La vergogna delle caste

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La vergogna delle caste
n. 1090 • anno 22
Slavoj Žižek
Io sono stupido
e cattivo
PI, SPED IN AP, DL
ART
DE
BE
CH
IL MONDO IN CIFRE
DCB VR
• UK
EURO
20/26 febbraio 2015
Ogni settimana
il meglio dei giornali
di tutto il mondo
La vergogna
delle caste
La democrazia indiana ha consolidato
il sistema delle caste anziché
abolirlo. E l’occidente lo giustifica come
parte integrante della cultura indù
internazionale.it
Art Spiegelman
Libertà d’espressione
e fondamentalismo
3,00 €
Libia
La rivoluzione
negata
20/26 febbraio 2015 • Numero 1090 • Anno 22
“I diritti umani in ultima analisi sono semplicemente
il diritto di violare i dieci comandamenti”
Sommario
sLAvoj ŽiŽek, pAgiNA
La settimana
20/26 febbraio 2015
Ogni settimana
il meglio dei giornali
di tutto il mondo
n. 1090 • anno 22
Slavoj Žižek
Io sono stupido
e cattivo
internazionale.it
Art Spiegelman
Libertà d’espressione
e fondamentalismo
3,00 €
Libia
La rivoluzione
negata
iN copertiNA
La vergogna delle caste
Segno
ARUNDHATI ROY
La vergogna
delle caste
La democrazia indiana ha consolidato
il sistema delle caste anziché
abolirlo. E l’occidente lo giustiica come
parte integrante della cultura indù
La democrazia non ha sradicato il sistema delle caste, ma l’ha
consolidato e modernizzato. E l’occidente spesso lo giustiica
come parte integrante della cultura indù. L’articolo di
Arundhati Roy (p. 40). Foto di Chiara Goia
Giovanni De Mauro
LibiA
14 Rivoluzione
16
negata
The Guardian
L’avamposto
nordafricano
The Telegraph
ucrAiNA
26 Una tregua fragile
dopo gli accordi
Kommersant
dANimArcA
28 Il terrorismo
arriva a
Copenaghen
Politiken
AsiA e pAcifico
32 Malesia
The Economist
Americhe
34 Cuba
El País
ArgeNtiNA
48 Le bugie
di Buenos Aires
ProPublica
siriA
54 Radio Siria libera
The New York Times
Magazine
scieNzA
tecNoLogiA
60 Quanto dura
101 Il buco nero dei bit
The Guardian
il presente
New Scientist
portfoLio
64 Le foto dell’anno
ecoNomiA
e LAvoro
102 Pechino prova
a limitare i debiti
Bloomberg
Businessweek
World Press Photo
ritrAtti
70 Hervé Falciani
cultura
Le Monde
viAggi
80
74 L’autobus turco
e le sue regole
The Saturday Paper
grAphic
jourNALism
76 Cartolina
da Taiwan
Clément Baloup
cuLturA
78 L’eroe
Le opinioni
22
pop
e cattivo
Slavoj Žižek
Amira Hass
36
Paul Krugman
38
Rami Khouri
82
Gofredo Foi
84
Giuliano Milani
86
Pier Andrea Canei
94
Tullio De Mauro
del Times
The New York Times
90 Io sono stupido
Cinema, libri,
musica, arte
Le rubriche
10
Posta
11
Editoriali
105 L’oroscopo
106 L’ultima
scieNzA
96 A gara
di previsioni
The Economist
Articoli in formato
mp3 per gli abbonati
Le principali fonti di questo numero
New Scientist È un settimanale britannico di divulgazione scientiica. L’articolo a pagina 60 è
uscito il 7 gennaio 2015 con il titolo The time illusion: how your brain creates now. The New York
Times Magazine È il magazine della domenica del New York Times. L’articolo a pagina 54 è uscito
il 4 dicembre del 2014 con il titolo Radio-Free Syria. Politiken È un quotidiano danese fondato nel
1884, di orientamento liberale. L’articolo a pagina 28 è uscito il 16 febbraio 2015 con
il titolo I to årtier har vi målrettet styret mod konfrontationen - nu har vi fået den.
Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
3
internazionale.it/sommario
David Carr, il giornalista del New York Times
morto a 58 anni la sera di giovedì 12 febbraio
nella redazione del suo giornale, lasciava il
segno in tutti quelli che incontrava. Chi l’ha
visto a Ferrara, al festival di Internazionale,
ricorderà una persona fuori del comune. Alto,
magro, il suo corpo e la sua voce roca portavano i segni di un tumore e della dipendenza
dall’alcol e dal crack, di cui si era liberato e
che aveva raccontato in un’autobiograia,
The night of the gun. Appena arrivato a Ferrara
con la moglie Jill, si era stupito per l’eicienza
della rete ferroviaria italiana rispetto a quella
statunitense e per l’ineicienza della rete
tecnologica: in albergo aveva combattuto per
ore prima di riuscire a collegarsi a internet. Al
New York Times si occupava di mezzi d’informazione e di industria editoriale. Il suo modo
di scrivere riletteva la sua personalità e il suo
modo di stare al mondo. Era curioso e
generoso (“Ti dicono sempre che devi guarire
per il tuo bene, ma ho smesso di preoccuparmi solo dei cazzi miei quando mi sono
ricordato che esistono anche i cazzi degli
altri”). Era sempre disponibile: rispondeva a
tutte le email che riceveva, e certamente ne
riceveva tante (“Quando mi chiedono come
mi guadagno da vivere, qualche volta sono
tentato di dire che scrivo email”). Aveva un
grande senso dell’umorismo. Era critico, ma
mai cinico. La sua scrittura era precisa,
chiara, semplice, il suo stile personale.
Aveva una dote rara: diceva sempre quello
che pensava, in modo diretto e spesso
brutale, senza però mai ferire. Era spietato
innanzitutto con se stesso e inlessibile con il
suo giornale, che pure amava e rispettava e
per il quale ha scritto 1.776 articoli in tredici
anni. Per molti giornalisti è stato un mentore,
un consigliere, un amico. In rete si trovano
tanti video di suoi interventi, discorsi e
lezioni. Chiunque voglia fare il mestiere di
giornalista dovrebbe cominciare da lì. Non
stupisce che per l’ultimo saluto a David Carr
l’immensa sala centrale del grattacielo del
New York Times costruito da Renzo Piano
fosse piena come lo è solo quando vengono
annunciati i premi Pulitzer. u
Immagini
Sabbia e macerie
Gaza, Palestina
11 febbraio 2015
Una tempesta di sabbia nel quartiere Al
Shejaiya, bombardato dagli israeliani
durante il conlitto dell’estate 2014. Secondo i dati dell’Onu, nella Striscia di
Gaza più di centomila persone sono rimaste senza casa e, a quasi sei mesi dal
cessate il fuoco, la ricostruzione non è
ancora cominciata. Dopo l’ondata di
maltempo di metà gennaio, che ha provocato alcune vittime e creato ulteriori
disagi ai profughi, tra il 10 e l’11 febbraio
la Striscia di Gaza è stata colpita da una
tempesta di sabbia che ha toccato anche
Israele, il Libano e l’Egitto. Foto di Mohammed Abed (Afp/Getty Images)
Immagini
Tornare a scuola
Pibor, Sud Sudan
10 febbraio 2015
Durante la cerimonia di disarmo dei
bambini soldato nella città di Pibor, nel
Sud Sudan orientale. Circa trecento ragazzi tra gli 11 e i 17 anni sono stati rilasciati dalla Cobra faction, il gruppo di
ribelli che si oppone al governo sudsudanese nello stato di Jonglei, e hanno
consegnato armi e uniformi sotto la supervisione dell’Unicef. Secondo le Nazioni Unite, nel 2014 in tutto il paese più
di dodicimila bambini sono stati reclutati dall’esercito e dai gruppi ribelli. Il 12
febbraio è stata la giornata mondiale
contro lo sfruttamento dei bambini nei
conlitti armati. Foto di Samir Bol (Anadolu Agency/Getty Images)
Immagini
Ritmo di carnevale
São Paulo, Brasile
14 febbraio 2015
Il carro della scuola di samba Nenê de
Vila Matilde, fondata nel 1949, durante
la parata di carnevale a São Paulo. Questa edizione è stata vinta dalla scuola di
samba Vai-Vai con un tributo alla cantante brasiliana Elis Regina, una delle
maggiori interpreti della musica popolare brasiliana, che a marzo avrebbe
compiuto settant’anni. Da mesi lo stato
di São Paulo è alle prese con una gravissima siccità, ma la pioggia caduta durante i giorni di carnevale ha fatto aumentare le riserve del sistema Cantareira, che fornisce acqua alla città. Foto di
Andre Penner (Ap/Ansa)
[email protected]
I ragazzi scomparsi
u In merito agli articoli di John
Gibler e Diego Enrique Osorno
(Internazionale 1089), mi permetto di segnalare che il governo della repubblica ha attuato
ogni sforzo nella ricerca e
nell’indagine riguardante i 43
studenti, e ha assicurato che ci
sarà giustizia e una pena per i responsabili di questi deplorevoli
fatti. Il Messico è una federazione, pertanto non esiste un unico
corpo di polizia a livello nazionale. Quanto accaduto coinvolge elementi della polizia locale
di Iguala, nonostante ciò il governo federale ha preso il caso al
ine di coadiuvare le indagini
con le autorità dello stato di
Guerrero. È stata un’indagine
dettagliata e scrupolosa, e l’applicazione della giustizia, sempre nel rispetto dei diritti umani
dei detenuti e delle vittime, avverrà insieme al dovuto processo. I legali dei familiari hanno
avuto accesso diretto agli 85 tomi e ai 13 allegati del fascicolo
dell’inchiesta. Durante l’indagine, sono state realizzate 487 perizie scientiiche, in diversi settori speciici, che supportano e
convalidano scientiicamente
ogni parte della ricostruzione
dei fatti. Per quanto riguarda le
indagini, a oggi sono state arrestate 99 persone (tra cui il sindaco di Iguala e sua moglie, autori
intellettuali), sono state raccolte
386 deposizioni e sono state realizzate due ricostruzioni dei fatti. Il Messico è aperto allo scrutinio internazionale. Dietro invito
del Messico la Commissione interamericana dei diritti umani
ha nominato un gruppo di
esperti indipendenti per analizzare le indagini. Il 2 e 3 febbraio
una delegazione uiciale è comparsa presso il comitato
sulle sparizioni forzate delle Nazioni Unite a Ginevra per rispondere su questo tema. I lettori interessati a ulteriori informazioni possono visitare il sito
della presidenza messicana
(bit.ly/1Ldpz7s) e quello
dell’ambasciata del Messico in
Italia (bit.ly/1ASGb1l).
Miguel Ruiz-Cabañas
Ambasciatore del Messico in Italia
crisi del Veneto (Internazionale 1089). Finalmente ho potuto
leggere un resoconto equilibrato sulla situazione della mia
(ex) regione. Spero che l’articolo apra gli occhi a qualcuno.
Sono stufo di essere preso per
leghista quando dico che i
problemi del nordest sono reali e vanno afrontati senza
isterismi.
Giulio
Le correzioni
Errata corrige
Sussurri dal nordest
Telefono 06 441 7301
Fax 06 4425 2718
Posta via Volturno 58, 00185 Roma
Email [email protected]
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ma Felice. I Soprano: non c’è
bisogno che ogni singolo
membro della famiglia sia informato su quale mestiere
fanno i parenti. Il Trono di
spade: anche se è nato da un
incesto consumato subito dopo un avvelenamento, ogni
bambino è un dono del destino. Insomma, i casi sono tanti e tutti diversi ma è chiaro
che il segreto della famiglia
perfetta è sempre lo stesso:
basta saper recitare la parte.
u Se state leggendo questa
rubrica forse siete anche voi un
po’ come Bryan Henderson:
non sopportate certe
espressioni sbagliate che si
sono difuse e vorreste
eliminarle tutte. Henderson,
un ingegnere informatico
statunitense di 51 anni, è uno
dei mille più attivi correttori
delle pagine di Wikipedia in
inglese. Dal 2007 a oggi, sotto
lo pseudonimo di Girafedata,
ha corretto più di 47mila
occorrenze di un unico errore:
comprised of. Anche se è
difusa nella lingua comune ed
è accettata da alcuni
grammatici, i puristi
dell’inglese sostengono che
quest’espressione è sbagliata,
perché il verbo comprise
signiica “comprendere” nel
senso di “contenere in sé”,
quindi non può essere usato al
passivo. Per esempio, il pane
contiene acqua, lievito e
farina, non è contenuto da
acqua, lievito e farina. L’errore
nasce dal fatto che molte
persone confondono comprise
con un altro verbo, compose
(comporre, costituire). Ogni
domenica, prima di andare a
dormire, Henderson lancia un
software in grado di trovare
tutti i comprised of che
continuano a spuntare nelle
pagine di Wikipedia. L’ha
sviluppato lui stesso per
combattere la sua crociata
grammaticale. E la vostra
qual è?
Claudio Rossi Marcelli
è un giornalista di Internazionale. Risponde all’indirizzo
[email protected]
Giulia Zoli è una giornalista
di Internazionale. L’email
di questa rubrica è
[email protected]
u Su Internazionale 1089, a
pagina 80, il nome dell’autrice
di Gli anni al contrario è Nadia
Terranova, non Terranove; la
foto a pagina 98 è di Casey
Kelbaugh (The New York Times/Contrasto). Su Internazionale 1088, a pagina 76: in
Finlandia ci sono due località
che si chiamano Marjaniemi.
Quella indicata nella cartina
non è la stessa di cui si parla
nell’articolo.
PER CONTATTARE LA REDAZIONE
u Ho letto con vero piacere e altrettanta tristezza l’articolo sulla
Dear Daddy
Vite da piccolo schermo
Qual è il segreto della famiglia perfetta?–Valeria
Dopo aver cercato invano tra
i conoscenti una famiglia da
poter deinire perfetta, ho
scoperto una fonte inesauribile di casi: la tv. Nelle famiglie dei teleilm si ride sempre e i problemi si risolvono
puntualmente prima della ine dell’episodio. Ti faccio
qualche esempio. Happy
days: negli anni sessanta era
tutto più facile. Quando le
donne passavano tutto il tempo in cucina o a cotonarsi i
capelli, le giornate scorrevano allegre come le canzoni di
10
un juke box. La famiglia Addams: essere dei mostri non è
una scusa per non essere eleganti. Con dei passi di tango
appropriati e la giusta sfumatura di nero, si supera qualunque problema. Casa Keaton:
avere un iglio quasi coetaneo
aiuta i genitori a tenere alta la
media di battute al minuto.
Beverly Hills 90210: se hai dei
igli noiosi trasferisciti in California e la vita familiare diventerà emozionante come
una telenovela. Un medico in
famiglia: chi se ne importa di
genitori e igli, quello che
conta è avere un nonno all’altezza. Soprattutto se si chia-
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
Il giustiziere
di Wikipedia
Editoriali
Triton è una condanna a morte
“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,
di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”
William Shakespeare, Amleto
Direttore Giovanni De Mauro
Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen,
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Editor Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri),
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18 febbraio 2015
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Imbustato in Mater-Bi
The New York Times, Stati Uniti
Le morti nel Mediterraneo delle ultime settimane erano prevedibili ed evitabili. E queste tragedie si ripeteranno se l’Unione europea non cambierà il modo di afrontare il problema del numero sempre più alto di persone che rischiano la vita
per cercare rifugio in Europa. La colpa è soprattutto dei traicanti di esseri umani. I sopravvissuti hanno raccontato di essere stati costretti a salire
sui gommoni dopo essere stati derubati e minacciati con bastoni e pistole. I traicanti vanno arrestati e puniti, ma anche l’Unione europea ha le
sue colpe. I morti della scorsa settimana sono il
risultato di ciniche considerazioni come quella
del primo ministro britannico David Cameron,
secondo il quale se i migranti sapessero che ci sono buone probabilità di morire durante il tragitto
non si metterebbero in viaggio per l’Europa.
Questa tesi è smentita dal numero sempre più
alto di persone in fuga dalla Siria e dall’Africa subsahariana, che rischiano la loro vita e quella dei
loro igli pur di raggiungere un porto sicuro. I disordini scoppiati in Libia, uno dei principali punti
di partenza dei migranti, stanno spingendo le
persone a correre rischi sempre più alti. Nel 2014
sono arrivati via mare in Europa 170mila migranti. Quest’anno sembra che le vittime saranno ancora più numerose dell’anno scorso, quando
3.200 persone sono morte attraversando il Mediterraneo. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni le vittime delle ultime tragedie portano ad almeno 415 il numero di migranti annegati nel 2015, rispetto ai 27 dello stesso
periodo dell’anno scorso.
Molti avevano previsto che, dopo la sostituzione della missione italiana di salvataggio Mare
nostrum con quella europea Triton, che si limita
al pattugliamento delle frontiere, nel Mediterraneo i morti sarebbero aumentati. Nel 2014 Mare
nostrum, l’operazione lanciata dalla marina italiana nell’ottobre del 2013 dopo che più di 350 migranti erano annegati nei pressi di Lampedusa,
aveva salvato più di centomila vite. Ma a dicembre l’Italia, stanca di dover sopportare da sola
tutto il peso dell’immigrazione, ha interrotto la
missione.
Nei giorni scorsi alcuni migranti sono stati salvati dalla guardia costiera italiana. Ma quello che
serve al più presto è una missione di pattugliamento e salvataggio con le stesse caratteristiche
di Mare nostrum e finanziata dall’Europa. La
Commissione europea dovrebbe chiedere subito
ai paesi membri di impegnarsi in questo senso.
Come hanno dimostrato le vittime della settimana scorsa, Triton non è la soluzione giusta. u bt
La Nigeria ostaggio di Boko haram
Dominic Johnson, Die Tageszeitung, Germania
Il 7 febbraio la commissione elettorale nigeriana
ha deciso di rinviare al 28 marzo le elezioni presidenziali e parlamentari in programma per il 14
febbraio, a causa dell’inizio di una grande ofensiva contro Boko haram. Ma in quella circostanza vari osservatori hanno commentato che i 175
milioni di nigeriani e il loro diritto di voto sono
ormai ostaggio dei miliziani jihadisti. Infatti dipende soprattutto da Boko haram se alla ine di
marzo la situazione in Nigeria sarà abbastanza
paciica da permettere lo svolgimento delle elezioni. Ma in realtà dipende anche dall’esercito
nigeriano.
Quella di rinviare le elezioni è stata una semplice “raccomandazione” da parte dei vertici
dell’esercito, che non possono sostituirsi apertamente all’autorità della commissione elettorale.
Ora le elezioni del 28 marzo sono appese al risultato dell’annunciata campagna contro Boko ha-
ram. E i primi segnali sono tutt’altro che incoraggianti.
Invece dell’esercito, è stato il gruppo jihadista a condurre una grande operazione internazionale, con continui attacchi in Niger, con i primi sconinamenti in Ciad e con la più vasta offensiva di terra mai vista inora in Nigeria. Negli
ultimi giorni i miliziani si sono spinti ino alla città di Gombe, che si trova a metà strada tra l’ormai abituale teatro di guerra nel nordest della
Nigeria e la capitale Abuja.
Chi può fermare l’escalation militare? Al momento sembra che Boko haram sia sempre un
passo avanti rispetto all’esercito, e questo induce a chiedersi se dietro l’organizzazione si nasconda qualcosa di più di un gruppo di fanatici.
Una cosa è certa: se la guerra continuerà a dilagare a questo ritmo, in Nigeria le elezioni non si
terranno né a ine marzo né mai. u ma
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
11
Libia
Rivoluzione
negata
Chris Stephen, The Guardian, Regno Unito
ra meglio quando
c’era Gheddafi”,
dice uno studente
libico in un cafè di
Tunisi. Guardando la schiuma che
trabocca dal suo cappuccino, rilette sulla
rivoluzione che nel 2011 provocò la caduta
del dittatore. “Non pensavo che avrei mai
detto una cosa del genere, lo odiavo, ma allora le cose andavano meglio. Almeno eravamo al sicuro”.
Il 17 febbraio 2015 è stato il quarto anniversario della rivoluzione, ma nessuno l’ha
festeggiato. Nella notte tra il 15 e il 16 febbraio l’Egitto ha lanciato dei raid aerei contro le postazioni del gruppo Stato islamico
nella Libia orientale, in risposta all’uccisione di 21 cristiani copti egiziani rapiti a Sirte
tra il 31 dicembre e il 3 gennaio. È solo l’ultimo episodio di una guerra civile spietata.
Quattro anni fa questo studente libico aveva preso una pistola per unirsi alle milizie
ribelli. Oggi vorrebbe essere rimasto a casa.
“Se potessi tornare indietro, non lo rifarei”,
dice. Come molti dei suoi ex compagni ha
lasciato il paese, ma non vuole rivelare il
suo nome per timore di rappresaglie contro
la famiglia rimasta in patria.
“All’inizio festeggiavamo l’anniversario
della rivoluzione, ma quest’anno no”, dice il
giornalista Ashraf Abdul Wahab. “Molta
gente dice che si stava meglio quando c’era
Gheddai, che la rivoluzione è stata un erro-
“E
14
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
re. In realtà intendono dire che oggi le cose
vanno peggio di allora”. La primavera libica
è stata sanguinosa e si è conclusa con l’uccisione di Muammar Gheddai. Dopo la sua
morte, le milizie ribelli hanno cominciato a
farsi la guerra per assicurarsi il controllo del
territorio. La vera guerra civile è scoppiata
nell’estate del 2014, quando i partiti islamici sono usciti nettamente sconitti dalle elezioni. Gli islamici e i loro alleati si sono ribellati contro il parlamento eletto e hanno
formato la coalizione Alba libica, che si è
impadronita di Tripoli. Le nuove autorità
sono fuggite a Tobruk, nell’est del paese, e
da allora gli scontri si sono susseguiti in tutta la Libia.
Con migliaia di morti, le città distrutte e
400mila persone rimaste senza casa, il
grande vincitore è il gruppo Stato islamico,
che ha sfruttato il caos per estendere rapidamente la sua inluenza. L’Egitto, che era
già il principale sostenitore delle forze governative, ora è entrato nella guerra a tre fra
governo, Alba libica e Stato islamico.
Tutto questo è molto diverso da quello
che speravano i rivoluzionari. Con le riserve
di petrolio più abbondanti di tutta l’Africa e
solo sei milioni di persone a dividerne i proventi, nel 2011 il futuro della Libia sembrava
radioso. “Pensavamo di diventare la nuova
Dubai, avevamo tutto”, dice una giovane
attivista che, come lo studente, preferisce
non rivelare il suo nome. “Ora siamo più
realisti”. Perché la primavera libica sia ini-
LOrENzO MELONI (CONTrASTO)
A quattro anni dalla caduta di Gheddai, la Libia è un
paese dilaniato da una guerra civile in cui si è inserito
il gruppo Stato islamico. E dopo l’intervento
dell’Egitto il conlitto rischia di allargarsi
ta così male è oggetto di accesi dibattiti.
Alcuni accusano la Nato di non aver fatto
seguire un progetto politico ai bombardamenti. Altri sostengono che mancano le
istituzioni necessarie per far funzionare la
democrazia, o che la struttura frammentata
e tribale del paese rende diicile la collaborazione e alimenta la diffidenza. Tanti si
sono arresi. “Molti di quelli che hanno fatto
la rivoluzione quattro anni fa sono entrati in
clandestinità, sono scappati”, dice Michel
Cousins, il direttore del quotidiano in lingua inglese Lybia Herald. “Dicono che la
rivoluzione divora i suoi igli”.
Nel 2011 molti giornalisti erano accorsi
in Libia. Oggi Tripoli è troppo pericolosa, e
le stesse autorità di Tobruk consigliano ai
mezzi d’informazione di stare alla larga. Il
nuovo governo, che si riunisce nella città di
Al Bayda, è lacerato dalle divisioni interne e
molti temono che presto andrà in frantumi.
Alba libica sta cercando di governare a Tripoli con fermezza per evitare che la città
FONTE: BBC
mo la totale disintegrazione dello stato”, ha
dichiarato il vicepresidente della camera
Mohammed Ali Shuhaib, che sotto Ghed­
dafi è stato prigioniero politico per dieci
anni e ora sta cercando di mettere insieme
un nuovo governo di unità nazionale.
“Qualche speranza c’è, non tutti quelli di
Alba libica sono fanatici”.
Un compromesso diicile
Tripoli, Libia, 29 settembre 2014. Nel sobborgo di Warshefana
precipiti nell’anarchia. I suoi comandanti
hanno riconvocato il vecchio governo, il
Congresso generale nazionale, ma il vero
potere è nelle mani delle milizie.
Nella capitale si avverte chiaramente la
presenza dei fanatici religiosi. Le donne
non possono più allontanarsi dalla città se
non sono accompagnate da un uomo. I mi­
liziani hanno distrutto statue, moschee su­
fite, una biblioteca e l’accademia d’arte,
mettendo in guardia la popolazione da ogni
forma di idolatria. I saloni di bellezza sono
stati chiusi e le scuole divise per sessi. “La
gente dice che si sentiva più sicura ai tempi
di Gheddai, ma non è così per tutti. All’epo­
ca un mio parente era in prigione, lo afa­
mavano e lo picchiavano”, dice una donna
di Tripoli che riiuta di dire il suo nome. “Il
problema sono state le elezioni. Molti dei
candidati erano pieni di entusiasmo, ma
non avevano nessuna esperienza politica”.
Nel frattempo Bengasi, la seconda città
della Libia, dove prese il via la rivoluzione
con le proteste davanti al tribunale, si sta
trasformando in una Stalingrado araba a
causa degli scontri tra truppe governative e
milizie islamiche. Quattro anni fa la piazza
del tribunale era piena di bandiere, striscio­
ni rivoluzionari, giovani che cantavano e
tende colorate. Ora è un deserto di polvere.
La Nato contribuì con i suoi bombardamen­
ti a far scoppiare la rivoluzione, ma ora i lea­
der occidentali assistono con sgomento
all’avanzata dello Stato islamico. L’esecu­
zione dei 21 cristiani copti ha innescato da
parte dell’Egitto una reazione che rischia di
trasformare la guerra in un conlitto inter­
nazionale. Regno Unito, Francia e Stati
Uniti, i paesi più inluenti della Nato, temo­
no che il gruppo jihadista lanci attacchi con­
tro l’Europa attraverso il Mediterraneo. In­
tanto l’Italia sta fronteggiando l’arrivo di
migliaia di migranti passati per la Libia,
molti dei quali annegano in mare.
In questa situazione caotica alcuni poli­
tici cercano di trovare un accordo. “Temia­
Il problema è che il paese è spaccato in due,
con una maggioranza che appoggia il go­
verno e una minoranza non irrilevante che
sta passando ad Alba libica, mentre le pos­
sibilità di trovare un compromesso si ridu­
cono rapidamente. A gennaio a Ginevra
l’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino
León, ha abbandonato i colloqui di pace
perché i portavoce di Alba libica non si era­
no presentati. Ora l’Egitto potrebbe far pen­
dere l’ago della bilancia dalla parte di To­
bruk. Il governo sta già comprando armi e
sta raforzando l’aviazione, che si è dimo­
strata una carta vincente contro Alba libica.
León insiste nel dire che la sua priorità è sal­
vare la Libia prima che si disgreghi. Con il
calo delle esportazioni di greggio, il paese
sopravvive grazie alle riserve di valuta stra­
niera, ma León teme che presto non avrà
più soldi per sfamare la popolazione, gestire
le centrali elettriche e alimentare le pompe
che portano acqua alle città dai pozzi del
Sahara.
Per le persone comuni la vita è diventata
una lotta per la sopravvivenza, ma quello
che manca è soprattutto l’ottimismo di
quattro anni fa. Quel poco che ne resta an­
cora è cauto e circospetto. “Martin Luther
King diceva ‘Io ho un sogno’, e anch’io ho
ancora un sogno”, dice Shuhaib. “Non è lo
stesso di quattro anni fa, perché ora la gente
è frustrata e delusa. Ma c’è ancora”. u bt
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
15
Libia
L’avamposto
nordafricano
L’espansione del gruppo Stato
islamico in Libia ha provocato
una dura reazione del governo
egiziano, che si sente minacciato
su più fronti dai combattenti
jihadisti
quattro anni dall’inizio della rivoluzione, la situazione in Libia
è un promemoria delle speranze andate in fumo e del costante
intrecciarsi dei conlitti in Nordafrica e nel
Medio Oriente. Ventuno copti egiziani, rapiti tra dicembre e gennaio a Sirte, sono stati decapitati dal gruppo Stato islamico. Il
video dell’esecuzione è stato pubblicato in
rete il 15 febbraio come vuole il copione
adottato dal gruppo. L’Egitto si è vendicato
lanciando il 16 febbraio una serie di bombardamenti che potrebbero essere l’inizio
di quella che è stata definita una “lunga
campagna di attacchi aerei”.
Era chiaro ormai da mesi che la Libia si
stava trasformando nel più promettente
avamposto straniero per il gruppo Stato
islamico. La città orientale di Derna era già
da tempo associata ad Al Qaeda in Iraq,
perché aveva fornito un numero record di
combattenti all’insurrezione irachena
scoppiata dopo il 2003.
Nella primavera del 2014 centinaia di
veterani dello Stato islamico, noti come la
brigata Al Battar, che avevano combattuto
a Deir Ezzor nella Siria orientale e a Mosul
nell’Iraq settentrionale, hanno lasciato
quelle località per schierarsi con un altro
gruppo. Pochi mesi dopo, a settembre, un
militante yemenita arrivato anche lui dalla
Siria sarebbe diventato il loro leader. Verso
la ine di ottobre un gruppo consistente di
jihadisti ha formalmente giurato fedeltà al
leader dello Stato islamico, Abu Bakr al
Baghdadi. Secondo alcune fonti i combattenti sarebbero circa 800, anche se forse è
una stima per eccesso.
Il gruppo Stato islamico in Libia ha aderito al “modello ibrido” adottato dall’orga-
A
16
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
nizzazione originaria. I suoi uomini sono
innanzitutto dei terroristi, e lo hanno dimostrato attaccando l’hotel Corinthia a Tripoli il 27 gennaio. Ma, allo stesso tempo, aspirano a essere qualcosa di più, e le loro operazioni in Libia sembrano indicare che sono
già in grado di amministrare e controllare il
territorio.
L’esperto di jihadismo Aaron Y. Zelin fa
notare che il gruppo Stato islamico ha rafforzato l’osservanza della sharia nei mercati (vietando, per esempio, la vendita di alimenti avariati), ha limitato l’uso del tabacco, ha fornito sostegno ai più poveri e ha
imposto perino nuove regole alle farmacie.
Il gruppo ha inoltre attirato combattenti
stranieri. Secondo Zelin un quinto delle forze jihadiste in Libia è formato da tunisini.
Mentre il gruppo perde slancio in Iraq e in
Siria, l’enorme bacino di combattenti stranieri impegnati in Medio Oriente potrebbe
gravitare verso la Libia.
Coinvolgimento segreto
L’intervento militare dell’Egitto non è una
novità nella guerra libica. Questi attacchi
aerei sono le prime operazioni militari condotte dal Cairo all’estero dai tempi della
prima guerra del Golfo, ma da anni gli egiziani agiscono in segreto in Libia. Questo
perché l’incredibile complessità della guer-
Da sapere
Richiesta d’intervento
u Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha
chiesto alle Nazioni Unite di approvare una
risoluzione per formare una coalizione
internazionale da far intervenire in Libia. Ha
inoltre invitato i governi stranieri a inviare
armi all’esecutivo libico con sede ad Al Bayda,
che è stato riconosciuto dalla comunità
internazionale. Il 17 febbraio Stati Uniti, Italia,
Francia, Regno Unito, Spagna e Germania
hanno sottoscritto una dichiarazione
congiunta in cui afermano che il processo di
dialogo promosso dalle Nazioni Unite per la
formazione di un governo di unità nazionale “è
la speranza migliore per i libici”. Reuters
HAZEM TURKIA (ANADOLU AGENCY/GETTY IMAGES)
Shashank Joshi, The Telegraph, Regno Unito
Tripoli, Libia, 17 febbraio 2015.
Celebrazioni per il quarto
anniversario della rivoluzione
ra civile libica, che oppone una coalizione a
guida islamica nella capitale a un governo
riconosciuto dalla comunità internazionale
nella città orientale di Al Bayda, rilette ormai le fratture più ampie che attraversano
la regione. Un blocco di stati arabi, tra cui
l’Egitto, vede i Fratelli musulmani più o meno come gli Stati Uniti consideravano il comunismo all’epoca della guerra fredda: una
forza clandestina, sovversiva e in continua
espansione. Allo stesso modo vedono anche Alba libica, la coalizione formata da
forze e milizie islamiche che controlla Tripoli. Sia l’esercito egiziano, salito al potere
nel 2013 con un colpo di stato contro il governo eletto guidato dai Fratelli musulmani, sia gli Emirati Arabi Uniti, per i quali la
Fratellanza è una minaccia interna, hanno
appoggiato il governo di Tobruk.
Nel 2014, nei mesi di agosto e ottobre, i
governi dei due paesi hanno compiuto un
passo senza precedenti, lanciando attacchi
aerei e incursioni di terra contro i combattenti islamici radicali a partire da basi militari egiziane. In seguito, hanno negato gli
attacchi, ma nessuno gli ha creduto. Per
l’Egitto l’esercito libico (o quel che ne rimane) è un buon alleato, in particolare il generale Khalifa Haftar, un ex uiciale di Muammar Gheddai che ha guidato la lotta contro
L’opinione
Al tavolo delle trattative
Jason Pack, Al Jazeera, Qatar
Il potere in Libia è così
frammentato che è diicile
trovare leader in grado di far
rispettare eventuali accordi
erché i negoziati riescano a fermare un conlitto di solito sono
necessarie tre condizioni: che
esistano fazioni ben distinte, che siano
rappresentate da leader riconosciuti e
che questi leader siano in grado di imporre ai rispettivi sostenitori le condizioni di pace concordate. Al momento
in Libia mancano tutti e tre i requisiti.
Il potere è frammentato a tal punto
che nessuno sa chi incarni la vera autorità. L’inluenza dei politici e dei leader tradizionali si basa comunque sul
sostegno di uomini armati. Non ci sono strutture di comando e di controllo
che governano le varie milizie.
Nella seconda metà del 2014 ci ha
fatto comodo pensare che la lotta per il
potere in Libia dopo la caduta di
Gheddai fosse una competizione tra
due fazioni: la coalizione Alba libica,
guidata da combattenti originari della
città di Misurata, e l’operazione Dignità, guidata dal generale Khalifa Haftar
contro le milizie islamiche e schierata
con l’occidente e l’Egitto. Ma queste
due ampie formazioni hanno numerose divisioni interne.
Le Nazioni Unite hanno spostato i
colloqui di pace da Ginevra a Gadames, in Libia, per evitare le critiche di
una fazione di ex parlamentari libici
che boicottavano i colloqui perché non
si svolgevano nel loro paese. Tuttavia,
nonostante la presenza di un numero
maggiore di rappresentanti, è chiaro
che chi è seduto a quel tavolo non ha il
potere di fermare la guerra. Perciò c’è
da chiedersi a cosa servano i colloqui.
Probabilmente l’obiettivo immediato
non è portare la pace in Libia, ma distinguere le fazioni violente da quelle
P
le milizie islamiche, ottenendo in un secondo tempo anche l’appoggio del governo riconosciuto dalla comunità internazionale.
Haftar, dal canto suo, ha accolto con entusiasmo l’intervento egiziano ed è andato al
Cairo per coordinare le mosse successive.
Il gruppo Stato islamico è una minaccia
reale per l’Egitto perché sta penetrando
sempre di più anche nell’est del paese, nella
penisola del Sinai. E la sua presenza in Libia
lo avvicina ancora di più al territorio egiziano. Il Cairo inoltre può giustiicare i bombardamenti indicando come esempio la
campagna militare guidata dagli Stati Uniti
in Iraq e in Siria e l’importante ruolo svolto
dalla Giordania. Perché non dovrebbe colpire un gruppo che ha massacrato così platealmente dei suoi cittadini?
È però importante tenere separato il
ruolo del gruppo Stato islamico in Libia dal
più ampio contesto della guerra civile che
imperversa nel paese. Non tutte le fazioni
dell’opposizione libica sono jihadiste, e
comportarsi come se lo fossero, assumendo
posizioni rigide, è la ricetta perfetta per il
disastro. Il pericolo è che l’Egitto spinga il
governo libico ad adottare una strategia intransigente e aggressiva nei confronti dei
suoi oppositori di Tripoli, precludendo
qualsiasi possibilità di trovare una soluzione politica al conlitto. u gim
Shashank Joshi è un ricercatore del Royal
united services institute di Londra.
disposte al dialogo. Con il passare delle settimane si è formato un blocco di
moderati e un numero sempre più alto
di leader ha partecipato ai colloqui.
Ma questo processo di riavvicinamento ha messo sotto pressione le alleanze
di fondo che inora avevano tenuto insieme l’ala politica e quella militare sia
di Alba libica sia dell’operazione Dignità.
Alba libica si sta frammentando in
due campi: uno guidato dai leader civili di Misurata, a favore dei negoziati,
e un altro guidato da comandanti militari e jihadisti intransigenti che cercano di sabotare i colloqui. Più ci si avvicina alla possibilità di raggiungere
compromessi signiicativi, più alta sarà la possibilità di assistere ad atti di
sabotaggio come l’attacco di ine gennaio all’hotel Corinthia a Tripoli, sferrato da un gruppo fedele ai jihadisti
dello Stato islamico.
Dubbi sul generale Haftar
La situazione dell’operazione Dignità
è simile. La maggior parte dei parlamentari è favorevole al dialogo, ma
l’esercito del generale Khalifa Haftar e
le milizie che vorrebbero il federalismo non sono d’accordo. Così, mentre
in teoria sarebbe in vigore un cessate il
fuoco, gli uomini di Haftar hanno dichiarato di aver riconquistato una base
a Bengasi e i federalisti hanno minacciato di chiudere l’ultimo porto petrolifero attivo della Libia. La tensione tra
i vertici militari dell’operazione Dignità e il governo del primo ministro Abdullah al Thinni è alle stelle e il ministro dell’interno ha perino dichiarato
che sarebbe ora di allontanare il generale Haftar, una igura molto controversa in Libia. Molti ritengono che la
rivoluzione non sarà completa inché
Haftar non si sarà tolto di mezzo. Al
momento la Libia ha troppi generali e
non abbastanza soldati. u gim
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
17
Libia
Il crollo
del petrolio
Faucon e Kantchev, The Wall Street Journal, Stati Uniti
La guerra ha danneggiato il
settore petrolifero, la principale
fonte di ricchezza della Libia. Le
aziende energetiche occidentali
hanno chiuso gli impianti e
ridotto gli investimenti
a violenza in Libia sta prendendo
di mira il settore petrolifero. Le
aziende occidentali hanno sospeso gli investimenti a lungo termine nel paese, facendo calare la produzione.
Tra l’ottobre del 2014 e il gennaio del 2015
l’estrazione di greggio in Libia è passata da
circa 900mila a 325mila barili al giorno. Secondo l’azienda statale National Oil Corporation (Noc), il calo è dovuto sia all’occupazione dei giacimenti da parte delle milizie
libiche sia alla chiusura dei pozzi per motivi
di sicurezza. Il crollo della produzione è avvenuto dopo lo scoppio della guerra civile
alla metà del 2014, che ha provocato la chiusura di due grandi impianti. Il colosso francese Total ha chiuso il campo petrolifero di
Mabruk, al centro della costa libica, che
produceva dai 30mila ai 40mila barili al
giorno. Anche il principale porto petrolifero
del paese, Sidra, è stato chiuso a causa degli
scontri, mettendo a rischio gli investimenti
di tre aziende statunitensi: la ConocoPhillips, la Marathon Oil e la Hess. Il campo e il
porto erano initi entrambi nel mirino delle
milizie armate. Ci sono stati degli scontri
vicino a Sidra, mentre a Mabruk almeno
nove guardie sono rimaste uccise durante
un attacco, ha detto Mashallah al Zawie, un
importante dirigente libico del settore petrolifero.
Il greggio è da sempre la linfa vitale della
Libia, che possiede le più grandi riserve di
petrolio dell’Africa. Nata negli anni cinquanta, in dieci anni l’industria petrolifera
libica era arrivata a produrre più di tre milioni di barili al giorno. Nel 2011, poco prima
della caduta di Gheddai, esportava 1,3 milioni di barili al giorno e ne produceva 1,6
milioni. “C’era un tacito accordo tra le di-
L
18
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
verse fazioni per non danneggiare la produzione di petrolio”, dice Richard Mallinson,
analista della società di consulenza londinese Energy Aspects. “Ora hanno capito
che controllare il petrolio signiica avere il
potere”.
L’instabilità ha danneggiato altre aziende energetiche presenti in Libia. Alla ine di
dicembre la tedesca Wintershall Holding
ha sospeso la produzione dopo gli scontri a
Sidra, che si trova vicino agli importanti
porti petroliferi di Ras Lanuf e Zueitina.
L’azienda sostiene di aver investito più di
due miliardi di dollari in Libia per una capacità produttiva giornaliera di 90mila barili.
Anche l’austriaca Omv ha risentito dei disordini. L’azienda ha interessi in diversi
campi petroliferi nel centro e nel sud della
Libia, dove l’anno scorso ha prodotto una
media di ottomila barili al giorno. “Le previsioni per il 2015 sono ancora più negative”, ha dichiarato Gerhard Roiss, amministratore delegato della Omv, citando il calo
del prezzo del petrolio e la crisi libica nella
relazione trimestrale dell’azienda. “In Libia
la situazione non sta cambiando, sta peggiorando”.
Nel 2014 la situazione non era così grave. Nonostante gli scontri a Tripoli durante
l’estate, la Libia aveva sorpreso il mondo
con una nuova impennata della produzione
di petrolio. Secondo l’Organizzazione dei
Da sapere
Produzione in calo
Produzione di petrolio in Libia,
milioni di barili al giorno
Fonte: The Wall Street Journal
1,0
Stima
0,8
0,6
0,4
0,2
0
2014
2015
paesi esportatori di petrolio (Opec), da giugno a ottobre la produzione era passata da
232mila a 887mila barili al giorno.
Il prezzo mondiale del greggio è crollato
quando gli investitori hanno capito che il
mercato del petrolio si stava saturando nonostante l’instabilità in paesi come la Libia.
Nel giro di sei mesi, da giugno 2014 a gennaio 2015, il prezzo del greggio Brent è sceso
da 115 a 50 dollari al barile. Negli ultimi tempi il mercato non ha risentito della ripresa
dei combattimenti e del crollo delle forniture in Libia. Secondo gli esperti, la decisione
dell’Opec di non tagliare la produzione assicura un eccesso di oferta a prescindere
dal livello della produzione in Libia. “La Libia è diventata irrilevante”, osserva Tamas
Varga, esperto di petrolio della società d’intermediazione londinese Pvm.
Serbatoi bruciati
Il calo dei prezzi e la minaccia della violenza, quindi, hanno paralizzato l’attività delle
compagnie petrolifere in Libia. Nel 2003,
dopo la sospensione delle sanzioni contro il
regime di Gheddai, la ConocoPhillips, la
Marathon Oil e la Hess sono state tra le prime compagnie a tornare in Libia. Il porto di
Sidra, dove le tre aziende avevano investito,
esportava ino a poco tempo fa 300mila barili al giorno. All’inizio del 2015 a Sidra sono
stati bruciati sette serbatoi di stoccaggio.
Secondo le autorità libiche, due sono andati completamente perduti, e le esportazioni
non sono ancora ricominciate. A metà febbraio la ConocoPhillips ha detto che nel
2014 la produzione media in Libia è scesa a
ottomila barili equivalenti di petrolio, contro i 30mila del 2013.
Gli scontri non hanno inluito sulla produzione delle piattaforme ofshore, che per
ora sono fuori del raggio d’azione dei gruppi
combattenti. Due giacimenti al largo delle
coste, gestiti dall’italiana Eni e dalla Total,
producono circa 100mila barili di greggio al
giorno. Gran parte della produzione restante viene dai giacimenti desertici nelle zone
più sperdute della Libia occidentale e orientale, anche queste risparmiate dalla guerra
civile. In generale, però, le autorità e gli
esperti concordano sul fatto che gli scontri
hanno danneggiato fortemente l’industria
petrolifera libica. Anche se si arrivasse a un
accordo di pace, “non ci sarà un ritorno immediato ai livelli di produzione del passato”, osserva Geof Porter, presidente della
società di consulenza sui rischi North Africa Risk Consultancy. u fas
Libia, 15 luglio 2012. Un migrante prega nel deserto tra Misurata e Bani Walid
Italia
Le minacce
dell’Isis a Roma
l 15 febbraio il governo italiano ha
chiuso l’ambasciata italiana a Tripoli.
La decisione è stata presa dopo che il
gruppo Stato islamico ha divulgato un video in cui avvertiva: “Siamo a sud di Roma”. Il presidente del consiglio italiano
Matteo Renzi ha risposto minacciando
un’azione militare. “Non importa che
l’Italia abbia solo cinquemila soldati disponibili e che il bilancio per la difesa sia
stato tagliato del 40 per cento. Tutto questo rende diicile per l’Italia guidare qualsiasi missione, specialmente se si tratta di
sidare un nemico come lo Stato islamico”, scrive la giornalista barbie Latza Nadeau su The Daily Beast. In seguito però
Renzi ha fatto marcia indietro afermando che non era il momento per un’azione
militare e che era meglio aspettare una
decisione del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite. “Indipendentemente da
quale sia il momento giusto per agire, non
c’è dubbio che in Italia la tensione nei
confronti di una minaccia dell’organizzazione estremista islamica è palpabile: la
Libia è a meno di 300 chilometri da Lampedusa e a poco più di 500 dalla Sicilia.
Una tensione acuita dal fatto che nel 2014
l’immigrazione irregolare è aumentata
del 64 per cento”.
MARCo SALUSTRo (CoRbIS/CoNTRASTo)
I
Bloccati a Misurata
sognando l’Europa
Laura Varo, El Mundo, Spagna
Nella città libica s’interrompe il
viaggio dei migranti eritrei,
siriani e gambiani che sperano
di attraversare il Mediterraneo.
Reportage dal centro di
detenzione per immigrati
enok Annoban, 27 anni, è eritreo. Tra un anno non camminerà più. La malattia che
l’ha colpito al sistema nervoso centrale è la ragione per cui ha deciso di
intraprendere un viaggio verso l’Europa. Si
è fermato a metà, in un centro di detenzione per immigrati a Misurata, sulla costa
centrale della Libia. Qualcosa è andato
storto e da cinque mesi è chiuso qui. “Sono
venuto in Libia perché voglio andare in Europa”, dice. “Dalla Libia all’Italia e dall’Italia in Germania. Lì c’è una buona assistenza medica, in Eritrea no”.
La Libia, con più di quattromila chilometri di conine mal sorvegliati e un deserto incontrollabile, è diventato il cortile sul
retro di un’Europa blindata. Il 13 febbraio
H
le autorità italiane hanno individuato sette
gommoni che trasportavano un centinaio
di persone ciascuno e che alla ine sono
stati soccorsi in acque libiche, confermando una tendenza che preoccupa organismi
come l’Alto commissariato delle Nazioni
Unite per i rifugiati (Unhcr).
Secondo l’Unhcr, nel gennaio di
quest’anno 3.528 persone sono salite in
un’imbarcazione di fortuna diretti verso
l’Europa, cioè oltre mille in più rispetto ai
2.171 del gennaio 2014. Confrontando gli
stessi due periodi, il numero di morti è
quadruplicato: 50 contro i 12 del 2014.
Questo nel corso di un inverno in cui l’operazione di salvataggio Mare nostrum, voluta dal governo italiano, è stata sostituita da
Triton, l’operazione di sorveglianza marittima a cui l’agenzia per il pattugliamento
delle frontiere esterne dell’Unione europea (Frontex) ha assegnato un budget
mensile di 2,9 milioni di euro.
La nuova operazione ha a disposizione
poche imbarcazioni e queste non possono
avvicinarsi alla costa libica. Secondo le
ong, il mar Mediterraneo è destinato a dicontinua a pagina 20 »
Investimenti petroliferi
“Un altro motivo di preoccupazione per
l’Italia”, prosegue la giornalista, “sono i
suoi investimenti, valutabili in miliardi di
dollari, fatti in Libia per estrarre il petrolio. L’Eni è stata la prima compagnia petrolifera a sviluppare l’industria del petrolio quando questo è stato scoperto nel paese nel 1959”.
Il 18 febbraio il ministro degli esteri
Paolo Gentiloni ha riferito alla camera dei
deputati sulla situazione in Libia. Ha affermato che la soluzione della crisi deve
essere diplomatica e ha precisato: “Dire
che siamo in prima linea contro il terrorismo non vuol dire essere alla ricerca di
avventure militari. La situazione è grave e
il tempo non è ininito. Essere in prima linea contro il terrorismo non è l’annuncio
di crociate”. u
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
19
Libia
ALESSANDRo BIANCHI (REUTERS/CoNTRASTo)
Porto Empedocle, Agrigento, 17 febbraio 2015. Migranti soccorsi dalla nave della marina Orione
ventare un cimitero. “È pericoloso, lo so,
ma ci sono sempre dei rischi. Anche nel
deserto avremmo potuto avere un incidente”, dice Daniel Agustino, 35 anni. Agustino, che è rinchiuso con Henok Annoban
nel centro di detenzione, parla dei 4.500
chilometri che separano l’Eritrea da Misurata passando per il Sudan. Racconta anche del mare di sabbia nella Libia meridionale.
È arrivato in camion ino ad Ajdabiya,
uno snodo strategico per i traicanti. Da lì
a Misurata ha viaggiato nascosto nel container di un altro camion che è stato fermato a un posto di blocco. Circa ottanta migranti sono dovuti scendere e Agustino ha
perso i 1.500 dollari che aveva investito nel
viaggio. Misurata è solo un luogo di passaggio. Il trucco sta nella geograia, nelle
lunghissime spiagge e nella sua vicinanza
a Malta e all’Italia, 300 chilometri in linea
d’aria. E nei tagli al bilancio: a Misurata,
trasformata in città-stato dopo la rivoluzione del 2011, un centinaio di miliziani armati “vigilano la spiaggia e il mare”. Da Tripoli in poi e altrove è tutta un’altra storia.
Quattro anni dopo la caduta del dittatore Muammar Gheddai la Libia sta svanen-
20
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
do in uno scenario da guerra civile. Dalla
scorsa estate due governi, due parlamenti
e due alleanze militari si contendono un
potere che in realtà non è in mano a nessuno. Il conlitto ha lasciato senza alleati diplomatici l’Europa, che era abituata ad
avere a che fare con la capricciosa politica
migratoria del dittatore. Una politica simile a un gioco di carte, in cui ognuno dei migranti che ospitava il paese ino al 2011 (da
1,5 ai 2,5 milioni) era un asso nella manica.
“Abbiamo smesso di arrestare i migranti”, spiega Masoud Saalem, capo del dipartimento di immigrazione illegale, che dipende dal ministero dell’interno del governo di salvezza nazionale insediato a Tripoli e non riconosciuto dalla comunità internazionale. Dal luglio del 2014 il pattugliamento marittimo, la vigilanza delle coste e
le operazioni di salvataggio sono sospesi. A
svolgerli era una precaria forza navale appoggiata e addestrata dalla missione
dell’Unione europea di assistenza alle
frontiere (Eubam), che per tre anni le ha
destinato 26 milioni di euro.
“A causa del conlitto abbiamo problemi di rifornimento”, spiega Saalem. “Non
possiamo continuare a fermare gli immi-
grati se non siamo in grado di occuparci di
loro”. Le stanze vuote dei centri di Ain Zara e Garabulli, dove lo scorso agosto sono
spuntati una cinquantina di cadaveri dalla
sabbia, testimoniano un’inversione di tendenza nell’angolo della vergogna dell’immigrazione in Europa.
Colpi di mortaio
L’organizzazione internazionale per le migrazioni (oim), che gestisce un programma di ritorno volontario in collaborazione
con le autorità sia a Tripoli sia a Tobruk
(dove ha sede il governo riconosciuto
dall’occidente), ha detto che la violenza
nel paese ha fatto aumentare il lusso di
migranti che cercano di lasciare la Libia
per raggiungere l’Italia attraverso il Mediterraneo.
Questa situazione si rilette sull’altissimo numero di migranti arrivati sulle coste
italiane quest’estate, aferma l’ultimo rapporto dell’oim, del gennaio del 2015. Inoltre nel rapporto si dice che la disperazione
spinge a correre il rischio di imbarcarsi su
gommoni sovrafollati e malandati.
“Qui sto diventando pazzo”, si dispera
Alì, un gambiano di diciassette anni che è
arrivato da solo in Libia nel novembre del
2013 ed è rinchiuso in un centro di detenzione tra Tripoli e Zuwarah, facendo quasi
tutto da solo. “Ero a Tripoli quando sono
cominciati i combattimenti”, ricorda. “Sono uscito a comprare qualcosa ed erano già
in corso gli scontri. Sono caduti due colpi
di mortaio sull’ediicio in cui mi trovavo
poco prima. Il mio padrino e due amici sono morti, io ho avuto la fortuna di non trovarmi lì in quel momento”.
Subito Alì si è messo a vagare per strada
in cerca di qualcuno che lo potesse aiutare.
Ma altri hanno trovato lui, e tre mesi dopo
la sua fortuna e parte della sua forza sono
venute meno. “Non c’è da mangiare, non
c’è un telefono, non c’è nulla”, dice piangendo. Condivide una stanza minuscola
con almeno altri sei minorenni. Ci sono
anche una trentina di reclusi provenienti
dalla Nigeria, dal Niger, dal Senegal e dal
Mali.
Le carceri libiche
Tra le brande sporche che ricoprono il pavimento, le storie si mescolano ai iloni di
pane che un gruppo di miliziani distribuisce scatenando il caos. È giorno di visita, e
si distribuiscono razioni doppie per dare
un po’ di vita ai volti segnati dalla fame.
“Il mondo deve aiutare le persone rinchiuse nelle carceri libiche”, dice il somalo
Shermanke. Parla veloce come una musica
di sottofondo che non si ascolta. “Sono stato dieci mesi in carcere e solo due mesi
fuori. Un anno in Libia e solo due mesi libero”, ripete. È stato rinchiuso in un centro
di detenzione con un’unica colpa, quella di
andare in giro senza passaporto, anche se
in realtà quel documento non gli sarebbe
servito a molto. Per i somali come lui, così
come per gli eritrei e i siriani, non c’è rimpatrio che tenga.
Secondo i calcoli dell’Unhcr circa il 60
per cento dei migranti che raggiungono la
costa europea sono rifugiati e richiedenti
asilo che fuggono dalla violenza dei loro
paesi di origine.
La Libia non gli riconosce lo status che
dovrebbe garantirgli protezione, lasciandoli invece in un limbo fatto di pareti umide come quelle dei centri di detenzione,
dove la luce entra a tratti quando il sole
passa davanti alla inestrella della stanza.
“Non sono venuto per restare qui a vivere o
a lavorare”, dice Shermanke. “Volevo
prendere un gommone e andare in Europa,
ma ancora non ce l’ho fatta”. u fr
L’opinione
Dilemma inesistente
Financial Times, Regno Unito
Invece di sentirsi minacciata,
l’Unione europea dovrebbe
soccorrere i migranti che
attraversano il Mediterraneo
leader europei hanno molti motivi
di preoccupazione, dalla fragilità
della loro moneta comune alle minacce dei jihadisti alle ambizioni della
Russia. Quello che non hanno è un problema di sovrappopolamento. L’Europa potrebbe essere il primo continente
in cui il numero delle morti supera
quello delle nascite. E nonostante la vicinanza del vecchio continente al Medio Oriente e all’Africa, solo un europeo su dieci è nato fuori dall’Unione
europea.
Eppure l’Europa è così assillata dalla paura di essere invasa dagli immigrati che li sta lasciando morire a migliaia
nelle acque del Mediterraneo. Nell’ottobre del 2014, nonostante quell’anno
fossero annegati tremila migranti, la
Commissione europea ha appoggiato
l’Italia nella decisione di ridimensionare l’operazione Mare nostrum, che aveva salvato migliaia di vite. La missione
era stata lanciata dall’Italia dopo la tragedia al largo di Lampedusa, dove il 3
ottobre del 2013 morirono 366 migranti. Triton, l’operazione dell’Unione europea che ha sostituito Mare nostrum,
può soccorrere solo i barconi carichi di
rifugiati che si trovano a 30 miglia dalla
costa. Triton costa un terzo di Mare nostrum, ma questo non giustiica la decisione della Commissione. I 75 milioni
di euro di diferenza sono poca cosa rispetto al bilancio europeo. Ancora più
signiicativo è il fatto che un’operazione che serviva a salvare vite umane sia
stata sostituita da un programma gestito dall’agenzia Frontex, che si occupa
del pattugliamento delle frontiere
esterne degli stati dell’Unione. Sembra
che i politici europei si preoccupino di
I
scoraggiare i migranti, invece di evitare
che muoiano. C’è chi sostiene che sarebbe più umano eliminare le operazioni di salvataggio, perché incoraggiano i
traicanti a caricare ancora più persone sulle loro barche.
A far crescere il numero dei migranti sono le crisi umanitarie, non l’illusione di una traversata più facile. Davanti
alla prospettiva della tortura, della malattia e della morte, il calcolo delle probabilità di farcela incide poco sulla decisione di fuggire. L’alto commissario
delle Nazioni Unite per i rifugiati António Gutierres ha giustamente detto che
queste persone sono spinte dalla disperazione e non dalla speranza. Alla luce
di tutto questo la priorità dell’Europa
deve essere di salvare i migranti in pericolo. Dovrebbe ripristinare l’operazione Mare nostrum, ma questa volta
sotto la responsabilità dell’Unione europea.
All’altezza di un ideale
Paesi come l’Italia e la Grecia hanno bisogno di sostegno e i partner europei
dovrebbero impegnarsi ad accogliere
più rifugiati. Inoltre i paesi d’origine dei
migranti devono essere aiutati a individuare e punire i traicanti.
Il lusso migratorio diminuirà solo
quando iniranno i conlitti nel Mediterraneo. L’Europa non può fare molto
per accelerare questo processo, ma può
ridurne i costi in termini di vite umane.
Soprattutto trattando i rifugiati come
vittime e non come una minaccia. L’arrivo di giovani da altri paesi potrebbe
risolvere la crisi demograica del continente. Il problema dei migranti è dipinto come un grande dilemma. Ma non lo
è. Il rispetto che l’Europa ha per i diritti
umani spiega in parte perché tanti cercano rifugio all’interno dei suoi conini.
L’Europa non dovrebbe avere dubbi
sull’opportunità di dimostrarsi all’altezza dei propri ideali. u bt
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
21
Africa e Medio Oriente
Sudafrica
NIGERIA
ALI HASHISHO (ReUTeRS/CONTRASTO)
Il contratto non conviene
Mail & Guardian, Sudafrica
LIBANO
Bambini
di strada
Secondo uno studio promosso
dall’Unicef, dall’Organizzazione internazionale del lavoro
(Ilo) e dall’ong Save the children, in Libano vivono e lavorano centinaia di bambini di strada. Per il paese si tratta di un
problema di lunga data, aggravato dall’arrivo di 1,5 milioni di
profughi siriani, scrive il Daily
Star. Si calcola che il 75 per cento degli almeno 1.500 bambini
di strada libanesi sia originario
del paese vicino (nella foto, una
bambina profuga siriana). Intanto in Siria l’inviato dell’Onu
Stafan de Mistura sta negoziando con il governo di Damasco
un cessate il fuoco di sei settimane nella città di Aleppo.
Nel settembre del 2014 il governo
sudafricano ha concluso un accordo con
l’azienda pubblica russa Rosatom per la
costruzione di otto nuove centrali
nucleari entro il 2023, un afare del
valore di 50 miliardi di dollari che dovrà
essere approvato dal parlamento.
Tuttavia, come svela il Mail &
Guardian, alcuni termini del contratto
sono “preoccupanti”: per esempio, il Sudafrica non potrà
vendere ad altri paesi la tecnologia nucleare che avrà
sviluppato autonomamente senza il permesso della
Russia; Rosatom non sarà considerata responsabile in caso
di incidenti ai reattori; l’azienda russa godrà di speciali
sgravi iscali senza concedere nulla in cambio. “È un
accordo molto vantaggioso per Rosatom, ma che presenta
molti rischi per il Sudafrica”, scrive il settimanale. “Non
sorprende che il governo abbia tenuto segreti i suoi piani”.
Il Sudafrica sta attraversando una diicile crisi energetica
che minaccia la crescita economica, e ha bisogno di
rendere più eiciente la sua produzione di elettricità. Per
questo negli ultimi mesi ha irmato accordi e preso contatti
con vari paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Cina, la Francia e la
Corea del Sud. u
Elezioni
a rischio
In un video del 18 febbraio il leader di Boko haram, Abubakar
Shekau, ha minacciato di impedire lo svolgimento delle elezioni presidenziali del 28 marzo,
scrive Jeune Afrique. Il giorno
prima quaranta persone erano
morte in una serie di attentati
nel nordest della Nigeria, mentre l’esercito ha fatto sapere di
aver ucciso 300 miliziani. Il 13
febbraio Boko haram ha compiuto il primo attacco in Ciad. Il
17 febbraio almeno 37 civili sono
stati uccisi da una bomba sganciata da un aereo non identiicato nel sudest del Niger.
IN BREVE
Senegal L’ex presidente ciadiano Hissène Habré, accusato di
crimini contro l’umanità, sarà
processato da un tribunale speciale creato dal Senegal e
dall’Unione africana.
Tunisia Il 18 febbraio quattro
poliziotti sono morti nell’attacco
portato da un gruppo jihadista
vicino al conine con l’Algeria.
Da Ramallah Amira Hass
YEMEN
L’avanzata
verso sud
I ribelli houthi, che controllano
la capitale Sanaa, hanno respinto una risoluzione delle Nazioni
Unite che gli chiedeva di cedere
il potere e di rilasciare l’ex presidente Abd Rabbo Mansur Hadi.
Il quotidiano yemenita Al Wasat scrive che gli houthi hanno
insediato il loro governo nella
capitale e riiutano categoricamente le ingerenze esterne. I ribelli stanno avanzando verso
sud. Secondo l’inviato speciale
dell’Onu Jamal Benomar, “bisognerà preoccuparsi per la reazione di Al Qaeda, che è molto
forte nel sud del paese”.
22
Disobbedienza civile
Bassem Tamimi, originario di
Nabi Salih, in Cisgiordania, è
rimasto sorpreso quando mi
ha incontrato a un evento di
disobbedienza civile a est di
Gerusalemme. Sa bene che ho
paura delle reazioni violente
dell’esercito israeliano.
Si protestava contro il progetto israeliano di costruire un
insediamento per beduini su
terre coniscate al villaggio palestinese di Abu Dis. Da due
settimane gli attivisti cercano
di ostacolare i lavori montando delle tende e costruendo
delle strutture provvisorie in
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
legno o in cemento, senza farsi
intimidire dall’esercito israeliano. La mattina del 16 febbraio i soldati hanno sparato
delle granate stordenti verso
di noi. Io sono scappata, ma i
giovani attivisti sono rimasti lì
con il loro leader, il più anziano Bassem. Più tardi io e Bassem siamo andati a Hebron
per discutere della questione
con alcuni dirigenti di Al Fatah. Quando siamo tornati, abbiamo saputo che trenta attivisti erano rimasti feriti e cinque
erano stati arrestati. Le strutture provvisorie erano state
smantellate, ma gli attivisti rimasti ne stavano già costruendo delle altre.
Negli ultimi due anni gli attivisti palestinesi favorevoli alla resistenza paciica hanno
partecipato a molte proteste
nell’area C, dove gli abitanti
non possono neanche scavare
un buco nel terreno senza il
permesso di Israele. Le prime
iniziative hanno ricevuto il sostegno dell’Autorità Palestinese, ma questa volta gli attivisti
hanno riiutato qualunque aiuto. Tutti i materiali usati sono
stati donati da privati. u
Ucraina
Una tregua fragile
dopo gli accordi
Dal 15 febbraio è in vigore un
nuovo cessate il fuoco, stabilito
con gli accordi di Minsk. Ma a
Debaltseve i combattimenti non
sono mai cessati
l 14 febbraio, poche ore prima del momento in cui i militari ucraini e le forze dell’autoproclamata Repubblica
popolare di Donetsk avrebbero dovuto cessare il fuoco in base agli accordi raggiunti a Minsk l’11 febbraio, è stato colpito il
centro della città di Donetsk. Per la prima
volta dall’estate del 2014. Un proiettile di
artiglieria è esploso sul boulevard Puškin e
due all’angolo tra la via Universitetskaja e il
Teatralnyj prospekt. Qui le schegge hanno
ucciso un militare e una donna. “Ero seduto
nella mia automobile parcheggiata quando
all’improvviso è scoppiato un proiettile. I
medici mi hanno estratto due schegge dalla
gamba, una dalla carne viva”, racconta una
delle persone colpite. Secondo i militari il
colpo proveniva con ogni probabilità da una
zona vicina alla città di Avdiïvka, dove si
trova una postazione dell’esercito ucraino.
Con il calare della notte, tuttavia, gli spari
attorno a Donetsk sono cessati. Il 15 febbraio la città era nel complesso tranquilla.
Nella sacca di Debaltseve, dove un contingente delle forze di Kiev è accerchiato
dai separatisti, il cessate il fuoco invece non
c’è stato. Già all’ingresso della città di Enakieve, occupata dai ilorussi, si sentono spari ed esplosioni. “Qui nell’area di Debaltseve non abbiamo ricevuto l’ordine di cessare
il fuoco”, ci spiega di fronte all’ediicio del
comando militare un combattente separatista che si fa chiamare Mowgli. Secondo il
comandante locale, il cui nome di battaglia
è Grek (il Greco), nei prossimi giorni l’intera
cittadina di Debaltseve passerà sotto il controllo delle forze della Repubblica popolare
di Donetsk. “Stanno per tagliare la luce.
Presto i generatori di corrente iniranno il
carburante e tutti gli altri collegamenti saranno tagliati. La cittadina sta per essere
I
26
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
conquistata”, spiega il comandante. Subito
dopo incontriamo una delle tante profughe
che si trovano in città. È diretta al comando
per il pranzo. “E quando ripulirete anche
Olenivka?”, chiede ai miliziani. “Per ora
non abbiamo ricevuto l’ordine di farlo”, rispondono loro. “Cercate di fare in fretta,
perché è terribile quando intorno a casa ti
scoppiano le bombe”, dice la donna.
Meglio di una pallottola
Grek ci racconta di essere stato sulla linea
del fronte tra Vuhlehirsk e Debaltseve. A
cinquecento metri dalla sua postazione piovevano missili Grad. Ci spiega che prima
della guerra faceva il dirigente in una società di costruzioni e che ancora oggi mantiene
i contatti con i colleghi di Kiev e di altre città
dell’Ucraina. “Di recente un mio amico della città di Kryvyj Rih, nella zona sotto il controllo degli ucraini, mi ha raccontato che gli
è arrivata la chiamata alle armi. In un mes-
BAz RATNER (REUTERS/CONTRASTO)
Ilya Barabanov, Kommersant, Russia
saggio mi ha scritto: ‘Quindi sappi che verrò
a liberarvi’. Allora gli ho inviato una mia foto in uniforme, spiegandogli che ormai sono diventato tenente colonnello. Gli ho
consigliato di restarsene a casa e di chiedere alla moglie di fratturargli in qualche mo-
Da sapere Ultime notizie
11 febbraio 2015 A Minsk i leader di Ucraina e
Russia e i rappresentanti dei separatisti trovano
un accordo per il cessate il fuoco con la mediazione di Francia, Germania e Osce. Il piano per
rilanciare il processo di pace è articolato in 13
punti e prevede, tra le altre cose, il cessate il
fuoco a partire dalla mezzanotte del 14 febbraio, il ritiro dell’artiglieria pesante dal fronte, la
creazione di una zona smilitarizzata e l’apertura
di un confronto sullo status di autonomia delle
zone occupate dai separatisti.
12-13 febbraio Continuano i combattimenti. Ci
sono diverse vittime civili.
15 febbraio Dopo l’entrata in vigore del cessate
il fuoco gli scontri diminuiscono lungo tutta la
linea del fronte, ma s’intensiicano nella cittadina di Debaltseve, dove i soldati di Kiev sono accerchiati dai miliziani separatisti.
16 febbraio Continuano i combattimenti nella
zona di Debaltseve. Il governo ucraino e i separatisti ilorussi riiutano di ritirare l’artiglieria
pesante dal fronte, come previsto dagli accordi.
Kiev annuncia che non comincerà il ritiro inché
non sarà tolto l’assedio a Debaltseve.
17 febbraio S’intensiica l’ofensiva dei separatisti contro Debaltseve. Gli Stati Uniti accusano
Mosca di non rispettare la tregua. Il sito di giornalismo investigativo Bellingcat pubblica un’inchiesta, realizzata grazie all’analisi delle immagini satellitari di Google earth, che dimostrerebbe come nell’estate del 2014 le postazioni
dei militari ucraini siano state colpite da proiettili di artiglieria provenienti dal territorio russo.
Mosca ha sempre negato che dal suo territorio
siano partiti attacchi all’Ucraina.
18 febbraio Kiev annuncia che l’80 per cento
dei soldati ucraini si sono ritirati da Debaltseve
e che presto anche gli altri lasceranno la città.
Le opinioni
Tra la guerra e il negoziato
A chi conviene l’intesa
siglata in Bielorussia?
I commenti della stampa
russa e ucraina
li accordi irmati a Minsk
l’11 febbraio non aggiungono nulla a quelli dello
scorso settembre”, scrive il giornale
russo Novaja Gazeta. “Inoltre sono
formulati in modo così vago che farli
saltare sarà molto facile. Il fatto che le
parti in conlitto si siano incontrate è
però un passo avanti non trascurabile.
Ora è necessario che Kiev, da una parte, e Mosca e i separatisti, dall’altra,
cambino linguaggio e smettano di
chiamarsi reciprocamente ‘banditi terroristi’ e ‘giunta fascista’. Russia e
Ucraina dovranno anche smettere di
mentire sistematicamente su quanto
succede sul terreno, perché questo
rende impossibile ogni iducia reciproca. Inine è indispensabile stabilire chi
controllerà il rispetto degli accordi, visto che l’Osce non è assolutamente in
grado di farlo. Sullo sfondo rimane la
questione dello status del Donbass,
che va afrontata senza pregiudiziali”.
Sul sito russo Gazeta Georgi Bovt
fa notare che “quello che mina maggiormente gli accordi di Minsk è l’assenza degli Stati Uniti dal negoziato:
senza di loro in Ucraina non è possibile
raggiungere una pace sul modello di
quella siglata a Dayton per la Bosnia
Erzegovina. E non solo perché il presidente ucraino Petro Porošenko agisce
sotto l’occhio vigile di Washington e
non può ricevere inanziamenti dal
Fondo monetario internazionale senza
il suo consenso, ma anche perché gli
Stati Uniti continuano a ritenere
l’Ucraina un contrappeso a Putin, che
secondo loro vuole alterare le regole
del gioco geopolitico globale”.
Una condanna categorica degli accordi arriva dal quotidiano di Kiev
Ukraïnska pravda: “È chiaro che Pu-
“G
Vuhlehirsk, 16 febbraio 2015
do una gamba simulando un incidente: è
meglio stare a letto qualche settimana con
una gamba ingessata piuttosto che beccarsi
una pallottola”, dice Grek. Dopo Enakieve
cerchiamo di avvicinarci a Uglegorsk, ma
veniamo fermati a un posto di blocco vicino
alla miniera Kondtratevskaja. “Ordini dei
nostri comandanti: non possiamo lasciare
passare i giornalisti”, dicono i miliziani.
“Ma da voi il cessate il fuoco viene rispettato?”, gli chiediamo. “La zona di Horlivka è
stata sotto il tiro degli ucraini ino alle tre di
notte del 15 febbraio”, rispondono i miliziani. “Poi il fuoco è cessato solo perché hanno
dovuto sostituire gli uomini e portare nuovi
pezzi di artiglieria. Forse per una settimana
o due la situazione rimarrà tranquilla, poi
comincerà tutto di nuovo”.
Mentre il miliziano pronuncia queste
parole cominciano i colpi. Convinti che un
cecchino stia sparando su di loro da un’altura formata dai detriti di una miniera, i separatisti aprono il fuoco. Gli abitanti cercano
di tranquillizzarli spiegando che sono solo i
colpi di un’esercitazione al poligono. Per
l’intera giornata del 15 febbraio i combattenti di entrambe le fazioni si sono accusati
a vicenda di avere violato il cessate il fuoco.
Se si può dire che in generale lungo la linea
del fronte la situazione si è temporaneamente stabilizzata, nell’area di Debaltseve
si è continuato a sparare. E tutto lascia pensare che il fuoco non cesserà a breve. u af
tin non ha nessuna intenzione di rispettare la tregua. Il presidente russo
nega di avere il controllo dei separatisti. In questo modo vuole guadagnare
tempo, sperando che l’Ucraina crolli
sotto il peso della guerra e della crisi
politica prima che sia Mosca a cedere
sotto il peso delle sanzioni. Porošenko
non deve perdere tempo in discussioni
inutili: ogni stretta di mano con Putin
gli farà perdere autorevolezza in Ucraina. Kiev deve invece raforzare gli armamenti, interrompere ogni rapporto
con l’aggressore e dichiarare lo stato di
guerra. Se otterrà il pieno sostegno dei
vicini, come la Polonia, e dei paesi più
importanti della Nato, come gli Stati
Uniti e il Regno Unito, la Russia non
potrà avere la meglio”.
Sul quotidiano russo Izvestija
Aleksandr Prochanov, commentatore
vicino ai separatisti e al Cremlino, valuta invece positivamente gli accordi,
considerandoli per Mosca un successo
paragonabile a quello ottenuto da Stalin nella conferenza di Jalta del 1945. Il
successo è stato possibile grazie a diversi fattori: “Il Donbass, umiliato e ferito, è riuscito a risorgere e a chiudere i
soldati ucraini in una morsa. Inoltre
Porošenko, colpito a morte dalla disfatta militare, si trova sull’orlo del baratro dove presto sprofonderà anche
l’economia ucraina. E inine l’Unione
europea, dilaniata al suo interno dalle
tensioni interrazziali e dal caos economico, trema all’idea che la guerra si allarghi oltre i conini ucraini”. Ma il fattore decisivo è stato la forza della Russia, “che non può permettere la nascita
di uno stato russofobo e membro della
Nato ai suoi conini. Il mondo monopolare voluto dagli Stati Uniti sta afondando nei conlitti e nelle contraddizioni, e il progetto di Washington in
Ucraina è fallito. Il colpo di stato ordito
dagli americani ha difuso il male e la
violenza in tutto il paese, ma alla ine si
è dovuto fermare davanti alla forza di
volontà della Russia”. u af
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
27
Danimarca
RUMLE SkAFTE (POLFOTO/AP/ANSA)
Davanti alla sinagoga grande di Copenaghen, 15 febbraio 2015
Il terrorismo arriva
a Copenaghen
prendere le distanze da quello che è successo. Altrimenti rimarranno dei sospettati.
Finché non avranno dimostrato il contrario, saranno considerati tutti colpevoli.
Dignità e responsabilità
Carsten Jensen, Politiken, Danimarca
L’attentato del 14 febbraio è il
risultato di scelte politiche miopi
e populiste che hanno scavato
un fossato nella società e
alimentato l’islamismo radicale.
L’analisi di uno scrittore danese
lla ine l’uomo nero è arrivato.
Per dieci anni i nostri ministri
della difesa ci hanno ripetuto
che sarebbe venuto dall’Afghanistan. Un taliban analfabeta incapace di
trovare l’Europa sulla carta geograica sarebbe apparso un giorno alla stazione Nørreport con uno zaino pieno di esplosivo e,
iniammato dal fervore dell’islam, avrebbe
trascinato con sé decine di innocenti
A
28
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
nell’oltretomba. Ma quell’uomo non è mai
arrivato, anche se abbiamo speso due miliardi e mezzo di euro per portare la guerra
nel suo paese ed evitare che si presentasse
qui. Invece ad attaccare un convegno sulla
libertà d’opinione e una sinagoga, prima di
essere raggiunta dai proiettili della polizia,
è stata una persona qualsiasi, che viveva a
Nørrebro, un quartiere di Copenaghen.
A chi dobbiamo dichiarare guerra ora?
All’islam? Ai 250mila cittadini musulmani
che sono già riusciti a entrare in Danimarca? Ai giovani figli degli immigrati, che
molti considerano dei disadattati? A tutti
quelli che non sono pronti a giurare sulla
Bibbia di essere dalla parte della cultura danese e della sua carne con le patate? Oggi i
danesi si stanno contando: i 250mila musulmani del paese devono farsi avanti e
Tre ore dopo il primo attentato la leader danese Helle Thorning-Schmidt non aveva
ancora fatto dichiarazioni. Il presidente
francese François Hollande aveva già commentato l’attacco di Copenaghen, Thorning-Schmidt no. Poi finalmente è stato
difuso un comunicato stampa che sembrava scritto dall’ispettore di polizia di turno.
“Molti indizi lasciano pensare a un attentato di matrice politica e quindi a un atto terroristico”, ha dichiarato la prima ministra
facendo eco alle speculazioni della stampa.
La sera dell’attentato Thorning-Schmidt
non è comparsa in tv per rivolgersi ai danesi. Poi, con poca convinzione, ha comunicato ai cittadini che dovevano “continuare la
vita di sempre”.
Dopo l’11 settembre 2001 l’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush,
invitò gli americani a continuare a fare acquisti senza esitazione. Thorning-Schmidt
forse vuole dirci la stessa cosa: non ostaco-
late lo sviluppo economico, fate come se
non fosse successo nulla. “Voglio salvaguardare la Danimarca che conosci”, si legge sui manifesti con il suo ritratto, aissi sui
muri di tutto il paese.
Qualunque cosa ci voglia dire con i suoi
discorsi inconsistenti, un fatto è chiaro: la
sera del 14 febbraio, mentre a Copenaghen
si sparava, la Danimarca non aveva una
guida. Nel luogo in cui si sarebbe dovuta
trovare la prima ministra c’era un vuoto
morale. Certo, è importante scoprire tutto
sull’attentatore e sulle sue motivazioni: è
un combattente rientrato dalla Siria? Il focolaio dell’infezione è all’estero? Ma c’è
un’altra domanda ugualmente importante:
cos’è la Danimarca come nazione?
Probabilmente nei prossimi giorni descriveremo l’attentatore come un giovane
che si è radicalizzato da solo. Ma nessuno è
un’isola e quindi potrebbe aver trovato motivazioni e ispirazioni in modi e luoghi molto diversi. Non può essere il nostro paese
uno dei focolai dell’infezione? La nazione
danese non si è forse radicalizzata da sola?
La Danimarca e il Regno Unito sono gli unici paesi europei che negli ultimi dodici anni
hanno partecipato a tutte le guerre in Medio Oriente: in Iraq, Afghanistan, Libia e
oggi contro il gruppo Stato islamico. Insieme al Belgio e al Regno Unito, la Danimarca è il paese europeo da cui, in rapporto alla
popolazione totale, sono partiti più volontari per andare a combattere in Siria.
La Danimarca è indiscutibilmente il paese con il partito xenofobo di destra più potente d’Europa, il Dansk folkeparti (Partito
del popolo danese, Df ). È possibile che alle
prossime elezioni il Df diventi la prima forza politica e che la sua visione degli stranieri venga condivisa dalla maggioranza degli
altri partiti del Folketing (il parlamento di
Copenaghen), socialdemocratici compresi.
È davvero un caso che la scintilla del terrore
sia passata direttamente da Parigi a Copenaghen?
In Danimarca il problema della libertà
d’espressione non sta nel fatto che non è
rispettata. Il problema è legato al fatto che
questa libertà non viene esercitata a suicienza, che i danesi che protestano non sono abbastanza. Se i politici della destra danese sono tra i peggiori demagoghi d’Europa, il problema non riguarda la libertà
d’espressione, ma il senso di dignità e di responsabilità che dovrebbe essere patrimonio irrinunciabile di ogni rappresentante
democraticamente eletto. Oggi, però, asso-
ciare concetti come dignità e responsabilità
ai politici danesi è impossibile.
Una Danimarca aperta e ospitale esiste
ancora: è la società civile che cerca di sfondare il muro costruito dai mezzi d’informazione e dai partiti. Ma nessun leader politico si rivolge più a lei. Nessun partito la incoraggia. Nessuno la invita a parlare. Questa
Danimarca tollerante deve essere messa a
tacere, e da domani la sua distanza dai microfoni sarà più grande che mai.
Parole sagge
L’aspetto più curioso delle reazioni sui social network agli attentati è stato la totale
mancanza di sorpresa. Tutti se lo aspettavano. La Danimarca negli ultimi vent’anni
ha puntato allo scontro diretto. E oggi l’ha
ottenuto. I nostri politici ci hanno preparato
a questa possibilità. E noi abbiamo preparato a questa possibilità gli immigrati, i rifugiati e i loro igli con una profezia che si autoavvera: dietro i veli, dietro le barbe lunghe, dietro le mura delle moschee voi siete
come noi vi abbiamo dipinto. E la violenza
è sempre in agguato: nella vostra religione,
nella vostra cultura, nella vostra storia, nella vostra rabbia, nel vostro spirito.
Nei dibattiti seguiti all’attacco terroristico contro il settimanale francese Charlie
Hebdo, in Danimarca non è mai stata fatta
una distinzione tra satira e difamazione. Io
non ho letto la rivista, ma ho creduto alle
parole del suo direttore Stéphane Charbonnier, che aveva deinito la satira di Charlie
cordiale e comica. Al contrario, quasi tutto
quel che si dice sui musulmani e sulla loro
religione non è né cordiale né comico. Si
tratta di una demagogia maligna e che punta a cancellare il loro carattere umano.
Di recente ho apprezzato la cancelliera
tedesca Angela Merkel, che ha deinito gli
ispiratori di Pegida, il movimento di protesta di estrema destra, persone che hanno
l’odio e il gelo nel cuore: se avesse fatto una
dichiarazione simile in Danimarca si sarebbe dovuta scusare per poter continuare a
fare politica. In questa Danimarca che si è
radicalizzata da sola, sono i cuori gelidi a
dettare l’ordine del giorno su entrambi i
versanti della linea del fronte. u fp
Carsten Jensen è uno scrittore e
giornalista danese. In Italia ha pubblicato
il romanzo La leggenda degli annegati
(Rizzoli 2007).
Da sapere
L’attacco e le reazioni
u Nel pomeriggio del 14 febbraio 2015 un uomo armato,
poi identiicato come Omar el
Hussein, un cittadino danese
di 22 anni di origine palestinese, fa irruzione nel centro culturale Krudttønden, a Copenaghen. Nel centro è in corso
un convegno sulla libertà di
espressione organizzato dal
vignettista svedese Lars
Vilks, nella lista nera degli
estremisti islamici dal 2007
per aver disegnato Maometto
con il corpo di un cane.
Nell’attacco muore il documentarista Finn Nørgaard e
rimangono feriti tre poliziotti.
L’attentatore fugge in auto.
Dopo la mezzanotte attacca la
principale sinagoga della città,
dove è in corso una festa di
bat-mitzvà, e uccide un membro della comunità ebraica locale, Dan Uzan, ferendo altri
due agenti. Alle 5 del mattino,
nel quartiere di Nørrebro, El
Hussein muore in una sparatoria con la polizia. Il 15 febbraio gli agenti arrestano due
persone sospettate di aver aiutato l’attentatore. Secondo le
autorità danesi, El Hussein si
era avvicinato all’estremismo
islamico in carcere, dove era
inito nel 2013 per reati non legati al terrorismo.
u “Lo scopo dei terroristi è far
paura alla gente, non tanto uccidere”, ha commentato l’ex
rabbino capo della Danimarca
Bent Melchior in un’intervista
a Information. “Sono preoccupato dalla reazione della
mia comunità. Se vogliamo
che in Europa ci sia una comunità ebraica, è importante che
gli ebrei possano riunirsi senza che questo sia un atto di coraggio”. Melchior ha poi criticato le parole del primo ministro israeliano Benjamin Ne-
tanyahu, che dopo gli attentati
di Copenaghen ha ripetuto
l’appello fatto dopo quelli di
Parigi del 7 e 8 gennaio, esortando gli ebrei europei a emigrare in Israele, la loro “vera
casa”. “È una dichiarazione
stupida”, ha detto Melchior.
“Qui non si specula sulle tragedie e non avrebbe dovuto
farlo neanche Netanyahu.
Avrebbe dovuto limitarsi a fare le condoglianze. È un equivoco dire che Israele è la nostra vera casa. Io sono sionista,
ma questo non signiica che gli
ebrei debbano abitare tutti in
un determinato posto. Sarebbe apartheid. Israele deve essere un centro di riferimento
per gli ebrei di tutto il mondo,
ma ci devono essere ebrei
dappertutto. E per la stessa ragione ci dev’essere posto per i
cristiani e i musulmani nella
società israeliana”. u fc, pb
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
29
Europa
Francia
GERMANIA
“Il 15 febbraio la Spd ha vinto
nettamente le elezioni per il
rinnovo della Bürgerschaft (il
consiglio comunale) di Amburgo con il 45,7 per cento dei
voti”, scrive la Frankfurter
Allgemeine Zeitung, “ma
non avrà la maggioranza assoluta”. Per governare, il candidato socialdemocratico Olaf
Scholz avrà bisogno di allearsi
con i Verdi. Brusco crollo per la
Cdu, che si è fermata al 15,9
per cento, perdendo il 6 per
cento rispetto a quattro anni
fa. Ma tra i risultati spicca l’affermazione del partito euroscettico Alternative für
Deutschland (Afd), che con il
6,1 per cento ottiene otto senatori ed entra per la prima volta
nelle istituzioni di un land della Germania occidentale.
Università
occupata
La Macedonia è attraversata da
un’ondata di proteste studentesche. Come scrive il settimanale
Fokus, dopo le mobilitazioni
degli scorsi mesi, “gli studenti
sono tornati all’azione e hanno
occupato l’università di Skopje
dichiarandola ‘zona autonoma’”. Chiedono il ritiro della
nuova legge sull’università, che
prevede l’introduzione di esami
con valutazioni esterne, di cui
saranno incaricate non le istituzioni accademiche ma agenzie
del governo. “Gli studenti sanno
che la lotta sarà lunga e vogliono
proseguire ino al raggiungimento dei loro obiettivi”. La
protesta si sta ampliando a macchia d’olio e negli ultimi giorni è
stata decisa l’occupazione delle
università di Bitola e Štip.
VINCENt KESSLEr (rEutErS/CONtrAStO)
Euroscettici
ad Amburgo
MACEDONIA
L’ultima profanazione
Cinque ragazzi tra i 15 e i 17 anni sono in stato di fermo a Sarreunion, in Alsazia, con l’accusa di aver profanato 250 tombe del locale cimitero ebraico il 15 febbraio (nella foto). Il presidente François
Hollande ha ricordato che il cimitero era già stato bersaglio di attacchi: nel 1998 e nel 2001 erano state profanate decine di tombe. “La
giustizia stabilirà cosa è dovuto all’incoscienza, all’ignoranza o
all’intolleranza. Ma ormai il danno è fatto”, ha detto Hollande. Come sottolinea Le Figaro, in Francia gli atti di antisemitismo sono in
forte aumento: nel 2014 sono stati 854, il doppio rispetto al 2013.
L’appello
della presidente Turchia
La nuova presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović ha prestato giuramento a Zagabria il
15 febbraio. Nel suo discorso ha
pronunciato parole concilianti
nei confronti dei paesi vicini,
ma più dure sul fronte interno.
Il sito H-Alter critica in particolare l’appello all’unità e alla
paciicazione nazionale: “Questo tema viene regolarmente riproposto in momenti di grave
crisi, quando sta maturando
una rivolta sociale. E la Croazia
oggi si trova proprio in una situazione del genere, con un’alta
disoccupazione e una popolazione molto indebitata. A questi
problemi il governo socialdemocratico non sa dare risposta.
Così la presidente di destra ricorre a un linguaggio perentorio parlando di unità nazionale
e individuando un capro espiatorio nei nostalgici della Jugoslavia, accusati di ogni male”.
Le donne protestano
Yeni Asır, Turchia
La vicenda di Özgecan Aslan, la
studentessa di vent’anni rapita e uccisa
dopo un tentativo di violenza da tre
uomini nella città di Mersin, ha
innescato proteste nell’intero paese.
Come tutta la stampa turca, anche il
quotidiano Yeni Asır dedica la
copertina alla memoria della ragazza e
alle manifestazioni in suo onore. “Per
la prima volta da molto tempo”, scrive il quotidiano
Habertürk, “il paese è unito nell’afrontare un lutto.
Non è banale. Finora, infatti, la polarizzazione della
società aveva impedito ai turchi di esprimere un
sentimento di empatia capace di superare le diferenze
politiche e sociali”. Secondo Habertürk per sconiggere la
piaga della violenza di genere, obiettivo auspicato anche
dal presidente recep tayyip Erdoğan, “bisognerà
superare la retorica uiciale che relega la donna a un
ruolo subalterno nella famiglia e nella società”. ◆
LASZLO BALOGH (rEutErS/CONtrAStO)
CROAZIA
IN BREVE
Ungheria Il 17 marzo il presidente russo Vladimir Putin ha
incontrato a Budapest il primo
ministro ungherese Viktor Orbán per discutere di un contratto sul gas. Il giorno prima duemila persone avevano manifestato contro la visita (nella foto).
Francia Il 17 febbraio la procura di Lilla ha chiesto di prosciogliere l’ex direttore dell’Fmi Dominique Strauss-Kahn dall’accusa di sfruttamento aggravato
della prostituzione.
Grecia Prokopis Pavlopoulos,
ex ministro conservatore, è stato eletto presidente della repubblica dal parlamento il 18 febbraio con 233 voti su 300.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
31
IMAgetAkeR/DeMOtIx/CORbIS/CONtRAStO
Asia e Paciico
L’esecutivo continua a ripetere che la magistratura è indipendente e sottolinea come in questo caso la denuncia sia partita
dall’assistente con cui avrebbe commesso
il reato di sodomia. tuttavia sembra chiaro
a tutti che dietro alle vicende legali di Anwar ci siano motivazioni politiche. Phil Robertson, uno degli osservatori di Human
rights watch (Hrw), ha deinito il verdetto
una farsa.
Il ricatto dei conservatori
Veglia per Anwar Ibrahim a Kuala Lumpur, 11 febbraio 2015
Un passo indietro
per la Malesia
The Economist, Regno Unito
La condanna di Anwar Ibrahim
per sodomia avrà ricadute
negative anche per il governo.
Il capo dell’opposizione, infatti,
sapeva tenere insieme le diverse
componenti etniche del paese
opo quattro mesi di attesa, il 10
febbraio la corte suprema malese ha respinto l’appello del
leader dell’opposizione Anwar
Ibrahim e confermato la sua condanna a
cinque anni di carcere per sodomia. Inoltre
Anwar, 67 anni, sarà interdetto dagli incarichi pubblici per i cinque anni successivi al
rilascio. Sarà quindi escluso dalle prossime
due tornate elettorali e probabilmente la
sua carriera politica è inita.
Il Pakatan rakyata (Pr), la coalizione
guidata da Anwar, è la minaccia più concreta che l’Organizzazione nazionale malese unita (Umno) abbia dovuto afrontare
nei suoi quasi sessant’anni di governo ininterrotto. La forza dell’opposizione, tuttavia, è legata alla leadership di Anwar, perciò la sua condanna è una buona notizia per
il primo ministro Najib Razak. Ma festeg-
D
32
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
giare sarebbe sintomo di poca lungimiranza. L’uscita di scena di Anwar porterà dei
vantaggi politici al governo. Alle elezioni
generali del 2013 il Pr ha ottenuto più voti
del barisan Nasional (bn), la coalizione
guidata dall’Umno, ma gli è stato attribuito
solo il 40 per cento dei seggi in parlamento
grazie a una modiica dei distretti elettorali fatta per favorire il bn.
Il Pr, tuttavia, è una coalizione improbabile e frammentata, composta da un partito islamico conservatore che si rivolge
alla maggioranza musulmana di etnia malese, da una formazione che rappresenta
soprattutto la minoranza di etnia cinese e
dal partito multirazziale e laico guidato da
Anwar. Per tenere insieme questi elementi
Anwar è stato fondamentale.
ex vice primo ministro, nel 1998 era
stato il principale sostenitore della reformasi, il movimento a favore delle riforme
politiche, sociali e del sistema giudiziario.
Oggi è la figura più nota e carismatica
dell’opposizione, a dispetto, anzi, in parte a
causa dei sei anni trascorsi in carcere per
corruzione e un altro caso di sodomia,
un’accusa poi revocata. Questa seconda
condanna, tuttavia, rappresenta solo in
parte una benedizione per il governo.
gli aspetti curiosi di questa vicenda sono
molti. Secondo Hrw la legge in base alla
quale Anwar è stato condannato è stata applicata solo sette volte dal 1938. Anwar, che
secondo l’accusa ha commesso il reato nel
2008, era stato scagionato nel 2012 perché
i campioni di dna usati come prova erano
stati manomessi. Il procuratore generale,
tuttavia, ha presentato ricorso contro questa decisione. Il caso ha danneggiato l’immagine del sistema giudiziario malese e
quella dello stesso Najib, ritenuto coinvolto
nelle decisioni dei tribunali. La reputazione del primo ministro era già stata intaccata quando il suo governo aveva fatto ricorso
a un’altra legge draconiana per perseguire
chi critica il governo, come Zunar, il vignettista arrestato per un tweet contro la condanna di Anwar. Dopo aver promesso di
abrogare la legge sulla sedizione, lo scorso
novembre Najib ha dichiarato invece di volerla raforzare. Una mossa che è stata interpretata come una concessione ai conservatori dell’Umno, che rappresentano
per Najib una minaccia ben più grave rispetto all’opposizione.
Attaccato dall’ala più conservatrice della sua coalizione, Najib ha poco spazio per
portare avanti le riforme politiche ed economiche, alcune delle quali richiederebbero l’abrogazione delle norme che in Malesia
regolano un sistema di discriminazione
commerciale a favore della maggioranza
malese a cui molti esponenti dell’Umno
sono legati. Perciò il bn, i cui esponenti di
etnia cinese e indiana hanno riportato risultati disastrosi alle elezioni del 2013, rischia di diventare solo un contenitore per
una Umno sempre più ostaggio delle forze
nazionaliste di etnia malese, intensiicando una pericolosa polarizzazione razziale
nella politica nazionale. Anwar ha molti
detrattori, ma almeno avrebbe potuto guidare con una qualche credibilità una coalizione in grado di mediare tra le diverse
componenti etniche del paese. u gim
NICoLAS ASFoURI (AFP/GeTTy IMAGeS)
Hong Kong
BIRMANIA
Scontri
nel Kokang
Shopping pericoloso
Hong Kong, 15 febbraio 2015
THAILANDIA
Decine di studenti hanno sida­
to la legge marziale e il 14 feb­
braio hanno inscenato a Bang­
kok una inta elezione (nella foto) per protestare contro la deci­
sione della giunta militare, che
ha preso il potere con un colpo
di stato nel maggio del 2014, di
rimandare al 2016 il voto previ­
sto per quest’anno. Quattro atti­
visti del Centro degli studenti
tailandesi per la democrazia,
un’organizzazione che raccoglie
sia simpatizzanti dell’ex pre­
mier yingluck Shinawatra sia i
igli dei sostenitori più inluenti
della giunta al potere, sono stati
arrestati. Gli studenti hanno
promesso di proseguire la pro­
testa e di essere pronti ad anda­
re in carcere in nome della de­
mocrazia, scrive il Bangkok
Post.
GIAPPONE
La tentazione
dell’apartheid
Sì alla forza lavoro straniera, ma
impariamo dal Sudafrica
dell’apartheid. L’opinione di
Ayako Sono, scrittrice e consu­
lente per l’istruzione del gover­
no di Shinzō Abe nel 2013, è sta­
ta pubblicata l’11 febbraio dal
quotidiano di destra Sankei
Shimbun e ha provocato l’indi­
gnazione dell’ambasciatrice
sudafricana a Tokyo. “Ho solo
detto che le Chinatown e le Lit­
tle Tokyo sono una buona cosa”,
ha replicato Sono.
TyRoNe SIU ( ReUTeRS)
Gli studenti
e i militari
Nei giorni scorsi i cittadini di Hong Kong si sono scagliati
contro gli abitanti della Cina continentale che ogni anno
arrivano nell’ex colonia britannica a decine di milioni per
comprare merci duty free e poi rivenderle una volta tornati
a casa. Alcune centinaia di manifestanti hanno aggredito
dei visitatori di un centro commerciale. u
SRI LANKA
Equilibrismi
diplomatici
Il progetto da 1,5 miliardi di dol­
lari aidato a un’azienda cinese
per la costruzione di una città
portuale vicino a Colombo con­
tinua a far discutere. Dopo che il
presidente Maithripala Sirisena
ha confermato l’accordo con Pe­
chino cancellato dal suo prede­
cessore Mahinda Rajapaksa, è
intervenuto il primo ministro,
Ranil Wickremesinghe, recla­
mando la facoltà del governo di
decidere in merito al progetto.
La nuova città dovrebbe sorgere
su 108 ettari di terreno boniica­
to, aittato all’azienda di costru­
zioni cinese per 99 anni. Il pro­
getto, che deve ancora superare
un esame di impatto ambienta­
le, fa parte della Via della seta
marittima, il piano lanciato nel
2013 dal presidente cinese Xi
Jinping per realizzare una rete di
porti commerciali afacciati
sull’oceano Indiano. Un disegno
che per Pechino è economica­
mente e strategicamente impor­
tante, ma che New Delhi vede
come una minaccia. Per rassicu­
rare l’India, il presidente Sirise­
na l’ha scelta come meta della
sua prima visita uiciale, comin­
ciata il 16 febbraio. Ma, come
scrive M K Bhadrakumar su
Asia Times, “il raforzamento
dei rapporti con Pechino garan­
tisce a Colombo un sostegno
economico di cui ha disperata­
mente bisogno e gli dà un van­
taggio nei rapporti diplomatici
con New Delhi”.
Migliaia di persone sono fuggite
in Cina a causa degli scontri
scoppiati il 9 febbraio nello stato
Shan tra l’esercito e i ribelli ko­
kang dell’esercito dell’alleanza
democratica nazionale, nato nel
1989 dopo lo scioglimento del
Partito comunista birmano, una
forza armata ilocinese e antigo­
vernativa. I kokang, di etnia ci­
nese han, sono una delle mino­
ranze che chiedono maggior au­
tonomia e con cui il governo bir­
mano sta cercando un accordo
di pace, scrive Irrawaddy. Il 13
febbraio i ribelli hanno attaccato
una base militare a Laukai, ca­
poluogo dell’area controllata dai
kokang, uccidendo 47 soldati e
ferendone più di 70. L’esercito
ha risposto con raid aerei. Se­
condo il governo le violenze, le
peggiori degli ultimi anni, sono
legate al ritorno nel paese di uno
dei leader kokang, Phone Kya
Shin, messo in fuga dall’esercito
birmano nel 2009. Il 17 febbraio
nel Kokang è stato dichiarato lo
stato d’emergenza.
IN BREVE
Afghanistan Il 17 febbraio ven­
ti poliziotti sono morti in un at­
tentato suicida nella provincia
di Logar. Secondo le Nazioni
Unite, le vittime civili del con­
litto nel 2014 sono state 10.548
(la cifra comprende morti e feri­
ti), con un aumento del 22 per
cento rispetto al 2013.
Cina Il 16 febbraio il Partito co­
munista cinese ha espulso un
suo alto responsabile, Su Rong,
accusato di corruzione.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
33
Americhe
Netlix approda a Cuba
Leonardo Padura Fuentes, El País, Spagna
l 9 febbraio l’azienda statunitense
Netlix ha inaugurato il suo servizio
di video in streaming a Cuba. Questa
notizia riguarda i cubani che hanno
accesso alla rete a banda larga e alle carte
di credito internazionali, ma è forse la più
importante dopo l’annuncio, il 17 dicembre
2014, della ripresa delle relazioni bilaterali
tra l’Avana e Washington.
Non è un segreto che a Cuba l’informazione è una questione di stato. Radio, tv e
giornali sono in mano a enti uiciali che
rispondono al governo. I contenuti trasmessi in tv, un mezzo particolarmente
difuso e inluente, sono da sempre i più
controllati. Cuba ha cinque reti televisive
nazionali con dei proili ben deiniti. Nel
corso del tempo la programmazione si è
aperta e diversiicata, e oggi i cubani hanno
a disposizione una vasta oferta nazionale
e internazionale: programmi sportivi e
ilm, ma anche canali d’informazione come Telesur, di cui Cuba è azionista.
Sull’isola si guardano spesso i prodotti
provenienti dagli Stati Uniti. A volte ilm,
serie tv e documentari sono trasmessi quasi in contemporanea nei due paesi. Spesso,
quando nelle sale spagnole si proiettano i
ilm candidati agli Oscar, noi cubani li abbiamo già visti alla tv pubblica senza aver
pagato un centesimo. Probabilmente in
questo senso la qualità dell’oferta cubana
è tra le più alte del mondo, perché le tv possono selezionare le opere migliori da
un’enorme banca dati. Il tallone d’Achille è
la produzione nazionale scarsa e spesso
scialba, soprattutto per quanto riguarda i
teleilm.
Le diicoltà economiche di Cuba limitano le possibilità creative e tecniche, e la
I
34
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
ALExANDRE MENEghINI (REUTERS/CONTRASTO)
Dal 9 febbraio il servizio di video
in streaming è disponibile anche
sull’isola. Ma per ora solo
pochi cubani potranno usarlo,
a causa della connessione
internet molto lenta
L’Avana, 10 febbraio 2015
qualità della produzione televisiva ne risente. I copioni sono poco avvincenti e non
vanno incontro alle aspettative del grande
pubblico. Nel caso delle telenovelas, lo spettatore cubano preferisce quelle importate,
soprattutto brasiliane, a quelle nazionali.
Sonni tranquilli
Ma è una sitcom prodotta nell’isola ad avere il più alto gradimento di pubblico. Vivir
del cuento va in onda tutti i lunedì in prima
serata, e ogni settimana è uno degli argomenti di conversazione principali tra gli
abitanti dell’isola. Sulla carta Vivir del cuento potrebbe sembrare uno dei tanti programmi che danno spazio a storie sempre
uguali, ma le peripezie dei suoi personaggi,
in particolare del vecchio Pánilo Epifanio
e del suo amico Chequera, rispecchiano in
modo molto incisivo le condizioni di vita
nel paese e ofrono una cronaca delle varie
strategie di sopravvivenza a cui ricorrono
molti cubani nella loro vita quotidiana.
Anche se la programmazione televisiva
uiciale è diversiicata e di qualità, i cubani
sono insoddisfatti e cercano delle alternative. Per esempio le antenne che permettono di ricevere i canali ispanici di Miami o il
popolarissimo paquete (pacchetto), un mi-
sto di programmi eterogenei – sitcom, informazione e intrattenimento – che non va
in onda a Cuba e circola su hard disk esterni al prezzo di tre o quattro pesos convertibili alla settimana (circa tre euro).
L’arrivo a Cuba di Netlix, con il suo archivio di due miliardi di ore di serie tv e di
ilm, potrebbe cambiare il consumo televisivo sull’isola e fare concorrenza ai canali
pubblici e a quelli alternativi. Ma per ora
possono dormire tutti sonni tranquilli: alcuni cubani si abboneranno a Netlix addebitando ai parenti all’estero il costo del
servizio, ma difficilmente riusciranno a
guardare la terza stagione di House of
cards.
Oggi scaricare un allegato di quattro
mega da un’email è una missione impossibile e vedere un ilmato di due minuti su
YouTube somiglia a una delle fatiche di Ercole. Con la connessione a internet che ha
la maggior parte dei cubani, accedere a
Netlix sarà come fare un viaggio nel mondo di Blade runner. u fr
Leonardo Padura Fuentes è uno scrittore cubano nato nel 1955. Il suo ultimo libro
pubblicato in Italia è Venti di quaresima
(Tropea 2011).
MIrAFLOrES PALACE/rEuTErS/CONTrASTO
stati uniti
cOlOmbia
mai più ragazzi
nella guerriglia
Esecuzioni sospese
Tom Wolf, governatore della Pennsylvania
il complotto
fallito
In un discorso trasmesso in tv il
12 febbraio, il presidente del Venezuela Nicolás Maduro (nella
foto) ha dichiarato di aver sventato un colpo di stato contro il
suo governo. “Secondo il presidente”, scrive Semana, “il
complotto prevedeva un attacco
al palazzo della presidenza e il
bombardamento del ministero
della difesa e degli uici della
rete tv Telesur a Caracas. Gruppi di destra e gli Stati uniti
avrebbero aiutato a realizzare il
golpe”. La portavoce del dipartimento di stato americano, Jen
Psaki, ha deinito “ridicole” le
accuse del Venezuela. Finora
sono stati arrestati un generale
in pensione e tredici persone.
MArk MAkELA (rEuTErS/CONTrASTO)
vEnEzuEla
Il 13 febbraio Tom Wolf, il governatore della Pennsylvania,
ha annunciato la sospensione della pena di morte nello
stato. “La moratoria durerà ino a quando Wolf non avrà
esaminato il rapporto del comitato che dal 2011 sta
indagando sull’uso e l’applicazione della pena capitale”,
scrive il Philadelphia Inquirer. “Dal 1976 ci sono state
solo tre esecuzioni, l’ultima nel 1999”. Nonostante questo,
la Pennsylvania è uno degli stati con il più alto numero di
detenuti nel braccio della morte. Attualmente 186 persone
condannate a morte sono in attesa dell’esecuzione, alcune
da più di trent’anni. L’Economist spiega che negli ultimi
anni anche altri stati, tra cui Colorado, Oregon e
Washington, hanno sospeso le esecuzioni e messo in
discussione l’utilità della pena di morte. u
“Il 17 febbraio, mentre all’Avana
i delegati del governo colombiano e del gruppo guerrigliero delle Farc discutevano per raggiungere un accordo sulle vittime, il
portavoce della guerriglia Iván
Márquez ha annunciato che i
minori di 15 anni arruolati
nell’organizzazione saranno rilasciati”, scrive El Espectador.
Il 12 febbraio le Farc si erano impegnate a non reclutare più
combattenti al di sotto dei 17 anni, mentre il governo ha fatto sapere di aver salvato quasi seimila bambini soldato negli ultimi
quindici anni. Intanto il 15 febbraio, in un attacco attribuito ai
guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln), tre soldati sono stati uccisi nel dipartimento Norte de Santander, vicino al conine con il Venezuela.
stati uniti
Regole
per i droni
Il 15 febbraio l’agenzia statunitense per l’aviazione civile ha
presentato una prima bozza di
regolamento per l’uso dei droni
commerciali. Il progetto, che si
applica ai velivoli che pesano almeno ventiquattro chilogrammi, prevede norme meno restrittive di quelle attuali. Gli
operatori dovranno ottenere
una certiicazione e dovranno
sempre avere il mezzo nella loro
visuale. “Il regolamento”, scrive
l’Atlantic, “proibirebbe i servizi di consegna con i droni che alcune compagnie, come Amazon, stanno sperimentando”.
stati uniti
il texas sida
Obama
In Texas un giudice federale ha
bloccato il decreto sull’immigrazione annunciato a novembre dal presidente Barack Obama per regolarizzare cinque milioni di immigrati senza documenti. Il giudice si è pronunciato su un ricorso presentato da
ventisei stati guidati da governatori del Partito repubblicano.
La sentenza proibisce all’amministrazione Obama di attuare i
programmi per la concessione
di permessi agli immigrati che
rischiano l’espulsione. Secondo
il Texas Observer è una sconitta per Obama, almeno temporanea. “La Casa Bianca ha risposto ribadendo la correttezza
giuridica del provvedimento e
ha annunciato che ricorrerà
contro la decisione del giudice”.
Espulsioni di immigrati senza
documenti negli Stati Uniti, migliaia
Fonte: The Economist
Presidenza
George
W. Bush
Presidenza
Barack
Obama
400
300
200
100
0
2001
2009
2013
in bREvE
Cile Il 13 febbraio Sebastián
Dávalos, iglio della presidente
Michelle Bachelet, si è dimesso
da direttore socioculturale della
presidenza dopo essere stato accusato di aver approittato della
sua posizione per far avere un
credito alla moglie.
Haiti Il 17 febbraio almeno 18
persone sono state uccise dal
crollo di un cavo dell’alta tensione a Port-au-Prince durante la
silata dei carri per il carnevale.
Stati Uniti Il 16 febbraio Craig
Hicks, 46 anni, è stato incriminato per l’uccisione di tre studenti musulmani a Chapel Hill,
nel North Carolina.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
35
Le opinioni
La Grecia merita
un’altra possibilità
Paul Krugman
Q
uando si discute delle misure necessarie debiti. L’austerità ha devastato l’economia greca proin un’economia mondiale depressa, c’è prio come la sconitta militare devastò la Germania di
sempre qualcuno pronto ad agitare lo Weimar. Dal 2007 al 2013 il pil reale pro capite greco è
spettro della Repubblica di Weimar, che sceso del 26 per cento. In Germania dal 1913 al 1919 scedovrebbe essere un monito sui pericoli se del 29 per cento.
Malgrado la catastrofe, la Grecia sta ripagando i
del deicit di bilancio e di una politica
suoi creditori e ha raggiunto un avanzo primario (le
monetaria espansiva.
Ma la storia della Germania dopo la prima guerra entrate superano le spese al netto degli interessi) di
mondiale viene quasi sempre citata in modo curiosa- circa l’1,5 per cento del pil. Il nuovo governo di Atene è
disposto a mantenere questo surplus di
mente selettivo. Si parla continuamente
bilancio, ma non ad accogliere la richiedell’iperinflazione del 1923, quando la Nel primo
sta dei creditori che vorrebbero veder
gente andava in giro con le carriole piene dopoguerra i
di banconote, e non della ben più impor- tentativi di imporre triplicare l’avanzo primario greco nei
prossimi anni.
tante delazione degli anni trenta, quan- un tributo a un
Cosa dovrebbe fare la Grecia per ragdo il governo del cancelliere Heinrich paese in rovina
giungere questo obiettivo? Dovrebbe taBrüning provò a mantenere l’ancoraggio azzopparono la
al sistema aureo con una stretta moneta- democrazia tedesca gliare ulteriormente la spesa pubblica,
ma non solo. I tagli alla spesa hanno già
ria e una durissima austerità.
e avvelenarono i
spinto la Grecia in una profonda recesE che dire di quello che avvenne prirapporti con
sione, e ulteriori tagli non farebbero che
ma dell’iperinlazione, quando gli alleati
i paesi vicini
aggravare la situazione. Ma il calo dei
vittoriosi cercarono di costringere la Gerredditi ridurrebbe anche il gettito iscale,
mania a pagare salatissime riparazioni di
guerra? È una vicenda da cui possiamo imparare molto, e dunque il deicit scenderebbe molto meno rispetto
perché riguarda direttamente la crisi che attanaglia la alla riduzione iniziale della spesa, probabilmente meno
Grecia. Oggi più che mai è fondamentale che i leader della metà.
Per raggiungere l’obiettivo la Grecia dovrebbe fare
europei ricordino bene la storia. In caso contrario il progetto europeo di pace e democrazia attraverso la pro- un altro ciclo di tagli, e poi un altro ancora. Inoltre il
crollo dell’economia farebbe diminuire la spesa privasperità non sopravvivrà.
In breve, la storia delle riparazioni è questa: la Fran- ta, altro costo indiretto dell’austerità. Mettiamo insiecia e il Regno Unito, invece di considerare la neonata me tutti questi fattori, e il +3 per cento del pil chiesto dai
democrazia tedesca come una potenziale alleata, la creditori costerebbe alla Grecia non il 3 per cento, ma
trattarono come una nemica sconitta chiedendole di una cifra vicina all’8 per cento del pil. Il tutto dopo una
ripagare i danni della guerra. Fu una mossa poco sag- delle peggiori crisi economiche della storia.
Cosa succede se la Grecia si riiuta di pagare? Forgia, perché le richieste fatte alla Germania erano impossibili da soddisfare. Per due motivi. Innanzi tutto tunatamente, nel ventunesimo secolo le nazioni
l’economia tedesca era già stata devastata dal conlitto. dell’Europa non usano più gli eserciti per recuperare i
Secondo, il fardello imposto a un’economia così inde- crediti. Ma ci sono altre forme di coercizione. Oggi,
bolita – come spiegò John Maynard Kaynes nel suo libro per esempio, sappiamo che nel 2012 la Banca centrale
Le conseguenze economiche della pace – sarebbe stato di europea ha sostanzialmente minacciato di distruggere
gran lunga superiore ai pagamenti diretti ai vendicativi il sistema bancario irlandese se Dublino non avesse
accettato il piano del Fondo monetario internazionale.
alleati.
Com’era inevitabile, alla ine la somma pagata dalla Una minaccia simile pende implicitamente sulla GreGermania fu molto inferiore alle richieste degli alleati. cia, anche se spero che la Bce, guidata oggi da persone
E i tentativi di imporre un tributo a un paese in rovina – più ragionevoli, non voglia darle seguito.
In ogni caso, i creditori europei devono capire che la
la Francia arrivò perino a occupare con l’esercito la
Ruhr, il cuore industriale della Germania, per estorcere lessibilità – cioè dare alla Grecia la possibilità di riprenle riparazioni – azzopparono la democrazia tedesca e dersi – è anche nel loro interesse. Magari non gli andrà
a genio il nuovo governo di sinistra, ma è un governo
avvelenarono i rapporti con i paesi vicini.
Questo ci porta allo scontro tra la Grecia e i suoi cre- regolarmente eletto e i suoi leader, da quello che ho
ditori. Si può sostenere che la Grecia si è messa nei guai sentito inora, credono sinceramente negli ideali deda sola, anche se è stata aiutata da creditori irresponsa- mocratici. L’Europa può peggiorare la situazione. E se i
bili. Ma la realtà è che Atene non può ripagare tutti i creditori saranno vendicativi, succederà. u fas
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Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
PAUL KRUGMAN
è un economista
statunitense. Nel
2008 ha ricevuto il
premio Nobel per
l’economia. Scrive sul
New York Times. Il
suo ultimo libro
pubblicato in Italia è
Un paese non è
un’azienda! (Garzanti
2015).
Le opinioni
La crisi dello Yemen
fa tremare i paesi arabi
Rami Khouri
L’
incredibile situazione in Yemen, dove tentativi di democratizzazione, di pluralismo politico,
le fondamenta dello stato stanno len- di dialogo nazionale. È stato segnato da rivoluzioni potamente crollando, è un esempio dei polari, interventi diretti delle potenze vicine come
problemi strutturali che affliggono l’Arabia Saudita e il Gcc o delle Nazioni Unite, interventi indiretti dell’Iran e di altri paesi, cospicui inanziamolti paesi nel mondo arabo.
Se si volesse spiegare a qualcuno menti dall’esterno, uniicazioni e separazioni del nord
perché il mondo arabo continua a trascinarsi da un con- e del sud del paese, seri tentativi di redigere una costilitto all’altro in un vortice di violenza politica e debo- tuzione fondata sul consenso popolare e di decentralizlezza istituzionale che si estende in tutta la regione, lo zare il potere e inine, come se non bastasse, una grave
crisi di approvvigionamento idrico che
Yemen potrebbe essere l’esempio perfetdiventerà catastroica se non sarà afronto. Questo paese è lo specchio della pro- Se si volesse
fonda fragilità che si ritrova ormai in una spiegare a qualcuno tata subito.
A questo caos di politica, identità, nadecina di altri paesi arabi. La mancanza perché il mondo
zionalismo e sovranità si sono ora agdi legittimità degli stati agli occhi dei cit- arabo continua a
giunti altri sviluppi: la conquista della
tadini porta inevitabilmente alla disinte- trascinarsi in un
capitale Sanaa da parte dei ribelli houthi
grazione di quei paesi in entità più picco- vortice di violenza
le, controllate da gruppi armati e alitte politica e debolezza e la proclamazione di un nuovo sistema
costituzionale di transizione, che ha solda violenza cronica.
istituzionale, lo
levato nuovi dubbi e minacce da varie
Lo Yemen richiede un’attenzione parYemen sarebbe
parti. La cosa incredibile è che i principaticolare, perché rappresenta un rischio
l’esempio perfetto
li gruppi politici yemeniti continuano a
concreto per gli altri stati della regione e
incontrarsi sotto la supervisione dell’inper il resto del mondo. È vicino ai paesi
produttori di petrolio che fanno parte del Consiglio di viato speciale dell’Onu per cercare una soluzione alle
cooperazione del Golfo (Gcc) e ad alcune delle più im- tensioni che hanno fatto a pezzi il loro paese.
Lo Yemen può prendere diverse strade, tutte già
portanti rotte marittime mondiali, senza contare la
presenza di Al Qaeda nella penisola araba (Aqap) e le provate in passato senza troppo successo: la secessione
conseguenze che il crollo dello stato avrebbe in un pae- del sud, la creazione di feudi tribali al nord, il decentramento costituzionale, la guerra civile, il pluralismo dese di 25 milioni di persone a basso reddito.
Dopo la ine della guerra fredda nel 1990, il mondo mocratico e la condivisione del potere, oppure uno staarabo non ha più potuto fare aidamento su forze ester- to autoritario centralizzato e basato sulla sicurezza.
ne per mantenere l’ordine nella regione e nemmeno Quello che spaventa tutti, in Yemen e all’estero, è la
per sostenere i paesi più vulnerabili impedendo che presenza consolidata ma ancora limitata di Al Qaeda e
crollassero e che i loro problemi si ripercuotessero sui la possibilità che il gruppo Stato islamico possa sfruttapaesi vicini. La crisi yemenita è preoccupante perché re il caos per insediarsi nel paese.
Ancora una volta il Gcc sarà probabilmente il princista avvenendo in un momento in cui nessuno ha l’autorità per mantenere una parvenza di ordine e d’integrità pale attore esterno che cercherà di mantenere l’ordine,
come ha già fatto anni fa quando contribuì alla caduta
nazionale. Il caos locale rilette quello regionale.
La cosa allarmante è che lo Yemen vive queste ten- del presidente Ali Abdullah Saleh, avviando un sistema
sioni da almeno mezzo secolo, in dalla “guerra per pro- di potere più pluralistico, anche se di breve durata, atcura” tra Arabia Saudita ed Egitto e tra Stati Uniti e traverso il dialogo nazionale. Gli stati del Golfo consiUnione Sovietica che si è combattuta sul suo territorio dereranno la presa del potere degli houthi come l’ennenegli anni sessanta. L’alternarsi di fasi di costruzione sima minaccia ordita dall’Iran contro il predominio
dello stato e collasso istituzionale che lo Yemen ha co- sunnita nella regione, e cercheranno di neutralizzarla.
Questa visione a breve termine non può mascherare
nosciuto in dagli anni cinquanta comprende praticamente tutti gli elementi politici che hanno costruito e le profonde debolezze del mondo arabo moderno, di
cui lo Yemen è solo l’ultima dimostrazione. Tra queste
distrutto il mondo arabo in quel periodo.
La lunga lista include forze tribali e religiose, movi- ci sono la costante mancanza di stabilità e sviluppo da
menti nazionalisti arabi e separatisti, gruppi settari ar- parte di stati che hanno cercato di ottenere legittimità
mati, gruppi terroristici come Aqap. Il paese ha subìto la attraverso le loro forze armate o gli alleati stranieri, e
manipolazione coloniale straniera (nello Yemen del non attraverso un consenso capace di cementare lo stasud prima del 1967), le ingerenze da parte di altri stati to o la partecipazione dei cittadini nella politica e nelle
arabi e le ricadute della guerra fredda. È passato per istituzioni. u f
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Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
RAMI KHOURI
è columnist del
quotidiano libanese
Daily Star. È direttore
dell’Issam Fares
institute of public
policy and
international afairs
all’American
university di Beirut.
In copertina
La vergogna d
Arundhati Roy, Prospect, Regno Unito
Foto di Michele Palazzi
io padre era un indù. L’ho conosciuto
solo da adulta. Sono cresciuta con
mia madre in una
famiglia cristiana
siriana ad Ayemenem, nel Kerala, la regione del sudovest dell’India che all’epoca era
governata dai comunisti. Eppure ero circondata dalle divisioni e dalle spaccature
create dalle caste. Ayemenem aveva una
chiesa separata per i paraiyar (una casta di
schiavi), dove i sacerdoti paraiyar si rivolgevano a quella congregazione di intoccabili.
La casta di appartenenza delle persone traspariva dai loro nomi, dal modo di rivolgersi agli altri, dal lavoro che facevano, dagli
abiti che indossavano, dai matrimoni che
organizzavano, dalla lingua che parlavano.
Nessun testo scolastico, però, faceva riferimento al concetto di casta. Solo quando ho
letto Annihilation of caste (L’eliminazione
delle caste), il testo del 1936 dell’intellettuale indiano B.R. Ambedkar, mi sono resa
conto di quest’enorme lacuna nell’universo
culturale degli indiani. Leggendo il discorso di Ambedkar ho capito che quella lacuna
esiste ancora e che continuerà a esistere inché la società indiana non si trasformerà
nel profondo.
M
L’altra Malala
Se avete sentito parlare di Malala Yousafzai,
la diciassettenne pachistana che ha vinto il
Nobel per la pace nel 2014 (insieme all’attivista indiano Kailash Satyarthi), ma non di
Surekha Bhotmange, allora dovete leggere
Ambedkar. A 15 anni Malala aveva già commesso diversi crimini: era una ragazza, viveva nella valle dello Swat, in Pakistan,
40
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
scriveva un blog sul sito della Bbc, era apparsa in un video del New York Times e
andava a scuola. Malala voleva diventare
medico, suo padre avrebbe voluto che entrasse in politica. Era una ragazza coraggiosa. Non ha dato ascolto alle minacce dei
taliban quando dicevano che le scuole non
erano fatte per le ragazze e minacciavano
di ucciderla se non smetteva di criticarli. Il
9 ottobre 2012 un uomo armato è salito sullo scuolabus dove viaggiava e le ha sparato
un colpo alla testa. Malala è stata portata in
aereo nel Regno Unito, dove è stata curata
ed è sopravvissuta. È stato un miracolo.
Malala ha ricevuto messaggi di sostegno dal presidente degli Stati Uniti Barack
Obama e dalla sua segretaria di stato, Hillary Clinton. Madonna le ha dedicato una
canzone. Angelina Jolie ha scritto un articolo su di lei. La rivista Time le ha dedicato
la copertina. Pochi giorni dopo l’attentato,
l’ex premier britannico Gordon Brown, oggi inviato speciale dell’Onu per l’istruzione
nel mondo, ha lanciato la campagna “I am
Malala” per chiedere al governo pachistano di garantire a tutte le bambine la possibilità di studiare.
Surekha Bhotmange, invece, aveva
quarant’anni e anche lei aveva commesso
vari crimini. Era una donna indiana ed era
una dalit (un’intoccabile, appartenente alla casta più bassa) ma non viveva nella povertà estrema. Più istruita del marito, svolgeva le funzioni del capofamiglia. Come
Ambedkar, che era il suo idolo, lei e la famiglia avevano rinunciato all’induismo
per convertirsi al buddismo. I igli di Surekha avevano studiato: i due maschi, Sudhir e Roshan, erano andati al college; la
femmina, Priyanka, era all’ultimo anno di
CONTRASTO
La democrazia non ha sradicato il sistema
delle caste, ma l’ha consolidato e modernizzato.
E l’occidente spesso lo giustiica come parte
integrante della cultura indù, scrive Arundhati Roy
liceo. Surekha e il marito avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno nel
villaggio di Khairlanji, nello stato del Maharashtra. Il terreno era circondato da fattorie di persone che si consideravano di
una casta superiore a quella di Surekha.
Poiché era una dalit e non aveva il diritto di
dell’India
Nelle foto in queste pagine, dalit convertiti al cristianesimo. Vellakulam, Tamil Nadu, 2008
aspirare a una vita dignitosa, il panchayat
(assemblea) del villaggio non le aveva concesso il permesso di allacciarsi alla rete
elettrica né di trasformare la sua capanna
di fango e paglia in una casetta di mattoni.
Gli abitanti del villaggio non consentivano
alla sua famiglia di irrigare i campi con l’ac-
qua del canale o di attingere all’acqua del
pozzo pubblico. Un giorno hanno deciso di
costruire una strada sulla proprietà di Surekha. Quando lei ha protestato, sono passati sui suoi terreni con i carri trainati dai
buoi e hanno portato gli animali a pascolare nei suoi campi coltivati.
Surekha non si è arresa. Ha denunciato
il fatto alla polizia, che però non l’ha ascoltata. Nei mesi successivi le tensioni nel villaggio sono aumentate. Per lanciare un avvertimento alcuni abitanti hanno aggredito
un parente di Surekha, riducendolo in in di
vita. Lei ha sporto di nuovo denuncia. La
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
41
In copertina
polizia ha arrestato un po’ di persone, ma
sono state liberate su cauzione quasi subito.
Lo stesso giorno, il 29 settembre 2006, una
quarantina di uomini e donne ha circondato la casa dei Bhotmange. Il marito di Surekha, Bhaiyalal, era nei campi. Quando ha
sentito delle grida, è corso a casa. Si è nascosto dietro una siepe e ha visto la folla
aggredire la sua famiglia. È andato nel villaggio più vicino e ha avvertito la polizia. Gli
agenti non sono mai arrivati. La folla ha trascinato Surekha, Priyanka e i due ragazzi
fuori dalla casa. Ai ragazzi è stato ordinato
di violentare la madre e la sorella. Quando
si sono riiutati gli hanno tagliato i genitali e
li hanno linciati. Surekha e Priyanka sono
state stuprate più volte e massacrate di botte. I quattro cadaveri sono stati gettati in un
canale, e trovati il giorno dopo.
All’inizio la stampa indiana ha presentato l’accaduto come un delitto d’onore, lasciando intendere che la comunità era rimasta turbata dalla presunta relazione di
Surekha con un parente (l’uomo che era
stato aggredito). Alla ine, però, le proteste
dei dalit hanno costretto la magistratura a
fare indagini più approfondite. Le ricerche
di alcuni comitati di cittadini, infatti, avevano appurato che le prove erano state inquinate. Nel primo grado di giudizio il tribunale ha condannato a morte i principali responsabili degli omicidi, senza però fare riferimento alla legge del 1989 per la prevenzione delle atrocità sulle caste e le tribù riconosciute: il giudice ha considerato la
strage di Khairlanji come un crimine dettato dal desiderio di “vendetta”. Secondo lui
non c’erano prove degli stupri e il delitto
non era motivato da questioni legate alla
casta di appartenenza delle vittime.
Quando una sentenza indebolisce il
movente di un crimine, poi spesso in un
grado di giudizio successivo la pena viene
ridotta. È una pratica comune in India. Se il
giudice avesse riconosciuto che il pregiudizio di casta è ancora una realtà, avrebbe
fatto un passo nella direzione giusta. Invece
ha preferito non afrontare il discorso. Surekha Bhotmange e i suoi igli vivevano in
una democrazia capitalista, per questo non
ci sono state campagne indirizzate al governo indiano dall’Onu, né messaggi indignati
da parte dei leader stranieri.
“Per gli intoccabili”, scrisse Ambedkar
nel 1945, dimostrando un coraggio raro tra
gli intellettuali indiani, “l’induismo è un’autentica stanza degli orrori”. Oggi il termine
“intoccabile” è stato sostituito dalla parola
dalit (letteralmente “oppresso”), che spesso è usata come sinonimo di “casta riconosciuta” (il termine con cui i dalit sono indi-
42
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
cati dalla legge sulle caste e le tribù). Ma è
un uso improprio, fa notare la studiosa indiana Rupa Viswanath, perché mentre il
termine dalit si riferisce anche agli intoccabili che si sono convertiti ad altre religioni
per sfuggire al marchio della casta (come i
paraiyar del mio villaggio d’origine, convertiti al cristianesimo), quello di casta riconosciuta no. La terminologia uiciale del pregiudizio è un labirinto che può far apparire
qualsiasi cosa si scriva come un documento
uscito dalla penna di un burocrate intransigente. Per questo cerco di usare il termine
Ogni sedici minuti un
dalit è vittima di un
reato commesso da un
non dalit
“intoccabile” parlando del passato, e dalit
quando scrivo del presente. Per i dalit che si
sono convertiti ad altre religioni speciicherò se si tratta di dalit sikh, dalit musulmani
e dalit cristiani.
Secondo il casellario giudiziale indiano,
ogni sedici minuti un dalit è vittima di un
reato commesso da un non dalit; ogni giorno più di quattro donne intoccabili vengono
stuprate da uomini “toccabili”; ogni setti-
Da sapere
Una società divisa
u In India ci sono più di tremila caste e un
numero ancora maggiore di sottocaste. Le caste
più importanti sono sei: i bramini, la casta più
alta, tradizionalmente composta da sacerdoti e
insegnanti, sono una piccola minoranza della
popolazione indiana ma occupano posizioni
chiave nella società, in parte un’eredità del
colonialismo britannico. I ksatriya,
storicamente la classe militare, oggi sono
soprattutto proprietari terrieri, meno
importanti rispetto al passato. I vaisya, una
volta soprattutto mandriani, agricoltori,
artigiani e mercanti, oggi formano la classe
media e costituiscono circa un quinto della
popolazione indiana. I sudra, la più bassa delle
quattro antiche classi sociali (dette varna), oggi
fanno parte delle caste riconosciute dal governo
come “storicamente svantaggiate”. Gli adivasi
appartengono alle tribù indigene dell’India. Più
del 95 per cento vive nelle zone rurali. I dalit,
letteralmente “oppressi”, “schiacciati”, sono la
più bassa di tutte le caste, considerati
intoccabili. Anche se la legge indiana proibisce
la discriminazione di casta, il sistema castale è
ancora molto forte. Secondo l’India human
development survey, nel 2014 i matrimoni tra
persone di caste diverse erano solo il 5 per cento
del totale. Prospect
mana tre dalit sono assassinati e sei vengono rapiti. Nel 2012 sono state stuprate 1.574
dalit (mediamente viene denunciato solo il
10 per cento degli stupri o di altri reati contro i dalit) e 651 dalit, uomini e donne, sono
stati uccisi. Questa è la situazione solo per
quanto riguarda gli stupri e gli omicidi, perché non si contano i casi di persone costrette a spogliarsi e a silare nude o a mangiare
merda (letteralmente), i casi di sequestro
dei terreni, di isolamento sociale o di restrizioni all’accesso all’acqua potabile. Le statistiche uiciali non includono, per esempio,
vittime come Bant Singh, un dalit sikh che
nel 2005 ha subìto l’amputazione delle
braccia e di una gamba per aver denunciato
gli uomini che avevano stuprato la iglia.
“Se la comunità si oppone al riconoscimento dei diritti fondamentali, non c’è legge,
parlamento o sistema giudiziario che possa
garantirli”, scriveva Ambekdar. “Cosa se ne
fanno dei diritti fondamentali i neri negli
Stati Uniti, gli ebrei in Germania e gli intoccabili in India? Come ha detto Burke, non è
ancora stato trovato il modo per punire una
moltitudine”. Chiedete a un qualunque poliziotto di un villaggio indiano qual è il suo
compito: probabilmente vi risponderà che
è “mantenere la pace”. Quasi sempre questo risultato si ottiene difendendo il sistema
delle caste. Le aspirazioni dei dalit sono
considerate una violazione della pace.
Altre vergogne della nostra epoca come
l’apartheid, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo economico e il fondamentalismo
religioso sono state messe in discussione in
tutto il mondo, a livello politico e intellettuale. Perché il sistema indiano delle caste
– uno dei modelli di organizzazione gerarchica più violenti della storia – non ha suscitato lo stesso sdegno? Forse perché ormai è
così legato all’induismo e, per estensione, a
tante altre cose ritenute nobili e sagge – il
misticismo, la spiritualità, la nonviolenza,
la tolleranza, il vegetarianismo, Gandhi, lo
yoga, i turisti zaino in spalla, i Beatles – che
sembra impossibile riuscire a isolarlo e a
inquadrarlo.
Una questione interna
L’appartenenza a una casta non è deinita –
come, per esempio, nell’apartheid – dal colore della pelle, e quindi è più diicile da
individuare. Inoltre, a diferenza dell’apartheid, il sistema delle caste viene difeso
strenuamente dai più potenti. Secondo loro
la casta è un collante sociale in grado di unire, oltre che di separare, popoli e comunità
in modi interessanti e per certi versi positivi. Sempre secondo loro, avrebbe dato alla
società indiana la forza e la lessibilità ne-
CONtrAStO
Tamil Nadu, 2008
cessarie a superare varie side. Il governo
indiano non può permettere che la discriminazione e la violenza di casta siano paragonate al razzismo e all’apartheid. Quando,
nel 2001, i dalit hanno cercato di sollevare il
problema delle caste in India alla conferenza mondiale contro il razzismo di Durban,
in Sudafrica, il governo indiano li ha attaccati duramente, sostenendo che si trattava
di “una questione interna” e promuovendo
le tesi di noti sociologi secondo i quali il sistema delle caste non era equiparabile al
razzismo e la casta non coincideva con l’appartenenza razziale.
Ambedkar sarebbe stato d’accordo con
i sociologi. Ma nel contesto della conferenza di Durban, i dalit ponevano la questione
in altri termini: anche se casta e razza sono
due cose diverse, il sistema delle caste e il
razzismo sono comparabili perché sono
forme di discriminazione basate sulla discendenza familiare. Per solidarietà con la
causa dei dalit, il 15 gennaio 2014, durante
la commemorazione dell’85° anniversario
della nascita di Martin Luther King, gli afroamericani hanno irmato una dichiarazione
di solidarietà per chiedere “la ine dell’oppressione dei dalit in India”. Nel dibattito su
identità e giustizia, crescita e sviluppo, molti dei più noti studiosi indiani trattano la
questione delle caste al massimo come uno
spunto di discussione, un sottotitolo o una
nota a piè di pagina. Inserendo la casta
all’interno di un’analisi di classe marxista,
l’intellighenzia indiana di sinistra ha reso il
problema ancora meno visibile. Questa
cancellazione, quest’invisibilità programmatica, a volte è il risultato di una volontà
politica, altre volte è il prodotto di una vita
trascorsa in ambienti chiusi e privilegiati,
dove le diferenze di casta non emergono
mai. Per questo molti hanno inito per convincersi che il sistema sia stato sradicato,
come il vaiolo.
Gli antropologi continueranno ancora
per molti anni a discutere di come sono nate le caste. Ma i princìpi organizzatori di
queste divisioni sociali – fondati su una scala gerarchica di diritti e doveri, purezza e
impurità – e il modo in cui sono stati e sono
ancora difesi e messi in atto non sono poi
così diicili da inquadrare: la cima della piramide delle caste è considerata pura e gode di molti diritti, la base è considerata impura e non ha diritti, solo doveri. I concetti
di purezza e impurità sono legati a un elaborato sistema ancestrale di organizzazione
ereditaria del lavoro fondato sulle caste.
Nei testi all’origine dell’induismo, il cosiddetto “sistema delle caste” è noto come var-
nashrama dharma, il sistema dei quattro
varna (colori, classi). Le circa quattromila
caste e sottocaste (jati) endogame della società induista, ognuna con la sua speciica
occupazione ereditaria, si dividono in quattro varna: i bramini (sacerdoti), i ksatriya
(soldati), i vaisya (commercianti) e i sudra
(servitori). Al di fuori di questi varna ci sono
le caste avarna: gli ati-shudra, subumani,
organizzati nelle loro gerarchie – intoccabili, inguardabili, inavvicinabili – la cui presenza, il cui tocco, la cui stessa ombra sono
considerati impuri e contaminanti dagli indù delle caste privilegiate.
In alcune comunità, per impedire l’endogamia (l’obbligo di sposare persone della
stessa casta), ogni casta endogama è divisa
in gotra (o clan) esogami. Sull’esogamia viene esercitato un controllo altrettanto forte
di quello che regola l’endogamia, con decapitazioni e linciaggi approvati degli anziani.
Ogni regione dell’India ha perfezionato
una sua versione della crudeltà nei rapporti
tra le caste fondata su un codice non scritto.
Oltre a dover vivere in zone segregate, gli
intoccabili non potevano usare le stesse
strade usate dalle caste privilegiate, non
potevano bere dai pozzi comuni, non potevano entrare nei templi indù né accedere
alle scuole delle caste privilegiate, non poInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015
43
In copertina
CoNtRASto
Melakondai, Tamil Nadu, 2008
tevano coprire la parte superiore del corpo
e potevano indossare solo certi tipi di abiti e
di gioielli. Alcune caste, come i mahar – la
casta a cui apparteneva Ambekdar – dovevano legarsi una scopa alla vita per cancellare le orme impure che lasciavano dietro di
sé. Altri dovevano appendersi una sputacchiera al collo per raccogliere la saliva impura. Gli uomini delle caste privilegiate
godevano di diritti sui corpi delle donne intoccabili. L’amore è impuro. Lo stupro è
puro. In molte parti dell’India funziona ancora così.
Il passato che resiste
Come se il varnashrama dharma non fosse
suiciente, c’è l’aggravante del karma. Nascere in una casta inferiore è considerato
una punizione per le cattive azioni commesse nelle vite precedenti. È come vivere
scontando una condanna all’ergastolo. Gli
atti d’insubordinazione possono condurre
a un inasprimento della pena, che signiicherebbe un altro ciclo di rinascita come
intoccabile o sudra. Quindi conviene comportarsi bene. “Non c’è un modello di organizzazione sociale più degradante del
sistema delle caste”, diceva Ambekdar. “È
un sistema che paralizza e indebolisce gli
individui ino ad annichilirli, impedendo-
44
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
gli di dedicarsi ad attività utili”.
L’indiano più famoso del mondo, Mohandas Karamchand Gandhi, non era d’accordo. Era convinto che le caste rilettessero il genio della società indiana. Nel 1921,
nella sua rivista Navajivan, in lingua gujarati, Gandhi scriveva: “Se la società indù è riuscita a sopravvivere è perché si fonda sul
sistema delle caste. Se distruggessimo il sistema delle caste per adottare il sistema
sociale occidentale, gli indù dovrebbero rinunciare al principio dell’occupazione ereditaria, che è alla base del sistema castale. Il
principio ereditario è un principio eterno.
Cambiarlo signiicherebbe creare disordine. Non so cosa farmene di un bramino, se
non ho la certezza che resterà un bramino
inché vive. Sarebbe il caos se ogni giorno
un bramino dovesse diventare un sudra e
un sudra diventare un bramino”.
Pur essendo un ammiratore del sistema
castale, Gandhi pensava che non dovesse
esserci una gerarchia tra le caste e che tutte
dovessero essere considerate uguali. Le caste avarna dovevano entrare nel sistema dei
varna. Invece Ambekdar obiettava: “Il fuori casta è un efetto del sistema castale: inché ci saranno le caste, ci saranno anche i
fuori casta. Solo l’abbattimento del sistema
potrà emancipare i fuori casta”.
Sono trascorsi quasi settant’anni dal
passaggio di poteri dal governo britannico a
quello indiano nell’agosto del 1947. Le caste
appartengono al passato? Molte cose sono
cambiate. L’India ha avuto un presidente
dalit, K.R. Narayanan, e un ministro della
giustizia dalit. L’ascesa di partiti politici dominati dai dalit e da altre caste subalterne è
uno sviluppo importante e per molti versi
rivoluzionario. Anche se ha assunto la forma di una minoranza ristretta ma visibile –
la leadership – che realizza i sogni della
grande maggioranza, l’affermazione
dell’orgoglio dalit nella politica non può che
essere una cosa positiva, vista la storia
dell’India. Le accuse di corruzione rivolte a
partiti come il Bahujan samaj party (Partito
della società maggioritaria, Bsp, nato nel
1984 per rappresentare le caste e le tribù riconosciute e le minoranze in generale) potrebbero essere estese, su scala ancora più
vasta, ai vecchi partiti. Ma le critiche al Bsp
assumono un tono più acceso e ofensivo
perché la sua leader è una donna: Mayawati
Kumari è dalit e single, ma non si vergogna
di nessuna delle due cose. Qualsiasi errore
possa avere commesso, il Bsp ha avuto il
merito di restituire dignità ai dalit. Anche
se le caste subordinate stanno diventando
una forza politica con cui bisogna fare i con-
ti in una democrazia parlamentare, il timore è che la democrazia venga comunque
minata in maniera grave e strutturale.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica,
l’India, un tempo alla testa del movimento
dei paesi non allineati, si è riposizionata come “alleato naturale” degli Stati Uniti e di
Israele. Negli anni novanta il governo indiano ha lanciato una serie di riforme economiche radicali, aprendo al capitale globale
un mercato un tempo protetto. Le risorse
naturali, i servizi essenziali e le infrastrutture realizzate con il denaro pubblico nel corso dei precedenti cinquant’anni sono stati
consegnati a multinazionali private.
Vent’anni dopo, nonostante una crescita
straordinaria del pil (che di recente ha subìto un rallentamento), le nuove politiche
economiche hanno portato alla concentrazione della ricchezza nelle mani di un gruppo di persone sempre più ristretto. Oggi i
capitali dei cento indiani più ricchi equivalgono a un quarto del pil. In un paese di 1,2
miliardi di abitanti, più di 800 milioni di
persone vivono con meno di venti rupie (30
centesimi di euro) al giorno. Praticamente
le multinazionali possiedono e amministrano il paese. Politici e partiti hanno cominciato a funzionare come iliali delle grandi
aziende.
Che efetto ha avuto tutto questo sulle
caste? C’è chi pensa che il sistema castale
abbia protetto la società indiana impedendole di frammentarsi come è successo alla
società occidentale dopo la rivoluzione industriale. Altri sostengono il contrario: i livelli senza precedenti di urbanizzazione e
la nascita di un nuovo mercato del lavoro
stravolgeranno il vecchio ordine e renderanno le gerarchie di casta irrilevanti, se
non addirittura obsolete. Entrambe le posizioni meritano un’attenta analisi.
Nella lista dei miliardari pubblicata nel
2013 dalla rivista Forbes ci sono 55 indiani. I
dati, naturalmente, si basano sul patrimonio dichiarato. Perino tra i miliardari la distribuzione della ricchezza è una piramide
alta e stretta: la ricchezza complessiva dei
primi dieci supera quella degli altri 45. Sette
di questi dieci sono vaisya che amministrano multinazionali con interessi economici
in tutto il mondo: porti, miniere, giacimenti di gas, compagnie marittime, aziende
farmaceutiche, reti telefoniche, stabilimenti petrolchimici, industrie di lavorazione
dell’alluminio, aziende di telefonia mobile,
catene di negozi alimentari, scuole, case
cinematograiche, sistemi di conservazione
di cellule staminali, reti per la fornitura
elettrica e zone economiche speciali. Tra gli
altri 45, ci sono 19 vaisya, poi vengono i par-
si, i bohra e i khatri (tutte caste di commercianti) e i bramini. Nella lista non igurano
dalit o adivasi (indigeni indiani).
Oltre alle multinazionali, ci sono i bania
(che fanno parte dei vaisya): controllano le
piccole imprese nelle città e gli usurai tradizionali delle zone rurali che hanno spinto
nel gorgo dei debiti milioni di contadini e di
adivasi. Dall’indipendenza in poi, negli stati indiani del nordest – Arunachal Pradesh,
Manipur, Mizoram, Tripura, Meghalaya,
Nagaland e Assam – ci sono state rivolte,
interventi militari e massacri. Nonostante
Gandhi era convinto
che le caste
rilettessero il genio
della società indiana
questo, i commercianti marwari e bania si
sono stabiliti in quelle zone, consolidando
le loro attività e senza attirare troppo l’attenzione. Oggi controllano quasi tutta l’attività economica della regione. Nella piccola e grande imprenditoria, nell’agricoltura e
nell’industria, casta e capitalismo si sono
fusi dando vita a una “lega” indiana decisamente unica e inquietante.
I vaisya stanno solo obbedendo a una
volontà divina. L’Arthashastra, un trattato
politico scritto intorno al 350 aC, aferma
che l’usura è un diritto dei vaisya. Il testo di
diritto Manusmriti, del 150 dC,
andava oltre, indicando una scala
progressiva di tassi di interesse: il
2 per cento al mese per i bramini,
il 3 per cento per i ksatriya, il 4 per
cento per i vaisya e il 5 per cento
per i sudra. Su base annuale un bramino doveva pagare il 24 per cento d’interessi, contro il 60 per cento richiesto a dalit e sudra.
Ancora oggi c’è chi concede prestiti a contadini disperati o a braccianti senza terra a un
tasso d’interesse di almeno il 60 per cento.
Se non possono restituire la somma in contanti, quei contadini restano intrappolati
nella cosiddetta “servitù del debito”, che
per generazioni li costringe a lavorare per
gli usurai. Inutile dire che, sempre secondo
il Manusmriti, nessuno può essere costretto
a servire chi appartiene a una casta “inferiore”.
Se i vaisya controllano l’economia indiana, cosa fanno i bramini? Secondo il censimento del 1931, l’ultimo a distinguere la
casta dei bramini, all’epoca costituivano il
6,4 per cento della popolazione (i vasiya il
2,7 per cento). Ma è probabile che nel frattempo – com’è successo ai vaisya – la per-
centuale sia diminuita. Secondo una ricerca
del Centro per lo studio delle società in via
di sviluppo (Csds), il numero dei bramini in
parlamento, un tempo esageratamente alto, si è ridotto drasticamente. Signiica che
sono diventati meno inluenti?
Al tempo di Ambekdar i bramini – che
nel 1948 erano il 3 per cento della popolazione – occupavano il 37 per cento dei posti
da dirigente e funzionario della pubblica
amministrazione e il 43 per cento dei posti
da impiegato. Ormai non esiste più un modo aidabile di osservare questa tendenza,
perché a partire dal 1931 è cominciato il processo di “invisibilizzazione”. In un articolo
del 1990, intitolato “Potere bramino”, lo
scrittore Khushwant Singh sosteneva: “I
bramini formano non più del 3,5 per cento
della popolazione indiana. Oggi occupano
almeno il 70 per cento dei posti di lavoro
statali. Immagino che il dato si riferisca solo
alle qualiiche di livello superiore. Nei ranghi più alti della pubblica amministrazione,
a partire dal livello di vicesegretario in su,
su 500 impiegati 310 sono bramini (il 63 per
cento). Inoltre sono bramini 19 segretari
generali su 26; 13 governatori e vicegovernatori su 27; nove giudici della corte suprema su 16; 166 giudici delle alte corti su 330;
58 ambasciatori su 140; 2.376 funzionari
amministrativi su 3.300. Se la cavano altrettanto bene negli incarichi elettivi: dei 508
deputati del Lok sabha (la camera bassa del
parlamento) 190 sono bramini; dei 244 del
Rajya sabha (camera alta) 89 sono bramini. Queste statistiche
dimostrano chiaramente che il 3,5
per cento della comunità bramina indiana occupa i posti di lavoro
migliori del paese. Come sia successo, non lo so. Ma stento a credere che
dipenda esclusivamente dalla superiorità
del loro quoziente intellettivo”.
La casta dell’informazione
Le statistiche citate da Singh hanno più di
vent’anni. Sarebbero utili i dati di un nuovo
censimento. Secondo un altro studio del
Csds, nel 47 per cento dei casi i presidenti
della corte suprema tra il 1950 e il 2000 erano bramini. Nello stesso periodo il 40 per
cento dei giudici associati delle corti erano
bramini. In un rapporto del 2007 la commissione sulle classi arretrate ha dichiarato
che il 37,7 per cento dell’apparato burocratico indiano era costituito da bramini.
Tradizionalmente i bramini hanno sempre dominato anche il settore dei mezzi
d’informazione. Nel 2006 il Csds ha svolto
una ricerca sui professionisti dell’informazione a New Delhi. Su 315 direttori e giornaInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015
45
In copertina
listi di 37 pubblicazioni e reti televisive in
hindi e in inglese, quasi il 90 per cento dei
giornalisti della carta stampata in inglese e
il 79 per cento di quelli televisivi appartenevano alle caste superiori. Tra loro, il 49 per
cento erano bramini. Neanche uno era dalit
o adivasi; solo il 4 per cento apparteneva a
caste designate come sudra e il 3 per cento
era musulmano.
Tre dei quattro maggiori quotidiani indiani in lingua inglese appartengono a imprenditori vaisya, e uno è di proprietà di una
famiglia di bramini. Il Times Group – il più
grande gruppo editoriale indiano, che comprende The Times of India e il canale tv Times Now – è di proprietà della famiglia Jain
(bania). L’Hindustan Times è dei Bhartiya
(bania marwari), The Indian Express è dei
Goenka (bania marwari), The Hindu è di
un’azienda familiare bramina, Dainik Jagran – un quotidiano in hindi che, con una
difusione di circa 55 milioni di copie, è il più
venduto in India – è di proprietà della famiglia Gupta (bania di Kanpur). Il Dainik Bhaskar – tra i più inluenti quotidiani in hindi,
con una difusione di 17,6 milioni di copie –
è degli Agarwal (bania). La Reliance industries di Mukesh Ambani (bania gujarati) è
azionista di maggioranza di 27 emittenti
televisive nazionali e regionali. La Zee Tv,
uno dei maggiori gruppi d’informazione e
intrattenimento indiani, è di proprietà di
Subhash Chandra, anche lui bania.
Discriminazione positiva
Dopo l’indipendenza, nel tentativo di riparare a un torto storico, il governo indiano ha
avviato una politica di quote (discriminazione positiva) nelle università e nella pubblica amministrazione per favorire chi appartiene alle caste e alle tribù riconosciute.
Per le caste riconosciute la politica delle
quote è l’unica opportunità di inserirsi nella
società. Il provvedimento non si applica ai
dalit che si sono convertiti ad altre religioni
e che continuano quindi a essere discriminati. Per poter usufruire delle quote, un dalit deve avere un diploma superiore. Secondo i dati forniti dal governo, il 71,3 per cento
degli studenti appartenenti alle caste riconosciute non va all’università, e questo signiica che anche ai livelli più bassi della
pubblica amministrazione la politica delle
quote si applica solo a un dalit su quattro. Il
requisito minimo per un posto da impiegato
è una laurea triennale. Secondo il censimento del 2011, solo il 2,24 per cento della
popolazione dalit è laureato.
Nonostante la minuscola percentuale di
popolazione dalit a cui è applicabile, la politica delle quote ha comunque dato ai dalit la
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Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
possibilità di ottenere un impiego nella
pubblica amministrazione o di diventare
medici, insegnanti, giornalisti, giudici e poliziotti. I numeri sono esigui, ma il fatto che
esista una rappresentanza dalit nelle alte
sfere del potere altera i vecchi equilibri sociali. Crea situazioni che qualche secolo fa
sarebbero state impensabili: un impiegato
bramino, per esempio, potrebbe avere un
capuicio dalit. Ma perino questa piccola
opportunità che i dalit hanno faticosamente conquistato s’infrange contro il muro di
In realtà il “merito”
è diventato un
eufemismo per
indicare il nepotismo
ostilità eretto dalle classi privilegiate.
La commissione nazionale per le caste e
le tribù riconosciute, per esempio, riferisce
che nelle aziende del governo federale solo
l’8,4 per cento dei funzionari di alto livello
appartiene alle caste riconosciute, mentre
la percentuale dovrebbe essere il 15 per cento. La commissione fornisce statistiche allarmanti sulla presenza dei dalit e degli
adivasi in magistratura: tra i venti giudici
dell’alta corte di New Delhi, nessuno appartiene alle caste registrate e in tutti gli altri incarichi
giudiziari la rappresentanza di
dalit e adivasi è stimata intorno
all’1,2 per cento. In Rajasthan le
cifre sono simili; il Gujarat non ha nessun
giudice dalit o adivasi; nel Tamil Nadu, che
ha una lunga storia di movimenti per la giustizia sociale, solo quattro dei 38 giudici
dell’alta corte sono dalit; il Kerala, con la
sua eredità marxista, ha un solo giudice dalit sui 25 dell’alta corte. Uno studio della popolazione carceraria mostrerebbe probabilmente un rapporto inverso.
L’ex presidente dalit K.R. Narayanan fu
deriso dai magistrati indiani quando propose di garantire alle caste e alle tribù riconosciute – che secondo il censimento del
2011 costituiscono il 25 per cento degli 1,2
miliardi di indiani – un’adeguata rappresentanza tra i giudici della corte suprema.
“Anche tra loro ci sono persone qualiicate.
Non è giustiicabile che non siano rappresentati”, dichiarò nel 1999. “Il sistema delle quote è una minaccia per l’indipendenza
della corte e per lo stato di diritto”, fu la risposta di un avvocato della corte suprema.
Un altro giurista disse: “Le quote sono un
tema molto discusso. Ma credo che prima
venga il merito”.
Il merito è l’arma preferita dell’élite indiana che per millenni ha dominato il sistema in virtù di una presunta autorizzazione
divina, negando alle caste subordinate il
diritto all’istruzione e alla conoscenza. Oggi che l’élite viene messa in discussione, le
caste privilegiate protestano ardentemente
contro la politica delle quote. Si parte dal
presupposto che il merito esista in una sorta
di vuoto storico e sociale, e che i vantaggi
che le caste privilegiate traggono dalla loro
rete di relazioni sociali e dalla radicata ostilità della classe dirigente nei confronti delle
caste subordinate non siano fattori determinanti. In realtà il merito è diventato un
eufemismo per indicare il nepotismo.
Alla Jawaharlal Nehru university di New
Delhi, considerata una roccaforte dei sociologi e degli storici progressisti, solo il 3,29
per cento dei docenti è dalit e l’1,44 per cento adivasi, mentre le quote riservate sono
rispettivamente il 15 e il 7,5 per cento. Eppure il sistema delle quote è uicialmente in
vigore da 27 anni. Nel 2010 è stato sollevato
il problema e alcuni professori emeriti
dell’università hanno risposto che applicare
la politica delle quote riservate, come previsto dalla costituzione, impedirebbe all’università di “rimanere un centro d’eccellenza”. Il rischio, secondo loro, è che “gli studenti più ricchi s’iscriveranno alle
università straniere o a quelle private, e quelli svantaggiati non
avranno più accesso all’istruzione di livello internazionale che
l’ateneo è stato orgoglioso di offrire inora”. B.N. Mallick, docente di biologia, è stato più esplicito: “La malnutrizione
ha un impatto genetico su alcune caste, e
non ci si può fare molto. Potrebbero compromettere l’eccellenza e il valore dell’istituzione”.
In fondo alla piramide
Questa è la situazione nella parte più avanzata della “nuova India”. Il rapporto della
commissione Sachar, nominata nel 2005
per indagare sulle condizioni di vita dei musulmani indiani, spiega che dalit e adivasi
restano ancora in fondo alla piramide economica dove sono sempre stati, al di sotto
della comunità musulmana. Dalit e adivasi
formano la maggioranza degli undici milioni di indiani costretti ad abbandonare le loro case per lasciare il posto a miniere, dighe
e altre grandi infrastrutture. Molti sono
braccianti agricoli pagati una miseria e operai edili. Il 70 per cento dei dalit non possiede terreni. In stati come Punjab, Bihar, Haryana e Kerala questa percentuale arriva al
novanta per cento. C’è un settore del pub-
CONtRAStO
In una scuola a Nallalam, Tamil Nadu, 2008
blico impiego, però, in cui i dalit sono sovrarappresentati: sono quasi il 90 per cento
degli operatori ecologici, quelli che spazzano le strade, si calano nei tombini per la manutenzione delle fognature, puliscono i
bagni e svolgono lavori non qualiicati. Anche questo settore sarà presto privatizzato e
le aziende potranno subappaltare il lavoro
dei dalit con contratti a termine e salari ancora più bassi, senza rispettare nessuna
norma di sicurezza sul lavoro.
Mentre i posti di guardiano nei centri
commerciali e negli uici dotati di gabinetti moderni che non richiedono la pulizia
manuale delle latrine vanno ai non dalit, ci
sono ancora 1,3 milioni di indiani, per lo più
donne, che continuano a guadagnarsi da
vivere trasportando secchi di merda. Anche
se è vietato dalla legge le ferrovie indiane
continuano a impiegare un numero altissimo di addetti alla pulizia manuale dei bagni. I 14.300 treni del paese trasportano
ogni giorno 25 milioni di passeggeri lungo
una rete di 65mila chilometri. La merda dei
passeggeri inisce direttamente sui binari,
attraverso 172mila gabinetti. Questa merda
– diverse tonnellate ogni giorno – è pulita a
mano, senza guanti o dispositivi di protezione, esclusivamente dai dalit. La legge
che vieta l’impiego di addetti alla pulizia
manuale delle latrine e ne prevede la riabilitazione è stata approvata nel settembre
del 2013, ma le ferrovie indiane l’hanno
ignorata. Con l’aumento della povertà e la
costante diminuzione dei posti di lavoro
nella pubblica amministrazione, molti dalit
saranno costretti a tenersi ben stretta la loro
mansione ereditaria di “pulitori di merda”.
Pochi dalit sono riusciti a superare questi ostacoli e ognuno di loro ha una storia
personale straordinaria. Alcuni imprenditori dalit hanno costituito la Dalit indian
chamber of commerce and industry, un’istituzione molto apprezzata. È sponsorizzata
dalle grandi aziende e pubblicizzata in tv e
sui giornali perché contribuisce a dare l’impressione che, per chi lavora sodo, il capitalismo sia intrinsecamente ugualitario.
Un sistema esportabile
In passato, per un indù ortodosso attraversare l’oceano signiicava perdere la casta e
diventare impuro. Oggi il sistema delle caste è pronto per essere esportato. Ovunque
vadano, gli indù se lo portano dietro. Esiste
tra i tamil perseguitati nello Sri Lanka ed
esiste tra gli immigrati indiani che aspirano
a farsi strada in Europa e negli Stati Uniti.
Da una decina d’anni, nel Regno Unito, alcuni gruppi guidati da dalit fanno pressioni
ainché la legge britannica punisca anche
la discriminazione di casta. Per il momento
le lobby degli indù delle caste superiori sono riuscite a evitarlo. La democrazia non ha
sradicato la casta, l’ha inglobata e modernizzata.
Il sistema castale regna incontrastato: i
bramini controllano l’istruzione e il sapere,
i vaisya il mondo degli afari. Gli ksatriya
hanno visto tempi migliori, ma sono ancora
in buona parte proprietari terrieri. I sudra
tengono lontani gli intrusi. Gli adivasi lottano per sopravvivere. E i dalit abbiamo visto
cosa fanno. È possibile eliminare le caste?
No, se non abbiamo il coraggio di riordinare
le stelle del cielo. No, se quelli che si deiniscono rivoluzionari non elaborano una critica radicale del brahmanesimo. No, se
quelli che capiscono il brahmanesimo non
ainano la loro critica del capitalismo. Fino
a quel momento resteremo gli uomini e le
donne malati dell’Hindustan, che non sembrano interessati a guarire. u dic
L’AUTRICE
Arundhati Roy è una scrittrice indiana.
Nel 1997 ha vinto il Booker Prize con il suo
romanzo d’esordio, Il dio delle piccole cose
(Guanda). Il suo libro più recente è In
marcia con i ribelli (Guanda 2012).
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
47
Argentina
Le bugie
di Buenos Aires
Sebastian Rotella, ProPublica, Stati Uniti
Alberto Nisman indagava sull’attentato del 1994 contro un centro ebraico.
È stato trovato morto il 18 gennaio. Non si sa ancora se si è suicidato o se è stato
ucciso. In ogni caso, gli argentini non crederanno alla versione uiciale
el 2013 ho parlato con
Alberto Nisman, il magistrato argentino morto
in circostanze misteriose il 18 gennaio 2015.
Non l’avevo mai conosciuto, ma sapevo che stava indagando
sull’attentato terroristico del 1994 all’Asociación mutual israelita argentina di Buenos Aires (Amia) in cui morirono 85 persone. Come corrispondente dall’estero mi ero
occupato a lungo del più grave attentato antisemita nella storia dell’America Latina.
Avevo intervistato superstiti, inquirenti,
diplomatici, spie e personaggi equivoci provenienti dal Sudamerica, dagli Stati Uniti e
dal Medio Oriente. L’indagine era stata inquinata dalla corruzione e dai depistaggi.
Anni dopo, Nisman avrebbe incriminato
per l’attentato alcuni esponenti delle istituzioni iraniane e i miliziani dell’organizzazione sciita libanese Hezbollah, assicurandosi un mandato di cattura internazionale
dell’Interpol.
La sua morte improvvisa ha sconvolto
l’Argentina. Purtroppo non è la prima volta.
La storia del paese e di gran parte dell’America Latina è un elenco di nefandezze: omicidi, massacri, scandali, congiure, incidenti di comodo e falsi suicidi. Il caso Nisman è
un labirinto di bugie e intrighi dove tutto
sembra possibile (a parte accertare i fatti) e
quasi nulla è come appare. Per descrivere la
realtà sfuggente di un paese sudamericano,
una volta un alto funzionario delle forze
dell’ordine statunitensi mi ha detto: “Le luci si stanno spegnendo nella casa degli
48
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
NATACHA PISAReNKO (AP/ANSA)
N
Alberto Nisman, 2013
specchi”. Non si riferiva all’Argentina, ma
l’immagine è perfetta.
Nell’estate del 2013 ho intervistato Nisman al telefono e per email. Avrei dovuto
incontrarlo a Washington, perché una commissione del congresso lo aveva invitato a
testimoniare sulla rete di spionaggio iraniana in America Latina e sul presunto ruolo di
Teheran nel tentativo di organizzare un attentato all’aeroporto John F. Kennedy di
New York. All’ultimo momento, però, il governo di Buenos Aires ha bloccato la partenza del magistrato. Alcuni mesi prima la
presidente Cristina Fernández de Kirchner
aveva istituito, d’accordo con i leader iraniani, una commissione incaricata di stabilire la verità sul caso: la decisione rientrava
nell’ambito di uno spostamento geopolitico
del paese verso l’Iran e il Venezuela. Nisman e molte altre persone temevano che il
governo volesse insabbiare l’inchiesta. In
un’email del 10 luglio 2013, il magistrato mi
ha scritto: “Ho seguito l’audizione al congresso su internet e mi è dispiaciuto non
esserci”. Ma il peggio doveva ancora arrivare. A dicembre del 2014 il governo ha sollevato dall’incarico Antonio Stiuso, il capo
dell’intelligence che collaborava con Nisman all’inchiesta. La risposta del magistrato è stata clamorosa: ha accusato la presidente Fernández, il ministro degli esteri
Héctor Timerman e altri politici di aver tramato per assolvere gli iraniani incriminati
in cambio di accordi commerciali con Teheran. Secondo Nisman, il diplomatico iraniano Mohsen Rabbani, tra i principali sospettati dell’attentato del 1994, aveva partecipato segretamente ai negoziati. Alcune
spie argentine “hanno trattato con Rabbani. Quindi non solo con lo stato che protegge i terroristi, ma anche con i terroristi stessi”, ha dichiarato Nisman in un’intervista
trasmessa in tv il 14 gennaio. Il governo di
Buenos Aires ha respinto le accuse.
Il 18 gennaio il magistrato è stato trovato
morto dagli uomini della scorta nel bagno
del suo appartamento, con un proiettile calibro 22 nella testa. La sera prima si era fatto
prestare la pistola da un collaboratore perché aveva subìto minacce. Il 19 gennaio
avrebbe dovuto presentarsi davanti al parlamento argentino per argomentare le sue
accuse, contenute in un dossier di 290 pagine. Il suicidio resta un’ipotesi possibile: secondo le autorità, non ci sono segni di col-
ALEjANDrO PAGNI (AfP/GETTy IMAGES)
Buenos Aires, 19 gennaio 2015. Una manifestazione il giorno dopo la morte di Nisman
luttazione o d’intrusione nell’appartamento. Il magistrato, noto per essere un lavoratore instancabile, era sotto pressione. Ma
secondo la famiglia, i colleghi e i leader
dell’opposizione, Nisman è stato ucciso. In
casa non sono stati trovati biglietti d’addio
e negli ultimi giorni il magistrato si stava
preparando per l’audizione in parlamento
con collaboratori, politici e giornalisti.
Zona liberata
Perché Nisman avrebbe dovuto uccidersi in
un momento così importante? Se si è suicidato, qualcuno lo ricattava o lo minacciava?
Oppure aveva ricevuto una rivelazione clamorosa che avrebbe compromesso l’indagine? Se invece è stato ucciso, è stato vittima di una faida interna all’intelligence tra
lealisti della presidenza e spie vicine ai servizi segreti occidentali? Quale delle due
fazioni ricaverebbe un vantaggio dalla sua
morte? La violenza e gli intrighi di stato non
sono una novità in Argentina. Come in altri
paesi dell’America Latina, anche qui domi-
na la criminalità organizzata. E spesso i criminali hanno agganci con le forze dell’ordine e radici nella dittatura militare, inita nel
1983. Le macchinazioni sono così difuse da
giustiicare qualsiasi paranoia. C’è una pratica nota come “operetta”: la polizia si mette d’accordo con i malviventi per organizzare rapine e spartirsi il bottino, poi li uccide e
sbandiera la “vittoria contro la criminalità”.
Nel 1998, durante un’ondata di rapine nei
locali notturni di Buenos Aires, i malviventi
spararono a un poliziotto che faceva la guardia a un ristorante. Poi si scoprì che i killer
stavano scontando una pena in carcere. La
polizia li faceva uscire il tempo necessario
per fare le rapine, creandogli così un alibi
perfetto: uicialmente erano dietro le sbarre. I metodi e la terminologia della “guerra
sporca” sono ancora vivi. Durante la dittatura i poliziotti in divisa facilitavano il lavoro degli squadroni della morte ritirandosi
dalla zona dell’obiettivo e creando un cordone intorno alla “zona liberata”. Gli argentini usano ancora quest’espressione quando
la polizia è sospettata di complicità in attività criminali. Nel caso della morte di Nisman, le crepe nella sicurezza (la scorta ha
aspettato dieci ore prima di entrare nell’appartamento anche se il magistrato non rispondeva al telefono) hanno indotto qualcuno a parlare di “zona liberata”.
L’espressione si adatta anche alle circostanze dell’attentato all’Amia. Il presidente
Carlos Menem, eletto nel 1989 e iglio d’immigrati siriani, era in buoni rapporti con
vari governi mediorientali, tra cui la Siria e
l’Iran, e aveva lanciato un programma di
cooperazione nucleare con Teheran. Presto
però il suo governo fu travolto dagli scandali. Gruppi criminali con collegamenti in Medio Oriente si erano iniltrati nei ministeri,
nella magistratura, nelle forze dell’ordine,
nelle agenzie doganali e nelle aziende di
trasporti per riciclare denaro e contrabbandare armi, droga, merci e persone. Monzer
al Kassar, un traicante d’armi siriano condannato a trent’anni di carcere per terrorismo negli Stati Uniti, ricevette in modo illeInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015
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Argentina
ENRIqUE MARCARIAN (REUTERS/CoNTRASTo)
Buenos Aires, 18 luglio 1994. Il centro ebraico dopo l’attentato
gale e a tempo di record un passaporto argentino. Secondo la testimonianza rilasciata dello stesso Al Kassar a un magistrato
spagnolo, per la foto usò una camicia e una
cravatta prestate da Menem. Negli anni novanta alcuni parenti e collaboratori del
presidente furono coinvolti in casi di corruzione insieme ad Al Kassar e a un magnate
argentino di origini siriane che si chiamava
Alfredo Yabrán.
Bersaglio facile
Dopo la morte di Nisman si è ricominciato
a parlare di un “suicidio” avvenuto il 13 dicembre 1990. La polizia trovò il brigadiere
generale Rodolfo Echegoyen, un funzionario della polizia doganale che stava indagando su Yabrán, con una pallottola in testa
e un biglietto d’addio. Ma anni dopo gli
esperti della polizia scientiica stabilirono
che il colpo, partito da una pistola calibro
38, era stato sparato da un’altra persona. Nel
1998 Yabrán si uccise (qualcuno non ci crede) mentre la polizia stava per arrestarlo
con l’accusa di essere il mandante di un delitto che aveva sconvolto l’Argentina: l’omicidio del fotografo José Luis Cabezas per
mano di un gruppo di poliziotti corrotti che
scaricarono la colpa su alcuni criminali. In
seguito a questi scandali, Menem si riavvicinò a Washington, considerando l’alleanza
50
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
con gli Stati Uniti fondamentale per il futuro del suo paese. In poco tempo a Buenos
Aires ci furono due attentati: nel 1992 una
bomba all’ambasciata israeliana uccise 29
persone e nel 1994 l’attacco all’Amia provocò 85 vittime.
Come corrispondente del Los Angeles
Times ho cominciato a scrivere dell’Amia
nel 1996. È stato doloroso rivivere la strage
con i superstiti e i leader della comunità
ebraica, vedere le scuole e le sinagoghe circondate da transenne e poliziotti, sentire a
ogni anniversario discorsi accorati e commossi sulla necessità di fare giustizia. L’inchiesta è stata rallentata dall’inesperienza
e dalla corruzione. È stato anche messo in
dubbio che l’attentatore si sia fatto esplodere con un’autobomba. La polizia federale ha
accusato la polizia provinciale di aver fornito il furgone usato come autobomba. La
polizia provinciale si è inventata un testimone falso – un uomo condannato per omicidio – per depistare gli inquirenti. Si è parlato di un coinvolgimento dell’Iran, di Hezbollah, della Siria e di ex militari neofascisti
che si trovavano sul luogo dell’attentato a
bordo di un’ambulanza. Le autorità hanno
denunciato alcuni diplomatici iraniani insieme agli agenti, ma nel 2004 un tribunale
ha assolto gli agenti e un loro presunto complice. Gli stessi inquirenti sono stati denunciati per corruzione di testimone e intralcio
Da sapere Ultime notizie
14 gennaio 2015 Il magistrato Alberto Nisman accusa la
presidente Cristina Fernández di aver cercato di coprire
le responsabilità dell’Iran
nell’attentato del 1994 contro
la sede dell’Asociación mutual israelita argentina, in cui
morirono 85 persone.
19 gennaio Nisman viene
trovato morto nel suo appartamento, ucciso da un colpo
di pistola alla testa. Doveva
esporre al congresso il suo
rapporto sulle responsabilità
della presidente.
26 gennaio Fernández annuncia un progetto di legge
per smantellare i servizi segreti.
1 febbraio Il quotidiano
Clarín rivela che Nisman stava per chiedere al parlamento
l’autorizzazione ad arrestare
la presidente.
10 febbraio Gli antropologi
forensi che si occupano del
caso Nisman afermano di
aver trovato il dna di una persona non identiicata nell’appartamento del procuratore.
13 febbraio Il magistrato Gerardo Pollicita chiede a un
giudice federale d’indagare
sulla presidente Fernández
per il suo presunto coinvolgimento nel depistaggio sul
ruolo dell’Iran nell’attentato
all’Amia.
MAxI FAILLA (AFP/GeTTy IMAGeS)
Buenos Aires, 21 gennaio 2015. Una manifestazione in memoria di Nisman di fronte al centro ebraico
alla giustizia. A quel punto il presidente Néstor Kirchner, defunto marito dell’attuale
presidente, ha deciso che era il momento
d’intervenire: ha nominato Nisman a capo
di una speciale divisione inquirente, mettendogli a disposizione un budget generoso
e uno staf di ottanta persone. Nisman ha
lavorato a stretto contatto con Antonio Stiuso, ex capo della Secretaría de inteligencia
argentina (Side) che aveva molti contatti
con i servizi segreti stranieri. Nisman e Stiuso hanno incontrato gli agenti antiterrorismo statunitensi, israeliani ed europei.
Nel 2006 Nisman ha accusato alcuni
alti funzionari iraniani e miliziani di Hezbollah di aver organizzato l’attentato
all’Amia, che sarebbe stato eseguito da militanti del gruppo sciita libanese e da spie
iraniane, tra cui Rabbani, ex addetto culturale a Buenos Aires. L’Interpol ha emesso
un mandato di cattura internazionale per
cinque sospetti iraniani, tra cui il ministro
della difesa di Teheran dal 2009 al 2013, e
per Imad Mughniyeh, comandante dell’ala
militare di Hezbollah ucciso nel 2008.
L’inchiesta è andata avanti nonostante
alcuni passi falsi, ma gli indizi raccolti e il
lavoro d’intelligence (oltre al parere di quasi tutti i funzionari dell’antiterrorismo statunitensi, sudamericani, israeliani ed europei con cui ho parlato) conducono a Hez-
bollah e all’Iran, sia per l’attentato all’ambasciata sia per quello all’Amia. Secondo i
funzionari dell’antiterrorismo, le due azioni
vanno viste nel quadro di una guerra ombra
con Israele.
L’Argentina era un bersaglio facile a causa della scarsa vigilanza delle forze dell’ordine e per la forte rete terroristica presente
nella regione. Anche il cambio di politica
estera di Menem ebbe un ruolo. Tuttavia
ancora oggi alcuni commentatori argentini
sono convinti che l’attentato sia stato commesso da terroristi legati alla Siria e agli intrighi di Menem. L’Iran nega ogni coinvolgimento. Nel 1998 intervistai Abdolrahim
Sadatifar, il più alto diplomatico dell’ambasciata iraniana in Argentina, dove si crede
che sia stato organizzato l’attentato
all’Amia. Accusò la Cia e il Mossad di aver
incastrato il suo governo: “Non abbiamo
nulla a che fare con questa storia perché le
persone civili e di cultura non hanno bisogno di ricorrere a metodi brutali”, disse.
Con l’avvicinamento tra Cristina Fernández e l’ex presidente venezuelano Hugo
Chávez, la politica estera dell’Argentina è
diventata sempre più antioccidentale. Il governo si è scontrato con Washington e, secondo le autorità statunitensi, ha smesso di
collaborare con la Cia, la Drug enforcement
administration (Dea) e le altre agenzie fe-
derali statunitensi. I leader argentini hanno
stretto i rapporti con l’Iran, che ha raforzato la sua presenza in America Latina. Nel
2013 Buenos Aires e Teheran hanno irmato
un protocollo d’intesa proponendo l’istituzione di una “commissione verità” composta da esperti di paesi terzi per portare avanti l’inchiesta sull’Amia con la partecipazione di Teheran. L’opposizione e la comunità
ebraica non hanno visto di buon occhio il
fatto che l’Iran, accusato di sostenere gruppi terroristici, contribuisse a indagare su un
caso in cui erano coinvolti i suoi funzionari.
Alla ine la proposta è rimasta lettera morta.
Nisman ha interpretato il drastico cambio
di politica estera come un tradimento. Si è
attirato così l’ostilità dei sostenitori del governo e ha ricevuto minacce anonime. “Da
iglio prediletto Nisman è diventato un diavolo”, mi dice al telefono Daniel Santoro,
un noto giornalista investigativo del quotidiano Clarín. “Il governo ha fatto una svolta
ideologica molto brusca, un voltafaccia inluenzato dal Venezuela”, aggiunge.
Nel frattempo è scoppiato uno scontro
tra le forze di sicurezza. Nel 2013, in un episodio poco chiaro, una squadra speciale
della polizia ha fatto irruzione in casa di Pedro Tomás Viale, un capo dell’intelligence,
e lo ha ucciso durante una sparatoria. Un
magistrato ha accusato dieci agenti di aver
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Argentina
simulato un raid antidroga per uccidere il
funzionario dei servizi segreti, vicino a Stiuso. E a dicembre del 2014 molti commentatori hanno interpretato l’allontanamento di
Stiuso dalla Side come una purga ai danni di
una fazione dell’intelligence allineata con
la Cia e altre agenzie occidentali.
Temendo che avrebbero preso di mira
anche lui, Nisman è tornato dalle vacanze
nel pieno dell’estate argentina e ha formulato una serie di accuse contro il governo,
deinendo l’accordo pubblico con l’Iran una
cortina di fumo dietro cui si nascondeva un
complotto. Nell’intervista del 14 gennaio
ha dichiarato che, dalle intercettazioni telefoniche, emergeva un piano per far ricadere
la colpa dell’attentato all’Amia sui “fascisti
locali”. Secondo il magistrato, alcuni sospettati avevano passato agli iraniani informazioni sull’inchiesta e dettagli personali
su di lui e la sua famiglia. Durante le telefonate i sospettati l’avevano insultato con
espressioni antisemite. Nella denuncia non
ci sono intercettazioni telefoniche della
capo di gabinetto Jorge Capitanich ha stracciato una copia del Clarín in diretta tv deinendolo “spazzatura”. Ma poco dopo l’uicio del procuratore generale ha confermato
la ricostruzione di Santoro.
Un numero da circo
La storia ha insegnato agli argentini a guardare con sospetto ogni dettaglio. L’inchiesta sulla morte del magistrato va a rilento e
il lavoro della polizia scientiica è ancora
incompleto. Sulle mani di Nisman non sono
state trovate tracce di polvere di sparo, ma
secondo le autorità può dipendere dal fatto
che la pistola era di piccolo calibro. La polizia ha aperto un’indagine interna sui dieci
uomini della scorta, che non avrebbero applicato le misure di sicurezza necessarie.
Secondo le autorità, nelle ultime ore prima
di morire Nisman ha telefonato a Stiuso varie volte. Gli inquirenti hanno chiamato l’ex
capo dell’intelligence a testimoniare in tribunale e c’è grande aspettativa per la sua
deposizione. Forse Nisman è stato ucciso
Secondo il giornalista Daniel Santoro,
Nisman era isolato e in diicoltà:
“Intorno a lui si era scatenata una
campagna denigratoria”
presidente. E il ministro degli esteri Timerman, accusato da Nisman di essere una igura centrale nel presunto complotto, è
ebreo.
Secondo il giornalista Santoro, Nisman
era isolato e in diicoltà: “Intorno a lui si era
scatenata una campagna denigratoria”.
Uno scenario coerente sia con l’ipotesi del
suicidio sia con quella dell’omicidio. La reazione di Fernández alla notizia della sua
morte ha gettato benzina sul fuoco. All’inizio la presidente ha scritto sulla sua pagina
Facebook che Nisman si era suicidato. Poi,
pochi giorni dopo, ha avanzato l’ipotesi
dell’omicidio e ha accusato Stiuso di aver
manipolato il magistrato con “falsi indizi”
per danneggiare il governo. Ha fatto cadere
dei sospetti su Diego Lagomarsino, il collaboratore che ha prestato a Nisman la pistola, accusato solo di detenzione abusiva di
armi. “È il più grande scandalo del governo
di Fernández e il peggiore dai tempi di Isabel Perón”, sostiene Santoro. “Il governo ha
commesso degli errori gravissimi”.
Il 1 febbraio Santoro ha pubblicato uno
scoop: dai documenti trovati nell’appartamento di Nisman è emerso che il magistrato voleva chiedere l’arresto della presidente
e di altri politici. Il governo nega tutto e il
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Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
da gruppi ilogovernativi che hanno risposto con metodi maiosi alla sua sida, oppure da gruppi antigovernativi che volevano
destabilizzare la presidente. Ma la spiegazione più plausibile potrebbe essere la più
semplice: il magistrato aveva mosso delle
accuse afrettate a persone potenti e, in un
momento di rimorso e disperazione, si è
tolto la vita.
Quest’incertezza mi ricorda un episodio
del 1999, quando incontrai un testimone
dell’attentato all’Amia. Wilson Dos Santos
era un brasiliano di 38 anni, loquace e con
gli occhi verdi. Aveva into di essere un ingegnere italiano per sposare una donna ricca, ingannando lei e la sua famiglia. Si diceva che fosse un informatore della polizia e
contrabbandasse permessi di soggiorno e
merci nella zona di frontiera tra l’Argentina,
il Brasile e il Paraguay, base di malavitosi ed
estremisti legati a Hezbollah e ad altri gruppi. Nel luglio del 1994 Dos Santos si era presentato ai consolati di Argentina, Brasile e
Israele a Milano avvertendo le autorità di
un imminente attacco terroristico a Buenos
Aires. Sosteneva di aver lavorato nella zona
della triplice frontiera per un gruppo di terroristi iraniani che, due anni prima, aveva
organizzato l’attentato all’ambasciata isra-
eliana e stavano pianiicando un nuovo attacco. L’obiettivo era un palazzo in ristrutturazione. Come capita spesso con i testimoni spontanei, nessuno lo prese troppo
sul serio. Almeno ino alla settimana successiva, quando una bomba fece saltare in
aria il centro dell’Amia, che guarda caso era
in ristrutturazione. Dos Santos testimoniò a
lungo a Buenos Aires, poi cambiò versione,
negò tutto, fu denunciato per falsa testimonianza e scappò in Brasile.
La sua testimonianza restava comunque
uno dei pochi dati certi in un mare di ambiguità. Secondo gli inquirenti, alcuni servizi
segreti stranieri, forse brasiliani, erano venuti a conoscenza del piano e avevano usato
Dos Santos per mandare indirettamente un
avvertimento. Rintracciai Dos Santos e parlammo in un ristorante di un centro commerciale a São Paulo. Due uomini ci osservavano da lontano e uno mi seguì ino alla
macchina. Poi venni a sapere che le autorità
brasiliane stavano tenendo d’occhio l’ex
testimone pentito. Quel giorno Dos Santos
confermò la sua ultima versione: non era
una spia e non conosceva nessun terrorista.
Il fatto che si fosse presentato ai consolati
poco prima dell’attentato era stata una casualità, “come fare bingo. Sono uno stupido”, disse, “altrimenti non mi sarei inventato questa storia”.
Mentre parlava pensavo a Luis Czyzewski, padre di una delle vittime dell’Amia.
Paula Czyzewski, una ragazza di 21 anni,
era nell’atrio quando l’esplosione la uccise
sul colpo. La madre si salvò perché era andata dall’altra parte dell’ediicio per mandare un fax. Nel 1998 Czyzewski andò in
Brasile per la testimonianza di Dos Santos
di fronte ai magistrati argentini. Durante
l’audizione scoppiò in lacrime: “Ho avuto la
sensazione di essere davanti a qualcuno che
forse aveva partecipato alla morte di mia
iglia”, mi disse. “Più che un interrogatorio
sembrava un numero da circo: Dos Santos
era sommerso dalle sue stesse bugie”.
Il caso Nisman evoca lo stesso miscuglio
di tristezza, disgusto e frustrazione. Gli argentini si sono sentiti raccontare bugie per
anni e qualsiasi sarà la conclusione dell’inchiesta, è probabile che molti non ci crederanno. Il magistrato è l’ennesima vittima di
un intrigo che non porta alla giustizia, ma
solo ad altri intrighi. u fas
L’AUTORE
Sebastian Rotella è un giornalista
statunitense. Si occupa di terrorismo,
crimini di guerra e immigrazione. Il suo
ultimo libro è il romanzo The convert’s song
(Mulholland Books 2014).
Siria
InStItUte
Antakya, Turchia, 8 settembre 2014. Raed Fares, il fondatore di Radio Fresh
Radio Siria libera
Eliza Griswold, The New York Times Magazine, Stati Uniti
Foto di Luca Locatelli
Gli Stati Uniti inanziano undici emittenti gestite da attivisti dell’opposizione
siriana. Come quella diretta da Raed Fares, odiato dal regime e dai jihadisti
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spesso lavora ino alle quattro di notte, è
uscito presto dall’uicio. Mentre cerca di
chiudere la macchina, sente qualcuno cor­
rere verso di lui.
Eccoli, pensa.
Si fermano proprio davanti alla sua auto.
Fares si rende conto di aver lasciato a casa
la pistola. Riesce a distinguere due milizia­
ni del gruppo Stato islamico. Uno apre il
fuoco e crivella di proiettili la macchina, il
muro dell’uicio e lo stesso Fares. L’attivi­
sta sente i proiettili che gli si coniccano
nella parte destra del petto e nella spalla.
Quando cade a terra, gli torna in mente un
incubo che faceva spesso da bambino: tre
cani neri che gli davano la caccia.
“Non c’è altro dio al di fuori di Allah e
Maometto è il suo profeta”, dice più forte
che può. Spera che la professione di fede
gli apra le porte del paradiso. Fares è river­
so in una pozza di sangue in mezzo alla
strada. Dopo qualche minuto arriva suo
fratello maggiore, che ha sentito gli spari, e
lo inila in macchina per portarlo di corsa
in ospedale.
“Chi gli ha sparato?”, chiede un amico
che è insieme a loro. Fares cerca di descri­
vere quello che ha visto.
“Non parlare!”, gli ordina il fratello.
“Sto morendo”, risponde lui. Poi perde
conoscenza.
Messaggi al resto del mondo
a luce dell’abitacolo della
Mazda 626 blu non funzio­
na. Raed Fares, 42 anni, un
attivista siriano che orga­
nizza proteste sia contro il
gruppo Stato islamico sia
contro il presidente Bashar al Assad, ar­
meggia un po’ con la lampadina prima di
uscire dall’auto. La strada è buia. A Kafran­
bel, la città del nordovest della Siria dove
vive Fares, il governo di Assad ha tagliato
gran parte delle forniture di energia elettri­
ca, oltre all’acqua corrente e ai servizi di te­
lefonia mobile. L’unica luce è una striscia di
led sulla porta del vicino. È mezzanotte e
tre quarti del 29 gennaio 2014. Fares, che
L
Otto mesi dopo Fares è seduto sul sedile po­
steriore di una Kia che attraversa la Turchia
meridionale. I killer hanno sparato 46 pro­
iettili: 27 hanno colpito il muro alle sue spal­
le, 17 l’auto. Solo due l’hanno raggiunto,
rompendogli sette ossa della spalla e del
costato, e perforandogli il polmone destro.
Dal letto d’ospedale Fares ha continuato a
organizzare proteste, pubblicando messag­
gi, foto e video su Facebook e su YouTube.
In alcune foto si vedono gli striscioni scritti
in stampatello che l’hanno reso famoso:
“Obama! Il tuo ruolo in Siria non sarà mai
visto come un errore, com’è successo a
Clinton con il Ruanda, ma come un crimine
premeditato”.
“Faccio ancora fatica a respirare”, am­
mette Fares, “ma il dottore mi ha detto che
i polmoni non dovrebbero essere un proble­
ma perché ho il naso grande”. I due statuni­
tensi seduti sui sedili anteriori dell’auto si
mettono a ridere. Jim Hake, 57 anni, è fon­
datore e direttore di Spirit of America,
un’organizzazione non governativa nata
per sostenere gli sforzi militari e diplomati­
ci degli Stati Uniti nel mondo. L’autista,
Isaac Eagan, 33 anni, è un ex militare che
lavora per Hake. Pochi giorni fa Fares ha at­
traversato il confine con la Turchia per
prendere in consegna le cinquecento radio
alimentate a energia solare e a manovella
che Spirit of America, in collaborazione con
il dipartimento di stato di Washington, ha
regalato a Radio Fresh, l’emittente di Fares.
Eagan è riuscito a procurarsele dopo un pa­
io di mesi di contrattazioni con un produt­
tore cinese. Ora devono trovare un furgone
per trasportarle. Un prototipo è appoggiato
sul sedile posteriore della Kia, decorato con
gli adesivi di Radio Fresh.
Fares vorrebbe distribuire le radio nelle
botteghe dei barbieri, nelle sale da tè e in
altri posti dove la gente si riunisce per ascol­
tare le poche notizie che circolano. Dal
2012, l’anno in cui i ribelli moderati
dell’Esercito siriano libero (Esl) hanno libe­
rato Kafranbel dalle truppe di Assad, la cit­
tadina è rimasta isolata e subisce continui
attacchi delle forze governative. Nelle sue
trasmissioni Fares parla soprattutto della
sopravvivenza quotidiana: spiega agli
ascoltatori quali strade fare per evitare i
cecchini, li avverte quando arriva un raid
aereo e gli dà suggerimenti su come tenere
al caldo i bambini in una casa con le inestre
rotte. Fares ha anche un’altra missione: rac­
contare al mondo gli orrori della guerra in
Siria, che deinisce il “Ruanda di Obama”.
Quasi ogni venerdì ilma i suoi compagni
attivisti che reggono striscioni con messag­
gi provocatori rivolti al resto del mondo e
poi posta i video su YouTube. Con penna­
relli, lenzuola e frasi che di solito non supe­
rano i 140 caratteri, Fares ha trovato il modo
di twittare anche se non ha followers.
Dove inisce l’oliveto, a una sessantina
di metri, comincia la Siria. In fondo a un
campo punteggiato da ciui di cotone, vici­
no a un ilo da bucato con dei peperoncini
rossi messi a seccare al sole, si vede un bull­
dozer giallo che scava una trincea profonda
tre metri sul lato di una collina. La trincea
serve per mettere in sicurezza il conine tra
Turchia e Siria, lungo più di 800 chilometri
e pieno di passaggi. La zona è molto trai­
cata a causa della guerra civile siriana, dove
sono conluiti combattenti di ogni tipo: i
moderati dell’Esl, i miliziani del gruppo
Stato islamico e altri jihadisti.
“Cosa ne pensi dei combattenti che arri­
vano dall’estero?”, chiede Hake a Fares.
“Li odio”, risponde. “Perché combatto­
no contro di noi”.
“Cosa li attira in Siria?”, chiede Hake
mentre studia il percorso sulla mappa
dell’iPhone.
“Hanno visto troppe volte Rambo”, re­
plica Fares. “Le loro motivazioni non hanno
nulla a che vedere con l’islam”.
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Siria
Hake chiede a Fares se considera un male peggiore Assad o il gruppo Stato islamico.
È una domanda diicile per l’attivista: sa
che entrambi lo vorrebbero morto. Secondo
Fares la minaccia immediata viene dai jihadisti, ma il vero nemico del popolo siriano è
Assad. “Quando riusciremo a far cadere il
regime sarà più facile liberarsi del gruppo
Stato islamico, di Al Qaeda e del Fronte al
nusra”, dichiara. I jihadisti giustiicano la
loro presenza in Siria dicendo ai siriani che
sono qui per rovesciare Assad. Quando il
regime sarà caduto, prosegue Fares, la gente comincerà a vedere i combattenti stranieri per quello che sono: dei parassiti.
La Kia supera una ila di cipressi che si
snoda lungo il letto di un torrente secco. Vicino si vedono le tende blu dei profughi.
Alcune pecore pascolano sui pendii coperti
di arbusti. Hake si chiede come facciano i
jihadisti ad attraversare il conine. Fares si
sporge dal sedile posteriore: “Come fanno i
messicani negli Stati Uniti: trovano una via
illegale”.
aziende private che gestiscono i satelliti, ma
funziona solo in poche zone. Hake suggerisce di creare una rete di comunicazione geograica (wan) come quella sviluppata dal
Massachusetts institute of technology che
ha già visto in funzione a Jalalabad, in Afghanistan. Secondo lui questo sistema potrebbe funzionare anche nella Siria rurale.
Hake, un imprenditore della Silicon valley, ha usato il denaro guadagnato agli albori di internet per lanciare Spirit of America
nel 2003. Invece di presentarsi come un’organizzazione neutrale, la sua ong prende
posizione in modo esplicito. Hake è convinto che gli statunitensi abbiano il dovere di
sostenere la politica del loro paese ed è stato conquistato dai messaggi di Fares. “Perché non usare gli aiuti di privati cittadini per
sostenere le persone buone come lui?”, si è
chiesto.
Ora vuole sapere da Fares cosa gli serve.
“Una sirena”, risponde l’attivista. La città
subisce spesso bombardamenti aerei e Fares ha realizzato un sistema d’allerta usan-
Radio Fresh intercetta le
comunicazioni dei piloti militari
che parlano con la torre di controllo
del governo siriano
Eagan appoggia gli avambracci sul volante. Sono pieni di tatuaggi: frasi in arabo e
una croce celtica. Osserva attentamente la
strada in cerca del camioncino con le radio
che è stato parcheggiato a Bab al Hawa, un
valico di frontiera controllato dall’Esercito
siriano libero. Gran parte del conine, invece, è sorvegliato dal Fronte al nusra, il ramo
siriano di Al Qaeda. “Al nusra controlla tutta questa zona”, spiega Fares indicando il
pendio che segna l’inizio della Siria. “Attenti ai cecchini”, dice con un sorriso sarcastico. A cinque chilometri e mezzo dal valico
uiciale, una carovana di camion coperti di
polvere fa la ila per entrare in Siria. Alcuni
autisti si sono accampati per strada perché
l’attesa può durare giorni. Lungo il bordo
dell’autostrada quelli che somigliano a formicai bianchi sono in realtà mucchi di mozziconi di sigarette. “Abbiamo bisogno di
tantissime cose, per questo la ila di camion
è sempre più lunga”, spiega Fares. Molti camion trasportano cemento. “Bisogna ricostruire quello che viene distrutto”.
I cellulari non funzionano a Kafranbel e
Hake chiede a Fares se Assad ha interrotto
anche l’accesso alla banda larga. No, risponde Fares, la sua città non ha mai avuto
la banda larga. Il servizio è fornito dalle
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do due ricevitori. Da una collina un dipendente di Radio Fresh intercetta le comunicazioni dei piloti militari che parlano con la
torre di controllo del governo siriano. Poi
trasmette l’informazione al dj che, quando
serve, interrompe le trasmissioni: “Notizia
dell’ultim’ora. Sta arrivando un aereo”. Dopo gli attacchi, quando il pilota annuncia
che sta rientrando, il dj dà alla popolazione
il “via libera”.
“Cambiano sempre frequenza, però riusciamo a trovarli lo stesso”, spiega Fares.
Vorrebbe una sirena per poter avvertire anche chi non ascolta la radio. Quella che ha
lui è debole. “Il mio clacson fa più rumore”,
scherza. In seguito Eagan gli ha procurato
cinque sirene della seconda guerra mondiale. Alimentate a manovella, non hanno
bisogno di elettricità.
Lotta quotidiana
Il problema principale di Kafranbel sono le
scuole. Si stima che in Siria il 50 per cento
dei bambini non sia iscritto a scuola. Gli
istituti sono spesso presi di mira dai bombardamenti e i genitori non vogliono mandarci i igli. Negli ediici scolastici vuoti si
sono accampati profughi o gruppi armati
come il Fronte al nusra. Durante la guerra la
popolazione di Kafranbel è cresciuta, passando da 15mila a 30mila abitanti, perché
sono arrivati molti siriani scappati dai combattimenti. “Abbiamo fatto la rivoluzione
per i nostri igli”, osserva Fares. “Ma ora i
piccoli stanno tutto il giorno per strada.
Qualsiasi gruppo armato può arrivare e trasformarli in terroristi”.
C’è silenzio mentre la Kia avanza lentamente. “Dovete essere davvero stanchi
dopo una guerra così lunga”, commenta
Hake.
Fares non risponde. Lui, sua moglie e i
tre igli adolescenti sono sopravvissuti lottando ognuno a modo suo. Mentre Fares
organizza proteste su Facebook e collabora
con gli altri abitanti per ricostruire la città,
sua moglie Montaha cerca di dar da mangiare alla famiglia. I prodotti alimentari costano cinque volte di più rispetto a prima
della rivoluzione. “Mia moglie lotta con
me”, dice Fares. “E fa una vita più dura. Mi
dispiace per lei, ma non posso fare niente
per migliorare la nostra situazione”. I due
igli più grandi di Fares lavorano per i mezzi
d’informazione dell’Esl e documentano le
battaglie che il gruppo conduce contro i
jihadisti e contro il regime. “Ho cercato di
mandarli negli Stati Uniti ma non hanno il
passaporto”, racconta. L’unica alternativa
sarebbe unirsi ai 3,5 milioni di siriani che
hanno lasciato il paese per chiedere asilo
politico all’estero.
Eagan intravede un distributore di benzina. “Ecco il camion”, dice. I tre uomini
escono dalla Kia sul piazzale coperto di
ghiaia. Hake aggiunge un punto sulla mappa del mondo del suo iPhone: è a meno di
un chilometro dal conine tra la Turchia e la
Siria.
Eagan ha dei documenti da far irmare a
Fares. In uno c’è scritto, in inglese e in arabo: “Non ho fornito e non fornirò sostegno
o risorse a individui o organizzazioni che
appoggiano, inanziano, favoriscono o hanno commesso atti di terrorismo”. Le radio
costano 25 dollari l’una, ma non è per fare
afari che il dipartimento di stato americano ha voluto coinvolgere Spirit of America.
L’ong è in grado di realizzare progetti più
rapidamente e su scala più ridotta rispetto a
quanto potrebbe fare il governo statunitense. “Se questo progetto funziona, sapremo
che distribuire radio tra le comunità siriane
può davvero aiutarci a estendere il raggio
d’azione dei mezzi d’informazione indipendenti”, spiega Rick Barton, il diplomatico che ha ideato il programma quando lavorava all’uicio per i conlitti e la stabilizzazione del dipartimento di stato. Hake, che
usa spesso metafore tratte dal mondo degli
INSTITUTE
Antakya, Turchia, 8 settembre 2014. Camion in attesa di entrare in Siria
affari, parla di “esternalizzazione dei rischi”. Per lui “Fares è un imprenditore che
rischia di essere ucciso dai concorrenti”.
Quando aveva sette anni Fares assistette dalla inestra di casa all’uccisione di un
uomo da parte delle forze di sicurezza del
regime. Hafez al Assad, il padre dell’attuale
presidente, aveva ordinato di massacrare
migliaia di persone per reprimere una rivolta dei Fratelli musulmani. Kafranbel, una
delle città ribelli, era inita nella lista nera
del regime e i giovani del posto avevano dificoltà a farsi strada nella vita. Molti coetanei di Fares cominciarono a drogarsi. Tra
loro c’era anche suo fratello maggiore.
Quando aveva dodici anni lo trovò fatto di
Diazepam, un sedativo, con il dito sul grilletto di un kalashnikov. Lo vide appoggiarsi
la canna del fucile alla guancia e suicidarsi.
A diciassette anni anche Fares cominciò
ad assumere il Diazepam, poi a snifare e
iniettarsi l’eroina (in seguito è riuscito a
smettere di sua volontà). Per far contento il
padre si iscrisse alla facoltà di medicina,
anche se in realtà preferiva scrivere poesie
e suonare l’oud. Presto abbandonò gli studi
per trasferirsi in Libano, dove trovò lavoro
in un’azienda di frigoriferi e condizionatori.
Nel 2009 Fares è tornato in Siria per fare
l’agente immobiliare, ma è stato scoperto
a falsificare un documento di proprietà:
voleva aiutare un uomo a riprendersi la terra che il governo gli aveva sequestrato. Ha
trascorso due mesi in carcere ed è rimasto
sconvolto dalle torture inlitte ai prigionieri politici.
Dopo essere uscito di prigione, ha cercato di non attirare l’attenzione, sognando
il giorno in cui i siriani non avrebbero più
dovuto fare i conti con la corruzione del
governo. Poi nel 2011 sono arrivate le rivolte arabe. Insieme a un gruppo di amici Fares ha organizzato una protesta contro il
presidente Bashar al Assad. Un venerdì
dell’aprile del 2011 uno dei suoi compagni
ha scandito nella moschea lo slogan: “Dio,
Siria, libertà!”. A Fares sono venuti i brividi. I 150 agenti di sicurezza presenti sul
posto si sono limitati a guardare e ad annotare nomi. Il mullah ha urlato: “Prendeteli!
Arrestateli!”. E un uomo in mezzo alla folla
ha risposto gridando: “Prendete il mullah
per la barba!”.
Su YouTube e i social network
Dopo quell’episodio, in pochi mesi a Kafranbel i manifestanti sono passati da poche
decine a seimila. Ogni settimana Fares riprendeva le proteste con il cellulare e inviava i ilmati a un amico in Arabia Saudita che
li spediva alle tv arabe. Il governo di Assad
sosteneva che quelle folle non si trovavano
in Siria, così Fares ha cominciato a scrivere
sugli striscioni il nome di Kafranbel. I video
sono diventati virali e il regime si è vendicato. Il 4 luglio 2011 le forze di Assad hanno
invaso la città, saccheggiando i negozi e
bruciando le case. Nel successivo anno di
occupazione Fares e i suoi amici hanno continuato a far sentire la loro voce usando
YouTube e i social network. Non potendo
riunirsi per più di trenta secondi, facevano
delle specie di lash mob. Una volta Fares ha
fatto indossare ai suoi amici dei sudari e li
ha fatti uscire dalle tombe: il messaggio era
che perino i morti volevano la caduta di Assad. Un’altra volta con i capelli forniti da un
salone di bellezza della città ha fatto parrucche e barbe e ha mascherato i manifestanti da cavernicoli che venivano uccisi dal
regime con il gas sotto gli sguardi impassibili della comunità internazionale (i grugniti risolvevano il problema della traduzione).
Il video, pubblicato nel 2013 con il titolo
“Kafranbel: la rivoluzione siriana in tre minuti”, è stato visto più di centomila volte su
YouTube.
“Abbiamo puntato sulla comicità”, spiega Fares. “Volevamo essere speciali. C’erano migliaia di arabi che manifestavano, noi
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Siria
eravamo solo una cinquantina, ma volevamo anche noi inire su Al Jazeera”. Fares
scriveva i suoi striscioni in inglese “per costringere il mondo a prestare attenzione”.
Con l’aiuto delle sue “spie” siriano-americane negli Stati Uniti, ha scritto messaggi
sperando di essere ascoltato da Washington. Il 16 dicembre 2011 ha criticato per la
prima volta il presidente statunitense Barack Obama: “Le indecisioni di Obama ci
uccidono. Ci manca l’audacia di Bush. Il
mondo è un posto migliore con i repubblicani d’America”.
Nell’autunno del 2012, dopo la liberazione di Kafranbel, Fares è riuscito a frequentare un laboratorio in Turchia sui mezzi d’informazione, dove ha incontrato i
funzionari del governo degli Stati Uniti incaricati di individuare gli attivisti a cui destinare gli aiuti statunitensi. Da allora
l’emittente di Fares è diventata una delle
nove radio inanziate da Washington (che
inanzia anche due tv e inora ha versato
aiuti per 25 milioni di dollari). In apparenza
questi inanziamenti ricordano le strategie
zi, quando l’Esercito siriano libero ha aiutato gli abitanti di Kafranbel a riconquistare
la città nel corso di una battaglia di quattro
giorni cominciata il 6 agosto 2012. Quando
è stato chiaro che le forze fedeli ad Assad
stavano scappando, Fares è corso alla moschea e ha urlato dagli altoparlanti: “Popolo
di Kafranbel, sei libero!”.
Da allora, tra un attacco aereo e l’altro i
cittadini hanno cercato di ricostruire una
società civile. Fares è uno dei leader. Il suo
ruolo è più diicile di quanto immaginasse.
“Abbiamo riunito sette diversi consigli locali ma non siamo mai riusciti a decidere
niente”, dice. Perciò Fares ha fondato
un’organizzazione, l’Unione degli uici rivoluzionari, che dà lavoro a 365 persone ed
è inanziata da alcune ong. Oltre a Radio
Fresh e a un centro per le comunicazioni,
l’Unione gestisce un centro per le donne,
tre centri di assistenza diurna e dei seminari sui diritti umani per gli avvocati, e ha quasi completato un progetto per fornire di
nuovo acqua alla cittadina e ad altri tre villaggi.
Fares ha realizzato lo striscione
“Aliens”, dove la Siria è raigurata
come un alieno dal cui petto
esplode il mostro Stato islamico
della guerra fredda: usare mezzi d’informazione fantoccio per difondere messaggi
ilostatunitensi in un regime ostile. La programmazione, però, è completamente siriana. “Non è la tradizionale guerra psicologica in cui gli Stati Uniti controllano le
radio”, aferma Barton. “Il punto è piuttosto trovare persone del posto che abbiano
talento”.
Un ruolo insolito
Gli undici attivisti inanziati dagli Stati Uniti, compreso Fares, non sono giornalisti in
senso stretto. Hanno un ruolo insolito nel
conflitto: attraverso i social network, in
modo informale, sorvegliano un lusso di
più di due miliardi di dollari di aiuti diretti
in un paese a cui Washington non ha accesso. Riferiscono quali progetti funzionano e
quali no. La Siria può essere pericolosa per
i giornalisti – dal 1992, secondo il Committee to protect journalists, ne sono stati uccisi ottanta – ma può esserlo ancora di più per
gli attivisti. Per ridurre i rischi gli Stati Uniti
li addestrano a lavorare in ambienti ostili.
Fares aveva da poco cominciato a ricevere dagli Stati Uniti le attrezzature per registrare, montare e trasmettere i suoi servi-
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Queste attività hanno reso Fares un bersaglio del gruppo Stato islamico. Il 28 dicembre 2013 i jihadisti hanno cercato di
conquistare Kafranbel: i miliziani hanno
distrutto tutto quello che hanno trovato nel
centro per le comunicazioni, compresi i trasmettitori e l’oud di Fares (lui in quel momento si trovava negli Stati Uniti). “La cosa
divertente è che quegli idioti hanno distrutto prima di tutto il generatore”, racconta
Fares ridendo all’idea dei jihadisti che cercano di rubare e distruggere tutto nell’oscurità più completa. Ma i messaggi che ha ricevuto non erano divertenti: l’hanno minacciato di decapitarlo appena fosse rientrato dagli Stati Uniti.
Fares ha deciso che era arrivato il momento di manifestare contro i jihadisti.
Con i suoi collaboratori ha realizzato uno
striscione rimasto famoso intitolato
“Aliens”, dove la Siria è raigurata come un
alieno dal cui petto esplode un mostro chiamato Stato islamico. Lo stesso giorno l’Esl
ha cacciato i jihadisti dalla città.
“Non ho ancora cominciato a usare la
radio come vorrei”, dice Fares a Hake.
Conquistare gli ascoltatori di Radio Fresh
con concorsi a premi e quiz è stato solo il
primo passo. Poiché non ci sono telefoni a
Kafranbel, Fares ha ideato un sistema per
comunicare con il pubblico: ha appeso una
ventina di scatole di metallo ad alcuni pali
sparsi nelle campagne dove gli ascoltatori
possono mettere le risposte ai quiz, le richieste di canzoni e i consigli. A volte qualcuno ci inila biglietti con minacce di morte. Fares vuole lanciare un nuovo programma per ricordare alla gente che la rivoluzione è cominciata in modo paciico, come
una lotta per la libertà. Ma per dare un senso alla parola libertà è sempre più urgente
definire il tipo di governo che potrebbe
prendere il posto di quello di Assad.
Uno dei migliori amici di Fares, il tenente colonnello Fares al Bayyoush, che
comanda quasi mille uomini dell’Esl, è uno
dei leader locali che stanno contribuendo
a ricostruire Kafranbel. Al Bayyoush vive a
Reyhanlı, in Turchia. Fares vuole fargli incontrare Hake ed Eagan. Porta i due statunitensi nel centro della cittadina, ino a un
ediicio giallo in una strada tranquilla. In
fondo al corridoio di un appartamento usato come uicio politico, superata una camera da letto in cui alcuni ragazzi in divisa
guardano la tv, due comandanti siedono su
un divano. Fares li conosce e si ida di entrambi, ma non può dire altrettanto di altri
uomini dell’Esl. L’organizzazione è frammentata, in parte perché le singole brigate
sono inanziate da donatori privati. Questo
spiega la diicoltà degli Stati Uniti nell’individuare i comandanti da sostenere. “Io
sono siriano, e non so di chi idarmi nell’Esl
a parte questi due”, dice Fares, che di recente ha denunciato ad Al Bayyoush un
comandante che vendeva armi al gruppo
Stato islamico.
Al Bayyoush si alza per stringere la mano a Hake. Ha una barzelletta da raccontare: “Un comandante dell’Esl e un comandante delle forze governative s’incontrano
in paradiso. Stupiti di vedersi, guardano in
basso per vedere chi è inito all’inferno. Lì
ci abbiamo messo tutti i siriani”. Al Bayyoush ride mentre Fares lo guarda impassibile. Accanto ad Al Bayyoush c’è il suo
capo, il colonnello Hasan Hamada, che ha
disertato dall’esercito regolare siriano nel
2012, volando in Giordania a bordo di un
aereo da combattimento. Nell’ultimo anno
e mezzo Hamada e Al Bayyoush hanno ricevuto quasi cento milioni di dollari di aiuti statunitensi, sotto forma di prodotti alimentari, forniture mediche e furgoni.
Hanno ricevuto anche aiuti segreti, comprese armi leggere, e hanno inviato alcuni
dei loro soldati in Giordania per farli partecipare a un programma di addestramento
to, oggi non esisterebbe lo Stato islamico”,
aferma Hamada, pur riconoscendo che la
colpa non è solo di Washington, ma anche
delle debolezze dell’Esercito siriano
libero.
INSTITUTE
Identità multiple
Antakya, 8 settembre 2014. Fares prova un giubbotto antiproiettile
segreto lanciato dagli Stati Uniti nel 2013.
Al Bayyoush è stato ferito e non è più in
grado di combattere, ma dal suo computer
in Turchia continua a comandare le truppe
tramite Skype e WhatsApp. Usa Facebook
per pubblicare i comunicati dell’Esercito
siriano libero. Anche se Al Bayyoush ha
collaborato con il Fronte al nusra contro
Assad, l’Esercito siriano libero e Al nusra
sono su posizioni opposte quando si tratta
della costruzione della società civile. Fares
interviene chiedendo ad Al Bayyoush di
parlarci delle discussioni sul fumo. Il Fronte al nusra aveva distribuito nelle tabaccherie di Kafranbel un documento in cui
sosteneva che fumare è contrario all’islam.
Al Bayyoush, che come Fares fuma con
grande gusto, ha pubblicato su Facebook
una dichiarazione contro il gruppo qaedista dove si dice che l’Esl è l’unica autorità
legittima a Kafranbel. Secondo Al Bayyoush il messaggio ha colto nel segno. Gli
chiedo come fa a saperlo: “Ho delle spie
dentro Al nusra, me l’hanno detto loro”,
risponde. Rido, pensando che sia una battuta. “No”, precisa. “Ho davvero delle
spie”.
“Tre anni fa gli Stati Uniti avrebbero
potuto salvare migliaia di vite umane”,
prosegue Al Bayyoush. Secondo lui la soluzione era semplice: missili antiaerei, bombardamenti contro Assad, una no-ly zone.
Il modello era la Libia, dove i bombardamenti aerei a sostegno dell’opposizione
avevano contribuito a rovesciare Muammar Gheddai. Ma il paese nordafricano è
sprofondato nella guerra civile. Fares sa
bene che la Libia non è stata un successo
ma se non altro, sostiene, gli Stati Uniti so-
no intervenuti per proteggere la popolazione. In Siria Assad è stato lasciato libero di
imprigionare e uccidere sistematicamente
quei moderati che ora gli Stati Uniti cercano invano. Un uiciale statunitense in pensione conferma che il ritardo nel sostegno
all’Esercito siriano libero ha portato alla
morte gran parte dei comandanti militari
moderati: “Se li avessimo aiutati prima, le
cose sarebbero andate diversamente”.
I bombardamenti della coalizione internazionale contro il gruppo Stato islamico in Siria, in corso dal settembre del 2014,
hanno deluso i comandanti dell’Esercito
siriano libero per due motivi. In primo luogo, il principale nemico dell’Esl non è il
gruppo Stato islamico, come per gli Stati
Uniti, ma Assad.
“Il regime ha lanciato attacchi con armi
chimiche e ha massacrato molta più gente
di quanto non abbiano fatto i jihadisti”, dice Al Bayyoush. In secondo luogo, i comandanti dell’Esl avevano cominciato ad
avvertire gli Stati Uniti dell’avanzata jihadista nel 2013. “Se ci avessero aiutato subi-
All’una di notte Fares crolla su una poltrona
beige nella sua stanza d’albergo in Turchia
e si collega alla sua pagina Facebook. Nel
giro di pochi secondi appare una lista di
chat con altri attivisti, di messaggi con battute idiote e di richieste d’interviste.
Molti attivisti siriani hanno diverse
identità online, per esempio una pagina ilo-Assad e una ilo-Stato islamico. Se ti fermano a un posto di blocco, spiega Fares,
puoi provare la tua lealtà mostrando l’identità giusta. L’indirizzo email di Fares è un
nome americano di fantasia. Ma non l’ha
scelto per ragioni di sicurezza: “L’ho fatto
per conoscere le ragazze”. Fares ha imparato l’inglese prima dell’inizio della rivoluzione, ingendo in rete di essere dell’Indiana.
Tra le foto del suo proilo Facebook si
distinguono tre scatti. Sono i volti di tre
studenti di medicina che facevano parte di
un gruppo di 21 giovani originari di Kafranbel che studiavano all’università di Aleppo
ino all’inizio del 2014. “Il regime li ha arrestati perché erano originari della nostra
città”, dice Fares. I tre ragazzi sono stati
torturati a morte. Il 23 aprile, racconta Fares i loro corpi mutilati sono stati rispediti
alle rispettive famiglie con un avvertimento: “Se pubblicate le foto di questi cadaveri
su Facebook, uccideremo anche gli
altri 18”.
Gli striscioni realizzati e fotografati da
Fares cercano spesso di creare legami tra
persone di tutto il mondo. Uno striscione
era indirizzato alla famiglia di Trayvon
Martin, il ragazzo afroamericano ucciso da
un vigilante di quartiere in Florida nel
2012: “Famiglia Martin! I siriani sanno meglio di chiunque altro cosa signiichi perdere una persona amata per mano di criminali che godono dell’immunità”. Un altro,
scritto in arabo e contrassegnato con tre X,
raigura una specie di spermatozoo. “Questo è sull’impotenza della coalizione”,
spiega Fares. “È per adulti…”. Un altro ancora, realizzato in occasione della morte di
Robin Williams, cita l’attore nelle vesti del
genio del cartone animato Aladdin: “Essere liberi. Ecco cosa sarebbe meglio di tutte
le magie e di tutti i tesori del mondo. Riposa in pace, Robin Williams”. “Avrei sempre
voluto vivere negli Stati Uniti”, dice Fares.
“Ma ora che ho un visto di due anni, voglio
solo restare in Siria”. u gim
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Scienza
Quanto
dura
il presente
Laura Spinney, New Scientist, Regno Unito
Neuroscienziati e psicologi stanno cercando
di misurare il periodo di tempo che chiamiamo
“adesso”. Se ci riuscissero la nostra comprensione
del mondo potrebbe cambiare completamente
osa vuol dire “adesso”?
Per tutti noi è un’idea familiare, ma secondo la
isica è una pura illusione. Tendiamo a vederlo
come il momento attuale, l’istante senza durata. Ma, se fosse
atemporale, non vivremmo una serie di
adesso nel corso del tempo. E non saremmo neanche in grado di percepire fenomeni come il movimento. Se il presente non
avesse una durata non potremmo agire nel
mondo. Ma allora quanto dura?
Sembra una domanda metaisica, ma i
neuroscienziati e gli psicologi hanno una
risposta. Negli ultimi anni hanno raccolto
una serie di prove a sostegno dell’ipotesi
che l’adesso duri in media tra i due e i tre
secondi. È l’attimo di cui siamo coscienti, la
inestra all’interno della quale il nostro cervello fonde quello che stiamo vivendo in un
“presente psicologico”. È un tempo sorprendentemente lungo. Ma questa non è
l’unica stranezza. L’adesso che percepiamo
è costituito da un miscuglio di piccolissimi
adesso subcoscienti e il nostro cervello sceglie con cura gli eventi da inserire in quei
frammenti di tempo. Le diverse parti del
C
60
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cervello misurano l’adesso in modo diferente. Inoltre in alcune situazioni la inestra
del presente si espande, mentre in altre si
contrae.
Se riuscissimo a deinire con precisione
il concetto di presente potremmo comprendere come il cervello costruisce l’esperienza del tempo in generale. E non solo. La
percezione del presente è fondamentale
anche per capire come conosciamo il mondo. Ci sono eventi che ci sembrano simultanei ma non lo sono, e questo comporta una
serie di conseguenze per la nostra comprensione dei rapporti di causa-efetto. “Il
senso dell’adesso è alla base di tutta la nostra esperienza cosciente”, aferma Marc
Wittmann dell’Istituto per le zone di frontiera della psicologia e della salute mentale
di Friburgo, in Germania. Comprendere il
momento presente ci aiuta anche ad afrontare la questione del libero arbitrio.
Sappiamo da tempo che il cervello contiene strutture capaci di usare i cicli di luce
e buio per regolare il suo orologio quotidiano. Ma è molto meno chiaro come faccia a
seguire il passare dei secondi e dei minuti.
A questo livello, esistono due tipi di meccanismi generali, uno implicito e uno esplici-
to. Quello esplicito permette di giudicare la
durata di un evento, cosa che riesce sorprendentemente bene. Il meccanismo implicito serve a calcolare l’adesso: è il modo
in cui il cervello deinisce un momento psicologico e di conseguenza struttura la nostra esperienza cosciente.
Il nostro senso del tempo implicito ha
due aspetti apparentemente incompatibili
tra loro: esistiamo nel presente ma al tempo
stesso vediamo il tempo come qualcosa che
scorre dal passato al futuro. Come si cuciono insieme i singoli momenti presenti per
formare questo iume di tempo? Wittmann
ha cercato di rispondere a questa domanda
ricorrendo all’enorme quantità di dati raccolti negli ultimi decenni dagli psicologi e
dai neuroscienziati. Lo studioso pensa che
esista una gerarchia di adesso, una piramide dove ogni livello è costituito da mattoncini che fanno da base per l’adesso successivo, ino ad assumere le caratteristiche di
un lusso.
Se l’ipotesi di Wittmann è corretta, per
capire il nostro senso dell’adesso dobbiamo
prima capire la sua componente subcosciente, il “momento funzionale” che opera
all’interno della dimensione temporale in
Sydney, Australia
TrEnT PArkE (MAGnUM/ConTrASTo)
cui una persona è in grado di distinguere un
evento dall’altro, e che varia a seconda dei
sensi. Il sistema uditivo, per esempio, può
distinguere due suoni a distanza di due millisecondi, mentre il sistema visivo ha bisogno di decine di millisecondi per identiicare due immagini diverse. Stabilire l’ordine
degli stimoli richiede ancora più tempo: tra
due eventi devono passare almeno cinquanta millisecondi per capire quale è avvenuto prima.
Per interpretare il mondo, il cervello deve in qualche modo conciliare queste diverse soglie di percezione. E il suo compito è
reso ancora più diicile dal fatto che la luce
e il suono viaggiano a velocità diverse e
quindi possono raggiungere il nostro apparato sensoriale in momenti diversi, anche
se sono stati emessi dallo stesso oggetto
nello stesso momento. Come fa il cervello a
legare questi stimoli separati in un unico
evento psicologico, in un momento funzionale?
È dimostrato che il cervello fa le sue previsioni anche al livello subcosciente dei
millisecondi. Ce ne accorgiamo quando vediamo un ilm in cui le immagini e l’audio
non sono sincronizzati. Il cervello si aspetta
che il lusso sonoro e quello visivo siano simultanei e, se lo sfasamento non supera i
duecento millisecondi, dopo un po’ smettiamo di accorgerci che i movimenti delle
labbra e le voci degli attori non coincidono.
Sfruttando questo effetto, Virginie van
Wassenhove e i suoi colleghi del Cognitive
neuroimaging unit di Gif-sur-Yvette, in
Francia, hanno cercato di capire come fa il
cervello a collegare in un unico momento
funzionale tutte le informazioni che gli arrivano. E quello che hanno scoperto è decisamente afascinante.
Il crogiolo della mente
I ricercatori hanno presentato ai volontari
una sequenza di bip e lampi di luce, che
scattavano entrambi a distanza di un secondo ma erano sfasati di duecento millisecondi. Poi attraverso le tecnologie che permettono di osservare il cervello in azione, hanno registrato l’attività elettrica provocata da
quegli stimoli. Hanno notato che nel cervello si producevano due onde, una nella corteccia uditiva e una nella corteccia visiva,
che oscillavano entrambe a una frequenza
di un hertz cioè una volta al secondo. All’inizio le due oscillazioni erano sfasate, e i vo-
lontari avevano la sensazione che la luce e il
suono non fossero sincronizzati. Ma quando cominciavano a dire che percepivano
simultaneamente i bip e i lampi di luce,
l’oscillazione della corteccia uditiva si allineava con quella visiva. “Questo cambiamento fa pensare a un intervento cosciente
dei partecipanti”, afferma Wassenhove,
“quindi dobbiamo ipotizzare che nel cervello esiste un meccanismo attivo che regola il tempo”. In altre parole: se ritiene che
due eventi debbano essere associati, il cervello modiica isicamente i segnali per sincronizzarli.
È la prima volta che il senso del tempo
implicito trova una conferma biologica.
Questo fa anche pensare che il cervello
scelga (a livello subconscio) quello che rientra in un momento. Ma questo momento
funzionale non è l’adesso di cui siamo coscienti, che è il livello successivo della gerarchia di Wittmann, il “momento vissuto”.
Cosa ne sappiamo?
Il momento vissuto sembra durare dai
due ai tre secondi. L’anno scorso lo hanno
dimostrato chiaramente David Melcher e i
suoi colleghi dell’Università di Trento. I ricercatori hanno presentato ai volontari una
serie di brevi video con segmenti che duravano da pochi millisecondi a diversi secondi e che erano stati a loro volta suddivisi in
segmenti più piccoli e poi rimescolati a caso. Se il rimescolamento era avvenuto
all’interno di un segmento che durava ino
a due secondi e mezzo, i soggetti riuscivano
ancora a seguire la storia come se non avessero notato gli spostamenti. Ma quando la
durata del segmento aumentava, si confondevano. In altre parole, sembra che il nostro
cervello sia in grado di fondere una serie di
stimoli rimescolati in un insieme comprensibile entro un periodo di due secondi e
mezzo. Secondo i ricercatori, questo potrebbe essere il “presente soggettivo” che ci
permette di percepire coscientemente sequenze complesse di eventi.
Melcher paragona questo effetto alla
nostra capacità di riconoscere una parola
scritta anche se sono state tolte o spostate
alcune lettere. Vediamo la parola come
un’unità coesa, quindi siamo in grado di riempire i vuoti. Ma se le parole che la precedono e la seguono non ci forniscono un
contesto, o se sono state omesse la prima o
l’ultima lettera, la comprensione diventa
più diicile. Melcher pensa che il presente
soggettivo, questa inestra di due o tre secondi, sia una sorta di meccanismo per
compensare il fatto che il nostro cervello
opera sempre su informazioni superate. In
questo momento, il nostro cervello sta elaInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015
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Scienza
borando stimoli che sono arrivati ai nostri
sensi centinaia di millisecondi fa, ma se reagissimo in modo così sfasato non avremmo vita facile nel mondo reale.
“Il nostro senso del momento presente
può essere visto come un’illusione psicologica basata sul passato e su una previsione
del prossimo futuro”, dice Melcher. “E
quest’illusione è calibrata in modo da permetterci di fare cose come correre, saltare,
fare sport o guidare una macchina”. Più o
meno coscientemente, i montatori dei ilm
tengono conto di questo meccanismo e non
creano quasi mai sequenze che durano meno di due o tre secondi, a meno che il regista
non voglia trasmettere un’idea di caos e di
confusione. “Tre secondi sono abbastanza
per permetterci di capire quello che sta succedendo, ma non troppo da dover ricorrere
alla memoria per non perdere le informazioni importanti”, dice Melcher. “È la durata giusta”.
Wittmann, del centro di ricerca di Friburgo, ammette di non aver capito come un
insieme di momenti funzionali subcoscienti possa combinarsi per dar vita al momento
vissuto cosciente. La firma biologica del
momento vissuto non è ancora stata scoperta, anche se il neuroscienziato e ilosofo
Georg Northof dell’università di Ottawa,
in Canada, ha suggerito una possibilità. Nel
suo libro Unlocking the brain (Oxford University Press 2013) ipotizza che il senso del
tempo implicito sia collegato ai potenziali
corticali lenti, una specie di attività elettrica
di fondo che si può rilevare in tutta la corteccia cerebrale. È signiicativo, dice Wittmann, che queste onde di attività elettrica
possano durare diversi secondi. E fa notare
come la coscienza stessa sia una specie di
iltro, perché concentra la nostra attenzione
su alcune cose escludendone altre: sotto
l’inluenza di fattori come l’emozione o la
memoria, per creare un momento vissuto la
coscienza può stabilire che alcuni momenti
funzionali sono collegati tra loro.
La creazione del lusso
Comunque nascano, questi momenti presenti sono combinati in modo da darci il
senso della continuità o di “presenza mentale”, che è poi l’adesso inale nella gerarchia di Wittmann e copre un periodo di circa trenta secondi. In base a questo modello,
il collante che tiene insieme i momenti vissuti per darci l’impressione dello scorrere
del tempo sarebbe la memoria di lavoro,
cioè la nostra capacità di trattenere una
quantità limitata di informazioni per un
breve periodo. Alla base della sensazione
che siamo noi a vivere gli eventi c’è la pre-
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Esistono molte prove
aneddotiche del fatto
che il nostro senso del
tempo si espande o si
contrae a seconda di
quello che ci sta
succedendo intorno
to, ne ricordano anche più dettagli e riescono a descriverlo con maggior precisione.
Secondo lui, questo dimostra che l’elasticità del tempo riflette un cambiamento
nell’elaborazione degli stimoli sensoriali.
Un fattore che a livello evolutivo può aver
rappresentato un vantaggio: accelerando i
tempi di elaborazione nei momenti critici e
rallentandoli quando l’ambiente torna a essere tranquillo e prevedibile, non sprechiamo risorse cognitive preziose.
Meditare fa bene
senza mentale: “l’adesso dell’io”, come la
chiama Wittmann.
Le possibili implicazioni di questa nuova visione del momento presente sono
enormi. Prendiamo, per esempio, la questione del libero arbitrio. Negli anni ottanta,
durante un esperimento sugli stimoli, il
neuroisiologo statunitense Benjamin Libet
fece una scoperta interessante: le persone
dicevano di aver deciso di piegare il polso
circa cinquecento millisecondi dopo che
Libet aveva rilevato nel loro cervello l’attività che precedeva quel movimento. La sua
conclusione, oggi molto discussa, fu che
abbiamo meno controllo cosciente sulle
nostre azioni di quanto pensiamo. Ma, considerato quello che sappiamo del nostro
senso del tempo implicito, è possibile che
l’attività rilevata da Libet fosse il prodotto
dell’incapacità del cervello di stabilire una
sequenza in tempi molto brevi. I cinquecento millisecondi, dice Wittmann, “rientrano decisamente nei margini di tempo in
cui non siamo in grado di stabilire quale
evento è avvenuto prima”.
E poi c’è il problema dell’elasticità del
momento presente. Esistono molte prove
aneddotiche del fatto che il nostro senso del
tempo si espande o si contrae a seconda di
quello che succede intorno a noi. Per esempio, durante un incidente automobilistico
sembra che tutto si svolga al rallentatore.
Questo tipo di espansione è riproducibile
anche in laboratorio: ai volontari è presentata una serie di stimoli di uguale lunghezza
ma loro sostengono che un determinato
evento è durato di più. Inoltre, alcuni risultati preliminari di Melcher e della sua équipe di Trento dimostrano che, quando le
persone sovrastimano la durata di un even-
Questi diversi modi di elaborare gli stimoli
sensoriali sono inconsci. Ma siamo in grado di controllare consapevolmente la nostra percezione del momento presente?
Chi medita con regolarità spesso sostiene
di vivere il presente in modo più intenso
degli altri. Per veriicare questa afermazione, Wittmann ha chiesto a 38 persone che
meditavano e a 38 che non meditavano di
guardare il disegno di un cubo di Necker (in
cui non è possibile dire quale faccia è rivolta verso chi guarda e quale è il retro) e di
premere un bottone ogni volta che avevano
la sensazione che la prospettiva si fosse invertita. Il tempo che trascorre tra un’inversione e l’altra è considerato un buon metro
per misurare la durata del presente psicologico. In base a questo parametro, i volontari di entrambi i gruppi attribuivano all’adesso una durata di circa quattro secondi. Un
dato che sembrava confutare le afermazioni di quelli che erano soliti meditare. Ma
quando Wittmann ha chiesto ai volontari di
cercare di mantenere una certa prospettiva
più a lungo possibile, quelli abituati a meditare arrivavano in media a otto secondi,
mentre gli altri non superavano i sei.
Secondo Wittmann, chi fa meditazione
tende a riportare un punteggio più alto nei
test che misurano l’attenzione e la capacità
della memoria di lavoro. “Se sei più consapevole di quello che ti succede intorno, non
solo vivi di più il momento presente ma
memorizzi anche più dettagli”. E questo a
sua volta inluisce sul senso dello scorrere
del tempo. “Chi medita ha la sensazione
che il tempo passi più lentamente, sia nel
presente sia per quello che riguarda il passato”, conclude.
Questo fa pensare che con un po’ di sforzo saremmo tutti in grado di modiicare la
nostra percezione del momento presente.
Se la meditazione allunga il presente, oltre
che ad allargarci la mente potrebbe anche
allungarci la vita. Quindi tenete sotto controllo la vostra coscienza e godetevi il momento più a lungo. Non c’è niente di meglio
del presente. u bt
Portfolio
Le foto
dell’anno
La giuria del World press photo ha
scelto le migliori immagini del 2014.
Il primo premio è andato al fotografo
danese Mads Nissen
Jon e Alex, una coppia
omosessuale ritratta a
San Pietroburgo, in Russia.
Foto di Mads Nissen,
Scanpix/Panos/Prospekt,
foto dell’anno
Portfolio
l 12 febbraio la giuria del World press
photo ha annunciato ad Amsterdam i
vincitori della 58a edizione del più importante premio fotogiornalistico del
mondo. Quest’anno i partecipanti sono
stati 5.692, di 131 nazionalità diverse,
per un totale di 97.912 immagini. I fotograi premiati sono stati 42, di 17 nazionalità, in otto categorie.
Il premio per la foto dell’anno è andato al danese Mads Nissen. L’immagine mostra un momento d’intimità tra Jon, 21 anni, e Alex, 25, una
coppia omosessuale che vive a San Pietroburgo,
in Russia. La foto fa parte del progetto Homophobia in Russia, che afronta il tema delle discriminazioni contro la comunità Lgbt in Russia. La
presidente della giuria Michele McNally ha spiegato i motivi della scelta: “La foto dell’anno deve
essere d’impatto e avere il potenziale per diven-
I
Sopra: Massimo
Sestini. General
news, singole,
secondo premio.
Un’imbarcazione
piena di migranti
soccorsa dalla
marina italiana al
largo della Libia, il
7 giugno 2014. Qui
accanto: Paolo
Verzone, Agence
Vu. Ritratti,
reportage, terzo
premio. Allieva
dell’accademia
militare
Koninklijke a
Breda, Paesi Bassi.
66
Internazionale 1090 | 2o febbraio 2015
tare un’icona. L’immagine di Nissen è esteticamente potente e ha una forte umanità”.
I fotograi italiani premiati sono stati dieci:
Fulvio Bugani, Turi Calafato, Giulio Di Sturco,
Paolo Marchetti, Michele Palazzi, Andy Rocchelli, Massimo Sestini, Gianfranco Tripodo, Giovanni Troilo e Paolo Verzone.
Le foto premiate saranno in mostra al Museo
di Roma in Trastevere dal 29 aprile al 22 maggio
2015 e alla Galleria Carla Sozzani, a Milano, dal 1
al 31 maggio 2015. Saranno anche pubblicate in
un libro edito da Contrasto. u
Nella foto grande: un malato di ebola ripreso dopo un tentativo di fuga dal centro medico Hastings a Freetown, in Sierra Leone.
Pete Muller, Prime per National Geographic/The Washington Post. General news,
reportage, primo premio.
Qui accanto, da sinistra: Sergei Ilnitsky, European
Pressphoto Agency. General news,
singole, primo
premio. Una casa
bombardata nel
centro di Donetsk,
Ucraina, 26 agosto
2014. Jérôme
Sessini, Magnum
Photos per De
Standaard. Spot
news, reportage,
secondo premio.
Violenze a Kiev,
Ucraina, 19-21 febbraio 2014.
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Portfolio
Sopra, dall’alto: Bulent Kilic, Agence France-Press.
Spot news, singole, primo premio. Una ragazza ferita
durante una manifestazione a Istanbul, in Turchia, il
12 marzo 2014. Poche ore prima si era svolto il funerale
di Berkin Elvan, un quindicenne morto a causa delle
ferite riportate alcuni mesi prima negli scontri con la
polizia durante una protesta antigovernativa.
Yongzhi Chu. Natura, singole, primo premio. Una
scimmia durante l’addestramento in un circo a
Suzhou, nella provincia dell’Anhui, in Cina. In alto a
destra: Ami Vitale, National Geographic. Natura,
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singole, secondo premio. Guerrieri samburu con un
rinoceronte a Lewa Downs, in Kenya. In basso, da
sinistra: Glenna Gordon. General news, reportage,
secondo premio. Le uniformi scolastiche di tre delle
276 ragazze rapite dai miliziani di Boko haram a
Chibok, nel nord della Nigeria, il 14 aprile 2014.
Ronghui Chen, City Express. Temi di attualità,
singole, secondo premio. Wei, un operaio di 19 anni, in
una fabbrica di decorazioni natalizie a Yiwu, in Cina.
La maschera e il cappello da Babbo Natale lo
proteggono dai coloranti in polvere.
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Ritratti
Hervé Falciani
Cavaliere oscuro
Gérard Davet e Fabrice Lhomme, Le Monde, Francia. Foto di Corentin Fohlen
I dati che ha sottratto alla Hsbc
hanno rivelato che in Svizzera
le banche aiutano gli evasori ad
aggirare il isco. Lui si presenta
come un paladino della legalità,
ma dalle inchieste emerge una
personalità ambigua
uest’uomo è più opportunista che poliedrico. Di sicuro
Hervé Falciani può recitare
molti ruoli e usare un linguaggio oscuro per nascondersi. Ha saputo navigare in
acque torbide, reagire a ogni avversità e approittare di tutte le occasioni. È stato un
programmatore, un ladro d’informazioni
riservate, un cavaliere solitario, un mitomane, un manipolatore, un allarmista, una
vittima del sistema. Ma Falciani è prima di
tutto, e nessuno può negarlo, il fulcro
dell’incredibile vicenda Hsbc. Dopo cinque
anni di indagini, dopo la lettura di migliaia
di rapporti conidenziali e di testimonianze
inedite, possiamo inalmente raccontare la
vita di Falciani, l’incubo della Hsbc Private
Bank.
Per i suoi interlocutori francesi era Ruben al Chidiack. A Ginevra però è sempre
stato Hervé Falciani, per i colleghi, per gli
amici e per le conquiste di una sera. Compagnone, festaiolo. Programmatore di buon
livello, il 14 marzo 2006 lascia la succursale
monegasca della Hsbc e passa alla sede di
Ginevra del gigante bancario britannico.
Croupier dal 1992 al 2000, sposato due volte, padre di una bambina e di nuovo sul
punto di divorziare. Un personaggio dannato, un millantatore, un furbastro. Un playboy, un incallito giocatore di poker, uno
scialacquatore. A Carouge, nei pressi di Gi-
Q
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nevra, era noto per l’abitudine di abbordare le donne in piscina. Alla giovane Doina
ha raccontato che era separato e aveva una
iglia autistica. Anche a Myriam, una studentessa di ilosoia incontrata durante un
torneo di poker, ha mentito profusamente
sulla sua vita. Le due lo hanno descritto
agli inquirenti svizzeri come un “manipolatore”. All’epoca aveva già una relazione
con la collega Georgina Mikhael, una franco-libanese sedotta nel 2006, anche lei al
tavolo da poker.
Insomma, Falciani non è proprio il genere di persona a cui aidereste i segreti di
una delle più potenti banche private del
mondo, dove per aprire un conto ci vuole
almeno un milione di dollari. Eppure è proprio lui che si è ritrovato lì, nel sancta sanctorum. Gli è stata affidata una missione
cruciale: approntare uno strumento chiamato Customer relationship management
(Crm), che doveva facilitare i rapporti tra
la banca e i suoi clienti. A Monaco Hervé
ha eseguito questo compito diligentemente. Il lavoro era semplice e ripetitivo: trasferire i dati dal vecchio sistema informatico Siic, su cui sono conservati i documenti
relativi ai titolari di conti correnti, al Crm.
Nel 2006 la Hsbc cercava di rendere il
sistema più eiciente. Oggi tutti gli impiegati della banca interrogati dagli inquirenti sono convinti che Falciani abbia trovato
Biograia
◆ 1972 Nasce a Monte Carlo.
◆ 2006 Lavora in Svizzera al database della
Hsbc Private Bank e s’impossessa dei dati di
centomila correntisti presunti evasori iscali.
◆ 2009 Collabora con le autorità francesi.
◆ Febbraio 2015 Un consorzio di giornali,
tra cui Le Monde, pubblica i risultati
dell’inchiesta sui conti della Hsbc.
una falla nel sistema informatico tra il
2006 e il 2008, quando a causa di un intoppo i dati non erano criptati. Jean-Claude
Brodard, direttore della logistica della banca, ricorda che “tutti i trasferimenti si facevano nel ine settimana. La prima parte è
stata completata nel 2006”. Florent Donini, un altro dipendente del settore informatico, concorda con i colleghi: “Hervé
era l’unico responsabile della costruzione
del Crm. Ha avuto accesso a dati non criptati. Il trasferimento dura 4 o 5 ore, durante
le quali vediamo silare i dati e possiamo
salvare quello che appare sullo schermo”.
È in quei preziosi momenti che i programmatori come Falciani hanno avuto accesso
alle informazioni? Probabile. Jérôme Charlot, responsabile del settore informatico
presso Hsbc Pb, ricorda che “Hervé avrebbe dovuto distruggere i dati dopo aver
completato il trasferimento”, ma sembra
proprio che non abbia rispettato l’impegno.
Roland Vezza, dirigente della Hsbc Pb,
spiega che “Falciani è abbastanza bravo
dal punto di vista tecnico, ma umanamente è un manipolatore, un mitomane”. La
persona ideale per innescare un meccanismo distruttivo, soprattutto perché la carriera non gli stava regalando le soddisfazioni che sperava. La banca infatti aveva
scelto un modello di Crm diverso da quello
proposto da Falciani, e gli aveva anche riiutato un incarico nel settore della sicurezza. È stato quest’uomo instabile, frustrato sul piano professionale, bugiardo su
quello sentimentale, che ha ottenuto e
conservato i dati segreti dei clienti della
Hsbc Pb.
Intervistato da Le Monde il 15 dicembre
2014, Falciani ha dato una versione molto
diversa della vicenda: “È vero, ho rubato i
dati”, ha ammesso, ma ha assicurato di es-
DIveRgeNCe
sere stato aiutato da complici interni alla
banca e di aver agito spinto da motivazioni
etiche. “Non avevo l’autorità per accedere
a dati operativi, ma lavoravo su tutti i pro­
getti riservati, in contatto con i vertici della
banca. Mi dicevano ‘Le cose stanno così’. È
in questo modo che ho avuto accesso ai da­
ti, attraverso intermediari. La maggior
parte di quelli che mi hanno aiutato l’ha
fatta franca. Loro mettevano i dati su un
server e io mi assicuravo che le informazio­
ni fossero coerenti”.
Vacanze libanesi
Questa ricostruzione dei fatti non convin­
ce gli inquirenti svizzeri, che vorrebbero
portare Falciani davanti a un tribunale fe­
derale. La giustizia elvetica dispone di ele­
menti solidi, in primo luogo le contraddi­
zioni del programmatore. Ascoltato dalla
polizia francese nel gennaio del 2009, Fal­
ciani ha dichiarato che i dati erano stati
ottenuti attraverso il “data mining e i backup” che aveva fatto nell’ambito della sua
normale attività professionale. All’epoca
non aveva parlato di collaboratori né di
motivi etici. In ogni caso, all’inizio del
2008 Falciani disponeva di migliaia di dati
riservati. Per la precisione, di informazioni
sui conti di 107.181 persone, presumibil­
mente evasori iscali. La lista valeva oro.
Che farsene? Falciani giura di aver sempre
agito per idealismo e per smascherare i
metodi illegali, comportandosi come un
informatore, il ruolo con cui si protegge da
molte accuse. Forse è vero, ma dall’analisi
dei fatti emerge una verità meno lusin­
ghiera.
Il 22 dicembre 2008 Mikhael ha denun­
ciato il suo amante alle autorità svizzere:
“Poco tempo dopo l’inizio della nostra re­
lazione, Hervé Falciani mi ha confessato di
essere in possesso di un database che vole­
va vendere per procurarsi i soldi che dove­
va alla moglie a causa del divorzio. Ha mi­
nacciato di fare del male a me e alla mia
famiglia se avessi raccontato la storia dei
dati a qualcuno”. I due amanti hanno inito
per separarsi, ma inizialmente le loro in­
tenzioni sembravano coincidere, come
confermano le conversazioni su Skype esa­
minate nell’ambito dell’inchiesta: “Hai
pescato?”, chiede nel 2007 la ragazza. “Tre
mesi di update per ogni indirizzo e perso­
na”, risponde Falciani. “Non ti hanno bec­
cato?”, chiede lei. “Per ora mancano le ci­
fre”, risponde lui. “Bisogna fare attenzio­
ne, baby”, conclude Mikhael.
Secondo Mikhael, lei e Falciani pensa­
vano di guadagnare una fortuna. Dal 2 al 9
febbraio le loro tracce compaiono in Liba­
no, dove secondo Mikhael volevano ven­
dere le liste alle banche locali. “Dal Libano
avrei potuto rivelare le informazioni”, si
giustiica oggi Falciani: voleva lanciare l’al­
larme, svelare il sistema che aveva contri­
buito a perfezionare. Ma perché non ha
semplicemente denunciato la Hsbc alle
autorità svizzere? “La Svizzera non indaga
sulle banche. Non siate ingenui, il potere
del denaro funziona così”, spiega.
Torniamo alla coppia in vacanza in Li­
bano. È lì che appare per la prima volta il
nome falso Ruben al Chidiack. Identità fal­
se, documenti falsi, una società di facciata,
la Palorva, creata a Hong Kong per l’occa­
sione. Falciani si spaccia per il responsabile
commerciale dell’azienda presso quattro
banche di Beirut. Nell’afare entra anche
suo fratello Philippe, a cui Hervé vende
l’idea fumosa di “dati progetto”. Philippe
rivelerà in seguito agli inquirenti che il fra­
tello “voleva fare soldi” grazie a dei dati
provenienti da ricerche sul dark web. “Le
banche avrebbero dovuto pagare una certa
cifra, che personalmente ignoro, per ac­
quistare il database”, conferma Mikhael
nel dicembre del 2008. Secondo lei è pro­
babile che il prezzo si aggirasse intorno ai
mille dollari per nome. Per spiegare l’origi­
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Ritratti
ne dei ile Hervé parlava di “intercettazioni
di fax”. Interrogata una seconda volta nel
2010, Mikhael non ha cambiato versione:
“Falciani mostrava alle banche una lista
enorme di clienti con nomi in codice”.
Queste dichiarazioni sono confermate
dai banchieri libanesi rintracciati a Beirut.
Jacques Aouad, di Bnp Paribas Beirut, ricorda che “due persone avevano preso un
appuntamento chiedendo se la mia banca
fosse interessata ad acquisire informazioni”. Il 4 febbraio 2008 la coppia incontra
Samira Harb della banca Audi. La donna
ricorda il fantomatico Al Chidiack: “Diceva di avere delle liste che contenevano indirizzi, nomi, numeri di conti correnti. E di
aver ottenuto questi nomi intercettando
dei fax”. Sui documenti che Falciani mostrava ai potenziali acquirenti il logo della
Hsbc era in bella vista. Anche George Tabet della banca Blominves ha ricevuto la
coppia. Tutti hanno testimoniato davanti
alla giustizia svizzera, giurando di non aver
accettato le oferte di Falciani e Mikhael.
A questo punto è molto diicile credere
alla versione di Falciani, soprattutto perché ha oferto spiegazioni diverse durante
i vari interrogatori. Falciani cambia spesso
versione, passando da una all’altra a seconda degli interessi del momento. Il 20
gennaio 2009, per esempio, ha dichiarato
alle autorità francesi che voleva “realizzare un software di data mining. Per farlo
avevo bisogno di un inanziamento”. Ecco
spiegato, in teoria, il viaggio in Libano. Ma
nel luglio del 2013, davanti al giudice di Parigi Renaud Van Ruymbeke, il tono cambia
radicalmente: “Il mio unico obiettivo era
far scattare la denuncia da parte della iliale libanese di una banca svizzera, per mettere ine alle attività illecite della Hsbc”.
Cataclisma inanziario
Ma qual è il vero Falciani? Il programmatore alla ricerca di denaro facile o il cavaliere
solitario in missione divina? Hervé ha indossato entrambe le maschere, perfettamente in linea con il suo opportunismo. In
efetti dopo il suo viaggio in Libano non ha
più cercato di vendere i dati. Al contrario,
ha inviato messaggi ai servizi segreti britannici e tedeschi promettendo meraviglie. Ecco l’email indirizzata il 18 marzo
2008 a un’agenzia governativa britannica:
“Ho la lista completa dei clienti di una delle cinque maggiori banche private. Questa
banca ha sede in Svizzera. Garantisco anche l’accesso al sistema informatico”.
Nella primavera del 2008, in Liechtenstein, un impiegato della banca Lgt ha venduto al isco tedesco una lista ininitamen-
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te meno completa rispetto a quella di Falciani, incassando 5 milioni di euro. La
coppia Falciani-Mikhael aveva trovato un
altro modo per fare soldi? Oggi lui sostiene
di aver avuto un solo obiettivo: smascherare il sistema bancario svizzero.
Nell’aprile del 2008 entra in contatto
con il isco francese. Falciani non chiede
denaro, ma solo aiuto. E promette un cataclisma inanziario. In ogni caso uno dei suoi
obiettivi, quello di allertare la giustizia svizzera, viene raggiunto: il 20 marzo del 2008
l’Associazione svizzera dei banchieri scopre
le attività della coppia in Libano, e il 29
maggio si apre un’inchiesta. Anche se in
Svizzera non si scherza con il furto di dati
bancari, l’inchiesta è inizialmente discreta.
Il telefono di Mikhael viene messo sotto
sorveglianza, e gli agenti scoprono che frequenta assiduamente Falciani.
Poi, il 17 dicembre del 2008, gli inquirenti scoprono che Mikhael si prepara a
lasciare la Svizzera. Viene arrestata il 22
dicembre e denuncia subito il complice.
“Il mio unico
riconoscimento sarà
la condanna della
giustizia svizzera”
Gli agenti perquisiscono gli uici dei due e
Falciani viene convocato per l’indomani,
23 dicembre, alle 9.30. È un grave errore,
perché le autorità svizzere non lo rivedranno mai più.
Convinto che le autorità francesi lo aiuteranno, Falciani decide di scappare nel
sud della Francia. Aitta una macchina a
Ginevra e la riconsegna all’aeroporto di
Nizza. Da lì parte per Castellar, dove ha
una casa in campagna. Il 24 dicembre, nel
pomeriggio, contatta i suoi referenti nel
isco francese e chiede di incontrarli due
giorni dopo. Il 26 dicembre, all’aeroporto
di Nizza, ripreso dalle telecamere di sorveglianza, consegna al isco francese cinque
dvd contenenti i suoi dati. In questo modo
ha la garanzia che saranno usati.
Gli svizzeri, consapevoli del loro errore,
chiedono subito l’estradizione. Il 20 gennaio 2009 Falciani si ritrova davanti una
squadra di gendarmi francesi accompagnati da un magistrato svizzero. Accetta di
collaborare con la giustizia francese. La
Confederazione elvetica, che spera di recuperare i dati originali, resta a bocca
asciutta perché il procuratore di Nizza Eric
de Montgolier non vuole lasciarsi sfuggire
il caso, tanto più che ha l’appoggio del i-
sco. La vicenda Falciani diventa la vicenda
Hsbc Pb.
Falciani collabora. Dalle liste emergono
centinaia di nomi. Il isco e la giustizia conducono inchieste parallele. Il programmatore sfugge all’estradizione in Svizzera e
viene stipendiato da un ente parastatale
francese. Nel marzo del 2009 termina la
sua collaborazione con il isco. L’estrazione
di dati è quasi terminata. Presto la vicenda
attira l’attenzione delle istituzioni estere. Il
tribunale di Torino contatta la Francia, seguito dalla giustizia statunitense. Nel luglio
del 2012 Falciani è in Spagna, dove viene
arrestato e rilasciato cinque mesi dopo in
cambio della promessa di aiutare la giustizia spagnola. Inine, nel 2012, le autorità
britanniche ottengono i suoi dati, interessandosi soprattutto ai clienti delle isole anglo-normanne.
Il piacere dell’onestà
Oggi Falciani collabora con i governi di Argentina e India per combattere l’evasione
iscale. Si muove con discrezione, consapevole di essere sorvegliato. La sua vita è cambiata radicalmente. È sotto protezione. Ci
sono troppi interessi in gioco. La sua carriera di informatore è sulla buona strada. Ma
ha ancora una vita? Vive di contratti a tempo determinato e in questo momento dichiara di essere disoccupato. “Avevo trovato lavoro, ma sono stato scartato appena
hannno letto il mio nome. Questa è la mia
vita. Sopravvivo inché sono utile. L’unico
riconoscimento uiciale che avrò sarà la
condanna della giustizia svizzera. Mi sarebbe piaciuto diventare un consulente, sarebbe stata come una medaglia, un segno di
rispetto per i rischi che ho corso”.
Il futuro? Di sicuro Falciani non metterà
più piede in Svizzera. “Che m’importa del
processo in Svizzera? Non ho niente da fare
laggiù. Voglio voltare pagina, cambiare nome, sparire e avere una vita normale”. Gli
resteranno il ricordo di un’avventura straordinaria e i segreti che porta con sé. Terribilmente umano, inalmente. A volte nella sua
corazza si apre una crepa: “Dovrebbe esserci una legge per aiutare gli informatori. Non
sono un cavaliere solitario, ma c’è qualcosa
di molto bello e gratiicante nello svelare la
verità. Quando le cose vanno male questa
consapevolezza aiuta, ti ricorda che hai lasciato una traccia”.
Falciani avrebbe potuto guadagnare
molto denaro e probabilmente ci ha provato. Gli resta la consapevolezza di essere
stato utile. Non male per un ex croupier,
programmatore, seduttore, ladro. E informatore. u as
Viaggi
L’autobus turco
e le sue regole
Le disavventure di un turista
australiano a cui è stato
assegnato per errore un posto
accanto a una signora. In un
paese sempre meno laico
il culmine del Ramadan, il
mese di celebrazioni che coinvolge tutto il Medio Oriente. E
le conseguenze si vedono anche a Konya, in Turchia. Alcune le ho già sperimentate. Dal
punto di vista gastronomico non c’è molta
scelta, perché in città si digiuna tutto il
giorno. E per bere degli alcolici – cosa già
abbastanza diicile in questa roccaforte
del suismo nell’Anatolia centrale – serve
fantasia e capacità investigativa. Il caldo,
però, rende tutto più diicile. La birra e il
raki (un distillato), apprezzati dai miei amici di Istanbul e Izmir, non si addicono ai
seguagi di Rūmi. Almeno non in pubblico:
in realtà si dice che Konya abbia un tasso di
alcolismo tra i più alti della Turchia.
Tutto questo non mi sorprende, quello
che non immaginavo sono gli effetti del
mese sacro sul turismo. Il Ramadan è tradizionalmente un periodo di migrazione di
massa, ma mi sarei aspettato che i fedeli si
spostassero verso i centri religiosi come
Konya, non che li abbandonassero. La fortuna mi aiuta e riesco a prendere l’ultimo
posto sull’ultimo autobus disponibile per
Gaziantep, a 562 chilometri a est di Konya.
Sono costretto a ritardare l’orario di partenza e mi toccherà viaggiare di notte, ma
almeno ho il biglietto. Il viaggio durerà nove ore. Comincio a tempestare di email
l’albergo a Gaziantep per informarli che
arriverò con un giorno di ritardo, scusandomi in un pessimo turco tradotto su
Google.
In tutto il mondo i terminal degli autobus sembrano dei recinti per il bestiame:
confusione, corpi sudati e ansimanti. In
Turchia a tutto questo si aggiunge un detta-
è
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glio: le grida del personale, che sembrano
quelle dei banditori d’asta.
“Izmir! Izmir! Izmir!”, grida un uomo.
“Ankara! Ankara! Ankara!”, grida un
altro. In questo paese sembra che buona
parte della popolazione maschile si guadagni da vivere urlando, forse anch’io potrei
fare carriera. Chissà se gli uomini che urlano i nomi delle città si fanno le ossa gridando i nomi dei vari tipi di kebab: “Şiş kebab!
Urfa kebab! Adana kebab!”. O viceversa?
“Antep! Antep! Antep!”. È il mio autobus, ma non si vede. Ogni cinque minuti
trascino il bagaglio ino alla biglietteria della compagnia di autobus Metro Turzim per
avere la conferma che il numero della banchina sia giusto. La scena si ripete per quattro volte. In una lingua che non capisco e
con gesti che seguo a stento mi assicurano
che è il numero giusto. Almeno credo. Gli
altri passeggeri diretti a Gaziantep fumano
una sigaretta dietro l’altra, divertiti dal mio
comportamento. Le donne distolgono lo
sguardo. L’autobus ha mezz’ora di ritardo e
quando inalmente appare mi sento sollevato.
IzzET KERIbAR (GETTy IMAGES)
Matthew Clayield, The Saturday Paper, Australia
Vestito lungo
Il mio posto è occupato da un bambino che
dorme. Ma soprattutto, accanto a lui c’è
una donna di mezza età. Mi guarda come
se mi aspettassi qualcosa e io ricambio lo
sguardo. Ho un brutto presentimento perché negli autobus turchi un uomo non si
siede mai vicino a una donna che non conosce. Mi preparo stoicamente a una lunga
attesa notturna.
Una settimana dopo racconto l’episodio
a una tedesca che incontro nella città curda
di Van. Siamo a un matrimonio curdo, dove
uomini e donne siedono separati e partecipano a turno al banchetto di nozze. Regole
che la tedesca non rispetta, mostrando una
naturalezza tutta europea. Si mette a ridere
e mi racconta un episodio che le è capitato.
Due anni fa si è trovata in una situazione
simile alla mia. Doveva assolutamente
prendere un autobus e l’unico posto libero
Konya, Turchia. Il mausoleo di
Mevlana e la moschea di Selimiye
era accanto a un uomo. La biglietteria non
voleva venderle il biglietto, ma poi grazie
alla sua caparbietà tedesca è riuscita a risolvere la situazione. Si è presa la responsabilità per qualsiasi cosa potesse succedere
durante la notte. Ha pagato e si è seduta al
suo posto. “Il mio vicino si è comportato da
perfetto gentiluomo”, racconta. “Ha sorriso educatamente ed è stato sempre dalla
sua parte”. Così lei si è addormentata. Ma
la mattina dopo il suo vestito, che le arrivava ino alle caviglie, era sollevato sopra le
ginocchia.
La questione del mio posto occupato
dal bambino causa scompiglio. Rimango in
piedi con la testa che tocca il soitto mentre il mio caso viene sviscerato a voce alta
Informazioni
pratiche
u Arrivare e muoversi Il prezzo di un volo
dall’Italia per Konya (Pegasus Airlines, Turkish
Airways, Lufthansa) parte da 249 euro a/r. Per
avere informazioni sugli orari degli autobus da
Konya a Gaziantep si può consultare il sito della
compagnia Metro Turzim: metroturizm.com.tr.
u Dormire L’Otel Nil (otelnil.com) di Konya
ofre una doppia per 100 lire turche a notte
(35 euro).
u I lettori consigliano L’Anadoru Evleri, a
Gaziantep (anadoluevleri.com), che è un
albergo a quattro stelle, si trova nella città
vecchia in un ediicio storico. Una doppia costa
68 euro a notte.
u Leggere Irfan Orga, Un viaggio in Turchia,
Passigli 2008, 16,50 euro.
u La prossima settimana Viaggio nella
Guyana francese, lungo il iume Maroni. Avete
suggerimenti su posti dove mangiare o dormire,
libri? Scrivete a [email protected].
nel minimo dettaglio. Perché prima di partire non ho pensato a migliorare il mio pessimo turco? Potevo almeno imparare a dire
“mi dispiace”, o “non capisco” o “sono un
idiota”. Siamo in ritardo di 45 minuti e i
passeggeri cominciano a protestare sotto la
luce implacabile delle lampade al neon. Gli
autobus turchi funzionano bene, meglio
che nei paesi anglofoni, e per il personale
della Metro Turzim è più importante dare
una spiegazione che trovare una soluzione.
Lo steward ha la situazione sotto controllo
e sembra gustarsi la scena. Non è un errore,
mi spiega a gesti facendomi vedere le matrici dei biglietti. Entrambi abbiamo i biglietti giusti e i posti giusti. Allora dov’è lo
sbaglio? Sul biglietto della donna c’è scritto
che il passeggero è un uomo. Una svista
della biglietteria. Un errore amministrativo che investe anche una questione morale.
Comincia la ricerca di un passeggero maschio disposto a sedersi vicino a me e che in
più abbia una moglie disposta a sedersi accanto a un’estranea con due bambini (un
secondo bambino, si scopre, sta dormendo
sul pavimento sotto il sedile). Comincia
anche la ricerca delle scarpe dei bambini,
che durante la notte sono scivolate lungo il
corridoio. La caccia alle scarpe continua
tra una fermata e l’altra ino alle prime ore
del mattino.
L’arrivo di Erdoğan
La donna a cui ho tolto il posto la prende
relativamente bene. In compenso il tizio
con cui sono costretto a viaggiare è molto
meno contento e per tutta la notte cerco di
non toccarlo e di non sudargli addosso. Un
po’ per rispetto e un po’ per paura di rappresaglie. L’autobus delle 22 per Gaziantep
parte da Konya dopo le 23.
La mia amica tedesca non riesce a capire come mai in Turchia gli uomini e le donne non possono stare seduti vicini in autobus. “Vogliono salvare le donne dagli uomini libidinosi o salvare gli uomini dalla
tentazione?”. Ho il sospetto che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ce ne darà
un’idea più chiara nei prossimi anni. Il conservatorismo religioso che ha portato
Erdoğan al potere è sempre più radicato e i
suoi sostenitori sono sempre più attivi e aggressivi nell’afrontare le questioni sociali.
La concezione laica dello stato, faticosa
conquista della Turchia e spina nel ianco
dei credenti per quasi un secolo, viene lentamente e deliberatamente erosa.
Arriviamo a Gaziantep la mattina presto, con qualche ora di ritardo e la tipica
sensazione che si prova dopo i viaggi notturni in autobus: quella di sentirsi sporchi.
Mi risparmio il minibus per il centro e
mi faccio portare in taxi direttamente al
mio modesto albergo. Mi butto sul letto
quando giù in strada cominciano ad arrivare e a vociare i primi commercianti. Quando mi sveglio, è già quasi sera. u fas
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Graphic journalism
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Clément Baloup è un autore franco-vietnamita nato nel 1978 a Mont Didier, in Francia. Abita a Marsiglia.
Il suo ultimo libro, pubblicato insieme a Christophe Alliel, è Le Ventre de la Hyène (Le Lombard 2014).
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Cultura
Giornali
STEPHEN CHERNIN (AP/ANSA)
David Carr, agosto 2008
L’eroe
del Times
Bruce Weber e Ashley Southall, The New York Times,
Stati Uniti
David Carr è stato uno dei più
brillanti giornalisti del New
York Times. È morto il 12
febbraio. Aveva 58 anni
na di queste battaglie aveva smorzato la sua
energia. Andava spesso in tv, ospite di talk
show e programmi d’informazione, teneva
lezioni e conferenze sul giornalismo e nel
2011 è stato tra i protagonisti di un documentario sul New York Times.
avid Carr, sfuggito al demone della tossicodipendenza
per trasformarsi in una celebrità del giornalismo,
editorialista del New York
Times e autore di un’autobiograia diventata un best seller, è morto il 12 febbraio. Aveva 58 anni. È stato trovato privo di sensi nella redazione del quotidiano a Manhattan
poco dopo le 21. È stato portato al St. Luke’sRoosevelt hospital, dove è stata constatata
la sua morte.
Carr era sopravvissuto a un cancro e
aveva lottato contro l’alcolismo, ma nessu-
Un volto noto
D
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Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
Il giorno della sua morte ha moderato un
dibattito su Citizenfour, il documentario
candidato all’Oscar su Edward Snowden,
con la regista Laura Poitras, Glenn Greenwald (il giornalista che per primo ha pubblicato le rivelazioni dell’ex analista dell’Nsa)
e lo stesso Snowden, in collegamento video
dalla Russia. “C’è qualcosa nel modo in cui
hai realizzato questo ilm e in quello che rivela che non ci fa dormire sonni tranquilli”,
ha detto Carr a Poitras.
Per il New York Times Carr all’inizio si
era occupato di cultura pop, inaugurando la
rubrica The carpetbagger, dedicata alle notizie e alle follie della stagione dei premi di
Hollywood. Ha sostenuto ilm anticonformisti come Juno e ha intervistato star afermate ed emergenti, da Woody Harrelson e
Neil Young a Michael Cera.
Ma forse Carr è diventato famoso soprattutto per le sue analisi, spesso pionieristiche, sugli sviluppi dell’editoria, della tv e
dei social network. Nella sua rubrica del lunedì, The media equation, e in altri articoli,
parlava di questioni che diventavano presto
d’attualità; di nuovi dispositivi interessanti
e allo stesso tempo fastidiosi (il bastoncino
pieghevole per i selie, che qualcuno chiama Narcissistick); di celebrità del mondo
dell’informazione, come Julian Assange, di
dinosauri, come Michael R. Bloomberg e
Rupert Murdoch, o di meteore come Randy
Michaels, che era stato a capo della Tribune
Company ino al 2010, quando un articolo
di Carr ne mise in evidenza la volgarità e la
tendenza a usare metodi clientelari, costringendolo a dimettersi.
La scrittura di Carr era franca, a volte
perino brusca. Spesso aveva con i lettori la
complicità di un cospiratore e a volte era
autoreferenziale e oppresso dal senso di
colpa. L’effetto era un atteggiamento al
tempo stesso alla mano e soisticato, la voce
di uno scettico ben informato.
“Vogliamo che i nostri conduttori siano
bravi a leggere le notizie e anche a farci credere di esserne al centro”, aveva scritto l’8
SARA KRULWICH (THE NEW YORK TIMES/CONTRASTO)
13 febbraio 2015, la redazione del New York Times ricorda David Carr
febbraio, quando è venuto fuori che Brian
Williams, conduttore della Nbc, aveva
mentito raccontando di essersi trovato su
un elicottero nel bel mezzo di un attacco in
Iraq nel 2003. “Quando gli uomini o madre
natura provocano il caos, i grandi network
sono costretti a spedire un afollato carroz­
zone in zone remote, con un conduttore a
fare da portabandiera. E il conduttore
dev’essere ovunque, dev’essere famoso,
giramondo, divertente, alla mano e soprat­
tutto affidabile. Nessuno può soddisfare
tutti questi requisiti”.
L’editore del giornale, Arthur Ochs Sulz­
berger Jr., ha dichiarato in un comunicato
che “Carr è stato uno dei giornalisti di mag­
giore talento tra quelli che hanno lavorato
al New York Times”. In un’email alla reda­
zione, il direttore Dean Baquet ha scritto:
“Era il nostro più grande sostenitore e la sua
ininita passione per il giornalismo e per la
verità mancherà molto al Times, ai suoi let­
tori in tutto il mondo e a tutti quelli che
amano il giornalismo”.
Dall’abisso
L’ascesa di Carr è ancora più straordinaria
se si tiene conto dell’abisso da cui è partita.
Come si legge nella sua autobiograia del
2008, The night of the gun, alla ine degli an­
ni ottanta era dipendente dal crack e viveva
con una spacciatrice, con cui aveva avuto
due iglie gemelle. Una notte, poco dopo la
nascita delle bambine, le lasciò in macchi­
na mentre lui andava a procurarsi della co­
caina da un certo Kenny. “I racconti da
spacciatore di Kenny erano più rainati e in
un certo senso più appaganti rispetto a quel­
li di quasi tutti gli altri spacciatori”, ha scrit­
to Carr. “La sua visione del mondo era pie­
na di elicotteri neri e rumore bianco. Pre­
senze invisibili e misteriose che un giorno ci
sarebbero venute a cercare. Mi teneva con il
iato sospeso. Ma quella sera avevo compa­
gnia. Di sicuro non potevo portare dentro le
gemelle. Varcare la soglia dello spaccio con
due neonate sarebbe stato troppo. Seduto
nell’oscurità del sedile anteriore, decisi che
le mie piccole gemelline sarebbero state al
sicuro, che dio si sarebbe preso cura di loro
mentre io non lo facevo”.
Qualche mese dopo Carr entrò in un
programma di recupero. Nel 2008 è riuscito
a guardare al suo passato e a scrivere: “Oggi
sono una persona sincera e spesso piacevo­
le, svolgo un lavoro duro per un giornale
prestigioso e con il passare del tempo ho di­
mostrato di essere un padre e un marito at­
tento”.
Arrivato al New York Times nel 2002
come esperto di economia per il magazine
settimanale, si è ritagliato un ruolo di primo
piano nella redazione con la sua aria vissu­
ta, la voce gracchiante e la postura da cico­
gna. Poteva essere piuttosto burbero, la
sfrontatezza intellettuale e l’intolleranza
nei confronti degli stupidi emergeva dalle
sue conversazioni e dai suoi articoli. Ru­
bando la scena a tutti diventò l’incarnazio­
ne del quotidiano nel documentario del
2011, Page one. Inside The New York Times,
non limitandosi a raccontare storie, ma di­
fendendo l’onore del giornale.
David Michael Carr era nato l’8 settem­
bre del 1956 a Minneapolis ed era cresciuto
a Hopkins, alla periferia della città. Suo pa­
dre John aveva un negozio di abbigliamen­
to e dopo aver lottato anche lui contro l’al­
colismo era diventato un sostenitore dei
programmi di riabilitazione. La madre di
David, Joan, era un’insegnante. David Carr
si era laureato all’università del Minnesota,
dove aveva seguito corsi di psicologia e
giornalismo.
Prima di trasferirsi a New York aveva
lavorato per un settimanale alternativo, il
Twin Cities Reader, e poi per il Washington
City Paper. Si era occupato del mondo
dell’informazione per il sito Inside e prima
di entrare al New York Times aveva colla­
borato con l’Atlantic Monthly e con il New
York magazine.
Carr viveva a Montclair, nel New Jersey.
Lascia sua moglie, Jill Rooney Carr, le iglie
Maddie, Erin e Meagan, i fratelli Jim, John
Jr. e Joe, e le sorelle Missy e Lisa.
“Vivo una vita che non merito”, ha scrit­
to Carr alla ine di The night of the gun. “Ma
tutti percorriamo questa terra sentendoci
degli impostori. Il trucco è mostrarsi grati e
sperare di essere scoperti il più tardi possi­
bile”. u gim
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
79
Cultura
Cinema
Italieni
Dall’Iran
I ilm italiani visti da
un corrispondente straniero.
Questa settimana il britannico Paul bompard.
Un orso contro la censura
80
L’Orso d’oro a Taxi di Jafar
Panahi sembra premiare
più l’ostinazione del
regista che la qualità
artistica del ilm
Il regista iraniano Jafar Panahi è un artista che si batte per
la democrazia e la libertà
d’espressione. Un artista ribelle che non sopporta l’ingiustizia, le prepotenze e la
repressione dello stato. In
Iran gli è stato impedito di
produrre ilm per vent’anni,
ma girando in gran segreto e
con mezzi ridotti all’osso è riuscito a lavorare al riparo dalla censura. Nel suo ultimo
ilm Taxi Panahi si mette alla
Taxi
guida di un taxi per le strade
di Teheran e parla con le persone che porta. Forse la Berlinale avrebbe potuto premiare
un ilm più bello. Invece, assegnando l’Orso d’oro al regista iraniano, ha scelto di sostenere Panahi e la sua resistenza, mettendo in secondo
piano le questioni artistiche.
Tutto questo fa pensare che,
in un certo senso, le opere degli artisti provenienti da paesi
“marginali” sono giudicate
secondo criteri diversi da
quelli applicati ai paesi occidentali. Gli ultimi tre ilm di
Panahi (This is not a ilm, Clo­
sed curtain e Taxi) rilettono la
sua determinazione a non
piegarsi alla volontà dello stato, coltivando il proprio amore per il cinema. Ma sono anche la testimonianza del fatto
che l’Iran ha trasformato un
autore di qualità in un regista
costretto a fare ilm con mezzi
inadeguati.
Radio Zamaneh (Iran)
Massa critica
Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo
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Patria
Di Felice Farina. Con France­
sco Pannoino. Italia 2014, 89’
●●●●●
Una piccola fabbrica del nord
sta per chiudere, con la perdita di quaranta posti di lavoro. Un operaio siciliano per
protesta si arrampica su una
ciminiera, e viene raggiunto
da un sindacalista e poi dal
portiere disabile della fabbrica. È una protesta inutile,
nessuno se ne accorge, a nessuno importa. Però, durante
la notte i tre parlano, discutono, litigano. E sulla base di
questa conversazione, inventata e frammentata, sul “perché” della chisura della fabbrica, si costruisce una carrellata documentaria sulla
storia italiana dal 1970 a oggi. Attraverso ilmati, interviste, fotograie, si racconta di
Sindona, Fanfani, Agnelli,
Moro, Gardini, Berlinguer,
Berlusconi, Di Pietro, Forlani, Craxi e tanti altri. Le storie di grande corruzione
emerse con Mani pulite, la
maia e i suoi intrecci con la
politica e l’imprenditoria, il
maxiprocesso di Palermo, gli
attentati, l’uccisione di Falcone e Borsellino e le stragi
ancora misteriose come
quella di Ustica. Ne emerge
un’Italia tragica e corrotta,
dannata e senza speranza.
Patria funziona benissimo
per ricordare, a chi le ha forse
un po’ dimenticate, le radici
marce dell’Italia di oggi. Ma
in un’ora e mezza è diicile
raccontare questi avvenimenti a chi non è abbastanza
vecchio per avere ricordi, anche se remoti, da risvegliare.
Media
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bIRDman
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GOne GIRL
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the Iceman
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the ImItatIOn Game
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SeLma
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Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
-
11111
I consigli
della
redazione
Timbuktu
Abderrahmane Sissako
(Francia/Mauritania, 97’)
Whiplash
Damien Chazelle
(Stati Uniti, 105’)
In uscita
Un piccione seduto su un
ramo rilette sull’esistenza
Di Roy Andersson. Con Holger
Andersson. Svezia/Norvegia/
Francia/Germania 2014, 100’
●●●●●
Due venditori ambulanti trascinano il loro campionario di
facezie in giro per una cittadina svedese. “Vogliamo che la
gente si diverta”, ripetono come un mantra. Ma hanno
l’aria di persone pronte a partecipare a un funerale e seguendoli nelle loro impacciate
avventure non sappiamo se ridere o piangere. I due ambulanti sono le nostre guide attraverso il meraviglioso e misterioso intreccio di Roy Andersson, capace come nessun
altro di spingerci in uno stato
di gioia lugubre. Non è possibile dare un senso a questo
ilm più di quanto sia possibile
darlo alla vita stessa. Passando da un negozio a un altro per
piazzare la loro merce i due
venditori incrociano gli altri
strani abitanti di questo ilm.
Che regista coraggioso, seducente e assolutamente inclassiicabile è Roy Andersson.
Pensa che la vita sia una commedia, la sente come una tragedia, ma attraversa questi
sentimenti conlittuali con
una splendida impassibilità. I
suoi iltri colorati bagnano il
racconto con una luce ultraterrena, come guardare l’azione all’interno di un acquario.
La sua cinepresa statica crea
dei quadri all’interno dei quali
i personaggi vanno alla deriva
come dei placidi lamantini.
Restano a una distanza issa
l’uno dall’altro: abbastanza vicini per guardarsi e studiarsi
ma non per toccarsi. Forse Andersson ci sta dicendo che
questa è la distanza a cui si
tengono gli esseri umani l’uno
dall’altro. Si esce dal cinema
Un piccione seduto su un ramo…
come in uno stato di ebrezza.
Il regista è riuscito nel suo intento: è arrivato con la valigia
piena dei suoi giochini e ci ha
fatto divertire.
Xan Brooks, The Guardian
Mortdecai
Di David Koepp. Con Johnny
Depp, Gwyneth Paltrow. Stati
Uniti 2015, 106’
●●●●●
Il ilm di David Koepp ricorda
alcune brutte commedie che
Peter Seller cominciò a fare
tra gli anni sessanta e gli anni
settanta: i peggiori ilm della
pantera rosa o quel iasco pieno di star del 1967 che fu Casino Royale. Ci si fa qualche risata, ma non abbastanza. Johnny Depp almeno all’inizio
sembra fare il suo dovere nella
parte dell’aristocratico acchiappaladri. Gwyneth Paltrow, si sa, adora sfoderare il
suo accento britannico e interpretare la tipica inglese di
alta classe. C’è un divertente
cameo di Paul Whitehouse nel
ruolo di un meccanico spagnolo e qualche gag comica
che coinvolge Paul Bettany
nella parte del tuttofare di
Johnny Depp, incline all’infortunio come alcuni personaggi
minori di Benny Hill. Il rovescio della medaglia è tragico:
una sceneggiatura ipercomplicata intorno a un Goya rubato, troppi cambi di location
(i personaggi sono sbattuti
senza motivi validi da Londra
a Los Angeles a Mosca), troppe gag su vomito e formaggio
avariato e alcuni dialoghi incredibilmente noiosi che sarebbero a malapena accettabili in una sitcom britannica degli anni settanta. David Koepp
è uno sceneggiatore di grido,
ma non dimostra una mano
fortunata nella commedia. I
produttori pensano di dar vita
a una serie, ma già il primo
sembra un ilm vecchio.
Geofrey Macnab,
The Independent
Il settimo iglio (3d)
Di Sergej Bodrov. Con
Jef Bridges. Stati Uniti/Regno
Unito 2015, 102’
●●●●●
Ogni anno, in quel piccolo
spazio tra la stagione autunnale dei premi e la follia degli
Oscar, le major gettano nella
mischia le peggiori scorie cinematograiche che gli sono
rimaste: roba che va dal brut-
Il segreto del suo volto
Birdman
Alejandro González
Iñárritu
(Stati Uniti, 119’)
to, al ridicolo, all’inspiegabile.
Anche sulla carta l’ultimo usa
e getta di febbraio, Il settimo
iglio, sembra una pessima
idea, nonostante disponga del
talento di Dante Ferretti e di
una irma con un certo credito
come quella di Sergej Bodrov.
Eppure c’è qualcuno (come
chi scrive) pronto a vedere
qualsiasi cosa se nel cast ci sono Jef Bridges, Julianne Moore, un’orda di draghi digitali e
l’adorabile Jon Snow di Trono
di spade. Il piacere maggiore
che si trae dalla visione del
ilm è immaginare cosa si potevano dire Jef Bridges e Julianne Moore, tra un ciak e l’altro, per non cedere alla disperazione.
Manohla Dargis,
The New York Times
Il segreto del suo volto
Di Christian Petzold. Con Nina
Hoss, Ronald Zehrfeld. Germania 2014, 98’
●●●●●
Creduta morta ad AuschwitzBirkenau, alla ine della seconda guerra mondiale Nelly
cambia volto e identità. Anche
il marito Johnny la crede morta e quando si rincontrano non
la riconosce. Notando una somiglianza le propone di prendere il posto della sua defunta
moglie per salvarne il patrimonio. Il segreto del suo volto è
un ilm complesso come la sua
trama, grazie anche a un ottimo lavoro di Christian Petzold: una variazione sul noir e
sulla migliore tradizione dei
ilm sentimentali. Un ilm sulla ricostruzione isica e psichica di una donna, ma anche un
modello psicoanalitico emozionante, intelligente e angosciante. Un ilm molto ambizioso anche perché Petzold ha
deciso di afondare le mani
nella storia tedesca.
Anke Westphal,
Berliner Zeitung
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
81
Cultura
Libri
Italieni
Dall’Australia
I libri italiani letti da un
corrispondente straniero.
Questa settimana l’australiano
Desmond O’Grady.
Spie improvvisate
82
I servizi segreti australiani
non erano granché
Alla base di Dirty secrets, una
raccolta di saggi curata da Me­
redith Burgmann, ex deputata
socialista del Nuovo Galles
del Sud, c’è l’idea di far com­
mentare alcune operazioni
dei servizi segreti australiani
(Asio), compiute tra il 1950 e il
1990, alle persone che furono
oggetto di quelle indagini:
giornalisti, scrittori, attivisti e
militanti, molti dei quali par­
teciparono alle manifestazio­
ni contro la guerra in Viet­
nam. Questi casi, ricostruiti in
base a documenti ora di pub­
blico dominio, testimoniano
la paranoia che regnava a
Canberra durante la guerra
fredda. Dopo un primo mo­
mento di rabbia, i “sorvegliati
speciali” si sono stupiti della
Sydney 1966. Manifestazione paciista
VIC SUMNeR (FAIRFAx MeDIA/GeTTy IMAGeS)
Paolo Maurensig
Amori miei e altri animali
Giunti, 154 pagine, 14 euro
●●●●●
Paolo Maurensig ha avuto di­
verse passioni intense ma pas­
seggere, come giocare a golf o
costruire e suonare lauti. In­
vece quella per gli animali è
una passione permanente, so­
prattutto per i cani e i gatti, ai
quali dedica questa raccolta di
saggi. Una passione nata cu­
riosamente quando aveva solo
otto anni, grazie a uno schnau­
zer gigante grigio, e maturata
parallelamente a quella per gli
scacchi che si rivelerà così uti­
le per la sua narrativa. Il libro è
ricco di rilessioni sulla natura
di cani e gatti, ma il suo fasci­
no maggiore risiede nelle sto­
rie prese dalla realtà. Come
quella del suo gatto Felix, un
guerriero, che per un anno si è
scontrato con un minaccioso
siamese. Alla ine Felix ha vin­
to, rendendo orgoglioso Mau­
rensig che però poco dopo ha
scoperto che il suo adorato
gatto aveva una seconda vita e
una seconda casa da un vicino.
Ci sono storie divertenti e as­
surde, in cui gli animali metto­
no gli uomini in diicoltà e al­
tre più complesse in cui sono
gli esseri umani a sfruttare e
maltrattare gli animali. Il sag­
gio più lungo riguarda Joyce, il
golden retriever dell’autore.
Quando ho intervistato Mau­
rensig ero convinto che il no­
me del cane fosse un omaggio
a James Joyce, ma invece non
è così, anche perché Joyce è
una femmina. Uno di quei casi
in cui il libro rivela qualcosa
dell’autore al di là della lette­
ratura.
trivialità e dell’inutilità delle
informazioni raccolte dagli
007 australiani. Il libro mo­
stra chiaramente come, per
anni, i servizi segreti austra­
liani abbiano perso tempo a
contrastare minacce inesi­
stenti. I dati non erano segreti,
quasi sempre venivano raccol­
ti grazie ad archivi pubblici o
articoli di giornale. Purtroppo
è altrettanto evidente che
l’Asio vedeva “la minaccia co­
munista” dietro ogni forma di
attivismo, associando così
umanesimo e sovversione in
modo ossessivo.
Books
Il libro Gofredo Foi
Dalla Persia all’Iran, via Parigi
Goli Taraghi
La signora melograno
Calabuig, 270 pagine, 14 euro
Una delle cose positive
dell’editoria italiana recente è
la scoperta delle letterature
dette minori, e che spesso non
lo sono afatto. Una casa edi­
trice nuova e di belle promes­
se è Calabuig, milanese. I pri­
mi volumi sono l’ambizioso
afresco di Mario Levrero (Il
romanzo luminoso), sorta di
Ulisse montevideano, e
dall’Iran, l’antica Persia, i rac­
conti di una scrittrice di una
certa età che ci era già nota
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
per Tre donne, tradotta
dall’iranista Anna Vanzan, e
che si è dedicata al racconto
invece che al romanzo rica­
vandone risultati assai belli.
Queste sette storie sono piene
di un sottile e continuo pathos
“politico” e di un’ironia afet­
tuosa e partecipe per i destini
di umani che ricostruisce, per­
lopiù borghesi travolti dalla ri­
voluzione che rovesciò lo scià
e impose Khomeini. Taraghi
emigrò allora a Parigi ma con­
tinua a far la spola con Tehe­
ran, rainando la sua cono­
scenza del genere umano e
dei paradossi della storia nel
confronto tra due società. In­
contri casuali e “casi della vi­
ta” e della storia, spesso biz­
zarri come in Gentile, ma ladro, o nel racconto dei gemel­
li. Il più complesso è narrato
in Un altro posto e quello più
comune nel racconto che dà il
titolo alla raccolta e che mi ha
ricordato La signora scende a
Pompei di Domenico Rea e mi
ha ugualmente commosso.
Madame Lupo parla di un vici­
nato francese, meno estrover­
so e più disperato, dal punto di
vista di un’immigrata. u
I consigli
della
redazione
Nihad Sirees
Il silenzio
e il tumulto
(Il Sirente)
Il romanzo
Akhil Sharma
Vita in famiglia
Einaudi, 178 pagine, 19 euro
●●●●●
Cosa vuol dire far parte di una
famiglia povera di New Delhi
emigrata in America? Vita in
famiglia racconta una storia di
perdita e di estraniamento.
Perché non è un romanzo sul
lasciare la propria patria per
un mondo nuovo dove nulla è
familiare: riguarda anche un
altro tipo di migrazione,
quella che porta una famiglia
dalla vita quotidiana in un
luogo oscuro e segreto dove il
dolore li ha rinchiusi. Scritto
dal punto di vista di Ajay, che
arriva a New York dopo
un’infanzia passata a New
Delhi e impara a crescere
come un qualunque ragazzo
del Queens, mostra una
chiara traiettoria, tipica di
tante altre storie di
emigrazione, dall’estraneo al
familiare, dove le vecchie
tradizioni fanno spazio a
nuovi costumi. Questo
modello narrativo piuttosto
comune è spezzato, tuttavia,
quando Birju, il fratello
maggiore di Ajay destinato a
grandi cose, sbatte la testa sul
bordo di una piscina e subisce
un danno permanente al
cervello. A quel punto
toccherà ad Ajay crescere e
ottenere successi al suo posto.
Il suo senso di colpa enorme e
inespresso per essere il
fratello sopravvissuto è il
centro emotivo e letterario del
libro di Sharma. È una storia
non raccontata che raggiunge
il suo apice sconvolgente nelle
ultime pagine del romanzo.
Via via che la famiglia si
americanizza e Ajay avvera le
TIM KNox (EYEVINE/CoNTRASTo)
L’altra migrazione
Akhil Sharma
promesse del fratello –
crescere al suo posto e
studiare per ottenere un
lavoro che gli consenta di
girare il mondo e mandare
alla famiglia tanti di quei soldi
da non sapere come spenderli
– assistiamo anche alla sua
completa distruzione. La
storia di Sharma è
profondamente americana
perché prende un ragazzo
povero e lo rende ricco,
esaltando le meraviglie del
mondo materiale e rivestendo
il suo eroe di uno splendore
iabesco. Ma è americana
anche nel mostrare
chiaramente le crepe che
intaccano quella stessa storia,
con il padre di Ajay che
sprofonda nell’alcolismo e
nella teledipendenza e la
madre che si chiude nel
silenzio. Come in certi libri di
Fitzgerald o di Cheever, o più
di recente di James Salter e
Louis Begley, Vita in famiglia
illumina un tipo di
sopravvivenza in America che
può rivelarsi fatale.
Kirsty Gunn, The Guardian
Sorj Chalandon
Chiederò perdono
ai sogni
(Keller)
Yves Pagès
Ricordarmi di
L’Orma, 139 pagine, 11 euro
●●●●●
Che piacere ricostruire pezzo
dopo pezzo l’itinerario di questo cinquantenne pieno di nostalgia, che ordina e disordina
i propri ricordi per riporli in
una sorta di cassa comune. Ricordarmi di, libro fatto di frammenti, autoritratto malinconico, evoca obbligatoriamente
Georges Perec, ma molto presto l’autore va a farsi un giro
nella propria esistenza in “apnea memoriale”. Ne risulta
un’opera fatta di piccoli nulla,
bagliori di realtà e dettagli che
vanno a comporre un puzzle di
centinaia di pezzi. C’è l’aneddoto condiviso: “Di non dimenticarmi che la voglia di rubare il martelletto frangicristalli che troneggia alle estremità di ogni vagone della Società nazionale delle ferrovie
francesi mi viene da lontano”.
C’è il frammento familiare:
“Di non dimenticare che non
ho mai osato dire a mia madre
quand’era viva che mio fratello
e io l’avevamo già sorpresa a
fumare alla inestra della cucina…”. C’è la rilessione sociale,
scolastica, letteraria, politica.
Spesso umoristica, insolente,
rabbiosa, a volte triste. A conti
fatti, questi “ricordarmi di”
così personali formano un
quadro puntinista di mezzo secolo di lutti, di scherzi infantili
e di lezioni di vita.
Christine Ferniot,
Télérama
Amélie Nothomb
Pétronille
Voland, 128 pagine, 14 euro
●●●●●
Com’è il nuovo libro di Amélie
Nothomb? Frizzante, come lo
champagne che scorre a iumi
in ogni pagina di Pétronille.
Nothomb padroneggia perfettamente l’arte dell’incipit:
Autori vari
Racconti di cinema
(Einaudi)
“L’ubriachezza non s’improvvisa. Rientra nel campo
dell’arte, che esige dedizione e
cura. Bere a caso non porta da
nessuna parte”. Le prime otto
pagine sono una rilessione di
grande respiro e bellezza
sull’ebbrezza. Si può non essere d’accordo ma resta il fatto
che se ne è sedotti. Un capitolo
da antologia, vivace e virtuosistico. Ma già si prepara l’intreccio: “Mi serve un compagno o una compagna di bevute”. Perché, si sarà capito, Nothomb ha dei princìpi: bere, sì,
ma mai da sola. L’incontro ha
luogo in una libreria, con una
delle sue numerose lettrici.
Pétronille Fonta, donna con i
modi di un’adolescente, l’aria
di un ragazzaccio sempre
pronto a fare a pugni, ma compagna di bevute ideale. A partire da questo incontro l’autrice racconta una storia rocambolesca che ci porta da un palazzo londinese all’ospedale
Cochin passando per un piccolo padiglione di Bobigny e la
bella stazione sciistica di Acariaz. Un’occasione di narrare
degli squarci di vita degni delle
grande commedie. In verità
questo romanzo, oltre a essere
bizzarro, è un’ode all’amicizia
(e allo champagne). Viene fuori che la compagna di bevute è
anche lei una scrittrice esigente e un po’ appartata, specialista di letteratura elisabettiana.
Raramente uno scrittore di
successo ha disegnato con tanta empatia e ammirazione il ritratto di uno scrittore meno
conosciuto.
Mohammed Aissaoui,
Le Figaro
Hakan Günday
A con Zeta
Marcos y Marcos, 447 pagine,
18 euro
●●●●●
Tutti i mali della società turca
e della modernità neoliberale
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
83
Cultura
Libri
ne che impregna la società turca, anche se cade a volte in banalità un po’ grandguignolesche.
Marc Semo, Libération
Louis Zamperini
Sopravvissuto
Newton Compton, 347 pagine,
9,90 euro
●●●●●
Zamperini cresce in una famiglia operaia italoamericana a
Torrance, in California. Tutto
quel che fa, lo fa con passione.
Prima è un delinquente incallito, poi un corridore disciplinato. Gareggia alle Olimpiadi del
1936. Entra in aviazione e nel
1943 precipita nel Paciico.
Con altri due uomini dell’equipaggio del suo bombardiere va
alla deriva per 47 giorni. Uno
dei tre muore, mentre gli altri
due sono messi in salvo, ma
dai giapponesi. Zamperini è un
atleta famoso e allora, durante
la prigionia, lo picchiano quasi
tutti i giorni, ma lo tengono in
vita perché sperano che farà
trasmissioni di propaganda in
cambio di un trattamento meno duro. Lui riiuta, e alla ine
della guerra pesa poco più di
trenta chili. Tornato a casa,
consumato dall’odio e tormentato dagli incubi, Zamperini si
dà all’alcol e allontana la moglie, Cynthia, che per disperazione lo trascina nella crociata
del predicatore Billy Graham.
Si converte al cristianesimo,
cambia vita e non torna più indietro. Perdona i giapponesi e
nel 1950 visita una prigione di
Sugamo, un quartiere di Tokyo
per portare il vangelo ai criminali di guerra. Come prigioniero, Zamperini vide nella disumanità dei campi di prigionia
la prova che la causa degli alleati era giusta. Ci si domanda
cosa avrebbe detto di Abu
Ghraib, di Guantanamo e delle
prigioni segrete della Cia.
Quella di Zamperini è una storia che sembra venire da un altro mondo, un mondo dove era
più facile tracciare la linea di
divisione tra il bene e il male.
Michael Harris,
Los Angeles Times
Non iction Giuliano Milani
Il pianeta dei libri
Pierre Bayard
Come parlare di un libro
senza averlo mai letto
Excelsior 1881, 208 pagine,
21 euro
Da qualche anno Pierre Bayard porta avanti una sua forma di critica letteraria estrema e paradossale che considera i libri più importanti dei loro
autori. L’esercizio che esprime
meglio questo suo metodo
(praticato per esempio in Chi
ha ucciso Roger Ackroyd) consiste nel ripercorrere classici del
giallo dimostrando prove alla
mano che l’assassino non è
84
quello che viene incastrato alla ine del libro, ma un altro, e
spiegando perché l’autore ha
dovuto nascondere la verità.
Dietro quest’analisi c’è la convinzione (condivisa da alcuni
grandi autori come Salman
Rushdie o Vladimir Nabokov)
che la letteratura sia a tutti gli
efetti un altro mondo, separato e indipendente da quello in
cui viviamo, che si può esplorare senza preoccuparsi necessariamente del modo e
delle intenzioni con cui è stato
generato. In questo libro Bayard trae un’altra conseguen-
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
za, ancora più sorprendente,
da questa sua idea: se i libri
costituiscono un mondo coerente e separato, una sorta di
“biblioteca collettiva”, per
parlarne non c’è bisogno di
leggerli tutti, serve piuttosto
una visione d’insieme, una conoscenza del paesaggio in cui
sono inseriti. Nasce così una
guida onesta e curiosa che riesce a esaltare la lettura come
pratica intellettuale, pur rivelando che spesso chi legge libri per mestiere in realtà si limita a scorrerli o a leggerne le
recensioni. u
Siria
DELORES jOHNSON
in generale sono denunciati
con la prosa al vetriolo che ha
reso famoso Hakan Günday.
Questo francofono e iglio di
diplomatici, afascinato dal
Viaggio al termine della notte di
Louis-Ferdinand Céline, è
considerato l’enfant terrible
della nuova generazione di
scrittori turchi. Derdâ è una ragazza curda cresciuta in un orfanotroio che è quasi un carcere, poi venduta a undici anni
dalla madre a un ricco estremista islamico che traica merci
di ogni genere per conto di una
potente confraternita per metà
religiosa e per metà maiosa.
Prigioniera al dodicesimo piano di un ricco palazzo di Londra, riesce a scappare e diventa, nuda sotto il chador, l’icona
del mondo sadomaso della città. In parallelo si svolge la storia di Derda (senza accento),
bambino poverissimo che
l’aveva incrociata prima che
partisse per Londra. Questo
romanzo duro e sconvolgente
mostra la violenza, il peso
dell’ingiustizia, la disperazio-
Sumia Sukkar
The boy from Aleppo who
painted the war Eyewear
Adam è un ragazzino siriano
con la sindrome di Asperger.
La sua mente traduce immagini, emozioni e rumori in colori,
e ama dipingere la guerra perché gli dà ininite possibilità
pittoriche. Sukkar è una giovane scrittrice di madre algerina
e padre siriano. Vive tra Londra e Abu Dhabi.
Saadallah Wannous
Four plays from Syria
Martin E. Segal theatre center
Finalmente tradotte in inglese
quattro pièce teatrali di Saadallah Wannous (1941–1997),
rappresentativi, del contributo
politico, sociale e narrativo
dell’autore siriano al teatro.
A cura di Larissa Bender
Innenansichten aus Syrien
Edition Faust
Raccolta di testimonianze di
artisti e intellettuali sulla realtà quotidiana della Siria in
tempo di guerra. Larissa Bender, docente di arabo in Germania, spiega di voler “mostrare come i siriani vivono la
distruzione del loro paese”.
A cura di Malu Halasa,
Zaher Omareen, Nawara
Mahfoud
Syria speaks Saqi Books
Raccolta di racconti, poesie,
canzoni, fumetti, poster politici e fotograie che sidano la
cultura della violenza in Siria.
Maria Sepa
usalibri.blogspot.com
Ragazzi
Ricevuti
Vite
diicili
Anghelos Trojani
Route 117
Iride, 140 pagine, 12 euro
Poesia come forma di speranza e come forma di vita, incisa
nel cammino simbolico di una
strada.
Don Claudio Burgio
e Domenico Zingaro
Ragazzi cattivi
Giunti, 192 pagine, 12 euro
“Era una giornata di sole, calda come sempre, e stavo giocando con i miei amici a calcio
in uno sterrato proprio alla ine del mio quartiere. Sembrava una giornata come tante,
insomma. E invece quel pomeriggio ho imboccato la
strada che ha cambiato per
sempre la mia vita”. Jaysi ha 11
anni, i narcotraicanti colombiani lo usano come stafetta
della droga, gli mettono una
pistola in mano, distruggono
la sua felicità. Per salvarlo la
nonna lo manda in Italia dal
padre. Ma in Europa le cose
peggiorano. Jaysi diventa un
ragazzo irrequieto, bugiardo,
randagio. Uno che ruba, uno
che se ne frega della legge. Poi
l’incontro con la comunità
Kayros di Don Claudio Burgio
(fondata nel 2000) lo cambia.
Ed è lì che i sogni fanno di
nuovo capolino nella sua vita.
Lo stesso è accaduto ad Antonino, David, Daniele, Anas,
Chilenito, Massimiliano, anche loro ragazzi non ancora
maggiorenni che hanno conosciuto la violenza e la prigione, ma soprattutto la paura e
la solitudine. Sette storie di vita che ci spiegano come può
sentirsi solo un ragazzo a cui
qualcuno mette in mano una
pistola o un panetto di hashish
da andare a vendere per strada. Non sono ragazzi cattivi,
ma solo ragazzi bisognosi
d’amore. Don Claudio Burgio
lo sa e per questo non li lascia
mai soli.
Igiaba Scego
Kurt Vonnegut
Quando siete felici, fateci
caso
Minimum fax, 107 pagine,
13 euro
Nove discorsi tenuti dallo
scrittore agli studenti dei college statunitensi: un inno
all’anticonformismo, alla creatività e alla libertà dello spirito umano.
Fumetti
Simbiosi perfetta
Gani Jakupi
e Jorge González
Ritorno al Kosovo
001 edizioni, 112 pagine,
19,90 euro
Nel restituirci il suo doloroso e
battagliero racconto di kosovaro esule in Spagna, il disegnatore, sceneggiatore, giornalista e musicista jazz Gani
Jakupi si aida al pennello di
uno dei disegnatori più interessanti degli ultimi anni, lo
spagnolo Jorge González. La
simbiosi è perfetta. Capolavoro sulla tragedia del Kosovo
(che avrebbe meritato però
una traduzione e un lettering
migliori visto lo sforzo notevole dell’editore italiano in termini di eleganza nella veste
editoriale e cura nella stampa)
è anche la quintessenza di
molti elementi di cui parliamo
spesso. Lo vediamo in dal
prologo dove González rappresenta l’indicibile mediante
immagini di un’astrazione
prossima al magma, tra fuoco
e pietra lavica. Poi ci sarà posto più volte per il disegno
d’infanzia, simbolo d’innocenza, di cui il momento più
alto è l’apparizione del volto di
una bambina (pagina 51) diafano come un fantasma, simbolo di tutte le piccole morti e
di tutte le infanzie rubate. Poi
è un lorilegio di linee di un colore sempre prossimo all’infanzia, alternato a immagini
primitive dal color terra: le sequenze festive quanto estive
della rinascita del Kosovo, dove “il 70 per cento della popolazione ha meno di trent’anni”, si alternano ad altre, come
quella di tre ragazzi “sudici,
cenciosi, chiaramente senza
niente e nessuno”, autori di un
probabile linciaggio. Infanzie
rubate a confronto: una dialettica che struttura l’intero, appassionante, racconto. Grande
lezione di graphic journalism,
che non manca di puntare il
dito contro i mezzi d’informazione e che parla di tutti con
estrema umanità partecipata,
rovesciando così la logica della
pulizia etnica.
Francesco Boille
Mimmo Franzinelli
e Nicola Graziano
Un’odissea partigiana
Feltrinelli, 220 pagine, 18 euro
Dopo la liberazione, centinaia
di ex partigiani processati per
reati gravi scontarono la loro
pena detentiva nei manicomi,
dove furono vittime di isolamento e vessazioni quotidiane
che li portarono alla pazzia e
alla morte.
Laura Pariani
Questo viaggio
chiamavamo amore
Einaudi, 196 pagine, 19 euro
Intenso romanzo sul poeta Dino Campana durante i suoi
anni di reclusione nel manicomio di Castel Pulci. La follia,
il genio, il viaggio, mai veriicato, in Argentina.
Marco Gaucho Filippi
Riso avaro. Un anno
di vignette
L’Espresso, ebook, 2,99 euro
Centoventi vignette comparse
sul blog satirico dell’autore
che, come scrive Erri De Luca
nella prefazione, non punta a
castigare i costumi, ma a farli
rinsavire.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
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Cultura
Musica
Dal Mali
The Decemberists
Milano, 1 marzo,
magazzinigenerali.it
Arriva il blues indie
Mark Lanegan Band
Bologna, 3 marzo,
estragon.it; Ciampino (Rm),
4 marzo, orionliveclub.com;
Milano, 5 marzo,
alcatrazmilano.com
Songhoy Blues è una band
arrivata dal Sahara
Katy Perry
Assago (Mi), 21 febbraio,
forumnet.it
The Subways
Milano, 28 febbraio,
lasalumeriadellamusica.it
Curtis Harding
Bologna, 27 febbraio,
covoclub.it
Peace
Segrate (Mi), 1 marzo,
circolomagnolia.it
Kitty Davis & Lewis
Terni, 3 marzo, 0744 544111;
Segrate (Mi), 4 marzo,
circolomagnolia.it
Jack Savoretti
Roncade (Tv), 27 febbraio,
newageclub.it
The Gentle Storm
Bologna, 26 febbraio,
locomotivclub.it
Cordoba Reunion
Casalgrande (Re),
28 febbraio, crossroads-it.org
The Subways
86
Garba Touré e la sua chitarra
erano una presenza familiare
nelle strade di Diré, una polverosa cittadina sulle rive del
Niger. Ma quando gli estremisti islamici hanno preso il
controllo del Mali settentrionale nella primavera del 2012
Touré ha capito che era il momento di andarsene: “Il primo gruppo di ribelli a prendere il controllo della città
non era contrario alla musica. Poi ne è arrivato un altro,
che ha ordinato agli abitanti
di smettere di fumare sigarette, bere alcolici e suonare
musica. Così mi sono sposta-
ANDY MORGAN
Dal vivo
Songhoy Blues
to nel sud”. Come migliaia di
altri profughi, ha preso una
borsa, la sua chitarra ed è andato a Bamako.
“Ho cercato di ricreare il
clima del nord con degli amici”. Così insieme al cantante
Aliou Touré e al secondo chitarrista Oumar Touré (tra loro non c’è nessuna parentela:
Touré è il cognome più difu-
so del paese) ha dato vita ai
Songhoy Blues, che sono diventati rapidamente uno
dei gruppi più popolari di
Bamako. Poi in città è arrivato il progetto Africa Express,
che unisce musicisti europei
e nordamericani, e la band
ha cominciato a lavorare con
Nick Zinner degli Yeah Yeah
Yeahs, con il quale ha registrato un pezzo per l’album
collettivo Maison des jeunes.
Ora esce il disco d’esordio,
Music in exile, e per lanciarlo
sono andati a Londra: “Non
riusciamo neanche a spiegare quanto sia enorme la nostra gioia”.
Andy Morgan,
The Guardian
Playlist Pier Andrea Canei
Trance globale
Giovanni Truppi
Lettera a papa Francesco I
“Scioglila!”. Il consiglio è
questo, tutto il resto è predicozzo, perché “ci vuole un gesto mai fatto prima, di amore
di morte e di resurrezione”, e
insomma, il coautore è Antonio Moresco, ma si pensa a
Edoardo Bennato, che tanti
anni fa strillava Afacciati affacciati! e poi “tanto sono quasi duemila anni che stai a guardare!”. Ma quello non era rivolto a un ponteice preciso, e
invece ora, col papa più pop di
tutti i tempi, il pezzo diretto
era nell’aria; e il cantautore napoletano sa snifare aria dei
tempi ed esalare parole con
una sua sfacciata scioltezza.
1
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
Sizarr
Scooter accident
Vengono da un borghetto del Palatinato questi giovani
cavalieri della malinconia mitteleuropea, ma limitano l’uso
del tedesco a poche parole tipo
Angst, che il cantante Fabian
Altstötter si incarica di modulare con quel timbro da crociato dell’esistenza che accomuna tutta una teoria di voci del
pop bianco anglosassone, da
David Bowie ai Tears for Fears.
E intanto la band crea soundscape mai banali (e per nulla
krautrock) con pochi, eicaci
settaggi elettronici, e il loro album Nurture ha una vena di
ennui esplorativo insolito senza essere straniante.
2
Africa Express
In C Mali
Una composizione datata 1964 del padre della musica
iterativa Terry Riley (un accordo in do ripetuto a oltranza, e
un set di 55 frasi melodiche da
incrociare e variare strada facendo, con strumentisti variabili all’ininito) africanizzata a
Londra sotto la direzione di
André de Ridder con Damon
Albarn, Brian Eno, e un’ammaliante selezione di musicisti
del Mali, i cui lauti e zucche
ritmiche, kalimbe, djembé e
kora e balafon, fanno spiccare
il volo, su ali di corda, legno,
lamelle di latta, pelle animale,
per una planata di 40 minuti
nel cuore della creazione.
3
Jazz/
impro
Scelti da Antonia
Tessitore
Jack DeJohnette
Made in Chicago
(Ecm)
Matana Roberts
Coin Coin chapter three:
river run thee
(Constellation)
John Tejada
Signs under test
(Kompakt)
●●●●●
Con una carriera quasi ventennale alle spalle, John Tejada è
ormai uno dei principali produttori della scena techno. Dal
2011 pubblica per l’etichetta
tedesca Kompakt, per la quale
sono usciti già l’ottimo Parabolas e il suo seguito The predicting machine. Ora è la volta di
Signs under test, che continua a
esplorare i sentieri tracciati dai
due dischi precedenti. L’ascolto dell’album produce inizialmente un dolce dolore più che
Carl Barât and The Jackals
energia. La musica è piena di
synth gorgoglianti, fendenti
acidi e riverberi simili a quelli
delle campane, e tutto è piuttosto opaco. Ma alla lunga si
capisce che dietro c’è in realtà
una composizione solida e curata nei minimi particolari. In
Beacht, per esempio, un frammento di melodia s’insinua
sotto una serie di manipolazioni tenute insieme in modo
quasi caotico. In Vaalbara, uno
dei vertici dell’album, una melodia meravigliosamente lebile si eleva da un grumo sonoro.
Signs under test dimostra che la
capacità di Tejada di costruire
album solidi è ormai completa.
Abby Garnett, Pitchfork
Subplots
Autumning
(Cableattack!!)
●●●●●
Dalle prime note della prima
canzone, Wave collapse, si capisce che l’ascolto del secondo
album dei Subplots sarà piacevole. Sono passati quasi sei anni dalla pubblicazione di Nightcycles, il primo album del duo
irlandese composto da Phil
Boughton e Daryl Chaney. Il
lungo intervallo sta a indicare
che i due musicisti amano pianiicare le cose con cura, senza
farsi condizionare dalla fretta.
Questo spirito pervade l’intero
Autumning, la cui estetica mu-
sicale ricorda un po’ band come The National e Radiohead
(in modalità sperimentale).
Pezzi come Colourbars, Future
tense, End of print e Follower si
dispiegano con grande armonia, tra melodie audacemente
commerciali o uno stile artpop non convenzionale, ma
sempre di altissima qualità.
Tony Clayton-Lea,
The Irish Times
Ibeyi
Ibeyi
(Xl Recordings)
●●●●●
Contemporaneo, antico, tropicale e cosmopolita. L’album di
debutto delle Ibeyi mette a segno un’audace serie di collisioni fra culture. I ritmi uniscono
schemi e strumenti afrocubani
a una produzione digitale di
ultima generazione, grazie al
capo della Xl Richard Russell.
Allo stesso tempo, cori yoruba
DR
Carl Barât and The Jackals
Let it reign
(Cooking Vinyl)
●●●●●
Credo che sarete perdonati se
all’inizio avrete visto con scetticismo Carl Barât and The
Jackals. I paragoni con i Libertines erano inevitabili e forse
ingiusti. Ma questa band non
è solo un hobby per il suo fondatore. Il debutto Let it reign
ne è la prova, con cui mostrano di essere accattivanti e
coinvolgenti al punto giusto.
L’album compie un balzo notevole rispetto a The Libertines
del 2004 e sembra fare riferimento più al garage punk dei
Dirty Pretty Things e alla rabbia dei primi Clash. È anche
piuttosto diverso dal disco solista di Barât, che mostrava un
lato più gentile e introspettivo
ma senza cui non sarebbe arrivato quest’ultimo: furbo,
con testi intelligenti e una
maggiore sicurezza nella
scrittura. Ed è così che si stacca anche dai suoi riferimenti e
trova una sua originalità, rimanendo onesto, pazzo e seducente. Let it reign è un’introduzione convincente.
James Reynolds, Artrocker
ROgER SARgENT
Album
Ibeyi
Daniel Carter
and Federico Ughi
Extra room
(577 Records)
trapiantati nel nuovo mondo
con la diaspora africana s’incontrano con un soul jazz impregnato di Parigi e hip-hop, a
volte nella stessa canzone
(Behind the curtain o Mama
says). E la cosa funziona. Perché le gemelle franco-cubane
Naomi e Lisa-Kainde Díaz, iglie del percussionista Angá
Díaz, mettono ordine tra queste inluenze, parlando della
morte (del padre e della sorella) e del bisogno di amore, che
sida il tempo e lo spazio.
Kitty Empire,
The Observer
Svjatoslav Richter
The complete album collection (Rca and Columbia)
(Sony Classical)
●●●●●
Le registrazioni in studio più
vecchie di questo box sono famose e ammirate da decenni:
il secondo concerto di Brahms
diretto da Leinsdorf a Chicago, il primo di Beethoven diretto da Munch a Boston e alcune sonate di Beethoven. Ma
la cosa notevole è la prima ristampa uiciale della leggendaria serie di recital alla Carnegie Hall del 1960, che era
stata ritirata dal mercato su richiesta del pianista. Riascoltati oggi questi dischi giustiicano il mito, nonostante il suono
mediocre delle registrazioni?
La risposta, senza possibile
dubbio, è sì. Sono impressionanti per molti motivi, a cominciare dalla varietà del repertorio: pochi pianisti
dell’epoca (ma anche di oggi)
aprirebbero un programma di
Schumann e Debussy con una
sonata di Haydn senza farla
sigurare. E quello dedicato
tutto a Prokofev è un vero momento storico. Richter era immenso, e questa edizione gli
rende il giusto omaggio.
David Hurwitz,
ClassicsToday
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
87
Cultura
Arte
Kazimir Malevič, Quadrato nero
DR
Storie dell’arte
Fino agli anni novanta c’erano
i giapponesi che acquistavano
gli impressionisti a un ritmo
forsennato. Oggi gallerie e
musei sono disposti a pagare
cifre folli per opere sempre più
grandi. Ma il mondo dell’arte è
sempre stato così. Nel 1937 fece notizia Arte degenerata, una
mostra organizzata a Monaco
dai nazisti; qualche mese fa lo
stesso tema è stato al centro di
una mostra a New York. Nel
1991 mercanti e appassionati
si accalcavano davanti alla galleria Sonnabend per vedere le
performance sessuali di Jef
Koons e Ilona Staller; e nel
2014, sempre a New York, una
simile folla ha accolto Koons al
Whitney Museum. Il mondo
dell’arte ha sempre agito
sull’istinto del gregge. Ma nel
corso degli anni si è trasformato in un’enclave di privilegi e
potere, con i galleristi e i mercanti che girano il mondo su jet
privati e gli artisti che vengono
inseguiti come star di Hollywood. Gli attori sono cambiati, ma i meccanismi che
mettono in moto prezzi esorbitanti, donazioni e supergallerie internazionali, rimandano
ancora a sacche di ricchezza
che provengono dall’Asia, dalla Russia, dal Medio Oriente e
da procacciatori di fondi che
vivono per strada. Si dice che i
capi di Christie e Sotheby decidano le quotazioni delle opere
in una limousine. Poi si narra
di un falso Rockwell ancora in
circolazione o di quel pomeriggio in cui gli scienziati del Museo di storia naturale di Londra dovettero sostituire uno
squalo di Hirst, appena acquistato per otto milioni di dollari,
perché si stava decomponendo. Così si perde di vista la ragione che ci lega all’arte: la pura gioia di guardare opere prodotte secoli prima o poche
ore fa. The New York Times
Londra
La rivoluzione del quadrato nero
Adventures of the black
square, Whitechapel Gallery,
Londra, ino al 6 aprile
Tanti auguri al Quadrato nero di
Malevič. L’opera simbolo del
modernismo compie cento anni e la Whitechapel celebra
quel movimento con una mostra sull’impatto che ebbes.
Malevič appare come un fulmine a ciel sereno all’ingresso
della mostra. È vero, dipingere
un quadrato nero era rivoluzionario, ma quel movimento
aveva radici nella ricerca nel
cubismo e nelle avanguardie,
che sono completamente ignorate dalla mostra. Malevič ri-
dusse la pittura ai suoi fondamentali: una forma pura in un
unico colore, senza alcuna
funzione rappresentativa. Il
suo quadrato diventò l’emblema della rivoluzione artistica e
politica che voleva spazzare
via il vecchio e aprirsi al nuovo.
La mostra procede cronologicamente ino ai giorni nostri. A
un certo livello l’astrazione si
traduce solo in quadrati, cerchi
e forme geometriche. Roba da
matematici. Per molti diventa
un vicolo cieco artistico, e il
quadrato di Malevič è la ine,
non un nuovo inizio. Negli ultimi decenni, l’era dell’ironia,
l’astrazione è apparsa come il
segno postmoderno sui primi
lavori astratti. Rosmarie
Trockel riproduce il quadrato
nero di Malevič in lana; Dan
Flavin ricrea il Monumento alla
Terza internazionale con tubi al
neon verticali. Lascia perplessi, invece, l’omissione nell’ultimo capitolo della mostra. Ovvero, come l’astrazione si sia
fatta strada nel mondo delle
grandi imprese, con loghi che
usano le forme geometriche
per evocare le caratteristiche
di un’azienda. Un argomento
che andava afrontato.
The Telegraph
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
89
Pop
Io sono stupido e cattivo
Slavoj Žižek
L
SLAVOJ ŽIŽEK
è un ilosofo e
studioso di
psicoanalisi sloveno.
È appena uscito il suo
libro L’islam e la
modernità. Rilessioni
blasfeme (Ponte alle
grazie 2015). Il titolo
originale di
quest’articolo è “Je
suis bête et méchant”.
90
a formula di identiicazione patetica “Io due sessi? L’interrogativo, insomma, è: perché i musono” o “Siamo tutti” funziona solo en- sulmani, che indubbiamente sono stati esposti a sfruttro certi limiti, oltre i quali diventa osce- tamento, dominio e altri aspetti distruttivi e umilianti
na. Sì, possiamo proclamare “Io sono del colonialismo, prendono di mira nella loro risposta
Charlie” o “Siamo tutti Charlie”, ma le quella che è (almeno per noi) la parte migliore del recose cominciano a complicarsi con taggio occidentale, il nostro egualitarismo e le nostre
esempi come “Viviamo tutti a Sarajevo!” (nei primi libertà personali, compresa la possibilità di deridere
anni novanta quando Sarajevo era sotto assedio), op- tutte le autorità? La risposta più ovvia sarebbe che
pure “Siamo tutti a Gaza!” (quando Gaza era bombar- hanno scelto bene il loro bersaglio: ciò che rende l’ocdata dall’esercito israeliano): la realtà del fatto che non cidente democratico così intollerabile non è solo che
siamo tutti a Sarajevo o a Gaza è troppo forte per essere pratica lo sfruttamento e il dominio violento, ma che,
mascherata da un’identiicazione verbaaggiungendo al danno la befa, presenta
le. Questa identiicazione diventa assur- La minaccia
questa realtà brutale con la maschera
da nel caso dei “musulmani” (Musel- terroristica è
del suo contrario, della libertà,
mannen, i morti viventi di Auschwitz- riuscita a ottenere
dell’uguaglianza e della democrazia.
Birkenau): è impossibile dire “Siamo l’impossibile:
Torniamo allo spettacolo dell’11 gentutti musulmani!” semplicemente per- riconciliare la
naio 2015, con i leader politici di tutto il
ché ad Auschwitz-Birkenau la disuma- generazione dei
mondo che si tengono per mano in segno
nizzazione delle vittime si è spinta ino al rivoluzionari del
di solidarietà con le vittime del massacro
punto che identiicarsi con loro in quadi Parigi, da Cameron a Lavrov, da Ne1968 con il loro
lunque modo signiicativo non è possibitanyahu ad Abbas: se mai c’è stata un’impeggior nemico,
le. I “musulmani” erano per l’appunto
magine di ipocrita falsità, è questa.
esclusi dallo spazio simbolico dell’iden- la polizia
Quando la processione di Parigi è passata
tiicazione di gruppo, ed è per questo che
sotto la sua inestra, un cittadino anonisarebbe stato assolutamente osceno proclamare “Sia- mo ha difuso con l’altoparlante l’Inno alla gioia di Beemo tutti Muselmannen!”: possiamo dirlo, ma chi è thoven, l’inno non uiciale dell’Unione europea, agescluso dalla categoria di soggetti così identiicati sono giungendo un tocco di kitsch politico al disgustoso
proprio i “musulmani”, vale a dire quelli con cui voglia- spettacolo messo in scena proprio dai leader che più di
mo identiicarci (all’estremo opposto, sarebbe anche tutti sono responsabili del caos in cui ci troviamo. Che
ridicolo afermare la nostra solidarietà con le vittime dire dell’oscenità del ministro degli esteri russo Lavrov
dell’11 settembre dichiarando “Siamo tutti newyorche- accanto a quei dignitari che protestavano per l’uccisiosi”: milioni di persone nel terzo mondo direbbero con ne di alcuni giornalisti? Se volesse partecipare a una
enfasi “Ci piacerebbe moltissimo diventare new- protesta simile a Mosca (dove sono stati assassinati deyorchesi, dateci un visto!”).
cine di giornalisti) verrebbe immediatamente arrestaLo stesso vale per la strage di Charlie Hebdo: pos- to! Che dire dell’oscenità di Netanyahu che si fa largo in
siamo tutti identiicarci facilmente con Charlie, ma prima ila, quando in Israele è proibito perino citare
troveremmo molto più diicile, addirittura imbaraz- pubblicamente la nakba (la catastrofe del 1948 per i pazante, gridare pateticamente “Siamo tutti di Baga!”, lestinesi)? Dov’è la tolleranza per il dolore e la soferenmanca semplicemente una base per l’identiicazione za dell’altro? E lo spettacolo era letteralmente una mes(per chi non lo sapesse: Baga è la cittadina nel nordest sa in scena: nelle immagini difuse dai mezzi d’infordella Nigeria di cui Boko haram ha ucciso tutti i due- mazione sembrava che la ila dei capi di stato e di govermila abitanti, un fatto che sarebbe piuttosto diicile no fosse alla testa di una grande folla che percorreva un
“capire” come una forma di difesa dal colonialismo viale, in segno di solidarietà e unità con il popolo. Solo
imperialista). Il nome Boko haram può essere appros- che l’evento era stato allestito per i fotograi: una foto di
simativamente tradotto come “l’istruzione occidenta- tutta la scena dall’alto mostra chiaramente che dietro i
le è proibita”, in particolare l’istruzione delle donne. politici c’erano solo un centinaio di persone e molti spaCome spiegare allora il fatto bizzarro di un grande mo- zi vuoti pattugliati dalla polizia. Di fatto, Charlie Hebdo
vimento sociopolitico il cui primo punto programma- avrebbe dovuto pubblicare in copertina una grande catico è la regolamentazione gerarchica dei rapporti tra i ricatura per prendere in giro senza ritegno questo even-
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
francesca ghermandI
to, con disegni di netanyahu e abbas, Lavrov e cameron e altre coppie che si baciano e si abbracciano calorosamente ailando i coltelli dietro la schiena.
anche se sono fermamente ateo, credo che questa
oscenità sia stata troppo anche per dio, che si è sentito
costretto a intervenire con un’oscenità degna dello spirito di charlie hebdo: mentre françois hollande abbracciava Patrick Pelloux, medico e giornalista del
settimanale, un uccello ha defecato sulla spalla sinistra
del presidente francese con lo staf della rivista che ha
dovuto cercare di nascondere le risate. Una risposta
veramente divina dalla realtà a quel disgustoso rituale.
ricorda il motivo cristiano della colomba che scende a
consegnare un messaggio divino. e poi, in certi paesi,
una colomba che ti fa la cacca in testa è un segno di
buona fortuna.
ma c’è un altro elemento dei recenti avvenimenti
francesi che è sembrato passare quasi inosservato: non
c’erano solo adesivi e manifesti con la scritta “Je suis
charlie”, ma anche adesivi e manifesti con “Je suis
lic”. L’unità di tutta la nazione celebrata in grandi manifestazioni pubbliche non era solo l’unità del popolo
che abbracciava tutti i gruppi etnici, le classi e le religioni, ma anche (e forse soprattutto) l’uniicazione del
paese con le forze dell’ordine e del controllo. La francia è uno dei pochi paesi occidentali dove i poliziotti
sono spesso protagonisti di barzellette irriverenti in
cui appaiono stupidi e corrotti (come era prassi comune nei paesi ex comunisti). Quel giorno, sulla scia
dell’attentato a charlie hebdo, la polizia è stata applaudita e lodata, abbracciata come una madre protettrice, e non solo la polizia ma anche le forze speciali
(crs, che nel 1968 erano state ribattezzate “crs ss”), i
servizi segreti, l’intero apparato della sicurezza statale. non c’è posto per snowden o manning in questo
nuovo universo. O, come ha scritto Jacques-alain miller: “Il rancore contro la polizia non è più quello di prima, tranne che per i giovani poveri di origine araba o
africana. Una cosa indubbiamente mai vista nella storia francese”. Quella che di tanto in tanto si vede nel
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
91
Pop
Storie vere
Danielle e Alexander
Meitiv, di Silver
Springs, nel
Maryland, hanno
educato i loro igli
Rai e Dvora a essere
dei bambini svegli e
indipendenti: li
hanno lasciati giocare
fuori casa, poi gli
hanno permesso di
fare dei giri
dell’isolato, poi li
hanno mandati a fare
la spesa da soli. Ora
che Rai ha compiuto
dieci anni e Dvora sei
gli hanno dato il
permesso di andare
ino a un parco che sta
a più di un chilometro
da casa: “Hanno
imparato a essere
responsabili”, ha
spiegato la madre.
Essere responsabili
non gli è bastato:
sono stati presi dalla
polizia, che li ha
riportati a casa e ha
accusato i genitori di
abbandono di minori.
“Avete idea di quant’è
pericoloso il
mondo?”, ha detto ai
genitori uno degli
agenti che ha
riportato Rai e Dvora
a casa. Ora i coniugi
Meitiv saranno
processati. “Il vero
pericolo è crescere
delle persone che non
sanno essere
autonome”, ha
dichiarato Danielle.
“Pensate che un
adulto indipendente
spunti come un genio
dalla lampada? Ci
vuole tempo”.
92
mondo e in Francia è, in rari momenti privilegiati, l’entusiastica “osmosi di una popolazione con l’esercito
nazionale che la protegge dalle aggressioni esterne.
Ma in questo caso stiamo parlando dell’afetto di una
popolazione per le forze della repressione interna”. In
breve, la minaccia terroristica è riuscita a ottenere
l’impossibile: riconciliare la generazione dei rivoluzionari del 1968 con il loro peggior nemico, la polizia. È
una sorta di versione francese del Patriot act approvato per acclamazione popolare, con la gente che si ofre
volontariamente all’oppressione.
È evidente che i momenti estatici delle manifestazioni parigine hanno dato corpo a un trionfo dell’ideologia: hanno unito il popolo contro un nemico che con
la sua fascinosa presenza cancella momentaneamente
ogni antagonismo. All’opinione pubblica è stata oferta
una scelta triste e deprimente: o sei (parte dello stesso
organismo di) un lic o sei (solidale con) un terrorista.
Ma come s’inserisce in questa alternativa l’umorismo
irriverente di Charlie Hebdo? Per rispondere alla domanda è essenziale avere presente la relazione reciproca tra i dieci comandamenti e i diritti umani come moderna antitesi, che l’esperienza della nostra società
democratica e permissiva dimostra ampiamente. I diritti umani in ultima analisi sono semplicemente il diritto di violare i dieci comandamenti. Il “diritto alla
privacy” è il diritto all’adulterio, commesso in segreto,
quando nessuno ci vede o ha il diritto di indagare nella
nostra vita. Il “diritto alla ricerca della felicità e al possesso della proprietà privata” è il diritto di rubare, di
sfruttare gli altri. La “libertà di stampa e di espressione” è il diritto di mentire, calunniare e umiliare. Il “diritto dei liberi cittadini di possedere armi” è il diritto di
uccidere. E soprattutto il “diritto di credo religioso” è il
diritto di venerare falsi dèi. Naturalmente i diritti umani non condonano automaticamente la violazione dei
comandamenti, si limitano a tenere aperta una zona
grigia marginale che dovrebbe rimanere fuori dalla
portata del potere, laico o religioso: in questa zona
oscura posso violare i comandamenti, e se il potere indaga e mi sorprende con i pantaloni calati e cerca d’impedire le mie violazioni posso gridare: “È un attacco ai
miei diritti fondamentali!”. Il fatto è che per il potere è
strutturalmente impossibile tracciare una linea di demarcazione netta e impedire l’abuso di un diritto umano senza limitarne allo stesso tempo l’uso corretto,
cioè l’uso che non viola i comandamenti.
È in questa zona grigia che rientra l’umorismo di
Charlie Hebdo. Il settimanale nacque nel 1970 come
successore di Hara-Kiri, una rivista messa al bando
perché aveva scherzato sulla morte del generale de
Gaulle. Quando un lettore accusò Hara Kiri di essere
bête et méchant (stupido e cattivo) la frase fu scelta come slogan uiciale della rivista ed entrò nella vita quotidiana. È questa la zona grigia di Charlie Hebdo: non
una satira benevola ma, letteralmente, stupida e cattiva. Sarebbe stato molto più appropriato per le migliaia
di manifestanti dichiarare “Je suis bête et méchant”
invece del piatto “Je suis Charlie”. Le manifestazioni
parigine di solidarietà sono state efettivamente bêtes
et méchants.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
Anche se in certe situazioni può apparire rigenerante, l’atteggiamento bête et méchant di Charlie Hebdo è chiaramente limitato dal fatto che la risata di per
sé non è liberatoria, ma profondamente ambigua. Il
contrasto tra i solenni e aristocratici spartani e gli allegri e democratici ateniesi fa parte della nostra comune
visione dell’antica Grecia. Questa visione popolare,
tuttavia, non coglie il fatto che gli spartani, molto orgogliosi della loro severità, mettevano il riso al centro
della loro ideologia e della loro prassi perché lo consideravano un potere che aiuta ad accrescere la gloria
dello stato (gli ateniesi, al contrario, limitavano legalmente questa risata sguaiata ed eccessiva come una
minaccia allo spirito di un rispettoso dialogo democratico in cui non dovrebbe essere permessa nessuna
umiliazione dell’avversario). Il tipo di risata degli spartani – l’irrisione di un nemico o di uno schiavo umiliato
per schernire i suoi timori e la sua soferenza da una
posizione di potere – sopravvive ancora oggi: la troviamo, tra l’altro, nei discorsi di Stalin quando si befa del
panico e della confusione dei “traditori”, nel torturatore che schernisce i deliri confusi delle sue vittime più
morte che vive e nelle belle maniere del gentiluomo
che si fa gioco dei goi tentativi dei suoi servi di imitarlo. Il problema dell’umorismo di Charlie Hebdo non
era che esagerava con l’irriverenza, ma che era un eccesso innocuo che si adattava perfettamente al cinico
funzionamento egemonico dell’ideologia nelle nostre
società. Non rappresentava in alcun modo una minaccia per i potenti, rendeva semplicemente più tollerabile il loro esercizio del potere.
S
u questo sfondo si dovrebbe afrontare il
tema delicato degli stili di vita. Mentre nelle società laiche e democratiche dell’occidente il potere statale protegge la libertà
pubblica e interviene nello spazio privato
(per esempio quando sospetta abusi sull’infanzia), queste intrusioni nello spazio domestico, la
violazione della sfera privata, non sono ammesse dalla
legge islamica, anche se la conformità del comportamento pubblico può essere molto più rigorosa: per la
comunità, quello che importa è la prassi sociale del soggetto musulmano – comprese le dichiarazioni verbali –
non i suoi pensieri interiori, quali che possano essere.
Anche se il Corano dice “chi vuole creda, e chi non vuole respinga la fede”, questo diritto a pensare qualunque
cosa si desideri non comprende il diritto di esprimere le
proprie convinzioni religiose o morali pubblicamente
con l’intenzione di convertire la gente a un falso impegno. Per questo i musulmani ritengono impossibile rimanere in silenzio davanti alla blasfemia: la loro reazione è così appassionata perché, per loro, la blasfemia
non è né libertà di espressione né la sida di una nuova
verità, ma qualcosa che cerca di distruggere una relazione viva. Dal punto di vista dell’occidente c’è ovviamente un problema con entrambi i termini di questo
né/né: e se la libertà di espressione dovesse includere
comportamenti che possono distruggere una relazione
viva? E se anche una nuova verità potesse avere lo stesso efetto distruttivo? L’universo scientiico non tende
frANCESCA gHErMANdI
forse a questo? E se una nuova consapevolezza etica fa
apparire ingiusta la vecchia relazione viva?
Se per i musulmani non solo è impossibile rimanere
in silenzio davanti alla blasfemia, ma anche rimanere
inattivi – e questa urgenza di fare qualcosa può comportare gesti violenti e omicidi – allora la prima cosa da
fare è collocare questo atteggiamento nel suo contesto
contemporaneo. Non vale esattamente lo stesso per il
movimento antiabortista cristiano? Anche per loro è
impossibile rimanere in silenzio davanti a centinaia di
migliaia di feti uccisi ogni anno, una strage che paragonano all’olocausto. È qui che comincia la vera tolleranza, la tolleranza di quello che sentiamo impossibile da
sopportare (l’impossible-à-supporter, come lo chiama
Lacan). E a questo livello il politicamente corretto della
sinistra si avvicina al fondamentalismo religioso, con
un elenco di cose davanti alle quali è impossibile rimanere in silenzio, come sessismo, razzismo e altre forme
di intolleranza. Cosa succederebbe, poniamo, se un
giornale scherzasse apertamente sull’olocausto? È facile deridere le norme con cui i musulmani regolano i
dettagli della vita quotidiana (una caratteristica, sia
detto per inciso, che condividono con il giudaismo),
ma che dire dell’elenco politically correct dei tentativi di
seduzione che possono essere considerati molestie o
delle storielle che sono ritenute razziste o sessiste?
Quella che andrebbe sottolineata qui è la contraddizione intrinseca alla posizione della sinistra: la posizione
libertaria dell’ironia e dello sberlefo universale, la derisione di tutte le autorità, spirituali e politiche (la posizione incarnata da Charlie Hebdo), tende a scivolare
nel suo contrario, un’accentuata sensibilità per il dolore e l’umiliazione dell’altro.
È a causa di questa contraddizione che gran parte
della sinistra ha reagito alla strage di Parigi seguendo
uno schema prevedibile e deplorevole: anche se sospettavano giustamente che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nello spettacolo della solidarietà
unanime con le vittime, la loro distanza critica ha preso
una piega totalmente distorta nel momento in cui sono
riusciti a condannare il massacro solo dopo lunghe e
noiose precisazioni del tipo “anche noi siamo colpevoli”. Questo timore che, condannando apertamente la
strage, s’incoraggi in qualche modo il pericolo dell’islamofobia è assolutamente sbagliato sul piano politico
ed etico. Non c’è nulla di islamofobico nel condannare
risolutamente l’attentato di Parigi, così come non c’è
nulla di antisemitico nel condannare con fermezza la
politica di Israele nei confronti dei palestinesi. Nel momento in cui si cerca un qualche equilibrio arriva il fallimento politico.
Quanto all’idea che dovremmo contestualizzare e
“capire” l’attentato di Parigi, anche questo è del tutto
fuorviante. Se mai c’è stata una stupidità assoluta mascherata da profonda saggezza, è il detto: “Un nemico
è qualcuno di cui non hai sentito la storia”. Il migliore
esempio letterario di questa tesi è Frankenstein di Mary
Shelley. Shelley fa una cosa che un conservatore non
avrebbe mai fatto. Nella parte centrale del romanzo
permette al mostro di parlare per se stesso, di raccontare la storia dal suo punto di vista. Questa scelta espri-
me l’atteggiamento democratico nei confronti della
libertà di espressione nella sua versione più radicale:
bisognerebbe sentire il punto di vista di tutti. In Frankenstein il mostro non è una cosa, un oggetto orribile
che nessuno osa afrontare: è pienamente soggettivizzato. Mary Shelley si muove nella sua testa e si chiede
cosa signiichi essere etichettato, bollato, oppresso,
scomunicato, perino isicamente distorto dalla società. Il criminale assoluto può così presentarsi come la
vittima assoluta. L’assassino assoluto si rivela un essere
profondamente ferito e disperato, che desidera ardentemente compagnia e amore.
Ma questo metodo ha un limite evidente: siamo anche disposti ad afermare che Hitler è un nemico solo
perché la sua storia non è stata ascoltata? Per me è vero
il contrario, più conosco e capisco Hitler, più è mio nemico. Perché capire il male non signiica perdonarlo,
signiica analizzare come funziona e perché: in questo
modo il male non è afatto relativizzato o ammorbidito.
Questo signiica anche che, afrontando il conlitto israelopalestinese, bisognerebbe attenersi a criteri freddi e
spietati, sospendendo l’impulso a cercare di capire la
situazione: bisognerebbe resistere incondizionatamente alla tentazione di capire l’antisemitismo arabo come
una reazione “naturale” alla triste sorte dei palestinesi,
o di capire le misure israeliane come una reazione “naturale” sullo sfondo della memoria dell’olocausto. Non
dovrebbe esserci comprensione per il fatto che in molti
se non quasi tutti i paesi arabi Hitler è ancora considerato un eroe e i sussidiari riprendono tutti i tradizionali
miti antisemitici, dai famigerati e falsi protocolli dei
savi di Sion agli ebrei accusati di usare il sangue dei
bambini cristiani (o arabi) a scopi sacriicali. Sostenere
che questo antisemitismo esprime con una dislocazione la resistenza al capitalismo non lo giustiica in nessun modo (lo stesso vale per l’antisemitismo nazista,
che a sua volta traeva energia dalla resistenza anticapitalista): la dislocazione qui non è un’operazione seconInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015
93
Pop
daria, ma il gesto fondamentale di una mistiicazione
ideologica. Quello che questa tesi implica davvero è
l’idea che, a lungo termine, l’unico modo per combattere l’antisemitismo non è predicare la tolleranza democratica, ma dare voce in modo diretto alle motivazioni
anticapitalistiche che la sostengono.
Il punto centrale è quindi proprio non interpretare o
giudicare singoli atti collocandoli in un contesto più
ampio, ma estrapolarli dal loro tessuto storico: le azioni
dell’esercito israeliano in Cisgiordania non devono essere giudicate sullo sfondo dell’olocausto, e il fatto che
molti arabi esaltino Hitler o che in Europa le sinagoghe
siano profanate non deve essere giudicato come una
reazione sbagliata ma comprensibile a quello che gli
israeliani stanno facendo in Cisgiordania. Quando
qualunque protesta contro le attività dell’esercito israeliano in Cisgiordania viene condannata come
un’espressione di antisemitismo e – almeno implicitamente – equiparata a una difesa dell’olocausto, quando
l’ombra dell’olocausto è costantemente evocata per
neutralizzare qualunque critica alle operazioni militari
e politiche d’Israele, non basta insistere sulla diferenza tra l’antisemitismo e la critica di particolari misure
dello stato d’Israele: bisognerebbe fare un passo avanti e sostenere che è lo stato di Israele, in questo caso, a
profanare la memoria delle vittime dell’olocausto, manipolandole spietatamente e strumentalizzandole per
legittimare le sue attuali politiche. Questo signiica che
bisognerebbe respingere seccamente l’idea stessa di
un rapporto logico o politico tra l’olocausto e le attuali
tensioni israelopalestinesi. Si tratta di due fenomeni
totalmente diversi: il primo appartiene alla storia europea di resistenza conservatrice alle dinamiche della
modernizzazione, mentre il secondo è uno degli ultimi
capitoli nella storia della colonizzazione. D’altra parte,
i palestinesi hanno davanti a sé il diicile compito di
accettare che il loro vero nemico non sono gli ebrei, ma
gli stessi regimi arabi che manipolano la sorte del po-
polo palestinese proprio per impedire la loro radicalizzazione politica fuori da Israele.
Un’aggravante dell’odierna situazione in Europa è
la crescita dell’antisemitismo: per esempio a Malmö,
in Svezia, la minoranza musulmana aggressiva molesta gli ebrei al punto che hanno paura di camminare per
strada nei loro abiti tradizionali. Questi fenomeni dovrebbero essere apertamente e univocamente condannati: la lotta contro l’antisemitismo e la lotta contro
l’islamofobia dovrebbero essere considerate due
aspetti della stessa lotta. Ben lontana dal rappresentare
una posizione utopistica, questa necessità di una lotta
comune si basa sulla constatazione che la soferenza
estrema ha conseguenze di vastissima portata. Mi viene in mente un passaggio di Vivere ancora, le memorie
di Ruth Klüger sulla esperienza di Auschwitz-Birkenau.
Durante una visita in Israele con un amico, la scrittrice
incontra un sopravvissuto all’olocausto che parla dei
palestinesi della Cisgiordania in termini apertamente
razzisti deinendoli ladri, pigri e terroristi che vanno
cacciati via da quella terra. Il suo amico è sconvolto da
tanta furia e le dice che non riesce a capire come una
persona che ha vissuto Auschwitz-Birkenau e ne conosce tutte le soferenze possa parlare in quel modo. Ma
Ruth gli risponde che l’orrore estremo di AuschwitzBirkenau non lo ha reso un luogo capace di puriicare le
vittime e trasformarle in superstiti eticamente sensibili privi di ogni meschino interesse egoistico. Al contrario, parte dell’orrore di Auschwitz-Birkenau è che ha
disumanizzato anche molte delle sue vittime, facendone esseri brutalmente insensibili che non sono più in
grado di esercitare l’arte del giudizio etico equilibrato.
La lezione da trarre è che dobbiamo abbandonare
l’idea di trovare qualcosa di emancipatore nelle esperienze estreme, come se potessero insegnarci a fare
chiarezza e aprire i nostri occhi alla verità ultima di
una situazione. Questa, forse, è la lezione più triste del
terrore. u gc
Scuole Tullio De Mauro
Due vie
Il 9 febbraio nelle discussioni in
Francia su ciò che la scuola fa o
non fa per educare ai valori della
repubblica e al riiuto del terrorismo sono intervenuti anche il primo ministro Manuel Valls e la ministra dell’istruzione Najat Vallaud-Belkacem: gli insegnanti saranno coinvolti in progetti per capire come far lezione sui valori civici e repubblicani. Ma queste lezioni, si obietta, non servono se
poi fuori della scuola sussistono
drames, chaos et ruptures. La scuola dunque non può fare nulla?
94
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
Qualcuno prospetta un’altra via:
un’istruzione che funzioni davvero, eicace per tutti.
Nel suo blog di esperienze didattiche Monsieur Samovar spiega: bisogna trascinare tutti, anche
gli allievi usciti dalla banlieue più
sfavorita, a sgobbare per capire
con la loro testa ogni più arduo argomento, magari Le Cid di Corneille. Solo così spezzerete la barriera che separa gli allievi svantaggiati dai Pierini del dottore. Questa è la scuola democratica che
realizza i valori della repubblica.
Molto tempo fa un vecchio professore (si chiamava Luigi Fiorito)
raccontò una storia: ai tempi
dell’impero zarista un ispettore
generale entra in una classe e
ascolta paziente una lezione di
matematica. Alla ine dell’ora
chiama da parte l’insegnante e gli
dice: “Voi non insegnate ad amare
lo zar”. E quello: “Ma io insegno
matematica!”. E l’ispettore: “Sì,
ma l’insegnate senza farla capire,
senza appassionare gli alunni.
Così voi non insegnate l’amore
per lo zar”. u
Scienza
LUCAS JACkSoN (REUtERS/CoNtRASto)
New York, luglio 2014
A gara di previsioni
Il vantaggio più evidente dell’Ecmwf è
la sua potenza di calcolo. Il supercomputer
Cray XC30 può eseguire ino a due milioni
di miliardi di calcoli al secondo, circa dieci
volte di più dell’hardware del Gfs prima
dell’aggiornamento. Può quindi suddividere l’atmosfera terrestre in sottili celle di 16
chilometri quadrati con 137 livelli verticali
contro i 27 chilometri quadrati e i 64 livelli
del vecchio Gfs. Le proiezioni dell’Ecmwf,
inoltre, sono costruite a partire dal clima
delle ultime 12 ore grazie a 40 milioni di dati raccolti da stazioni di terra, aerei, sonde e
satelliti. Il Gfs, invece, parte dalla situazione di un singolo momento. L’Ecmwf, inine, è stato il primo a usare i satelliti per acquisire dati mancanti sugli oceani e a sviluppare le “previsioni di ensemble”, che generano una serie di previsioni possibili a
partire da condizioni iniziali leggermente
diverse. Il modello attuale ne genera 52 in
parallelo, ciascuna con il suo grado di probabilità.
I soldi non bastano
The Economist, Regno Unito
Gli europei parlano del tempo
più spesso degli americani e
sono anche più bravi a
prevederlo. Ma ora gli Stati
Uniti stanno cercando di
colmare la distanza
stata una vittoria troppo piccola
perché si possa parlare di rimonta.
Ma i meteorologi statunitensi hanno comunque esultato quando la
tempesta che a gennaio si è abbattuta sulla
costa orientale del paese ha lasciato la città
di New York quasi illesa. Da più di vent’anni
il Global forecast system (Gfs), il principale
modello per le previsioni meteo degli Stati
Uniti, è sensibilmente meno accurato del
suo più importante concorrente, lo European centre for medium-range weather forecasts (Ecmwf ). Lo scarto tra i modelli, passato inosservato per anni, è emerso chiaramente nel 2012 con Sandy. Una settimana
prima che l’uragano si abbattesse sulla terraferma, l’Ecmwf aveva previsto che avrebbe virato verso la costa, mentre secondo il
Gfs sarebbe rimasto sul mare.
Il congresso statunitense ha reagito al
è
96
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
iasco del Gfs destinando alle previsioni
meteo 34 milioni di dollari in più. Il 14 gennaio una nuova versione del Gfs è entrata
in funzione e due settimane dopo ha dato
un’ottima prova di sé. Il 25 gennaio l’Ecmwf
aveva previsto che il 27 a New York sarebbero caduti 64 centimetri di neve portati da
una tempesta. Il Gfs, che di centimetri ne
aveva previsti 18, si è avvicinato molto di
più alla realtà.
Ma per gli americani è ancora presto per
esultare. è vero che il Gfs è stato più preciso
sulla traiettoria della tempesta, ma la sua
proiezione relativa al fronte occidentale
diferiva solo di duecento chilometri rispetto a quella dell’Ecmwf, pochissimo per una
previsione meteorologica. La discrepanza
è stata notata solo perché riguardava la città più popolosa del paese. Inoltre, potrebbe
essere stata solo fortuna. Nel complesso, in
tre settimane di funzionamento il nuovo
Gfs è stato meno preciso dell’Ecmwf.
La sua buona prestazione durante la
tempesta di gennaio, però, consola chi temeva che in campo meteorologico gli Stati
Uniti non avrebbero mai raggiunto l’Europa. Le previsioni sono molto complicate e
in genere si perfezionano accumulando
lentamente piccoli progressi.
Anche se i meteorologi statunitensi possono usare il modello dell’Ecmwf, hanno ancora buoni motivi per non farlo. Le aziende
private devono pagare per avervi accesso,
ed è improbabile che gli europei sviluppino
modelli regionali o locali speciici per gli
Stati Uniti. Senza contare che il nuovo Gfs
ha senza dubbio accorciato le distanze: pur
avendo ancora 64 livelli verticali, ora ha
una risoluzione di 13 chilometri ed entro
novembre dovrebbe girare su un computer
più veloce di quello dell’Ecmwf. Nel caso in
cui il congresso repubblicano eletto a novembre decidesse di reintrodurre il Weather forecasting improvement act proposto
l’anno scorso, poi, potrebbero arrivare altri
aggiornamenti, anche se c’è da aspettarsi
che i repubblicani poco convinti del riscaldamento globale chiedano di non destinare
alla ricerca sul cambiamento climatico il
grosso dei 120 milioni di dollari all’anno in
più previsti da quella legge.
Secondo Clif Mass, docente di meteorologia alla Washington university, a Seattle, i soldi non basteranno per raggiungere
gli europei. Gli Stati Uniti dovrebbero accorpare gli organismi dedicati alla ricerca e
alle previsioni, e accogliere più contributi
di esperti non governativi.
Ma forse è più facile fare delle buone
previsioni del tempo che promuovere un
cambiamento culturale nell’imponente
burocrazia pubblica. u sdf
SALUTE
si stima che negli stati uniti
ogni anno muoiano 480mila
persone per malattie legate al
tabagismo come il cancro al polmone, l’infarto e l’ictus. Ma le
sigarette in realtà provocherebbero tra i 60 e i 120mila decessi
in più per patologie che di solito
non compaiono nella lista nera
delle 21 malattie associate al fumo. l’American cancer society
ha esaminato dieci anni di dati
sullo stato di salute di quasi un
milione di statunitensi con più
di 55 anni tra fumatori, non fumatori ed ex fumatori. ne è
emerso che i tabagisti hanno
tassi di mortalità maggiori per
diverse patologie formalmente
non legate al fumo, come insuficienza renale, infezioni, cirrosi
epatica, ischemia intestinale,
malattie respiratorie, cancro al
seno e alla prostata. Il peso del
tabacco sulla società è stato sottovalutato, scrivono i ricercatori
sul New England of Journal
of Medicine. si stima che ogni
anno nel mondo il fumo uccida
quasi sei milioni di persone.
Clima
Raccolti sempre più scarsi
Pnas, Stati Uniti
880 milioni
Paleontologia
vivono
nei paesi a medio
e basso reddito
Fonte: Oms
IN BREVE
Salute Al contrario di quanto
indicato da ricerche precedenti,
il consumo di alcol potrebbe
non proteggere dalle malattie
cardiovascolari. secondo il British Medical journal, gli studi
sull’alcol sono stati poco obiettivi, anche perché hanno messo a
confronto i “consumatori” di alcolici e i “non consumatori”,
senza considerare che questi ultimi potevano essere stati forti
bevitori in passato e quindi essere meno in salute.
APrIl I. neAnDer, un. oF CHICAgo
1,1 miliardi
Insieme a nuove politiche agricole e
ambientali, il cambiamento climatico
ha probabilmente contribuito alla
stagnazione della produttività
agricola in europa, scrivono i
Proceedings of the national
Academy of sciences, indicando
l’Italia tra i paesi più penalizzati. lo
studio parte dalla constatazione che i
raccolti nel continente europeo hanno mostrato nel
complesso una situazione di stallo, con regioni nelle quali
la produttività è aumentata e altre nelle quali è diminuita.
In particolare, sono state analizzate le rese di frumento,
mais, orzo e barbabietola da zucchero tra il 1989 e il 2009.
nel modello sono stati inseriti i cambiamenti del regime
delle piogge e delle temperature. si è scoperto che la
variazione del clima a lungo termine può giustiicare un
calo delle rese di frumento in media del 2,5 per cento e di
quelle dell’orzo del 3,8 per cento, e un piccolo aumento
della resa del mais e della barbabietola. l’efetto medio del
cambiamento climatico in europa è quindi stato
abbastanza limitato. Tuttavia, l’area mediterranea è stata
inluenzata in modo più netto e negativo. “l’impatto è
stato maggiore in alcune regioni: la combinazione della
tendenza al riscaldamento e all’inaridimento in Italia è
stata particolarmente dannosa”, scrivono i ricercatori. u
Fumatori nel mondo
AnjulI BArBer (MesserlI r. I.)
Tutti i danni
delle sigarette
La varietà dei primi mammiferi
sono stati scoperti in Cina due fossili di mammiferi risalenti a un periodo compreso tra i 170 e i 145 milioni di anni fa, nel giurassico. le
due specie, tra le più antiche dei mammiferi, mostrano forti segni di
specializzazione e adattamento all’ambiente. Il Docofossor brachydactylus era simile alle attuali talpe, mentre l’Agilodocodon scansorius (nel disegno) viveva sugli alberi come i ghiri. sembra quindi
che, malgrado la competizione dei dinosauri, i primi mammiferi siano riusciti a occupare diverse nicchie ecologiche, scrive Science. u
ETOLOGIA
Sensibilità
canine
I cani riescono a distinguere un
viso sorridente da uno arrabbiato, anche in persone sconosciute. Questa capacità potrebbe essere sorta durante il processo di
addomesticamento, scrive Current Biology. è possibile che gli
animali usino la loro esperienza,
cioè la memoria dei visi, per capire le manifestazioni emotive.
Finora si pensava che solo le
persone potessero riconoscere
un’emozione in un’altra specie.
RICERCA
L’élite
accademica
l’analisi delle carriere accademiche di quasi 19mila ricercatori negli stati uniti ha fatto emergere una struttura fortemente
gerarchica che rivela una profonda disuguaglianza sociale. Il
prestigio dell’università in cui si
è studiato è un indicatore più afidabile delle classiiche di merito per prevedere le possibilità di
assunzione. solo il 10 per cento
dei docenti o ricercatori universitari lavora per un’istituzione
più “prestigiosa” di quella dove
ha conseguito il dottorato.
Dall’analisi compiuta dall’équipe dell’informatico Aaron Clauset emerge inoltre che le donne
ottengono posizioni leggermente peggiori dei colleghi maschi,
scrive Science Advances. Per
quanto riguarda le scienze informatiche, ai primi posti della
classiica delle università statunitensi più prestigiose secondo
Clauset ci sono, nell’ordine,
stanford, Berkeley, l’Mit, il Caltech, Harvard e la Cornell.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
97
Il diario della Terra
Ethical living
-56,1 °C
Kyusyur,
Siberia
Stati
Uniti
4,3 M
Stati Uniti
Egitto
Messico
4,9 M
Higos
Australia
5,2 M
Argentina
6,7 M
Fundi
46,7°C
Mandora,
Australia
dARIo GIANA (REUTERS/CoNTRASTo)
Argentina
Tempeste di sabbia Una
tempesta di sabbia ha costret­
to le autorità a chiudere il ca­
nale di Suez, in Egitto.
Svizzera
Regno
Unito Una coppia di
Aquile
3,9 M
aquile di mare dalla testa
bianca, simbolo degli Stati
Uniti, ha nidiicato a New
York per la prima volta da più
di un secolo. La specie era
stata dichiarata a rischio di
estinzione nel Mozambico
paese nel 1967,
ma da allora la situazione è
migliorata.
Cordoba, Argentina
Alluvioni Almeno sette
persone sono morte nelle allu­
vioni che hanno colpito la pro­
vincia di Cordoba, nel centro
dell’Argentina. Circa mille
persone sono state costrette a
lasciare le loro case.
98
India
4,5 M
Oceani
Si stima che ogni
anno siano riversati tra i cin­
que e i 13 milioni di tonnellate
di plastica negli oceani. Sedici
dei venti paesi più inquinanti
sono a medio reddito, come
Cina, Indonesia e Filippine,
con un’economia in espansio­
ne, ma senza infrastrutture
per il trattamento dei riiuti.
Secondo Science, se non sarà
preso alcun provvedimento,
entro il 2025 la quantità di
residui di plastica riversati
ogni anno in mare potrebbe
raddoppiare.
dEP. oF CoNSERvATIoN/REUTERS/CoNTRASTo
Neve Il nordest degli Stati
Uniti è stato colpito da una
grande tempesta di neve, con
temperature inferiori di 17 gra­
di alle medie stagionali.
Nuova
Zelanda
climatiche attuali e passate,
ricostruite attraverso la lettura
degli anelli degli alberi, con le
proiezioni future di 17 modelli
climatici, hanno calcolato
l’arrivo di una siccità tra il
India
2050 e il 2099 che potrebbe
durare venti, trenta o anche
cinquant’anni.
Siccità I ricercatori del
Goddard institute for space
studies della Nasa prevedono
l’arrivo di un lungo periodo
di siccità negli Stati Uniti
sudoccidentali e nelle Grandi
pianure. Sarebbe la peggiore
siccità degli ultimi mille anni,
scrivono su Science Advances.
Confrontando le condizioni
Terremoti Un sisma di ma­
gnitudo 6,9 sulla scala Richter
ha colpito il nordest del Giap­
pone, causando uno tsunami
di venti centimetri. Scosse più
lievi sono state registrate nel
nord dell’Australia, nel nord­
ovest dell’Argentina, nel nord­
ovest del Messico e alle isole
statunitensi Hawaii.
Cicloni Cinque persone so­
no morte nel passaggio del ci­
clone Fundi sul Madagascar.
u Il tifone Higos si è formato a
est di Guam, nel Paciico.
Giappone
6,9 M
Balene Almeno 103 balene pilota sono morte dopo essersi
arenate su una spiaggia a Cape Farewell, in Nuova Zelanda.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
Pelle
e pellicce
Considerato che mangiamo
grandi quantità di carne e
usiamo scarpe, borse e porta­
fogli di pelle, non è un’ipocri­
sia riiutare le pellicce? Secon­
do il Guardian, non ci sono
dubbi che sia l’industria delle
pellicce sia quella del cuoio
possono essere molto crudeli e
inliggere grandi soferenze
agli animali. L’organizzazione
Peta ha raccolto video racca­
priccianti di allevamenti di
animali usati per la produzio­
ne di cuoio e pellicce. Anche
se si trovano in paesi occiden­
tali, che hanno norme per il ri­
spetto del benessere degli ani­
mali, alcuni stabilimenti ten­
gono gli animali rinchiusi in
gabbie piccolissime, senz’ac­
qua né cibo. Condizioni inna­
turali che inducono gli animali
al cannibalismo e all’autole­
sionismo. Inoltre, le industrie
di trasformazione sono spesso
inquinanti. Un esempio è il
fiume Buriganga, in Bangla­
desh, inquinato dalle concerie
ed ecologicamente morto.
Tuttavia, “l’industria delle
pellicce crea più gas serra e in­
quinamento dell’acqua e
dell’aria di ogni altro prodotto
tessile”, precisa il quotidiano
britannico. Le pellicce sinteti­
che non sono una vera alterna­
tiva. Certo, non vengono dagli
animali, ma non sono ecologi­
che: perché derivano dal pe­
trolio e perché non sono bio­
degradabili. Poiché il cuoio è
spesso un sottoprodotto della
produzione di carne, pone un
po’ meno problemi. Alcuni
produttori stanno cercando di
migliorare il settore, riciclando
il vecchio cuoio, usando meto­
di di produzione innovativi e
sostanze vegetali per la con­
ciatura.
Il pianeta visto dallo spazio 24.01.2015
La nascita di un iceberg in Antartide
Nord
2 km
EARthOBSERvAtORy/NASA
Baia Breid
Iceberg
Piattaforma King Baudouin
u Nell’Antartide occidentale i
grandi iceberg si staccano regolarmente dalle piattaforme di
ghiaccio galleggianti. Invece la
costa dell’Antartide orientale,
più fredda e asciutta, è meno attiva. Il distacco di un pezzo di
ghiaccio di settanta chilometri
quadrati dalla piattaforma King
Baudouin a gennaio ha quindi
suscitato un certo interesse,
perché l’ultima formazione di
un grande iceberg in questa regione risale agli anni sessanta.
Prima che il blocco di ghiaccio si staccasse del tutto, i satelliti hanno osservato per diverse
settimane la zona, rilevando
una spaccatura al limitare del
ghiacciaio. Il satellite Landsat 8
ha scattato questa foto il 24 gennaio. Poi le nuvole hanno impedito la visuale del Landsat, ma il
28 gennaio un radar del satellite
Sentinel-1, dell’Agenzia spaziale
europea (Esa), ha rilevato l’iceberg mentre si allontanava dalla
piattaforma. Ora si trova nella
baia Breid, al largo della terra
della regina Maud.
La formazione di nuovi iceberg dalle piattaforme di ghiaccio galleggiante, attaccate alle
calotte che coprono la terraferma, è un processo comune.
Quando sulle calotte si accumula la neve, i ghiacciai scivolano
verso il mare ed è inevitabile
L’Operational land imager
a bordo del Landsat 8 ha
scattato questa foto di un
iceberg che sta per staccarsi
dalla piattaforma King
Baudouin il 24 gennaio.
u
che alcuni pezzi si stacchino.
Poiché le piattaforme sono già
galleggianti, l’iceberg generato
non incide sul livello dell’acqua
del mare.
La nascita di questo iceberg
non sembra indicare un indebolimento della piattaforma King
Baudouin. In un’intervista pubblicata dall’International polar
foundation, Reinhard Drews,
glaciologo dell’Università libera
di Bruxelles, ha spiegato che le
misurazioni della velocità di
movimento del ghiaccio dagli
anni sessanta a oggi indicano
che la piattaforma non è cambiata molto negli ultimi
decenni.–Adam Voiland (Nasa)
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
99
HArry CHOI (TONGrO IMAGeS/COrbIS/CONTrASTO)
Tecnologia
Il buco nero dei bit
Ian Sample, The Guardian, Gran Bretagna
I ile in cui archiviamo le foto e
i documenti nella speranza di
conservarli a lungo potrebbero
rivelarsi inutili. Perché la
tecnologia su cui si basano
cambia molto in fretta
na grande quantità di contenu­
ti digitali (blog, tweet, imma­
gini e video, ma anche docu­
menti come email ufficiali e
sentenze dei tribunali) potrebbe sparire a
causa della scomparsa dei programmi ne­
cessari per visualizzarli. Lo ha spiegato
Vint Cerf, vicepresidente di Google, in oc­
casione dell’incontro annuale dell’Ameri­
can association for the advancement of
science a San Jose, in California.
Secondo Cerf potremmo avere una
“generazione dimenticata o addirittura un
secolo dimenticato” a causa del bit rot (de­
terioramento del software), il processo che
rende inutilizzabili i ile dei vecchi compu­
ter. Per questo dovremmo trovare un siste­
ma per conservare i vecchi software e
hardware in modo da poter recuperare i
formati che non si usano più. “Se pensia­
U
mo alla quantità d’informazioni sulla no­
stra vita quotidiana archiviate in formato
digitale, è evidente che rischiamo di per­
dere una parte enorme della nostra storia”,
ha messo in guardia Cerf.
Il joystick in soitta
Tutto questo evidenzia un aspetto para­
dossale della tecnologia. Oggi archiviamo
in formato digitale la musica, le foto, le let­
tere e altri documenti nella speranza che
sopravvivano più a lungo. Ma mentre i ri­
cercatori migliorano i sistemi di archivia­
zione, i programmi e l’hardware per visua­
lizzare questi ile diventano presto obsole­
ti. “Senza accorgercene stiamo buttando
tutti i nostri dati in quello che potrebbe di­
ventare un buco nero dell’informazione.
Digitalizziamo tutto perché pensiamo che
questo basti a preservare i nostri ricordi,
ma non capiamo che se non facciamo qual­
che passo in più queste versioni digitali
potrebbero essere anche più fragili dei
contenuti che abbiamo digitalizzato”, ha
spiegato Cerf al Guardian. “Se avete foto­
graie a cui tenete particolarmente, vi con­
viene stamparle”.
Le civiltà del passato non avevano que­
sti problemi. Gli storici che scrivevano sul­
le tavolette d’argilla o sui papiri avevano
bisogno solo degli occhi per leggere. Per
esaminare la cultura di oggi, invece, gli
studiosi del futuro dovranno gestire pdf e
centinaia di altri tipi di ile che possono es­
sere interpretati solo con certi tipi di soft­
ware e hardware. Il problema esiste già.
Negli anni ottanta era normale salvare i
documenti sui floppy disk, caricare il
videogioco Jet Set Willy da una cassetta sul­
lo ZX Spectrum, uccidere alieni con un
joystick Quickire II e conservare le cartuc­
ce dei videogiochi Atari in soitta. Oggi,
anche se le cassette, i dischi e le cartucce
sono in buone condizioni, gli strumenti per
usarli si trovano solo nei musei.
L’ascesa dei videogiochi ha un ruolo
importante nella storia della cultura digi­
tale, ma secondo Cerf a inire nel bit rot
saranno anche importanti documenti poli­
tici e storici. Nel 2005 la storica americana
Doris Kearns Goodwin pubblicò un’opera
in cui racconta come il presidente Lincoln
avesse voluto nel suo governo alcuni di
quelli che lo avevano sidato per la presi­
denza. Kearns aveva fatto il giro delle bi­
blioteche statunitensi per trovare le lettere
delle persone coinvolte, ricostruendo così
i loro scambi. “Nel mondo di oggi quelle
lettere sarebbero email, e la possibilità di
ritrovarle tra cent’anni sarebbe minima”,
spiega Cerf. Il vicepresidente di Google
ammette che gli storici faranno il possibile
per conservare il materiale importante, ma
spesso l’importanza di un documento può
essere colta solo dopo secoli.
Alla Carnegie Mellon university di
Pittsburgh, in Pennsylvania, hanno trovato
una soluzione (parziale) al problema del
bit rot. Qui Mahadev Satyanarayanan scat­
ta istantanee dei dischi rigidi mentre ese­
guono diversi software e poi le carica su un
computer che imita le apparecchiature su
cui funzionano quei software. Il risultato è
un computer che può leggere ile altrimen­
ti irrecuperabili. Ma inventare nuove tec­
nologie è appena metà dell’opera.
La parte più diicile riguarda i problemi
legali: quando le aziende tecnologiche fal­
liscono o smettono di aggiornare i loro pro­
dotti possono venderne i diritti, rendendo
quasi impossibile ottenere le autorizzazio­
ni necessarie. “Per fare le cose come si de­
ve, i diritti di conservazione devono essere
inclusi nel nostro modo di intendere il
copyright e i brevetti. Stiamo parlando di
conservare per centinaia o addirittura mi­
gliaia di anni”, spiega Cerf. u as
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
101
Economia e lavoro
responsabilità non sono chiare”, spiega Roane. Con la nuova legge le amministrazioni
locali dovranno suddividere i debiti in categorie distinte. Nel primo gruppo rientreranno i progetti pubblici importanti ma non
autosuicienti a livello economico, come le
scuole, i ponti e i sistemi fognari. Queste
spese saranno registrate nei bilanci dei governi locali e saranno inanziate attraverso
il nuovo mercato obbligazionario, spiega
Louis Kuijs, economista della Royal Bank
of Scotland a Hong Kong. I prestiti ricevuti
per costruire strutture commerciali (alberghi, uici o palazzi residenziali di lusso),
invece, saranno scorporati e classiicati come debiti commerciali, dice Kuijs. Il governo sta anche cercando di inserire alcuni investimenti privati in una terza categoria di
opere pubbliche in grado di produrre utili,
come i sistemi idrici urbani.
JASoN Lee/FILeS (ReuteRS/CoNtRASto)
Pechino, Cina
Pechino prova
a limitare i debiti
Dexter Roberts, Bloomberg Businessweek, Stati Uniti
Il governo cinese ha deciso di
ridurre la dipendenza delle
amministrazioni locali dai canali
di inanziamento informali
creando un mercato uiciale
delle obbligazioni
hiudere la porta sul retro,
aprire quella principale”. È
lo slogan usato per la riforma delle inanze statali cinesi più ambiziosa degli ultimi vent’anni.
L’obiettivo della legge, che entrerà in vigore
alla ine del 2015, è eliminare la dipendenza
delle amministrazioni locali (migliaia tra
città, province e comuni pesantemente indebitati) dai inanziamenti informali oferti sia dalle banche sia dagli istituti non regolamentati che formano la cosiddetta inanza ombra. In futuro i fondi necessari per
sostenere la rapida urbanizzazione del paese (per costruire infrastrutture e inanziare
i programmi pensionistici) arriveranno da
un mercato obbligazionario locale e regolamentato dalla legge. “Lo sviluppo di un
mercato obbligazionario locale è una pietra
miliare”, commenta Debra Roane, respon-
“C
102
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
sabile crediti di Moody’s Investors Service.
“Quando le amministrazioni locali emetteranno titoli a proprio nome, sarà chiaro che
se ne assumono anche la responsabilità, e
di conseguenza prenderanno decisioni più
prudenti”.
L’ultima grande riforma iscale attuata
in Cina risale alla metà degli anni novanta,
quando l’allora vicepremier Zhu Rongji restituì al governo centrale il controllo delle
inanze pubbliche. Da allora le amministrazioni locali si trovano di fronte a un dilemma: ricevono la metà del gettito fiscale
complessivo del paese, ma devono coprire
l’80 per cento di tutte le spese statali, tra cui
quelle per le scuole, per le strade e per l’assistenza sanitaria. Finora, inoltre, i governi
locali non potevano contrarre debiti direttamente dalle banche e non erano autorizzati a emettere obbligazioni. La conseguenza è stata lo sviluppo di un vasto settore informale formato da circa diecimila società
inanziarie che procurano alle amministrazioni locali i fondi necessari. Grazie a queste aziende sono state intraprese iniziative
apparentemente folli, come l’ediicazione
di interi quartieri che oggi sono quasi disabitati. “Il risultato è una situazione decisamente rischiosa e poco trasparente, in cui le
Progetto pilota
Nel 2009 il ministero delle inanze ha lanciato un progetto pilota per valutare l’eicacia di un mercato obbligazionario locale. Il
suo sviluppo è stato controllato rigorosamente, e le rendite non sono state determinate dal mercato. I titoli emessi, per un valore totale di 1.200 miliardi di yuan, sono
stati comprati quasi esclusivamente dalle
banche di stato, che li conserveranno ino
alla scadenza. “Dal momento che si trattava di quantità ridotte, gli istituti di credito
sono stati disposti a comprare”, dice Chen
Long, del centro di ricerca GavekalDragonomics. “Ma la situazione non è sostenibile.
In futuro, quando le amministrazioni vorranno vendere molto di più, sarà più diicile trovare acquirenti”. Secondo Chen, infatti, il mercato dovrebbe diventare dieci volte
più grande per soddisfare i loro bisogni.
La riforma delle finanze locali arriva
mentre città e province sono sempre più a
corto di liquidità. A causa della crisi del settore immobiliare, nel quarto trimestre del
2014 la vendita di terreni, che è un’importante fonte di inanziamento locale, è diminuita del 21,5 per cento. Se le autorità prenderanno davvero provvedimenti contro i
canali inanziari non regolamentati, le città
e i comuni afronteranno una stretta iscale
che ostacolerà ulteriormente l’economia.
“Nei prossimi mesi si tornerà alle vecchie abitudini”, dice Andrew Polk, economista del China center for economics and
business. “Dicono di voler chiudere la porta
sul retro, ma è probabile che poi siano costretti a riaprirla”. u fp
KrISTIAN HeLGeSeN (BLooMBerG/GeTTy)
Giappone
ZIMBABWE
Nostalgia
monetaria
Ripresa debole
Tra il 2008 e il 2009, con l’inlazione alle stelle, lo Zimbabwe
ha deciso di abbandonare la
propria moneta adottando il
dollaro statunitense. L’operazione, spiega l’Economist, ha portato diversi vantaggi: più disciplina di bilancio, meno inlazione, più stabilità economica. Ma
ora che l’economia è di nuovo in
diicoltà, si sente la mancanza
di una valuta locale. L’economia
del paese è tenuta i piedi dalle
rimesse degli emigrati, che ammontano in media a 500 dollari
all’anno, mentre il deicit pubblico sale e gli aiuti stranieri sono in forte calo. così nel paese si
discute se reintrodurre il dollaro
zimbabwiano. “A gennaio, intanto, il governo ha lanciato le
bond coin, monete che possono
essere usate solo in Zimbabwe”.
Più disciplina
di bilancio
Il governatore della banca centrale norvegese, Øystein olsen
(nella foto), ha esortato il governo a una maggiore attenzione
nella gestione del bilancio pubblico. olsen, spiega la Neue
Zürcher Zeitung, si riferisce
all’uso del fondo sovrano in cui
conluiscono i proventi del gas e
del petrolio. Il fondo, il più grande al mondo nel suo genere, oggi ammonta a circa 900 miliardi
di dollari. Il governo può spendere solo la rendita annuale del
fondo, che inora è stata del 4
per cento. ora però la banca
centrale prevede che il calo del
prezzo del greggio e la crisi possano ridurre stabilmente la rendita a meno del 3 per cento.
“Negli ultimi tre mesi del 2014 il Giappone è riuscito a
superare la recessione”, scrive il Guardian. Il pil del paese
asiatico, infatti, è aumentato dello 0,6 per cento rispetto al
trimestre precedente, mentre la crescita relativa all’intero
anno è stata del 2,2 per cento. Il dato, però, è ben al di sotto
delle previsioni, che parlavano di una crescita annuale del
3,7 per cento. La ripresa giapponese, quindi, “è ancora
fragile”. Secondo gli analisti, il motivo è che sia i consumi
delle famiglie sia gli investimenti delle imprese non hanno
raggiunto un livello suiciente “per dare una spinta
decisiva all’economia nazionale”. u
TECNOLOGIA
SVIZZERA
Perquisita
la banca Hsbc
Il 18 febbraio la polizia ha perquisito a Ginevra gli uici della
iliale svizzera della banca britannica Hsbc. Gli inquirenti,
spiega la Bbc, hanno aperto
un’inchiesta sull’istituto per riciclaggio di denaro e potrebbero
estendere l’indagine a persone
esterne alla banca. Secondo i
documenti pubblicati da un suo
ex dipendente, la iliale svizzera
dell’Hsbc “aiutava ricchi clienti
da tutto il mondo a eludere il isco del loro paese”. Fino al 2007
l’istituto ha oferto conti esteri
protetti dal segreto bancario a
107mila clienti di 203 paesi.
I robot fermano
la crescita
“Il progresso tecnologico potrebbe essere bloccato dai pochi
investimenti e dalla prevalenza
di prospettive a breve termine
nelle scelte economiche. Alla ine, un maggiore uso dei robot
rischia solo di penalizzare l’occupazione”. Lo ha detto Andrew
Haldane, il capo economista
della Banca d’Inghilterra, scrive
il Daily Telegraph. La nuova
rivoluzione industriale annunciata dalle macchine, ha spiegato, “avrà efetti sull’occupazione e sulla disparità di reddito
ancora impossibili da prevedere. L’aumento della disuguaglianza, comunque, potrebbe
bloccare la crescita, perché por-
ta le famiglie più povere a investire di meno nell’istruzione dei
igli”. Mentre le rivoluzioni registrate negli ultimi 250 anni hanno garantito salari più alti e un
generale miglioramento del livello di vita, ha aggiunto l’economista, “la combinazione di
fattori sociologici che caratterizza l’avvento dei robot potrebbe mettere a rischio i vantaggi
della nuova rivoluzione industriale”. Alla ine, ha concluso
Haldane, “potrebbero aver ragione i pessimisti”, cioè gli
esperti che prevedono “alti livelli d’indebitamento, disparità
di reddito e stagnazione economica e demograica”. Una conclusione, osserva il Daily Telegraph, che ricorda il concetto di
“stagnazione secolare” ripreso
dall’economista statunitense
Larry Summers.
PHILIMoN BULAwAyo (reUTerS/coNTrASTo)
NORVEGIA
DAvID MAreUIL (ANADoLU AGeNcy/GeTTy)
Tokyo, Giappone
Harare, Zimbabwe
IN BREVE
Stati Uniti La bolla dei prestiti
agli studenti negli Stati Uniti assume proporzioni sempre più
preoccupanti. Secondo uno studio della Federal reserve di New
york pubblicato il 17 febbraio,
alla ine del 2014 il totale dei
prestiti agli studenti ha raggiunto i 1.160 miliardi di dollari, una
cifra superiore al debito accumulato dalle carte di credito in
tutto il paese. Negli ultimi tre
mesi del 2014 i prestiti agli studenti sono aumentati dell’11,4
per cento. Questo tipo di credito
riguarda 40 milioni di statunitensi, ognuno dei quali deve restituire in media 30mila dollari.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
103
L’oroscopo
Rob Brezsny
“Non è normale sapere cosa vogliamo”, diceva lo psicologo Abraham Maslow. “È una conquista psicologica rara e diicile”. Questa è la cattiva notizia, Pesci. Quella
buona è che forse sei sul punto di smentire la teoria di Maslow.
Nelle prossime settimane avrai più probabilità che in passato di
capire cosa vuoi. Ti consiglio di celebrare un rituale in cui ti impegni a smascherare questo prezioso segreto. Scrivi un comunicato
uiciale in cui dichiari la tua intenzione di comprendere a fondo i
motivi per cui sei su questo pianeta.
ARIETE
La tua intelligenza ha molte sfaccettature, ognuna
delle quali matura in tempi diversi. Per esempio, è possibile che la
tua capacità di pensare in modo
simbolico evolva più lentamente
di quella di pensare in modo
astratto. E che la tua comprensione del comportamento umano
maturi più rapidamente della
profonda consapevolezza delle
tue emozioni. Nelle prossime settimane un particolare aspetto
della tua intelligenza farà uno
scatto in avanti: la comprensione
delle esigenze del tuo corpo e del
modo di soddisfarle.
TORO
ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI
Qual è la miscela giusta
per te in questi giorni? Il 51
per cento di piacere e il 49 per
cento di dovere? O il contrario?
Lascio a te la scelta, Toro. Qualunque decisione prenderai, ti
consiglio di provare a intrecciare
piacere e dovere il più spesso possibile. Sei in una di quelle fasi in
cui succede di tutto e il divertimento si sposa bene con l’ambizione. Immagino che riuscirai a
stringere rapporti fecondi alle feste e scommetto che saprai rendere più piccante la tua vita sociale sfruttando le tue esperienze di
lavoro.
GEMELLI
Nel 1900 i matematici più
famosi del mondo si incontrarono a Parigi per un congresso.
Il genio tedesco David Hilbert
presentò la sua lista di 23 problemi matematici irrisolti. All’epoca
nessuno aveva mai fatto un inventario così completo. La sua sida determinò la direzione che
avrebbe preso la ricerca matema-
tica nel corso del novecento. Oggi
Hilbert è considerato un profetico
anticipatore. Mi piacerebbe che tu
compilassi l’elenco dei tuoi principali problemi irrisolti, Gemelli. In
questo momento hai una particolare capacità di prevedere su quali
progetti faresti bene a lavorare e
con quali dovresti giocare nei
prossimi anni.
CANCRO
Spanipelagic è l’aggettivo
che gli scienziati inglesi
usano per deinire quelle creature
che vivono nelle profondità del
mare e aiorano molto raramente
in supericie. Questa parola non è
una metafora perfetta per te, visto
che sali in supericie abbastanza
spesso per riprendere iato. Ma in
questa fase tendi a trattenerti più
a lungo negli abissi, tutto preso da
oscuri misteri e incommensurabili emozioni. Almeno secondo la
mia lettura dei presagi astrali. Ma
prevedo che da un momento
all’altro riemergerai dall’abisso e
resterai a galla per molto tempo.
sfruttare la saggezza che cresce
dentro di te mentre sei disteso
al buio.
VERGINE
Edward Albee scrisse il
dramma teatrale Chi ha
paura di Virginia Woolf? nel 1962.
L’opera vinse molti premi e le
compagnie teatrali la rappresentano ancora oggi. Albee ha raccontato di aver trovato il titolo in un bar
di New York. Dopo aver inito la
sua birra, era andato in bagno e
sullo specchio aveva visto la scritta
“Chi ha paura di Virginia Woolf?”.
Nei prossimi giorni ti consiglio di
prepararti a cogliere questo tipo di
ispirazioni, Vergine: inaspettate,
provocatorie e fuori contesto.
Quando dobbiamo prendere una decisione importante, a volte diciamo che vogliamo “dormirci sopra”. Rimandiamo la scelta inale a quando avremo raccolto più informazioni e
compreso meglio tutta la faccenda. E a volte per riuscirci serve sul
serio una bella dormita. Quello
che succede nei sogni può rivelarci sfumature che da svegli sfuggono alla nostra coscienza. E anche
se non ricordiamo i sogni, mentre
dormiamo la nostra mente elabora e passa in rassegna tutte le possibilità. Nelle prossime settimane
ti consiglio di fare ampio uso di
questa strategia, Leone. Impara a
Nel racconto Bartleby lo
scrivano, di Herman Melville, un avvocato assume nel suo
studio un uomo di nome Bartleby.
All’inizio è un impiegato modello,
che svolge i suoi compiti con
grande impegno e serietà. Ma un
giorno cambia tutto. Quando il
suo capo gli assegna un incarico
speciico, Bartleby comincia a dire “preferirei di no”. Con il passare dei giorni lavora sempre meno,
ine a quando smette di fare qualsiasi cosa. Vorrei che ti ispirassi a
lui, Sagittario. Non hai già fatto
abbastanza? Non meriti una pausa per ricaricare le tue batterie
psicospirituali? Io dico di sì.
CAPRICORNO
BILANCIA
Il re inglese Edoardo III
ammirava molto il poeta
Geofrey Chaucer. Nel 1374 gli
promise un grande dono come
prova dell’ammirazione che aveva
per il suo talento: un gallone di vino al giorno per tutta la vita. Se
fossi stato al posto di Chaucer, non
avrei gradito un regalo simile. Non
riuscirei a combinare niente se bevessi sedici bicchieri di vino ogni
24 ore. Non sarebbe stato meglio
uno stipendio regolare? Tieni a
mente questa storia, Bilancia,
mentre pensi ai beneici o ai premi
che potresti ricevere. Chiedi quello che ti serve veramente, non sei
costretta ad accettare quello che ti
ofrono.
SCORPIONE
LEONE
SAGITTARIO
Per preparare il cocktail
Sex on the beach (sesso
sulla spiaggia) bisogna mescolare
succo di mirtillo, di arancia e di
ananas, grappa alla pesca e vodka. Esiste anche una versione alternativa chiamata Safe sex on
the beach (sesso sicuro sulla
spiaggia): si fa con gli stessi succhi
di frutta ma senza alcol. Vista la
probabilità che il tuo adolescente
interiore svolga un ruolo importante nelle tue prossime avventure, Scorpione, ti consiglio di scegliere la versione sicura. Almeno
per il momento, è meglio mettere
freno alla turbolenta energia giovanile e imprevedibile che preme
per esplodere.
“Tutta la vita è un esperimento. Più esperimenti fai
meglio è”, diceva il ilosofo Ralph
Waldo Emerson. Se per tua natura non sei portato a cogliere la
saggezza di questo atteggiamento, nelle prossime tre settimane ti
invito a giocarci un po’. Non devi
farlo per sempre. Non deve diventare un tratto permanente della
tua ilosoia. Solo per un po’, considera la possibilità che molti
esperimenti potrebbero aiutarti a
scoprire non solo nuove verità,
ma nuove verità divertenti, interessanti e utili.
ACQUARIO
Le opere d’arte del pittore
dell’Acquario Armand
Guillaumin (1841-1927) sono
esposte nei musei più prestigiosi.
Non è famoso come i suoi amici
impressionisti Paul Cézanne e
Camille Pissarro, ma esercitò una
grande inluenza su entrambi. Ci
mise molto tempo a raggiungere
il successo, perché per guadagnarsi da vivere doveva lavorare.
Ma a cinquant’anni vinse una bella somma alla lotteria e da quel
momento si dedicò a tempo pieno
alla pittura. Non dico che presto ti
capiterà una fortuna simile, Acquario, ma queste cose a volte
succedono. Penso che il tuo reddito potrebbe aumentare. E le tue
probabilità di avere un colpo di
fortuna cresceranno se ti impegnerai a migliorare i doni che hai
da ofrire ai tuoi simili.
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015
105
internazionale.it/oroscopo
PESCI
COMPITI PER TUTTI
In quale campo della tua vita t’impegni
più di quanto dovresti? E in quale
non t’impegni abbastanza?
kroll, le soIr, BelgIo
gaDo, the DaIly natIon, kenya
L’ultima
Un’altra barca africana diretta in europa.
kal, the eConomIst, regno UnIto
BénéDICte, 24 heUres, sVIzzera
Benjamin netanyahu: “ebrei d’europa, ricordate… allora
venite in Israele. e votate per me”.
tavola rotonda: la libertà d’espressione.
BarsottI
glez, BUrkIna Faso
Vladimir Putin e il cessate il fuoco in Ucraina: “Che c’è?
non vi idate di me?”.
la libia prima e dopo gheddai.
“mi dispiace, l’ha mancato per un soio.
È appena andato a casa”.
Le regole Fare battute
1 Il vero talento non è fare battute, ma scegliere il momento. 2 “Dovevi esserci per capire” è la frase con
cui inisce una storia che non fa ridere. 3 Quando copi la battuta di un qualcun altro su Facebook,
ricordati di iltrarlo. 4 Vuoi essere sicuro di far ridere tutti? Fai solo battute su te stesso. 5 Dire “scherzavo”
per rimediare a una brutta igura peggiora solo le cose. [email protected]
106
Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015