo della Lega: l'altro è solo da piazza) ha finalmente esposto il programma politico della destra italiana. Da cent'anni in qua, infatti, il problema della destra è esattamente questo: dato che la maggior parte della nazione italiana è composta da "cafoni" del sud (contadini, emigranti, disoccupati) e da "cafoni" del nord (operai, impiegati, disoccupati), come fare per impedire che i "cafoni" delle due parti si uniscano e mandino a quel paese i galantuomini (politicanti, proprietari e boss mafiosi del sud, politicanti, cavalieri d'industria e boss massoni del nord) di cui la destra italiana è tradizionalmente l'espressione? Il problema, come sapete, ha avuto svariate soluzioni nel corso degli anni: il fascismo, la Dc di Andreotti, il craxismo. Nessuna di esse è rimasta senza eredi. I fascisti di Fini partecipano oggi attivamente, a pari titolo con gli altri, al Fronte Padronale anti-"cafoni". I leghisti, che fino a ieri votavano in maggioranza (se la statistica non è un'opinione) per i democristiani veneti e per Craxi, oggi costituiscono l'ala più "popolare" e più intransigentemente razzista della nuova destra. I pattisti di Segni, vale a dire la destra Dc riveduta e corretta, marciano tatticamente divisi ma fanno in realtà parte integrante della maggioranza di destra (come si vedrà il giorno dopo le elezioni). Infine, Berlusconi: che è il rappresentante ufficiale, a Milano e nel nord, del craxismo rampante degli anni Ottanta. Così, nell'anno di grazia millenovecentonovantaquattro, "los cuatros generales" vennero avanti. Bossi marciava in testa, guardandosi alle spalle e agitando bandiere: in Lombardia e nel Veneto, se tutto andrà bene, non ci sarà più posto per sindaci né per associazioni di base né per partiti che non siano quelli del Volk puro, del partito unico del Nord. Dietro di lui, Berlusconi: sorride a dritta e a manca, trotterellando dietro le squadre leghiste. "Io ho i soldi! - grida ansiosamente, sforzandosi di far la faccia dura - Ve ne compro quanti ne volete, io, di cafoni! Ho i soldi, io!". Qualcuno, dalle ultime file, si volta a guardarlo sogghignando. Poi, dopo uno spazio vuoto, sfilano i fascisti di Fini. Sono una strana armata: stracci azzurri, cravatte, vecchi frak, tricolori con un gran buco al centro, dove una volta c'era il fascio - tutto si son buttati addosso, pur di coprire alla meglio la camicia nera. Il comandante in testa regola freddamente la marcia sulle orme di Bossi: il giuoco delle parti li divide, e l'ambizione feroce: ma li unisce profondamente il loro ruolo. Passano i riciclati, passano gli arricchiti di regime, passano i cortigiani e i teppisti, passano nani e ballerine. E infine, i "moderati". "Noi qui con questa gente non c'entriamo! - portano scritto su un gran cartello - Noi siamo qui del tutto casualmente! Non siamo dei rozzi come questa gente, noi! Ma anche noi combattiamo i bolscevichi di Occhetto e Orlando!". Il loro capo è l'ultimo, marcia all'estrema coda del corteo, enigmatico e triste come un Francisco Franco. Sarà lui, se le cose funzionano, a guidare il governo di Fini e Bossi. E questo era il loro corteo. Ma quando tutti costoro furono passati si fece avanti un vecchio, un contadino tarchiato sui sessant'anni, e si piantò in mezzo alla piazza ormai vuota. "Chiedo scusa! - disse - Mi chiamo Pasquale Amodio e sono di Motta Sant'Anastasia in provincia di Catania! Sono stato dodici anni in Germania a lavorare, perché al paese lavoro per noi non ce n'era. Scusate, ma ora voglio dire la mia". "Neanche per me c'era lavoro - si fece avanti un ragazzo - Perciò sono partito anch'io. Io mi chiamo Michele Calafiore e sono di Palma di Montechiaro". "Io faccio il maestro, mi chiamo Michele Belcore - disse un uomo uscendo dalla folla - e al mio paese c'è la mafia e nessuno, tranne noi, l'ha mai combattuta". "Mi chiamo Santo Buscema, di Gibellina. Il terremoto ha distrutto la mia casa con tutto il paese. I cavalieri hanno fatto i soldi con la ricostruzione. A noi sono rimaste le baracche". "Le tasse si mangiavano la terra, io mi chiamo Turi, ho dovuto vendere tutto all'avvocato". "Mio figlio è morto di tifo, da un momento all'altro, in due ore. L'ospedale più vicino era a cento chilometri! Mi chiamo Giovanna Costantini". E ad uno ad uno i siciliani parlavano, quel giorno, non ne restava zitto nessuno. Uscivano dalla folla, dicevano la loro testimonianza e si fermavano nella piazza che via via si riempiva di ombre sempre più fitte nel sole. Da molte generazioni e molti luoghi tornavano quel giorno i siciliani, e da molto patire, e da molto vagare sulla faccia del mondo. Lontano, come stivali in ritirata, sempre più fioco si spegneva lo scalpiccìo del corteo. FORZA ETNA I Siciliani, marzo 1994 Ricordate quando scrivevano "Forza Etna" sui muri? Noi sì. Una decina di anni fa. La destra, allora, era ancora una faccenda pressoché medievale. I fascisti, il massimo che potevano sperare dalla vita era un bel referendum sulla pena di morte. La mafia, puntava fiduciosamente sul suo immobile Andreotti, che le pareva immortale. Berlusconi era semplicemente uno dei tanti cavalieri che allora si facevano i soldi con Craxi. Le regole del gioco. Una tranquilla destra, un po' pigra ma sicura del proprio immodificabile potere, e una sinistra tranquilla, placidamente assestata "all'opposizione". Ma un bel giorno, da qualche parte nell'Europa civile, cominciarono a comparire i primi manifesti dell'era nuova. Ausländer raus. La France aux français. Via gli ebrei. E, qui in Italia per l'appunto, forza Etna. Le scritte apparivano sui muri degli stadi, nei primi tempi. Ma avevano un profondo valore culturale, di svolta storica si potrebbe dire e difatti cambiando un pochettino le parole - ben presto se ne appropriarono gli intellettuali. Così venne spiegato che uno slogan come Forza Etna (o Ebrei Al Rogo o altri similari) è un'espressione naturalmente estremistica e sbagliata, ma portatrice tuttavia di istanze e problematiche non prive di una loro, magari non del tutto condivisibile, spiegazione. Scrivendo "Forza Etna" non s'intendeva insomma invocare la distruzione fisica di una popolazione, ma esprimere sia pur rozzamente la protesta di una popolazione troppo a lungo sfruttata da un sistema statalista e accentratore. Un fenomeno tipo "Reggio capoluogo" e "Boia chi molla" s'è disperso, a suo tempo, senza dar luogo a cristallizzazioni politiche ulteriori. Ma ora i tempi sono maturi. Così ridendo e scherzando il partito del "Via gli ebrei" (ché di questo si tratta, su questo un'identità culturale e politica è stata a suo tempo faticosamente costruita: su radici, a loro volta, non occasionali né lievi) è diventato il primo partito di Roma. Quanto a "Forza Etna", lo slogan ha figliato un partito: che adesso è qua a fare politica perbene, insieme con tutti gli altri. Ed è questa la genesi, al di là delle nostre illusioni, della destra d'oggi. Non siamo alle solite; è un'altra cosa. Berlusconi non è il cavaliere d'industria, in questo caso, che difende "politicamente" i suoi denari; o non è solo questo. E' invece il punto di coagulo, l'esemplificatore di massa, la Guida (non leader, che è parola e concetto occidentale) di una concezione del mondo del tutto nuova, nuova in proporzione almeno quanto quelle mussoliniane e centroeuropee degli anni Venti. Essa coagula e rende nel loro complesso immediatamente operativi alcuni valori l'automonetizzazione, la pulizia etnica, l'antiparlamentarismo, il razzismo - che nelle ultime due generazioni erano rimasti sostanzialmente isolati, ciascuno per sé, fuori dal common sense della Nazione. Questo nuovo soggetto non vincerà, probabilmente, le elezioni. Ma esiste, e continuerà a esistere anche dopo. Le divisioni e le liti fra le sue varie componenti gl'impediranno di governare, ma non di fare un'azione politica, e soprattutto culturale, comune. Per almeno una generazione un terzo del corpo politico italiano sarà rappresentato da personaggi e da valori completamente al di fuori della tradizione civile occidentale. Fra questi valori c'è "Forza Etna", cioé la percezione del Sud - di tutti i sud del mondo, e del nostro in particolare - come altro da sé, come cosa da escludere con violenza dal recinto della "modernità" nazionale. Alcuni questa concezione la proclamano con becera sincerità, altri - fra cui gli ascari del berlusconesimo nella Sicilia e nel Sud - si limitano a portarla avanti alacremente. Noi siciliani abbiamo la fortuna, se così si può dire, di essere intrinsecamente nemici di questi valori, per stato di necessità. Non possiamo accettare le teorizzazioni della nuova destra, perché saremmo i primi ad esserne colpiti. Siamo felicemente "costretti" ad essere progressisti, esattamente come siamo stati "costretti", per la nostra stessa sopravvivenza come popolo civile, a entrare in guerra contro la mafia. Nessun siciliano può votare per i mafiosi senza essere nemico di se stesso. Nessun siciliano può votare per il neo-craxismo senza essere ladro di se stesso. E nessun siciliano può votare per gli uomini di Berlusconi senza rinnegare la Sicilia e, come siciliano, se stesso. UN'AZIENDA DEL SUD I Siciliani, febbraio 1994 La questione principale che ci resta da risolvere per partire coi Siciliani quotidiano è apparentemente tecnica, ma densa in realtà di implicazioni sulla struttura stessa del giornale. I Siciliani quotidiano nasce infatti come giornale "stellare", articolato cioé su diverse redazioni diffuse sul territorio regionale e non - come avviene finora - su un'unica redazione centrale; in grado, inoltre, di ricevere input modulabili (dal "pezzo" in formato Ascii alla pagina già impaginata) da testate in sinergia su tutto il territorio nazionale. Questo è reso possibile dalle tecnologie hardware e software venute fuori negli ultimi due anni; ed è ulteriormente facilitato dagli ultimi sviluppi dei microprocessori "economici" ad alta velocità (il Pentium di Intel e il PowerPc di Apple-Ibm) che stanno venendo a maturazione proprio in questi mesi. Se prima ci volevano cinquecento milioni - detto in parole povere per impiantare un punto redazionale autosufficiente collegato con altri, adesso ne bastano meno della metà: e su questo semplice dato si basa tutta la filosofia progettuale, sul piano tecnologico, del nostro quotidiano. Un'azienda italiana (perché qui siamo anche un'azienda) tecnologicamente all'avanguardia, ben conosciuta, in grado di reggere il mercato, si rivolge alla struttura pubblica, allo Stato, non per chiedere assistenza o benefici ma semplicemente per utilizzare i servizi tecnologici che ogni Stato moderno deve garantire a tutte le realtà economiche nazionali; e scopre di essere in realtà un'azienda meno italiana di altre, senza che nessuno lo dichiari, perché materialmente opera al Sud; con tanti ossequi al mercato, alla libera concorrenza e a tutto il resto. Noi che siamo I Siciliani siamo in grado di far sentire la nostra voce, di andare avanti - sia pure con qualche sacrificio - lo stesso; ma gli altri? Che fine avrebbe fatto, in una situazione come questa, un piccolo-medio imprenditore che avesse investito, poniamo, il suo patrimonio aziendale in un progetto a tecnologia avanzata come questo? La verità è che il mercato al Sud non esiste. Esiste un pigro andare avanti alla men peggio, con lo Stato messo là a tappare i buchi (o a regalare contributi), e a controllare che non si sviluppi - in un clima di concorrenza - un volano economico che introduca l'economia di mercato anche al Sud. Perché in questo caso salterebbe il tradizionale patto storico per cui il nord produce e comanda (gl'industriali del nord, intendiamo) e il sud vivacchia e sta in coda. Ma abbiamo voluto entrare nei particolari di questa storia anche e soprattutto perché essa riguarda il quotidiano dei Siciliani, cioé tutti gli amici dei Siciliani, cioé tutti voi. I nostri amministratori aziendali si assumeranno, naturalmente, tutte le loro responsabilità e decideranno liberamente sulle opzioni da prediligere, sui tempi da mantenere, sulle operazioni da fare. Ma la questione riguarda anche voi. Noi dei Siciliani saremo lieti di ricevere le vostre opinioni su queste scelte. Non vi garantiamo, poiché un'azienda non si può portare avanti per referendum, che esse saranno inderogabilmente seguite. Ma ne terremo conto, perché la storia dei Siciliani è sempre stata una storia di molta gente, un popolo di lettori e amici che ha camminato nel tempo, non un gruppo isolato di abili professionisti. Così, riferiamo anche sugli altri aspetti del progetto: i contatti con gl'imprenditori siciliani (e anche non siciliani: ma questo è un altro discorso) che continuano a supportare l'impresa sono in corso. Con tutte le cautele del caso, possiamo dire che questi contatti sono positivi. Certo, non abbiamo mancato di notare in diversi di loro atteggiamenti, diciamo così, preelettorali: nel momento in cui l'assetto politico del Paese promette (o minaccia, a secondo dei casi...) di cambiare radicalmente da un mese all'altro, questi nostri interlocutori vogliono essere ben sicuri - conformi a un'antichissima tradizione siciliana - di schierarsi con la parte vincente. Di questi, alcuni ci vogliono assolutamente della Rete, altri del Pds, altri ancora del Pds e della Rete tutt'insieme; e ci ammiccano con aria complice e furbesca quando tentiamo di spiegare che noi siamo semplicemente - e da più di dieci anni - I Siciliani. Non c'è verso di fargli capire che una cosa è far giornali, e un'altra far partiti; e che un giornale se è ben fatto va avanti e se no, no; e che tutto il resto è fumo. Ma sappiamo come va il mondo, e la Sicilia in particolare; perciò portiamo pazienza, e andiamo avanti. Meno sofisticati ma più concreti gli aspiranti soci non siciliani: appartenenti, la più parte, al mondo dell'editoria e della stampa. Qui abbiam potuto parlare di numeri, finalmente: siamo stati ascoltati con diffidente attenzione e, dopo che i nostri conti sono stati ben bene ruminati, son cominciati ad arrivare - ma sempre con gran fatica, e dopo lunga e grave meditazione - i primi sì. Così è potuta nascere, ed è ora in piena attività, la società editrice del quotidiano, I Siciliani SpA, con queste tre buffe lettere dietro il nostro antico nome. A questo punto i conti cominciano felicemente a tornare: i nostri amministratori, che si riuniranno in questi giorni, potranno liberamente scegliere fra le varie possibilità in positivo create dalle iniziative e dal lavoro di questi mesi. Create, soprattutto, dal sostegno e dalla mobilitazione che in questi anni si sono raccolti attorno ai Siciliani. Viene da queste radici il successo della sottoscrizione popolare per il quotidiano (l'azionista di riferimento, cioé la principale componente della Siciliani SpA, sarà l'Associazione formata dalle centinaia e centinaia di piccoli sottoscrittori). Viene anche da esse, crediamo, la straordinaria attrazione che questa impresa ha destato nel mondo giornalistico italiano. Quasi quaranta giornalisti professionisti di tutt'Italia hanno chiesto di venire a lavorare in Sicilia coi Siciliani, lasciando i loro giornali attuali. E' una risposta superba e commovente all'appello che abbiamo lanciato a luglio e abbiamo portato avanti in questi mesi. Faremo la vostra parte, noi del vecchio gruppo dei Siciliani, e tutti voi lettori, amici, collaboratori e militanti vecchi e nuovi dei Siciliani, farete la vostra. Non vi deluderemo, non ci deluderete. Nel momento in cui ci prepariamo alla svolta, entriamo in una dimensione aziendale, lanciamo le prime mosse operative concrete per il quotidiano, noi non ci dimentichiamo delle nostre radici. Aiutateci a non rinnegarle mai neanche per un momento, a restare orgogliosamente e umilmente noi stessi, a portare sempre più avanti e sempre più lontano la piccola-grande storia dei Siciliani. LAVORI IN CORSO I Siciliani, marzo 1994 Questa primavera e l'estate si annunciano come mesi di lavoro assai intenso e di organizzazione crescente. Il ritmo finora tenuto è buono, sia nei settori più "militanti" che in quelli professionali. Nel corso dei prossimi tre mesi bisognerà però raccogliere i frutti concreti del lavoro fatto, cominciare a far funzionare le strutture umane e materiali del quotidiano. E adesso facciamo il punto. Soldi. Abbiamo raccolto finora impegni diretti per un po' meno di due miliardi di lire (esclusa la sottoscrizione popolare). Siamo al di sotto dell'obiettivo, che è di quasi cinque miliardi. Bisogna però osservare che da un certo momento in poi - e precisamente dall'inizio della campagna elettorale - abbiamo sospeso la ricerca dei soci a livello imprenditoriale. L'abbiamo fatto per tenere nettamente distinti il livello imprenditoriale e quello politico della nostra impresa. E' stata una decisione saggia: alla ripresa dei contatti - dopo le elezioni - potremo agevolmente recuperare il tempo perduto. In questo settore, in ogni caso, i riscontri migliori sono venuti dagli imprenditori nazionali già in qualche modo impegnati nel campo dell'editoria, i peggiori (o quantomeno i più cauti) dagli imprenditori siciliani. Non che, naturalmente, avessimo messo in conto qualcosa di diverso: una cultura imprenditoriale moderna, in una regione come la nostra, non s'improvvisa in pochi anni; ed è già tanto aver indotto buona parte degl'imprenditori siciliani a non accettare la mafia come un fenomeno della natura. In questo come in altri campi, abbiamo pazienza: riprenderemo i contatti come programmato, con l'avvertenza che c'interessa creare un'impresa concorrenziale e sana e non cercare assistenza. Politica. Registriamo nel complesso un comportamento corretto da parte delle forze politiche (in senso lato) della sinistra che in qualche modo possono avere un interesse al successo della nostra iniziativa. Non ci sono stati tentativi d'illegittima interferenza nella costruzione dei Siciliani; qualche singolo esponente ha occasionalmente cercato di "avere assicurazioni" e di "veder chiaro" nelle nostre intenzioni, ma si tratta di episodi abbastanza trascurabili. Abbiamo ormai rinunciato (per stanchezza) al tentativo di spiegare che la "linea politica" di un giornale come il nostro consiste semplicemente nello scrivere tutto quel che si sa e si è in condizione di provare; e che tredici anni di lavoro di questo tipo ci danno qualche diritto di fare serenamente simili affermazioni senza che nessuno debba scervellarsi a chiedersi dov'è il trucco. Ma tant'è: ne riparleremo dopo avere stampato il numero uno. Redazione. Sono finora sessantanove (cinque praticanti, dodici pubblicisti con esperienze che noi valutiamo idonee ai compiti redazionali, e gli altri professionisti) i colleghi che hanno chiesto di far parte della redazione de "I Siciliani quotidiano"; l'età media è sotto i trent'anni. Teoricamente, il numero dei redattori necessari sarebbe già superato; in effetti noi consideriamo questi contatti solo come il momento iniziale di un processo di selezione che, nella tradizione dei Siciliani, non è agevole né veloce. Ci sembra insomma di avere appena cominciato a mettere insieme la redazione, ed esamineremo con la stessa attenzione, da qui a giugno, tutte le altre richieste che verranno avanzate. In ogni caso, crediamo di poter garantire fin da questo momento la copertura professionale del giornale. Riteniamo anche che il "gruppo storico" dei Siciliani, opportunamente integrato, sia più che sufficiente ad assicurarne la direzione e la gestione organizzativa. Tecnologie. Non abbiamo molto da aggiungere a quanto vi abbiamo detto nel numero precedente. La Sip ha lasciato un buco nel settore delle telecomunicazioni e questo crea un problema imprevisto nella struttura. Stiamo lavorando a pieno ritmo per cercare di risolverlo. Da questo mese abbiamo messo in piedi un settore specifico per la rete telematica dei Siciliani. Collaboratori. Il quotidiano prevede tre grandi aree d'impiego per i collaboratori non professionisti: locali (città e quartieri), archivio elettronico (a Palermo e a Catania) e inserto (quattro pagine separate dal resto del giornale per formare una vera e propria testata autosufficiente che cambia ogni giorno). Abbiamo già detto che le disponibilità di questo settore superano il numero di seicento. Quelle finora verificate risultano mediamente di buon livello. Per quanto riguarda in particolare le collaborazioni locali, un ruolo importante attribuiamo alla creazione di piccole e piccolissime testate "di paese" che servano contemporaneamente da luogo di aggregazione civile e da "antenne" locali dei Siciliani. Una decina di queste mini-testate sono già state realizzate o lo saranno al momento o fin dall'inizio del Progetto che un'impresa come questa de "I Siciliani quotidiano" nasce anche per far da modello e da catalizzatore (senza nessuna velleità "espansionistica") a una serie di altre iniziative cittadine e regionali, cui possiamo senz'altro mettere a disposizione collegamenti, tecnologia, esperienza e sinergìe. E ORA LIBERATE TOTO' RIINA I Siciliani, aprile 1994 Questa casa non conosce la rassegnazione. Questa piccola scritta stava nella stanza di Winston Churchill durante la guerra. Subito dopo la sconfitta di Dunkerque - il corpo di spedizione britannico era fuggito a stento, i tedeschi dilagavano trionfalmente dappertutto - Churchill organizzò immediatamente due cose, che a lui sembravano parimenti indispensabili e urgenti. Fece scavare trincee lungo la costa, distribuì le armi ai cittadini, predispose la resistenza di tutti dappertutto: se mai gl'hitleriani fossero riusciti a sbarcare. E predispose gli studi - con decorrenza immediata - per la costruzione dei nuovi mezzi da sbarco per l'esercito inglese. Perché sul fatto che l'esercito di Sua Maestà prima o poi sarebbe tornato in Europa, egli non aveva il minimo dubbio. E per quel giorno intendeva debitamente tenersi pronto. Noi siamo I Siciliani. La situazione presente ci dispensa da ogni lunga dissertazione, che non stia in queste quattro parole, su cosa intendiamo fare adesso. Andiamo avanti. Combatteremo il regime con le inchieste, con le notizie, con la puntuale denuncia di piccole e grandi ingiustizie, con la battaglia culturale, in ogni modo. Lo combatteremo per tutto il tempo che sarà necessario, dovunque e comunque, finquando non ci sarà più. Questo è il nostro programma, e non servono altre parole. Noi non cerchiamo scuse. Noi non attribuiamo la deplorevole vittoria della destra a errori o insufficienze di questi o quelli, che pur ci sono stati. Noi diciamo che se un Caponnetto ha potuto essere sconfitto a Palermo, evidentemente qualcosa di profondo, e di marcio, è cresciuto nell'anima popolare. Noi non ci nascondiamo di chi è stata la vittoria; non d'una destra moderata, civilizzata, europea, ma d'una armata nera che arruola fra i suoi ufficiali tutto il mercenariato - soprattutto in Sicilia - del passato regime. Non ne abbiamo paura. Poche righe per gl'industriali siciliani. E' vostro compito civico, adesso, sostenere questo giornale. Noi non avanziamo richieste, in un momento come questo; richiamiamo all'osservanza di un dovere. Non vogliamo convincervi, stavolta. Scegliete semplicemente da che parte stare. Perché stavolta non c'è spazio in mezzo per nessuno. Noi andiamo avanti comunque. Noi, I Siciliani. LA RISCOSSA I Siciliani, aprile 1994 Ci dicono: e adesso, che avete intenzione di fare? "Adesso" vuol dire dopo le elezioni, perse dalla gente civile dappertutto, ma più disastrosamente in Sicilia: dove i cittadini, col loro libero voto, hanno cacciato l'amico di Borsellino e Falcone da Palermo e scelto l'uomo di Concutelli. La nostra non è, ben s'intende, un'impresa elettorale: ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Queste elezioni, ben prima che quello politico, hanno mostrato il livello culturale e civile del Paese; e da noi più che altrove. "Autobiografia della nazione" scrisse, del suo fascismo, Piero Gobetti. Allora, per ritornare civili, ci vollero vent'anni. E adesso? Non lo sappiamo. Ci preoccupano, più che le cronache parlamentari, le spicciole e quotidiane; le lettere d'ammirazione a Pietro Maso, gli ebrei bastonati sotto Montecitorio dai fascisti di Bossi, le ragazzine meridionali che vorrebbero "sposare un camorrista", la folla dei curiosi - nella civilissima Firenze - che si raccoglie sotto l'edificio da cui un disoccupato minaccia di buttarsi di sotto e gli urla gioiosamente "buttati". Di fronte a questo, e contro questo, stanno i nostri ragazzi che lavorano serenamente al giornale, che raccolgono i dati, che riscrivono i pezzi, che imparano giorno per giorno il mestiere. Proviamo orgoglio guardandoli, e insieme un'apprensiva tenerezza: orgoglio per ciò ch'essi continuano, per l'antica moralità del lavoro, dell'impegno individuale, della vita ben spesa; e apprensione per le prove che dovranno affrontare, per i passi difficili, più difficili dei nostri, che attraverseranno. Di certo questa generazione non sarà di quelle, come la nostra in buona parte è stata, che alla fine tradiscono se stesse. Ma basta con le chiacchiere e andiamo a far rapporto ai lettori. La situazione è difficile. Cerchiamo di elencare ordinatamente i pro e i contro che il Progetto quotidiano si trova davanti dal giorno di Berlusconi. Cominciamo dai contro. Diversi industriali siciliani, nel periodo precedente alle elezioni, hanno chiesto "tempo per riflettere" sulla nostra proposta di entrare in società per editare I Siciliani quotidiano. Prima, dovevano riflettere semplicemente sui rischi e i vantaggi di fare un buon giornale. Ora, su quelli di fare un giornale d'opposizione, e d'opposizione a un regime che già ora non brilla per limpidezza antimafiosa. Noi manteniamo fede a tutti gl'impegni presi, teniamo fede alle nostre offerte e non ritiriamo nessuna delle nostre proposte. Ma non ci facciamo illusioni sul senso civico, e sulla lungimiranza imprenditoriale, di molti dei nostri interlocutori. Abbiamo messo in piedi una piccola ma efficiente struttura (grazie alla professionalità e alla dedizione degli amici che vi sono preposti) per la raccolta della pubblicità locale. Ma la pubblicità nazionale, in mano a Berlusconi e al governo di proprietà di Berlusconi, non seguirà assolutamente le leggi di mercato, ma servirà a finanziare tangentisticamente i giornali e le televisioni di regime. Non una lira andrà agli oppositori. Il Progetto Siciliani, fin dalla sua presentazione nel luglio dell'anno scorso, è stato ed è tuttora un progetto unitario. Non abbiamo mai preteso di far tutto da soli. Abbiamo proposto una base per assemblare progressivamente, secondo le necessità e secondo le competenze, i vari settori dell'impresa. Non possiamo dire di avere avuto rifiuti secchi a questa concezione. Ma si son mossi in pochi. Quesi tutti i soggetti che avrebbero avuto interesse a una impresa comune - testate democratiche, gruppi di società civile, imprenditori liberi, soggetti sociali - ci hanno onorato di una grande e teorica solidarietà ma nei fatti (con alcune coraggiose eccezioni) son rimasti ad aspettare. Questo, sia ben chiaro, non per particolari egoismi o per ostilità preconcette. Ma perché in Italia, e nella sinistra italiana, vige il principio che ognuno, prima di tutto, deve badare alla bottega sua. Oppure, se volete un paragone più nobile, che ogni formazione partigiana deve difendere, prima di tutto, la propria vallata. In astratto, ciascuno è pronto a riconoscere che la bottega singola, alla lunga, non regge davanti ai grandi padroni; e che certamente sarebbe bello se, prima o poi, dalle bande isolate sortisse la grande armata di liberazione. Ma in pratica si è volato basso. Non incolpiamo nessuno, ma diciamo che così si perde. Tutti, chi prima e chi poi. Il Progetto ha mobilitato simpatizzanti di base in numero assolutamente impreveduto; ma non è riuscito a costituire attorno a sé un gruppo dirigente, uno stato maggiore tecnico e ideale all'altezza - qualitativamente e quantitativamente - della situazione. Eppure i numeri ci sono, c'è un progetto solido, ci sono - nell'area nostra, e in quelle immediatamente vicine - le persone. Anche qui, non incolpiamo nessuno. La maggior parte degli amici che avrebbero potuto attivamente impegnarsi avevano molte altre cose da fare, tutte utili e urgenti e tutte di gran valore civile. E poi, come si fa a impegnarsi professionalmente per qualcosa che ancora non c'è? E' mancata non la simpatia, ma la determinazione. La volontà di andare avanti secondo una precisa e non occasionale strategia; e di fare anche, nei momenti opportuni, delle precise scelte di campo, unitarie sempre ma anche, se necessario,estremamente determinate. Infine, gli errori nostri. Abbiamo dato poca attenzione, o un'attenzione comunque insufficiente, agli interlocutori esistenzialmente più lontani dalle esperienze nostre. "Non si può chiedere a chiunque di essere un lupo solitario" ha detto una volta il nostro direttore. In questa circostanza l'abbiamo dimenticato. Siamo andati troppo in fretta per alcuni, in alcuni casi. Abbiamo troppo a lungo atteso altri, in altri casi. Abbiamo lasciato mettere in discussione dei fattori (i tempi delle scadenze principali, la forma radicale delle sinergie, il concetto stesso di giornale modulare) che erano nella fisiologia del Progetto. Ci siamo praticamente irrigiditi, o peggio abbiamo glissato, su questioni come le "garanzie politiche" che invece erano indispensabili alla formazione e cultura, certo non nostra, ma di alcuni nostri interlocutori. E questi sono i contro. Vediamo adesso i pro. Il principale fra essi consiste nel fatto che, nonostante tutti gli ostacoli e gli errori, il Progetto operativamente non si è mai arrestato. Sia sul piano giornalistico-editoriale che su quello dell'organizzazione aziendale, il lavoro di progettazione e ricerca è stato costantemente portato avanti; si è perso forse del tempo in altri settori, ma non in questo. Siamo dunque in condizioni di prendere iniziative tecniche (appena ne avremo i mezzi) assolutamente tempestive e adeguate. La crisi diffusionale de "La Sicilia", del "Giornale di Sicilia" e della "Gazzetta del Sud" non si è ancora risolta. Non c'è dubbio che col nuovo regime (come con l'antico...) non mancheranno ai loro proprietari le facilitazioni e gli aiuti. Ma il calo delle vendite, quello lo decidono i lettori. I quali continuano a punire severamente le tre testate di destra siciliane. Lo spazio per un quotidiano indipendente c'è dunque ancora, e non ha subito significative variazioni - sul piano del mercato - rispetto a prima di Berlusconi. Il target più propriamente politico, l'area cioè dei lettori che appoggiano I Siciliani non solo per il loro contenuto informativo ma anche come punto di riferimento culturale, non si è di molto ridotto dopo le elezioni (qualcuno ha provveduto a contare, fra un piagnisteo e l'altro, quanti voti ha preso in realtà la sinistra in Sicilia?); ma si è radicalizzato di molto. Il ruolo civile e culturale del quotidiano da questa situazione viene, a nostro parere, non solo non sminuito, ma esaltato. Ad esso I Siciliani possono far fronte sul piano tecnico ma anche e più, a questo punto, su quello politico: per la tradizione di combattività e unità che ne caratterizza l'immagine, per la politica giovanile da molto tempo sperimentata, per l'agilità organizzativa e la diffusione capillare. I Siciliani possono contribuire in maniera decisiva a ricompattare e riportare avanti la sinistra siciliana, e a riproporre con credibilità e autorevolezza le esperienze della società civile e dei movimenti sul piano nazionale. Come abbiamo riferito nel precedente rapporto, la risposta al Progetto, alla base, è stata di proporzioni entusiasmanti. Quasi settecento dichiarazioni di disponibilità, da parte di altrettanti cittadini e gruppi di base: una cosa mai vista. Abbiamo difficoltà a organizzare tutto questo, coi nostri modesti mezzi organizzativi; non è facile trovare il canale giusto per ciascuna delle risorse che ci vengono offerte, per ciascuna proposta di collaborazione. Ma la disponibilità è questa, e non va ignorata. Siamo perfettamente in condizione, con un preavviso estremamente breve, di mettere in piedi una redazione numericamente adeguata alla fattura di un quotidiano. Diverse decine di giornalisti professionisti (la maggior parte sotto i trent'anni) hanno risposto al nostro appello. Sul piano giornalistico e professionale, abbiamo quindi risorse più che adeguate. Ad esse vanno aggiunte quelle militanti e semiprofessionali, tradizionalmente coltivate e messe in circolazione dai Siciliani: ora più che mai, contiamo fiduciosamente su di esse. Nel momento in cui ci poniamo come riferimento unitario per la riscossa della società civile siciliana, contiamo anche sul fatto che il senso di responsabilità dei protagonisti e dirigenti della sinistra politica siciliana finisca infine per prevalere; e che ciascuno di essi possa assumersi senza più diffidenze e senza protagonismi le proprie responsabilità operative nell'organizzazione e nel sostegno dell'impresa comune. La ripresa della liberazione civile in Sicilia e altrove, sul piano culturale e ideale, postula la formazione graduale non solo di uno staff tecnico, ma di una nuova classe dirigente (nel senso gramsciano) collettivamente intesa; è finita la fase delle grandi figure individuali. L'impresa del quotidiano è, fra l'altro, un terreno per l'individuazione e il confronto di questa nuova e moderna classe dirigente: che noi continuiamo a credere possibile e matura. Abbiamo segnalato onestamente le difficoltà che incontriamo con parte dell'imprenditoria (onesta) siciliana. Altrettanto onestamente, dobbiamo dire che queste difficoltà non s'estendono dappertutto. A Siracusa e a Messina, gli imprenditori democratici non si sono affatto tirati indietro, e ci pressano anzi perché si vada avanti; un nuovo possibile socio s'è fatto avanti da Agrigento, nei giorni dopo le elezioni; da diverse regioni (Toscana, Sardegna, Calabria, Lucania, Romagna) giungono - dopo le elezioni disponibilità per iniziative locali e per sinergie. Non siamo scoraggiati noi, e questo è normale; ma, e questa è una sorpresa gradita, non sono scoraggiati gli altri. Abbiamo perduto una battaglia, insomma, ma non assolutamente la guerra; nel giorno della disgrazia, la sconfitta è servita forse per far recuperare a tanti la consapevolezza e il coraggio. Il giorno di Berlusconi sarà ricordato, probabilmente, fra qualche anno come il giorno della sconfitta e rinascita della sinistra italiana. Una sinistra più giovane, meno parolaia, senza cavalli bianchi, più matura; una sinistra faticosamente avanzante, senza scorciatoie e settarismi, senza facilonerie spettacolari: è di essa che I Siciliani fanno parte, è ad essa che il Progetto quotidiano intende dare voce e sostanza. E ora, in queste settimane, dobbiamo prendere alcune decisioni. Per cominciare, il progetto tecnico: possiamo mantenerlo come si trova, o dobbiamo adeguarlo alla nuova (più "politica") situazione? Dobbiamo stabilirlo insieme. Consideriamo essenziali, nella ristrutturazione del progetto, alcune caratteristiche che ne costituiscono il nucleo essenziale: la redazione ripartita su più città, le "ribattute" locali almeno su Messina, Siracusa e Catania, la modularità, le sinergie con altre testate analoghe in tutta Italia, la ripartizione dei compiti fra redazioni e possibilmente fra testate; la modernità dell'impostazione e del linguaggio, la traduzione in termini grafici di una parte notevole dei contenuti; la capacità di articolarsi capillarmente sul territorio e di rappresentare la cultura "alta", contemporaneamente, del sud come Sud del mondo; la capacità di aggregare varie e diverse culture, ma di perseguire nel contempo un progetto culturale e civile non accademico né occasionale, ma ambizioso e consapevole e coerente. Abbiamo fiducia, nonostante tutto, nella voglia di libertà, per quanto ritardata e confusa, dei nostri concittadini; e su di essa puntiamo le nostre intelligenze e le nostre vite. Cerchiamo di calcolare razionalmente e freddamente ogni cosa. Una soltanto non è oggetto di calcolo perché per definizione assolutamente certa e scontata: il fatto che I Siciliani, qualunque cosa succeda e in ogni caso, non abbandoneranno la lotta e andranno avanti. UN VOLANTINO aprile 1994 LA RESISTENZA CHE COS'E' "Non rompere le scatole al tuo padrone. Non parlare di mafia. Non chiedere i soldi che ti spettano. Non dire mai "i miei diritti". Perché tu di diritti non ne hai. Tu non conti niente. Tu non sei nessuno". Te lo dicono ogni giorno e se non bastano le parole te lo dicono a legnate. A Catania Costanzo ha fatto sempre quello che ha voluto. Come i democristiani e i socialisti sotto Craxi. Come i gerarchi fascisti sotto il fascismo. Quando cambia il vento, cambiano il colore della camicia (viva il duce, viva Andreotti, viva Craxi, viva Berlusconi) ma restano sempre al potere. Resistenza vuol dire che per almeno una volta nella storia non è andata così. Che almeno per una volta nella storia tu ti sei incazzato e hai detto "Adesso basta. Voglio contare anch'io". Questo è successo un venticinque aprile di molti anni fa. I padroni e i gerarchi ne hanno ancora paura. Perché se è successo una volta può succedere ancora. Per questo dicono che sono cose vecchie e superate, e non bisogna pensarci più. Ma noi invece ce lo ricordiamo. Molte persone come noi e come te hanno combattuto perché gli operai non venissero bastonati per la strada, perché i mafiosi come Costanzo fossero inseguiti e non protetti dalla polizia, perché i ladri andassero in galera e non tornassero invece a governare sotto un'altra bandiera. E' grazie a loro che siamo un popolo, nonostante tutto, e non un gregge. Un popolo può sbagliare una volta, può lasciarsi imbrogliare. Ma alla lunga, prima o poi, ragiona. Viva la Resistenza contro i fascisti e i mafiosi Viva il Venticinque Aprile I Siciliani FALCONE I Siciliani, maggio 1994 Prima di Falcone c'era Chinnici, e prima di Chinnici Terranova e Costa. Dopo Falcone venne Borsellino. Tutti questi uomini, individualmente considerati, non erano eguali fra loro. Commisero a volte degli errori, ciascuno i suoi; non furono infallibili, né - ciascuno a suo modo - privi di debolezze umane. Ma tutti insieme servirono come pochissimi prima di loro la causa dei Siciliani. Succedettero l'uno all'altro senza esitazione alcuna, inghiottendo le lacrime e il timore, prendendo senz'indugio il posto del compagno morto. Ebbero il coraggio eroico delle battaglie e quello, ancor più grande, del comune dovere d'ogni giorno. Insegnarono coi fatti la dignità della vita. Di una collettività dispersa e senza legge, rassegnata oramai a vivere alla men peggio sotto un potere, essi fecero un popolo, orgoglioso - per alcuni anni - di chiamarsi siciliano. Non potrebbe essere più amara la loro celebrazione di quest'anno, né più determinata e risoluta. Le vittorie strappate anno dopo anno, a prezzo d'infiniti sacrifici e di pene, sulla mafia, vengono ora rimesse in discussione, in modo a volte subdolo a volte insolente, dal governo fascista. I Cordova, i Caselli, i successori dei Costa e dei Chinnici, vengono apertamente minacciati dagli sgherri del nuovo potere. Il popolo, dal canto suo, che dovrebbe orgogliosamente difendere insieme i propri giudici e la propria dignità, in questo momento dorme. E questo è ancora niente. Gli stessi dirigenti popolari, coloro che dovrebbero dar per primi l'esempio della più fraterna unità, coloro che dovrebbero saper passare - di fronte alla drammaticità del momento - al di là d'ogni sia pur motivato dissenso, si perdono in questo momento terribile in distinzioni puerili, in diatribe fuor di luogo, in divisioni. Mai abbiamo avuto tanto bisogno di ricordare Falcone e gli altri, e mai ne siamo stati così lontani. Con tutto ciò, noi abbiamo tuttora fiducia - ed anzi, a dirla tutta, abbiamo la certezza - nella vittoria finale, e in tempi non troppo lunghi, della democrazia. Il governo Berlusconi-Fini, con tutte le sue apparenti fortune, ha vinto in realtà molto più per altrui debolezze che per la propria forza; le divisioni all'interno della destra sono molto più profonde di quelle fra le forze civili. Lo spostamento a destra dell'elettorato, specialmente in Sicilia, è lungi dall'essere definitivo; dieci anni di lotta di massa contro la mafia non sono arrivati a produrre (ancora) una maturazione politica, ma hanno lasciato segni profondi su altri piani. Le divisioni a sinistra o verranno superate dal buon senso, o daranno luogo semplicemente alla formazione di un'altra, più giovane e più matura, classe dirigente della società civile. La lotta contro il potere mafioso è stata in realtà in questi anni molto più una lotta di coraggiosi e individualisti cavalieri che una battaglia di fanteria. Questa fase è finita, e ora se ne apre un'altra, quella decisiva. Noi abbiamo fiducia nella giovane generazione cresciuta - grazie ai Falcone, ai Chinnici, ai Tano Grasso, agli Orlando - in questi anni. Finora essa ha seguito, con poco spirito critico e molto entusiasmo, dei leader carismatici e delle bandiere. Nei prossimi anni, essa sarà capace di organizzarsi da sé, di crescere responsabilmente sui problemi concreti, di costituire il nucleo di una nuova militanza di massa - collettiva stavolta e non più carismatica e individuale - della sinistra. Questa è sempre stata la strada dei Siciliani, da molti anni in qua. Continueremo a impegnarci su di essa, con risolutezza e fiducia, ora più che mai. IL PUNTO SUL QUOTIDIANO I Siciliani, maggio 1994 Non riusciremo a fare il quotidiano all'inizio dell'autunno, come avevamo sperato. La situazione è tale, soprattutto in relazione al mancato impegno (correlato alla vittoria della destra) di imprenditori siciliani, che sarebbe avventuristico cercare di partire senza avere alle spalle risorse più che adeguate. Non intendiamo affatto rinunciare a fare il quotidiano, in tempi più larghi. Crediamo infatti che le situazioni oggettive del mercato, il livello del progetto e del grado d'organizzazione fin qui raggiunto, e soprattutto la risposta di massa ricevuta,non ci consentano di rinunciare a cuor leggero a un progetto ambizioso ma perfettamente realistico, ora più che mai. E' stata, in particolare, sorprendente la qualità delle risposte e dei contatti a livello imprenditoriale: dove è mancata la Sicilia, ma non il restante del Paese. Continuiamo perciò il lavoro di costruzione e organizzazione in vista delle strutture del quotidiano. Manteniamo in vigore, e intendiamo anzi rafforzare, gli organismi formati (l'Associazione I Siciliani in primo luogo) nel quadro dell'operazione quotidiano: il loro orizzonte non perderà di vista, nei prossimi mesi, l'obiettivo del quotidiano che a questo punto comprende una serie di obiettivi intermedi complementari, tutti - a partire dalla ristrutturazione e rafforzamento di questo mensile - strettamente legati ad esso. Parallelamente al Progetto Quotidiano, ma non slegato da esso, abbiamo cominciato a lavorare (vedi in basso) a una struttura che entro l'estate qualifichi e colleghi una rete di testate periodiche regionali. Parallelamente alla struttura giornalistica professionale, dobbiamo a questo punto razionalizzare e rafforzare i nostri strumenti organizzativi come soggetto della società civile. Bisogna organizzare e dividere i compiti, sia in sede che nei collegamenti periferici, in modo tale da garantire interventi su specifici settori del territorio e della società. La "linea politica" dei Siciliani, adesso come sempre, consiste essenzialmente nell'unità e nella lotta contro i poteri mafiosi. Il regime che s'intravvede dietro i comportamenti e le culture delle forze attualmente al governo desta, da questo punto di vista, le più gravi preoccupazioni. Riteniamo pertanto consono ai nostri compiti, in questa situazione, favorire e promuovere iniziative civili di dura e unitaria opposizione. Oggi come ieri, non aderiamo ad alcuna ideologia o partito in particolare. Riteniamo invece indispensabile, come condizione vitale per la stessa possibilità di una libera informazione, che il Sud nel suo complesso si ribelli a un regime che lo condanna all'emarginazione economica, alla mafia e alla disoccupazione. Gli operai minacciati di gabbie salariali, gl'imprenditori onesti mandati a "coltivare bergamotti", i cavalieri collusi premiati, gli uomini di Andreotti e Andò che diventano berlusconiani... Ma di tutto questo ci sarà modo di parlare - e fare - più avanti. Per ora, siamo solo all'inizio: uno dei molti inizi dei Siciliani. GRACI I Siciliani, giugno 1994 Per dieci anni i padroni di Catania sono riusciti a bloccare le indagini sull'assassinio, da essi ordinato, del loro oppositore Giuseppe Fava. Hanno usato, per questo scopo, magistrati come Giulio Cesare Di Natale e direttori di giornale come Mario Ciancio; gli uni per insabbiare le inchieste giudiziarie, gli altri per nascondere ed eventualmente falsificare ogni possibile frammento di verità. Hanno usato costoro esattamente come avevano usato, per commettere materialmente il delitto, il loro sgherro Benedetto Santapaola. Ma dieci anni son tanti. In dieci anni la verità trabocca. E vien fuori adesso, grazie al senso del dovere e al coraggio di ben altri magistrati. Furono i padroni di Catania - i cavalieri dell'apocalisse mafiosa pubblicamente denunciati da Giuseppe Fava e da Carlo Alberto dalla Chiesa - a voler sbarazzarsi di lui. E' il nome di uno di essi, il Cavaliere del Lavoro Gaetano Graci, quello che un collaboratore di giustizia sta facendo in questo momento davanti ai giudici. Noi consegnamo questo nome alla pubblica opinione, affinché essa vigili contro ogni tentativo di minacciare i magistrati, di portar via le carte, di chiudere la bocca al pentito. L'hanno fatto altre volte. E anche in questa occasione cercheranno di farlo. Ringraziamo i cittadini antimafiosi di Catania, i militanti siciliani, gli amici di tutto il Paese che hanno contribuito, in questi più che dieci anni, a sostenere la battaglia per la verità. Proviamo dispezzo e pena per la massa servile di coloro che hanno invece sopportato per dieci anni, col loro silenzio vile, il regno della menzogna e della non-dignità. Denunciamo, qui e davanti ai magistrati, le responsabilità del padrone de "La Sicilia", Mario Ciancio. Invitiamo infine i giornalisti de "La Sicilia" a entrare immediatamente in isciopero e a occupare il loro giornale finché costui, che ha prostituito il loro lavoro e il loro onore di siciliani, non se ne sarà andato via. PROMEMORIA giugno 1994 Per Alessandra e Marco - Chiamate (presto, perchè forse poi parte) Maurizio, bisogna spiegargli la situazione attuale e coinvolgerlo col suo compare nel mensile. Fatemi anche chiamare da lui al giornale. Attenzione: chi lo chiama lo adotta. - Fate un fax alle sede del Comitato referendum per aderire formalmente come Siciliani alla manifestazione del 25. - Fate un fax ai compagni che organizzano il controvertice a Napoli per aderire formalmente come Siciliani. - Fatevi sentire ogni giorno. Per Carlo - Attenzione: devi organizzare tu i punti di riferimento Alba in Sicilia (pochi ma buoni). - State sopra ai milanesi! - Avete contatato i ragazzi del Righi? Può pensarci Cecilia - Fate adesione formale alla manifestazione del 25 per la libertà di stampa. - Distribuite alla manifestazione un bel po' dei giornali arretrati (Alba e Siciliani) che avete in sede (dove ingombrano e non servono a niente) -Vorrei notizie da Napoli: a) sul giornale locale in costruzione, b) sulla situazione del controvertice. - Fatevi sentire ogni sera. Per Francesco - Quando vai con Roberto e Marco al Corto (portando il book e facendolo vedere)? - Parlatene anche con Paolo, che ha un'esperienza formidabile nel settore. - Grazie (ma cu iè 'stu Lisischi?) - Quando mi dai la data per il casale? Per Roberto - Quando vai con Francesco e Marco al Corto (portando il book e facendolo vedere)? - Parlatene anche con Paolo, che ha un'esperienza formidabile nel settore. - Mettiti in contatto (urgente) con Dino Frisullo. Dagli il book e il floppy. Coinvolgilo nella faccenda del giornale romano. Digli che qui c'è un gruppo di immigrati che vuol fare un giornaletto. Proposta operativa: giornale immigrati fatto fra Catania e Roma, "Senza Confine", 8 pagine formato manifeto utilizzando book e stampando coi prezzi di Firenze (vedi Marco). - In qualche modo (ti possono aiutare Marco o Paolo) Mettimi in contatto entro martedì in contato con l'editore di Stampa Alternativa (quello che fa i millelire). L'IMBROGLIO I Siciliani, luglio 1994 Finora ti hanno imbrogliato, ma il vero imbroglio comincia adesso. Finora si sono limitati a raccontarti balle fra una propaganda e l'altra, cercando di raccontartene il più possibile senza che tu te ne accorgessi. Adesso, fra balle e propaganda non c'è più distinzione, e se tu te ne accorgi non gliene frega niente perché tanto tutte le televisioni e i giornali - nella loro intenzione sono in mano loro. Tre televisioni (Canale 5, Italia 1 e Rete 4) sono di Berlusconi perché è Berlusconi. Tre televisioni (Rai 1, Rai 2 e Rai 3) sono di Berlusconi perchè è capo del governo. E tutti gli altri, zitti. Finora ti hanno imbrogliato abbastanza bene. A Catania, ad esempio, tu ti eri stufato dei loro politici di prima, Andò Craxi Drago e compagnia. Allora hanno mandato avanti i loro politici "nuovi", un morbido intellettuale un po' gay come Benito Paolone e un rozzo capomanipolo fascista come Franco Zeffirelli. E sono riusciti a farti fidare di loro, gente "nuova". (Cambiare tutto per non cambiare niente: come prima). Adesso, quelli come Zeffirelli verranno a fare la "cultura", e quelli come Paolone la Rai-Tv. Bellissimo. E noi? Noi continueremo a fare il nostro mestiere, i giornalisti. Ma con molta più rabbia, e molto più in grande. In questo momento stiamo lavorando ad almeno una dozzina di giornali piccoli e grandi in tutta Italia, tutti liberi e tosti come questo. Stiamo continuando a lavorare (alla faccia degl'industriali siciliani, diventati milanesi dopo le elezioni) per il quotidiano libero che vi avevamo promesso, anche se ora è più difficile di prima. Stiamo facendo delle cose. E voi? Paolone, Berlusca, Sgarbi e Zeffirelli. E tutti al mare. Volete sapere che cosa farà fra un anno Berlusconi? Prenderà esempio dai catanesi. A Catania c'è La Sicilia di Ciancio che ha da insegnare qualcosa persino a lui. Ultimamente ha pubblicato una notizia falsa sapendo che era falsa - e dunque imbrogliando - e questo ostacolando le indagini che potrebbero far scoprire chi ha ordinato di uccidere, dieci anni fa, il nostro direttore. Non lo diciamo noi, i giudici l'hanno detto. I giudici che stanno indagando su un industriale catanese, il Cavaliere del Lavoro Gaetano Graci. Che, in questo momento, non sappiamo dove sia. Ecco che farà Berlusconi fra un anno. Mentirà apertamente come Ciancio. Tre milioni di posti di lavoro! Due ponti sullo Stretto! Il Mondiale all'Italia! Violante è il capo di Cosa Nostra! Andreotti è innocente! E voi italiani perbene, sull'esempio dei catanesi, tutti zitti e buoni a sentire. RINCORRENDO BORSELLINO I Siciliani, luglio 1994 In Europa hanno appena vietato l'ingresso alla gente del Sud (tunisini, neri ecc: noi siciliani siamo stati promossi a bianchi qualche anno fa). In Italia il governo ha appena deciso l'abolizione della libertà di stampa, mandando un ministro fascista a censurare la Rai-Tv. In Sicilia si parla della prossima, chiamiamola così,"evasione" di Nitto Santapaola, il principale esponente militare del regime politico-mafioso che qui (cambiato nome) comanda come prima. E son passati due anni dalla morte di Borsellino. Faranno commemorazioni governative, probabilmente, e uno dei principali commemoratori sarà l'Eccellenza fascista Guido Lo Porto. "Noi di destra - dirà - Noi e l'uomo di destra Borsellino...". I fascisti, in Sicilia, si sono distinti negli ultimi quindici anni per la saggia prudenza con cui hanno evitato di accorgersi dell'esistenza di un potere mafioso. Hanno difeso i boss in tribunale (come l'avvocato missino Enzo Trantino), hanno selvaggiamente attac cato gli antimafiosi (come il capomanipolo catanese Benito Paolone), hanno avuto a che fare con terroristi alla Concutelli (come la summenzionata Eccellenza Guido Lo Porto). Mai hanno rischiato la vita come noi "giacobini" - per combattere il potere mafioso. Mai hanno avuto un palpito di pietà e di coraggio per questa loro povera terra, vigliaccamente abbandonata all'occupazione militare mafiosa. Ma ora parlano loro. La verità è che la lotta alla mafia, per molti anni, l'hanno fatta quasi soltanto giudici, comunisti, poliziotti e preti. L'hanno fatta i liceali, gli operai dei Cantieri navali, i negozianti dei Nebrodi, le ragazze di paese come Rita Atria (chi si ricorda più di lei, povera creatura morta sola?), tutti uomini e donne senza potere. Eppure, senza un briciolo di potere in mano, questi esseri umani avevano quasi vinto la loro guerra. Se la sinistra importante, quella dei bei discorsi e dei telefonini, si fosse accorta di loro... E intanto si va avanti. In Sardegna e in Sicilia, alle ultime elezioni locali, è stato battuto Berlusconi. Non è una vittoria storica ma una piccolissima battaglia locale. Però è una battaglia vinta: vorrà pure dire qualcosa. Come si chiamava il villaggio in cui i tedeschi, cinquant'anni fa, vennero respinti per la prima volta? "Compagni, la Russia è grande - disse un soldato russo, di cui non si ricorda più il nome - Ma noi non possiamo più ritirarci, perché dietro di noi c'è Mosca". Neanche noi possiamo più perdere tempo. Le forze su cui tutti quanti contavamo (la Rete, Riforndazione, i Verdi, il Pds) sono impegnate in drammatici confronti interni, per decidere che leader e che correnti devono gestire l'uno, il due, l'otto per cento conquistato, o per stabilire se è più telegenico un dirigente coi baffi o uno senza. A tutti questi amici e compagni noi auguriamo, con affettuosa solidarietà e senz'ironia, le migliori fortune. Ma noi seguiremo un'altra strada. Il problema non è di fondare, o rifondare, l'ennesimo partito o partitino. Il problema è di dare finalmente piena fiducia e responsabilità politica e piena libertà d'azione a quella che è stata la forza principale della sinistra di questi anni, la mobilitazione di base. Palermo, il giorno dei funerali di Borsellino, era una città in istato prerivoluzionario. Catania, alle comunali dell'altr'anno, ha espresso una larghisssima volontà - sociale - di sinistra. In entrambi i casi, non per merito della Rete o del Pds o del Prc o dei Verdi, ma per qualcosa di molto più profondo. Qualcosa che i partiti professionali della sinistra hanno saputo solo occasionalmente sfiorare, e che noi stessi abbiamo difficoltà ad individuare con precisione: ma che indubbiamente esiste, e non si distrugge in un giorno o in pochi mesi. Qualcosa che bisogna rendere coscientemente "politico" ma contemporaneamente, senza presunzioni di partito, percepire e rispettare. L'iniziativa dei Siciliani nei prossimi mesi sarà volta a individuare e aggregare, città per città e paese per paese, questo "qualcosa". Non per fare un partito, e nemmeno (è bene precisarlo subito) delle liste elettorali. Intendiamo invece sviluppare dappertutto dei luoghi organizzativi unitari, amici di tutti i partiti della sinistra ma distinti da essi, dei luoghi in cui si possano sentire a casa propria il militante della Rete, del Pds, di Rifondazione o dei Verdi ma anche e soprattutto quello che non ha un partito preciso e non ci tiene ad averlo ma vuole operare subito e concretamente per opporsi alle piccole e grandi angherie del regime. Non è una novità, d'altra parte. Chi ci segue da più anni conosce bene l'importanza, nella nostra storia, delle nostre organizzazioni di base come Siciliani Giovani o l'Associazione I Siciliani. Hanno dato un contributo non indifferente ai movimenti antimafiosi di questi anni, e sono stati un esempio di organizzazione democratica per l'intera società civile. Chiediamo quindi ai lettori di aiutarci a organizzare dappertutto i circoli e le sedi dei Siciliani. Nel corso dell'estate c'incontreremo con tutti gli amici e i compagni che lo richiederanno. A ottobre tireremo le somme, e cominceremo a riconoscere formalmente, e a rendere concretamente operative, le strutture locali dei Siciliani. CATANIA Avvenimenti, luglio 1994 Tre politici, quattro cavalieri e una cosca mafiosa. I cavalieri sono Gaetano Graci, Mario Rendo, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro. I politici sono Nino Drago, Salvo Andò e Rino Nicolosi. La cosche mafiose è la Santapaola-Ferrera. Tutt'attorno c'è circa mezzo milione di catanesi, arbitrariamente ripartito fra: ragazzi di scuola, giovani rapinatori, sei preti di quartiere, scippatori, lavoratori delle poche imprese cittadine, muratori, catanesi perbene e quindi votanti Dc, l'Ordine degli avvocati catanesi, alcuni magistrati onesti, il quotidiano locale "La Sicilia", bottegai padroni di pastificio e baristi, carabinieri e poliziotti quanti ne volete, pendolari, posteggiatori abusivi, bancarellari, politici di terza, quarta, quinta e sesta categoria e poi Fabiolino e Rosalba dei Siciliani. Tutti questi esseri umani, ogni mattina che Dio manda a Catania, si alzano pieni di buona volontà e cominciano alacremente il loro lavoro. I quattro cavalieri si dividono gli appalti, i tre politici preparano gli appalti successivi, i politici minori si aggirano dignitosamente attorno ai sette in attesa di un boccone lanciato al volo, i mafiosi di Santapaola cominciano il loro quotidiano giro di ronda, bottegai e baristi fanno i conti dell'incasso detratte le tasse allo Stato (che non si pagano) e a Santapaola (che si pagano, Fabiolino e Rosalba sono in giro con un volantino contro la mafia di Siciliani/Giovani, gli avvocati preparano il memoriale in difesa del cavaliere o del boss del giorno (fatica inutile, pro-forma: in realtà, basta parlare col giudice per mettere a posto tutto), i giornalisti de "La Sicilia" rileggono affannosamente quel che hanno scritto casomai fosse loro uscito dalla macchina da scrivere un pezzetto anche minimo di verità. Tutti fanno Catania con grande impegno. D'estate c'è caldo a quaranta gradi, d'autunno, appena cominciano le piogge, uno o due catanesi muoiono annegati nel torrente che si riversa giù per le strade in discesa e senza scoli. Alla fine della giornata si contano i morti, un ragazzino scippatore giustiziato dai Santapaola o un tabaccaio ammazzato per centomila lire da un ragazzino. Quindici anni fa di questi tempi ce n'erano, se ricordiamo bene, ventisei in un mese. Son passati quindici anni così, e non sappiamo se questo - con Graci e Drago in galera e Nicolosi e Andò pure - è solo il sedicesimo, con protagonisti parzialmente diversi, oppure il primo anno di qualcosa di nuovo. Mah. I dc catanesi, che ora votano Forza Italia, non han perso tempo a trovarsi i loro nuovi Andò e i nuovi Drago: nuovi ma promettenti, uno di loro è già indagato per intrallazzi mafiosi; e restano ancora in giro un bel po' di cavalieri. Bisogna vedere cosa ne pensano i ragazzini, sono loro che decidono - qui a Catania e altrove - in ultima istanza. Graci e Drago, e Andò e Nicolosi, ce li hanno mandati loro in galera, secondo me, loro con la collaborazione di un paio di giudici e poliziotti volenterosi. NON SOLO UN GIORNALE I Siciliani, luglio 1994 I Siciliani non sono mai stati solo un giornale. I Siciliani sono stati anche, per più di dieci anni, un luogo d'impegno civile, un punto di aggregazione per i giovani e il movimento antimafioso, il simbolo di molte battaglie "contro" e di molte battaglie "per". I Siciliani, oggi, continuano ad essere tutto questo. I Siciliani lavorano per unire storie, battaglie ed esperienze (ovunque maturate) intorno a un progetto e a dei valori comuni. Oggi più che mai lo scontro fra il popolo dell'antimafia e i poteri mafiosi non può rimanere questione per addetti ai lavori. Oggi più che mai, questo è uno scontro che si tenta di esorcizzare, archiviare, dimenticare, perché da esso dipende tutto. Oggi più che mai la questione morale dev'essere congiunta con la questione sociale e con la questione della democrazia. Oggi più che mai bisogna schierarsi, scegliere, prender parte: senza mediare, senza delegare niente a nessuno. La vittoria delle destre in Italia ci dice soprattutto una cosa: abbiamo perso perché non abbiamo avuto il coraggio di essere noi stessi fino in fondo. Perché abbiamo voluto a tutti i costi appiattirci sull'avversario, copiarne parole e strategie. Per non aver saputo proporre nulla di radicalmente alternativo a Berlusconi, nulla di visibilmente differente da Ciampi. Mentre i padroni del vapore usavano come ricatto la promessa di posti di lavoro, noi non abbiamo saputo contrapporre alle loro promesse truffaldine un'idea di sviluppo che costruisse insieme occupazione e legalità, occupazione e solidarietà, occupazione e felicità collettiva. Non possiamo più contentarci delle forme attuali della politica, chiuderci ognuno nel proprio recinto, combattere battaglie di retroguardia: significherebbe regalar tutto a Berlusconi. Bisogna invece lavorare a costruire un'alternativa credibile per il futuro. Ma costruirla dal basso, partendo dai bisogni concreti degli esseri umani, dalle mille realtà che già esistono, realizzando insieme, in tutta Italia, un percorso comune. Gruppi di base, centri sociali, piccole testate libere, centri di volontariato, associazioni: ce ne sono tanti, in Sicilia e fuori, e ne nascono ogni giorno di più. Non è un caso che, in questi mesi, molte donne e molti uomini abbiano sentito il bisogno d'unirsi sulle scelte concrete, sulle cose da fare. Non è più tempo, per ciascuno di questi soggetti, di camminare da solo per la sua strada. Non è più tempo di delegare alla politica ufficiale le battaglie che vogliamo combattere, le risposte di cui abbiamo bisogno. La politica dei Siciliani è una politica senza maiuscole. E' una politica fatta di esperienze umane e di valori, costruita fuori dai Palazzi, una politica all'insegna della radicalità. Radicalità come rifiuto delle mediazioni, delle identità deboli, della paura di avere ragione. Radicalità come coerenza, come capacità di andare oltre gli steccati, come capacità di conquistare alle proprie battaglie anche coloro che apparentemente sembrano più lontani, senza rinunciare a nulla di queste battaglie. Radicalità come ideazione e capacità di alternativa, di organizzazione dal basso, di cultura unitaria, di lotta. FRESCO I Siciliani, agosto 1994 Per Andò Nicolosi e Graci un'estate al fresco, meglio tardi che mai. Il cavalier Berlusconi, che voleva far piazza pulita del giudice Di Pietro e dei giudici e giornalisti liberi in generale, è rimasto fresco. E un po' di fresco, se permettete, a questo punto ce lo prendiamo pure noi, con le foto dei galeotti appese al muro per rinfrescare ulteriormente l'ambiente. Insomma c'è caldo sì, ma si sta bene. Molto meglio d'un paio di mesi fa, con Craxi che si preparava a tornare trionfalmente in Italia e il cavalier-presidente (per non parlare dei cavalier-mafiosi più nostrani) con l'Italia in tasca, grazie al sonno profondo degl'italiani. Che adesso dormono ancora, ma russano un po' meno forte di prima. Andò Nicolosi e Drago erano, insieme a Salvo Lima, i padroni assoluti della Sicilia. Ora sono in galera. I loro capibanda Andreotti e Craxi sono ormai pacificamente per tutti, rispettivamente, un mafioso e un ladrone. La verità, presto o tardi, viene a galla. Chi punta sulla verità, presto o tardi vince. Non nel senso che diventa potente, che si mette - buttati giù i vecchi a comandare lui. Ma nel senso che può andare a testa alta, perché ha fatto del bene a tutti, perché ha insegnato qualcosa. Nonostante la nostra tradizionale superbia, questa volta non parliamo per noi. Parliamo per i ragazzini di Catania, per i compagni di Palermo, per gli antimafiosi di dappertutto, per quelli che hanno lottato, in questi dodici anni, che non ci hanno abbandonato mai. Sono stati loro, quelli senza potere, a mettere alla fine nel sacco Andò e Craxi, il vecchio Drago e Andreotti. Se fossimo Berlusconi - ma grazie a Dio non lo siamo staremmo molto attenti alla gente senza potere, a quelli che non contano, ai ragazzini. Perché alla fine, è storicamente accertato, vincono loro. Beh, questo è tutto per questa volta. Certo, avremmo molte altre cose da dire, e con un ben altro tono, adesso che l'amico degli assassini di Giuseppe Fava è in galera. Quanto tempo è passato, quanta strada ancora qui davanti da fare. E quante sconfitte e resistenze, quante speranze, quanta vita di quanti esseri umani. Ma ne parleremo un'altra volta, di tutto questo. Per ora è estate. Buone vacanze, amici dei Siciliani, buone vacanze e congratulazioni reciproche, e grazie di tutto. IL PROSSIMO I Siciliani, settembre 1994 Finora è stato un governo divertentissimo: Bossi che spara torte in faccia a Berlusconi,B erlusconi che ingiuria Bossi, i ministri che si bastonano allegramente l'un l'altro, la Pivetti, Ferrara... I grandi protagonisti dell'Opera di Berlusconi sarebbero stati, si pensava, Emilio Fede, Liguori, Zeffirelli, i comici professionisti, gli Sgarbi, i Pannella. Invece no. Questi hanno lavorato certo da grandi caratteristi, con interpretazioni senz'altro all'altezza della loro fama; ma la vera sorpresa della stagione sono stati gli altri, gli uomini nuovi (si fa per dire), quelli che fino a pochi mesi fa erano seri politicanti e industriali, giacca cravatta e cellulare, quelli che dovevano managerializzare il paese. Sono stati irresistibili. Gag meravigliose, Gambadilegno che libera la Banda Bassotti mentre tutta Paperopoli è davanti alla tv per la partita, il commissario Bassotti che bofonchia "va bene" e dopo un'ora si batte la mano sulla fronte: "che è successo?", Paperina alle prese con le pulizie generali di tutta la Rai, Paperino che incoccia il lampione mentre corre al raduno dei Figli della Rivoluzione (di Bergamo)... Stanlio e Ollio, Walt Disney, una risata al minuto. Roba semplice, popolare, per niente sofisticata. Che fa un onorevole fascista quando ha bisogno di soldi? Semplice: fa una legge, e si aumenta la paga. Che fa un governante fascista quando i giudici stanno per acchiappare suo fratello? Semplice: fa un un decreto, e manda i giudici a casa. Che fa un governo fascista quando ci sono debiti da pagare, ma non può chiedere soldi ai ricchi perchè se no lo mandano via? Semplice: s'incazza coi pensionati, e annuncia una gran campagna contro i "falsi" invalidi a quattrocentomila lire. Così semplice, da essere persino a suo modo allegra. Torte in faccia, e grimaldelli. Adesso tuttavia comunicano che "la ricreazione è finita": ne ha dato annuncio al popolo, al ritorno dalle vacanze, il panzone capomanipolo (in queste storie, un personaggio immancabile) Ferrara. Si torna a governicchiare all'antica, a muso lungo, senza più torte in faccia e senza far rumore coi grimaldelli? Ci sembra difficile, perché ormai tutte le marionette hanno preso gusto alla parte, e rificcarle nel cesto a beneficio di un Grande Burattinaio unico e solo non è tanto facile. Berlusconi comunque - parliamo di politica - come burattinaio ha deluso, se la cavava molto come Cavaliere catanese. Un berlusconesimo senza Berlusconi, sarà il prossimo obbiettivo che si porranno lor signori. Ai tempi del Sabato Fascista e del Volk (ubbidiente) con la Wagen e del Tizio che ha sempre ragione, per la verità, qualcosa del genere erano già riuscita a tirarla fuori. Adesso, ammodernando l'ammodernabile, ci riproveranno, perché la tentazione è grande e i conti da pagare son tanti, e il Berlusca è apparso un po' troppo pirla, quest'estate, per riuscire a farli pagare lui. IL CAPITALE I Siciliani, settembre 1994 Riassunto delle puntate precedenti: un anno fa I Siciliani hanno lanciato un appello per la fondazione di un quotidiano regionale siciliano, che servisse a rompere finalmente il monopolio dell'informazione democristiana (e ora forzitaliota) in Sicilia e che potesse fare da supporto alla crescita di iniziative analoghe in tutta Italia. Abbiamo messo, da parte nostra, a disposizione la nostra competenza tecnica e professionale e ci siamo impegnati a organizzare una redazione al livello dovuto. Al progetto tecnico del quotidiano, sviluppato nel giro di sei mesi, è stato elaborato dalla redazione dei Siciliani per la parte giornalistica, da Piergiorgio Maoloni per la grafica e da Raffaele Fratangelo per gli aspetti finanziari e aziendali. La qualità del progetto è stato unanimemente riconosciuta (Fratangelo e Maoloni sono fra i primi professionisti italiani nei rispettivi settori, e l'esperienza del nostro gruppo redazionale non è esattamente da gettar via) di altissimo livello; quanto all'organizzazione della redazione, siamo stati rapidamente in grado di schierare una lista di quaranta giornalisti professionisti pronti ad aderire al progetto, in molti casi lasciando i loro vecchi giornali. Si sono messi in contatto con noi, offrendoci condizioni particolarmente favorevoli e generose (e in alcuni casi addirittura di entrare senz'altro in società con noi), importanti aziende del settore come la Apple, la Pellegrini di Venezia, la Sinedita, la Hyphen, la Nolmac di Roma ed altre ancora. La reazione del pubblico, dal canto suo, è stata tale che è poco definirla generosa. Fra dichiarazioni di disponibilità, sottoscrizioni, richieste di abbonamento ed altro, almeno ottocento persone - al nord e al sud: quaranta per cento circa in Sicilia, e il resto nel rimanente del Paese - hanno aderito all'appello. Ma intanto, il quotidiano non s'è fatto. Vogliamo assicurare i lettori, innanzitutto, e quelli in particolare che hanno sottoscritto per noi, nonchè gli imprenditori e le aziende (tutti non siciliani) con cui siamo stati in trattativa in questi mesi che il Progetto non è stato affatto abbandonato. Ai sottoscrittori, in particolare, diciamo che non ci siamo affatto dimenticati di loro. Abbiamo continuato a lavorare regolarmente, in tutti questi mesi - per quanto in condizioni difficili - per portare avanti il Progetto, e dunque per adempiere alla volontà che essi, sottoscrivendo, ci hanno espressa. Ciascuno di loro ha il diritto, naturalmente, di recedere dall'impresa in qualsiasi momento, nella maniera più facile e senza rimetterci niente. Ma noi andiamo avanti. Il motivo è che il quotidiano non s'è costruito, fino a questo momento, non per ragioni tecniche o di mercato (sulle une e le altre abbiamo le carte in regola quanto chiunque altro) ma per ragioni politiche, artificiali. Per fare il quotidiano, al di là della sottoscrizione dei lettori, che è un incoraggiamento enorme ma non può superare i suoi livelli, ci vogliono cinque miliardi. Cinque miliardi si possono trovare (non, s'intende, in regalo: ma come investimento di mercato) fra gl'imprenditori, e in particolare fra gl'imprenditori siciliani. Dei quali, diversi erano pronti a investire tranquillamente nell'impresa, convinti di fare un buon affare e di trovarsi in presenza di buoni conti. Poi è arrivato Berlusconi. Allora sono cominciati i "vedremo", i "ne riparleremo più avanti", gli "intanto andate avanti e poi se ne parla". I capitalisti italiani insomma (o perlomeno i nostri) se ne sono fregati del mercato, degli attivi e passivi, dei preventivi e bilanci, e si sono comportati da accorti politici, attentissimi a non mettersi contro i politici più forti. Noi rivoluzionari dei Siciliani, invece, ci siamo messi a fare i seri capitalisti e siamo rimasti con le pive nel sacco. Bene, adesso ci riproviamo - tanto per cambiare - con inossidabile serietà e compattezza. Qualcuno di voi - quelli che hanno aziende con fatturato superiore al miliardo, che purtroppo non sono molti - riceverà nelle prossime settimane un fax della segreteria dei Siciliani, un pacco di carte, progetti, conti, bilanci costi-ricavi e proiezioni computerizzate, e dopo un po' la visita di uno dell'amministrazione del Progetto, con valigetta nera e voce suadente. In realtà tutto questo è molto buffo (stavamo così bene quando non eravamo capitalisti!), ma siccome purtroppo il Progetto è una cosa possibile, e con tutta la buona volontà non siamo riusciti a trovare perché non dovrebbe regolarmente funzionare e aver successo, siamo costretti a portarlo avanti pazientemente, con la solita tecnica Siciliani (riprova tranquillamente finché non parte) che ha funzionato finora e funzionerà, naturalmente, anche in questo caso; su questo non abbiamo dubbi. Però, che barba. SCIO' PERO' I Siciliani, ottobre 1994 Campania e Lombardia gareggiano nobilmente fra loro per essere le prime a cacciare definitivamente i Gastarbeiter, i lavoratori stranieri. A Villa Literno la feccia del paese è scesa in piazza urlando selvaggiamente il proprio odio verso gli immigrati. A Milano, più ipocritamente, l'amministrazione locale studia sistemi "legali" per ripulire le strade dai "randagi", dai lavavetri, da coloro che non sono bianchi e ariani. Il governo centrale, a sua volta, sta preparando i decreti della sua soluzione finale. Né Lombardia né Campania, in questi anni, hanno brillato per particolare civismo o per senso dello Stato. Hanno tollerato e votato a larga maggioranza, rispettivamente, i ladroni di Craxi e i camorristi di Gava. Hanno lasciato i magistrati onesti presso che soli (con poche nobilissime ma isolate eccezioni) a lottare per loro. A Milano, il sindaco razzista è stato eletto da una larga maggioranza cittadina. A Villa Literno, fra gli obiettivi della canaglia razzista ci sono non solo i lavoratori immigrati ma anche quei preti cattolici che si permettono di aiutarli in nome del Vangelo. Tutto ciò s'è già visto in Europa, in grandi e piccole città tedesche all'inizio degli anni Trenta. Tutto questo per spiegare perché lo sciopero generale, indetto - meglio tardi che mai - dai sindacati per il 14 ottobre, non sarà affatto generale. Stavolta non sarà solo i ricchi contro i poveri, gli operai contro i padroni (anche se un governo sfrontatamente dei ricchi come questo, basato sulle ville in Sardegna e sugli yacht da 29 metri, in Italia non s'era ancora visto mai). Sarà qualcosa di più. Da una parte i servi felici, l'audience, i Consumatori Perbene, gli ariani. Dall'altra le persone civili, i lavoratori coscienti, coloro che hanno padri e madri, gli italiani. Succedono cose amare, in questi giorni, che però s'inquadrano benissimo nella tradizione non-democratica (e cialtronesca) dei ceti medi italiani. La libertà di stampa, per dirne una; non sappiamo se questo giornale uscirà ancora fra sei mesi, o se verrà prima chiuso d'autorità; l'abolizione di ogni spazio televisivo non di regime, attuato con la complicità di reggicoda come Bossi (che aveva appena ricevuto gli ingenui applausi della Rete e della Festa dell'Unità) e con l'arruolamento di numerosi rinnegati, fra cui ci piace segnalare almeno il caso umano di un Michele Santoro. Ma tutto ciò non ci spaventa: ne abbiamo viste di peggio, e di ancor peggiori ne videro i nostri padri, e sempre - alla fine - ne siamo usciti in qualche modo. Ci spaventa invece ciò che vediamo crescere in alcuni strati profondi della cultura di massa del Paese. Noi italiani, insomma, siamo meno italiani di un anno fa; e infinitamente di meno che ai tempi di Pertini. Berlinguer parlava inascoltato, molti anni fa, di questione morale. Il destino gli ha risparmiato di vedere a che punto di malattia e di cancrena essa potesse portare l'anima di questo Paese. ADDAVEDI' PALERMO I Siciliani, ottobre 1994 Il sindaco ideale, di questi tempi, sarebbe Ernesto Di Fresco. Di Fresco è un democristiano, o meglio era un democristiano, come tanti altri, con i suoi amici mafiosi (una volta lo misero in una camera d'albergo con don Michele Abbenante) e i suoi santi in paradiso. Gira che ti gira, Di Fresco si fece beccare a tal punto da dover essere sospeso dalla Dc. Questo, una decina d'anni fa: ancora non c'era Bossi e gli unici leghisti d'Italia erano quelli di Trieste, che avevano fondato un partito (il "Melone") al fine di combattere gli slavi e difendere, a Trieste, la civiltà occidentale. Il capo era un avvocato massone. Di Fresco, detto fatto, si iscrive al "Melone"; e siccome era anno d'elezioni, per qualche settimana Palermo fu tappezzata di manifesti che invocavano la zona libera del Carso e la battaglia contro il vicino pericolo sloveno. Di Fresco poi, per problemi suoi (per lo più con gl'inquirenti), non poté sviluppare la sua intuizione politica, e rimase tutto sommato un democristiano palermitano invece che un leghista della prima ora. Peccato. A quest'ora avrebbe potuto candidarsi a sindaco di Palermo in nome della Lega, e sarebbe il personaggio più coccolato - dopo Bossi d'Italia. "Panorama" stamperebbe il libretto coi pensieri di Di Fresco, Montanelli inviterebbe in buon toscano a votarlo, Bocca scriverebbe un libro di quattrocento pagine per dimostrare come Di Fresco rappresenti la Sicilia pulita, la Sicilia, sia pure barbara, che si ribella alle tangenti. Quanto agli eventuali problemi coi magistrati, sarebbero presto risolti: basterebbe dichiarare che le pallottole per i magistrati costano trecento lire l'una (Bossi l'ha fatto, e nessuno ci ha messo becco) e smentire subito dopo: e chi vuol capire capisca. V'immaginate che bellezza? Di Fresco ai dibattiti di "Palermo Italia", con la faccia compunta; e la città pavesata di giganteschi cartelli "La Lega ce l'ha duro - Vota Di Fresco - Un leghista del Carso!". Invece dovremo accontentarci di un irresponsabile, di un khomeinista, di un rivoluzionario giacobino, di un Orlando. Non era una cosa straordinaria, sul piano strettamente politico, la giunta comunale della Primavera di Palermo. Un centrosinistra un po' allargato a sinistra (ma neanche Salvo Lima aveva difficoltà, sul piano formale, ad aprire al Pci), degli assessori complessivamente galantuomini e moderati, una corrente democristiana di sinistra (gli allora demitiani) che si trovava ad avere una certa libertà di manovra rispetto al centro. Gente moderatamente progressista, del tutto interna - sul piano formale - al sistema politico ufficiale. Non differente, da questo punto di vista, dalla prima giunta repubblicana di Madrid nel 1936, o dallo stesso governo Allende della prima fase, quella moderata e unitaria, degli anni Settanta. Ciò che ha fatto la differenza, è ciò che stava fuori. Il Coordinamento antimafia, il Cocipa, il Centro Peppino Impastato, i preti di quartiere, le prime liste di base di Città per l'Uomo; la ribellione che cresceva sotterraneamente da tre anni, inconsapevole per lo più di se stessa e tuttavia pronta, alla prima occasione, a darsi un punto di riferimento e a farsi rivoluzione politica e di massa. Il merito di Orlando allora è stato quello di non sottrarsi a questo meccanismo, a questa confusa richiesta di potere dal basso; e di essere stato fedele a questo suo ruolo, di averne tratto le conseguenze più dure e sul piano politico e su quello della scelta di vita individuale. La Primavera di Palermo è stata, in buona parte, rappresentata all'esterno da Orlando; ma non è stata solamente Orlando, e forse non lo è stata nemmeno principalmente. Il cuore della Primavera è stato nelle scuole, nelle organizzazioni di base, nei quartieri. Sconfitta sul piano immediatamente politico, della gestione istituzionale dell'istituzione Comune, l'esperienza palermitana non lo è stata affatto su un piano più ampio. Non perché ha dato vita a un partito, la Rete, che ne rappresenta dignitosamente una parte; né perché ha introdotto mutamenti significativi nella stessa sinistra comunista (ed ora pidiessina)palermitana, definitivamente lontana ormai dall'egemonia catastrofica dei Macaluso. Ma perché ha dato vita soprattutto a un'esperienza e a una cultura concreta di partecipazione di massa a un rinnovamento radicale; una partecipazione non anarchica, non velleitaria, ma civilmente politica e in grado persino di porsi obiettivi sia pure rudimentalmente istituzionali. I centri sociali palermitani, le realtà di quartiere, gli interventi (che sono ormai decine) sul territorio non si sono chiusi, come altrove, nella difesa implicita di un ghetto: ma si sono fatti modello sociale, struttura organizzativa di base, strumento infine - per quanto era possibile in questa fase - di una svolta politica reale. E questa è stata la vera rivoluzione palermitana. Non ce ne sono state altre, in Italia, in questi anni. Man mano che le cose procedono, e i vari partiti nuovi si vanno precisando, si vede infatti come le varie forze di "rinnovamento" tutto siano fuorché rinnovative. I "rinnovatori" di centro, quelli raggruppati via via attorno a Martelli, ad Amato e infine a Segni, propagandano ormai esplicitamente, come unico possibile ideale, la Democrazia cristiana di De Gasperi e Scelba. Quanto ai "rinnovatori" leghisti, è difficile ormai non riconoscere in loro un filo di continuità con altri déja-vu della storia, col fascismo moderato (quello dei Doriot, dei Laval, e più recentemente dei Le Pen e dei Giannini) che periodicamente il ceto medio europeo secerne nei suoi momenti di crisi; come è difficile non riconoscere "la dedizione vigliacca degli intellettuali al fascio" di cui parlava Gobetti: i Prezzolini e i Giorgio Bocca (maestri di ieri) come i D'Annunzio e i Montanelli. Palermo è un'altra cosa. Palermo, non semplicemente Orlando, o la lista Orlando, o la Rete, o il Pds più la Rete; Palermo dei movimenti antimafia, Palermo della Pantera, dei preti di cui si parla solo da morti; dei dieci anni di storia di migliaia di esseri umani che hanno conquistato e difeso per tutti gl'italiani un pezzetto di civile libertà. Questa Palermo deve uscire da Palermo, e riversarsi dappertutto. A questo possono servire, qui e ora, le elezioni a Palermo. Se saranno semplicemente "la vittoria di Orlando", una rivincita da contrattare garbatamente nel Palazzo, segneranno la fine di una fase; la morte della destra mafiosa, e l'inizio del potere di una moderata e civile (per quanto in Italia possa...) borghesia. Se saranno la vittoria di tutti, di tutti gli antimafiosi, di tutte nessuna esclusa le componenti della Palermo di questi anni, allora sarà non solo la conclusione vittoriosa di un'esperienza, ma l'inizio benaugurante di una fase ancor più democratica, ancora più nuova. NORD & SUD I Siciliani, novembre 1994 Calogero Gasparazzo (lo riconoscete? è da qualche parte qua attorno) è un operaio metalmeccanico di Bronte, in provincia di Catania. Da molti anni lavora in una grande fabbrica del Nord. Parecchi anni fa sono venuti degli studenti, davanti alla fabbrica, e gli hanno detto che si poteva fare la rivoluzione. Invece non c'è stata rivoluzione, ma solo un gran casino. Molti di quegli studenti Gasparazzo li sta rivedendo ora alla televisione: chi è direttore di giornale, chi è un'autorità governativa, chi fa il ministro di Berlusconi. Hanno un'aria profondamente compresa della loro importanza, e dicono che la storia che Gasparazzo voleva fare la rivoluzione in realtà era una grandissima cazzata e che invece bisogna aspettare che i padroni e i fascisti risolvano i problemi a modo loro. Ascoltandoli alla televisione, Gasparazzo ha capito benissimo perché in realtà non c'è stata alcuna rivoluzione. Ogni anno Gasparazzo è tornato in Sicilia, in tutti questi anni, e si è accorto che negli ultimi anni qualche cosa è cambiata. "Bacio le mani a voscenza" non s'usa più. Alcuni addirittura (cosa che nei tempi di prima non s'usava) si permettono di parlare in piazza, a voce alta, degli affari di don Totò. Una volta Gasparazzo è stato anche alla manifestazione antimafia, giù in Sicilia, ma poi è dovuto ripartire. Alla manifestazione c'erano anche molti studenti, quel giorno, gridavano abbasso la mafia con la faccia sorridente. Gasparazzo spera tanto che non facciano la fine di quelli là. Bene, Gasparazzo adesso è uno che non si fida più dei discorsi delle persone importanti, o che lo potrebbero diventare domani. Ma quella faccenda di cambiare tutto (allora si chiamava la rivoluzione, e adesso chissà), quella lui non se l'è dimenticata. Ogni tanto gli torna in mente all'improvviso, in una fabbrichetta di Catania o al reparto fonderie di Milano. E allora Gasparazzo pensa che ha una gran voglia di fare qualcosa. MAZZETTA NERA I Siciliani, dicembre 1994 Non sappiamo chi sarà il prossimo presidente del Consiglio. Sappiamo invece chi sarà, prima o poi, il nuovo comandante della Guardia di Finanza; il Generale a Sei Stelle Edoardo Valente. Edoardo Valente, che attualmente è maggiore, in realtà non ha compiuto niente di eccezionale, né in bene né in male: un buon ufficiale come tanti, magari migliore di altri, visto che lo standard medio della Finanza è, in alcune materie, più elevato che altrove. Il padre di Edoardo Valente è però il Presidente della Cassazione Arnaldo Valente, e il Presidente della Cassazione Arnaldo Valente è quello che, trasferendo un pezzo di Mani Pulite fuori Milano, ha salvato dalle attenzioni di Di Pietro: 1) Berlusconi; 2) un bel po' di ufficiali della Finanza indagati. Cosicché il povero Valente figlio si trova ad essere, senza alcuna sua colpa, collegato al salvataggio di tanti illustri colleghi. Peccato per la Finanza, che non si meritava questa pochade. Peccato per Valente padre, magistrato perbene ma privo delle sfumature del buon gusto. E peccato per noi giornalisti che ci troviamo fra i piedi, in mezzo ad una storia scespiriana, un flash di Alberto Sordi. Solidarietà con Di Pietro, a parole? Noi no. Tutti sono solidali con Di Pietro, in questo momento. Fra sei mesi l'avranno dimenticato. Noi, parole per Di Pietro non ne abbiamo. Ma è quattordici anni che facciamo la sua stessa guerra. Chinnici, Ciaccio Montalto, Borsellino, Carlo Palermo, Cassarà, Montana... Quanti Di Pietro son passati, in quattordici anni, per le pagine dei Siciliani! E quante ipocrisie, quante parole, quanta ferocia nel colpire - quando sembrava di poterlo fare senza rischi - questi uomini soli... Soli? Noi abbiamo sempre detto di no. Chinnici e Falcone non erano soli. Avevano i ragazzini di Palermo. E son loro che, infine, gli hanno permesso vincere il grosso della battaglia. Non è solo Di Pietro, neanche lui. Ci son tanti Di Pietro in questo paese, che lui non conosce per nome e noi nemmeno; ma che però materialmente ci sono, che lottano quotidianamente per la propria vita, per una scuola più civile, per la messa al bando dei privilegi, per l'onestà del lavoro, per un ideale insomma che - non avendo tuttavia un nome preciso, o avendone magari troppi - è esattamente lo stesso di Di Pietro e di quelli che son venuti prima di lui. Quando s'incontreranno... Povero Berlusconi. Berlusconi, come tutti i Berlusconi di questo mondo, va e viene. Così i Fini, i Craxi, gli Andreotti. Ce ne vuole per toglierli di mezzo: ma prima o poi ci si riesce. I Di Pietro invece - ma i Borsellino, ma i Carlo Palermo, ma i Chinnici - cambiano semplicemente di nome: milioni di altri esseri umani possiedono infatti, e possono svilupparlo in qualsiasi momento, un pezzetto di loro. PERTINI I Siciliani, dicembre 1994 A parte Berlinguer (e non per caso: ma ne parleremo un'altra volta) nessun uomo politico è tanto dimenticato oggi in Italia quanto è dimenticato Sandro Pertini. E' legalmente possibile, per il ladro, arrestare il carabiniere? Può Pietro Maso, una volta fatti a pezzi i genitori, disperderne impunemente i pezzi nella pubblica via? Debbono le istituzioni italiane rimodellarsi sull'esempio ("presidenziale") zarista o su quello ("patto sociale") di Napoleone Terzo? "Avevano ragione" i fascisti e i nazisti o i partigiani? La prossima volta, cosa faremo degli ebrei? Ammazzare i negri, è proibito o è una ragazzata da scusare? E le donne: davvero hanno gli stessi diritti dell'uomo? Di tutte queste cose si discute alacremente in Italia, e non solo a destra. Si discute. Pertini era uno che, come pubblico funzionario, a un certo punto troncava le discussioni. Quando un capopartito piduista andò - come capopartito - a fargli visita al Quirinale, lui non si mise a discutere: gli chiuse la porta in faccia. Mai con Pertini un piduista, indagato per intrallazzi e tangenti, sarebbe rimasto a capo del governo. Mai con Pertini un Di Pietro avrebbe potuto andarsene solo e disperato, fra le sghignazzate dei ladri e i cincischiamenti della gente perbene. Mai la servitù di Berlusconi avrebbe osato ingiuriare a man salva, coi nostri soldi, i giudici che rischiano la pelle per tutti noi. Pertini non c'è più. Ma restano i suoi cittadini. Essi hanno da battersi, ogni giorno, per guadagnarsi la vita - la sopravvivenza privata, individuale, di ciascuno di noi - e non hanno molto tempo per la politica. A volte anche dormono, alle volte si fanno prendere in giro. Ma, nel loro complesso, e nei tempi lunghi, hanno buona memoria. Ricordano perfettamente cosa vuol dire Pertini, anche se la televisione non gliene parla più. Hanno un'idea precisa di che cosa vuol dire "istituzioni dello Stato", "diritti degli operai", "democrazia". Sanno con precisione che cosa c'è dopo Pertini, se Pertini non torna, se l'anti-Pertini dura troppo: la guerra civile. Dicono queste cose, i cittadini di Pertini, con tutti i mezzi rimasti loro a disposizione: i cortei, gli scioperi, la lotta per sopravvivere ogni giorno nella propria città, nel proprio luogo di lavoro. E' un linguaggio ben semplice, eppure ben difficile da capire per chi sta al governo e anche, molto spesso, per chi sta all'opposizione. Speriamo che sia compreso, prima che arrivi il crack. Linguaggio, comunicare le cose, informarsi, saperne di più: non è per caso che i primi nemici del governo, dopo i giudici onesti, sono i giornalisti onesti. Qui avremmo molte cose da dire. Ma tutto sommato superflue: chi vuol discutere di informazione con noi può benissimo limitarsi a guardare queste trentadue paginette, veder cosa c'è dentro, pensare con che sacrifici e in che condizioni sono state fatte (e non per sei mesi o un anno, ma per quattordici anni di fila) e avrà capito benissimo tutto quel che c'è da capire. Se non capisce così è meglio che vada a discutersela tranquillamente, la libera informazione, nei salotti perbene. E questo è quanto. Finisce un anno di lotta, un altro anno di lotta va a cominciare: coi Siciliani a volte forti e a volte deboli, a volte vincitori ed altre no, ma sempre dalla parte della gente che affolla il mondo - lavoratori, emigranti, giovani in cerca di un avvenire - per vivere la propria vita e non per comprare quella degli altri. Sarà un anno, in ogni caso, da ricordare. (Originariamente, questo foglietto, era destinato a una polemicuzza verso la brava gente che dà solidarietà "antimafia" a gente, come l'editore Mario Ciancio, che dei poteri mafiosi è stato, volente o nolente, una colonna. Ma ne vale la pena? Con quel che costa la carta...) "GARANTISCO IO!" I Siciliani, gennaio 1995 Ricordate gli operai di Catania che avevano occupato la cattedrale per non essere licenziati da Rendo? Alla fine, ci fu l'accordo: niente licenziamenti, dissero al ministero del lavoro, ma contratti (a paga ridotta) "di solidarietà". Non era granché come accordo: ma sempre meglio d'un calcio nel sedere. I politici tornarono con gran sorrisi da Roma: "Ecco l'accordo! - dissero Ringraziate il governo". Adesso gli operai son tornati a Roma a vedere che fine aveva fatto il loro contratto di solidarietà. "Ci spiace tanto - gli han detto - Purtroppo il contratto di solidarietà non è compatibile con le fabbriche in cassa integrazione. C'è scritto qui, vedete? Hanno fatto il decreto". Gli operai si sono guardati in faccia. "Se vi sta bene, qua c'è un piano di smantellamento della fabbrica, prepensionamenti accelerati. Sennò, affari vostri". Bene, uno degli ultimi atti del governo Berlusconi è stato proprio di pensare agli operai di Catania e agli altri operai come loro. Siccome la legge non lo prevedeva esplicitamente, han fatto un decreto apposta - all'ultimo momento - per statuire che gli operai di Catania, e gli altri operai come loro, non hanno diritto a niente. (Intanto, quatto quatto, Rendo s'è fatto riconfermare gli appalti che le banche, per i suoi passati intrallazzi, non gli finanziavano più). "Ma avevano garantito anche i politici! Ma c'era la parola del governo!". Appunto. Questa è una delle due strade per difendere l'occupazione. Fidarsi dei politici, fidarsi della parola del governo. Specialmente di un governo come quello di Berlusconi, con le ville in Sardegna. e gli yacht a Portofino. L'altra strada è di non fidarsi dei politici, non fidarsi di Berlusconi, non fidarsi di questi governi; e se proprio bisogna fidarsi di qualcuno, che sia di gente come il sindacalista Giuseppe Di Vittorio o il giudice Giorgio Chinnici. Uno teneva uniti i lavoratori, l'altro confiscava le ricchezze dei mafiosi. Non si sono conosciuti mai. E se ci provassimo noialtri - disoccupati, lavoratori, giovani in cerca di vita, militanti antimafiosi - a farli incontrare? I soldi di Tangentopoli, dei boss mafiosi, dei politici ladri, dei cavalieri dell'apocalisse possono servire, con le dovute maniere, a creare milioni di posti di lavoro, posti di lavoro veri e non fasulli. E' una vecchia idea dei Siciliani a cui nessuno, chissà perché, ha mai dato conto. Ma nei prossimi mesi, chissà, potrebbe persino tornare attuale. L'ANNO CHE VIENE I Siciliani, gennaio 1995 Siamo un paese di fatto già fuori della legge. Abbiamo due poteri ufficiali, in contrasto fra loro: un presidente del Consiglio senza più maggioranza parlamentare, che però non vuole andarsene e minaccia colpi di mano e un presidente della Repubblica che rivendica il suo diritto ad applicare la Costituzione - che il rivale non riconosce più. L'ultima situazione del genere (ma infinitamente meno grave) risale al 1964, ai tempi del generale De Lorenzo: il golpe effettivo non ci fu ma la minaccia del golpe - la deterrenza come arma effettiva, avrebbe detto von Tirpitz - cambiò radicalmente la politica italiana dei successivi vent'anni. Il "nuovo", rappresentato allora dal centrosinistra venne castrato delle sue spinte innovative e ricondotto all'alveo dei poteri economici costituiti: fra cui, allora come oggi, quelli mafiosi. Cambiare tutto perché non cambi niente: ventilando, diversamente, il ricorso alla forza e alla guerra civile. E siamo già a questo punto. I poteri mafiosi, dal loro canto, fanno il loro mestiere. Con Andreotti, con Craxi, adesso con Berlusconi e domani (il caso Mandalari è illuminante) se non basterà Berlusconi anche con Fini. E' una regola della mafia, non ci sorprende. Non c'è nessun partito, oggi, culturalmente in grado di combattere questa strettissima alleanza fra berlusconesimo, fascismo e Cosa Nostra. Non c'è manovra politica (men che mai le buttiglionate e le bosserie su cui la sinistra sta ora giocando le sue carte) in grado di coagulare, nei tempi stretti che abbiamo davanti, un blocco sociale alternativo. Sono stati i pensionati, fino a questo momento, i soli a infliggere colpi a Berlusconi: i pensionati, i giornalisti democratici, le strutture operaie di base, gli studenti. Hanno imposto passi indietro all'avversario, ogni volta che sono scesi in campo. Stanno attendendo tuttora che qualcuno raccolga la loro forza. Ma stanno attendendo invano. La democrazia è forte nelle case, fortissima in piazza, ma debole e malcerta nei corridoi del potere. Non bastano i partiti a raccogliere questa forza. Ci vuole una cultura forte e complessiva, che fonda organizzazione unitaria e spirito di battaglia. Che nasca - quanto è banale dirlo, e quanto urgente - dalla base. Che si ponga non come aggregazione momentanea di basso profilo, ma come nucleo prefigurante di un nuovo moderno e alternativo patto sociale. Con un gruppo dirigente adeguato, serio "professionalmente" ma strettissimamente legato alla base. Noi dei Siciliani ci abbiamo provato quattro anni fa, quando siamo riusciti a mettere attorno a un tavolo quelli che allora apparivano, nei vari segmenti della sinistra, gli uomini più innovativi e meglio disposti a servire, con umiltà e coraggio, la causa dell'unità popolare. Comunisti come Novelli e Galasso, cattolici come Pintacuda e Orlando, moderati come dalla Chiesa: abbiamo puntato su questi uomini, a suo tempo, non perché ci fosse bisogno di un ennesimo partito nuovo ma per creare il nucleo di qualcosa che andasse molto oltre i partiti; che unisse trasversalmente, sull'esempio della Resistenza che avevano vissuto i nostri padri e della lotta antimafia che avevamo vissuto in prima persona tutti noi, le forze più risolute e responsabili di tutta la democrazia. Mentr'essi discutevano, nelle altre stanze della rivista democratica romana che materialmente li ospitava la redazione continuava affaccendata il suo lavoro. Era una redazione giovane, di giovani giornalisti venuti solidamente su dalla base sul modello dei Siciliani: nucleo ed esempio - pensavamo - di molti e molti altri gruppi di giovani professionisti efficienti, moderni e strettissimamente legati ai valori, alle lotte e alla vita quotidiana della democrazia. Le cose non sono andate esattamente come quattro anni fa - sentendo confusamente la tempesta che da lontano si preannunciava, e oppressi da un senso d'urgenza che non riuscivamo noi stessi a spiegarci - avremmo voluto farle andare. Chi doveva far cielleenne ha sprecato dei tempi (da galantuomini s'intende, e da galantuomini di coraggio: come i vecchi socialisti che non riuscirono, a suo tempo, a contrastar Mussolini) a fare partiti e partitini. Chi doveva por mano alle fondamenta di un meccanismo dell'informazione radicalmente moderno e alternativo, ha preferito far bene (da galantuomini sempre: sulle orme dei Giovanni Amendola e degli Albertini) un giornalismo tradizionale, basato su pochi specialisti e senza debordamenti sostanziali dall'autosufficienza della professione. Sono passati quattro anni e la situazione è incomparabilmente più grave. Ma noi non conosciamo altra strada. Politica e informazione si debbono contemporaneamente rinnovare. Non per servirsi l'un l'altra, ma per esprimere entrambe con conseguenzialità e pienezza (in ambiti assai diversi, e a volte concorrenziali) una realtà di base che è assai più avanzata di quanto i nostri vecchi strumenti riescano a contenere. Da qui - in questi tempi difficili - il Progetto giornalistico dei Siciliani, da qui il rilancio dell'Associazione I Siciliani. Sono strumenti piccoli, per tanto e così difficile lavoro. Ma sono, per quanto piccoli, un modello. A Barcellona in provincia di Messina l'anno comincia con una scena che, nel dolore che evoca e nell'oscenità che vi si avventa, esemplifica bene il clima della nazione. Parliamo della commemorazione di Giuseppe Alfano, ucciso dalla mafia nel gennaio '93. Alfano, corrispondente locale de "La Sicilia", è stato letteralmente tradito da questo giornale: il magistrato indagante sul suo assassinio, per averne almeno le copie delle corrispondenze, ha dovuto por mano ai poteri di legge. Il rappresentante de "La Sicilia" è stato tuttavia invitato alla commemorazione. Alfano fu ucciso mentre lavorava allo smascheramento di un affare mafioso; contemporaneamente a lui si batterono il nostro collaboratore milazzese, che fu poi il primo a denunciarne pubblicamente, sul primo numero dei Siciliani, i colpevoli della morte, e un giovane sindacalista, anche lui di Milazzo, cui incendiarono l'automobile per avvertimento. L'uno e l'altro, due anni dopo, ignorati dalle autorità ufficiali. Italia, Italia... L'ASSOCIAZIONE I SICILIANI gennaio 95 L'Associazione I Siciliani, alla fine del 1994, ha raggiunto la quota di seicentoquattro iscritti. I soci - provenienti da tutte le regioni d'Italia - si sono aggregati, nei mesi scorsi, soprattutto intorno al Progetto Quotidiano. Il Progetto, come sapete, ha avuto una battuta d'arresto in seguito alla defezione di alcuni industriali siciliani, il cui impegno è venuto meno dopo l'ascesa al potere di Berlusconi. Non intendiamo tuttavia abbandonarlo. Intanto, per la risposta - ben diversa da quella degli industriali - che è venuta al Progetto dalla società civile siciliana e nazionale: una risposta (di cui le seicentoquattro adesioni all'Associazione sono un segnale eloquente) talmente entusiasmata e decisa da renderci assolutamente impossibile anche solo l'idea di lasciarla cadere. E poi perché permangono intatte, a nostro vedere, le ragioni tecniche e di mercato che ci avevano spinto, più di un anno fa, ad elaborare il Quotidiano. Il Progetto ha dimostrato, in quest'anno, di essere perfettamente adeguato allo stato dell'arte. Ed ha prospettato una serie di soluzioni tecnico professionali assolutamente nuove che, a distanza di mesi, sono poi state tranquillamente recepite nel mondo dell'editoria. La sinergia con redazioni "leggere" e fogli autonomi locali, l'uso massiccio del personal computer in fase di prestampa, l'integrazione di reti telematiche e Bbs nella produzione del giornale: queste innovazioni sono state teorizzate contemporaneamente per la prima volta nel nostro progetto. Ma il raggiungimento dell'obiettivo del quotidiano - come abbiamo già riferito nei mesi scorsi - rimane legato ad una serie di fattori che non dipendono dalla nostra volontà. E' vero che le condizioni di mercato che ci avevano spinto a elaborare il Progetto sono rimaste immutate (i quotidiani tradizionali della regione, Berlusconi o non Berlusconi, continuano a perdere lettori; il governo che li ha salvati - insieme a tanti altri superstiti dell'era di Craxi e Andreotti - è caduto; le forze democratiche, con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni, tornano ad avere prospettive vincenti, se sapranno afferrarle, davanti a sé). Ma è anche vero che per fare un quotidiano ci vogliono, brutalmente, svariati miliardi. Da parte nostra, possiamo legittimamente porci l'obiettivo di tener duro, di non abbandonare gli obiettivi più ambiziosi, di tenere alto il livello qualitativo e tecnico della nostra impresa. Ma quando si presenterà l'occasione non potremo,in ogni caso, coglierla da soli. Ci sono alcuni obiettivi, però, che possiamo raggiungere fin da subito. Perché I Siciliani non sono mai stati solo un giornale. I Siciliani sono stati anche, per più di dieci anni, un luogo di impegno civile, un punto di aggregazione per i giovani e per il movimento antimafioso, il simbolo di molte battaglie "contro" e di molte battaglie "per". I Siciliani, oggi, continuano ad essere tutto questo. I Siciliani lavorano per unire battaglie, storie ed esperienze ovunque maturate, intorno ad un progetto e a dei valori comuni. L'Associazione I Siciliani, da più di dieci anni, è stato lo strumento per raggiungere tutto questo. E può diventare, da ora, il punto di riferimento - ideale ed organizzativo - per chi intende andare avanti su questa strada. Sono in fase di organizzazione, in diverse città d'Italia (Milano, Napoli, Roma, da dove più numerose sono venute le adesioni), le assemblee locali dell'associazione. Ad esse - prevedibilmente ai primi di marzo - farà seguito l'assemblea nazionale. Saranno momenti per contarsi, per cominciare a fare alcune cose concrete. L'obiettivo a breve termine è di organizzare dappertutto i circoli e le sedi dei Siciliani. E il giornale? Noi, fidando nel nostro lavoro e nella solidarietà di tutti i nostri lettori e amici, andiamo avanti. Il pericolo più grave adesso è di carattere professionale. L'inasprirsi della lotta politica potrebbe infatti indurci, anche senza volerlo, ad affidare la riuscita del Progetto solo alla "linea politica" e non anche al livello qualitativo. Se gl'industriali siciliani sono rimasti indietro a noi spetta il dovere professionale, oggi come ieri, di tenerci allo stato dell'arte, di lavorare perché i progetti che presentiamo (vengano o meno accolti dai nostri interlocutori) siano sempre al massimo livello tecnico/giornalistico e siano realisticamente posizionabili sul mercato. Abbiamo conosciuto vittorie e sconfitte, nella nostra storia; ma non ci siamo mai esaltati né scoraggiati eccessivamente, e soprattutto siamo sempre riusciti a coniugare la lotta per un ideale con la stretta osservanza delle norme tecniche del nostro mestiere. Le due cose non possono essere separate l'una dall'altra, a pena di diventare o dei professionisti senz'anima (condannati prima o poi a venir riassorbiti dal sistema) o dei "rivoluzionari" ciarloni, dalla cui predicazione non viene né danno né bene. Noi, invece, siamo i Siciliani. Ai nostri lettori, ai nostri amici, agli aderenti dell'Associazione chiediamo dunque di sostenerci con fiducia e fermezza come hanno fatto finora. Non ci attendiamo cose impossibili da loro, né loro ni, in Italia - non solo, certamente, il nostro; ma il nostro sicuramente - che non da un anno o due, ma da quattordici anni lotta faticosamente per la democrazia, che non ha paura di prendere le posizioni più radicali quando ce n'è bisogno e che nel contempo si vanta, nella propria storia, di avere raccolto insieme il giovane del centro sociale e il notaio liberale, la professoressa di paese e gli operai in lotta; di aver rispettato ciascun partito e sindacato ed esponente democratico, da cittadini, in quani, in Italia - non solo, certamente, il nostro; ma il nostro sicuramente - che non da un anno o due, ma da quattordici anni lotta faticosamente per la democrazia, che non ha paura di prendere le posizioni più radicali quando ce n'è bisogno e che nel contempo si vanta, nella propria storia, di avere raccolto insieme il giovane del centro sociale e il notaio liberale, la professoressa di paese e gli operai in lotta; di aver rispettato ciascun partito e sindacato ed esponente democratico, da cittadini, in quanto tale, ma senza mai legarsi in modo acritico a nessuno di essi e avendo anzi il coraggio e il senso di responsabilità di criticare pubblicamente e paritariamente ciascuno di essi, senza mezze parole, quando ce n'è stato bisogno. L'esistenza di un simile collettivo, che non è e non sarà mai un partito ma è da molto tempo un soggetto politico che ha molte cose da dire, arricchisce - a nostro vedere - tutta la democrazia italiana; e anche in questo senso va sostenuta, anche sulla base di motivazioni che travalicano l'aspetto puramente giornalistico di questo lavoro. RADICI I Siciliani, gennaio 1995 L'Associazione I Siciliani, alla fine del 1994, ha raggiunto la quota di seicentoquattro iscritti. I soci - provenienti da tutte le regioni d'Italia - si sono aggregati, nei mesi scorsi, soprattutto intorno al Progetto Quotidiano. Il Progetto, come sapete, ha avuto una battuta d'arresto in seguito alla defezione di alcuni industriali siciliani, il cui impegno è venuto meno dopo l'ascesa al potere di Berlusconi. Non intendiamo tuttavia abbandonarlo. Intanto, per la risposta - ben diversa da quella degli industriali - che è venuta al Progetto dalla società civile siciliana e nazionale: una risposta (di cui le seicentoquattro adesioni all'Associazione sono un segnale eloquente) talmente entusiasta e decisa da renderci assolutamente impossibile anche solo l'idea di lasciarla cadere. E poi perché permangono intatte, a nostro vedere, le ragioni tecniche e di mercato che ci avevano spinto, più di un anno fa, ad elaborare il Quotidiano. Il Progetto ha dimostrato, in quest'anno, di essere perfettamente adeguato allo stato dell'arte. Ed ha prospettato una serie di soluzioni tecnico professionali assolutamente nuove che, a distanza di mesi, sono poi state tranquillamente recepite nel mondo dell'editoria. La sinergia con redazioni "leggere" e fogli autonomi locali, l'uso massiccio del personal computer in fase di prestampa, l'integrazione di reti telematiche e Bbs nella produzione del giornale: queste innovazioni sono state teorizzate contemporaneamente per la prima volta nel nostro progetto. Ma il raggiungimento dell'obiettivo del quotidiano - come abbiamo già riferito nei mesi scorsi - rimane legato ad una serie di fattori che non dipendono dalla nostra volontà. E' vero che le condizioni di mercato che ci avevano spinto a elaborare il Progetto sono rimaste immutate (i quotidiani tradizionali della regione, Berlusconi o non Berlusconi, continuano a perdere lettori; il governo che li ha salvati - insieme a tanti altri superstiti dell'era di Craxi e Andreotti - è caduto; le forze democratiche, con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni, tornano ad avere prospettive vincenti, se sapranno afferrarle, davanti a sé). Ma è anche vero che per fare un quotidiano ci vogliono, brutalmente, svariati miliardi. Da parte nostra, possiamo legittimamente porci l'obiettivo di tener duro, di non abbandonare gli obiettivi più ambiziosi, di tenere alto il livello qualitativo e tecnico della nostra impresa. Ma quando si presenterà l'occasione non potremo,in ogni caso, coglierla da soli. Ci sono alcuni obiettivi, però, che possiamo raggiungere fin da subito. Perché I Siciliani non sono mai stati solo un giornale. I Siciliani sono stati anche, per più di dieci anni, un luogo di impegno civile, un punto di aggregazione per i giovani e per il movimento antimafioso, il simbolo di molte battaglie "contro" e di molte battaglie "per". I Siciliani, oggi, continuano ad essere tutto questo. I Siciliani lavorano per unire battaglie, storie ed esperienze ovunque maturate, intorno ad un progetto e a dei valori comuni. L'Associazione I Siciliani, da più di dieci anni, è stato lo strumento per raggiungere tutto questo. E può diventare, da ora, il punto di riferimento - ideale ed organizzativo - per chi intende andare avanti su questa strada. Sono in fase di organizzazione, in diverse città d'Italia (Milano, Napoli, Roma, da dove più numerose sono venute le adesioni), le assemblee locali dell'associazione. Ad esse - prevedibilmente ai primi di marzo - farà seguito l'assemblea nazionale. Saranno momenti per contarsi, per cominciare a fare alcune cose concrete. L'obiettivo a breve termine è di organizzare dappertutto i circoli e le sedi dei Siciliani. E il giornale? Noi, fidando nel nostro lavoro e nella solidarietà di tutti i nostri lettori e amici, andiamo avanti. Il pericolo più grave adesso è di carattere professionale. L'inasprirsi della lotta politica potrebbe infatti indurci, anche senza volerlo, ad affidare la riuscita del Progetto solo alla "linea politica" e non anche al livello qualitativo. Se gl'industriali siciliani sono rimasti indietro a noi spetta il dovere professionale, oggi come ieri, di tenerci allo stato dell'arte, di lavorare perché i progetti che presentiamo (vengano o meno accolti dai nostri interlocutori) siano sempre al massimo livello tecnico/giornalistico e siano realisticamente posizionabili sul mercato. Abbiamo conosciuto vittorie e sconfitte, nella nostra storia; ma non ci siamo mai esaltati né scoraggiati eccessivamente, e soprattutto siamo sempre riusciti a coniugare la lotta per un ideale con la stretta osservanza delle norme tecniche del nostro mestiere. Le due cose non possono essere separate l'una dall'altra, a pena di diventare o dei professionisti senz'anima (condannati prima o poi a venir riassorbiti dal sistema) o dei "rivoluzionari" ciarloni, dalla cui predicazione non viene né danno né bene. Noi, invece, siamo I Siciliani. Ai nostri lettori, ai nostri amici, agli aderenti dell'Associazione chiediamo dunque di sostenerci con fiducia e fermezza come hanno fatto finora. Non ci attendiamo cose impossibili da loro, né loro se le attendono da noi: contiamo reciprocamente gli uni sugli altri, buoni a difendere il fronte quando la situazione della democrazia è minacciata, pronti a far passi avanti tutti insieme appena si presenti un'occasione per estendere il terreno dei cittadini, nel campo dell'informazione e in tutti gli altri. Già nei prossimi mesi avremo delle novità, riguardanti il giornale, che dovrebbero incoraggiare le aspettative di quanti hanno deciso di riconoscersi nel nostro progetto. Esiste un gruppo di esseri umani, in Italia - non solo, certamente, il nostro; ma il nostro sicuramente - che non da un anno o due, ma da quattordici anni lotta faticosamente per la democrazia, che non ha paura di prendere le posizioni più radicali quando ce n'è bisogno e che nel contempo si vanta, nella propria storia, di avere raccolto insieme il giovane del centro sociale e il notaio liberale, la professoressa di paese e gli operai in lotta; di aver rispettato ciascun partito e sindacato ed esponente democratico, da cittadini, in quanto tale, ma senza mai legarsi in modo acritico a nessuno di essi e avendo anzi il coraggio e il senso di responsabilità di criticare pubblicamente e paritariamente ciascuno di essi, senza mezze parole, quando ce n'è stato bisogno. L'esistenza di un simile collettivo, che non è e non sarà mai un partito ma è da molto tempo un soggetto politico che ha molte cose da dire, arricchisce - a nostro vedere - tutta la democrazia italiana; e anche in questo senso va sostenuta, anche sulla base di motivazioni che travalicano l'aspetto puramente giornalistico di questo lavoro. PRONTO, PADRINO? I Siciliani, febbraio 1995 Ci telefona una signora di Palermo che, insieme col marito ingegnere, porta avanti da ventisette anni una piccola impresa poco più che familiare. L'anno scorso ha avuto delle difficoltà: si è rivolta alle banche per un piccolo finanziamento, Le banche le hanno detto di no. Ma la solidità della ditta, ma i ventisett'anni di scadenze rigorosamente coperte, ma l'interesse della produzione, ma i sei-sette poveri posti di lavoro? No. Ed è rimasto no. Quasi contemporaneamente - ed è il motivo per cui la nostra lettrice ci ha telefonato - le banche hanno generosamente salvato le allegre finanze del Gruppo Costanzo. Motivo: l'economia siciliana, la difesa dell'occupazione ecc. I Costanzo, per qualunque banca di un paese civile, sarebbero un cliente da cacciare a schioppettate: crediti inesigibili, somme "in sofferenza", amministrazione aziendale quantomeno non trasparente. Ma tant'è. Una volta, nelle banche c'erano i democristiani, e regalavano soldi ai cavalieri. Adesso, ci sono i berlusconiani e i fasisti, e continuano a regalare soldi - i nostri soldi - a Costanzo e affiliati. La Dc è morta, ma c'è sempre la Dc. Bene, qui avrebbe dovuto esserci un pensoso editoriale sulla situazione politica, sui limiti dell'opposizione e sui problemi del neo-candidato Prodi. Ma, a questo punto, è inutile perdere tempo in chiacchiere. Un governo di sinistra, o di centro sinistra, o semplicemente occidentale, nel caso Costanzo avrebbe dato precise istruzioni alle banche (che, nel caso nostro, sono a capitale prevalentemente pubblico): acquisire senza complimenti le proprietà Costanzo; affidarne la gestione a un manager di provata esperienza; cointeressare gli operai nel risanamento mediante un rapporto strettissimo con Consigli di fabbrica e sindacati. Salvare l'occupazione, insomma, senza regalar denari ai collusi; sanare l'economia dell'azienda cominciando col mettere in condizione di non nuocere i padroni incapaci; risolvere il problema una volta per tutte, in maniera sana e definitiva, e non mettere una pezza per trovarsi in condizione di dover regalare altri miliardi, da qui a un anno, agli incapaci e ai collusi. Prodi, che cosa farebbe in un caso del genere? A chi farebbe pagare il risanamento? E a chi lo affiderebbe? Il problema, col marco a millecinquantasei lire, è tutto qua. ELOGIO DELL'INSUFFICIENZA (AD USO DI NOI MEDESIMI) I Siciliani, febbraio 1995 Questo è un buon numero dei Siciliani. Ancora una volta i nostri redattori, dopo un paziente esame dei documenti e un'accurata verifica giornalistica di fatti e circostanze, sono riusciti a tirar fuori una verità nascosta, a mettere al servizio del cittadino-lettore un elemento in più. Questo lavoro è stato fatto in circostanze difficili - come tutto il resto -, con estrema povertà di mezzi e con assoluta professionalità e dedizione. E' stato fatto da giornalisti della seconda e terza generazione dei Siciliani. Perciò, da "vecchio" della brigata, me ne sento particolarmente orgoglioso. Alla salute, compagni. Questo è un "cattivo" numero dei Siciliani. E' stato infatti interamente diretto dal gruppo redazionale catanese, senza sostanziali allargamenti alla capacità decisionale dei compagni fuori Catania. Questo, dal mio punto di vista, è un peccato grave. I poteri della direzione, in un giornale come il nostro, sono (giustamente) assai limitati. Non è quindi un peccato mio, che sarebbe facilmente rimediabile, ma un peccato collettivo. Noi abbiamo imparato, molto tempo fa, che non siamo autosufficienti. Ci sono delle cose che sappiamo fare molto bene, ma ce ne sono altre che altri sanno fare meglio di noi. Ci sono delle intuizioni e idee che noi abbiamo sviluppato prima degli altri; ma ce ne sono altre che altri hanno sviluppato senza di noi. Il nostro lavoro consiste nel portare avanti il meglio possibile le idee, le intuizioni, il lavoro nostro; ma anche - e con pari importanza nell'esser punto di riferimento e strumento per molti altri esseri umani come noi, che non hanno la nostra identica storia, che sono felicemente diversi da noi, e che valgono quanto noi per capacità, per dignità, per attitudine a prendere decisioni. Perciò abbiamo sempre fatto posto, nell'impresa dei Siciliani, a delle componenti esterne e tuttavia il più possibile libere di partecipare con autonomia al lavoro comune; i più anziani di noi ricordano la storia del nostro settore giovanile, SicilianiGiovani, di dieci anni fa, e ricordano anche che il riconoscimento di quest'autonomia non fu affatto pacifico né privo di contrasti all'interno della redazione "ufficiale". Questa libertà e questo riconoscimento ci hanno permesso allora di andare avanti, di arricchirci di contributi e saperi che da soli non avremmo mai potuto avere, di non diventare una setta. Se tanti hanno guardato al nostro piccolo gruppo come a un punto di riferimento, in questi dieci anni, è stato anche perché in noi hanno visto anche questo riconoscimento di non-autosufficienza. Siamo abbastanza orgogliosi da non ritenerci affatto inferiori al "grande" giornalismo, coi nostri poveri mezzi; ma siamo - dobbiamo essere abbastanza umili da non ritenerci estranei o superiori a nessuno che faccia, da direzioni diverse, la nostra stessa strada. I Siciliani è una cosa troppo bella e importante per appartenere solo ai Siciliani. LA PIOVRA I Siciliani, marzo 1995 Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe il "referente romano" di Cosa Nostra. Sua Eccellenza il Ministro dell'Interno aveva a che fare con la camorra. I due massimi banchieri del paese, Sindona e Calvi, erano rispettivamente tesoriere della mafia e della P2. Al Ministero della Difesa (competente, fra l'altro, sui Carabinieri) per due volte sono andati personaggi vicini a questo o quel boss mafioso: le Eccellenze Attilio Ruffini e Salvo Andò. Dalla mafia, viceversa, sono stati ammazzati: tutti i principali giudici di Palermo; un generale dei carabinieri; il presidente della Regione siciliana; i poliziotti che indagavano su Cosa Nostra; il capo dell'opposizione parlamentare in Sicilia; i giornalisti impegnati contro la mafia; un numero indefinito di cittadini, nell'ordine delle centinaia, che in un modo o nell'altro davano fastidio alla mafia, cioè al potere, cioè - in definitiva - al Governo. Questa è la situazione reale, e tutto il resto è chiacchiera, o - con un tasso maggiore o minore di malafede - rumore di fondo. Contro i poteri definiti sopra abbiamo lottato per quattordici anni, noi e molti altri esseri umani che avevano a cuore il loro paese, e sempre siamo stati tacciati di "cultura del sospetto", di "estremismo", e chi più ne ha più ne metta. Adesso siamo arrivati a una svolta. Se Andreotti è colpevole - e ci sono voluti quattordici anni per portarlo sotto processo - allora è un intero sistema che dev' essere chiamato a pagare. Se gli uomini della "seconda" repubblica risultano come si sta verificando in Sicilia e come ogni mese, compreso questo, noi documentiamo - anch'essi collusi, allora non solo un passato governo è evidentemente colpevole, ma tutta una classe dirigente. Compresa quella gattopardescamente "rinnovata" - che ci sta governando adesso. Tutto qua. Il momento è grave, non c'è da farsi illusioni. Cosa Nostra è all'attacco (e ci mancherebbe altro: coi suoi massimi "referenti" costretti a difendersi, e con la partita del governo definitivo, o meglio del potere, da decidersi entro l'anno...). Noi siamo qui, non veniamo meno ai nostri doveri d'informazione e di chiarezza, misuriamo attentamente le nostre parole, e non mutiamo di campo. PROMEMORIA appunti interni, marzo 1995 Turni - I turni copriranno per il momento - in via sperimentale - la mattina dalla 10 alle 14. Ogni turno comprende uno dei Siciliani e, a partire dalla fine dello stage, uno stagista. I responsabili dei turni debbono in particolare: - leggere un giornale nazionale ed uno regionale; - segnalare alla fine della mattinata le tre-quattro notizie principali o comunque meritevoli d'intervento; - curare l'ordinaria amministrazione del giornale nella mattinata e trasmetterla al turnista successivo. Riunioni - La riunione settimanale ordinaria (palinsesto e altro) rimane ogni martedì alle 18. Una riunione più breve (quindici minuti di punto della situazione) avrà luogo ogni giorno alla stessa ora, con i redattori "anziani" (Gianfranco, Sabastiano, Elvirta) presenti in sede e con chi vorrà eventualmente partecipare. Passaggio pezzi - Chi fa un pezzo deve fare anche una proposta di titolo e sommario e proccedere, insieme con Claudio Floresta, a proporre delle illustrazioni. Prego tutti di farmi vedere tempestivamente le stampate dei pezzi in lavorazione. Ipezzi di carattere investigativo debbono inoltre essere visti e approvati, prima del passaggio in pagina, da Sebastiano o da Gianfranco. Fuori Sicilia - Elvira terrà i contatti ordinari con i compagni fuori Sicilia, puntando a coinvolgere ciascuno di loro nell'ideazione del palinsesto, tenendoli aggiornati sull'andamento della lavorazione e sollecitando costantemente da loro idee e suggerimenti. Inserto - A partire dal numero di aprile cominceremo a pubblicare l'inserto "L'Alba" in comune con "Rosso e Nero" di Pescara, "L'Urlo" di Ancona ed altre eventuali testate che aderiranno dal 18 marzo in poi all'iniziativa. Gli argomenti di carattere giovanile vanno dirottati, in linea di massima, nell'inserto. Modem - I compagni indicati sopra dovranno curare, a partire da maggio, una serie di passaggi via modem. E' quindi necessario che ciascuno di loro impari, con la collaborazione di Gianfranco, a usare il modem. Grafica - I compagni indicati sopra debbono in condizioni di impaginare. Sono a disposizione da subito per insegnare XPress. Alla fine dello stage, comincerà un corso di grafica (teoria generale, architettura tipografica, XPress e Photoshop) per gli stagisti che ne faranno richiesta e per i redattori. Motivazioni - Uno rilancio organizzativo molto accentuato è richiesto dalle seguenti circostanze: - Dobbiamo elevare la qualità del mensile e il coinvolgimento in esso del più grande numero possibile di risorse umane, sia in Sicilia che fuori; - Dal 18 marzo in poi cercheremo di forzare alcuni passaggi nel rapporto/sviluppo con le testate locali, a partire da "Rosso e Nero" ma puntando subito a un pool di tre-quattro testate; - Dalla metà di marzo cominceremo a lavorare per il secondo prodotto, il magazine modello '83; - Da subito, dobbiamo metterci in moto per raggiungere (periodo previsto: da due a quattro mesi) le condizioni organizzative per passare a settimanale. Le condizioni finanziarie potrebbero infatti essere mature già all'inizio dell'estate. BAVAGLIO I Siciliani, aprile 1995 Dopo quindici anni di tolleranza, anche il Tribunale di Catania ha stabilito che il cavaliere del lavoro Gaetano Graci è un mafioso. E che la sua cospicua fortuna (banche, rendite immobiliari, partecipazioni azionarie, giardinbi, alberghi) è in buona parte frutto delle sue illecite attività. Le conclusioni a cui giunge oggi la giustizia, e che investono non solo Graci ma il ruolo svolto da un quarto di secolo in Sicilia da taluni capitani d'industria (i cavalieri di Catania, i Cassina di Palermo, la dinastia dei Salvo a Trapani) furono anticipati dalle inchieste giornalistiche di questo giornale fin dal suo primo numero, tredici anni fa. Tredici anni di impunità. Se la sfida per il ripristino della legalità è ancora così precaria, lo dobbiamo anche al ritardo con cui una parte della magistratura ha scelto di operare nei confronti dei politici e degli imprenditori collusi con la mafia. Ma è d'altro che oggi ci interessa parlare. E' di questo patrimonio che la giustizia ha posto sotto sequestro: i miliardi del cavaliere Graci, i suoi beni, la sua ricchezza. Alfredo Galasso, in un editoriale su questo numero dei Siciliani, chiede che il patrimonio di Graci venga destinato a scopi leciti e socialmente utili. Noi facciamo una proposta: datelo ai Siciliani, datelo al nostro giornale. Vincolato ad uno scopo di sicura utilità: la pubblicazione di un quotidiano. Perché lo sappiamo tutti: se in questi anni fosse esistito un quotidiano realmente libero, realmente antimafioso, oggi saremmo tutti un po' più liberi. E i mafiosi, molto meno sicuri della loro impunità. BAVAGGHIU I Siciliani, aprile 1995 La Sicilia fra tutte le regioni d'Italia è quella che ha dato il più gran numero di giornalisti uccisi nel compimento del proprio dovere. I giornalisti hanno, a loro tutela: un sindacato unitario, che è la Fnsi, un Ordine professionale, un direttore di testata che, loro collega, dovrebbe in linea di massima proteggere i loro interessi contro chiunque. Dei giornalisti uccisi, Peppino Impastato (1978) non ebbe alcuna tutela in quanto non iscritto all'Ordine; molti colleghi si esercitarono liberamente a dargli del terrorista. Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia, fu ucciso mentre indagava su una questione di mafia; ma i proprietari del suo giornale, in un'intervista, misero in dubbio la matrice mafiosa della sua morte, senza reazioni apprezzabili da parte dei colleghi. Al funerale di Giuseppe Fava, nel 1984, sindacato e Ordine nazionale dei giornalisti furono assenti. Lo stesso per Mauro Rostagno, con la motivazione che non era regolarmente iscritto all'Ordine. Non era regolarmente iscritto neanche Giuseppe Alfano, solitario corrispondente de La Sicilia da Barcellona, ucciso dai mafiosi; lo iscrissero alla memoria dopo la morte, concedendogli finalmente di diventare un giornalista "vero". Il giudice che indagava sul suo assassinio dovette sudar sette camicie per farsi dare, dal suo giornale, gli articoli che gli servivano per indagare; poté averli solo minacciando il ricorso a mezzi legali. E così via. Tutto questo per dire che, se la storia dei giornalisti siciliani è spesso individualmente - una storia gloriosa, non lo è altrettanto quella dei loro organi collettivi e dei loro giornali. "A Catania, i giornalisti sapevano quel che succedeva, ma non si comportavano di conseguenza - ha dichiarato il 7 aprile il magistrato della Direzione distrettuale antimafia Amedeo Bertone - E anche questo ha contribuito a far divampare gli omicidi e la guerra di mafia". Ma davvero il livello civile dell'informazione a Catania è così basso? Davvero gli organi che dovrebbero farsene garanti - sindacato dei giornalisti, Ordine professionale - non se ne sono accorti? Due casi gravissimi, occorsi recentemente, dovrebbero far riflettere anche loro. Il primo e più clamoroso è quello - risultante da atti giudiziari - del giornalista de La Sicilia Concetto Mannisi. Il quale, avendo scritto un articolo sul mafioso Ercolano, viene convocato dal direttore Mario Ciancio in presenza dello stesso Ercolano, severamente redarguito e invitato sempre in presenza del mafioso - a non usar più il termine "mafioso". Mario Ciancio fa tuttora parte dell'Ordine dei giornalisti. Non risulta che Ordine o sindacato abbiano avviato provvedimenti nei suoi confronti. Un'indagine è stata invece aperta sull'"operato della collega Ada Mollica", chiamata formalmente a rispondere - dal presidente dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia - dell'articolo in cui aveva riportato l'episodio. Circa un anno fa, si ebbe l'episodio - altrettanto grave - del tentativo di depistaggio operato dal giornalista de La Sicilia Toni Zermo sulle indagini per l'omicidio Giuseppe Fava. I giudici indagavano su un pentito di mafia, Maurizio Avola, che aveva reso gravissime testimonianze sul cavaliere del lavoro Gaetano Graci, e sul possibile suo ruolo nell'omicidio Fava. Mentre i giudici vagliavano gli elementi forniti da costui, Zermo pubblicò con grande evidenza una serie di false "dichiarazioni" del pentito, platealmente inattendibili ("Ho ucciso il generale dalla Chiesa!") e tali da gettare una luce d'inattendibilità anche sulle vere dichiarazioni che Avola aveva in realtà fatto. Contro quest'operazione di depistaggio, chiaramente in malafede e non giustificabile da alcun precedente giornalistico, i magistrati della Procura protestarono con insolita veemenza. Il segretario dell'Associazione siciliana della Stampa, Antonio Ravidà, non prese alcun provvedimento nei confronti di Zermo, e ritenne anzi opportuno assicurargli, a nome della categoria, la propria pubblica solidarietà. Il comitato di redazione de La Sicilia si associò anch'esso alle posizioni di Zermo. Costui, già nel 1984, aveva condotto una campagna per escludere la matrice mafiosa dell'omicidio di Fava (accomunato, nei suoi articoli, a un personaggio come Pecorelli). Neanche allora il sindacato dei giornalisti siciliani o i colleghi di redazione di Zermo avevano ritenuto opportuno censurare l'operato del collega. "In Italia dobbiamo smetterla perché i polveroni non pagano. Nessuno vuole limitare la libertà di stampa. Solo che dobbiamo noi giornalisti rispettare le leggi, stare alle regole del gioco. Qui non si tratta di essere pro o contro Berlusconi. Qua si tratta di stabilire le regole del gioco. E noi giornalisti italiani, spesso, queste regole le dimentichiamo". Un anno fa, il collega Antonio Ravidà - sempre a nome dell'Associazione siciliana della stampa: e dunque, teoricamente, a nome di tutti i giornalisti onesti, compresi noi dei Siciliani... - rispose con queste righe alla sollevazione generale scatenata dal decreto "salva-ladri" di Silvio Berlusconi. Il decreto, che conteneva molte e gravi limitazioni alla libertà di stampa, fu ritirato velocemente per l'opposizione suscitata in tutte le categorie interessate, a cominciare dal sindacato dei giornalisti nazionale, e di tutti quelli regionali ad eccezione del siciliano. Alcuni colleghi dichiararono, in quest'occasione, Ravidà "indegno di rappresentare la categoria dei giornalisti siciliani" e chiesero le sue dimissioni. Nella redazione de La Sicilia di Zermo, solo una giovane cronista si associò ad essi. Quanto a Zermo, è attualmente impegnato a scrivere pensosi articoli sulle malefatte del cavaliere Graci ormai definitivamente caduto in disgrazia - dopo esserne stato per circa quindici anni uno dei più fedeli servitori. (Qualche settimana fa, il sindacato dei giornalisti siciliani ha organizzato a Villa Igea a Palermo, un bel convegno su temi di giornalismo economico. Il pubblico nei momenti di maggiore affollamento non superava le quindici persone. Alla fine sono arrivati un paio di assessori della Regione entrambi abbondantemente inquisiti, hanno stretto la mano al segretario, hanno porto i loro ossequi alla signora - la signora Ravidà, di mestiere, fa proprio questo: organizzare congressi - e se ne sono andati) A Messina dopo la morte di Stelio Vitale Modica, buon giornalista sempre pronto a difendere i colleghi, il sindacato è retto da Italia Moroni Cicciò. La signora Cicciò ha fatto campagna elettorale per il Polo delle Libertà. Di recente è stata nominata dalla Provincia (il cui presidente è di Alleanza nazionale) come componente del consiglio d'amministrazione dell'Ente Teatro. All'Ente Teatro (dove non sono stati espletati i concorsi per formare l'ufficio stampa) fa funzioni di consulente stampa Lorenzo Genitori, critico musicale della Gazzetta. L'Ente Teatro gestisce tra l'altro il teatro lirico Vittorio Emanuele, e ciò significa in sostanza che Genitore, sul giornale, può fare la critica del suo stesso teatro. Per anni, all'Ente Fiera, l'ufficio stampa è stato tenuto da Sandro Rolla, capocronista della Gazzetta. A Messina, più in generale, gli uffici stampa pubblici sono molto spesso irregolari per difetto di assunzioni. La gente che ci lavora scrive comunicati, ma nella maggior parte dei casi non è giornalista. Si è parlato per molto tempo di fare concorsi. La Provincia li ha banditi, ma non li ha ancora espletati. Se si considera, da un lato, che in Sicilia ci sono decine di professionisti disoccupati; e, dall'altro, che è almeno di dubbio gusto affidare le cronache giornalistiche a colleghi che ricevono emolumenti a vario titolo da enti pubblici e privati; si può ben intendere che tipo di lavoro andrebbe fatto - e non è mai stato fatto - a Messina a tutela della professione giornalistica. A Palermo, la proprietà del principale giornale cittadino, il Giornale di Sicilia, ha una tradizione molto antica di buon vicinato con esponenti politici - Lima, i Salvo, fino a un certo periodo Ciancimino - legati a Cosa Nostra. Un esponente della famiglia Ardizzone, editrice del giornale, faceva parte della loggia massonica coperta di via Roma insieme con "uomini di panza" della vecchia mafia. All'inizio degli anni Ottanta acquisirono influenza sulla proprietà il cavaliere catanese Costanzo e l'editore catanese Mario Ciancio, e questo non contribuì a spostare in senso antimafioso la linea politica del giornale. Celebri le campagne del giornale contro il pool antimafia di Falcone e Borsellino, affidate alle penne del condirettore Giovanni Pepi (la direzione formale era ed è tuttora tenuta da un Ardizzone), del giudice Enzo Geraci e del corsivista - diventato in tempi recenti capo di gabinetto del ministero della Giustizia sotto Biondi - Vincenzo Vitale. Crollato il vecchio sistema di potere, Ardizzone e soci cercarono, con poca fortuna, di avviare alla meglio un tentativo di riqualificazione del giornale, sulle cui modalità e sui cui esiti valgono le lapidarie parole - "Ora quelle serpi mi sorridono" - della sorella del giudice Falcone. Nonostante l'assenza di prese di posizione ufficiali, la redazione del Giornale di Sicilia è probabilmente oggi l'unica, fra quelle dei quotidiani siciliani, in cui l'oltranzismo diciamo così conservatore della proprietà abbia suscitato qualche protesta, o almeno qualche mugugno, da parte di gruppi consistenti di redattori. Nell'ottobre '92 destarono qualche scalpore i risultati dell'elezione dei rappresentanti all'interno della redazione. Vennero eletti nel comitato di redazione il proprietario del giornale, Antonio Ardizzone, e il suo braccio destro, Giovanni Pepi: caso unico nella storia dei movimenti sindacali, non essendo fin allora mai avvenuto che dei lavoratori delegassero il padrone a rappresentarli di fronte al padrone. Adesso, nei corridoi del giornale, alcuni redattori osano mettere in discussione - almeno fra persone fidate - lo jus primae vocis fin qui pacificamente esercitato dalla proprietà. Se fino a ieri Palermo e Catania erano, dal punto di vista dell'autonomia professionale, particolarmente arretrate rispetto al resto del paese, adesso rischiano di venir prese a modello e di costituire anzi, da questo punto di vista, l'esempio del giornalismo dell'avvenire. Alle ultime trattative per il rinnovo del contratto di lavoro, la Federazione degli editori ha presentato un articolo (prontamente respinto, a onor del vero, dalla controparte) in cui si richiede senz'altro un "contratto di formazione e lavoro" per giovani a partire dai sedici anni che dovrebbero svolgere mansioni paragiornalistiche in cambio di uno stipendio inferiore alla metà di quello dei giornalisti "regolari", e restando soggetti al licenziamento senza spiegazioni dopo ventiquattro mesi. La codificazione ufficiale insomma della figura dello schiavo di redazione, la regolamentazione per legge del lavoro nero e l'abolizione delle residue garanzie di autonomia professionale. E' vero che in molte regioni d'Italia il livello di coscienza sindacale delle redazioni, è abbastanza dissimile da quello che si riscontra in Sicilia. Ma è anche vero che l'offensiva è massiccia, e che gran parte delle resistenze - specie nei giornali locali - sta venendo meno. Alcuni casi emblematici? L'Unione Sarda, dove l'editore ha impiegato sistematicamente le nuove tecnologie (valendosi, a quanto ci risulta, di specialisti provenienti dalla Fininvest) per accentrare al massimo il ciclo di lavorazione e cancellare ogni influenza dei giornalisti su di esso; la Notte, dove Berlusconi ha rapidamente acquisito e ucciso il rozzo ma temibile concorrente (vedi box a pagina 5) del suo Giornale; la Voce di Montanelli, strangolata - nell'interesse di Berlusconi - dallo stampatore. L'introduzione delle nuove e nuovissime tecnologie, in questo senso, pone non solo a gruppi isolati di bastian contrari, ma massicciamente all'insieme della categoria un'alternativa piuttosto brutale: o subire il restringimento degli spazi, accettare i nuovi ruoli ormai esclusivamente servili che ai giornalisti vengono assegnati dal nuovo modello editoriale; o valersi spregiudicatamente delle tecnologie, impadronirsene creativamente, porsi in condizione di potere a un bisogno confezionare, senza bisogno di strutture esterne, tutta la fase di prestampa dell'intero giornale e utilizzare questa condizione tecnica o come presidio nei confronti dell'editore o, in caso di bisogno, per mettersi audacemente in proprio e fare un giornale libero senza editore. Perché il lettore ha diritto, qualunque cosa pensino i giornalisti e qualunque gli editori, ad avere notizie oneste, che non dipendano dal capriccio di un singolo, che non servano interessi. Quando questo non avviene, il lettore se la prende col giornalista, non con l'editore: e in fondo è giusto, perché è al giornalista, prima che a chiunque altro, che il lettore chiede di non essere imbrogliato. In Sicilia, l'alternativa in realtà non esiste perché le intenzioni degli attuali editori, di accentramento totale e senza condizioni, sono fin troppo chiare. A Catania son già allo studio, secondo indiscrezioni, progetti di integrazione di una parte del ciclo di lavorazione con parte del ciclo di lavorazione di altri quotidiani siciliani. Un processo di sinergia molto spinta, secondo le nostre valutazioni, renderà entro un anno praticamente indistinguibili almeno due dei tre quotidiani oggi esistenti. Tutti e tre già oggi sono pubblicitariamente - e quindi finanziariamente - sotto l'egemonia (supportata dalla Pubblikompass di Agnelli) di Mario Ciancio. Il momento è gravissimo, per la libertà di stampa in Sicilia; il più grave che mai si sia avuto, peggiore persino di quando i mafiosi giravano tranquillamente per gli uffici della Sicilia in viale Odorico da Pordenone, spalancandone le porte a calci quando avevano da notificare qualcosa, peggiore di quando il giornale di Sicilia faceva le sue campagne "garantiste" per Salvo Lima, contro Falcone e Orlando. Nessuno si illuda che il nuovo monopolio editoriale sia per avere posizioni più "moderne" rispetto ai vecchi padroni. Perché il cervello di esso è Mario Ciancio, e Ciancio è quello che non solo nell'84, non solo in questi dieci anni, ma ancora in questi mesi ha difeso a spada tratta il cavaliere mafioso Gaetano Graci, arrivando a pubblicare notizie false pur di cercare di salvarlo dalla galera. Agli editori nazionali toccherebbe ora la responsabilità di non farsi supportatori - come deplorevolmente avviene oggi: ed è un'altro gravissimo debito che gl'industriali del nord assumono oggi nei confronti dei Siciliani di operazioni che, limitando la libertà di stampa in una regione, finiranno per limitarla in tutte. Ma su questo c'è da farsi poche illusioni: quasi tutti i quotidiani nazionali, persino quelli di editori democratici come Caracciolo, hanno a suo tempo rinunciato alle loro edizioni siciliane pur di non entrare in conflitto con gl'interessi costituiti locali. Ai giornalisti professionisti siciliani, invece, competerebbe in quest'emergenza la responsabilità di sollevarsi d'un tratto dallo stato di subalternità in cui si trovano, ormai da decenni, per dire finalmente una loro parola sullo stato dell'informazione in questa regione. Anche qui, c'è poco da farsi illusioni. Ma con una differenza: che mentre un Caracciolo o un Agnelli possono giocare, in questa circostanza, con la pelle altrui, per i giornalisti siciliani - compresi i più distratti - ci va di mezzo il proprio avvenire. Qualcuno ha un'idea di quel che vorrebbe dire, per ciascuno di loro, un quadro informativo siciliano ridotto di fatto a un'unica testata, in mano agli amici di Graci? Si salverebbero solo, e letteralmente, i più servili. Qualunque pur vaga velleità di autonomia professionale, o anche di semplice rivendicazione della dignità professionale, sarebbe semplicemente spazzata via. Il mondo dell'informazione in Sicilia sarebbe brutalmente trasformato in una rozza macchina per imbrogliare. Ci sono ancora dei mesi, forse addirittura un anno, durante i quali è ancora possibile rovesciare la situazione. Recuperare il ruolo del sindacato, isolare gli uomini del padrone, dar spazio ai giovani giornalisti, cominciare a fare liberamente il proprio mestiere anche dove liberamente non s'è fatto mai. Se fossimo ottimisti, diremmo che se ne potrebbe parlare al sindacato. Ma ottimisti non siamo. DUE ANNI DOPO I Siciliani, aprile 1995 Son passati due anni dall'inizio di questa nuova serie dei Siciliani. Due anni fa, la situazione era ben diversa da quella di ora. Finiva il tempo di Craxi; le battaglie antimafia - portate avanti da una piccola ma non trascurabile minoranza - sembravano vicine a raccogliere il frutto dei sacrifici di dieci anni; il crollo della democrazia cristiana apriva le condizioni per una svolta complessiva in senso più civile e democratico. Più importanti di tutto, le discussioni nei bar: anche i cittadini più qualunquisti erano finalmente giunti a rispettare e ammirare un Falcone, un Carlo Palermo, un Borsellino, ad acquisire - dall'esempio loro, e di centinaia di altri militanti come loro - un nucleo rudimentale d'identità collettiva e di coscienza civile; fra i giovani, specialmente, questo processo sembrava ormai acquisito. Quanto ai vecchi politici, alcuni - come Craxi - si preparavano a riparare all'estero; altri - come Cossiga - cercavano di mettere a frutto gli scheletri nei propri e negli altrui armadi per ritagliarsi un ruolo nel mondo nuovo; la più parte, frastornata e confusa, cercava di farsi notare il meno possibile. L'Italia che abbiamo tratteggiato è quella del 1992; oppure anche, mutando alcuni non sostanziali elementi, quella del 1922. Svolta a sinistra gioiosamente minacciata ma non preparata seriamente; sbandamento del vecchio ceto politico ma non maturazione di uno davvero nuovo; coscienza d'una vaga necessità di rinnovamento nella nazione ma senza concreti sbocchi politici e senza soprattutto un parallelo e diffuso risorgimento morale. "Autobiografia della nazione", scrisse Piero Gobetti per il primo fascismo. E noi non avremmo nulla da aggiungere per quello d'oggigiorno. In questo quadro, tuttavia, Berlusconi è D'Annunzio, non ancora Mussolini. E' colui che per primo ha saputo intuire - grazie alla buona pratica nel campo della comunicazione - gli umori anarcoidi dell'Italia profonda, che ha saputo dar loro una dignità di "politica", che ha insegnato ai più poveri spiritualmente e ai peggiori a non vergognarsi di se stessi. Come D'Annunzio, questo insegnamento l'ha condotto assai più con i gesti personali che non con gli elaborati politici, riuscendogli questi ultimi in genere malmasticati e infelici: come D'Annunzio, en passant, ha profittato dell'occasione per liberarsi dei concorrenti e creditori personali e bollarli anzi d'infamia come traditori della patria; come D'Annunzio, infine, ha potuto semplicemente aprire una porta, ma non attraversarla. Mussolini (come il mussolini che seguirà a Berlusconi) invece ci riuscì: sul terreno individuato da D'Annunzio, e sulle patologie sociali che costui aveva risvegliato, egli gettò un'esperienza organizzativa e un'abilità tattica da vecchio politico (da uomo della prima repubblica, diremmo oggi), utilizzando largamente i ricatti cui le vecchie forze politiche erano, per loro storia, soggette e di cui egli era esperto ma tuttavia presentandosi, di fronte alla nazione incolta, come uomo nuovo; servendo senza ritegno il gran capitale, ma in nome di fumosi ideali "solidaristici" (allora si diceva "corporativi") e popolari; bastonando selvaggiamente la sinistra, ma tuttavia presentandole, quando lo richiedesse la tattica, i suoi bravi "patti di pacificazione"; utilizzando sistematicamente la violenza delle "frange incontrollabili" e dei servizi deviati, ma puntando essenzialmente sul controllo monopolistico dei grandi mezzi di comunicazione. Un mussolini ora forse c'è già, e potrebbe essere Cossiga. Ma il nome, a questo punto, non ha grande importanza. Noi siamo ripartiti, due anni fa, fidando in alcune precise idee: delle quali ritenevamo d'essere una punta avanzata, e sia pur radicale, non una pattuglia perduta. Credevamo - e crediamo tuttora: perché non si tratta d'idee che possano essere mercanteggiate col variare della convenienza - che dal vecchio regime non si possa uscire senza una svolta radicale e profonda della politica e della coscienza nazionali; che di tale svolta un'efficace ed esemplare prefigurazione si sia avuta in Sicilia negli anni alti del movimento antimafioso; che di quegli anni e di quella lotta i protagonisti da incoraggiare e imitare siano stati i giovani, le donne, gli amministratori di base, i magistrati fedeli, le avanguardie civili del popolo insomma, non i politici di mestiere; che questi ultimi, in Sicilia e altrove, abbiano avuto e possano avere un senso solo se e in quanto riescano a farsi espressione di questi movimenti dal basso, condannandosi diversamente alla sterilità, al parassitismo e alla sconfitta. Credevamo ancora, e tuttora crediamo, che in questa battaglia civile una parte essenziale, e probabilmente la maggiore, debba essere combattuta sul terreno dell'informazione: un'informazione agile, concreta, non demagogica, lontana dai corridoi e dai palazzi (compresi quelli di sinistra) ma permeabile invece alla partecipazione dei cittadini, capace tecnicamente e moralmente di farsi contemporaneamente scuola di giornalismo e d'impegno civile. Credevamo - e crediamo fermissimamente tuttora - che non mancassero in astratto le forze per una simile impresa. In quindici anni di giornalismo militante, abbiamo visto molti giovani crescere attorno ai Siciliani; e molti di più son quelli che, nelle varie regioni e città d'Italia, a volte isolatamente a volte aggregandosi a questo o quel punto di riferimento parziale, hanno saputo unire (o avrebbero potuto, se appena ne avessero avuto l'occasione) rigore tecnico e coscienza civile. Perché lasciare tutta questa ricchezza ai padroni? Perché non cercar di coordinare, raccogliere, organizzare in un progetto di lunga lena tutte queste energie, che insieme potrebbero cambiare il volto dell'informazione in Italia e lasciate a se stesse vengono riassorbite o sbandate a una a una? Questi obbiettivi abbiamo cercato di perseguire in tempi - relativamente più facili, e questi intendiamo portare avanti anche adesso. Il piccolo popolo dei nostri amici ben sa di quanta determinazione e costanza di ci sia stato bisogno finora, e quante ne occorreranno in futuro. Non disgiunte, peraltro, da uno forte spirito unitario e di cooperazione, perché la battaglia dei Siciliani è troppo importante e vasta perché sia concepibile di condurla da soli. In questo senso, riteniamo urgentissimo un incontro che faccia il punto, fra tutti i giornalisti e i cittadini interessati al problema, sullo stato dell'informazione libera al Sud, e abbiamo già chiesto ai colleghi del Gruppo di Fiesole di farsi insieme a noi promotori di un'assemblea operativa - su questo tema. Tempi strettissimi, perché la seconda fase quella mussoliniana - già avanza. DIVIDIAMOCELI NOI I Siciliani, maggio 1995 A Palermo, nei giorni di Falcone. Quest'anno, per la prima volta, non ci sarà la manifestazione contro la mafia - non ci sarà solo quella. Ci sarà soprattutto, e dopo tanti anni finalmente se ne vedono le condizioni, il lavoro di ricostruzione per il dopomafia. I ragazzi di Palermo che "adottano" i monumenti e i quartieri di Palermo, non da soli, ma con gli artigiani, i commercianti, i maestri di scuola, i lavoratori, con la parte migliore della città, sono un segnale preciso che qualcosa di profondo è andato avanti. Riina è in galera, Graci è in attesa di entrarci e Andreotti ci finirà prima o poi. Quelli di adesso, al tempo. Certo, la nostra "politica" non ha vinto finora, a livello istituzionale. Non c'è più il giudice Carnevale, ma c'è la Tiziana Parenti. C'è Berlusconi, c'è Fini, c'è Cossiga. "Cambiare tutto per non cambiare niente"... Tutto è tornato come prima? No. L'operazione del Gattopardo è riuscita ai politici, ma non è riuscita, o lo è solo in parte, nel profondo della società. Berlusconi e compari sono riusciti a ingannare per un paio d'anni il popolo italiano. Ma solo per un paio d'anni. Poi, la corrente ha ricominciato a scorrere, faticosamente. Le ultime elezioni dicono qualcosa. E qualcosa dice anche il fatto che gli studenti di Palermo, dopo dieci anni di lotta, possano cominciare adesso a ricostruire. Certo, non è all'altezza la sinistra ufficiale, non è all'altezza la cultura dei "patti", delle divisioni intestine, dei salotti "democratici", delle campagne elettorali "all'americana". Ma questi sono i particolari transeunti, che prima o poi verranno superati. Persino con Veltroni e con Prodi, la sinistra riuscirà a prevalere. Per intanto nel referendum, dove non c'è Prodi né Veltroni. PALERMO, EUROPA I Siciliani, maggio 1995 Un gruppo di studenti sta conducendo un'inchiesta su un monumento della sua città. Questa città non è Zagabria né Sarajevo ma è stata in guerra per molto tempo. E' stata inoltre abbandonata, per moltissimi anni, a un governo d'occupazione, comprendente dei collaborazionisti locali ma composto essenzialmente dai funzionari del nemico. E', infine, una città povera, dove pochi privilegiati se la spassano fra ricchezze d'ogni genere mentre la gran massa della gente fatica a sbarcare il lunario. Tutto ciò considerato, non desta stupore che il monumento su cui i nostri studenti stanno facendo i loro studi - poniamo, un'antica portale barocca sia circondato dalle erbacce e pressoché in rovina. (Una parte non piccola della popolazione, dimenticavamo d'aggiungere, rimpiange ancora il tempo dell'occupazione: borsari neri, pescicani, spie, ed anche poveracci qualunque che rimpiangono i pezzi di carne distribuiti dai soldati, nei giorni di festa, davanti alle caserme). Dei ragazzi, alcuni tirano via le erbacce, altri schizzano un'assonometria del portale. "Ma quel vuoto in alto - fa uno cos'è?". Difatti, a un esame più ravvicinato, un tratto del portale risulta consunto o raschiato, come se avesse ospitato un bassorilievo che ora non c'è più. (A poche decine di metri dal punto dove stanno lavorando i ragazzi, c'è il luogo in cui gli occupanti trucidarono, pochi anni addietro, degli uomini della Resistenza. Di tali luoghi è costellata tutta la città). Del bassorilievo, tuttavia, non resta il minimo frammento. Qualche giorno più tardi, grazie a una ricerca in biblioteca d'istituto, gli studenti scoprono che il bassorilievo non c'è perché in effetti sui portali coevi, eretti per celebrare i fasti di viceré e sovrani del diciassettesimo secolo, si usava ridurre al minimo le decorazioni marmoree (di lunga e costosa esecuzione), utilizzando i più economici e veloci, e d'effetto scenografico non minore, manufatti di stucco. Rapido da modellare e docile alla fantasia, di poco prezzo, alla portata dell'artista di quartiere, esso costituì il materiale d'elezione, nella nostra città, per la creatività del Seicento; fu esso a ingentilire e a render per così dire solare il severo barocco ideologico imposto dagli occupanti d'allora. La città divenne così - imparano giorno dopo giorno i ragazzi - la capitale internazionale dello stucco. Alcuni degli artigiani dei quartieri divennero famosi in tutt'Europa, e fondarono un'arte e un mestiere che resero orgogliosa la città per generazioni. Come i pescatori, i macellai, i ferraioli e gli altri lavoratori, gli stuccatori avevano una loro piccola corporazione che ne tutelava i diritti; serviva da base ai malcontenti in tempo di rivolta al malgoverno; in tempo di guerra, le veniva affidato un tratto delle mura cittadine perché le difendesse. Anni - studiano ancora i ragazzi - in cui il popolo si ribellava spesso: una volta, a metà del diciassettesimo secolo, riuscì a cacciar via per una stagione almeno gli occupanti e i loro sbirri; non la prima, né l'ultima, rivolta di quell'antica città e di quei quartieri. Il mestiere di stuccatore, fino a pochi anni fa, viveva ancora. Poi l'hanno ucciso le plastiche, l'incuria dei governanti, il torpore di un popolo che, sotto dominazione, cominciava a dimenticarsi di ciò che in tempi più felici aveva fatto e di ciò che era stato. Ora tuttavia, dopo la guerra, la dignità del passato tornava ad essere nebulosamente percepita. Così i nostri ragazzi, parlando con i bottegai della zona, ne trovarono finalmente uno che si ricordava, sì, degli stuccatori; e conosceva anzi un vecchio - ma vecchio di quelli vecchi, uno che a mala pena ci vedeva - che forse, una diecina d'anni fa, ci aveva avuto a che fare. Così, due giorni dopo - due giorni di paziente indagine nel quartiere, e contemporaneamente di studi storici, di schizzi dal vivo, di estirpazione delle erbacce - ecco cinque ragazzi della nostra scuola che si presentano nell'ex-bottega, e ormai sgangherata abitazione, di mastro Domenico Licausi, artigiano stuccatore. E' dodici anni ormai che mastro Domenico è in pensione. Ed è da allora che nessuno gli parla più del suo mestiere. Ma dietro la tenda a fiori ci sono ancora due dei modelli di allora. Il vecchio leva dal tavolo gli avanzi del pranzo del giorno prima, prende uno strofinaccio pulito e tira via la polvere, spessa due dita, dal primo dei modelli. Lo prende con delicatezza e lo posa sul tavolo. "Talè: vardati 'stu travagghiu...". Questa storia è successa, sta succedendo ancora e continuerà a succedere nei prossimi anni in una città d'Europa che è Palermo. A Palermo, in questo preciso momento, un gruppo di giovani sta riportando in vita, con l'aiuto di vecchi artigiani, l'arte di stuccatore. Un centinaio di monumenti di Palermo sta venendo recuperato grazie al lavoro di alcune centinaia di studenti palermitani. Bottegai, artigiani, parrocchie, associazioni dei quartieri sono mobilitati per dare una mano agli studenti. Sarà un lavoro lungo, ma è un lavoro iniziato. Nella città dell'antimafia Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Vincenzo Li Muri e Claudio Traina, quest'anno verranno ricordati così. Lavorando, ricostruendo - dopo tante battaglie - qualcosa. Non succede nulla di più importante, in questo momento in Italia, né di più politicamente decisivo. Lasciamo ai chiacchieroni le chiacchiere, ai politicanti della Prima e della Seconda i loro giocarelli. Berlusconi, se ha tempo e voglia, si presenti dai giudici a spiegare se sa qualcosa dei traffici d'armi dei suoi caporioni siciliani. Se ha tempo; se no, prima o poi, ce lo porteranno i carabinieri. Fini, se ne ha tempo e voglia, si pulisca dalla faccia gli sputi che ci hanno lasciato i palermitani, davanti alla cattedrale di Palermo, il giorno dei funerali di Borsellino. Se no, se ne vada pure in giro così com'è, a noi non fa né caldo né freddo. PROMEMORIA maggio 1995 Caro ***, spero di essere a Palermo per il 19; come ti ho detto, stiamo dando un certo rilievo al salto di qualità rappresentato dalle iniziative di Palermo Anno Uno. Subito dopo il 23, vorrei che vi riuniste e decideste su tre proposte specifiche, che secondo me dovrebbero impegnarci dalla fine di maggio in poi. Ritengo infatti che adesso i movimenti palermitani siano ormai maturi per cominciare a muoversi seriamente nel campo dell'informazione, con una cultura propria, un proprio uso delle tecnologie, una propria strategia complessiva che non si limiti a rosicchiare spazi nell'informazione ufficiale. Dal 23 maggio, dunque, noi Siciliani consideriamo di avere le associazioni di Palermo Anno uno fra i nostri "padroni" e intendiamo muoverci di conseguenza, con tutte le nostre forze e la nostra esperienza. - Sviluppare subito almeno due pagine autonome, e gestite direttamente da voi, all'interno dei Siciliani: per ora nel mensile, ma con la prospettiva di mantenerle stabilmente nel passaggio a settimanale, con l'intento immediato di fare dei Siciliani la voce immediata di Palermo Anno Uno. Queste pagine dovrebbero essere organizzate in modo tale da poter essere utilizzabili anche autonomamente, in modo da costituire uno strumento capillare d'intervento palermitano. Penserei di darvi una delle gabbie preconfezionate (progettate in modo tale da essere gestibili con facilità, anche modularmente) che vengono attualmente usate dal Foglio degli Operai, da ImmiNews e dagli altri fogli di base. - In più, sviluppare dei fogli di quartiere (un foglio A3 in bianco e volta, fotocopiato e non stampato, utilizzando le gabbie-base del Foglio degli Operai) in almeno due quartieri, come esperimento d'intervento più localizzato che dovrebbe continuare per tutta l'estate. Questo ci consentirebbe di cominciare a sviluppare delle esperienze di cronaca autogestita di quartiere da riversare in autunno nel settimanale e poi, quando sarà possibile, nel quotidiano. - Organizzare insieme lo stage di giornalismo di base che abbiamo progettato per Palermo (hanno già aderito na ventina di ragazzi). A livello d'immagine, vorrei presentarlo subito come stage organizzato da Palermo Anno Uno e dai Siciliani. Concretamente, vorrei dare allo stage un accentuato carattere di strumento per la formazione di operatori dell'informazione di base (volontariato, movimenti, esperienze di quartiere ecc.) nello spirito dei punti precedenti. E' un'idea, io credo, assai vitale e destinata sicuramente ad espandersi, parallelamente alla crisi - ormai sotto gli occhi di tutti - dell'informazione ufficiale; abbiamo ricevuto molte richieste di organizzare dei corsi simili e dei giornali di questo tipo anche in altre regioni d'Italia, e contiamo di arrivarci a poco a poco (specie dopo che il settimanale ci darà un punto di riferimento complessivo più visibile dell'attuale mensile). Vorremmo portare avanti quest'idea non da soli ma insieme alle associazioni palermitane, in modo da accentuarne il carattere non solo tecnico ma lato sensu "politico" fin dal momento dell'imprinting iniziale. Come vedi, di carne al fuoco ce n'è. Non è impegno da poco, perché tutto questo richiede non solo un lavoro organizzativo paziente e accurato ma anche un salto di qualità culturale (fuori dalle singole "botteghe", fuori dai ghetti) non indifferente. Ma io credo che ormai la situazione sia matura per farlo, e credo - come ti ho detto - che lo siate anche voi. E se una cosa si può fare, è un peccato non farla. PROMEMORIA maggio 1995 Caro *** queste più o meno sono le gabbie. Si trovano su QDue e, in backup, su QTre e sul syquest Numero in corso. Ti prego di mantenere costantemente aggiornate, e ordinate, quelle su QDue. Conviene che anche i testi siano raccolti, come luogo di riferimento, nell'apposita cartella in QDue. Se possibile, cerca di fare in modo che chi fa un pezzo si renda conto della gabbia in cui andrà, e che chi vuole possa utilizzare QDue come luogo di scambio. In generale, sarebbe anche bene che ogni pezzo fosse corredato da una proposta di titolo. Le gabbie 4-13 (e in ispecie la 7 e la 11) subiranno probabilmente variazioni in relazione all'andamento dei servizi e all'individuazione dei punti-titolo, e più in generale saranno - a quel punto - maggiormente articolate sul piano grafico. Le 19-23 e 26-32 potranno probabilmente restare come sono. Le 28-31 hanno foto scontornate e richiedono qundi (l'ho già detto a Claudio) una maggiore mavorazione e un'attenta scelta delle immagini. Le irregolarità delle cornici a 28-31 sono già state corrette. Sono ancora da definire pagina 14 e pagina 29 (il pezzo da Praga non mi sembra granché). Per la 22-23, vorrei aspettare di parlare con Paolo, e subordinatamente con Francesco, per vedere che idee hanno; in ogni caso, non credo che potremo definirle prima di mercoledì. Per l'inserto, non conosciamo ancora qualità e tempi dell'eventuale Alba. Ho detto a Sebastiano (ma è bene che glielo ricordi anche tu) che bisogna cominciare da subito a lavorare sull'inserto Lavoro "come se" fosse in lavorazione ordinaria. Martedì 30 decideremo quale dei due inserti mandare subito e quale lasciare dopo, fermo restando che per allora entrambi debbono essere già in lavorazione. L'inserto degli stagisti è stato disegnato solo in struttura generale. Verrà ulteriormente arricchito in relazione ai contenuti, e anche - in questo caso a esigenze "didattiche". Per quanto riguarda Messina, avremo fra una settimana le indicazioni dei responsabili che consentiranno di precisare le gabbie, a partire comunque dagli standard dell'inserto Cronaca. Il pezzo più delicato, per le connessioni con gli altri e per l'ampiezza di spettro, è quello sui beni sequestrati; anche quello su viale Africa potrebbe crescere d'importanza (fino a copertina) in relazione alle iniziative. Ci sono almeno due pezzi a rischio, a pagine 19 e 20. Ci sono altri possibili pezzi leggeri e cioé un Marescotti (digiuno da mesi) e un pezzo sulle donne. A partire da martedì, cominciate a discutere seriamente sulla copertina. Per il momento, la mia ipotesi è qualcosa come "L'arrembaggio" o "Tutti prodi!" con un Prodi-formaggio e topi, o Prodi-mela e vermi, o Prodipoltrona e scale ecc. Io sarò reperibile presso Paolo e telefonerò comunque ogni sera alle 19.30 per avere le novità da te e da R. Conto di rientrare fra venerdì e domenica. Ricorda a Gisella che non sono disponibile per gli stagisti venerdì, e quindi l'incontro con loro va spostato a lunedì. GLI ACCHIAPPAPRODI I Siciliani, giugno 1995 E dopo il referendum? Si va allo scontro. Scontro frontale, al di là delle etichette e dei programmi, fra le due componenti pro- fonde della società. Finite, in un modo o nell'altro, le fanfaronate e le illusioni del periodo Berlusconi, gli italiani si ritrovano allo stesso punto di due anni fa: paese malato, economia in crisi, bisogno urgente di scegliere fra due soluzioni del tutto incompatibili fra loro. Destra e sinistra portano avanti i "moderati": ma la situazione non lo è affatto. Con chi stare? In Sicilia, il mondo cattolico si riorganizza attorno a Prodi: nel centrosinistra, qui, di sinistra tradizionale ce n'è ben poca. C'è solidarismo, c'è volontariato; ma c'è anche una gran parte, sia pure la meno compromessa, della vecchia Dc. Certo, tutto è preferibile ai fascisti e a Berlusconi; ma questa di Prodi poteva essere - e forse potrebbe essere ancora - un'occasione di risorgimento democratico e non solo di reazione moderata all'eversione nera. A Palermo, la gente si ricorda ancora di Falcone. Nei quartieri, la rete delle associazioni e del volontariato ha continuato a lavorare, nell'indifferenza della grande stampa nazionale. Padre Porcaro non c'è solo quando gli bruciano la macchina, ma anche negli altri trecentosessantaquattro giorni dell'anno. E alla fine i risultati si vedono, Porcaro e le altre decine di antimafiosi come lui finiranno per trasformare, e in parte hanno già trasformato, queste nostre città. E questa è la democrazia in cui noi crediamo. A Catania, la magistratura ha finalmente rinviato a giudizio gli esecutori e organizzatori materiali dell'assassinio di Giuseppe Fava. Non ancora i mandanti: ma ci si arriverà. Noi continuiamo a lavorare. E grazie ai coraggiosi magistrati. TUTTI DC? I Siciliani, giugno 1995 Ne sai più di noi, caro lettore. Tu infatti sai già come sono andati a finire i referendum, mentre noi ancora no (per necessità tipogra-fiche dobbiamo chiudere il giornale entro sabato 10, che per noi è oggi e per te tre giorni fa). Chi ha vinto, e che cosa succede ora? Da un certo punto di vista, quello che ha vinto comunque è Berlusconi. Pensate: in meno di due anni ha saputo farsi ripianare, senza sborsare una lira, fior di debiti dalla collettività; ha fondato una setta religiosa; ha promesso miracoli; e quando i miracoli non si sono verificati è riuscito a non farsi linciare ma compatire ("non m'hanno lasciato fare i miracoli in pace"). Adesso, dopo il referendum, Berlusconi esce - in ogni caso - di scena; o perché superfluo, o perché ingombrante. Però esce in bellezza, avendo dilapidato altri mille miliardi (tanto è costato il referendum) tutti in una volta, avendo trasformato in buffonata l'istituzione referendaria, che una volta faceva tremare il Vaticano e ora si tira via a dozzine, avendo dato nella più assoluta impunità l'esempio di una campagna elettorale modernamente fascista, in cui una delle parti parla a milioni di persone dalla televisione e l'altra può fare al massimo le scritte sui muri. Berlusconi, in un anno e mezzo, ha insegnato agl'italiani come si prende a calci la democrazia; ma in quest'ultimo mese, ha insegnato loro anche come ci si sghignazza sopra. E' un insegnamento, ne siamo certi, che difficilmente andrà perduto. "Turatevi il naso e votate Dc" consigliava il povero Montanelli, nel lontanissimo '76, ai suoi spaventati lettori. Per una divertente ironia della storia, sembra che da qui a qualche mese lo stesso consiglio dovremo darlo noi. Dopo il referendum infatti - e anche qui, tutto sommato, non importa moltissimo chi l'ha vinto e chi l'ha perso - ci toccherà prepararci allo scontro finale fra destra e sinistra. La destra, su posizioni democristiane, sarà guidata da un democristiano di destra che potrà essere un Buttiglione, un Mastella, un Cossiga o magari un Dini; la sinistra, su posizioni democristiane, sarà guidata da un democristiano di sinistra, Prodi. Nell'uno e nell'altro campo i "moderati" e i "centristi" (cioé, per come sono andate le cose negli ultimi cinquant'anni in Italia, i democristiani) saranno largamente prevalenti, tanto al centro quanto e soprattutto in periferia. Tutti gli altri, nei due schieramenti, cercheranno di stringersi nella folla per farsi notare il meno possibile, sotto pena di essere accusati di estremismo e, nel caso dei nostri, di essere di sinistra. Col che Pio La Torre, Turiddu Carnevale, Sandro Pertini, Berlinguer, cent'anni di movimento operaio, gli asili-nido di Reggio Emilia, il Sessantotto, don Milani, Bob Dylan, l'eguaglianza delle donne, Massimo Troisi sono tutti serviti: non sono mai esistiti o, se sono esistiti, sono stati"di sinistra", da vergognarsene dunque, magari da sorriderne con imbarazzo e compatimento come di vecchie gag di parenti svagati e un po' originali. "Please, what means it?" diremo fra qualche anno, da buoni progressisti italoamericani. Ma in Sicilia! La Sicilia, in questi dodici anni, aveva reinventato per tutti la democrazia. Non la democrazia sazia e un po' abbioccata del dopo cena, col telecomando in mano a saltare da un canale all'altro dei buoni sentimenti. La democrazia che ti fa rischiare la pelle, che ti fa guardare in faccia le cose, che ti fa scoprire cose del tutto nuove e sorprendenti nei tuoi vicini e compagni, e dentro di te. Democrazia di strada. "Il partito di Falcone e dei ragazzini" dicevamo orgogliosamente allora, e lo ripetiamo anche adesso, ora che è più difficile farsi ascoltare. Falcone e Borsellino nel palazzo, a studiare le carte - a giocarsi la pelle - per dare colpi ai mafiosi; i giovani cittadini nelle piazze, a vivere collettivamente la propria vita, a battersi da uomini liberi, a prendersi i propri carichi per il bene comune, senza false modestie e senza politicuzze e piccinerie. Che bellissima classe dirigente sarebbe stata, se le aveste lasciato spazio per crescere, quella dei ragazzi palermitani e catanesi degli anni Ottanta! E quanto avrebbero potuto fare per la Sicilia, quanto avrebbero potuto costruire e insegnare, quanto avrebbero potuto fare intravvedere a tutto il resto della nazione! Ma così non è stato. I giovani dell'antimafia popolare li avete messi da parte, o rigettati con una manata sul petto, o risucchiati in un ufficio e integrati. Quelli che avevate titolo per esser loro maestri, che essi avevano scelto come loro guide, avete preferito lasciarvi cooptare nel gioco "realistico" della politica ufficiale. D'accordo. E' andata così. E' ormai un paese povero, il nostro paese. Un paese in cui il primo bischero si alza una mattina e fonda parlamenti, in cui i vecchi politicanti radicali vanno in giro ad offrirsi ogni mattina al migliore offerente, in cui un personaggio di Totò come Berlusconi diventa, sia pure per una stagione, duce e guida degli'italiani, e un altro personaggio di Totò come Dini riesce ad essere contemporaneamente presidente in atto delle sinistre e presidente in pectore delle destre. Come sarebbe stato divertente tutto questo, se fosse stato un film. E va bene. Appoggeremo Prodi, se ci tocca - da buoni cittadini, nemici del fascismo e di Berlusconi - ma con malinconia. Non perché Prodi sia peggio degli altri, o perché siano peggiori i suoi seguaci, ma semplicemente perché avremmo voluto appoggiare i nostri, quelli del nostro partito. Quale partito? Il solito. Guardate, in questo numero del giornale, nell'inserto: quello che parla dei preti e volontari di quartiere, dei sindaci che confiscano i soldi dei mafiosi e dei ragazzi dello Zen. Anche se non si direbbe, è un inserto di propaganda politica, di un partito che non ha bisogno - per esserci - di essere un partito e che tuttavia, ogni tre o quattro generazioni nella storia d'Italia, viene avanti improvviso senza bandiere e in una maniera o nell'altra dice la sua. Prodi o non Prodi, quest'estate, per quanto ci riguarda, noi lavoreremo con quei preti, quei sindaci, quei volontari e quei ragazzini - per rafforzare ed estendere questo "partito", con subito un obiettivo ben preciso: censire le proprietà e le ricchezze confiscate ai boss mafiosi e studiare come possono essere utilizzate, e da chi, per creare nuovi posti di lavoro e nuove strutture sociali. Aspettiamo segnalazioni e proposte da tutta la Sicilia: associazioni, volontari, singoli antimafiosi. Vi terremo al corrente. "Compagni, avanti il gran partito...". MEZZESTATE DI FUOCO I Siciliani, luglio 1995 Nella graduatoria dei popoli di serie B, noi siciliani siamo appena un po' sopra i polinesiani. A loro nessuno ha chiesto il permesso per fargli scoppiare una bomba atomica su un'isola. A noi nessuno ha chiesto il permesso di mettere una batteria di bombe atomiche - a Comiso, ricordate?, una quindicina d'anni fa - installate su missili e pronte per partire. Diciamo a Comiso e diciamo quindici anni fa, ma la verità è che nessuno può escludere che degli ordigni nucleari siano tuttora presenti, in questo preciso momento, nella base americana di Sigonella a cinque chilometri dalla periferia di Catania. Quel che accade a Mururoa, da un punto di vista politico, è una berlusconata: il governo Chirac deve dar conto alla destra del suo elettorato, e "quindi" deve tirar fuori uno spot pubblicitario per dimostrare di essere, agli occhi dei fascisti, più fascista di Le Pen. Da un punto di vista più profondo, è terrificante: un qualunque governo dei nostri tempi, né migliore né peggiore degli altri ed anzi relativamente più civile (in Francia non c'è mai stato un mafioso presidente del Consiglio) non esita un attimo a mettere in pericolo d'inquinamento radioattivo un pianeta pur di guadagnare qualche migliaio di voti alle prossime elezioni. E chi ci dice che domani il deputato Smith dell'Arkansas, per vincere le elezioni contro il suo rivale Jones del Nevada, non ordini di lasciar andare un paio di missili nucleari di quelli gentilmente lasciati in deposito da noi? Accà nisciuno è fesso. Piena solidarietà con GreenPeace che giustamente difende l'isola di Mururoa (per il mese di agosto, niente normale Siciliani: saremo in edicola con una roba dedicata per l'appunto a GreenPeace e a come dargli una mano), ma piena solidarietà anche con la pelle nostra di noi. Chiediamo al nostro governo di farsi spiegare ufficialmente dagli amici americani (eventualmente, se serve interprete, tenendo per un altro po' Andreotti fuori dalla galera) cos'è questa storia delle testate atomiche in Sicilia: se ci sono davvero, a che servono e chi lo decide, e perché - in ogni caso - proprio qua da noi. LA MEMORIA I Siciliani, agosto 1995 In Cecenia, probabilmente, i comunisti erano biechi tiranni e gli anticomunisti gentiluomini liberali di civile cultura. In Sicilia, invece, i comunisti si chiamavano Pio La Torre e gli anticomunisti Salvo Lima. Se Veltroni fosse stato Veltronoff e avesse rilasciato le sue dichiarazioni ("io sono anticomunista") a Tiblisi, non ci sarebbe stato niente di male. Ma Veltroni è Veltroni, e nonostante tutto sta in Italia. E l'Italia è il paese in cui i comunisti - tirandola a grandi linee - sono stati, assieme ai marescialli dei carabinieri, a una ventina di preti poveri e a qualche centinaio d'intellettuali, l'unica componente della nazione civile, pulita e a dirla in una parola occidentale. Ogni tanto, naturalmente, arrivava qualche comunista importante - un Michelangelo Russo, un Macaluso, un Turci - e diceva che bisognava allearsi coi baroni (in nome del milazzismo) oppure cogli andreottiani (per via della solidarietà nazionale) oppure con le imprese di Costanzo e Rendo (perché non si può fare l'esame del sangue all'economia siciliana). Così molte buone battaglie si sono perse. Ma ormai lasciamo perdere: è passato tanto tempo da allora... Parliamo - in realtà - di comunisti solo perché, per una serie di circostanze, in questo paese le persone perbene hanno finito in maggioranza, per molti anni, col chiamarsi così. Ma avrebbero potuto chiamarsi in qualsiasi altro modo, laburisti, plebei, citoyens, democratici, sarebbe stato lo stesso. A un certo punto sarebbe arrivato qualcuno coglionazzo o barone - e gli avrebbe detto: "Cittadini (o comunisti, o plebei, o quel che cavolo siete stati fino ad ora)! Basta con tutta questa diversità, basta con 'sta storia di volervi ricordare a tutti i costi chi furono i vostri padri e le vostre madri. Basta con essere voi stessi. Ricominciamo daccapo. Che ci frega? Ammazziamo la storia, riportiamo la memoria a zero, e può essere che così diventiamo signori anche noi". Ecco, il punto è questo. Non si tratta della memoria storica - che pure sarebbe importante - di questo o quel partito, di questa o quella storia di esseri umani. Si tratta dello spirito con cui, passate tante tempeste e di fronte a tanti problemi, si vuole finalmente por mano alla ricostruzione del paese. Del futuro, insomma, non del passato. Fino a questo momento, gli esiti di questa ricostruzione hanno dato più che altro nel ridicolo. Il libero mercato si è tradotto nell'arrangiamento dei debiti di Berlusconi. La democrazia liberale nel rinnegamento dell'ideale antifascista e nell'esaltazione dei Previti e dei Fini. Il nuovo modo di far politica, nella persecuzione dei magistrati. La partecipazione dei cittadini alla vita democratica, già scarsa prima, è ancor più povera e rozza oggi. Il ceto politico "rinnovato" risulta altrettanto parassita, altrettanto insolente e un po' più maleducato di quello di prima. Dov'è il cambiamento? La colpa non è dei politici, che sono nella loro espressione media un portato della nazione. La colpa è, storicamente parlando, del cittadino italiano. Privato d'una cultura civile di base, staccato improvvisamente (aveva ragione Pasolini) dalle sue radici nazionali e regionali, sottoposto a un bombardamento di valori sempre più subalterni e sempre più artificiali, il cittadino medio è sempre meno cittadino e sempre più spettatore. Ci si riferisce a lui, oramai, solo usando i termini rigorosamente ideologici, "l'audience" e "la gente". Se il pool Mani Pulite rischia di finire in galera al posto dei ladri, la colpa non è dei politici, ma della massa dei cittadini. Nella città più europea e moderna d'Italia, Mani Pulite non ha ricevuto da parte della popolazione alcuna solidarietà sostanziale. La "gente" ha seguito la "rivoluzione" con furba indifferenza, scendendo al massimo in piazza - o più frequentemente nei sondaggi - con qualche inoffensivo e generico "a morte!" e "viva!". "In galera!" e "Terroni!" è l'imprinting che la metà più avanzata d'Italia ha dato al "rinnovamento". I risultati, si vedono ora. Per chi ha conosciuto l'altissimo livello civile e la toccante umanità di quella stessa Italia negli anni Sessanta e Settanta - Milano di Franco Fortini, ma anche degli operai di Sesto; Torino di Giulio Einaudi e del Sessantotto, Genova degli scaricatori di porto e dei cantautori - l'amarezza non potrebbe essere maggiore. Ci sono delle radici molto profonde, in Italia, su cui si poteva puntare per ricostruire. Avrebbe avuto molto da dire, la sinistra - una qualunque sinistra - per risvegliare il paese. Si è preferito andare alle politichette dozzinali, ai piccoli compromessi coi Berlusconi, alle battutine furbesche come quella di Veltroni. Roba che vorrebbe essere rassicurante ma che invece fa paura. Una sola cosa volevamo sapere dalla sinistra al termine degli anni di Andreotti, su una sola cosa volevamo una risposta forte e chiara: "Vi rimettereste d'accordo con Andreotti, se altri Andreotti tornassero, oppure avete appreso la lezione?". La risposta è stata il giro di valzer con Berlusconi, all'ultimo convegno del Pds. Al solito - e certo in buonafede per nobili e logici motivi. I magistrati che esagerano, niente scontri frontali, l'accordo sulle regole... Va bene. Ma anche l'intesa con Andreotti, ai tempi suoi, aveva giustificazioni non meno valide di queste. E ha finito per distruggere il paese. Nell'accordo e nella pacificazione generale, noi non ci crediamo. Non per preconcetto estremismo, per "ideologia". Ma perché ricordiamo ancora il passato, e quindi prevediamo il futuro. Se la sinistra avesse combattuto Andreotti, non sarebbe stata travolta dal crollo del regime andreottiano. Ma per combattere Andreotti bisognava credere profondamente nella propria storia e nei propri valori. Bisognava sostenere - e non sacrificare all'intesa generale - coloro che per questi valori combattevano in prima linea, fra le forze di base. Bisognava sostenere gli Alfredo Galasso (e, tanto per dire, I Siciliani) e non i Michelangelo Russo. Senno di poi. Facile profetizzare adesso che, fra le tante situazioni di base che saranno abbandonate a se stesse per correr dietro agli accordi "responsabili" e "moderati" ci saranno, oggi come allora, I Siciliani. Per noi, poco male: ci siamo abituati. Ma per la sinistra? Ricordiamo ancora i dibattiti, a metà degli anni Ottanta, sull'informazione in Sicilia: dopo dieci anni. I padroni dei giornali e delle tv sono sempre gli stessi, noialtri siamo sempre qui a tenere il fronte con le nostre forze sole, e la sinistra perbene sta sempre lì ad organizzare meravigliosi dibattiti che non fan paura a nessuno. Allora, eravamo "estremisti" perché dicevamo che non si possono fare accordi con i Cavalieri. Adesso, suppongo, saremo "estremisti" perché diciamo che non si può dialogare col sistema di potere di Berlusconi. Noi restiamo fedeli alla nostra storia, che è la storia della Sicilia negli anni dell'antimafia popolare. E alla nostra esperienza, che è quella di un giornalismo di notizie e non di spettacolo, basato sulla fiducia dei lettori e non sulle fiammate dell'audience. Utopia? Sano realismo. Non sono mai mancati, in quindici anni, i giovani che, generazione dopo generazione, son venuti nei momenti più difficili a far vivere I Siciliani. In quindici anni, abbiamo pur costruito la nostra rete di giovani e coraggiosi giornalisti e militanti, in ogni parte d'Italia, che non si sarebbero rivelati a se stessi senza l'"utopia" dei Siciliani. Povero di denari e di potere, il nostro complessivo bilancio - dopo tanti anni - è abbondantemente positivo: molte cose, nel nostro piccolo, sono state costruite, molti esseri umani sono cresciuti insieme a noi. Se lo spirito di questa "utopia" fosse stato ripreso da altri più importanti di noi, oggi forse la sinistra italiana non si troverebbe a dover scegliere il minor male fra Dini e Berlusconi, fra Pippo Baudo ed Emilio Fede. BOSNIA, MURUROA I Siciliani, agosto 1995 Ferragosto, tutto normale. La giornata più normale dell'anno. Cosa può fare un piccolo giornale come il nostro per non essere "normale"? Perché noi ci vergogniamo, di questa normalità. Normale sarebbe stato andarcene in vacanza come tutti. Oppure fare il solito giornale "normale", con le normali critiche a Berlusconi e compagni - anche questa, alla fin dei conti, una "normalità". Ma quest'estate non è normale affatto. A pochi chilometri dalle nostre spiagge, gli uomini della Jugoslavia combattono una guerra di razza contro le donne e i bambini jugoslavi. Vincono i serbi e massacrano le donne e i bambini croati. Vincono i croati, e massacrano le donne e i bambini serbi. Dall'altro lato del mondo - ma gli effetti si sentiranno anche qui - stanno facendo scoppiare una bomba atomica "sperimentale" per combattere un nemico che da molti anni non c'è più. Sono cose importanti, e difatti le leggete sui giornali "normali": fra una dichiarazione di Dini e una foto di Serena Grandi. Professionalmente. Senza rompere il filo della normalità. Greenpeace è quattro gatti in barca a vela che vanno a rompere le scatole ai marines della Bomba: non serve a niente, però lo fanno. I Beati costruttori di pace sono quelli che da anni vanno in Jugoslavia disarmati, non hanno alcun potere, danno un esempio; non serve a niente, però lo fanno. PeaceLink e La Città Invisibile (le associazioni telematiche "popolari" ) non hanno certo i soldi di Microsoft o di Berlusconi, sono solo alcune centinaia di amici con dei computer in rete, eppure da anni mettono in giro notizie e dati che altrimenti sarebbero rimasti tagliati fuori dall'informazione ufficiale: non serve a niente. Però lo fanno. Pensate: il Corriere e la Stampa, Panorama e l'Espresso, l'Unità e la Repubblica che per una volta rinunciano a uscire "normalmente" e si dedicano completamente a dare una mano a Greenpeace, a PeaceLink, alla Città Invisibile, ai Beati costruttori di pace, ai quattro matti isolati di quest'estate "normale". Forse servirebbe a qualcosa, forse non servirebbe a niente. Ma tanto, non lo fanno. Infine: tutto questo non deve restare solo teoria. Con I Siciliani o senza Siciliani, tu che leggi hai l'obbligo morale di "fare qualcosa" (Il fatto stesso di avere la possibilità e il diritto di leggere, di partecipare a un circuito, di avere un interlocutore collettivo, è già di per sé un privilegio). Non puoi dire "io non c'ero". Ma fare cosa? Informarsi, conoscere, fare informare gli altri, far sapere. Almeno questo. Far circolare le voci di coloro che da soli non ce la fanno. Pubblicare, come facciamo oggi, le note tecniche di PeaceLink e della Città Invisibile dal nostro punto di vista serve esattamente a questo: metterti personalmente in condizione, se puoi disporre di un computer, di partecipare a questo laoro anche tu. Imparare a usare questi strumenti, e usarli con uno scopo ben preciso: partecipare al circuito mondiale dell'informazione e della solidarietà. Un circuito "povero", senza grandi concentramenti di mezzi e tuttavia efficacissimo in certi momenti. La rivoluzione, diceva un tale di quei tempi, è il comitato dei contadini più portare la luce elettrica nel villaggio. La rivoluzione, oggigiorno, è la tua ripulsa morale - la tua ribellione - più i computer in rete. La solidarietà più le tecnologie. ANDREOTTI Liberazione, settembre 95 La lotta contro Andreotti e il suo potere non è stata, come credevamo allora, la crescita civile e la progressiva presa di coscienza di tutto intero un popolo, ma la battaglia di una combattiva minoranza "azionista" - a quei tempi si diceva giacobina - della società siciliana. Non perché fosse particolarmente diffusa, in Sicilia, una qualche forma specifica di "cultura mafiosa" (quella, se mai è esistita fuori dalla letteratura, è morta con la civiltà industriale), ma perché il dominio mafioso in Sicilia corrispondeva perfettamente alle esigenze profonde - ordine, illegalismo, pace sociale, mantenimento dei piccoli e grandi privilegi, parassitismo sociale - della borghesia siciliana. Nel complesso d'Italia, identiche esigenze erano soddisfatte con meccanismi analoghi, ma con un meno frequente ricorso all'uso dell'omicidio. Fino alla fine degli anni Settanta, il potere mafioso è stato semplicemente la variante meridionale dell'andreottismo, subalterna sia ai poteri politici de jure (la democrazia cristiana) che a quelli de facto (l'ambasciata americana e le massonerie). Il periodo andreottiano, con la sua sub-variante mafiosa, è terminato in un periodo imprecisato verso la fine dei Settanta, quando si sono verificate in rapida successione le seguenti evenienze, del tutto - benché in fondo logiche - inaspettate: il cambio di velocità della politica americana nel Mediterraneo (di lì a poco, Comiso); l'infiltrazione di personale specializzato nelle logge massoniche più potenti, e in ispecie nella P2, e la loro conseguente utilizzazione a fini non più clientelari ma terroristici; l'allevamento di tutta una nuova generazione di personale politico eterodiretto e la creazione artificiale di nuovi indirizzi politici (il Midas e il "nuovo corso" del partito socialista: ogni resistenza al quale venne stroncata dal rapimento del figlio del vecchio leader De Martino); e infine, nel campo della mafia, l'eliminazione dei vecchi "uomini di rispetto" e la crescita di nuovi boss legati non più solo ai politici ma anche ai servizi segreti. Sono gli anni in cui - per fare un esempio significativo - a Catania emergono improvvisamente, da un momento all'altro e senza alcun radicamento apparente, politici come Andò (commissione P2, servizi segreti, partito socialista), mafiosi come Santapaola (personaggio minore di un clan periferico), imprenditori come Graci o Rendo (appalti pubblici, velocissime accumulazioni) e diventano rapidissimamente e del tutto inspiegabilmente protagonisti di rilievo nazionale. Sono gli anni di svolta, e Andreotti comincia a decadere già da allora (sarà utile ancora, sul piano internazionale, come garante dello schieramento filoamericano dell'Italia; ma anche quest'ultima utilità verrà a mancare, ovviamente, alla fine della guerra con l'Unione Sovietica. Attualmente, Andreotti non serve a nessuno; ma è servito a tanti che sarà ben difficile processarlo in pace). *** Sono anche anni di lotta: man mano che diventa - che è obbligato a diventare - più feroce, il potere mafioso incontra un'opposizione popolare crescente. Cose che prima erano vissute come "normali" incontrano improvvisamente una resistenza inaspettata. Il popolo siciliano - allora non eravamo ancora "la gente" - diffidente, passivo, abituato da millenni a farsi i fatti suoi, scopre con meraviglia alcune bellezze civili e, timidamente, vi mette mano. Una scoperta del vivere, a ripensarla ora, adolescenziale. E' una scoperta costosissima, perché ogni passo fuor della gabbia costa sangue. Ma per alcuni anni, con timidezza ed entusiasmo, i neo-cittadini siciliani vanno avanti. "Sicilia quanta gloria/ E chiantu e cori ruttu/ La mafia e li parrini/ t'hanno vistuta a luttu...". Da Eboli in su, solidarizzano alla televisione. Dell'antimafia a Catania oggi nel '95 è rimasto questo, che i ragazzini pagano il biglietto salendo sull'autobus; mi cedono il posto vedendomi zoppicante e col bastone, si alzano sorridenti e gentili. A volte penso che già per questo valeva la pena. Abbiamo vinto, contro Andreotti abbiamo vinto noi. Sono passati gli anni, e dopo Andreotti hanno votato Berlusconi. A Palermo, non Caponetto, ma un figuro come Lo Porto. A Catania, Benito Paolone e Zeffirelli (come dire, er Pecora e Wanda Osiris). Dopo i Borboni i Savoia, altro che Garibaldi. E d'altra perché usare Totò Riina, quando basta Ambra? Una televisione vale mille lupare. Ordine, illegalismo, pace sociale, mantenimento dei piccoli e grandi privilegi, parassitismo sociale: tutto ok. Non c'è più bisogno di sparare. Venga Franza, venga Spagna... D'altra parte, con Fini al festival dell'Unità, con Dini se non sai se fra sei mesi te lo ritroverai come ministro delle finanze della sinistra o primo ministro di Berlusconi, cosa gli rispondi nel millenovecentonovantacinque alla mamma che ti dice "ma chi te lo fa fare"?. Una cosa di cui non c'eravamo pienamente accorti allora, o meglio ce n'eravamo accorti ma non nelle budella, non fino in fondo, è questa: che uomini son venuti fuori da questa Catania e Palermo, da questo popolo gramo, da questa Sicilia. Io non mi ero mai accorto, in realtà, di avere conosciuto Borsellino. Avevo conosciuto un buon giudice, io che facevo il giornalista, in un posto che si rischiava la pelle; tutto qua. O Calogero Zucchetto, o Montana, o Cassarà. Storie di quotidiano lavoro, persone che s'incontrano, routine; cerimonie di Stato, quando tutto - alla fine - era concluso. Invece, erano eroi greci. Non roba da monumento, non da telegiornale: da poeti. "Voi che siete caduti per l'Ellade...". "Se passi per la mia città, straniero, dìgli che noi siamo caduti qui, obbedienti alle leggi...". "Mio figlio, Robertino Antiochia, che faceva il poliziotto a Palermo...". Da una distanza infinita, da un'epoca in cui non ci sono più samarcande né meschini ma solo un grandissimo silenzio e il vento che passa lieve e il mare e il cielo. *** Eppure, una carta c'era da giocare, in quegli anni, una carta che avrebbe potuto - forse - cambiare tutto. C'era una minoranza, abbiamo detto, una minoranza giacobina. Ma era una minoranza giovane, anche anagraficamente. Per due o tre anni, e forse per quattro, una parte non indifferente della gioventù siciliana è stata politicamente schierata. Politicamente in senso serio, non chiacchiere ma antimafia, democrazia reale, cambiare la vita quotidiana, lotta. Questi giovani hanno trovato dei capi, delle figure carismatiche, non degli organizzatori e dei maestri. Dei Prampolini, dei Pancho Villa, dei Bakunin, dei fratelli Bandiera. Non dei Gramsci, non dei Gobetti. Se... Ma la storia non si fa coi "se". Essi erano, in realtà, la nuova classe dirigente del Paese. Non guardateli come sono ora, emarginati o integrati o incattiviti o delusi. Ricordateli com'erano allora. Avevano tutto per esserlo, avrebbero cambiato tutto. La vecchia sinistra non li comprese - era troppo occupata a flirtare con Andreotti o con Martelli. La nuova non ebbe il tempo - era troppo occupata a litigarsi le candidature, in nome della nuova politica, a questa o quell'elezione. E' andata così.. UN PROCESSO Avvenimenti, ottobre 1995 Il due ottobre è cominciato a Catania il processo per l'assassinio di Giuseppe Fava ed era un pomeriggio qualunque, col bianco e il rosso e il verde dei giurati e un giudice di mezz'età che leggeva "In nome del Popolo Italiano...". Hanno letto i preliminari, i nostri avvocati hanno fatto brevemente una dichiarazione, c'è stato un parlottìo fra i magistrati e l'udienza è stata rinviata, secondo procedura, alla successiva riunione. Siamo usciti dall'aula, che è chiusa in un palazzo alla periferia di Catania aula-bunker, la chiamano - e siamo usciti nel sole. "Fa caldo" dice qualcuno. "E dire che siamo a ottobre". "E' vero, ma qui a Catania...". Oltre il reticolato si vedono le stoppie e i sassi della periferia, una lucertola per un attimo fa capolino sul muretto. Tutto qua. Un giorno qualunque di dieci anni dopo. In nome del Popolo Italiano... Ci son voluti dieci anni. Il vecchio dei nostri avvocati, oggi al processo, era Alfredo Galasso e io me lo ricordo quando venne al giornale, da solo, molti anni fa. La redazione era vuota - c'era la manifestazione contro la mafia, in piazza, la prima manifestazione antimafia della città - ed egli girava fra le scrivanie vuote, non dicendo niente. Si fermò davanti all'ultima, uguale a tutte le altre ma con un vasetto di fiori gialli, quelli che portava Graziella ogni mattina. E adesso è qua, con l'aria grave e tecnica dell'avvocato, lo vedo dall'alto e di spalle mentre indica qualcosa su un foglio di carta a un collega. Nella tribuna del pubblico c'è Gianfranco Faillaci, non essendoci mai stati i soldi dopo nove anni di redazione - per fargli il tesserino di professionista non può entrare in tribuna stampa. Ne sa assai più di me, di procedura, ogni tanto gli chiedo un dettaglio tecnico (io ormai di giudiziaria non so più niente) e lui risponde. Sotto la tribuna del pubblico ci sono le gabbie dei mafiosi, Santapaola sta nella prima e tutti gli altri nelle altre. Non mi fanno nessuna pietà. Un loro avvocato sta spiegando loro qualcosa, fa ampi gesti con le mani tenendosi prudentemente a un metro di distanza dalle sbarre,. Essi gli rispondono urlando. Faillaci venne con altri due liceali, dieci anni fa in redazione, era bravo in greco, quando si laureò fece una bella tesi su un illuminista calabrese del Settecento, morto povero naturalmente. E adesso è qua. Strano come tutto questo sembri normale, adesso che è normale. Rosalba, in questo momento, è in giro da qualche parte a fare rilevazioni statistiche, che è il suo lavoro. Antonellina è a Milano, una delle migliori croniste di Radio Popolare. Piero starà dormendo, perché ha il turno di notte in tipografia. Antonio sta a Napoli, fa l'educatore in un carcere minorile. Rosario è in un giornale di Cosenza, Elena fa la professoressa in un paesino della provincia, Miki è diventato uno dei migliori reporter italiani, Nanni adesso ha un figlio di vent'anni. E Nuccio, e Lillo, e il vecchio Garilli, e il professore D'Urso, e Cettina e la signora Roccuzzo e Aurora... Vorrei avere lo spazio per scrivere tutti i nomi. Sono gente comune, I Siciliani, gente come voi e me. Non hanno nulla di straordinario, se l'incontri per strada, a nessuno è venuto mai in mente di chiedergli un'opinione o di fargli interviste in tv. Eppure questa guerra l'hanno vinta loro. Un centinaio di esseri umani, senza nulla di particolarmente strano, che a un certo punto si sono messi insieme e hanno fatto la guerra a Santapaola, ai Quattro Cavalieri, al giornale di Ciancio, ai capibanda di Andreotti: volevano bene a un loro amico ch'era morto e avevano dignità. Ho fatto molte analisi politiche, in tutti questi anni, per capire il meccanismo della faccenda, per capire cosa si potesse cavarne che potesse funzionare anche in altri momenti e in altri luoghi, ma la sostanza è questa: avevano dignità. Quando leggete i giornali per bene, quando vedete il Costanzo Show, pensate che la lotta alla mafia c'è chi l'ha fatta davvero, da partigiani, senza chiedere niente: ed è per gente così che alla fine Andreotti è finito dov'è finito. *** Il tre ottobre, a Catania, è cominciata la causa fallimentare per gli amministratori della cooperativa Radar, quella che stampava I Siciliani di Giuseppe Fava. Adesso dicono tutti che era uno dei più bei magazine di quei tempi. E capirai. Ma se vai a vedere la collezione non trovi l'amaro Averna, non trovi i cantieri Rodriguez, non trovi un rigo di pubblicità. Facevamo uno dei più bei giornali d'Italia, sicuramente il migliore della Sicilia, vendevamo più di ogni altro magazine meridionale, eppure non c'era un industriale siciliano disposto a metterci una lira di pubblicità. Il Banco di Sicilia, che allora era in mano - praticamente - degli amici dei mafiosi, faceva pubblicità sui giornali di Mantova, ma non sul nostro. Uniche eccezioni, il signor Timpanaro che aveva un albergo sull'Etna ed era amico del direttore, e qualche comune diprovincia, dotato di amministratori particolarmente coraggiosi, che venivano contattati con mille salamelecchi dalla nostra Nanni, e poi il direttore andava da loro a cercare di concludere l'affare. Anche il giorno che l'hanno ammazzato, era stato in uno di questi paesini a contrattare un po' di pubblicità e forse era andata bene e ne era contento. Così abbiamo combattuto la mafia per dieci anni, con Gianfranco e gli altri che davano gratis gli anni migliori della loro vita e con i signori Averna, Rodriguez e tutti i loro colleghi "imprenditori" siciliani che stavano vigliaccamente alla finestra a guardare mentre essi rischiavano la pelle anche per loro. Nominammo amministratrice la Graziella, dandole la cassa - vuota - della cooperativa e comandandole di fare uscire il giornale ad ogni costo, perché non c'era tempo da perdere e le inchieste contro la mafia dovevano andare avanti. E adesso eccola qui, la Graziella, alla sezione civile del tribunale. S'è impegnata la casa, s'è giocata tutto, ma il giornale è uscito, e Santapaola ora è lì. Ci sono stati ragazzi nostri, non solo della redazione "adulta" ma proprio di SicilianiGiovani, che era fatto di diciottenni e di ventenni, che per portare avanti il giornale hanno firmato cambiali con la Lega delle Cooperative e la Lega per riavere - giustamente - i suoi soldi gli ha mandato l'ufficiale giudiziario e gli ha sequestrato tutto quel che gli poteva sequestrare; due di loro, che si chiamano Edoardo e Carmen, hanno dovuto rimandare il matrimonio - a ventun anni - perché cinque o sei milioni, tutti i loro risparmi, sono finiti così. E non si sono mai lamentati, e se li incontri ora ti dicono che sono orgogliosi di aver servito nei Siciliani. La Lega delle Cooperative, in quegli stessi anni, faceva buoni affari - affari legalissimi d'altronde - con i Cavalieri. Io credo che questa storia non debba finire così. IL POTERE IN SICILIA Avvenimenti, novembre 1995 Troppo piccola per non essere invasa, troppo grande per essere governata militarmente: la Sicilia, più che una storia, ha sempre avuto piuttosto una geografia. Le élites siciliane si sono trovate automaticamente, grazie ad essa, nella posizione di interlocutori privilegiati ed automatici di ogni dominatore "esterno". Dai Reyes Catolicos ai politici dell'era andreottiana, ogni potere siciliano (il cui baricentro non risiede mai in Sicilia) s'è trovato nella situazione di dover appaltare quasi tutte le funzioni interne (ordine pubblico, giustizia, ricerca del consenso) alle élites preesistenti: baronìe e cosche mafiose, da questo punto di vista, hanno adempiuto esattamente alla medesima funzione. In cambio, acquiescenza assoluta sulla politica "alta" e rinuncia implicita a farsi portavoce d'interessi locali. Insieme con l'incidente storico dell'Apostolica Legazia (una specie di gallicanesimo ante litteram ereditato dai Normanni: e cioè, in buona sostanza, l'eliminazione dei contrappesi ecclesiastici al potere) questa situazione ha determinato le peculiarità ideologiche - quanto alle élites: diversissimo è il discorso per le culture popolari - degli intellettuali siciliani. Castrata in partenza, salvo casi estremi (ed "estremisti": Di Blasi, Fava, Pintacuda) la funzione di controllo sul potere, mai vissuta di conseguenza la fase nazional-popolare, incanalata la ricerca esclusivamente sui livelli formali, cosa resta alla fine? Sciascia e Meli. Fronda dall'interno dei valori ufficiali, Parigi più vicina di Caltanissetta, scrittura come forma - elegante di potere. Arcades ambo. (Non a caso, parlando di élites di potere in Sicilia, torna sempre più facile parlare d'intellettuali). LETTERA A UN SINDACALISTA 1995 Caro G., mi scuso per il ritardo, ma le mie condizioni di salute in questio periodo non sono state delle migliori. Dovete stabilire voi la data del convegno: o subito prima, o subito dopo il referendum. Nel primo caso, conclusione della campagna referendaria, ma conclusione forte, dal Sud, con due o tre storie esemplari di scontro e di ricostruzione. Nel secondo caso, il convegno potrebbe essere il primo atto politico propositivo dopo la vittoria nel referendum: "E adesso che abbiamo vinto, ecco che cosa faremo nel settore dell'informazione". Anche qui, il fatto di parlare dal Sud implica una maggior radicalità e densità dei contenuti o perlomeno pone in sottordine i filoni più salottieri della nostra gioiosa macchina da guerra. (E se perdiamo? In questo caso, per quanto ci riguarda, il repertorio è ben noto: lacrime e sangue, niente scoraggiamenti, restare organizzati, non mollare). I temi del convegno: naturalmente, tocca a voi fare delle proposte complessive. Da parte mia, vedrei alcuni punti che sono locali, ma che rappresentano in forma estremamente concreta e precisa le questioni fondamentali che abbiamo di fronte - quanto all'informazione - sul piano nazionale. 1) Il caso Ciancio. Ciancio è un editore siciliano, vicino ai cavalieri e non nemico della mafia, che per lunghi anni ha convissuto con altri editori di provincia, in un sistema reciprocamente bilanciato e tutto sommato periferico rispetto ai grandi imperi editoriali. La novità di quest'anno è che Ciancio ha praticamente ingoiato gli altri, dando luogo a un monopolio di fatto, e soprattutto che l'ha fatto giocando abilmente sui rapporti coi grandi gruppi nazionali: appoggio politico - ma con prucenza - a Berlusconi, accordi commerciali con Pubblikompass. Questa storia ha dei connotati specifici "mafiosi", ma a questo punto non sono essi l'aspetto centrale: più preoccupante è la "modernità" ed esemplarità dell'operazione, che per le modalità con cui viene portata avanti è perfettamente compatibile tanto con un quadro di destra quanto con uno di centrosinistra. Ciancio è l'editore di domani, molto più di Berlusconi. 2) Repressione. I giornalisti licenziati o emarginati al Sud hanno diritto a una conferenza stampa qualche giorno dopo il licenziamento, a un articolo sul Manifesto e se sono molto fortunati a una presa di posizione del sindacato (nazionale, perché quelli regionali esistono poco). Il caso di Finocchiaro, qui a Catania, è esemplare. Finocchiaro, in un certo senso, è un privilegiato perché e stato licenziato da professionista: ma in altri casi la vittima è un "biondino" che, dopo anni e anni di lavoro, viene semplicemente cancellato dalla faccia della terra: senza nessuna possibilità di difesa, perché ufficialmente non esiste. 3) Sindacato. M'è venuto il ghiribizzo, qualche settimana fa, di vedere come si fa a presentare una lista alle elezioni locali. Non avevano nemmeno una copia dello statuto sindacale. A memoria di giornalista qui non sono mai state presentate liste contrapposte. Si vota alla bulgara, allora colleghi siamo d'accordo?, e l'unica possibilità di entrare negli organismi sindacali consiste nel contrattare un posto nel listone. 4) Mafia. Il collega rimproverato dal suo direttore davanti al boss mafioso, "La Sicilia" che letteralmente inventa false dichiarazioni per salvare Graci, ecc: anche qui, casi esemplari, che avrebbero dovuto dar luogo a grandi battaglie democratiche, e che invece hanno incontrato solo la reazione dei Siciliani. Bisogna che qualcuno venga a dare la sveglia al sindacato e all'Ordine locali. Da soli, non ce la facciamo. Ecco, questa potrebbe essere una buona base per cominciare. Poi ci sarebbero la questione del referendum - ma su questo non credo che ci sia bisogno di discussioni - e quella del Progetto Siciliani, che ci stiamo preparando a rilanciare. Ma di questo potremmo parlare di persona fra qualche giorno. LA RAGIONE Avvenimenti, giugno 1996 "...la raison tonne en son cratère..." Domenica 16, a Catania, è morto il professor Giuseppe D'Urso e questa è probabilmente l'unica pagina dell'unico giornale che lo ricordi. Tuttavia è un avvenimento storico: 16 giugno 1996, muore Giuseppe D'Urso che sconfisse i mafiosi E' stato il primo, in tutta Italia, a dire cos'era veramente la mafia dei nostri tempi. Non un'escrescenza criminale, non una patologia; ma il braccio armato, organizzato da molti anni su basi ben precise, di una parte consistente della classe dirigente siciliana e nazionale, quella inquadrata negli ultimi decenni - dalle massonerie deviate. Fu lui ad postulare per primo, e a descrivere con precisione, il legame organico fra mafie e massonerie, ad analizzarne le strutture, a denunciarne la strategia. Tutti gli altri, vennero dopo. E quando, faticosamente, il concetto di "massomafia" il termine da lui coniato nei primi anni Ottanta - divenne senso comune, allora e solo allora la lotta ai poteri mafiosi poté cominciare davvero. Andreotti, Licio Gelli, i cavalieri catanesi ebbero nel suo cervello il nemico più pericoloso. Ci fu maestro, a noi dei Siciliani. Nessun altro ebbe così pienamente questo onore; eccetto Giuseppe Fava. Nel 1982; prima ancora - anche qui, l'unico - dei Siciliani egli già denunciava pubblicamente i cavalieri catanesi, i magistrati al loro servizio, le servitù, gli affari. Era allora presidente dell'Istituto Nazionane di Urbanistica e di questa prestigiosa posizione si valse - oltre che per una notevole attività scientifica - per una documentatissima battaglia civile. Nel gennaio dell'84, dopo l'assassinio di Giuseppe Fava, raccolse l'appello dei giovani e si arruolò - non c'è altra parola - nei Siciliani. Da quel momento, la sua vita fu indissolubilmente legata alla nostra e la sua ragione e il suo cuore appartennero ai Siciliani. Nell'autunno del 1984 fondò l'Associazione I Siciliani, di cui fu il Presidente. Piccolo gruppo di militanti, l'Associazione si radicò rapidamente ed aquistò peso ed influenza; insieme col Coordinamento Antimafia di Palermo e col Centro Peppino Impastato, fu il primo esempio in assoluto di politica militante, nell'Italia degli anni Ottanta, fuori dei partiti. Oltre a D'Urso, l'Associazione poté contare su uomini come il sacerdote Giuseppe Resca, il magistrato Scidà, il professor Franco Cazzola, l'operaio Giampaolo Riatti ed altri ancora. Era la nuova classe dirigente, quella che avrebbe potuto davvero cambiare tutto; finché essa fu unita, non passarono i gattopardi. Nel 1990, il professore fu fra i ventiquattro fondatori della Rete, nata allora non come un partito ma come un movimento unitario di liberazione . Egli ne organizzò i primi passi dal letto in cui già era inchiodato, contribuendo come pochialtri alle sue prime vittorie. In seguito, le ambizioni personali vi presero - per sventura del Paese; come in tante altre occasioni - il sopravvento, e solo il coraggio individuale, che non fu mai tradito da alcun siciliano, sopravvisse agl'ideali con cui s'era partiti. Ma già allora, e non casualmente, egli ne era stato emarginato. Gli ultimi anni, di lunga malattia, furono una feroce vendetta della Fortuna invidiosa.Egli la sopportò virilmente, ragionando fino all'ultimo. Io ricordo una sera, quando una diagnosi dei medici gli dava poche settimane di vita. Mi avvertì pacatamente che non avrebbe potuto, non per sua colpa, far fronte ad alcuni impegni organizzativi predisposti. Me ne espose il motivo. Mi dette cortesemente alcune istruzioni per continuare in sua assenza. Il resto della serata fu speso in una conversazione su alcuni punti controversi del pensiero di Benedetto Croce. *** "Addio, compagno! Per buon tempo hai combattuto, e con onore/ Per la libertà del popolo..." dice un antico canto rivoluzionario. Giuseppe D'Urso, ingegnere, pensatore illuminista e militante del popolo siciliano, ha combattuto come pochissimi altri per il bene comune. La sua vita è stata utile, il suo pensiero fraterno; non ha sprecato un attimo della sua forte intelligenza; ha vissuto. I suoi figli possono essere orgogliosi di lui, e orgoglioso chi gli fu amico. Quando sarete liberi, voi della Sicilia e di tutt'Italia, quando sarete dei cittadini, allora - e solo allora - portategli un fiore. UNA PREFAZIONE luglio 1996 Questa in realtà è la seconda edizione delle fiabe di Antonella Consoli. La prima, di alcuni anni fa, consta di venti esemplari fotocopiati - Edizioni "du Chocolait au lait", Catania - dopo essere stati battuti a macchina con la vecchia Lettera 32 della redazione dei "Siciliani" (le prime quattro fiabe) o con una Underwood di proprietà privata (le successive). La Lettera 32 stava allora nella redazione di Corso delle Province e a parte le fiabe serviva per scrivere robe sulla mafia. La Underwood stava sul tavolo nella stanza grande della casa al quartiere Cibali, sempre a Catania. La stanza dove di norma si scriveva era assai luminosa e aveva un balcone sulla strada. Una volta il balcone fiorì improvvisamente di fiori porpora, molto belli; chiaramente - da un punto di vista botanico - delle erbacce, ma tuttavia dei bei fiori. La vicina disse loro che il nome dell'erbaccia era "fior di miseria", ed essi risero molto. In effetti c'era poco da mangiare, l'affitto si pagava di rado ed era abbastanza difficile anche comprare i giornali. Possedevano questa Underwood da cronisti, un radioregistratore portatile con un po' di cassette (Mozart, Malher e qualcun altro) e poi c'era - nel ricordo - molto sole. Essi erano là, sintetizzando estremamente la situazione, allo scopo di presidiare Catania nel quadro della Lotta alla Mafia. Questa, oltre loro, in quel momento poteva contare in città su un vecchio magistrato unanimemente considerato matto dai ben pensanti, su un altro matto specializzato in analisi dei poteri massomafiosi, su un paio di preti e su alcune ragazze e ragazzi. Nel resto d'Italia, a quel tempo, c'erano Andreotti e Craxi e gl'italiani e però, salvo rare eccezioni, fuor di quella e di qualche altra città non si sparava. Così, se uno volesse fare una storia particolarmente pignola, potrebbe anche dire che le Fiabe in realtà sono uno dei tanti frutti della Sicilia dell'antimafia; un samizdat, in un certo senso; un vivere per qualcosa, un costruire, nello stesso momento in cui si viveva contro. Ma queste probabilmente sono parole troppo importanti per una modesta edizione da venti copie. Bene, questo per quanto riguarda la prima edizione. Per completezza si può aggiungere che la stampa, e cioè la fotocopiatura di tutt'e venti gli esemplari, avvenne un paio d'anni dopo nella redazione - quattro stanze - di un giornale di sinistra romano che nasceva allora, e di cui queste venti fotocopie furono la prima gloriosa produzione editoriale. Traghetto, passseggiare per Torre Argentina, l'amica francese che Antonella trovò a Roma, e ancora gli anni... Ma questa è già un'altra storia. Per ora basta dire che c'è dell'altra roba nel cassetto. La Sicilia difatti, almeno in tempo di guerra, è un posto dove si vola molto alto. E Antonella Consoli, anche come scrittrice, è un pezzo di Sicilia. GIORNALISMO E TECNOLOGIE OG, ottobre 1996 Molti e molti anni fa il nostro direttore ci costrinse a fare un corso di computer - del tutto illegalmente: nel 1980 il contratto dei giornalisti non prevedeva affatto l'uso delle tastiere - e alle nostre rimostranze rispose: "Beh, può darsi che un giorno o l'altro vi venga voglia di farvi un giornale vostro...". E andò proprio così: quando il giornale in cui lavoravamo chiuse mettemmo in piedi una cooperativa e tirammo su un giornale nostro, che riuscì a sopravvivere per parecchi anni anche grazie al fatto che eravamo in grado di gestirci da noi le tecnologie. E questa è una delle due facce della medaglia. L'altra faccia è che oggigiorno, in un giornale qualunque, un ragazzo magari uscito da una scuola di giornalismo ma privo di ogni esperienza sul terreno è in grado, nel giro di sei mesi, di montare una pagina al desk: Internet, agenzie, un software d'impaginazione, un buon manuale di grafica, un minimo di media cultura. La maggior parte delle cose che servono per montare questa pagina, infatti, non sono più specifiche del mestiere, e l'editore lo sa. Il giornalista di una volta, magari politicamente qualunquista e non eccessivamente maturo sul piano sindacale, possedeva tuttavia un complesso di esperienze e cognizioni che lo rendevano praticamente insostituibile, e questo sul piano dei rapporti con l'editore aveva un suo peso. Allora la selezione nel nostro mestiere era durissima, ingiusta ma, a suo modo, efficiente: non sopravvivevano i migliori umanamente, ma almeno i più "giornalisti". Il giro degli ospedali, le venti righe di nera, la lotta darwiniana per dare la bucatura, sentirsi giornalista fino all'ultimo pelo... Le tecnologie consistevano in una Lettera 22, e il resto era tutto mestiere. Per lavorare a un giornale, a quei tempi, bisognava - e bastava - essere un giornalista. Il giornalista era colui che trova e scrive le notizie. Il giornale era il posto dove la gente le trovava. Tutte queste cose, negli ultimi cinque-sei anni, si sono trasformate radicalmente. Il giornale non è più il posto principale dove la gente trova le notizie. La stessa notizia è diventata qualcosa di molto diverso di prima, ed è diventata un complesso simultaneo di informazioni/emozioni che prima giungevano in tempi molto diversi, veicolate in parte dal giornalismo e in parte dalla letteratura. Da alcuni anni insomma - cinque, sei, forse otto anni - è stata inventata la televisione. Ma la televisione non risale agli anni Quaranta? Niente affatto. Dal nostro punto di vista, che è giornalistico, la televisione non è stata affatto un'innovazione sostanziale fino ai tardi anni Ottanta: il telegiornale, il mezzobusto, la notizia televisiva, erano semplicemente la traduzione su una nuova tecnologia di tecniche e culture preesistenti. Poi sono arrivate la Cnn, Tele Globo e Samarcanda: non più giornalismo "stampato" messo davanti a una telecamera, ma qualcosa che concettualmente nasceva - nel bene e nel male - dall'interno stesso della nuova tecnologia. Da quel momento, la televisione ha smesso di rincorrere la carta stampata, ed è cominciato il contrario. La prima pagina di un giornale bempensante e tradizionale come La Stampa si ispira esplicitamente - per bocca del suo progettista grafico, Piergiorgio Maoloni - a criteri "televisivi". Per non parlare delle esperienze di punta come Wired o come Extra, brutalmente basate sullo zapping fra unità elementari di lettura. *** Tutto questo per dire che i salti tecnologici, nel nostro mestiere, non incidono tanto nel momento in cui vengono elaborati, quanto nel momento in cui vengono digeriti: le nuove tecnologie, in altre parole, non sono decisive in quanto tecnologie, ma in quanto catalizzatrici di nuovi approcci culturali. Gutenberg inventa - o reinventa - i caratteri mobili, e questa sarebbe già una faccenda abbastanza importante ma non poi così trascendentale; i cinesi coi caratteri di legno ci hanno convissuto pacificamente per alcune centinaia d'anni e senza che nessuno ci facesse gran caso, all'infuori dei mandarini della Celeste Stamperia Imperiale. Ma Gutenberg unisce immediatamente all'innovazione tecnologica un'innovazione culturale: se questo aggeggio serve a far tanti libri, lo uso subito per clonare il libro-base della mia società, la Bibbia, e poi sto a vedere che cosa succede; e nel giro di pochi anni ti arriva la Riforma protestante con annesso rivoluzionamento d'Europa. "Un viaggiatore di ritorno dalle Russie quindici giorni fa ha riferito...". Ma poi nasce il telegrafo, e allora quello che è successo l'altro ieri a San Pietroburgo diventa immediatamente materia di rivoluzionamento alla Borsa di Londra... E così via. Kipling viaggia con la sola compagnia d'un disegnatore, e la questione anglo-indiana arriva in Occidente sotto una rassicurante veste letteraria; ma la Guerra civile americana è coperta dai primi fotoreporter coi loro enormi treppiedi, e l'umanità scopre improvvisamente una visione completamente diversa della guerra, un po' meno classica un po' più brutale. Ogni singolo salto tecnologico ha funzionato in generale, ma soprattutto nella storia del nostro mestiere, come moltiplicatore dei salti culturali. Quando è arrivata la rotativa, un osservatore attento - o un poeta - avrebbe potuto preconizzare non solo le novità del formato, della tiratura e della foliazione, ma anche la catena Hearst, gli incidenti di Cuba, la guerra ispano-americana, e l'inizio dell'espansione politica americana: linearmente, poiché queste cose seguono una logica molto stretta. *** Internet, le telecomunicazioni, i sistemi di rete vanno letti oggi, probabilmente, da un angolo visuale di questo tipo. Il computer, da questo punto di vista, sta venendo inventato in questi mesi. In Giappone, clonando un computer Macintosh (il più "amichevole" sul mercato) la Pioneer è riuscita a produrre il primo "computer per casalinghe": una macchina che non assomiglia affatto a un computer, che s'inserisce discretamente (esattamente come un videoregistratore) sotto il televisore, che non richiede cognizioni di nessun tipo per essere fatto funzionare - non ha neppure tastiera - e che concettualmente è uscito completamente dalla categoria delle macchine "per appassionati" come il vecchio computer, la cinepresa a nastro e la radio a galena. L'automobile ha trasformato il nonstro modo di pensare, e il nostro mondo, non quando è stata inventata ma quando è nata la Ford modello T. Questo momento è oggi vicinissimo per il computer, e il dibattito attuale su Internet è semplicemente la premonizione di questo momento. E noi giornalisti? Fra quattro-sei anni al massimo, in quanto categoria, semplicemente non esisteremo più; cosa d'altronde non nuova nella storia, visto che una sorte del genere è già toccata ai De Foe, ai Rochefort, ai Kipling - il libellista, l'agitatore, il viaggiatore, le varie categorie in cui di volta in volta s'è incarnato il mestiere. Una via d'uscita ci sarebbe: trasformarsi coerentemente - e continuando lucidamente ad essere giornalisti - in qualcosa di completamente rinnovato. Come? Ne parleremo avanti. Per intanto, il problema non è solo e tanto "imparare le tecnologie" ma "pensare in un mondo in cui la gente comune vive con le tecnologie". STAZIONE TERMINI settembre 1996 Alle dieci meno un quarto sono arrivati quelli della Comunità, due ragazze e un ragazzo con i panettoncini. Una delle due sbircia continuamente l'orologio e tuttavia si sforza di far garbata conversazione. È l'ultimo dell'anno e abbiamo pur diritto, noi barboni qui a Termini, a un minimo di calore umano e di solidarietà. Lei si chiama Anna, comunica con un sorriso Wasp la ragazza, e questi sono Massimo e Sabrina. "Tanto piacere, Bialetti" fa allora l'Ingegnere e le sorride a sua volta, sforzandosi che sia un formale sorriso da ascensore e non qualcosa di più impegnativo, casomai la fighetta poi si metta paura (l'Ingegnere sa benissimo di non avere un aspetto particolarmente elegante, qui ed ora). Sorrido anch'io alzandomi con un mezzo inchino cosa che l'Ingegnere per motivi d'età non riesce a fare cavandosela tuttavia con grandissimo stile con la battuta successiva: "Buon anno, cara, e grazie della sua visita gentile" (forse ha sorriso anche Angela, seduta sui suoi sacchetti di plastica che non molla mai, ma d'altra parte è difficile definire esattamente se e come Angela sorrida). "Buon anno!" fa la fighetta rieseguendo impertubabilmente da zero il software preinstallato. ("...anno ...anno" fanno eco l'altra fighetta e il fighetto) . "Siamo qui con questo piccolo dono - che poi sarebbero i tre panettoncini dell'anno scorso - e vorremmo brindare con voi al nuovo anno che sia più fortunato di questo eccetera eccetera...". Fa un cenno al collega che s'era tenuto pronto all'uopo, e questi tira fuori una fanta e comincia a versare in quattro bicchieri di plastica che mette in giro: uno alla capopattuglia, uno a me, uno all'Ingegnere, uno ad Angela (che al solito lo guarda stonata senza riuscire a coordinare occhio, cervello e mano e il bicchiere le resta sospeso per quindici secondi davanti al naso prima che il fighetto sgami la situazione e se lo ritiri). L'Ingegnere ed io ci guardiamo e alziamo con solennità i bicchieri di plastica: "Buon anno!". Beve la Wasp con la medesima battuta e beve il ragazzo Massimo nella plastica originariamente destinata alla Angela. Okkèi, missione compiuta. "Sono le dieci e venti", comunica la Sabrina, prima e ultima battuta sua del copione. "È tardi, dobbiamo andare..." fa l'altra, "Ma prego, si figuri" la cerimonia, pronto, l'Ingegnere. I tre se ne vanno con sorrisi e con sollievo, noi restiamo con le plastiche in mano. Senza consultarci io e l'Ingegnere buttiamo bicchieri e contenuti sul binario mentre Angela è ancora là che pensa e forse le sta albeggiando sulle labbra un sorriso che tuttavia non ha nulla a che vedere coi tre fighetti, ma risale evidentemene a qualche dimenticata locazione del suo hard-disk che ora chissà da dove torna a galla. "Bene - fa l'Ingegnere - io ora mi metterei a dormire" e in quella arriva Schillaci la guardia e ha un termos di caffé caldo e noi beviamo grati e poi lo sbirro Schillaci fa una cosa meravigliosa e tira fuori due mignon di Grappa Rododendro o qualche schifezza del genere e "...anno!" fa e ne gira una a me e una all'Ingegnere e poi volta le spalle e mentre s'allontana ne tira fuori una terza che apre coi denti e si beve fottendosene con tal gesto del Regolamento di servizio. È capodanno, giorno poco favorevole al rispetto dei regolamenti, difatti: a) la stazione resta aperta tutta la notte contrariamente al solito; b) si lascia dormire in sala d'attesa; c) si lasciano accesi tutti i riscaldamenti in stazione. Non male. Ognuno con la sua bottiglietta - i panettoncini sono tutti per Angela, che senza precisamente percepirli si affretta a tesaurizzarli: domattina forse si renderà conto che sono da mangiare - l'Ingegnere ed io ci separiamo. Siccome adesso, graziadìo, siamo fra persone civili, non servono chiacchiere per farci i complimenti, ma un cenno della testa basta a sintetizzare il reciproco augurio di arrivare in qualche modo al capodanno dell'anno dopo. Dopodiché ci allontaniamo lui verso la sala d'attesa stanotte disponibile e illuminata e io a fare due passi lungo i binari. Mi piace moltissimo vedere arrivare i treni e stasera sono particolarmente ottimista perché ho da mangiare per almeno 4 giorni e forse sono riuscito a risolvere il problema non facile di come modificare in parallelo un file Gif destinato a Internet e uno sempre Gif destinato invece, ma a più alta risoluzione, ad essere regolarmente impaginato su XPress, escamotage utilissimo che probabilmente un giorno applicherò non so come non so dove ma tuttavia bisogna ragionare regolarmente "come se" facendo somma attenzione a non perdere il ritmo e l'abitudine e in ogni caso a continuar regolarmente sia pure in condizioni difficili il cammino intrapreso eccetera eccetera. E in quella ti arriva in rapida successione un flash proprio di capodanno: tuo nonno ha detto qualcosa fra le luci e tutti ridono - ma era capodanno? o era il matrimonio di Enzo e Nuccia? il '63, il '66? no, nel '66 era già morto. Dov'ero io nel '66? Era l'anno di Salina, del comandante Pojero, di Giusi? Quello dell'autostop? No, l'autostop era il '67. Già. E poi, alla fine del '67 ci fu Panaiota, quella storia dei greci e poi... E intanto lungo la banchina la gente si muove rapida, era il treno da Pisa, e fra la folla del treno di Pisa improvvisamente una ragazza ti guarda da sopra la spalla e ti sorride luminossissima - a te? sì proprio a te, non c'è dubbio - per un attimo interminabile e intenso. STAZIONE TERMINI 2 Ossigeno, marzo 1997 Stazione Termini la domenica pomeriggio è sempre stata piena di italiani, gente con la valigia in una pensione e la nostalgia dello struscio, la sera del dì di festa, su e giù per la via del paese (Caltanissetta o Rovigo, non ha importanza: italiani, venuti a conquistare la Lambretta, o la Seicento, o una laurea in lettere o un impiego). Adesso gli italiani di Termini, fra l'ora della schedina e la sera, sono di pelle nera. Vanno su e giù per l'atrio coperto, a crocchi apparentemente casuali, a smicciare le ragazze del paese. Noi siamo gli svizzeri o i tedeschi. Crediamo di vedere "extracomunitari" (Gasterarbeiter, Macaroni) laddove invece si tratta molto semplicemente di noialtri vent'anni dopo. Il Dante che ha fatto Termini ha statuito dei gironi ben precisi, che variano con le annate ma sono sostanzialmente gli stessi. I sotterranei del metrò, ai diversi livelli, sono dedicati ai corpi stesi a) per dormire b) per crepare c) per le varianti intermedie. Negli ultimi anni, diciamo da dopo la lampada Osram, la variante a) tende a prevalere sulla b), ma è, come si dice, un'ipotesi non suffragata. Il cuore del girone sotterraneo, che un tempo stava nei bagni diurni, adesso dovrebbe coincidere - in teoria - col megadrugstore all'americana inaugurato con molti buoni propositi sotto Rutelli: folla aeroportuale, si progettava, e luci al posto degli angoli bui e dei barboni. Il drugstore in realtà, salvo che in alcuni momenti, gira ben poco. E' vuoto, comunque, esattamente nei momenti in cui avrebbe dovuto politicamente essere pieno. Dopo la mezzanotte c'è qualche povero diavolo che ciondola poco convinto fra le vetrine, marcato con diffidenza dalle guardie in borghese, e questo è tutto. I binari di deposito, dal lato opposto, hanno conosciuto una stagione di gloria ai tempi dei primi magazine dei quotidiani: il venerdì di Repubblica, il Sette del Corriere e così via; roba da fare in fretta, senza tempo da perdere, per i lettori della cronaca, mica per gl'intellettuali che leggevano Panorama o Espresso. Così bastava trovare una pattuglia di Polfer, convincerla a fare una ronda fra i treni morti, e tenere il flash carico e la macchinetta pronta: nel giro di due ore te ne tornavi col carniere pieno di facce insonnolite, spacciatori ipotetici, ragazzi scappati di casa, gasterarbeiter senza futuro, gente che dormiva là di passaggio fra una pagina di Dickens e un mattinale di questura. Copertine. Adesso però persino i magazine dei quotidiani si sono sofisticati, e le storie dei binari morti si vendono molto meno. Le storie dei sotterranei e quelle dei binari e diverse altre confluiscono in verità (ma non è una verità da copertina) nella guerra che la società civile che circonda la stazione conduce contro i preti. I preti (Caritas e roba del genere) sono assolutamente contrari alla disinfestazione della stazione; e ospitano i disinfestandi, con la scusa che sono umani, nei centri d'accoglienza della stazione. La società civile è rappresentata dai padroni degli alberghi della zona, che periodicamente montano campagne contro gasterarbeiter e preti per chiedere l'eliminazione dei primi e l'allontanamento dei secondi. Sotterranei e binari morti sono i gironi. L'atrio coperto, la domenica pomeriggio, invece è il Limbo. Quello in cui gli esseri umani non destinati al paradiso vivono tuttavia una loro vita - almeno per qualche ora - senza torture. Su e giù, a gruppi - o femminili o maschili - d'emigranti, incrociandosi con sorrisi che noi non capiamo, frullando incomprensibili dialetti non più calabresi o di Burinia ma nigeriani o zairoti. Ed ecco quella ragazza dal viso grave, fasciata con maestosa eleganza in un vestituccio lieve, che guarda con ironia - seduta al bar della cooperativa - a due tavolini più in là... Ed ecco il ragazzo nero e incravattato, col notes degli appunti e la borsa, che è qua perché è troppo triste studiare in pensione. Da dieci minuti lui la puntava, alzando gli occhi dal libro con aria indifferente e ripiombandoli subito dopo giù. Lei, che ha qualche anno in più, o forse ha vent'anni anche lei ma in più è una donna, se l'è sgamato subito, ma è troppo ragazzino; o forse - oggi, liberi! - vuole giocarci. Lui la guarda di nascosto, lei placca al volo lo sguardo e glielo restituisce con ironia. Potrebbe andare avanti moltissimo, se il cameriere tedesco o svizzero non si piantasse davanti al ragazzo che è qui da un quarto d'ora per un unico e già consumato cappuccino da tremila lire. Il ragazzo raccoglie i libri e si alza, da sopra la spalla guarda con rimpianto alla donna che sta sorridendo sarcastica e si avvia verso l'uscita della stazione. E lei, sempre con un sorriso alla Lauren Bacall, si stacca da dove stava appoggiata e muove un passo distratto e forse, chissà, lo segue... *** Stazione Termini, bianco/nero, regia di Vittorio De Sica, con Montgomery Clift e Jennifer Jones. (Non c'entra niente). Millenovecentocinquantatré... ARIEL Ariel, giornale di detenuti di Palermo e Pescara, maggio 1997 Questo giornale è senza censure. Potete non essere d'accordo con quel che c'è dentro - e neanche noi che l'abbiamo fatto siamo tutti unanimi su tutto però una cosa è certa: che abbiamo scritto esattamente quello che pensavamo. Per questo, e non per altro, questo è un giornale "strano": perché è libero. Alcuni dei nostri redattori, la sera, tornano in carcere: eppure, sono più liberi della maggior parte dei loro colleghi giornalisti dei giornali "veri": perché loro, quello che pensano, lo possono dire. Non hanno privilegi che gli tappino la bocca, né mostri da sbattere in prima pagina, né poltrone da tenersi buone. Così scrivono, ingenuamente, nella convinzione che fare un giornale sia una cosa nobile e bella, che sia giusto informare il pubblico di quel che a nostro avviso succede, che le opinioni di una persona possano interessare ad altre persone. E' una buona cosa, scrivere in un giornale come questo, ed è un bene che un simile giornale ci sia. Adesso, ho alcune poche cose da chiedere - senza illusioni, s'intende; ma tanto per adempiere a un dovere - a coloro che di giornali e di carceri, nel mondo a cui appartenevo una volta, hanno la responsabilità istituzionale. Agli uni - ai magistrati, ai giudici di sorveglianza, ai ministri di grazia e giustizia, a quelli che qui rappresentano "lo Stato" - chiedo di rispettare in queste povere pagine lo spirito, che qui è presente, della Costituzione repubblicana; quella del "tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge", quella del "tutti hanno diritto a esprimere"; e chiedo di aiutare a diffondersi, nel loro regno, ogni iniziativa come questa. Un foglio come questo in più oggi, è una galera in meno domani. Ai giornalisti, ai colleghi, a quelli che teoricamente farebbero il mio stesso mestiere, chiedo di far quello che possono per diffondere questa nostra voce. E possono molto. Insertare per una volta queste quattro pagine nel quotidiano locale, questo si può fare. Dare un supporto tecnico alla composizione e alla stampa, si può fare. Venire a confrontarsi qui, alla pari, coi nostri redattori, perdere ventiquattr'ore del proprio tempo per insegnar loro qualche trucco del mestiere, per imparare la loro speranza: questo si può fare. C' è un sacco di cose che si possono fare per aiutare una libertà; si possono fare, e si può anche non farle. Ma in ogni caso è una scelta, non una dimenticanza, un "non lo sapevo". *** Ariel fa parte di un progetto dell'Associazione Ora d'aria d'Abruzzo, e questo primo numero esce in corrispondenza di un corso di formazione alla stampa e all'editoria per detenuti ed ex. Adesso, l'idea sarebbe di: 1) continuare con regolarità, a partire dall'autunno, la produzione di questo giornale; b) estendere questa esperienza, e questa prospettiva, ad altre città d'Italia, a cominciare da Palermo e Lecce dove l'organizzazione è già in fase avanzata. Non abbiamo la minima idea di fare un giornale di carcerati. Vogliamo fare un giornale che parli "anche" dei problemi del carcere (che in questa società ti accompagnano anche molto tempo dopo che ne sei uscito), ma solo come caso particolare dei problemi che cascano addosso a tutti coloro che per una ragione o l'altra si trovano tagliati fuori dalla maniera "ufficiale" di vivere, che non sono cioé al cento per cento Telespettatori, Consumatori, Proprietari d'Automobile, Titolari di Bancomat, Cittadini Comunitari (possibilmente non-meridionali). Riteniamo di avere molte cose da dire, a quelli dentro e a quelli fuori: dal carcere, e dall'Italia ufficiale. Ariel è un personaggio di Shakespeare che vive fuori dalla "società". Vive in un'isola del mondo che non è segnata nelle normali rotte di navigazione. Un giorno, per puro caso, alcuni cittadini "perbene" capitano in quest'isola. In un primo momento, ne hanno paura. Poi cominciano a pensare che visto che sono tanto civili debbono volenterosamente mettersi a insegnare agli abitanti dell'isola i principi della civiltà. Infine - ma solo i migliori di essi capiscono che forse loro, da Ariel, potrebbero addirittura imparare qualcosa. Se ne tornano dall'isola meno "normali". Più liberi, più - felici? ALBERI Ossigeno, maggio 1997 Gli alberi non possono scappare, devono starsene lì buoni e tranquilli e a tenersi dentro tutte le storie che gli passano davanti, a volte sono storie simpatiche ma certe altre no e allora alcuni di loro somatizzano (quelli con meno pelo sullo stomaco, quelli che "signora albera mia dove andremo a finire") e restano letteralmente senza una foglia addosso. Succede in via Merulana d'inverno, tigli o ippocastani o quel che razza d'albero sono (io non riesco a distinguerli l'uno dall'altro) con l'aria tutta cupa e preoccupata e rami nodosi e spogli come giunture di vecchi. Gli alberi, per me, sono: a) ulivi; b) fichi; c) mandorli; d) tutto il resto. Tutto il resto significa alberi perbene e inutili, decorativi, alberi da città decorosa. Alberi-vigili urbani, se mi capite. Ma come i vigili urbani capitolini, coi loro gesti larghi e il loro inglese romanesco, restano infine delle Autorità cordialone a dispetto della montura, così gli alberi romani sono in sostanza dei gran bravi alberi nonostante l'autorevolezza istituzionale. Ombreggiare Goethe, circondare Caracalla, stormire con eleganza ai concorsi ippici a Piazza di Siena - non è che gli alberi di Roma non abbiano le loro soddisfazioni nella vita. Con tutto ciò non si sono montati la testa e ad esempio se andate a piazza Vittorio la domenica nel primo pomeriggio vedete due o tre palme maghrebine ondeggiare tranquillamente al sole, e gli alberi romaneschi tutt'intorno accoglierle protettivamente nel giardino. E il vecchietto con "Liberazione" e la famiglia borghese e i bambini; e alcuni di questi bambini sono magrebini come le palme ma i romani uomini - a differenza degli alberi - non li guardano con civile simpatia. Mhm. Un fico, all'improvviso, lo trovi per la salita al Campidoglio, dal lato di dietro. Non è un fico turistico, devi sporgerti dal parapetto per vederlo tutto - poche foglie si affacciano all'ombra al lato dell'antica via. E' una via lastricata, un opus qualchecosa, qualche migliaio di anni fa; arriva il presidente del Messico, o anche l'ambasciatore dell'Empire, e Scalfaro lo accoglie là, in quei trenta passi scarsi di strada romana, con due soldatini di scorta, un paio di segretari e forse un cerimoniere, vicino all'ombra antica degli alberi e alla non lontana presenza di Cola di Rienzi e di Marc'Aurelio. E invece no: hanno dovuto fare Hollywood, gli imbecilli; buttar giù case antiche e devastare il colle, e alzare quella grandguignolesca torta di marmo, incubo di generale piemontese, che incombe selvaggiamente sul Campidoglio; e là cerimoniare cerimoniosamente le Cerimonie di Stato, fra drappi, cavalli di marmo e musiche d'ordinanza come una qualsiasi repubblicuccia - Dios, Familia y Nacion - nata l'altroieri. Duci, re e presidenti, tutti perfettamente a loro agio, pancia in dentro petto in fuori, e le bandiere garrivano e le fanfare squillavano e i discorsi vibravano - e il fico, inascoltato, stormiva lieve. *** La lampada Osram non era un albero, non ufficialmente, ma noi la mettiamo ad honorem nel catalogo degli alberi di Roma. Uno stelo d'acciaio altissimo, e un'unica enorme lampadina elettrica risplendente in cima; "ci vediamo alla lampada"; "io ero alla lampada, a mezzogiorno, ma tu non sei venuta". La sera, la lampada - davanti a Termini - illuminava i dolori, e le vite sbattute, e l'affaccendato sopravvivere degli esseri umani. La piazza dei Cinquecento conteneva, allora, il macinacarne di Roma; la lampada gettava ombre lunghe ai piedi dei ragazzi di vita. Ma c'era un momento di grazia, fra il sole turisticamente ipocrita del pomeriggio e le lampade prossenetiche della sera. Esso era quasi esattamente al crepuscolo, quando - la lampada accesa già, pallida nel cielo roseo, da un'ora - improvvisamente fra gli alberi della piazza passava un frullare, e subito gli storni a nuvole riempivano tutto il cielo della stazione, fluttuando con gentile eleganza in alto in alto. "E come li stornei ne portan l'ali/ nel freddo tempo, a schiera larga e piena,/ così quel fiato li spiriti mali/ di qua, di là, di giù, di sù li mena...". Ma non era l'inferno, quello, sibbene - nella luce calda del crepuscolo romano - il paradiso; felici le creature là in alto, la città delle nuvole, la libertà: senza capi, spontanei, in ordine disordinato gli stormi evoluivano l'uno sull'altro, viravano - milioni d'individui non soggetti a nessuno - armonicamente, s'intersecavano con noncurante precisione. Li si guardava vivere, l'occhio in su, l'animo alleggerito. ma già piombava rapida la sera, già nel buio disvanivano gli stormi; gli alberi, masse cupe; sagome sfuggenti, in uno dei tanti loro inferni, gli umani; e la lampada cruda illuminava goyescamente ogni cosa. *** "Dormono gli animali sulla terra/ dormono gli stormi alati...". Dormono gli uccellini di Roma, sugli alberi del lungofiume o fra i rami di Villa Pamphili. Dormono i senegalesi sulla banchina del Tevere, dorme il polacco là sui gradini della chiesa. "Viva la Polonia, e birra!" c'è scritto a pennarello sopra il muro. "L'anima a Dio Signore, il corpo all'Italia, il cuore alla Polonia", dice un'altra loro scritta sui monti di Cassino. Un ippocastano, adesso, stormisce a pochi passi dall'uomo che dorme ed è l'unico rumore della notte. *** Adesso non sono a Roma però. Ho un abete davanti, non un ippocastano; quasi sotto l'abete c'è un cesto da pallacanestro, due ragazzi con un pallone da basket e questa è piazza dell'Unità qui a Bologna, alla Bolognina anzi, il quartiere "rosso" dove Achille Occhetto qualche decina d'anni fa annunciò il pensionamento del vecchio partito comunista. Ci sono tre pensionati nella piazza, uno qui accanto a me sulla panchina e due all'edicola dei giornali. C'è una famigliola coreana e tre signore anziane, due col bastone, che chiaccherano sorridendo sapute dall'altro lato della piazza; un uomo di mezzetà col cappello, una ragazza in bicicletta, un cane vecchissimo sdraiato irregolarmente sull'erba: ma alla sua età glielo si consente - e dignitoso. Dall'altro lato della strada c'è un chiosco con dei tavolinetti, fanno un caffé non straordinario ma dei gelati davvero buoni, le gelataie sono due - madre e figlia -, sorridono gentili e sicure mentre ti contano il resto e ti augurano la buonasera. Fra le aiuole una piccola lapide: "Cittadino che passi/ se alzi lo sguardo vedi il fabbricato al civico 5/ ove caddero 6 giovani patrioti/ combattendo per l'indipendenza della patria...". Poi c'è un manifesto del consiglio di quartiere su un concorso per giovani scrittori, una bacheca con avvisi vari, un paio di manifesti commerciali, la trattoria sul marciapiede, la gentilezza del prossimo, e nessuno che dorme per terra. Un'aria di fuorimoda. Farà fresco stasera, guarda come si muovono i rami dell'abete. DI LIEGRO ottobre 1997 Purtroppo, alla fine, lo faranno santo. Con la sua brava chiesa parrocchiale, in qualche angolo dignitoso di Monteverde o di Prati, con la sua gente perbene col suo vassoio delle paste, la domenica a mezzogiorno sul sagrato, e colla sua zingara sui gradini - forse, dato che la chiesa è la sua, tollerata - e la zingarellina accanto. A San Giovanni in Laterano, alla sua messa da morto, la zingara non c'era, non ce l'avrebbero lasciata, così come non hanno lasciato entrare i barboni. C'era solo qualcuno - non moltissimi - dei governatori cittadini, e c'era il cardinale più cardinalizio di Roma, l'Eminenza Ruini, tanto saviamente ostile alle utopie di lui vivo quanto eloquentemente celebrativo, delle utopie medesime, di lui morto. Niente caudatari in livrea, d'altro canto, per Sua Eminenza; niente portantine rococò - ma semplici automobili blu - ad aspettare le Eccellenze sul sagrato. Il resto, tolto questo, era l'eterna Roma borrominiana. Roma di don Luigi di Liegro, o di don Filippo Neri. Un centro d'accoglienza di questi preti, maleducatamente, stava in piena stazione Termini. Periodicamente, nella zona, usciva un giornaletto - lo trovavi gratuitamente nelle tabaccherie e nei bar - finanziato dai grossi albergatori del quartiere, quelli di via Cavour e di via Nazionale; ma è fortissima la presenza economica del Vaticano in quella zona - e lanciava le sue brave campagne contro l'invasione dei vagabondi: attirati, come le mosche al miele, dai maledetti letti puliti e pasti caldi di monsignor Filippo Neri. Ohimè, il povero viaggiatore che viene dalle Castiglie o d'Alemagna, per visitar le Basiliche, e si trova - appena messo piede nell'Urbe - in una corte dei miracoli siffatta: o perché non istituirli al Raccordo, se proprio da fare s'hanno, codesti benemeriti centri d'accoglienza? Perché proprio nel centro cittadino, nel cuore di una capitale come Roma, in mezzo alla vita normale? Di Liegro non si ribellava agli Eminenti albergatori, non faceva baccano; i santi - in tempo di Controriforma - è bene che siano dei santi-delsorriso, sennò Campo de' Fiori è lì che aspetta. Ma lavorava, tesseva, aveva le sue brave aderenze a Corte. Una rete impalpabile e sofisticata di amicizie importanti, di strategie diplomatiche, di politiche mazzariniane, di manovre, teneva lontani i barboni di don Di Liegro dai due gradi sottozero dell'inverno. La carità di Cristo, da sola - nella Roma delle Eccellenze e dei Papi - non sarebbe bastata. La carità di Cristo a Roma la trovi forse, ma totalmente inutile, solo nei Pasolini e dei Caravaggio. La puttana annegata che fa, nel quadro del pittore romano, da madonna; i ragazzi di vita, i bacchi e i sangiovannini, i francocitti; altra pietà non trovi, nelle controriforme. I poveri, per servirli di questi tempi, bisogna essere scaltri. Scaltri vuol dire parlare con sua Eminenza o con Rutelli, è ma vuol dire anche parlare con i briganti della Campagna romana, con gli autonomi, addirittura coi comunisti. Avete presente Celio Azzurro, la cooperativa organizzata dal Centro sociale Corto Circuito per accogliere i bambini delle varie etnie - bianchi, neri, gialli, marrone e quant'altro - che popolano la città di Roma? E' stata finanziata dalla Provincia grazie all'intervento di monsignor Di Liegro. Avrebbe potuto essere, quest'incontro, un inizio di alternativa. MODESTA PROPOSTA PER SALVARE L'ORDINE (E L'ANTICO MESTIERE) DEI GIORNALISTI OG, luglio 1997 Situazione della stampa italiana: - il giornale ormai è quella cosa che vien data in omaggio con le videocassette; - il giornalista è sempre più un deskista e sempre meno un cronista; - il direttore è sempre più un manager e sempre meno un giornalista; - l'editore è sempre più un imprenditore d'altro e sempre meno un editore; - i contenuti pubblicitari (anche mascherati) prevalgono su tutto; - le tecnologie vengono utilizzate non per allargare, ma per centralizzare e fordizzare il prodotto; - l'editore chiede sempre meno giornalismo e sempre più marketing; - il prodotto finale è quindi vecchio, grasso e ridondante; - e alla fine, il giornale NUN SE VENDE e l'editore chiede aiuto ai politici. *** In questo quadro, noi giornalisti contiamo come il settebello a briscola. La crisi dei giornali italiani nasce esattamente dalla sempre minor presenza di cultura giornalistica nella gestione non dell'articolo o della pagina, ma del prodotto e, in definitiva, dell'azienda-giornale. O Pavarotti o Fantozzi: il ruolo del giornalista oggi, alla fine, non sfugge a una di queste due categorie. Entrambe sostanzialmente senza potere. Sì, è vero, Fantozzi ha la quattordicesima e Pavarotti dà del tu al ministro: ma sostanzialmente nessuno dei due conta niente. Eppure, il giornalista in quanto tale ha delle specificità culturali che nessun altro possiede. Il giornalista sa prendere appunti, il giornalista sa impaginare - ma sostanzialmente il giornalista, e solo il giornalista, sa ascoltare. Il medico non è semplicemente colui che esercita la medicina, né l'architetto colui che progetta; c'è sempre un imprinting - umanistico - in più. E così, il medico è la scienza chirurgica, più la pietà; l'architetto, la scienza delle costruzioni più l'armonia. E il giornalista? E' essenzialmente un essere umano curioso; a cui appropriate tecniche, che variano da una generazione all'altra, danno la possibilità di contare. Tutto il resto - e il giornale e il prodotto e l'azienda - debbono partire da qui; se no, nascono morti. Il nostro compito di "giornalisti", qui ed ora, è dunque semplicemente quello di riaffermare noi stessi nell'esercizio del nostro mestiere; di difenderlo contro noi stessi - contro i privilegi e i lustrini che possono farcelo dimenticare - e contro i poteri forti, che proprio in questi mesi si vanno ricreando. Nel mondo "nuovo", sempre più monolitico e sempre più "imprenditoriale" che s'avanza, non c'è posto per imprinting umanistici nelle professioni: il medico, l'architetto, il giornalista, la prostituta, il prete possono ambire al mero status di tecnici - del corpo, della casa, dell'anima, del sesso, dell'informazione - ma senza che la complessiva cultura dei poteri forti, il loro monopolio del consenso, ne sia minimamente disturbata. E questa è la situazione. Abbiamo tuttavia, per uno strano gioco del caso, un'ultima occasione. Noi giornalisti siamo raggruppati in Italia in un libero Ordine professionale; accolta di vecchi tromboni forse, ma sicuramente onesti e dunque incontrollabili; e dunque pericolosi. Hanno provato a togliere di mezzo quest'Ordine, col referendum di Pannusconi (indirettamente sostenuto, non foss'altro che col silenzio, dai principali manager-direttori); ma non ci sono riusciti. E ora la mossa tocca a noi. E' l'ultima, dobbiamo saperlo; e quindi dev'essere fatta in fretta, e col massimo della determinazione. Per prima cosa, non dobbiamo difendere semplicemente, e principalmente, noi stessi; dobbiamo difendere il lettore. Il telespettatore, il target, la massa consumatrice, l'imbecille da fottere col gadget: questo essere che gli esperti del management hanno da tempo incasellato nelle loro categorie, per noi è ancora, del tutto fuori moda, il Signor Lettore. Come Ordine dei Giornalisti, dobbiamo proporre pubblicamente dei rigidi meccanismi di difesa, che lo proteggano - e dobbiamo essere noi a proteggerlo - dalle prepotenze e dagl'imbrogli. Senza di che, egli continuerà a leggere libri, ma non giornali. In secondo luogo, dobbiamo andare professionalmente avanti. Dobbiamo essere noi a contestare l'attuale obsoleto modello di giornale, noi a esplorare il nuovo. Se fossimo nell'Ottocento, direi che dovremmo essere noi a scoprire l'uso del telegrafo e a imporlo agli editori (creando così, fra l'altro, la figura dell'inviato speciale). Oggi noi dobbiamo imparare a gestire le tecnologie prima del padrone, meglio del padrone, alla faccia del padrone. Non ripetiamo l'errore dei tempi in cui arrivarono in redazione i primi computer, che noi non abbiamo visto e il padrone sì: perché è quello che paghiamo oggi. *** La battaglia per l'autonomia, dunque, comincia ora. Da un lato, gli editori cercheranno nei prossimi mesi di chiudere d'autorità la questione con una leggina. Dall'altro lato, noi possiamo prendere l'iniziativa con un pacchetto di proposte concrete che ora come non mai possono trovare udienza, rivolgendoci direttamente alle istituzioni politiche e, nello stesso momento, al lettore. L'Ordine dei Giornalisti potrà dunque chiedere di essere considerato per legge unico responsabile, direttamente e in prima persona, di due terreni fondamentali: 1) la deontologia professionale; 2) la formazione (scuole di giornalismo) e la determinazione dell'accesso alla professione. *** 1) La deontologia: Ogni giornalista, all'atto della consegna del tesserino, s'impegna solennemente con una specie di giuramento di Ippocrate a rispettare una serie di norme etiche e ad evitare una serie di comportamenti. Per tutta il resto della sua vita professionale dovrà attenersi ad esso. L'Ordine avrà poteri disciplinari e di arbitrato per tutto ciò che riguardi l'applicazione e le eventuali violazioni del giuramento. La Commissione deontologica dell'Ordine vigila su: - la distinzione fra contenuti redazionali e pubblicità; in caso di violazione imporrà multe ai direttori; - le balle in malafede (tipo la lebbra a Messina); in caso di violazione, sospenderà i direttori; - la difesa dei soggetti deboli (bambini ecc.); in caso di violazione, sospenderà i direttori e li deferirà all'autorità giudiziaria nei casi previsti dalla legge; Ai giornali con tiratura superiore alle 5.000 copie, e alle emittenti di peso equivalente, viene assegnato dall'Ordine dei Giornalisti un Garante del Lettore. I lettori potranno rivolgersi al esso presso le sedi dell'Ordine. Il Garante svolgerà la sua attività, nell'esclusivo interesse del lettore, al di fuori delle redazioni. 2) Formazione e accesso: Debbono essere assunti come giornalisti professionisti solo i praticanti diplomati dalle scuole di giornalismo: prima diplomati, poi assunti. In ogni testata, il Comitato di Redazione dev'essere incaricato dall'Ordine di vigilare, sotto responsabilità personale, sull'osservanza di questa norma. Le aziende possono essere lasciate libere di accettare o meno questo vincolo. La non accettazione, che dev'essere resa pubblica, implica tuttavia l'esclusione dell'azienda da ogni e qualsiasi beneficio di legge. Le scuole di giornalismo debbono essere gestite direttamente ed esclusivamente dall'Ordine dei Giornalisti. Una o due scuole per Regione, possibilmente con sede fisica nelle Università. Le scuole debbono insegnare non solo gli elementi tradizionali della professione, ma anche e soprattutto le tecnologie: internet + gli scarponi; Il praticantato dovrebbe durare due anni, così ripartiti: sei mesi di insegnamento in Istituto, con particolare riguardo alle nuove tecnologie; sei mesi di attività non retribuita presso testate no profit; un anno di attività non retribuita presso le testate convenzionate (cioè tutte quelle che intendono godere in qualsiasi maniera di agevolazioni di legge); alla fine del corso, esame di Stato, consegna del tesserino e giuramento. *** E questo è quanto. Se ci muoviamo in fretta, forse ce la facciamo. Diversamente, assisteremo in tempi rapidi alla scomparsa non solo dell'Ordine dei Giornalisti, ma della stessa professione giornalistica come esercizio indipendente di un servizio al cittadino. Il giornalismo libero, oggi - come il magistrato indipendente; ma questa è un'altra storia - non conviene a nessuno. Tranne che a noi cronistacci vecchia maniera, ai giovani maghetti di Internet, al ragazzo che rischia la pelle per mandare il pezzo sulla mafia del suo paesello, e ai lettori. Ma forse bastano questi. LETTERA A PALERMO novembre 1997 Un foglio in formato tabloid, a 3 o 4 colori. E' un giornale? No, non esattamente: diciamo che è un volantino evoluto, professionalizzato, periodico e basato sulle notizie e non sulla propaganda. Però possiamo anche considerarlo un giornale: diciamo che è il modello di giornale del Duemila: agile, breve, denso, allegro da leggere e molto molto veloce (sapendo che nel frattempo hanno inventato la tv). Quando esce? Una o due volte la settimana, secondo la necessità. Dove esce? Innanzitutto, naturalmente, a Palermo. Ma a volte anche in qualche altro posto dei Sud: in una grande città del Mediterraneo - per esempio, Barcellona - o in una grande città che ha bisogno di saperne di più sul Mediterraneo - per esempio, Milano. Quante copie? Variabili, secondo scelta e necessità. Di solito, non più di 5.000, diffuse quasi tutte a Palermo. Ma quando abbiamo bisogno di dire qualcosa al resto dell'umanità,ci regoliamo di conseguenza. Un giorno possiamo decidere di mandare 1000 copie in più a Milano; un altro giorno, decidiamo che a Barcelona hanno bisogno urgente di sentire quel che stiamo facendo su una data questione (e allora, potremmo fare un numero in italiano e in spagnolo). Almeno una volta ogni due mesi, facciamo un numero ad alta tiratura da dare a tutte le famiglie di Palermo: e ci mettiamo dentro quel che è successo in quei due mesi nella loro casa comune, cioé nel Comune di Palermo. Che altro ci mettiamo dentro? Innanzi tutto le storie, gli avvenimenti che capitano, le notizie: si scrive chiaro e semplice, qui, si scrive netto, perché non è mica un giornale fatto per leggerselo fra Persone Importanti. E' fatto per leggerlo tutti, e per capire tutti cosa c'è dentro. Avete presente don Milani? E che c'entra il Comune? Beh, immagina che dentro ci sia una grande cartina di Palermo. Coloratissima. Oggi c'è dentro la mappa di tutte le fermate dei bus. Domani, quella dei consultori. Venerdì prossimo, quella dei palazzi in ristrutturazione. Oppure tutte le prossime dieci partite del Palermo. Oppure i documenti che bisogna fare per ottenere il permesso di soggiorno. Oppure la storia della statua di Re Palermo. Oppure... Insomma, tutto quel che a un palermitano può servire, qua dentro c'è. Da leggere e da capire, al primo sguardo. La computergrafica in fondo dovrebbe servire a questo. L'informazione non è per pochi intimi. L'informazione NON dev'essere mai pallosa. Che cosa ci vuole per farlo? Un giornalista poco serio che conosca tutte le tecniche ma sia capace di scherzarci sopra e usarle come una tastiera di pianoforte, allegramente. Ma poi soprattutto una scuola, una scuola nel senso antico, una bottega. Un gruppetto d'una decina di ragazzi, senza "professionalità" ma creativi e con la voglia di far cose belle e d'imparare. Sei computer in rete. Forse un telefonino. Una stampante laser, un paio d'accessi in rete. Dei corrispondenti dappertutto, via Internet, a Roma a Milano e a Corleone, con le stesse caratteristiche dei ragazzi di bottega (Mark Twain parlava di una"fabbrica di uomini", e l'idea sarebbe esattamente quella). Di tanto in tanto, anche qualche Collaboratore Importante come Aurelio, Vincenzo, Goffredo e compagnia bella: ma senza strafare e mettendoli magari in caratteri piccoli così. E poi c'è l'arma segreta. A Palermo ci sono un casino di associazioni, parrini, volontari garibaldini e non, più che in ogni altro posto d'Italia. Bene, questo è il loro giornale. Non in senso buonista, tanto per dire: ma proprio nel senso che se ne gestiscono un pezzo ciascuno, a giro. E questa sarebbe anche una faccenda pericolosa e bellissima, dal punto di vista della burocrazia. E poi c'è il Partito. "Il partito di Falcone e dei ragazzini", se qualcuno si ricorda ancora dei Siciliani. Ogni mese, a turno, il giornale viene appoggiato da una scuola. Organizzazione, supporto alla redazione, ricerca di notizie, coordinamento fra le associazioni e gli altri soggetti operanti sul territorio (dateci un capannone per lavorare). Voi vi fidate? Io mi fido. La bottega, periodicamente, metterebbe le gabbie grafiche a disposizione di chi, senza fini di lucro, le richieda: studenti di Lentini, un liceo di Verona, un gruppo d'immigrati marocchini a Catania, un gruppo di ragazze di Torino (sono esempi reali: quelli a cui distribuivamo le gabbie dei vecchI Siciliani). E adesso un po' di propaganda. Un giornale così è uno strumento completamente nuovo, tanto nuovo che fra tutti i posti della terra non può venire fuori che da Palermo. I giornali tradizionali sono vecchi, pesanti, noiosi e - quasi tutti - servili. Questo non ha poteri da difendere, non ha status ma funzioni. (La gente non legge i giornali attuali. Vi siete mai chiesti perché?). Un giornale così è un biglietto da visita per Palermo, fa capire meglio di ogni altra cosa che Palermo non solo sta in Europa, ma sta anche in un'Europa più gentile. E' come Pavarotti al Massimo, ma più adolescente e meno trombone. E costa molto di meno di Pavarotti. Ed è uno strumento utile, ed è una cosa che dura. UN VOLANTINO 5 gennaio 1998 "A CHE SERVE VIVERE, SE NON C'E' IL CORAGGIO DI LOTTARE?" 1984: "A Catania la mafia non c'è". Si formano comitati per "difendere il buon nome" della città contro quei pochi che sostengono il contrario e accusano politici e Cavalieri. 1998: "A Catania la mafia non c'è più". Settanta per cento dei voti ai progressisti, più che a Stoccolma, più che a Londra: che mafia può esserci mai in una città così civile? A Catania, insomma, la mafia qualche volta non c'è e qualche volta c'era prima ma ora non più: perché Catania, come tutti sanno, è una città laboriosa e felice. I suoi imprenditori - ieri Rendo e Costanzo, oggi Virlinzi e Rendo - portano benessere e lavoro. I suoi politici sono tutti concordi tranne qualche matto esaltato - per il benessere della città. I suoi giornalisti ieri pagati da Ciancio, oggi con Ciancio che li paga - informano i cittadini sulle numerose e benefiche iniziative di politici e imprenditori. Non ci sono più mafiosi a Catania: esattamente come nel 1945 non c'erano più fascisti e nel 1860 non c'erano più borbonici. E quanto ai garibaldini, o mettono da parte le utopie e si fanno buoni monarchici e piemontesi, o vengono semplicemente dimenticati. Nel 1984, uno dei più collusi magistrati catanesi (costretto al trasferimento per i servizi resi ai Cavalieri) era il giudice Grassi. Nel 1998, Grassi è consigliere di Cassazione e appare destinato a una brillante carriera, forse a sostituire il suo ex superiore, il giudice Carnevale. Nel 1984 nessun giornale italiano osava parlare dei quattro Cavalieri di Catania, e in particolare dell'impresa Rendo. Nel 1997, nessun giornale italiano ha dato notizia della confessione ("ho dato tangenti alla democrazia cristiana e ai socialisti") fatta davanti ai giudici da Eugenio Rendo. Nel 1984, i catanesi emigravano per quattro soldi nelle fabbriche del nord. Nel 1997, le grandi ditte del nord (Armani e gli altri) scendono fino a Bronte per fare lavoro nero e sfuttare - a tre soldi - i giovani catanesi. Nel 1984 nessuno faceva inchiesta sugli esatti confini dell'impero industriale che aveva in mano la città, quello dei Cavalieri: non se ne sapeva niente. Nel 1998, nessuno sa niente dell'impero Virlinzi e nessuno ne vuol sapere di più. Nel 1984, da Catania al governo ci andavano o i politici mafiosi o innocui tromboni che, senza fare danno, gli davano copertura. Nel 1998, c'è nel governo un vecchio democristiano catanese come Mirone, esponente del "rinnovamento" concordato degli anni Ottanta. Degli antimafiosi veri, di quegli stessi anni, nessuno vuol sapere nemmeno il nome: né a sinistra, né a destra. Nel 1984 l'unico quotidiano di Catania era La Sicilia di Ciancio, che se ne stava zitto sui mafiosi: Ciancio è quello che non ha voluto pubblicare il necrologio di Montana perché conteneva parole offensive per i mafiosi. Nel 1998, l'unico editore non solo di Catania ma di tutta la Sicilia e Calabria, e fra poco della Puglia, è ancora Ciancio: né la destra né la sinistra ne sembrano particolarmente preoccupate. Chi vuole ricordare Giuseppe Fava lo ricordi così, controcorrente. Non è vero che siamo tutti unanimi, tutti d'accordo. Ci sono i ricchi e ci sono i poveri, ci sono i fighetti alla moda e ci sono i dimenticati, ci sono coloro che vanno in televisione e ci sono coloro che si guadagnano la propria vita giorno per giorno. Bisogna scegliere da che parte stare: con tutt'e due non si può. Questo è ciò che ci ha lasciato Giuseppe Fava. TRENO DI NOTTE Italia Democratica, settembre 98 Non so. C'è un espresso di notte, un Torino-Agrigento, un treno di Natale. Soldati dappertutto, tutti meridionali: parlano ad alta voce, si chiamano fra loro, danno fastidio. Qui sul predellino della seconda classe ce ne sono almeno una decina, non c'è un millimetro per muoversi. "Talé, Saru, u viisti che minnazzi c'avia chidda?". Sono le due di notte e fa freddo. A ogni stazione qualcuno apre lo sportello, guarda il mucchio di valigie, scatole con lo spago, borse militari e soldati: scuote la testa e si tira indietro, fra un coro di sghignazzate. Ma adesso lo sportello si apre per la quarantesima volta: una gran borsa viene spinta dentro, dietro la borsa spunta la faccia di una ragazza, e infine la figura della ragazza intera. Si arrampica per i gradini ed è bella. Ha in braccio un bambino. Immediatamente si forma uno spazio libero in mezzo alla massa dei militari. Il treno riparte, la ragazza è seduta sul suo borsone, circondata da almeno cinquanta centimetri di spazio intangibile tutt'attorno. Il tema della conversazione adesso è "che facevo prima di partire militare". Nessuno più alza la voce, nessuno fuma. E il treno va. Oppure quei due contadini, marito e moglie, la sera dell'eruzione, a Nicolosi. Avevano staccato il cancello dai cardini e se lo caricavano sulla motoape - la lava era a centocinquanta metri. La casa, non c'era niente da fare; ma il cancello si poteva ancora recuperare. Lavoravano con calma e senza fretta. Il cancello sarebbe tornato utile, nella casa nuova. Oppure la casa di Stefano, a Santo Pietro di Milazzo: pareti pulitissime imbiancate a calce, la vanga da bracciante appoggiata al muro e i quindici libri nello scaffale, ognuno accuratamente rilegato con la carta velina: l'Origine della Specie, il Diciotto Brumaio, I Promessi Sposi. Oppure la piazza del paese, col circolo dei civili da una parte, la lega bracciantile dall'altra e in messo quei venti metri di selciato bianco e ostile. La mafia, nella Sicilia che ho conosciuto da ragazzo, non era affatto un'organizzazione criminale. Era il governo riconosciuto della regione. Ottimo per i grandi proprietari, che da noi hanno sempre avuto un peso molto maggiore che altrove; tollerabile per il medio ceto; ferocissimo e oppressivo per la grande massa dei contadini. I soldati del treno, i contadini di Nicolosi, i braccianti di Santo Pietro - tutti erano sotto qusto governo. Non era un governo clandestino. Mio padre, come tutti gli altri siciliani, andava regolarmente a pagare le tasse ai mafiosi; e non in qualche restrobottega di bar, ma a un regolare e pubblico sportello: le tasse della Regione Siciliana erano infatti - legalissimamente - dati in appalto a una società di mafiosi, i cugini Salvo di Salemi. Non era un governo scomodo, non per i ricchi: delle sei-sette rapine quotidiane di Catania, nessuna toccava mai ai grandi negozi del centro; le rapine "sbagliate" venivano punite con la pena di morte. E non era un governo clandestino. Si sapeva benissimo, per esempio, da dove venisse la forza elettorale siciliana di Andreotti. Ma, a Roma, non puzzava (non puzzava peraltro nemmeno ai tempi di Giolitti). Si ebbero, non una volta soltanto ma più d'una, incontri semiufficiali fra autorità di governo e boss mafiosi. Le logge massoniche, in città come Trapani o Palermo, fungevano da camere di compensazione. "La mafia contro lo Stato": una battuta sarcastica, agli occhi di un siciliano. Era un'occupazione militare, non una cultura. Oltre cento sindacalisti e militanti contadisi sono stati uccisi, combattendo per il loro popolo, negli anni Quaranta e Cinquanta. Nessun'altra regione ha pagato, dopo la Resistenza, un prezzo tanto alto per la difesa della democrazia. Morivano nel silenzio, senza che nessuno si curasse di loro: la mafia era un "complotto dei comunisti per screditare la Sicilia" - calunniatori i La Torre e i Li Causi, calunniati i cugini Salvo e i Ciancimino. I giornali, i politici, il governo, la Chiesa - Cardinale Arcivescovo in testa - difendevano i mafiosi accusati e ingiuriavano a gran voce i sovversivi. Negli anni Sessanta la mafia, da polizia degli agrari contro i contadini, divenne il braccio armato della speculazione edilizia, prima a Palermo e poi nelle altre città; rendendosi ancor più indispensabile per l'ordinato svolgimento del progresso sociale. Negli anni Settanta scoprì l'eroina; e accumulò una ricchezza finanziaria tale da rendersi non più interlocutore subalterno ma partner alla pari, almeno in diversi settori, della classe dirigente nazionale. Ma qui, s'intoppò qualcosa. C'è un buco di trent'anni, fra le lotte antimafiose del dopoguerra e quelle dei primi anni Ottanta. Ma un filo sotterraneo rimase sempre, una memoria. Quando La Torre e dalla Chiesa e Chinnici, dapprima come "tecnici" poi facendo appello sempre più apertamente alle energie popolari, riaprirono la lotta al potere mafioso, non rimasero soli. Una fortissima minoranza della società siciliana colse rapidamente l'occasione, appena in presenza di un interlocutore credibile (ancorché non egemone) nello Stato, e si gettò senza riserve nella lotta. Fu una lotta politica, contro una classe dirigente al potere e per una nuova e più libera visione della società; ebbe una sua memoria, e delle sue radici. Seppe costruirsi le sue alleanze, i suoi progetti politici, le sue culture; non fu un "in galera!" e un "abbasso!" (come in parte fu, invece, la percezione "popolare" di Mani Pulite). Nell'Italia dei tardi anni Ottanta fu forse l'unico fenomeno compiutamente e profondamente democratico registrato nel Paese. E' per questo che, nel momento della crisi del Craxi-Andreotti, i valori e le culture della lotta antimafiosa apparvero per alcuni mesi un'alternativa non solo auspicabile ma possibile alle culture e ai valori del regime fallito. Ed è ancora per questo che a tutt'oggi qualunque elemento che richiami anche lontanamente quei valori viene immediatamente preso a bersaglio prioritario dai media dell'establishment. Il panico di quei mesi, il terrore che culture e valori realmente alternativi possano sedimentarsi attorno a qualcosa, è infatti ancora vivo. Come molti prima di noi - i mazziniani al tempo dell'Unità, i partigiani noi antimafiosi non siamo riusciti a dare una veste politica adeguata al consenso popolare di cui abbiamo potuto disporre nel periodo della transizione. E siamo rimasti sconfitti; non dalla destra che ormai (oggi come allora) è più uno spauracchio per i democratici che un'alternativa politica reale, bensì dalla "sinistra" moderata e "realista" che riafferma il primato della politica professionale, del "queta non movere", delle larghissime intese. Niente di nuovo. E' dolce esser perdenti, se proprio perdere si deve, insieme col proprio popolo, senza tradire; e c'è abbastanza memoria, delle vicende recenti e delle più remote, per sostener la fiducia che il filo, prima o poi, sarà ripreso da un'altra generazione. Ci rassicurano moltissimo, in questo senso, gli attacchi sotto qualunque pretesto al pool di Milano o a Caselli: significano che i nemici della democrazia hanno capito benissimo come stanno le cose, quali sono i pericoli per il loro potere e come tutto sommato essi continuino ad essere sempre potenzialmente attuali. E se l'hanno capito i nemici, chissà che prima o poi non lo capiscano pure gli amici. LA MEMORIA Due Punti, ottobre 98 I vecchi c'erano. I giovanissimi, pure. Quelli che mancavano, e mancavano totalmente, erano i trenta-cinquanta, quelli che stanno facendo carriera ora. Stiamo parlando di giornalisti. Quelli che c'erano e quelli che non c'erano alla celebrazione di Alberto Cavallari, il sedici ottobre qui a Milano (che non ci fossero sindaci, assessori e milanesi-da-bere è tutt'un altro discorso, che per il momento lasciamo). Si crede comunemente che compito del giornalista sia di cercare le notizie d'oggi. Non è nel tutto esatto. Il compito del giornalista è di cercare le notizie, *e* di conservare la memoria. Un giovane romanista aggredisce un laziale; un giovane romanista aggedisce un ebreo: le due "notizie" differiscono drammaticamente perché diversamente correlate alla memoria. La parola "extracomunitario" in Italia, e tutte le "notizie" ad essa legate, non può assolutamente essere letta davvero se non in relazione alla parola "Garsterarbeiter", fornita (o colpevolmente rimossa) dalla memoria. E così via. Alberto Cavallari, per chi fa il mestiere di giornalista, è una cifra della memoria. Non si può lavorare senza. Il test del sedici ottobre dimostra che i giornalisti milanesi (ma senz'altro, in tal caso: i giornalisti italiani) mancano di questa cifra; mancano di memoria. Come possono dunque fare questo mestiere? Anzi, in realtà, è proprio vero che essi facciano questo mestiere? E se il giornalismo in realtà fosse estinto, se i "giornalisti" e i "giornali" fossero già diventati, nella sostanza dei fatti, un'altra cosa? E se giornalismo e giornalisti e giornali fossero oramai da ricercare - come delle spore sperse al vento; o forse come dei semi - soltanto in fogli minimi come questo? Qui dove c'è ancora memoria? IL GIORNO DELLE ELEZIONI giugno 1999 Il 6 gennaio del 1984, davanti alla sede del mio giornale - il direttore era stato ammazzato dalla mafia il giorno prima - c'era un gruppo di ragazzi fra i sedici e i diciott'anni. Erano le otto del mattino e la saracinesce del giornale era ancora chiusa. "Che cosa volete? - li apostrofai bruscamente Abbiamo da fare, oggi. Molto da fare". "Siamo venuti per fare la diffusione militante del giornale" rispose il più anziano di loro. Io non sapevo ancora se sarebbe uscito, quel giorno, il mio giornale. Ma loro sì. Non ne avevano il minimo dubbio,e venivano - com'era stato loro insegnato - a mettersi a disposizione nel momento del pericolo. Erano comunisti. Nessuno di quei ragazzi - Federazione Giovanile Comunista Italiana, Circolo di Sant'Agata Battiati, provincia di Catania, Sicilia - ha fatto una carriera nel partito. Ho incontrato quest'anno, per puro caso, il loro "capo" (si chiamava Maurizio Parisi, se può interessare il nome di un comunista che non conta) adesso è un giovane disoccupato sulla trentina, ma all'ingresso di casa sua c'è sempre il manifesto col viso del Che Guevara. Un ragazzo era stato ucciso in quegli anni, in provincia di Catania, solo perché era della Fgci: suo padre, che era un mafioso, non si fidava di lui,che era un comunista. Il più famoso avvocato comunista dell'isola, l'avvocato Riela, si rese in quegli stessi anni protagonista di una polemica, perché difendeva i mafiosi. "Professionalità: difendo chi mi paga", rispose il compagno avvocato; e la polemica finì lì. Ricordo i compagni del mio paese passarsi i sacchetti di sabbia, nel Settantadue lungo l'argine, il giorno della grande alluvione. Ricordo i figiciotti col sacco a pelo, nel 1976 su in Friuli, i primi da tutta Italia - e, per qualche giorno, i soli - venuti inquadrati e compatti a soccorrere i terremotati. Ricordo la compagna Eliana, ex staffetta partigiana e adesso organizzatrice sindacale, percorrere in bicicletta i villaggi della pianura per organizzare le contadine. Ecco, questo partito - i comunisti - è quello che ha perduto le elezioni. Non le ha perdute adesso, le ha perse molti anni fa. Ed è l'unico, adesso, chepossa salvare il paese. Sottrarci alla nostra vergogna di annegatori d'albanesi, di bombardatori dall'alto, di padroni. Si contano le percentuali e i centesimi, adesso, si disputa su chi sia il proprietario, adesso, della parola "di sinistra". Ma a Maurizio Parisi e ai suoi compagni nessuno ha più niente da dire. QUASI UN PROMEMORIA ai ragazzi dell'Alba, 1994 Scacciato dai padroni della terra anche il ragazzo Michele molti anni fa se ne partiva per città senza mare, schiavo - come tanti prima di lui - dei vincitori Se la Sicilia ha bandiera, non ha trinacrie alate, non colori brillanti di baroni e di re. Una zappa fangosa è il nostro unico stemma, una valigia pesante, per le strade del mondo, il nostro regno. Così per molti secoli. Antichi padroni di schiavi e baroni feudali, "sorci" di Re Ferdinando, e borghesi di "Talia", notabili grigi di paese e rozzi gerarchi neri, padroni dell'eroina e Cavalieri: dalla Sicilia stessa in una ininterrotta catena sortivano gli sfruttatori dei siciliani. E così per molti anni. Di quando in quando uno degli sfruttati gridava. Capi di ribelli organizzarono - alle radici del tempo, sotto Roma - tre rivolte di schiavi: Spartaco, loro fratello, lottò contemporaneamente a loro che fecero della rocca di Enna la capitale degli schiavi. Furono crocifissi. Re Federico, nel medioevo, squartò e arse vivi a decine i servi della gleba ribelli: fuggivano nei dammusi. Il conte di Modica, signore di vita e di morte dovette fuggire una volta dalla folla - che pochi giorni dopo fu decimata - dei contadini. Così passarono i secoli. Poi gli antichi baroni, man mano che il progresso cresceva e nuove cose venivano dall'Europa si trasformarono - ma sempre restando se stessi - in "galantuomini" e "civili". Arrivò Garibaldi: ma un'altra abile trasformazione li mise per altre sette generazioni al riparo dalla sete di vivere dei siciliani. Ed è passato il tempo e i Cavalieri di oggi non sono affatto casuali: catene infinite li legano alle radici dell'ingiustizia arcaica, nata all'origine, su questa terra. Neanche noi lo siamo. Dopo generazioni di sconfitti le generazioni dei giovani sempre si sono riannodate all'insaputa di tutti. Le bandiere rosse nei feudi - Portella delle Ginestre, Turiddu Carnevale, Miraglia fiorirono sulla lunghissima catena. Ed altro tempo è passato. Oggi i discendenti degli schiavi hanno finalmente un ponte da attraversare: possono forse vincere, dopo anni e anni, se fantasia e ragione s'allargheranno dappertutto a partire da qui. E questo è tutto. Nelle poche ore e nelle cose modeste che ci tocca fare c'è un concentrato antichissimo, grande, di lotte e di dolori che ora vengono al nodo. Per questo esistiamo, ora che una strana ironia - benevola, probabilmente affida ai deboli, agli sparpagliati, ai ragazzini la sorte dei cavalieri e degli ultimi baroni. COLOPHON QUESTO LIBRO E’ STATO COMPOSTO IN CARATTERE TIMES NEW ROMAN NEL DICEMBRE 2005, DA QUALCHE PARTE IN ITALIA, PER I SUOI AMICI MARDIPONENTE mardiponente mardiponente