LE DONNE DELL`UNITA` D` ITALIA

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LE DONNE DELL`UNITA` D` ITALIA
LE DONNE DELL'UNITA' D' ITALIA
Il “Risorgimento” delle donne è davvero concluso?
Raccolta di Ritratti
a cura di Lara Sabbadin
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L'Assessorato alle Pari Opportunità della Città di Noale presenta:
LE DONNE DELL'UNITA' D' ITALIA
Questo è stato un anno speciale, abbiamo festeggiato assieme il 150° Anniversario
dell'Unità di Italia. Una data importante a cui non saremmo arrivati senza il silenzioso
contributo di tante donne che seppur di diversa estrazione sociale e culturale si sono
battute per l’unità, l'indipendenza, la democrazia e la pari dignità dei sessi.
In occasione di questo evento unico l'Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di
Noale, ha raccolto l’idea di alcuni Cittadini di dare rilievo alle protagoniste più o meno
conosciute del nostro Risorgimento.
Donne che hanno operato spesso nell'anonimato, in assenza di riconoscimento
partecipando alla lotta risorgimentale come combattenti in prima linea o assistendo i
feriti, continuando a lavorare con dedizione in casa o nei campi, in attesa di lettere o
notizie dei familiari o ancora promuovendo il fermento intellettuale tipico dell’epoca.
Proponiamo quindi in questo libretto il ritratto di dieci donne eccezionali, sperando che il
loro esempio sia sprono per tutte le Cittadine di Noale.
Con l’occasione ringrazio ancora una volta la dott.ssa Lara Sabbadin che ha collaborato
per la stesura dei testi, senza di Lei ed il suo entusiasmo ed impegno questa piccola
opera non avrebbe potuto nascere.
Avv. Michela Barin
Assessore alle Pari Opportunità
Per conoscere meglio le attività dell’
Assessorato alle Pari Opportunità della Città di Noale
Ufficio Segreteria Urp
Comune di Noale
tel. 041.5897255
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Assessorato alle Pari Opportunità Comune di Noale
Piazza Castello 18 – 30033 Noale (Ve)
Tel. 041.5897255 – fax 041.5897242
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Effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia.
In copertina:
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LE DONNE DELL'UNITA' D' ITALIA
ƒ Anita Garibaldi (1821-1849)
ƒ Gualberta Alaide Beccari (1842-1906)
ƒ Hurricane Jessie - Jessie White Mario (1832-1906)
ƒ Maria Antonietta Torriani - Marchesa Colombi (1846-1920)
ƒ Laura Acton (1829-1915)
ƒ Peppa la Cannonniera
ƒ Giulia Cavallari (1856-1935)
ƒ Enrichetta Caracciolo (1821-1901)
ƒ Rhoda de Bellegarde de Saint Lary (1890-1918)
ƒ Mariannina Coffa (1842-1878)
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Introduzione
Questo piccolo contributo sulle donne del Risorgimento ha rappresentato per me
un’occasione del tutto particolare, uno spunto che partendo dai festeggiamenti per i 150 anni
dell’Unità nazionale ha portato a riflettere su alcune importanti tematiche femminili attuali ancora
oggi. La domanda a sottotitolo della raccolta racchiude in sé molte di queste riflessioni e vuole porsi
quasi a sfondo di un percorso di lettura attraverso le dieci biografie proposte: dieci “casi”, dieci vite
che aprono alcune finestre sul passato a cui la nostra realtà “nazionale” attinge oggi più
direttamente, quello del periodo risorgimentale.
Finestre aperte, dunque. Una comunicazione tra passato e presente che indica spesso
percorsi non conclusi, questioni e problematiche ancora insolute, vite esemplari che qualche volta
sono rimaste solo con rare seguaci. Finestre aperte e non porte chiuse, perché tanti aspetti
dell’esperienza di queste figure ci spingono, forse, a ritenere non completamente concluso e
perfezionato il percorso di “risorgimento” della donna nella realtà quotidiana del nostro paese.
Questa raccolta è nata e cresciuta un po’ alla volta, in qualche modo è evoluta da sé di mese
in mese; quando si avvicinava il 17, giorno in cui una “nuova donna” sarebbe dovuta apparire, era
un po’ lei stessa a presentarsi, a emergere dal grande numero di figure rilevanti e famose di cui il
nostro Ottocento è popolato. Si è così composto un mosaico di donne dalle caratteristiche e dal tipo
di impegno diversi; si tratta spesso di figure “minori”, poco famose e frequentate dai testi di storia e
dai revival ottocenteschi, ma ugualmente - e forse ancor più - intriganti.
Dopo una doverosa apertura su Anita Garibaldi, la più celebre eroina del Risorgimento,
quasi paradigma dell’esperienza delle donne in quel periodo, il percorso che qui si propone tocca
figure come Gualberta Alaide Beccari, infaticabile scrittrice e pubblicista legata alla terra veneta,
simbolo di quel nuovo modo di intendere il “fare gli italiani” promosso proprio dalle “donne con la
penna in mano” dell’epoca. Ancora legata al Veneto, capace tanto con la scrittura quanto nelle
azioni patriottiche è Hurricane Jessie. Scrittrice con intenti educativi è invece Marchesa Colombi,
mentre davvero sorprendente è l’immagine di Laura Acton, una first lady all’altezza del marito,
colta e abile, sensibile e aggiornata. Un capitolo, attraverso la figura quasi mitica di Peppa “la
Cannoniera”, lo meritavano tutte quelle donne che, spesso senza lasciare traccia, hanno combattuto
da “veri uomini” per una causa che poi le ha tradite per tanti aspetti.
La prima donna laureata in lettere del nuovo stato unitario, Giulia Cavallari, si presenta
come un cuneo appuntito che si insinua nell’attuale e spinoso argomento del rapporto tra le donne e
il lavoro: uno mezzo per recuperare dignità sociale ma con i costi che tutte conosciamo. Anche la
religione e la religiosità erano temi spinosi, e lo dimostra l’esperienza claustrale di Enrichetta
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Caracciolo, che vive proprio il momento della liberazione dalle costrizioni di una monacazione
imposta. E lei, come altre, ci induce a riflettere anche sul tema del matrimonio: più frequenti
divennero i riti civili e a volte anche i matrimoni misti, come nel suo caso. Qualche donna infelice
avrà anche finalmente il coraggio di lasciare il marito e di tentare di ricostruirsi una vita propria,
soprattutto nei centri urbani.
La serie di figure femminili si conclude con due profili molto diversi e lontani. Rhoda de
Bellegarde terminò la sua giovane esistenza in Veneto assistendo generosamente i soldati come
crocerossina durante la Prima Guerra Mondiale, conflitto considerato l’ultimo atto dell’Unità
nazionale. Invece Mariannina Coffa, siciliana e altrettanto giovane, chiude con un retrogusto amaro
questa raccolta. Donna sensibile e particolarmente dotata, pagherà amaramente tutte le
contraddizioni della sua epoca; seppur figlia di un uomo attivo nei moti risorgimentali, non potrà
liberarsi dalle imposizioni e dalle limitazioni che il mondo retrogrado che si voleva allora superare
infliggeva ancora alle donne.
Questi dieci brevi profili non hanno la pretesa di essere esaustivi né di dare la completa
visione di un mondo “in rosa” molto complicato, ma avranno forse il pregio di indurre i lettori a
una riflessione proprio sulla domanda da cui si era partiti: molte di queste donne hanno continuato
indefessamente la loro lotta nonostante le opposizioni, le costrizioni, la malattia; molte di loro sono
morte sole, nell’ombra e in povertà. Ma oggi possiamo davvero dire che tutte le loro lotte siano
superate e siano servite a cambiare pienamente la condizione femminile nella società?
Lara Sabbadin
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Anita Garibaldi. Una vita da romanzo
Ana Maria de Jesus Ribeiro, figlia di un mandriano, nacque nel 1821 nello stato brasiliano di
Santa Catarina. Bambina vivace dalla carnagione olivastra e i capelli neri, che amava cavalcare
anche di notte nei territori acquitrinosi e lungo le spiagge, rimase orfana del padre in tenera età. La
madre combinò ben presto il matrimonio alla giovane figlia e Aninha si ritrovò sposata già nel 1835
con il calzolaio del paese, Manuel “dei cani”.
Le lettere che dettava perché fossero inviate alla sorella testimoniano l’infelicità di
quell’unione, e i sogni di un ragazza che dal legame con un uomo desiderava ben altro che piatta
quotidianità. La coppia male assortita venne divisa dalla Guerra Civile che in quegli anni
sconvolgeva il paese; schierati da parti opposte, furono definitivamente separati dall’arruolamento
di Manuel nell’esercito regolare catarinese che combatteva i rivoluzionari, per i quali parteggiava
invece la giovane Ana. Nel frattempo, dall’altra parte del mondo Giuseppe Garibaldi (1807-1882),
che era affiliato alla Giovine Italia e aveva partecipato ai moti genovesi del 1834, veniva
condannato a morte dal governo piemontese. Fuggiasco, peregrinò in vari luoghi, fino a raggiungere
Rio de Janeiro nel 1836, dove si congiunse agli altri esuli connazionali. L’anelito alla libertà che
fremeva presso i ribelli brasiliani in quel periodo non poteva certo essergli indifferente e si unì alla
loro rivolta contro il governo brasiliano, dando prova di grande abilità nelle azioni da corsaro contro
le navi imperiali.
Quasi leggendario è il racconto che lo stesso Garibaldi fa della prima volta che vide Aninha,
scrutando la costa con il cannocchiale dal cassero di una goletta. Sbarcò rapidamente a terra e corse
a cercarla. Da quel giorno dell’estate del 1839 le loro vite seguirono la stessa strada. Nel turbolento
clima rivoluzionario, la diciottenne Anita, come ora la chiamava Giuseppe, si imbarcò con lui sulla
nave dei rivoluzionari e incoraggiò gli uomini alla ripresa dei combattimenti. Era altrettanto
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temeraria negli scontri a terra, sempre a cavallo con la spada sguainata, fino alla nascita del loro
figlio, Menotti Domingo, nel settembre del 1840. Ma messasi molto male la situazione per i
rivoluzionari, frantumati oltretutto da lotte intestine, la famiglia decise l’anno seguente di spostarsi
in Uruguay. Qui imperversava la guerra contro l’Argentina; Garibaldi trovò occupazione
nell’esercito e poi nella flotta uruguaiani e poté sposare Anita nel 1842. La donna, sempre
esuberante e madre ormai di altre due figlie (una vissuta pochissimo), mal sopportava l’inattività in
casa mentre il marito diventava celebre per le sue imprese, e si impegnava come infermiera della
Legione italiana, intervenuta nell’assedio di Montevideo.
Nel 1847, dopo la nascita del quarto figlio e giunte notizie di parziali mutamenti della
situazione in patria, Anita e la progenie salpavano per l’Italia. A Genova la famiglia di Garibaldi
veniva accolta con tutti gli onori; tutti ormai conoscevano la fama dell’uomo che comandava le
truppe dalle casacche rosse – una divisa povera, che l’eroe era riuscito a recuperare e che
distingueva in porto i macellai e i portatori di carcasse. Un anno dopo anche Giuseppe tornava in
patria, ma la situazione era ben altro che rosea: l’Italia fiammeggiava di insurrezioni e tumulti, si
animava e si disperava in un’altalena incessante di eventi.
Nell’estate del 1849 Anita, nuovamente incinta, lasciò Roma cavalcando accanto al marito
che guidava qualche migliaio di uomini nella risalita della penisola italiana. La giovane donna,
stremata da malore, morì tra le braccia del marito nei pressi di Ravenna durante quelle azioni,
incitando fino all’ultimo le truppe garibaldine a non fuggire e a non ritirarsi da codardi.
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Gualberta Alaide Beccari. La donna a fondamento di una società nuova
Gualberta (1842-1906) fu una donna di primo piano nell’Italia dei primissimi anni postunitari, e la sua simbolica esperienza di vita passò in significativa parte in terra veneta.
L’arcinoto detto che per tradizione si fa risalire a Massimo d’Azeglio, “Fatta l’Italia, bisogna
fare gli italiani”, trova forse negli ultimi decenni del secolo XIX una sua più compiuta ed
emotivamente partecipata concretizzazione in talune straordinarie espressioni femminili, in
particolare grazie a quelle donne che presero il coraggio e la penna e si diedero anima e corpo al
giornalismo, all’inchiesta, alla pubblicistica più o meno specializzata.
Gualberta Alaide nacque a Padova da Antonietta Gloria - attrice di teatro accanto al marito,
donna colta e politicamente consapevole e attiva – e da Girolamo Giacinto Beccari di Montagnana,
altrettanto colto e dinamico: direttore della compagnia filodrammatica padovana dei Solerti, fu
autore e traduttore di testi teatrali. Nel 1848 Girolamo si arruolò nell’esercito del Governo
Provvisorio, dal 1859 si trasferì con la famiglia a Modena, territorio di insorti, e dal 1866 (quindi
dall’annessione del Veneto allo stato italiano) ritornò a Venezia per lavorare come ufficiale
contabile del comando generale di artiglieria. Gualberta, terza e unica superstite di quattordici figli,
seguì da vicino il padre, stando accanto al quale si costruì una profonda cultura facendogli da
“segretaria” in un mondo tipicamente maschile, senza peraltro frequentare un corso regolare di
studi. Oltre a coltivare passione e propensione per la scrittura e la drammaturgia, con i genitori si
avvicinò già durante l’adolescenza al mondo dei patrioti, degli insorti, in particolare al gruppo dei
mazziniani; maturò quindi giovanissima idee progressiste e femministe, che trovarono ampia
espressione nelle riviste da lei dirette, incentrate quasi totalmente sul ruolo della donna nella società
e sull’importanza dell’educazione.
Nel 1868, a 26 anni, avviò a Padova la pubblicazione della rivista “La Donna”, che si
diffonderà su tutto il territorio nazionale ma con maggiore concentrazione in Lombardia e
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Romagna. Conoscere questo periodico permette di capire da un’angolatura privilegiata l’ambiente e
il duro clima in cui si muovevano le prime femministe italiane, e la forza – anche intellettuale – che
era loro necessaria per propugnare e difendere le loro idee.
“La Donna” fu pubblicato a Padova negli anni 1868-1869, a Venezia nel periodo 18701876, infine a Bologna dall’anno successivo alla chiusura nel 1891. Lo scopo di Gualberta, secondo
le sue stesse parole, era di offrire un mezzo per “dare in una donna nuova, rifatta da una nuova
educazione e da una istruzione adatta, quella cittadina alla patria di cui questa tanto abbisognava,
per consolidarsi moralmente dopo che si era costituita nazione”. Il consolidamento morale della
donna era infatti, nelle sue idee, la base per un nuovo ruolo sociale della donna stessa e per la
formazione delle generazione future di cittadini. Madre e donna-modello italiana divenne Adelaide
Cairoli, che nelle battaglie risorgimentali aveva perduto quattro figli.
Significativa la sequenza dei sottotitoli del giornale: dapprima “Periodico morale ed
istruttivo. Compilazione di donne italiane”, poi “Periodico d’educazione compilato da donne
italiane”, infine negli anni bolognesi giornale che “propugna i diritti femminili”. La rivista, davvero
redatta con la collaborazione e gli interventi di sole donne (unica in Italia), tra le quali le più celebri
pubbliciste e pensatrici femministe dell’epoca, aveva effettivamente scopi educativi, attraverso la
dichiarazione dei quali molto si capisce della personalità della sua direttrice: “… il mio periodico
era veramente tale quale si intitolava, perché esso vagheggiava un’educazione sociale del tutto
rinnovata. S’esso non era educativo nel senso elementare della parola, era tale nel suo più ampio
significato. Tutto è questione d’educazione”. Educazione mirata principalmente alla donna, i cui
compiti, rispetto alle precedenti concezioni venivano investiti di grandi responsabilità, come si
legge nel Programma della prima uscita: “La donna buona, saggia, onesta cittadina, laboriosa è lo
impulso alla civilizzazione di un popolo: ambiziosa, vana, civetta, concorre a formare viziata la
società”. I difficili e spinosi temi che il giornale affronta sono per esempio l’istruzione femminile,
che si auspicava parificata a quella maschile, anche in fatto di possibilità di accesso all’università,
in un mondo in cui alle donne erano riservati appositi istituti e non potevano iscriversi a licei o
scuole tecniche. Gualberta sperava, con Anna Maria Mozzoni, che prima o poi si sarebbe arrivati
alla scuola mista: “Speriamo poi che col tempo, le scuole miste ci verranno accordate, e allora
notando le famiglie i vantaggi massimi che ne deriveranno, per l’educazione dei loro figliuoli,
esclameranno nel loro segreto: Chi le sosteneva e le volle introdotte, aveva ben ragione!”. La
pubblicazione, in accordo con questi intenti, dava sempre notizia dell’apertura di nuovi istituti,
come la scuola superiore femminile di Venezia alla fine del 1869. Ancora, dava ampio spazio ai
problemi dell’insegnamento, in particolare alla voce delle maestre di campagna che più acutamente
avvertivano i disagi e la discriminazione salariale nei confronti dei colleghi maschi. E proprio la
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parità salariale era un altro dei temi battuti dal giornale, assieme alla rivendicazione dei diritti
politici (supportati ovviamente dalla consapevolezza derivante da educazione e istruzione), o ancora
il meretricio di stato o il divorzio.
Gualberta Beccari scrisse anche opere teatrali (“Fidanzati senza saperlo”, “È storia”, “Un
caso di divorzio”), incentrate sui temi dell’emancipazione, e raccolte di racconti. Sempre in linea
con le sue convinzioni circa la necessità di formare secondo alti e radicati valori morali e civili le
nuove generazioni, dal 1886 fin quasi alla morte diresse anche “Mamma”, un giornalino per
l’infanzia.
“La Donna”, la sua creatura maggiore, per la quale si era votata anima, corpo e sostanze
economiche, chiuse nel 1891. Gualberta non godeva di buona salute: a lungo assistita dalla madre,
era spesso costretta a interrompere la sua intensa attività a causa di una mal specificata malattia
nervosa, che le causava fasi di immobilismo e afasia. Morì a Bologna nel 1906, in commovente
povertà ma in grande lucidità: “[…] io mi guadagno la vita col frutto della mia penna, e sappiamo
che in Italia ciò vuol dire […] vita stentata; d’altra parte io mi sono messa per una via scabrosa: ho
princìpi saldissimi […] non transigo con essi e quindi tanto più i guadagni son scarsi”.
A questa consapevolezza nulla si può aggiungere se non che, tristemente, in poco più di un
secolo nulla o quasi è cambiato: le evidenze ci dicono che le donne attaccate ai loro princìpi non
attraggono l’attenzione dei rotocalchi, le donne abili nella loro professione sono costrette a dure
regole di coesistenza con i tanti aspetti del quotidiano, le donne di cultura difficilmente
arricchiscono quanto le “vane” e “civette” che popolano i teleschermi.
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Hurricane Jessie - Jessie White Mario. Una patriota straniera
La vita di questa grande donna protagonista del Risorgimento italiano, dai capelli rossi e gli
occhi chiari, fu intensa e affascinante; così dovette essere lei stessa, con un tale carattere che le
valse proprio quel soprannome di “Uragano” datole da Mazzini. Un’esistenza avventurosa che
iniziò nel 1832 in un piccolo borgo nei pressi di Portsmouth e terminò in un paesino del Veneto
meridionale.
Miss Uragano era figlia di un piccolo costruttore di navi di quella cittadina inglese. Il padre
era caratterizzato da un forte fanatismo religioso e impose alla famiglia un’educazione
estremamente rigida; la madre, che purtroppo morì quando Jessie era molto piccola, era figlia di un
latifondista statunitense e uno zio era noto per essere stato uno dei primi possidenti ad aver ridato la
libertà agli schiavi di colore.
Dopo una giovanile fase di ribellione ai condizionamenti della rigorosa disciplina religiosa
impostale, Jessie si riavvicinò agli studi teologici a Londra, concentrandosi però sulle componenti
filosofiche, sociali e meno convenzionali della materia, e iniziando presto a dedicarsi ad attività
giornalistiche. Studentessa universitaria a Parigi particolarmente attenta ai fermenti italiani, nel
1854 le si presentò l’occasione di accompagnare in Sardegna la ricca inglese Emma Roberts, che
doveva ricongiungersi all’amato Giuseppe Garibaldi. Il viaggio la entusiasmò e restò lei stessa a
lungo legata da amicizia a Ricciotti, figlio dell’eroe.
Jessie era allora ineluttabilmente attratta dalla figura di Mazzini, le cui posizioni più radicali
lo ponevano spesso a una considerevole distanza da Garibaldi. Data la pericolosità delle situazioni
in cui la donna si veniva a trovare per la sua accesa e fattiva adesione alla causa italiana, Mazzini
stesso le aveva affiancato per proteggerla l’amico Alberto Mario. Nel 1857 il fallimento
dell’impresa di Pisacane per liberare Napoli travolse il gruppo di cospiratori fino al suo vertice:
Mazzini riuscì a fuggire a Londra ma Jessie e Alberto poco dopo vennero arrestati e tradotti nel
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carcere di Sant’Andrea a Genova; qui la loro amicizia si intensificò e per via epistolare divenne un
travolgente amore.
Alberto Mario era nato nel 1825 a Lendinara e aveva studiato matematica e giurisprudenza
all’Università di Padova, dov’era presto entrato in contatto con i gruppi studenteschi che
organizzavano le rivolte antiaustriache; fuggito dopo la repressione di Radetzky in varie città e
infine a Genova, qui aveva conosciuto ed era poi rimasto al fianco di Mazzini. Col tempo però
aveva maturato molto le sue riflessioni teoriche sulla questione dell’Unità d’Italia e sui modi in cui
questa avrebbe potuto avvenire.
Sempre in quel 1857 la coppia venne scarcerata e convolò a nozze civili in Inghilterra, da
dove continuò intensamente la campagna giornalistica a favore della causa italiana. L’anno
successivo si spostarono - per lo stesso motivo e per raccogliere fondi - negli Stati Uniti, dove
vennero favorevolmente accolti; ma al ritorno sia la maturazione intellettuale di Jessie, sia le mutate
condizioni politiche che il corso drammatico degli eventi causarono una decisa virata alla loro
esperienza. Più volte arrestati, ripararono in Svizzera e qui si avvicinarono a Carlo Cattaneo,
condividendone molte idee. Nel 1860 Jessie e Alberto parteciparono attivamente alla spedizione dei
Mille, impresa nella quale lei si occupò di un ospedale imparando addirittura attività di chirurgia e
uscendo spesso sotto il fuoco nemico per portare acqua e cibo e raccogliere i feriti.
La storia del completamento dell’Unità d’Italia continuò poi il suo corso, noto a tutti. Nel
1871 Garibaldi si ritirava a Caprera, Mazzini moriva e i coniugi Mario si ritiravano a Lendinara. Da
qui Jessie, nonostante una malattia che le limitava l’uso delle mani, continuava la sua attività di
scrittrice pubblicando libri sulle vicende che aveva vissuto in prima persona (La miseria di Napoli,
Le miniere di zolfo, La vita di Giuseppe Garibaldi e le biografie di altri protagonisti del
Risorgimento italiano). Nel 1883 Alberto Mario moriva e la caparbia inglese, con l’aiuto di Giosuè
Carducci, terminò tutte le opere del marito e raccolse in due volumi tutti i suoi articoli (Scritti
letterari e scritti politici), continuando a svolgere la sua attività giornalistica come corrispondente
per giornali inglesi e americani, oltre che a stendere i suoi propri testi.
Jessie trascorse gli ultimi suoi anni a Firenze insegnando letteratura inglese all’istituto di
Magistero di Firenze, fin quando morì nel 1906, certamente non ricca. Le sue ceneri raggiunsero
quelle del marito nel cimitero di Lendinara, fino al 1899 sepolto nel giardino di casa. Al Vittoriano
sono conservati tantissimi suoi documenti, lettere e scritti, non ancora interamente studiati.
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Maria Antonietta Torriani. La Marchesa Colombi
Maria Antonietta Torriani non ha combattuto dietro alcuna barricata, non ha affiancato come
compagna alcun eroe, non ha viaggiato in lungo e in largo per l’Europa inseguendo ideali e uomini
votati alla libertà. Ebbe però un modo tutto suo di essere una protagonista del secondo Ottocento,
dell’Italia da poco unita e afflitta da pesanti retaggi di un’epoca che non poteva concludersi nel
tempo in cui si volta la pagina di un libro. Nata nel 1846 a Novara, rimasta presto orfana aveva
compiuto studi come maestra elementare, ma con la grande passione per la scrittura e per gli aspetti
sociali. Si trasferì quindi a Milano, città ben più dinamica e interessante rispetto alla provincia
piemontese, dove frequentò i circoli intellettuali più progressisti e conobbe personaggi di grande
interesse come la sociologa e protofemminista Anna Maria Mozzoni. Intraprendente e audace,
sposò e dopo pochi anni si separò dal direttore di un periodico cui si era rivolta per offrire
collaborazione. Si trattava di Eugenio Torelli Viollier, il giornalista che nel 1876 fonderà il Corriere
della Sera. Dopo la fine del matrimonio, Maria Antonietta non lasciò la città lombarda e continuò
con grande intensità la sua attività di scrittrice, assumendo ironicamente lo pseudonimo di
Marchesa Colombi, un personaggio comico di una commedia di Paolo Ferrari. Questo le permise di
muoversi con più disinvoltura nell’ambiente letterario dell’Italia postunitaria e di descrivere con
particolare attenzione e impegno sociale il mondo soprattutto femminile di allora. Contraddistinse
sempre la sua scrittura una vena ironica mordace ma elegante e morbida, che rendeva godibili e allo
stesso tempo taglienti le sue opere. La sua ampia produzione, di una qualità e profondità tali da
elevarla certo tra i maggiori autori del suo periodo, spazia dai romanzi sociali alla letteratura per
l’infanzia, dalle operette morali alle raccolte di racconti, dai saggi alle opere per teatro. Morta nel
1920, la sua epoca la considerò soprattutto come scrittrice per il pubblico femminile, per la costante
attenzione proprio al mondo delle donne, alle tematiche sentimentali e alla precisione descrittiva
della quotidianità domestica; la sua rivalutazione critica si deve a Italo Calvino e a Natalia
Ginzburg, che ne hanno più compiutamente indagato e apprezzato la figura, la portata nella storia
della letteratura italiana e lo stile innovativo.
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Tra le sue opere più celebri si colloca “In risaia”, del 1878, un romanzo che affronta la dura
tematica del lavoro femminile nei campi associandola all’analisi di alcune dinamiche sociali che
coinvolgevano, spesso in modo negativo, talune figure “sfortunate” di donne. “Un matrimonio in
provincia” approfondisce invece gli aspetti della vita di una donna lontana dai centri della cultura e
della modernità, relegata all’unico diversivo delle passeggiate nella campagna e inchiodata allo
scorrere uniforme e monocorde del tempo e degli anni, nel “passaggio” dal padre al marito: dopo tre
figli, “Il fatto è che ingrasso” è la frase che, indicando un simbolico cambiamento, idealmente
chiude l’opera riportandoci sorprendentemente a temi di smaniosa attualità. Con il saggio “Della
letteratura nell’educazione femminile”, uscito nel 1871, Maria Antonietta Torriani tratta del ruolo di
cultura e lettura nella formazione delle donne.
Forse più pregnante ai fini di un inquadramento della figura della scrittrice Marchesa
Colombi nell’Italia della sua epoca è però la peculiare opera “La gente per bene. Leggi di
convivenza sociale”, una sorta di innovativo galateo a destinazione prevalentemente femminile,
uscito una prima volta nel 1877 e subito oggetto di grande interesse del pubblico, tanto da avere in
meno di vent’anni ben diciotto edizioni. Il libro, che si costituiva come una sorta di guida
comportamentale per la nascente borghesia italiana, soprattutto per quella che fino ad allora era
rimasta lontana dai luoghi più eleganti e “à la page” del momento, denunciava tra le righe con
sottile ironia l’ipocrisia di quell’età e indagava fin nelle pieghe recondite l’aspirante “buona
società” della nuova nazione italiana. L’affetto sincero per le sue connazionali affiora dal confronto
con le altre donne europee: le sue lettrici “sono italiane; hanno lo spirito vivace, l’immaginazione
pronta; sono entusiaste ed espansive. Volerle ridurre come automi modellati su figurine straniere,
sarebbe una profanazione, una finzione. Siano loro stesse”. Nello stesso libro emerge in tanti punti
lo scarto rispetto alla generazione precedente di donne e il riscatto di alcune espressioni
dell’intelligenza femminile: “Ora le giovinette escono dalle scuole dotte come tanti piccoli
professori”; non affrontano temi politici “perché sanno che è cosa uggiosa; l’hanno imparato
studiando gli uomini. […] Se volessero, con quelle piccole menti intelligenti ed erudite, terrebbero
testa agli uomini anche in politica. Fanno bene a non tentarlo, del resto”. Una cultura che fosse
pienamente italiana si andava allora costruendo e nel capitolo dedicato ai bimbi la Marchesa
affermava: “Da qualche tempo gl’italiani si sono accorti che la nostra lingua è bella, armoniosa e
ricca, e soprattutto che è la nostra lingua, e prima di guastare la pronunzia dei bambini avvezzandoli
alle lingue straniere, li avvezzano a parlar bene l’italiano. E’ un uso da raccomandarsi caldamente”.
Lungimirante, dunque, e saggia Maria Antonietta Torriani, ironica ma altrettanto
osservatrice attenta, lucida e precisa nell’individuare dei punti nevralgici della cultura e della
società italiane che forse non sono ancora del tutto risolti o di cui, dopo un secolo abbondante,
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manca ancora una generalizzata e piena consapevolezza. Ma come lei stessa avvedutamente
raccomandava a proposito delle questioni d’amore: “Non anticipi nulla, signorina. Lasci che il
tempo maturi gli avvenimenti. I frutti acerbi hanno sempre un fondo di asprezza, mentre sono tanto
buoni e dolci i frutti maturi”!
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Laura Acton. L’esemplare compagna del presidente del Consiglio
In un periodo e in un contesto sociale e politico “decaduto” come quello che volenti o
nolenti viviamo, nel quale tanta parte hanno l’esteriorità e le più o meno felici sfaccettature del
mero “apparire”, val forse la pena considerare un’altra figura di donna poco nota, poco frequentata
dalle riviste di gossip che intrattengono annoiate lettrici sui lettini delle pigre spiagge estive. Forse
sarà pure un luogo comune il vecchio adagio secondo cui “dietro a un grande uomo c’è sempre una
grande donna”, ma nel caso di Laura Acton la definizione sarebbe ancora stretta, dato il numero e il
livello di uomini che sostenne e che ebbe modo di vedere formarsi.
Laura nacque a Napoli nel 1829 dal ramo italiano di una nobile famiglia inglese, mentre la
madre era di origini francesi; il nonno, il padre e i fratelli svolsero tutti onorata carriera nella
marina. Sposò in giovanissima età il ben più maturo Domenico Beccadelli, bolognese e principe di
Camporeale, dal quale ebbe due figli che certamente non delusero le aspettative del loro alto
lignaggio e del tradizionale impegno politico familiare: Marianna sposerà infatti il principe B.H.K.
von Bülow e Pietro Paolo diventerà sindaco di Palermo e senatore del Regno d’Italia. Già vedova
nel 1863, Laura sposerà l’anno successivo a Torino, allora la capitale d’Italia, Marco Minghetti
(1818-1886), un uomo che fin dalla sua prima formazione aveva coltivato idee liberali e che la
introdusse nel più elevato ambiente culturale italiano, ma di respiro europeo, dell’epoca: fu in
confidenza per esempio con l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, e con la principessa
Matilde Bonaparte. Significativo emblema della sua grande cultura e delle sue particolari sensibilità
e lungimiranza è il fatto che fu tra i primi estimatori del Tannhäuser, dopo la prima italiana del
1872 al Teatro Comunale di Bologna; l’opera di Wagner dalla storia tormentata, ispirata alla vita di
un cantore medievale, al suo debutto all’Opéra di Parigi nel 1861 fu aspramente accolta dal
pubblico e dalla critica, e fu invece tenacemente difesa dalla voce di Baudelaire.
Il secondo marito di Laura Acton vantava una formazione in più campi molto aperta e
profonda, anche se non frequentò regolarmente l’università; viaggiò sempre tanto e le esperienze
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della vita lo avevano portato precocemente a contatto con le idee liberali e con gli italiani esuli
all’estero. Studiava tutto: dalle lingue classiche e straniere alle materie scientifiche, dall’arte alla
filosofia, dal diritto alle materie economiche, soprattutto l’agricoltura; scriveva su riviste
scientifiche contributi di letteratura, retorica e ovviamente di argomenti economici e sociali, in
particolare in materia di riforme. Consultato spesso da Cavour, con cui era entrato in sintonia, nel
1860 fece parte del Parlamento sardo; di seguito e fino alla morte non interruppe il suo mandato nel
Parlamento del Regno d’Italia. Cavour gli affidò praticamente subito il ministero degli Interni. Due
anni dopo divenne ministro delle Finanze, e due anni dopo ancora sposò Laura Acton. Dopo essere
stato nel 1869 ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio, divenne negli anni 1873-1876
presidente del Consiglio, l’ultimo della Destra storica prima dell’insediamento di Depretis.
Universalmente riconosciuto, a livello europeo, come grande uomo insieme di cultura e di politica,
continuò alacremente la sua attività civica fino alla fine, tra i banchi dell’opposizione, e continuò
con passione i suoi studi partecipando attivamente a conferenze, dibattiti, pubblicazioni.
Laura Acton in tutto questo non giocò un ruolo secondario: la casa romana del primo
ministro era un vero e proprio centro internazionale politico-culturale che raccoglieva personaggi di
altissimo livello e ospitava discussioni di non poca rilevanza. Quasi una dama d’altri secoli, Laura
sapeva cantare, suonare il pianoforte, dipingere, ricamare, ma sapeva anche perfettamente reggere
discorsi difficili di filosofia e argomentare su organizzazione e azione politica. Tra i tanti saggi di
arte che Minghetti scrisse vale certo la pena citare, come dimostrazione della sensibilità alimentata
in casa, “Le donne italiane nelle belle arti al secolo XV e XVI” del 1877; ancora interessante un
altro legame femminile, quello che ebbe con la regina Margherita, della quale fu insegnante di
latino e con cui intrattenne fino alla morte un intenso carteggio. Marco Minghetti si spense nel 1886
e venne sepolto a Bologna, la città natale dalla quale non si era mai voluto staccare.
Laura fu certamente una donna tutta d’un pezzo, dotata di straordinaria lucidità. A solo un
anno dalla perdita del primo marito riuscì a far accettare ai due figli il nuovo legame, che si rivelò
estremamente stimolante e sicuramente all’altezza del prestigio della famiglia anglo-italiana. Il
rapporto che Laura ebbe con il figlio Pietro Paolo dimostra tutto questo; il patrigno, intanto, prese a
cuore gli interessi della casata, curandone anche le estese proprietà feudali in Sicilia, si interessò
con la moglie della miglior formazione da dare ai ragazzi e fu loro sempre di esempio. Pietro Paolo,
il “cher enfant” delle tante lettere di Laura, fu mandato a studiare nei migliori collegi svizzeri e poi
a Londra, presso il cugino della madre, il celebre storico e politologo britannico sir John Acton.
Dopo un periodo di dissolutezza giovanile, il nobile rampollo metterà la testa a posto,
intraprendendo dapprima la carriera diplomatica, divenendo poi senatore del Regno e infine
avviando decise azioni per il risanamento morale e amministrativo del comune di Palermo, dopo
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esserne diventato sindaco nel 1900. Da first lady a first lady per quanto riguarda invece la figlia di
Laura Acton, Marianna Beccadelli di Camporeale. Dopo un primo infelice matrimonio in
Germania, la giovane donna sposerà a Pietroburgo il principe B.H. Karl von Bülow, che nel fatidico
1900 diventerà cancelliere dell’Impero e presidente del Consiglio dei ministri di Prussia.
La politica attuale - constatiamo con amarezza - ci sta abituando a figure di donne di ben
altro “spessore” e di ben più poveri motivi di interesse. Giova notare che la personalità di Laura
Acton non era solo frutto di una particolare situazione sociale, di prestigiosissima aristocrazia: lei
stessa, indipendentemente da questo, aveva curato doti lontane dalla banale superficialità o dalla
comoda vita accanto a un ricco politico. Nel 1868 (e pensiamo a tanta cocente attualità) scriveva
infatti al figlio, che studiava allora in Inghilterra: “Sono sicura, mio caro, che nello stato di crisi e di
disordine nel quale ci troviamo ancora in Italia, una pianta giovane ha molte difficoltà a fortificarsi
e a crescere. Verrà un giorno quando tu potrai servire il tuo paese, e potrai apprezzare quanto ti sia
stato utile l’essere stato allevato in un paese solido e che sviluppa tutte le sue forze con tanto
equilibrio”.
Forse questi esempi di vigore e di intelligenza femminile andrebbero considerati e
conosciuti oggi con ben maggiore attenzione.
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Peppa “la cannoniera” e le altre. La rabbia, la speranza, l’azione
Italia meridionale, dalla fine del Settecento agli ultimi anni sessanta dell’Ottocento; dalla
rivolta contro la dominazione francese, all’appoggio alle Camicie rosse, alla guerra civile contro
l’esercito italiano. Tanti uomini e tante donne poco note agirono e morirono non solo in nome di
ideali, ma anche nella tragica ricerca di un destino migliore, meno carico di soprusi e povertà.
Peppa la cannoniera è il simbolo di molte donne che affiancarono gli uomini nei momenti
d’azione contro l’oppressione, simbolica anche nei suoi contorni sfumati, nella sua fine anonima,
sconosciuta. Le informazioni su di lei non sono certe né per il cognome (Bolognari o Calcagno, che
comunque non corrispondevano a quello dell’ignoto padre), né per l’anno di nascita, che oscilla tra
1826 e il 1841, né per la sua professione, in ogni caso umile – serva o stalliera; per alcune fonti era
bella, per altre brutalmente deturpata dal vaiolo. Certa pare essere solo la sua cattiva fama, dovuta o
aggravata dal suo legame con un giovanetto, Vanni. La sua partecipazione all’insurrezione
antiborbonica di Catania del 31 maggio 1860 le valse una medaglia al valore militare, ma anche qui
non si sa se d’argento o bronzo. Fu proprio questo l’episodio che le valse il soprannome con cui è
ancor oggi nota: con un astuto stratagemma e grande sangue freddo, riuscì a ingannare due
squadroni di lancieri dell’esercito borbonico colpendoli infine con una scarica del cannone che le
squadre di insorti avevano conquistato al medesimo esercito. Il giovane Vanni, che partecipava con
lei e tanti altri popolani a quelle azioni di rivolta, non sopravvisse a quegli eventi. Peppa ebbe in
premio dal Comune di Catania una pensione, ma anche qui la storia lascia le sue sospensioni:
probabilmente Peppa perse il denaro incappando in usurai e nemmeno sono certi l’anno e il luogo
della sua morte, forse Messina, nel 1884 o nel 1900.
Figure di donne come Peppa la cannoniera, alla quale nel 1939 il drammaturgo e direttore
del Teatro Comunale di Catania Antonino Russo Giusti (1876-1957) dedicò l’opera “Peppa ‘a
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cannunera”, o come Teresa Testa di Lana (anche qui vige l’incertezza, perché forse si chiamava
Anna o Maria) che aveva partecipato ai moti del 1848, ci inducono a molte riflessioni. Tante storie
di donne che agiscono con impeto, quasi con incoscienza dei pericoli e con il netto rifiuto dei ruoli
che la loro società imponeva in modo inflessibile, che vestono quindi come gli uomini e come loro
frequentano caserme, usano con crudeltà armi, bevono e fumano, portano inevitabilmente la nostra
mente a ripensare al fenomeno del brigantaggio e alla presenza nelle bande di tante figure femminili
spesso molto note. Madri, mogli, compagne, sostenitrici di briganti e brigantesse vere e proprie
sono state rese note dalla letteratura e dalla pubblicistica post-unitaria, prima tra tutte
l’indimenticabile “Amante di Gramigna” della novella di Giovanni Verga.
Ma, in fondo cosa era successo? La popolazione era insorta contro una dominazione che da
un tempo ormai troppo lungo vessava i paesi e le campagne e riponeva tutte le speranze di una vita
migliore nel nuovo regno che si andava creando e componendo lungo tutta la penisola, muovendo
entusiasmi ed energie; le donne, partecipi di tutto questo, auspicavano un futuro ben diverso per le
loro famiglie e per la loro condizione e per la realizzazione di questi obiettivi avevano impiegato
ogni risorsa, compresa quella di affiancare gli uomini nella lotta e nella guerriglia.
Luci e ombre sul nuovo Stato, sul nuovo Governo: la storia non si cambia. L’anelito ai tanti
mutamenti di cui il popolo aveva bisogno venne tristemente frustrato: i ceti contadini non ebbero
accesso alla proprietà della terra e perdettero anche gli usi civici dei terreni demaniali, i giovani
furono spesso tenuti lontano anche dalla possibilità dell’arruolamento nell’esercito piemontese, che
aveva soppiantato quello borbonico. Una nuova ribellione, di fronte a tanta indifferenza, divenne
inevitabile e in tante zone del Mezzogiorno l’Unità d’Italia si aprì con una guerra civile, repressa
nel sangue anche grazie alla triste Legge Pica (1863-1865), che autorizzava misure estreme per
combattere gli insorti, i “briganti” (il numero di morti fu superiore a quello delle Guerre di
indipendenza contro l’Austria). La situazione era peggiore rispetto alla precedente e vi furono molti
episodi di inneggiamento al ritorno dei Borboni appena cacciati; sintomatico è il fatto che alcuni
capibanda erano addirittura stati garibaldini e sostenitori dei Mille. Le donne in tutti questi eventi
non rimasero in disparte: talune combatterono al pari degli uomini, e come loro vennero uccise o
catturate e tradotte nelle carceri, come la famosa Michelina De Cesare, bellissima e ardita
brigantessa campana caduta in combattimento e straziata dopo la morte. Nella seduta della Camera
del Parlamento unitario del 18 aprile 1863, il luogotenente di Garibaldi Nino Bixio sostenne le
dichiarazioni del deputato calabrese Luigi Miceli circa la gravità della situazione con delle parole
che purtroppo, nel corso della storia successiva, non sempre furono tenute presenti: “Un sistema di
sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno d’Italia. Ebbene, non è col sangue che i mali esistenti
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saranno eliminati. […] C’è l’Italia, là, o signori, e se vorrete che l’Italia si compia, bisogna farla con
la giustizia, e non con l’effusione di sangue”.
Il “Risorgimento femminile” non fu quindi solo un fatto ideologico, celebrato e discusso nei
salotti nobili e borghesi da donne di elevata cultura e grande lungimiranza, ma fu anche un processo
tormentato e crudele che si combatté nei boschi e nei campi con il corpo, con il sangue, con la
disperazione e l’amore per la propria famiglia, a suon di fucilate e azioni di coraggio che, pur se
meno numerose, nulla avevano da invidiare a quelle compiute dagli uomini.
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Giulia Cavallari. All’origine del delicato equilibrio tra famiglia e lavoro
Forse l’argomento oggi suona perfino banale e scontato, e tra donne spesso non si affronta
neanche più: è sempre lì, sullo sfondo, o talmente dentro il vivere quotidiano che neppure fa notizia.
L’ultimo secolo e mezzo ha prodotto innumerevoli dibattiti, libri, teorie più o meno attuabili,
posizioni più o meno intransigenti, risposte più o meno energiche e radicali sul tema del rapporto tra
la donna e il lavoro fuori casa. Famiglia e lavoro, da quando tante porte si sono aperte alle donne è
stato un binomio spesso lacerante, un binomio che al giorno d’oggi ha la possibilità di essere risolto
solo con difficili equilibri e, tocca dirlo, spesso veri e propri “equilibrismi” sul crinale tra le
esigenze di una professione e quella di una o più famiglie: marito e figli spesso si sommano alla
presenza dovuta alle famiglie di origine… problemi non da poco gravano quasi sempre sulle stesse
“spalle organizzative” e razionalizzanti, quella della donna di casa. Se, poi, la donna ha un buon
livello di cultura e scolarizzazione e ha la possibilità di ambire a professioni di prestigio, a posizioni
sociali di rispetto e considerazione, non è detto che i conflitti, i dubbi, gli “strappi” siano meno
intensi.
Oggi ne siamo abituati, dicevamo; fa quasi parte di una pesante “normalità”. Ma
probabilmente nel secolo dell’Unità d’Italia le cose si potevano tingere di toni più forti, e una donna
come Giulia Cavallari lasciava un segno diverso. Certamente la sua esperienza non nasceva dal
nulla, dato che la famiglia doveva essere particolarmente illuminata: la nonna Maddalena
Monteschi aveva fondato a Imola, nell’allora Stato pontificio, la prima scuola femminile della città.
Imola fu quindi nel 1856 la città natale di Giulia, che visse invece in un periodo in cui sensibilmente
maggiore era in Italia l’attenzione all’istruzione anche femminile, aprendo alle donne la possibilità
di accedere ai ginnasi e all’università. Giulia frequentò dunque il liceo Galvani a Bologna e,
diplomatasi nel 1878, si iscrisse alla facoltà di Lettere e filosofia dell’università della medesima
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città. Nel 1882 fu la prima donna italiana a laurearsi appunto in quella materia. I suoi compagni di
studio erano il coetaneo Severino Ferrari e Giovanni Pascoli, che si laureò con lei lo stesso giorno;
il maestro fu nientemeno che Giosuè Carducci, con il quale la donna mantenne sempre un intenso e
affettuoso rapporto. Due anni dopo la laurea ebbe la cattedra di latino e greco presso la scuola
superiore femminile “Fuà Fusinato” di Roma, occupandosi nel contempo degli allora attuali
problemi di pedagogia e didattica, animata dalle posizioni più progressiste, discusse nei circoli delle
femministe di ispirazione mazziniana.
Il matrimonio nel 1889 con il primario e docente universitario a Bologna Ignazio
Cantalamessa la ricondusse nella città emiliana e la indusse ad abbandonare l’insegnamento. Giulia
si sposò in municipio e ad accompagnarla fu proprio Carducci; il legame con il suo maestro la portò
a seguire l’istruzione della figlia Libertà, la celebre Titti dei versi di “Davanti San Guido”. La casa
bolognese dei Cantalamessa fu un ambiente attivissimo, frequentato naturalmente da letterati come i
vecchi compagni di studio di Giulia, e da politici e ideologi come Andrea Costa, Felice Cavallotti e
Aurelio Saffi. Il marito stesso si distinse come studioso di medicina e per la sua attiva vicinanza,
proprio come medico, ai ceti umili.
In casa Giulia non rimane inerte, continua a studiare, scrivere, tenere conferenze, pubblicare
saggi quasi sempre concentrandosi sul ruolo e sulla promozione della donna nella sua società: parla
e scrive delle figure di donne che hanno fatto il Risorgimento nazionale, e si concentra molto
proprio sul rapporto della donna con il lavoro, il mezzo che secondo lei le conferisce dignità sociale,
possibilità di emancipazione e di indipendenza. Si occupa anche di figure maschili, in particolare di
uomini che nella storia si sono distinti per la loro volontà di riforma e per la forza della loro rottura
(per esempio Huldrych Zwingli e Niccolò Tommaseo).
Nel 1896 rimase vedova, poiché il marito contrasse un’infezione assistendo una giovane
contadina. Ricorse allora all’aiuto del suo prestigioso maestro, che le era sempre rimasto
affezionato, e tornò a insegnare. Dapprima insegnò italiano alla scuola normale di Bologna, poi
divenne direttrice della scuola professionale femminile; ammodernò profondamente questo istituto
trasformandolo nella scuola comunale “Regina Margherita” e seguì pure la costituzione della
Società operaia femminile sempre nel capoluogo emiliano. Infine, nel 1899 fu chiamata a dirigere
l’Istituto delle figlie dei militari della Villa della Regina a Torino, dove rimase oltre trent’anni ed
ebbe modo di introdurre quelle novità pedagogiche sulle quali a lungo si era preparata.
Giulia Cavallari morì a Bologna alla fine del 1935, lasciando una cospicua e variegata
produzione letteraria, rispecchiante i suoi molteplici ambiti di interesse: oltre alle sue citate
conferenze e ai corsi che teneva agli emigranti italiani in Baviera, scrisse molte commedie
soprattutto a scopo didattico-pedagogico come “Dottoresse” (1911) o “La cometa” (1913), solo
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per citare pochissimi esempi. Scrisse molti saggi e articoli, ma si cimentò anche nella lirica:
“Intima” (1914) raccoglie molti componimenti pubblicati su diversi giornali e riviste, mentre il
volume “Canti di guerra, di vittoria e di pace” (1925) riunisce l’espressione più patriottica di
Giulia. Aderendo agli ideali coloniali e di grandeur nazionale, compose infatti l’“Inno guerriero
per la guerra italo-turca” o ancora l’“Opera di una donna nel periodo di guerra 1915-1919”. Il
“Canto della vittoria” venne musicato dal compositore Amedeo Amadei nel 1920. Purtroppo la sua
corrispondenza, che doveva essere una vera miniera di informazioni e atmosfere dell’ambiente
culturale e politico del suo tempo, andò distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale.
Molto precocemente Giulia, dunque, analizzò e visse in prima persona lo spinoso e
fondamentale tema del rapporto della donna con il mondo del lavoro, evidenziandone l’importanza
ma anche le difficoltà. E non solo: occupandosi di donne che furono attive solo pochi lustri prima di
lei, diede risalto al ruolo femminile nella stagione risorgimentale, la cui fiamma ancora scaldava gli
animi, i dibattiti e gli incontri. Dimostrò quindi grande lucidità e consapevolezza storica, oltre che
una grande determinazione nel perseguire la strada di un tipo di istruzione che fino ai suoi giorni era
prerogativa maschile.
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Enrichetta Caracciolo. Il patriottismo in convento
Enrichetta nacque a Napoli nel 1821, quinta delle sette figlie del principe Fabio Caracciolo
di Forino. Trascorse i suoi primi anni di vita tra Bari, Napoli e Reggio Calabria, seguendo le alterne
fortune e le vicende del padre, comandante di provincia del Regno Borbonico. Nel 1840 morì
l’amato genitore e la madre, la contessa palermitana Teresa Cutelli, volendo risposarsi spedì la
giovane adolescente al convento benedettino di San Gregorio Armeno di Napoli. Due anni dopo,
vivendola come una tragedia, Enrichetta prese i voti ma iniziò presto una lotta per uscire
definitivamente dalla condizione monacale chiedendo - inutilmente - a papa Pio IX di essere sciolta
dai voti o almeno dispensata.
Colta, intelligente e consapevole, si convinse delle idee repubblicane e anticlericali e
continuò a costruire una propria coscienza politica fino ad arrivare nel 1848 a opporsi ai Borboni,
per quanto le consentiva la sua condizione. Introdusse in convento i giornali e la pubblicistica
liberali, che leggeva alle consorelle spesso semianalfabete, e iniziò una dura battaglia contro le
monacazioni forzate, condotta poi per tutta la vita.
Avendo attirato su di sé l’antipatia dell’arcivescovo di Napoli Riario Sforza, ottenne solo
brevi permessi di uscita dal monastero per motivi di salute, per recarsi con la madre ai bagni o per
soggiornare con lei. La donna infatti si era nel frattempo separata e pentita di aver causato le
sciagure della figlia. Numerose furono le fughe di Enrichetta: per un periodo fu protetta a Capua dal
cardinale Francesco Serra di Cassano, morto il quale però ricadde sotto gli attacchi
dell’arcivescovo, uomo di tale crudeltà da farle perdere tutti i beni dotali e l’eredità delle zie
monache. Nel Conservatorio di Costantinopoli, dove era stata trasferita, provvederà invece la
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badessa a negarle la libertà di possedere libri, di suonare brani di Rossini al pianoforte, di scrivere
lettere e tenere un diario. Dopo essere fuggita con l’aiuto della madre, morto il suo protettore l’anno
prima, lo Sforza riesce nel 1851 a farla arrestare e detenere a Mondragone. Enrichetta, stanca e
disperata tenta il suicidio rifiutando il cibo e ferendosi con un pugnale. Evidentemente destinata ad
altro, sopravvive a tutto questo e anche all’anno di isolamento totale a cui verrà di seguito
condannata, senza poter nemmeno visitare la madre morente. La Sacra Congregazione dei Vescovi,
in opposizione all’accanimento di Riario Sforza, le consentirà di uscire per potersi curare. Negli
anni successivi la giovane monaca tentò di tutto per non rientrare in convento, e per non farsi
catturare fu costretta a svariati espedienti come spostarsi con frequenza cambiando continuamente
residenza e donne di servizio; ma proprio in quei momenti più forti e diretti si fecero i legami con i
cospiratori antiborbonici.
Il 7 settembre 1860, alla caduta della monarchia borbonica - e con essa dei tanti legami tra
trono e altare - Enrichetta restituì alla chiesa il suo velo monacale proprio al termine della messa di
ringraziamento per la sconfitta della vecchia casa regnante, sancita dalla partenza di Francesco II di
Borbone per Gaeta. In quell’occasione conobbe Garibaldi, che le fece avere l’incarico di ispettrice
degli educandati della città di Napoli, posto che occupò per qualche anno. Le sue stesse parole
esprimono l’impetuosità del momento, per lei stessa come donna impegnata in una lotta
“universale”, e per la città intera: “Ed io, toltomi il velo nero dal capo e ripostolo su un altare, ne
feci atto di restituzione alla Chiesa, che me l’aveva dato venti anni fa […] Da quell’istante
considerai strappato pur l’ultimo filo che mi vincolava allo stato monastico; e il nome di cittadina,
che dato a tutti non contiene comunemente alcuna distinzione, divenne per me il titolo più proprio”.
L’abbandono della vita claustrale significò per la donna oltre che un maggior impegno
politico anche l’approdo alla vita familiare; sposò infatti con rito evangelico il patriota napoletano
Giovanni Greuther, principe di Sanseverino: “Ed eccomi finalmente felice. Accanto ad un marito
che mi adora, a cui rispondo con eguale amore, mi trovo nello stato in che Iddio pose la donna fin
dalla settimana della Genesi”. Enrichetta si dedicò alla scrittura con la stesura delle sue memorie e
di liriche e drammi, al giornalismo collaborando con testate del Meridione, e a importanti attività
civiche di carattere femminista, in particolare volte al riconoscimento dei diritti alle donne e alla
lotta contro le imposizioni familiari e sociali sulle bambine e sulle ragazze. La sua violenta
esperienza in convento le aveva insegnato molto: “Se pel tratto di vent’anni non mi avesse il destino
ribadita al piede la catena del galeotto, se fossi passata a marito giovinetta, avrei forse nella scuola
del mondo imparato altrettanto a scernere le malvagie passioni sul loro nascere, le passioni che
sbocciano nell’aria chiusa e si nutrono di ire, di rancori, di gelosie, di sospetti?”.
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Nel 1864 verranno pubblicate a Firenze le sue memorie (forse in parte stilisticamente
ritoccate dall’esule greco Spiridione Zambelli), I misteri del chiostro napoletano, riedite un secolo
dopo con il titolo Le memorie di una monaca napoletana. Il libro ebbe immediato successo anche
all’estero, tanto che venne presto tradotto in sei lingue e ristampato otto volte; dato il taglio
decisamente anticlericale, suscitò molte polemiche ma fu certamente apprezzato dal pubblico
poiché aveva i tratti del romanzo storico risorgimentale, un genere naturalmente allora in voga, che
collegava strettamente vita pubblica e privata e aveva forti tinte anticlericali e liberali. L’opera
suscitava interesse anche come particolare versione del romanzo d’appendice, narrando le avventure
di una giovane donna all’interno di luoghi tetri e soffocanti, oggetto delle insidie di biechi
oppressori, e anche come opera di stampo illuminista per la denuncia in forma a volte di asettica
descrizione di situazioni e spazi. Manzoni, Settembrini e il principe di Galles furono tra i suoi
estimatori. Del 1866 è il Proclama alla donna italiana, un invito alla cittadinanza femminile a
partecipare consapevolmente alla causa nazionale, mentre nel 1869, durante il Concilio Vaticano,
parteciperà a Napoli all’“Anticoncilio del libero pensiero”.
Rimasta vedova nel 1885, Enrichetta morì a Napoli nel 1901 dopo una vita tanto
significativa senza la luce di alcun riflettore.
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Rhoda de Bellegarde de Saint Lary. Una vita da crocerossina
La scelta di presentare questo personaggio, solo apparentemente lontano dal punto di vista
cronologico rispetto al periodo dell’Unità d’Italia, si basa su alcuni presupposti che, come vedremo,
lo rendono affascinante e comunque pertinente all’obiettivo di far conoscere alcune significative
figure di donne legate al Risorgimento.
Per prima cosa, si tratta di una donna ancora “presente” a Noale, in quanto alla sua morte
venne sepolta nel cimitero di Briana; la sua tomba non esiste più ma si conserva ancora una croce
sul cui basamento un’iscrizione ne ricorda l’importanza e l’opera.
Rhoda de Bellegarde era un’infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana ed era nata a
Firenze nel 1890, quando i passi cruciali del processo unificatorio della penisola erano già avvenuti.
La sua esistenza si collega al Risorgimento in modo forse un po’ indiretto, in quanto il padre, come
rivela il cognome, era un ufficiale sabaudo che si era trasferito a Firenze quando questa città era la
capitale del nuovo Stato. Rhoda, diplomatasi infermiera nel 1917, svolse la sua attività durante la
Prima Guerra Mondiale: un conflitto che per taluni importanti aspetti viene storicamente
considerato come la prosecuzione di quanto era avvenuto durante il Risorgimento, una sorta di
Quarta Guerra d’Indipendenza che portò all’annessione all’Italia di Trentino, Alto Adige e Venezia
Giulia.
La giovane ragazza seguì in più frangenti le orme della sorella Margherita, maggiore di nove
anni; a Firenze avevano entrambe la passione per il tennis e la nostra Rhoda, in particolare, era già
una promessa di questo sport: vinse infatti i primi due campionati femminili della storia del tennis
italiano negli anni 1913-1914, quel tennis che si giocava allora presso le classi elevate della società
con l’abito lungo bianco, le maniche fino ai polsi e il fiocco scuro al collo. Qualche decennio dopo
la sua morte le venne intitolata una coppa - la Coppa Bellegarde -, che divenne poi l’attuale serie C
femminile.
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Rhoda impiegò le stesse energia, vitalità, generosità e impegno anche nella sua professione
di infermiera: come Margherita, allo scoppio del conflitto partì come crocerossina per il fronte;
dopo un inizio a Cormons nel 1916 come interprete presso le ambulanze radiologiche inglesi, fu
affiancata l’anno dopo alla sorella in servizio presso l’ospedale n. 71 di Gradisca. Dovette essere,
questa, un’esperienza provante poiché iniziava allora la ritirata di Caporetto ed ella si trovò ad
affrontare in prima persona gli esiti più truculenti del massacro. Dai passi del suo epistolario si
evince di quanta partecipazione emotiva e di quanta dedizione nel suo lavoro fosse capace, di
quanta vicinanza provasse nei confronti dei soldati che assisteva, che definiva i suoi “figliuoli”.
Rhoda, sempre con la sorella, venne trasferita nella primavera del 1918 all’ospedaletto n.
191, allestito allora nei locali riadattati del castello di Stigliano dal Direttore Graziola. Il castello è
un edificio che per la sua storia sembra eretto apposta per lo scopo allora individuato: struttura dalla
tradizionale origine militare, era stato nel corso della sua storia trasformato in residenza nobiliare
dalla famiglia Priuli e poi dai Venier, tanto che ancora conserva tracce di eleganti decorazioni ad
affresco. Qui i soldati da seguire erano in numero minore rispetto ai circa 120 di Gradisca, ma
ugualmente impegnativi e a volte in gravi condizioni. Il luogo era però molto favorevole alle
convalescenze, immerso in un gradevole paesaggio verdeggiante e costeggiato dalle placide acque
del Muson. Rare foto d’epoca ritraggono infatti la giovane donna che accompagna in passeggiata
lungo il fiume gli ospiti del “castello-ospedale”.
Il soggiorno di Rhoda nel nostro territorio non fu però molto lungo. Nel settembre dello
stesso 1918 anche a Stigliano si manifestarono i primi casi della terribile influenza “spagnola”,
quell’epidemia che in tutta Europa aveva mietuto decine di milioni di vittime (più di quelle causate
dalla stessa Guerra in corso). La polmonite influenzale aveva costretto a trasformare le scuole in
lazzaretti, e anche la crocerossina Rhoda de Bellegarde ne fu colpita: morì a Stigliano già il 13
ottobre del 1918 e venne sepolta, come dicevamo in apertura, nel cimitero di Briana, non
allontanandosi neanche dopo la morte dai soldati che curava. Descritta dagli assistiti come “angelo
di carità”, la giovane vittima dell’epidemia che accompagnò il dilagare della Grande Guerra venne
insignita della Medaglia d’argento al Valor Militare proprio con la motivazione delle sue spiccate
qualità di coraggio, senso del dovere e profondo altruismo.
Rhoda de Bellegarde de Saint Lary merita di essere conosciuta dai noalesi, nonostante la sua
breve e burrascosa permanenza nel territorio, sia come promessa dello sport che come
professionista indefessa: un esempio di donna sensibile e al contempo di grande forza, vissuta in un
periodo di grandi cambiamenti e tragedie.
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Mariannina Coffa. Luci e ombre di un Risorgimento al femminile
La figura di Mariannina Coffa, affascinante e tragica, apre uno squarcio terribile ma
emblematico sul mondo della donna all’indomani della galvanizzante stagione risorgimentale.
Hanno attraversato e creato questo periodo tante donne eroiche combattenti accanto agli uomini,
tante donne impegnate nell’alta società, nei giornali e nella pubblicistica, tante donne di un popolo
coraggioso e spesso più consapevole di quanto si immagini. Ma tante furono anche le donne che
non trovarono nella nuova Italia risposte adeguate, che si scontrarono con una società che tardava
ad aggiornarsi, che mal dimostrava di aver inteso i cambiamenti in atto. L’esperienza dolorosa di
Mariannina mostra tutte le contraddizioni desolatamente aperte negli anni in cui dovevano essere
ancora caldi gli entusiasmi che guidavano l’azione di donne come Laura Acton, Maria Antonietta
Torriani o Giulia Cavallari.
Mariannina era siciliana, di Noto, ed era figlia di Celestina Caruso e di Salvatore Coffa,
avvocato liberale, massone e patriota impegnato nei moti degli anni 1848 e 1860. Malinconica ed
estrosa, sin da bambina si era rivelata fortemente portata per la poesia, in particolare per quel genere
di improvvisazione estemporanea su un tema dato, una caratteristica della figlia che i genitori
avevano cercato di assecondare e spesso di esibire nelle occasioni mondane, e che le era presto
valsa l’ingresso nelle accademie letterarie cittadine. Studiò dapprima in collegi a Noto e a Siracusa,
lamentandosi che solo ai fratelli maschi venisse impartito lo studio del latino; in seguito ebbe come
precettore il canonico Corrado Sbano, verseggiatore di fama che aveva il compito di consigliarle le
letture e istruirla nella tecnica poetica.
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Mariannina aveva un carattere profondo e inquieto. La sua formazione in un clima letterario
tardo romantico e byroniano si mostrò a pieno quando, ancora adolescente, iniziò a prendere lezioni
di piano dal venticinquenne Ascenso Mauceri, scrittore di drammi storici poi rappresentati nei
grandi teatri italiani e politicamente impegnato nel circolo del celebre ministro Matteo Raeli,
originario di Noto e redattore della legge delle Guarentigie sui rapporti tra il nuovo Stato italiano e
la Chiesa. I due giovani si innamorarono e la famiglia di Mariannina, allora quattordicenne,
acconsentì dapprima al fidanzamento. Ma quattro anni dopo la sventurata poetessa venne costretta a
un matrimonio più vantaggioso: in quel momento non ebbe il coraggio di fuggire con Ascenso, una
resa che lui non le perdonò mai. Mariannina sposò quindi nel 1860 Giorgio Morana, ricco
proprietario terriero ragusano, iniziando così un lungo calvario fatto di un susseguirsi di gravidanze,
i pesanti doveri domestici e la perdita di due figlie piccolissime, sotto la tutela rigida e retrograda
del suocero, soprattutto nei periodi di assenza del marito, per un periodo sindaco della città. Il
suocero le limitava ogni libertà recludendola in casa, controllandole la corrispondenza e
impedendole anche di scrivere, poiché considerava questa attività addirittura causa di perdizione per
le donne. Le cognate di Mariannina erano state tenute infatti lontane dall’istruzione, e lei per non
rinunciare a ciò che la sosteneva intellettualmente in vita scriveva di notte e di nascosto le sue
liriche e le sue lettere.
La “Saffo netina”, come venne in seguito chiamata, aveva riallacciato un contatto epistolare
con Ascenso, il suo vecchio amore, partecipando da lontano con una serie di componimenti di
stampo patriottico alle vicende politiche di quel primo periodo postunitario. Approfittando di
temporanei allontanamenti dalla residenza per curarsi a Catania, riuscì a iscriversi di nascosto dalla
famiglia ad associazioni massoniche e teosofiche e a circoli letterari, tenendo con confratelli e
colleghi contatti altrettanto nascosti. Scriverà per alcune riviste italiane usando sempre uno
pseudonimo. Amicizia particolarmente importante per Mariannina fu quella con il medico attivo a
Catania Giuseppe Migneco, geniale e grande sperimentatore di tutte le nuove tecniche e pratiche
cliniche che si andavano allora divulgando in Europa, dall’omeopatia appena diffusasi in Italia
tramite i medici militari austriaci e praticata durante le terribili epidemie di colera di quell’epoca, al
mesmerismo o magnetismo animale. Mariannina cercava di alleviare le proprie sofferenze
affidandosi a cure basate sulle quelle teorie che anticipavano la moderna psicanalisi, seguite negli
ambienti massonici ma fortemente aborrite e bollate come eretiche dalla Chiesa. Lo stesso Migneco,
che aveva a Noto un suo grande discepolo, il dottor Lucio Bonfanti, era stato esiliato con le accuse
di spiritismo e pratica di arti diaboliche.
Questa cultura latente, che si esprimeva tramite una complessa simbologia e un
inintelligibile sistema di riferimenti misteriosofici, fu ispiratrice della sua ultima fase di produzione
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poetica. Con il fisico ridotto allo stremo dalle fatiche di una vita troppo densa e troppo avvilente, e
soprattutto da un molto probabile cancro all’utero che le causava continue emorragie, Mariannina
lasciò la casa maritale per tornare dai genitori a Noto, ma venne da questi respinta e disconosciuta
ritenendo gravissimo il disonore della figlia che si separava dal destino che i buoni costumi della
sua società le imponevano. Un intervento chirurgico, che nessun familiare volle pagare o che forse
lei stessa rifiutò per seguire fino in fondo le teorie omeopatiche dei suoi amici medici, avrebbe
potuto salvare la vita alla giovane madre, che morì invece in miseria e solitudine ospite di Bonfanti,
pochi mesi dopo che la famiglia del marito le aveva strappato anche il figlioletto che le teneva
compagnia.
"E l'arpa offesa non può dar che pianto!": le sue ultime esasperate opere, lettere e
componimenti, riportano un odio e un desiderio di vendetta - esacerbato dalla incommensurabile
sofferenza - per tutti coloro che le avevano inferto una serie tanto crudele di disgrazie, primi tra tutti
i genitori. I criptici testi estremi, comprensibili solo agli iniziati delle logge cui Mariannina
apparteneva, vennero etichettati dalla critica solamente sulla scorta di una lettura tardoromantica,
mentre la donna “ribelle” subì anche la fama di dissennata, sonnambula e spiritista. Nessun
familiare partecipò ai suoi funerali, pagati dal Comune che proclamò il lutto cittadino in ricordo del
suo impegno politico a favore del paese e le fece erigere un busto in marmo, ancora esistente a
Noto. Il corpo fu imbalsamato a spese dei confratelli della Loggia Elorina, presenti con le insegne
solenni alle esequie della scrittrice, morta solo trentaseienne.
Nelle parole di Mariannina all’amico Migneco c’è tutta la disperazione di una persona
consapevole delle proprie capacità e delle potenzialità che celava in sé, ma anche della sventura
“storica” che era costretta a vivere, in un periodo in cui le donne avevano visto animarsi le speranze
di veder riconosciuta la dignità del loro ruolo:
"E vuoi ch'io scriva? e vuoi che mi ridesti / alla virtù d'una parola amica,/ e sdegnosa mi levi e
manifesti / la possente del core ardua fatica? / Vuoi che rapita in quella sfera eletta / Che sublima
le lagrime e il desìo / L’arpa ritenti, e splendida vendetta / Faccia de’ miei dolori il genio mio?”
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Per maggiori informazioni:
Assessorato alle Pari Opportunità Comune di Noale
Piazza Castello 18 – 30033 Noale (Ve)
Tel. 041.5897255 – fax 041.5897242
[email protected]
www.comune.noale.ve.it
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