La vergogna delle caste
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La vergogna delle caste
n. 1090 • anno 22 Slavoj Žižek Io sono stupido e cattivo PI, SPED IN AP, DL ART DE BE CH IL MONDO IN CIFRE DCB VR • UK EURO 20/26 febbraio 2015 Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo La vergogna delle caste La democrazia indiana ha consolidato il sistema delle caste anziché abolirlo. E l’occidente lo giustifica come parte integrante della cultura indù internazionale.it Art Spiegelman Libertà d’espressione e fondamentalismo 3,00 € Libia La rivoluzione negata 20/26 febbraio 2015 • Numero 1090 • Anno 22 “I diritti umani in ultima analisi sono semplicemente il diritto di violare i dieci comandamenti” Sommario sLAvoj ŽiŽek, pAgiNA La settimana 20/26 febbraio 2015 Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo n. 1090 • anno 22 Slavoj Žižek Io sono stupido e cattivo internazionale.it Art Spiegelman Libertà d’espressione e fondamentalismo 3,00 € Libia La rivoluzione negata iN copertiNA La vergogna delle caste Segno ARUNDHATI ROY La vergogna delle caste La democrazia indiana ha consolidato il sistema delle caste anziché abolirlo. E l’occidente lo giustiica come parte integrante della cultura indù La democrazia non ha sradicato il sistema delle caste, ma l’ha consolidato e modernizzato. E l’occidente spesso lo giustiica come parte integrante della cultura indù. L’articolo di Arundhati Roy (p. 40). Foto di Chiara Goia Giovanni De Mauro LibiA 14 Rivoluzione 16 negata The Guardian L’avamposto nordafricano The Telegraph ucrAiNA 26 Una tregua fragile dopo gli accordi Kommersant dANimArcA 28 Il terrorismo arriva a Copenaghen Politiken AsiA e pAcifico 32 Malesia The Economist Americhe 34 Cuba El País ArgeNtiNA 48 Le bugie di Buenos Aires ProPublica siriA 54 Radio Siria libera The New York Times Magazine scieNzA tecNoLogiA 60 Quanto dura 101 Il buco nero dei bit The Guardian il presente New Scientist portfoLio 64 Le foto dell’anno ecoNomiA e LAvoro 102 Pechino prova a limitare i debiti Bloomberg Businessweek World Press Photo ritrAtti 70 Hervé Falciani cultura Le Monde viAggi 80 74 L’autobus turco e le sue regole The Saturday Paper grAphic jourNALism 76 Cartolina da Taiwan Clément Baloup cuLturA 78 L’eroe Le opinioni 22 pop e cattivo Slavoj Žižek Amira Hass 36 Paul Krugman 38 Rami Khouri 82 Gofredo Foi 84 Giuliano Milani 86 Pier Andrea Canei 94 Tullio De Mauro del Times The New York Times 90 Io sono stupido Cinema, libri, musica, arte Le rubriche 10 Posta 11 Editoriali 105 L’oroscopo 106 L’ultima scieNzA 96 A gara di previsioni The Economist Articoli in formato mp3 per gli abbonati Le principali fonti di questo numero New Scientist È un settimanale britannico di divulgazione scientiica. L’articolo a pagina 60 è uscito il 7 gennaio 2015 con il titolo The time illusion: how your brain creates now. The New York Times Magazine È il magazine della domenica del New York Times. L’articolo a pagina 54 è uscito il 4 dicembre del 2014 con il titolo Radio-Free Syria. Politiken È un quotidiano danese fondato nel 1884, di orientamento liberale. L’articolo a pagina 28 è uscito il 16 febbraio 2015 con il titolo I to årtier har vi målrettet styret mod konfrontationen - nu har vi fået den. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 3 internazionale.it/sommario David Carr, il giornalista del New York Times morto a 58 anni la sera di giovedì 12 febbraio nella redazione del suo giornale, lasciava il segno in tutti quelli che incontrava. Chi l’ha visto a Ferrara, al festival di Internazionale, ricorderà una persona fuori del comune. Alto, magro, il suo corpo e la sua voce roca portavano i segni di un tumore e della dipendenza dall’alcol e dal crack, di cui si era liberato e che aveva raccontato in un’autobiograia, The night of the gun. Appena arrivato a Ferrara con la moglie Jill, si era stupito per l’eicienza della rete ferroviaria italiana rispetto a quella statunitense e per l’ineicienza della rete tecnologica: in albergo aveva combattuto per ore prima di riuscire a collegarsi a internet. Al New York Times si occupava di mezzi d’informazione e di industria editoriale. Il suo modo di scrivere riletteva la sua personalità e il suo modo di stare al mondo. Era curioso e generoso (“Ti dicono sempre che devi guarire per il tuo bene, ma ho smesso di preoccuparmi solo dei cazzi miei quando mi sono ricordato che esistono anche i cazzi degli altri”). Era sempre disponibile: rispondeva a tutte le email che riceveva, e certamente ne riceveva tante (“Quando mi chiedono come mi guadagno da vivere, qualche volta sono tentato di dire che scrivo email”). Aveva un grande senso dell’umorismo. Era critico, ma mai cinico. La sua scrittura era precisa, chiara, semplice, il suo stile personale. Aveva una dote rara: diceva sempre quello che pensava, in modo diretto e spesso brutale, senza però mai ferire. Era spietato innanzitutto con se stesso e inlessibile con il suo giornale, che pure amava e rispettava e per il quale ha scritto 1.776 articoli in tredici anni. Per molti giornalisti è stato un mentore, un consigliere, un amico. In rete si trovano tanti video di suoi interventi, discorsi e lezioni. Chiunque voglia fare il mestiere di giornalista dovrebbe cominciare da lì. Non stupisce che per l’ultimo saluto a David Carr l’immensa sala centrale del grattacielo del New York Times costruito da Renzo Piano fosse piena come lo è solo quando vengono annunciati i premi Pulitzer. u Immagini Sabbia e macerie Gaza, Palestina 11 febbraio 2015 Una tempesta di sabbia nel quartiere Al Shejaiya, bombardato dagli israeliani durante il conlitto dell’estate 2014. Secondo i dati dell’Onu, nella Striscia di Gaza più di centomila persone sono rimaste senza casa e, a quasi sei mesi dal cessate il fuoco, la ricostruzione non è ancora cominciata. Dopo l’ondata di maltempo di metà gennaio, che ha provocato alcune vittime e creato ulteriori disagi ai profughi, tra il 10 e l’11 febbraio la Striscia di Gaza è stata colpita da una tempesta di sabbia che ha toccato anche Israele, il Libano e l’Egitto. Foto di Mohammed Abed (Afp/Getty Images) Immagini Tornare a scuola Pibor, Sud Sudan 10 febbraio 2015 Durante la cerimonia di disarmo dei bambini soldato nella città di Pibor, nel Sud Sudan orientale. Circa trecento ragazzi tra gli 11 e i 17 anni sono stati rilasciati dalla Cobra faction, il gruppo di ribelli che si oppone al governo sudsudanese nello stato di Jonglei, e hanno consegnato armi e uniformi sotto la supervisione dell’Unicef. Secondo le Nazioni Unite, nel 2014 in tutto il paese più di dodicimila bambini sono stati reclutati dall’esercito e dai gruppi ribelli. Il 12 febbraio è stata la giornata mondiale contro lo sfruttamento dei bambini nei conlitti armati. Foto di Samir Bol (Anadolu Agency/Getty Images) Immagini Ritmo di carnevale São Paulo, Brasile 14 febbraio 2015 Il carro della scuola di samba Nenê de Vila Matilde, fondata nel 1949, durante la parata di carnevale a São Paulo. Questa edizione è stata vinta dalla scuola di samba Vai-Vai con un tributo alla cantante brasiliana Elis Regina, una delle maggiori interpreti della musica popolare brasiliana, che a marzo avrebbe compiuto settant’anni. Da mesi lo stato di São Paulo è alle prese con una gravissima siccità, ma la pioggia caduta durante i giorni di carnevale ha fatto aumentare le riserve del sistema Cantareira, che fornisce acqua alla città. Foto di Andre Penner (Ap/Ansa) [email protected] I ragazzi scomparsi u In merito agli articoli di John Gibler e Diego Enrique Osorno (Internazionale 1089), mi permetto di segnalare che il governo della repubblica ha attuato ogni sforzo nella ricerca e nell’indagine riguardante i 43 studenti, e ha assicurato che ci sarà giustizia e una pena per i responsabili di questi deplorevoli fatti. Il Messico è una federazione, pertanto non esiste un unico corpo di polizia a livello nazionale. Quanto accaduto coinvolge elementi della polizia locale di Iguala, nonostante ciò il governo federale ha preso il caso al ine di coadiuvare le indagini con le autorità dello stato di Guerrero. È stata un’indagine dettagliata e scrupolosa, e l’applicazione della giustizia, sempre nel rispetto dei diritti umani dei detenuti e delle vittime, avverrà insieme al dovuto processo. I legali dei familiari hanno avuto accesso diretto agli 85 tomi e ai 13 allegati del fascicolo dell’inchiesta. Durante l’indagine, sono state realizzate 487 perizie scientiiche, in diversi settori speciici, che supportano e convalidano scientiicamente ogni parte della ricostruzione dei fatti. Per quanto riguarda le indagini, a oggi sono state arrestate 99 persone (tra cui il sindaco di Iguala e sua moglie, autori intellettuali), sono state raccolte 386 deposizioni e sono state realizzate due ricostruzioni dei fatti. Il Messico è aperto allo scrutinio internazionale. Dietro invito del Messico la Commissione interamericana dei diritti umani ha nominato un gruppo di esperti indipendenti per analizzare le indagini. Il 2 e 3 febbraio una delegazione uiciale è comparsa presso il comitato sulle sparizioni forzate delle Nazioni Unite a Ginevra per rispondere su questo tema. I lettori interessati a ulteriori informazioni possono visitare il sito della presidenza messicana (bit.ly/1Ldpz7s) e quello dell’ambasciata del Messico in Italia (bit.ly/1ASGb1l). Miguel Ruiz-Cabañas Ambasciatore del Messico in Italia crisi del Veneto (Internazionale 1089). Finalmente ho potuto leggere un resoconto equilibrato sulla situazione della mia (ex) regione. Spero che l’articolo apra gli occhi a qualcuno. Sono stufo di essere preso per leghista quando dico che i problemi del nordest sono reali e vanno afrontati senza isterismi. Giulio Le correzioni Errata corrige Sussurri dal nordest Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718 Posta via Volturno 58, 00185 Roma Email [email protected] Web internazionale.it ma Felice. I Soprano: non c’è bisogno che ogni singolo membro della famiglia sia informato su quale mestiere fanno i parenti. Il Trono di spade: anche se è nato da un incesto consumato subito dopo un avvelenamento, ogni bambino è un dono del destino. Insomma, i casi sono tanti e tutti diversi ma è chiaro che il segreto della famiglia perfetta è sempre lo stesso: basta saper recitare la parte. u Se state leggendo questa rubrica forse siete anche voi un po’ come Bryan Henderson: non sopportate certe espressioni sbagliate che si sono difuse e vorreste eliminarle tutte. Henderson, un ingegnere informatico statunitense di 51 anni, è uno dei mille più attivi correttori delle pagine di Wikipedia in inglese. Dal 2007 a oggi, sotto lo pseudonimo di Girafedata, ha corretto più di 47mila occorrenze di un unico errore: comprised of. Anche se è difusa nella lingua comune ed è accettata da alcuni grammatici, i puristi dell’inglese sostengono che quest’espressione è sbagliata, perché il verbo comprise signiica “comprendere” nel senso di “contenere in sé”, quindi non può essere usato al passivo. Per esempio, il pane contiene acqua, lievito e farina, non è contenuto da acqua, lievito e farina. L’errore nasce dal fatto che molte persone confondono comprise con un altro verbo, compose (comporre, costituire). Ogni domenica, prima di andare a dormire, Henderson lancia un software in grado di trovare tutti i comprised of che continuano a spuntare nelle pagine di Wikipedia. L’ha sviluppato lui stesso per combattere la sua crociata grammaticale. E la vostra qual è? Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazionale. Risponde all’indirizzo [email protected] Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected] u Su Internazionale 1089, a pagina 80, il nome dell’autrice di Gli anni al contrario è Nadia Terranova, non Terranove; la foto a pagina 98 è di Casey Kelbaugh (The New York Times/Contrasto). Su Internazionale 1088, a pagina 76: in Finlandia ci sono due località che si chiamano Marjaniemi. Quella indicata nella cartina non è la stessa di cui si parla nell’articolo. PER CONTATTARE LA REDAZIONE u Ho letto con vero piacere e altrettanta tristezza l’articolo sulla Dear Daddy Vite da piccolo schermo Qual è il segreto della famiglia perfetta?–Valeria Dopo aver cercato invano tra i conoscenti una famiglia da poter deinire perfetta, ho scoperto una fonte inesauribile di casi: la tv. Nelle famiglie dei teleilm si ride sempre e i problemi si risolvono puntualmente prima della ine dell’episodio. Ti faccio qualche esempio. Happy days: negli anni sessanta era tutto più facile. Quando le donne passavano tutto il tempo in cucina o a cotonarsi i capelli, le giornate scorrevano allegre come le canzoni di 10 un juke box. La famiglia Addams: essere dei mostri non è una scusa per non essere eleganti. Con dei passi di tango appropriati e la giusta sfumatura di nero, si supera qualunque problema. Casa Keaton: avere un iglio quasi coetaneo aiuta i genitori a tenere alta la media di battute al minuto. Beverly Hills 90210: se hai dei igli noiosi trasferisciti in California e la vita familiare diventerà emozionante come una telenovela. Un medico in famiglia: chi se ne importa di genitori e igli, quello che conta è avere un nonno all’altezza. Soprattutto se si chia- Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Il giustiziere di Wikipedia Editoriali Triton è una condanna a morte “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra ilosoia” William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De Mauro Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo Zanchini Editor Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente (opinioni), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio Oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura, caposervizio) Copy editor Giovanna Chioini (web, caposervizio), Anna Franchin, Pierfrancesco Romano (coordinamento, caposervizio), Giulia Zoli Photo editor Giovanna D’Ascenzi (web), Mélissa Jollivet, Maysa Moroni, Rosy Santella (web) Impaginazione Pasquale Cavorsi (caposervizio), Valeria Quadri, Marta Russo Web Giovanni Ansaldo, Annalisa Camilli, Donata Columbro, Francesca Gnetti, Francesco Longo, Stefania Mascetti (caposervizio), Martina Recchiuti (caposervizio), Giuseppe Rizzo Internazionale a Ferrara Luisa Cifolilli Segreteria Teresa Censini, Monica Paolucci, Angelo Sellitto Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Patrizia Barbieri, Giuseppina Cavallo, Francesco Caviglia, Diana Corsini, Stefania De Franco, Andrea Ferrario, Federico Ferrone, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Alessia Cerantola, Catherine Cornet, China Files, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Andreana Saint Amour, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello Editore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo Storto Sede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Alessia Salvitti Concessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editoriale Tel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Subconcessionaria Download Pubblicità srl Stampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi) Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commercialeCondividi allo stesso modo 3.0. 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E queste tragedie si ripeteranno se l’Unione europea non cambierà il modo di afrontare il problema del numero sempre più alto di persone che rischiano la vita per cercare rifugio in Europa. La colpa è soprattutto dei traicanti di esseri umani. I sopravvissuti hanno raccontato di essere stati costretti a salire sui gommoni dopo essere stati derubati e minacciati con bastoni e pistole. I traicanti vanno arrestati e puniti, ma anche l’Unione europea ha le sue colpe. I morti della scorsa settimana sono il risultato di ciniche considerazioni come quella del primo ministro britannico David Cameron, secondo il quale se i migranti sapessero che ci sono buone probabilità di morire durante il tragitto non si metterebbero in viaggio per l’Europa. Questa tesi è smentita dal numero sempre più alto di persone in fuga dalla Siria e dall’Africa subsahariana, che rischiano la loro vita e quella dei loro igli pur di raggiungere un porto sicuro. I disordini scoppiati in Libia, uno dei principali punti di partenza dei migranti, stanno spingendo le persone a correre rischi sempre più alti. Nel 2014 sono arrivati via mare in Europa 170mila migranti. Quest’anno sembra che le vittime saranno ancora più numerose dell’anno scorso, quando 3.200 persone sono morte attraversando il Mediterraneo. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni le vittime delle ultime tragedie portano ad almeno 415 il numero di migranti annegati nel 2015, rispetto ai 27 dello stesso periodo dell’anno scorso. Molti avevano previsto che, dopo la sostituzione della missione italiana di salvataggio Mare nostrum con quella europea Triton, che si limita al pattugliamento delle frontiere, nel Mediterraneo i morti sarebbero aumentati. Nel 2014 Mare nostrum, l’operazione lanciata dalla marina italiana nell’ottobre del 2013 dopo che più di 350 migranti erano annegati nei pressi di Lampedusa, aveva salvato più di centomila vite. Ma a dicembre l’Italia, stanca di dover sopportare da sola tutto il peso dell’immigrazione, ha interrotto la missione. Nei giorni scorsi alcuni migranti sono stati salvati dalla guardia costiera italiana. Ma quello che serve al più presto è una missione di pattugliamento e salvataggio con le stesse caratteristiche di Mare nostrum e finanziata dall’Europa. La Commissione europea dovrebbe chiedere subito ai paesi membri di impegnarsi in questo senso. Come hanno dimostrato le vittime della settimana scorsa, Triton non è la soluzione giusta. u bt La Nigeria ostaggio di Boko haram Dominic Johnson, Die Tageszeitung, Germania Il 7 febbraio la commissione elettorale nigeriana ha deciso di rinviare al 28 marzo le elezioni presidenziali e parlamentari in programma per il 14 febbraio, a causa dell’inizio di una grande ofensiva contro Boko haram. Ma in quella circostanza vari osservatori hanno commentato che i 175 milioni di nigeriani e il loro diritto di voto sono ormai ostaggio dei miliziani jihadisti. Infatti dipende soprattutto da Boko haram se alla ine di marzo la situazione in Nigeria sarà abbastanza paciica da permettere lo svolgimento delle elezioni. Ma in realtà dipende anche dall’esercito nigeriano. Quella di rinviare le elezioni è stata una semplice “raccomandazione” da parte dei vertici dell’esercito, che non possono sostituirsi apertamente all’autorità della commissione elettorale. Ora le elezioni del 28 marzo sono appese al risultato dell’annunciata campagna contro Boko ha- ram. E i primi segnali sono tutt’altro che incoraggianti. Invece dell’esercito, è stato il gruppo jihadista a condurre una grande operazione internazionale, con continui attacchi in Niger, con i primi sconinamenti in Ciad e con la più vasta offensiva di terra mai vista inora in Nigeria. Negli ultimi giorni i miliziani si sono spinti ino alla città di Gombe, che si trova a metà strada tra l’ormai abituale teatro di guerra nel nordest della Nigeria e la capitale Abuja. Chi può fermare l’escalation militare? Al momento sembra che Boko haram sia sempre un passo avanti rispetto all’esercito, e questo induce a chiedersi se dietro l’organizzazione si nasconda qualcosa di più di un gruppo di fanatici. Una cosa è certa: se la guerra continuerà a dilagare a questo ritmo, in Nigeria le elezioni non si terranno né a ine marzo né mai. u ma Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 11 Libia Rivoluzione negata Chris Stephen, The Guardian, Regno Unito ra meglio quando c’era Gheddafi”, dice uno studente libico in un cafè di Tunisi. Guardando la schiuma che trabocca dal suo cappuccino, rilette sulla rivoluzione che nel 2011 provocò la caduta del dittatore. “Non pensavo che avrei mai detto una cosa del genere, lo odiavo, ma allora le cose andavano meglio. Almeno eravamo al sicuro”. Il 17 febbraio 2015 è stato il quarto anniversario della rivoluzione, ma nessuno l’ha festeggiato. Nella notte tra il 15 e il 16 febbraio l’Egitto ha lanciato dei raid aerei contro le postazioni del gruppo Stato islamico nella Libia orientale, in risposta all’uccisione di 21 cristiani copti egiziani rapiti a Sirte tra il 31 dicembre e il 3 gennaio. È solo l’ultimo episodio di una guerra civile spietata. Quattro anni fa questo studente libico aveva preso una pistola per unirsi alle milizie ribelli. Oggi vorrebbe essere rimasto a casa. “Se potessi tornare indietro, non lo rifarei”, dice. Come molti dei suoi ex compagni ha lasciato il paese, ma non vuole rivelare il suo nome per timore di rappresaglie contro la famiglia rimasta in patria. “All’inizio festeggiavamo l’anniversario della rivoluzione, ma quest’anno no”, dice il giornalista Ashraf Abdul Wahab. “Molta gente dice che si stava meglio quando c’era Gheddai, che la rivoluzione è stata un erro- “E 14 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 re. In realtà intendono dire che oggi le cose vanno peggio di allora”. La primavera libica è stata sanguinosa e si è conclusa con l’uccisione di Muammar Gheddai. Dopo la sua morte, le milizie ribelli hanno cominciato a farsi la guerra per assicurarsi il controllo del territorio. La vera guerra civile è scoppiata nell’estate del 2014, quando i partiti islamici sono usciti nettamente sconitti dalle elezioni. Gli islamici e i loro alleati si sono ribellati contro il parlamento eletto e hanno formato la coalizione Alba libica, che si è impadronita di Tripoli. Le nuove autorità sono fuggite a Tobruk, nell’est del paese, e da allora gli scontri si sono susseguiti in tutta la Libia. Con migliaia di morti, le città distrutte e 400mila persone rimaste senza casa, il grande vincitore è il gruppo Stato islamico, che ha sfruttato il caos per estendere rapidamente la sua inluenza. L’Egitto, che era già il principale sostenitore delle forze governative, ora è entrato nella guerra a tre fra governo, Alba libica e Stato islamico. Tutto questo è molto diverso da quello che speravano i rivoluzionari. Con le riserve di petrolio più abbondanti di tutta l’Africa e solo sei milioni di persone a dividerne i proventi, nel 2011 il futuro della Libia sembrava radioso. “Pensavamo di diventare la nuova Dubai, avevamo tutto”, dice una giovane attivista che, come lo studente, preferisce non rivelare il suo nome. “Ora siamo più realisti”. Perché la primavera libica sia ini- LOrENzO MELONI (CONTrASTO) A quattro anni dalla caduta di Gheddai, la Libia è un paese dilaniato da una guerra civile in cui si è inserito il gruppo Stato islamico. E dopo l’intervento dell’Egitto il conlitto rischia di allargarsi ta così male è oggetto di accesi dibattiti. Alcuni accusano la Nato di non aver fatto seguire un progetto politico ai bombardamenti. Altri sostengono che mancano le istituzioni necessarie per far funzionare la democrazia, o che la struttura frammentata e tribale del paese rende diicile la collaborazione e alimenta la diffidenza. Tanti si sono arresi. “Molti di quelli che hanno fatto la rivoluzione quattro anni fa sono entrati in clandestinità, sono scappati”, dice Michel Cousins, il direttore del quotidiano in lingua inglese Lybia Herald. “Dicono che la rivoluzione divora i suoi igli”. Nel 2011 molti giornalisti erano accorsi in Libia. Oggi Tripoli è troppo pericolosa, e le stesse autorità di Tobruk consigliano ai mezzi d’informazione di stare alla larga. Il nuovo governo, che si riunisce nella città di Al Bayda, è lacerato dalle divisioni interne e molti temono che presto andrà in frantumi. Alba libica sta cercando di governare a Tripoli con fermezza per evitare che la città FONTE: BBC mo la totale disintegrazione dello stato”, ha dichiarato il vicepresidente della camera Mohammed Ali Shuhaib, che sotto Ghed dafi è stato prigioniero politico per dieci anni e ora sta cercando di mettere insieme un nuovo governo di unità nazionale. “Qualche speranza c’è, non tutti quelli di Alba libica sono fanatici”. Un compromesso diicile Tripoli, Libia, 29 settembre 2014. Nel sobborgo di Warshefana precipiti nell’anarchia. I suoi comandanti hanno riconvocato il vecchio governo, il Congresso generale nazionale, ma il vero potere è nelle mani delle milizie. Nella capitale si avverte chiaramente la presenza dei fanatici religiosi. Le donne non possono più allontanarsi dalla città se non sono accompagnate da un uomo. I mi liziani hanno distrutto statue, moschee su fite, una biblioteca e l’accademia d’arte, mettendo in guardia la popolazione da ogni forma di idolatria. I saloni di bellezza sono stati chiusi e le scuole divise per sessi. “La gente dice che si sentiva più sicura ai tempi di Gheddai, ma non è così per tutti. All’epo ca un mio parente era in prigione, lo afa mavano e lo picchiavano”, dice una donna di Tripoli che riiuta di dire il suo nome. “Il problema sono state le elezioni. Molti dei candidati erano pieni di entusiasmo, ma non avevano nessuna esperienza politica”. Nel frattempo Bengasi, la seconda città della Libia, dove prese il via la rivoluzione con le proteste davanti al tribunale, si sta trasformando in una Stalingrado araba a causa degli scontri tra truppe governative e milizie islamiche. Quattro anni fa la piazza del tribunale era piena di bandiere, striscio ni rivoluzionari, giovani che cantavano e tende colorate. Ora è un deserto di polvere. La Nato contribuì con i suoi bombardamen ti a far scoppiare la rivoluzione, ma ora i lea der occidentali assistono con sgomento all’avanzata dello Stato islamico. L’esecu zione dei 21 cristiani copti ha innescato da parte dell’Egitto una reazione che rischia di trasformare la guerra in un conlitto inter nazionale. Regno Unito, Francia e Stati Uniti, i paesi più inluenti della Nato, temo no che il gruppo jihadista lanci attacchi con tro l’Europa attraverso il Mediterraneo. In tanto l’Italia sta fronteggiando l’arrivo di migliaia di migranti passati per la Libia, molti dei quali annegano in mare. In questa situazione caotica alcuni poli tici cercano di trovare un accordo. “Temia Il problema è che il paese è spaccato in due, con una maggioranza che appoggia il go verno e una minoranza non irrilevante che sta passando ad Alba libica, mentre le pos sibilità di trovare un compromesso si ridu cono rapidamente. A gennaio a Ginevra l’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino León, ha abbandonato i colloqui di pace perché i portavoce di Alba libica non si era no presentati. Ora l’Egitto potrebbe far pen dere l’ago della bilancia dalla parte di To bruk. Il governo sta già comprando armi e sta raforzando l’aviazione, che si è dimo strata una carta vincente contro Alba libica. León insiste nel dire che la sua priorità è sal vare la Libia prima che si disgreghi. Con il calo delle esportazioni di greggio, il paese sopravvive grazie alle riserve di valuta stra niera, ma León teme che presto non avrà più soldi per sfamare la popolazione, gestire le centrali elettriche e alimentare le pompe che portano acqua alle città dai pozzi del Sahara. Per le persone comuni la vita è diventata una lotta per la sopravvivenza, ma quello che manca è soprattutto l’ottimismo di quattro anni fa. Quel poco che ne resta an cora è cauto e circospetto. “Martin Luther King diceva ‘Io ho un sogno’, e anch’io ho ancora un sogno”, dice Shuhaib. “Non è lo stesso di quattro anni fa, perché ora la gente è frustrata e delusa. Ma c’è ancora”. u bt Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 15 Libia L’avamposto nordafricano L’espansione del gruppo Stato islamico in Libia ha provocato una dura reazione del governo egiziano, che si sente minacciato su più fronti dai combattenti jihadisti quattro anni dall’inizio della rivoluzione, la situazione in Libia è un promemoria delle speranze andate in fumo e del costante intrecciarsi dei conlitti in Nordafrica e nel Medio Oriente. Ventuno copti egiziani, rapiti tra dicembre e gennaio a Sirte, sono stati decapitati dal gruppo Stato islamico. Il video dell’esecuzione è stato pubblicato in rete il 15 febbraio come vuole il copione adottato dal gruppo. L’Egitto si è vendicato lanciando il 16 febbraio una serie di bombardamenti che potrebbero essere l’inizio di quella che è stata definita una “lunga campagna di attacchi aerei”. Era chiaro ormai da mesi che la Libia si stava trasformando nel più promettente avamposto straniero per il gruppo Stato islamico. La città orientale di Derna era già da tempo associata ad Al Qaeda in Iraq, perché aveva fornito un numero record di combattenti all’insurrezione irachena scoppiata dopo il 2003. Nella primavera del 2014 centinaia di veterani dello Stato islamico, noti come la brigata Al Battar, che avevano combattuto a Deir Ezzor nella Siria orientale e a Mosul nell’Iraq settentrionale, hanno lasciato quelle località per schierarsi con un altro gruppo. Pochi mesi dopo, a settembre, un militante yemenita arrivato anche lui dalla Siria sarebbe diventato il loro leader. Verso la ine di ottobre un gruppo consistente di jihadisti ha formalmente giurato fedeltà al leader dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi. Secondo alcune fonti i combattenti sarebbero circa 800, anche se forse è una stima per eccesso. Il gruppo Stato islamico in Libia ha aderito al “modello ibrido” adottato dall’orga- A 16 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 nizzazione originaria. I suoi uomini sono innanzitutto dei terroristi, e lo hanno dimostrato attaccando l’hotel Corinthia a Tripoli il 27 gennaio. Ma, allo stesso tempo, aspirano a essere qualcosa di più, e le loro operazioni in Libia sembrano indicare che sono già in grado di amministrare e controllare il territorio. L’esperto di jihadismo Aaron Y. Zelin fa notare che il gruppo Stato islamico ha rafforzato l’osservanza della sharia nei mercati (vietando, per esempio, la vendita di alimenti avariati), ha limitato l’uso del tabacco, ha fornito sostegno ai più poveri e ha imposto perino nuove regole alle farmacie. Il gruppo ha inoltre attirato combattenti stranieri. Secondo Zelin un quinto delle forze jihadiste in Libia è formato da tunisini. Mentre il gruppo perde slancio in Iraq e in Siria, l’enorme bacino di combattenti stranieri impegnati in Medio Oriente potrebbe gravitare verso la Libia. Coinvolgimento segreto L’intervento militare dell’Egitto non è una novità nella guerra libica. Questi attacchi aerei sono le prime operazioni militari condotte dal Cairo all’estero dai tempi della prima guerra del Golfo, ma da anni gli egiziani agiscono in segreto in Libia. Questo perché l’incredibile complessità della guer- Da sapere Richiesta d’intervento u Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha chiesto alle Nazioni Unite di approvare una risoluzione per formare una coalizione internazionale da far intervenire in Libia. Ha inoltre invitato i governi stranieri a inviare armi all’esecutivo libico con sede ad Al Bayda, che è stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Il 17 febbraio Stati Uniti, Italia, Francia, Regno Unito, Spagna e Germania hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta in cui afermano che il processo di dialogo promosso dalle Nazioni Unite per la formazione di un governo di unità nazionale “è la speranza migliore per i libici”. Reuters HAZEM TURKIA (ANADOLU AGENCY/GETTY IMAGES) Shashank Joshi, The Telegraph, Regno Unito Tripoli, Libia, 17 febbraio 2015. Celebrazioni per il quarto anniversario della rivoluzione ra civile libica, che oppone una coalizione a guida islamica nella capitale a un governo riconosciuto dalla comunità internazionale nella città orientale di Al Bayda, rilette ormai le fratture più ampie che attraversano la regione. Un blocco di stati arabi, tra cui l’Egitto, vede i Fratelli musulmani più o meno come gli Stati Uniti consideravano il comunismo all’epoca della guerra fredda: una forza clandestina, sovversiva e in continua espansione. Allo stesso modo vedono anche Alba libica, la coalizione formata da forze e milizie islamiche che controlla Tripoli. Sia l’esercito egiziano, salito al potere nel 2013 con un colpo di stato contro il governo eletto guidato dai Fratelli musulmani, sia gli Emirati Arabi Uniti, per i quali la Fratellanza è una minaccia interna, hanno appoggiato il governo di Tobruk. Nel 2014, nei mesi di agosto e ottobre, i governi dei due paesi hanno compiuto un passo senza precedenti, lanciando attacchi aerei e incursioni di terra contro i combattenti islamici radicali a partire da basi militari egiziane. In seguito, hanno negato gli attacchi, ma nessuno gli ha creduto. Per l’Egitto l’esercito libico (o quel che ne rimane) è un buon alleato, in particolare il generale Khalifa Haftar, un ex uiciale di Muammar Gheddai che ha guidato la lotta contro L’opinione Al tavolo delle trattative Jason Pack, Al Jazeera, Qatar Il potere in Libia è così frammentato che è diicile trovare leader in grado di far rispettare eventuali accordi erché i negoziati riescano a fermare un conlitto di solito sono necessarie tre condizioni: che esistano fazioni ben distinte, che siano rappresentate da leader riconosciuti e che questi leader siano in grado di imporre ai rispettivi sostenitori le condizioni di pace concordate. Al momento in Libia mancano tutti e tre i requisiti. Il potere è frammentato a tal punto che nessuno sa chi incarni la vera autorità. L’inluenza dei politici e dei leader tradizionali si basa comunque sul sostegno di uomini armati. Non ci sono strutture di comando e di controllo che governano le varie milizie. Nella seconda metà del 2014 ci ha fatto comodo pensare che la lotta per il potere in Libia dopo la caduta di Gheddai fosse una competizione tra due fazioni: la coalizione Alba libica, guidata da combattenti originari della città di Misurata, e l’operazione Dignità, guidata dal generale Khalifa Haftar contro le milizie islamiche e schierata con l’occidente e l’Egitto. Ma queste due ampie formazioni hanno numerose divisioni interne. Le Nazioni Unite hanno spostato i colloqui di pace da Ginevra a Gadames, in Libia, per evitare le critiche di una fazione di ex parlamentari libici che boicottavano i colloqui perché non si svolgevano nel loro paese. Tuttavia, nonostante la presenza di un numero maggiore di rappresentanti, è chiaro che chi è seduto a quel tavolo non ha il potere di fermare la guerra. Perciò c’è da chiedersi a cosa servano i colloqui. Probabilmente l’obiettivo immediato non è portare la pace in Libia, ma distinguere le fazioni violente da quelle P le milizie islamiche, ottenendo in un secondo tempo anche l’appoggio del governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Haftar, dal canto suo, ha accolto con entusiasmo l’intervento egiziano ed è andato al Cairo per coordinare le mosse successive. Il gruppo Stato islamico è una minaccia reale per l’Egitto perché sta penetrando sempre di più anche nell’est del paese, nella penisola del Sinai. E la sua presenza in Libia lo avvicina ancora di più al territorio egiziano. Il Cairo inoltre può giustiicare i bombardamenti indicando come esempio la campagna militare guidata dagli Stati Uniti in Iraq e in Siria e l’importante ruolo svolto dalla Giordania. Perché non dovrebbe colpire un gruppo che ha massacrato così platealmente dei suoi cittadini? È però importante tenere separato il ruolo del gruppo Stato islamico in Libia dal più ampio contesto della guerra civile che imperversa nel paese. Non tutte le fazioni dell’opposizione libica sono jihadiste, e comportarsi come se lo fossero, assumendo posizioni rigide, è la ricetta perfetta per il disastro. Il pericolo è che l’Egitto spinga il governo libico ad adottare una strategia intransigente e aggressiva nei confronti dei suoi oppositori di Tripoli, precludendo qualsiasi possibilità di trovare una soluzione politica al conlitto. u gim Shashank Joshi è un ricercatore del Royal united services institute di Londra. disposte al dialogo. Con il passare delle settimane si è formato un blocco di moderati e un numero sempre più alto di leader ha partecipato ai colloqui. Ma questo processo di riavvicinamento ha messo sotto pressione le alleanze di fondo che inora avevano tenuto insieme l’ala politica e quella militare sia di Alba libica sia dell’operazione Dignità. Alba libica si sta frammentando in due campi: uno guidato dai leader civili di Misurata, a favore dei negoziati, e un altro guidato da comandanti militari e jihadisti intransigenti che cercano di sabotare i colloqui. Più ci si avvicina alla possibilità di raggiungere compromessi signiicativi, più alta sarà la possibilità di assistere ad atti di sabotaggio come l’attacco di ine gennaio all’hotel Corinthia a Tripoli, sferrato da un gruppo fedele ai jihadisti dello Stato islamico. Dubbi sul generale Haftar La situazione dell’operazione Dignità è simile. La maggior parte dei parlamentari è favorevole al dialogo, ma l’esercito del generale Khalifa Haftar e le milizie che vorrebbero il federalismo non sono d’accordo. Così, mentre in teoria sarebbe in vigore un cessate il fuoco, gli uomini di Haftar hanno dichiarato di aver riconquistato una base a Bengasi e i federalisti hanno minacciato di chiudere l’ultimo porto petrolifero attivo della Libia. La tensione tra i vertici militari dell’operazione Dignità e il governo del primo ministro Abdullah al Thinni è alle stelle e il ministro dell’interno ha perino dichiarato che sarebbe ora di allontanare il generale Haftar, una igura molto controversa in Libia. Molti ritengono che la rivoluzione non sarà completa inché Haftar non si sarà tolto di mezzo. Al momento la Libia ha troppi generali e non abbastanza soldati. u gim Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 17 Libia Il crollo del petrolio Faucon e Kantchev, The Wall Street Journal, Stati Uniti La guerra ha danneggiato il settore petrolifero, la principale fonte di ricchezza della Libia. Le aziende energetiche occidentali hanno chiuso gli impianti e ridotto gli investimenti a violenza in Libia sta prendendo di mira il settore petrolifero. Le aziende occidentali hanno sospeso gli investimenti a lungo termine nel paese, facendo calare la produzione. Tra l’ottobre del 2014 e il gennaio del 2015 l’estrazione di greggio in Libia è passata da circa 900mila a 325mila barili al giorno. Secondo l’azienda statale National Oil Corporation (Noc), il calo è dovuto sia all’occupazione dei giacimenti da parte delle milizie libiche sia alla chiusura dei pozzi per motivi di sicurezza. Il crollo della produzione è avvenuto dopo lo scoppio della guerra civile alla metà del 2014, che ha provocato la chiusura di due grandi impianti. Il colosso francese Total ha chiuso il campo petrolifero di Mabruk, al centro della costa libica, che produceva dai 30mila ai 40mila barili al giorno. Anche il principale porto petrolifero del paese, Sidra, è stato chiuso a causa degli scontri, mettendo a rischio gli investimenti di tre aziende statunitensi: la ConocoPhillips, la Marathon Oil e la Hess. Il campo e il porto erano initi entrambi nel mirino delle milizie armate. Ci sono stati degli scontri vicino a Sidra, mentre a Mabruk almeno nove guardie sono rimaste uccise durante un attacco, ha detto Mashallah al Zawie, un importante dirigente libico del settore petrolifero. Il greggio è da sempre la linfa vitale della Libia, che possiede le più grandi riserve di petrolio dell’Africa. Nata negli anni cinquanta, in dieci anni l’industria petrolifera libica era arrivata a produrre più di tre milioni di barili al giorno. Nel 2011, poco prima della caduta di Gheddai, esportava 1,3 milioni di barili al giorno e ne produceva 1,6 milioni. “C’era un tacito accordo tra le di- L 18 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 verse fazioni per non danneggiare la produzione di petrolio”, dice Richard Mallinson, analista della società di consulenza londinese Energy Aspects. “Ora hanno capito che controllare il petrolio signiica avere il potere”. L’instabilità ha danneggiato altre aziende energetiche presenti in Libia. Alla ine di dicembre la tedesca Wintershall Holding ha sospeso la produzione dopo gli scontri a Sidra, che si trova vicino agli importanti porti petroliferi di Ras Lanuf e Zueitina. L’azienda sostiene di aver investito più di due miliardi di dollari in Libia per una capacità produttiva giornaliera di 90mila barili. Anche l’austriaca Omv ha risentito dei disordini. L’azienda ha interessi in diversi campi petroliferi nel centro e nel sud della Libia, dove l’anno scorso ha prodotto una media di ottomila barili al giorno. “Le previsioni per il 2015 sono ancora più negative”, ha dichiarato Gerhard Roiss, amministratore delegato della Omv, citando il calo del prezzo del petrolio e la crisi libica nella relazione trimestrale dell’azienda. “In Libia la situazione non sta cambiando, sta peggiorando”. Nel 2014 la situazione non era così grave. Nonostante gli scontri a Tripoli durante l’estate, la Libia aveva sorpreso il mondo con una nuova impennata della produzione di petrolio. Secondo l’Organizzazione dei Da sapere Produzione in calo Produzione di petrolio in Libia, milioni di barili al giorno Fonte: The Wall Street Journal 1,0 Stima 0,8 0,6 0,4 0,2 0 2014 2015 paesi esportatori di petrolio (Opec), da giugno a ottobre la produzione era passata da 232mila a 887mila barili al giorno. Il prezzo mondiale del greggio è crollato quando gli investitori hanno capito che il mercato del petrolio si stava saturando nonostante l’instabilità in paesi come la Libia. Nel giro di sei mesi, da giugno 2014 a gennaio 2015, il prezzo del greggio Brent è sceso da 115 a 50 dollari al barile. Negli ultimi tempi il mercato non ha risentito della ripresa dei combattimenti e del crollo delle forniture in Libia. Secondo gli esperti, la decisione dell’Opec di non tagliare la produzione assicura un eccesso di oferta a prescindere dal livello della produzione in Libia. “La Libia è diventata irrilevante”, osserva Tamas Varga, esperto di petrolio della società d’intermediazione londinese Pvm. Serbatoi bruciati Il calo dei prezzi e la minaccia della violenza, quindi, hanno paralizzato l’attività delle compagnie petrolifere in Libia. Nel 2003, dopo la sospensione delle sanzioni contro il regime di Gheddai, la ConocoPhillips, la Marathon Oil e la Hess sono state tra le prime compagnie a tornare in Libia. Il porto di Sidra, dove le tre aziende avevano investito, esportava ino a poco tempo fa 300mila barili al giorno. All’inizio del 2015 a Sidra sono stati bruciati sette serbatoi di stoccaggio. Secondo le autorità libiche, due sono andati completamente perduti, e le esportazioni non sono ancora ricominciate. A metà febbraio la ConocoPhillips ha detto che nel 2014 la produzione media in Libia è scesa a ottomila barili equivalenti di petrolio, contro i 30mila del 2013. Gli scontri non hanno inluito sulla produzione delle piattaforme ofshore, che per ora sono fuori del raggio d’azione dei gruppi combattenti. Due giacimenti al largo delle coste, gestiti dall’italiana Eni e dalla Total, producono circa 100mila barili di greggio al giorno. Gran parte della produzione restante viene dai giacimenti desertici nelle zone più sperdute della Libia occidentale e orientale, anche queste risparmiate dalla guerra civile. In generale, però, le autorità e gli esperti concordano sul fatto che gli scontri hanno danneggiato fortemente l’industria petrolifera libica. Anche se si arrivasse a un accordo di pace, “non ci sarà un ritorno immediato ai livelli di produzione del passato”, osserva Geof Porter, presidente della società di consulenza sui rischi North Africa Risk Consultancy. u fas Libia, 15 luglio 2012. Un migrante prega nel deserto tra Misurata e Bani Walid Italia Le minacce dell’Isis a Roma l 15 febbraio il governo italiano ha chiuso l’ambasciata italiana a Tripoli. La decisione è stata presa dopo che il gruppo Stato islamico ha divulgato un video in cui avvertiva: “Siamo a sud di Roma”. Il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi ha risposto minacciando un’azione militare. “Non importa che l’Italia abbia solo cinquemila soldati disponibili e che il bilancio per la difesa sia stato tagliato del 40 per cento. Tutto questo rende diicile per l’Italia guidare qualsiasi missione, specialmente se si tratta di sidare un nemico come lo Stato islamico”, scrive la giornalista barbie Latza Nadeau su The Daily Beast. In seguito però Renzi ha fatto marcia indietro afermando che non era il momento per un’azione militare e che era meglio aspettare una decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. “Indipendentemente da quale sia il momento giusto per agire, non c’è dubbio che in Italia la tensione nei confronti di una minaccia dell’organizzazione estremista islamica è palpabile: la Libia è a meno di 300 chilometri da Lampedusa e a poco più di 500 dalla Sicilia. Una tensione acuita dal fatto che nel 2014 l’immigrazione irregolare è aumentata del 64 per cento”. MARCo SALUSTRo (CoRbIS/CoNTRASTo) I Bloccati a Misurata sognando l’Europa Laura Varo, El Mundo, Spagna Nella città libica s’interrompe il viaggio dei migranti eritrei, siriani e gambiani che sperano di attraversare il Mediterraneo. Reportage dal centro di detenzione per immigrati enok Annoban, 27 anni, è eritreo. Tra un anno non camminerà più. La malattia che l’ha colpito al sistema nervoso centrale è la ragione per cui ha deciso di intraprendere un viaggio verso l’Europa. Si è fermato a metà, in un centro di detenzione per immigrati a Misurata, sulla costa centrale della Libia. Qualcosa è andato storto e da cinque mesi è chiuso qui. “Sono venuto in Libia perché voglio andare in Europa”, dice. “Dalla Libia all’Italia e dall’Italia in Germania. Lì c’è una buona assistenza medica, in Eritrea no”. La Libia, con più di quattromila chilometri di conine mal sorvegliati e un deserto incontrollabile, è diventato il cortile sul retro di un’Europa blindata. Il 13 febbraio H le autorità italiane hanno individuato sette gommoni che trasportavano un centinaio di persone ciascuno e che alla ine sono stati soccorsi in acque libiche, confermando una tendenza che preoccupa organismi come l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Secondo l’Unhcr, nel gennaio di quest’anno 3.528 persone sono salite in un’imbarcazione di fortuna diretti verso l’Europa, cioè oltre mille in più rispetto ai 2.171 del gennaio 2014. Confrontando gli stessi due periodi, il numero di morti è quadruplicato: 50 contro i 12 del 2014. Questo nel corso di un inverno in cui l’operazione di salvataggio Mare nostrum, voluta dal governo italiano, è stata sostituita da Triton, l’operazione di sorveglianza marittima a cui l’agenzia per il pattugliamento delle frontiere esterne dell’Unione europea (Frontex) ha assegnato un budget mensile di 2,9 milioni di euro. La nuova operazione ha a disposizione poche imbarcazioni e queste non possono avvicinarsi alla costa libica. Secondo le ong, il mar Mediterraneo è destinato a dicontinua a pagina 20 » Investimenti petroliferi “Un altro motivo di preoccupazione per l’Italia”, prosegue la giornalista, “sono i suoi investimenti, valutabili in miliardi di dollari, fatti in Libia per estrarre il petrolio. L’Eni è stata la prima compagnia petrolifera a sviluppare l’industria del petrolio quando questo è stato scoperto nel paese nel 1959”. Il 18 febbraio il ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha riferito alla camera dei deputati sulla situazione in Libia. Ha affermato che la soluzione della crisi deve essere diplomatica e ha precisato: “Dire che siamo in prima linea contro il terrorismo non vuol dire essere alla ricerca di avventure militari. La situazione è grave e il tempo non è ininito. Essere in prima linea contro il terrorismo non è l’annuncio di crociate”. u Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 19 Libia ALESSANDRo BIANCHI (REUTERS/CoNTRASTo) Porto Empedocle, Agrigento, 17 febbraio 2015. Migranti soccorsi dalla nave della marina Orione ventare un cimitero. “È pericoloso, lo so, ma ci sono sempre dei rischi. Anche nel deserto avremmo potuto avere un incidente”, dice Daniel Agustino, 35 anni. Agustino, che è rinchiuso con Henok Annoban nel centro di detenzione, parla dei 4.500 chilometri che separano l’Eritrea da Misurata passando per il Sudan. Racconta anche del mare di sabbia nella Libia meridionale. È arrivato in camion ino ad Ajdabiya, uno snodo strategico per i traicanti. Da lì a Misurata ha viaggiato nascosto nel container di un altro camion che è stato fermato a un posto di blocco. Circa ottanta migranti sono dovuti scendere e Agustino ha perso i 1.500 dollari che aveva investito nel viaggio. Misurata è solo un luogo di passaggio. Il trucco sta nella geograia, nelle lunghissime spiagge e nella sua vicinanza a Malta e all’Italia, 300 chilometri in linea d’aria. E nei tagli al bilancio: a Misurata, trasformata in città-stato dopo la rivoluzione del 2011, un centinaio di miliziani armati “vigilano la spiaggia e il mare”. Da Tripoli in poi e altrove è tutta un’altra storia. Quattro anni dopo la caduta del dittatore Muammar Gheddai la Libia sta svanen- 20 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 do in uno scenario da guerra civile. Dalla scorsa estate due governi, due parlamenti e due alleanze militari si contendono un potere che in realtà non è in mano a nessuno. Il conlitto ha lasciato senza alleati diplomatici l’Europa, che era abituata ad avere a che fare con la capricciosa politica migratoria del dittatore. Una politica simile a un gioco di carte, in cui ognuno dei migranti che ospitava il paese ino al 2011 (da 1,5 ai 2,5 milioni) era un asso nella manica. “Abbiamo smesso di arrestare i migranti”, spiega Masoud Saalem, capo del dipartimento di immigrazione illegale, che dipende dal ministero dell’interno del governo di salvezza nazionale insediato a Tripoli e non riconosciuto dalla comunità internazionale. Dal luglio del 2014 il pattugliamento marittimo, la vigilanza delle coste e le operazioni di salvataggio sono sospesi. A svolgerli era una precaria forza navale appoggiata e addestrata dalla missione dell’Unione europea di assistenza alle frontiere (Eubam), che per tre anni le ha destinato 26 milioni di euro. “A causa del conlitto abbiamo problemi di rifornimento”, spiega Saalem. “Non possiamo continuare a fermare gli immi- grati se non siamo in grado di occuparci di loro”. Le stanze vuote dei centri di Ain Zara e Garabulli, dove lo scorso agosto sono spuntati una cinquantina di cadaveri dalla sabbia, testimoniano un’inversione di tendenza nell’angolo della vergogna dell’immigrazione in Europa. Colpi di mortaio L’organizzazione internazionale per le migrazioni (oim), che gestisce un programma di ritorno volontario in collaborazione con le autorità sia a Tripoli sia a Tobruk (dove ha sede il governo riconosciuto dall’occidente), ha detto che la violenza nel paese ha fatto aumentare il lusso di migranti che cercano di lasciare la Libia per raggiungere l’Italia attraverso il Mediterraneo. Questa situazione si rilette sull’altissimo numero di migranti arrivati sulle coste italiane quest’estate, aferma l’ultimo rapporto dell’oim, del gennaio del 2015. Inoltre nel rapporto si dice che la disperazione spinge a correre il rischio di imbarcarsi su gommoni sovrafollati e malandati. “Qui sto diventando pazzo”, si dispera Alì, un gambiano di diciassette anni che è arrivato da solo in Libia nel novembre del 2013 ed è rinchiuso in un centro di detenzione tra Tripoli e Zuwarah, facendo quasi tutto da solo. “Ero a Tripoli quando sono cominciati i combattimenti”, ricorda. “Sono uscito a comprare qualcosa ed erano già in corso gli scontri. Sono caduti due colpi di mortaio sull’ediicio in cui mi trovavo poco prima. Il mio padrino e due amici sono morti, io ho avuto la fortuna di non trovarmi lì in quel momento”. Subito Alì si è messo a vagare per strada in cerca di qualcuno che lo potesse aiutare. Ma altri hanno trovato lui, e tre mesi dopo la sua fortuna e parte della sua forza sono venute meno. “Non c’è da mangiare, non c’è un telefono, non c’è nulla”, dice piangendo. Condivide una stanza minuscola con almeno altri sei minorenni. Ci sono anche una trentina di reclusi provenienti dalla Nigeria, dal Niger, dal Senegal e dal Mali. Le carceri libiche Tra le brande sporche che ricoprono il pavimento, le storie si mescolano ai iloni di pane che un gruppo di miliziani distribuisce scatenando il caos. È giorno di visita, e si distribuiscono razioni doppie per dare un po’ di vita ai volti segnati dalla fame. “Il mondo deve aiutare le persone rinchiuse nelle carceri libiche”, dice il somalo Shermanke. Parla veloce come una musica di sottofondo che non si ascolta. “Sono stato dieci mesi in carcere e solo due mesi fuori. Un anno in Libia e solo due mesi libero”, ripete. È stato rinchiuso in un centro di detenzione con un’unica colpa, quella di andare in giro senza passaporto, anche se in realtà quel documento non gli sarebbe servito a molto. Per i somali come lui, così come per gli eritrei e i siriani, non c’è rimpatrio che tenga. Secondo i calcoli dell’Unhcr circa il 60 per cento dei migranti che raggiungono la costa europea sono rifugiati e richiedenti asilo che fuggono dalla violenza dei loro paesi di origine. La Libia non gli riconosce lo status che dovrebbe garantirgli protezione, lasciandoli invece in un limbo fatto di pareti umide come quelle dei centri di detenzione, dove la luce entra a tratti quando il sole passa davanti alla inestrella della stanza. “Non sono venuto per restare qui a vivere o a lavorare”, dice Shermanke. “Volevo prendere un gommone e andare in Europa, ma ancora non ce l’ho fatta”. u fr L’opinione Dilemma inesistente Financial Times, Regno Unito Invece di sentirsi minacciata, l’Unione europea dovrebbe soccorrere i migranti che attraversano il Mediterraneo leader europei hanno molti motivi di preoccupazione, dalla fragilità della loro moneta comune alle minacce dei jihadisti alle ambizioni della Russia. Quello che non hanno è un problema di sovrappopolamento. L’Europa potrebbe essere il primo continente in cui il numero delle morti supera quello delle nascite. E nonostante la vicinanza del vecchio continente al Medio Oriente e all’Africa, solo un europeo su dieci è nato fuori dall’Unione europea. Eppure l’Europa è così assillata dalla paura di essere invasa dagli immigrati che li sta lasciando morire a migliaia nelle acque del Mediterraneo. Nell’ottobre del 2014, nonostante quell’anno fossero annegati tremila migranti, la Commissione europea ha appoggiato l’Italia nella decisione di ridimensionare l’operazione Mare nostrum, che aveva salvato migliaia di vite. La missione era stata lanciata dall’Italia dopo la tragedia al largo di Lampedusa, dove il 3 ottobre del 2013 morirono 366 migranti. Triton, l’operazione dell’Unione europea che ha sostituito Mare nostrum, può soccorrere solo i barconi carichi di rifugiati che si trovano a 30 miglia dalla costa. Triton costa un terzo di Mare nostrum, ma questo non giustiica la decisione della Commissione. I 75 milioni di euro di diferenza sono poca cosa rispetto al bilancio europeo. Ancora più signiicativo è il fatto che un’operazione che serviva a salvare vite umane sia stata sostituita da un programma gestito dall’agenzia Frontex, che si occupa del pattugliamento delle frontiere esterne degli stati dell’Unione. Sembra che i politici europei si preoccupino di I scoraggiare i migranti, invece di evitare che muoiano. C’è chi sostiene che sarebbe più umano eliminare le operazioni di salvataggio, perché incoraggiano i traicanti a caricare ancora più persone sulle loro barche. A far crescere il numero dei migranti sono le crisi umanitarie, non l’illusione di una traversata più facile. Davanti alla prospettiva della tortura, della malattia e della morte, il calcolo delle probabilità di farcela incide poco sulla decisione di fuggire. L’alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati António Gutierres ha giustamente detto che queste persone sono spinte dalla disperazione e non dalla speranza. Alla luce di tutto questo la priorità dell’Europa deve essere di salvare i migranti in pericolo. Dovrebbe ripristinare l’operazione Mare nostrum, ma questa volta sotto la responsabilità dell’Unione europea. All’altezza di un ideale Paesi come l’Italia e la Grecia hanno bisogno di sostegno e i partner europei dovrebbero impegnarsi ad accogliere più rifugiati. Inoltre i paesi d’origine dei migranti devono essere aiutati a individuare e punire i traicanti. Il lusso migratorio diminuirà solo quando iniranno i conlitti nel Mediterraneo. L’Europa non può fare molto per accelerare questo processo, ma può ridurne i costi in termini di vite umane. Soprattutto trattando i rifugiati come vittime e non come una minaccia. L’arrivo di giovani da altri paesi potrebbe risolvere la crisi demograica del continente. Il problema dei migranti è dipinto come un grande dilemma. Ma non lo è. Il rispetto che l’Europa ha per i diritti umani spiega in parte perché tanti cercano rifugio all’interno dei suoi conini. L’Europa non dovrebbe avere dubbi sull’opportunità di dimostrarsi all’altezza dei propri ideali. u bt Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 21 Africa e Medio Oriente Sudafrica NIGERIA ALI HASHISHO (ReUTeRS/CONTRASTO) Il contratto non conviene Mail & Guardian, Sudafrica LIBANO Bambini di strada Secondo uno studio promosso dall’Unicef, dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) e dall’ong Save the children, in Libano vivono e lavorano centinaia di bambini di strada. Per il paese si tratta di un problema di lunga data, aggravato dall’arrivo di 1,5 milioni di profughi siriani, scrive il Daily Star. Si calcola che il 75 per cento degli almeno 1.500 bambini di strada libanesi sia originario del paese vicino (nella foto, una bambina profuga siriana). Intanto in Siria l’inviato dell’Onu Stafan de Mistura sta negoziando con il governo di Damasco un cessate il fuoco di sei settimane nella città di Aleppo. Nel settembre del 2014 il governo sudafricano ha concluso un accordo con l’azienda pubblica russa Rosatom per la costruzione di otto nuove centrali nucleari entro il 2023, un afare del valore di 50 miliardi di dollari che dovrà essere approvato dal parlamento. Tuttavia, come svela il Mail & Guardian, alcuni termini del contratto sono “preoccupanti”: per esempio, il Sudafrica non potrà vendere ad altri paesi la tecnologia nucleare che avrà sviluppato autonomamente senza il permesso della Russia; Rosatom non sarà considerata responsabile in caso di incidenti ai reattori; l’azienda russa godrà di speciali sgravi iscali senza concedere nulla in cambio. “È un accordo molto vantaggioso per Rosatom, ma che presenta molti rischi per il Sudafrica”, scrive il settimanale. “Non sorprende che il governo abbia tenuto segreti i suoi piani”. Il Sudafrica sta attraversando una diicile crisi energetica che minaccia la crescita economica, e ha bisogno di rendere più eiciente la sua produzione di elettricità. Per questo negli ultimi mesi ha irmato accordi e preso contatti con vari paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Cina, la Francia e la Corea del Sud. u Elezioni a rischio In un video del 18 febbraio il leader di Boko haram, Abubakar Shekau, ha minacciato di impedire lo svolgimento delle elezioni presidenziali del 28 marzo, scrive Jeune Afrique. Il giorno prima quaranta persone erano morte in una serie di attentati nel nordest della Nigeria, mentre l’esercito ha fatto sapere di aver ucciso 300 miliziani. Il 13 febbraio Boko haram ha compiuto il primo attacco in Ciad. Il 17 febbraio almeno 37 civili sono stati uccisi da una bomba sganciata da un aereo non identiicato nel sudest del Niger. IN BREVE Senegal L’ex presidente ciadiano Hissène Habré, accusato di crimini contro l’umanità, sarà processato da un tribunale speciale creato dal Senegal e dall’Unione africana. Tunisia Il 18 febbraio quattro poliziotti sono morti nell’attacco portato da un gruppo jihadista vicino al conine con l’Algeria. Da Ramallah Amira Hass YEMEN L’avanzata verso sud I ribelli houthi, che controllano la capitale Sanaa, hanno respinto una risoluzione delle Nazioni Unite che gli chiedeva di cedere il potere e di rilasciare l’ex presidente Abd Rabbo Mansur Hadi. Il quotidiano yemenita Al Wasat scrive che gli houthi hanno insediato il loro governo nella capitale e riiutano categoricamente le ingerenze esterne. I ribelli stanno avanzando verso sud. Secondo l’inviato speciale dell’Onu Jamal Benomar, “bisognerà preoccuparsi per la reazione di Al Qaeda, che è molto forte nel sud del paese”. 22 Disobbedienza civile Bassem Tamimi, originario di Nabi Salih, in Cisgiordania, è rimasto sorpreso quando mi ha incontrato a un evento di disobbedienza civile a est di Gerusalemme. Sa bene che ho paura delle reazioni violente dell’esercito israeliano. Si protestava contro il progetto israeliano di costruire un insediamento per beduini su terre coniscate al villaggio palestinese di Abu Dis. Da due settimane gli attivisti cercano di ostacolare i lavori montando delle tende e costruendo delle strutture provvisorie in Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 legno o in cemento, senza farsi intimidire dall’esercito israeliano. La mattina del 16 febbraio i soldati hanno sparato delle granate stordenti verso di noi. Io sono scappata, ma i giovani attivisti sono rimasti lì con il loro leader, il più anziano Bassem. Più tardi io e Bassem siamo andati a Hebron per discutere della questione con alcuni dirigenti di Al Fatah. Quando siamo tornati, abbiamo saputo che trenta attivisti erano rimasti feriti e cinque erano stati arrestati. Le strutture provvisorie erano state smantellate, ma gli attivisti rimasti ne stavano già costruendo delle altre. Negli ultimi due anni gli attivisti palestinesi favorevoli alla resistenza paciica hanno partecipato a molte proteste nell’area C, dove gli abitanti non possono neanche scavare un buco nel terreno senza il permesso di Israele. Le prime iniziative hanno ricevuto il sostegno dell’Autorità Palestinese, ma questa volta gli attivisti hanno riiutato qualunque aiuto. Tutti i materiali usati sono stati donati da privati. u Ucraina Una tregua fragile dopo gli accordi Dal 15 febbraio è in vigore un nuovo cessate il fuoco, stabilito con gli accordi di Minsk. Ma a Debaltseve i combattimenti non sono mai cessati l 14 febbraio, poche ore prima del momento in cui i militari ucraini e le forze dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk avrebbero dovuto cessare il fuoco in base agli accordi raggiunti a Minsk l’11 febbraio, è stato colpito il centro della città di Donetsk. Per la prima volta dall’estate del 2014. Un proiettile di artiglieria è esploso sul boulevard Puškin e due all’angolo tra la via Universitetskaja e il Teatralnyj prospekt. Qui le schegge hanno ucciso un militare e una donna. “Ero seduto nella mia automobile parcheggiata quando all’improvviso è scoppiato un proiettile. I medici mi hanno estratto due schegge dalla gamba, una dalla carne viva”, racconta una delle persone colpite. Secondo i militari il colpo proveniva con ogni probabilità da una zona vicina alla città di Avdiïvka, dove si trova una postazione dell’esercito ucraino. Con il calare della notte, tuttavia, gli spari attorno a Donetsk sono cessati. Il 15 febbraio la città era nel complesso tranquilla. Nella sacca di Debaltseve, dove un contingente delle forze di Kiev è accerchiato dai separatisti, il cessate il fuoco invece non c’è stato. Già all’ingresso della città di Enakieve, occupata dai ilorussi, si sentono spari ed esplosioni. “Qui nell’area di Debaltseve non abbiamo ricevuto l’ordine di cessare il fuoco”, ci spiega di fronte all’ediicio del comando militare un combattente separatista che si fa chiamare Mowgli. Secondo il comandante locale, il cui nome di battaglia è Grek (il Greco), nei prossimi giorni l’intera cittadina di Debaltseve passerà sotto il controllo delle forze della Repubblica popolare di Donetsk. “Stanno per tagliare la luce. Presto i generatori di corrente iniranno il carburante e tutti gli altri collegamenti saranno tagliati. La cittadina sta per essere I 26 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 conquistata”, spiega il comandante. Subito dopo incontriamo una delle tante profughe che si trovano in città. È diretta al comando per il pranzo. “E quando ripulirete anche Olenivka?”, chiede ai miliziani. “Per ora non abbiamo ricevuto l’ordine di farlo”, rispondono loro. “Cercate di fare in fretta, perché è terribile quando intorno a casa ti scoppiano le bombe”, dice la donna. Meglio di una pallottola Grek ci racconta di essere stato sulla linea del fronte tra Vuhlehirsk e Debaltseve. A cinquecento metri dalla sua postazione piovevano missili Grad. Ci spiega che prima della guerra faceva il dirigente in una società di costruzioni e che ancora oggi mantiene i contatti con i colleghi di Kiev e di altre città dell’Ucraina. “Di recente un mio amico della città di Kryvyj Rih, nella zona sotto il controllo degli ucraini, mi ha raccontato che gli è arrivata la chiamata alle armi. In un mes- BAz RATNER (REUTERS/CONTRASTO) Ilya Barabanov, Kommersant, Russia saggio mi ha scritto: ‘Quindi sappi che verrò a liberarvi’. Allora gli ho inviato una mia foto in uniforme, spiegandogli che ormai sono diventato tenente colonnello. Gli ho consigliato di restarsene a casa e di chiedere alla moglie di fratturargli in qualche mo- Da sapere Ultime notizie 11 febbraio 2015 A Minsk i leader di Ucraina e Russia e i rappresentanti dei separatisti trovano un accordo per il cessate il fuoco con la mediazione di Francia, Germania e Osce. Il piano per rilanciare il processo di pace è articolato in 13 punti e prevede, tra le altre cose, il cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte del 14 febbraio, il ritiro dell’artiglieria pesante dal fronte, la creazione di una zona smilitarizzata e l’apertura di un confronto sullo status di autonomia delle zone occupate dai separatisti. 12-13 febbraio Continuano i combattimenti. Ci sono diverse vittime civili. 15 febbraio Dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco gli scontri diminuiscono lungo tutta la linea del fronte, ma s’intensiicano nella cittadina di Debaltseve, dove i soldati di Kiev sono accerchiati dai miliziani separatisti. 16 febbraio Continuano i combattimenti nella zona di Debaltseve. Il governo ucraino e i separatisti ilorussi riiutano di ritirare l’artiglieria pesante dal fronte, come previsto dagli accordi. Kiev annuncia che non comincerà il ritiro inché non sarà tolto l’assedio a Debaltseve. 17 febbraio S’intensiica l’ofensiva dei separatisti contro Debaltseve. Gli Stati Uniti accusano Mosca di non rispettare la tregua. Il sito di giornalismo investigativo Bellingcat pubblica un’inchiesta, realizzata grazie all’analisi delle immagini satellitari di Google earth, che dimostrerebbe come nell’estate del 2014 le postazioni dei militari ucraini siano state colpite da proiettili di artiglieria provenienti dal territorio russo. Mosca ha sempre negato che dal suo territorio siano partiti attacchi all’Ucraina. 18 febbraio Kiev annuncia che l’80 per cento dei soldati ucraini si sono ritirati da Debaltseve e che presto anche gli altri lasceranno la città. Le opinioni Tra la guerra e il negoziato A chi conviene l’intesa siglata in Bielorussia? I commenti della stampa russa e ucraina li accordi irmati a Minsk l’11 febbraio non aggiungono nulla a quelli dello scorso settembre”, scrive il giornale russo Novaja Gazeta. “Inoltre sono formulati in modo così vago che farli saltare sarà molto facile. Il fatto che le parti in conlitto si siano incontrate è però un passo avanti non trascurabile. Ora è necessario che Kiev, da una parte, e Mosca e i separatisti, dall’altra, cambino linguaggio e smettano di chiamarsi reciprocamente ‘banditi terroristi’ e ‘giunta fascista’. Russia e Ucraina dovranno anche smettere di mentire sistematicamente su quanto succede sul terreno, perché questo rende impossibile ogni iducia reciproca. Inine è indispensabile stabilire chi controllerà il rispetto degli accordi, visto che l’Osce non è assolutamente in grado di farlo. Sullo sfondo rimane la questione dello status del Donbass, che va afrontata senza pregiudiziali”. Sul sito russo Gazeta Georgi Bovt fa notare che “quello che mina maggiormente gli accordi di Minsk è l’assenza degli Stati Uniti dal negoziato: senza di loro in Ucraina non è possibile raggiungere una pace sul modello di quella siglata a Dayton per la Bosnia Erzegovina. E non solo perché il presidente ucraino Petro Porošenko agisce sotto l’occhio vigile di Washington e non può ricevere inanziamenti dal Fondo monetario internazionale senza il suo consenso, ma anche perché gli Stati Uniti continuano a ritenere l’Ucraina un contrappeso a Putin, che secondo loro vuole alterare le regole del gioco geopolitico globale”. Una condanna categorica degli accordi arriva dal quotidiano di Kiev Ukraïnska pravda: “È chiaro che Pu- “G Vuhlehirsk, 16 febbraio 2015 do una gamba simulando un incidente: è meglio stare a letto qualche settimana con una gamba ingessata piuttosto che beccarsi una pallottola”, dice Grek. Dopo Enakieve cerchiamo di avvicinarci a Uglegorsk, ma veniamo fermati a un posto di blocco vicino alla miniera Kondtratevskaja. “Ordini dei nostri comandanti: non possiamo lasciare passare i giornalisti”, dicono i miliziani. “Ma da voi il cessate il fuoco viene rispettato?”, gli chiediamo. “La zona di Horlivka è stata sotto il tiro degli ucraini ino alle tre di notte del 15 febbraio”, rispondono i miliziani. “Poi il fuoco è cessato solo perché hanno dovuto sostituire gli uomini e portare nuovi pezzi di artiglieria. Forse per una settimana o due la situazione rimarrà tranquilla, poi comincerà tutto di nuovo”. Mentre il miliziano pronuncia queste parole cominciano i colpi. Convinti che un cecchino stia sparando su di loro da un’altura formata dai detriti di una miniera, i separatisti aprono il fuoco. Gli abitanti cercano di tranquillizzarli spiegando che sono solo i colpi di un’esercitazione al poligono. Per l’intera giornata del 15 febbraio i combattenti di entrambe le fazioni si sono accusati a vicenda di avere violato il cessate il fuoco. Se si può dire che in generale lungo la linea del fronte la situazione si è temporaneamente stabilizzata, nell’area di Debaltseve si è continuato a sparare. E tutto lascia pensare che il fuoco non cesserà a breve. u af tin non ha nessuna intenzione di rispettare la tregua. Il presidente russo nega di avere il controllo dei separatisti. In questo modo vuole guadagnare tempo, sperando che l’Ucraina crolli sotto il peso della guerra e della crisi politica prima che sia Mosca a cedere sotto il peso delle sanzioni. Porošenko non deve perdere tempo in discussioni inutili: ogni stretta di mano con Putin gli farà perdere autorevolezza in Ucraina. Kiev deve invece raforzare gli armamenti, interrompere ogni rapporto con l’aggressore e dichiarare lo stato di guerra. Se otterrà il pieno sostegno dei vicini, come la Polonia, e dei paesi più importanti della Nato, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, la Russia non potrà avere la meglio”. Sul quotidiano russo Izvestija Aleksandr Prochanov, commentatore vicino ai separatisti e al Cremlino, valuta invece positivamente gli accordi, considerandoli per Mosca un successo paragonabile a quello ottenuto da Stalin nella conferenza di Jalta del 1945. Il successo è stato possibile grazie a diversi fattori: “Il Donbass, umiliato e ferito, è riuscito a risorgere e a chiudere i soldati ucraini in una morsa. Inoltre Porošenko, colpito a morte dalla disfatta militare, si trova sull’orlo del baratro dove presto sprofonderà anche l’economia ucraina. E inine l’Unione europea, dilaniata al suo interno dalle tensioni interrazziali e dal caos economico, trema all’idea che la guerra si allarghi oltre i conini ucraini”. Ma il fattore decisivo è stato la forza della Russia, “che non può permettere la nascita di uno stato russofobo e membro della Nato ai suoi conini. Il mondo monopolare voluto dagli Stati Uniti sta afondando nei conlitti e nelle contraddizioni, e il progetto di Washington in Ucraina è fallito. Il colpo di stato ordito dagli americani ha difuso il male e la violenza in tutto il paese, ma alla ine si è dovuto fermare davanti alla forza di volontà della Russia”. u af Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 27 Danimarca RUMLE SkAFTE (POLFOTO/AP/ANSA) Davanti alla sinagoga grande di Copenaghen, 15 febbraio 2015 Il terrorismo arriva a Copenaghen prendere le distanze da quello che è successo. Altrimenti rimarranno dei sospettati. Finché non avranno dimostrato il contrario, saranno considerati tutti colpevoli. Dignità e responsabilità Carsten Jensen, Politiken, Danimarca L’attentato del 14 febbraio è il risultato di scelte politiche miopi e populiste che hanno scavato un fossato nella società e alimentato l’islamismo radicale. L’analisi di uno scrittore danese lla ine l’uomo nero è arrivato. Per dieci anni i nostri ministri della difesa ci hanno ripetuto che sarebbe venuto dall’Afghanistan. Un taliban analfabeta incapace di trovare l’Europa sulla carta geograica sarebbe apparso un giorno alla stazione Nørreport con uno zaino pieno di esplosivo e, iniammato dal fervore dell’islam, avrebbe trascinato con sé decine di innocenti A 28 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 nell’oltretomba. Ma quell’uomo non è mai arrivato, anche se abbiamo speso due miliardi e mezzo di euro per portare la guerra nel suo paese ed evitare che si presentasse qui. Invece ad attaccare un convegno sulla libertà d’opinione e una sinagoga, prima di essere raggiunta dai proiettili della polizia, è stata una persona qualsiasi, che viveva a Nørrebro, un quartiere di Copenaghen. A chi dobbiamo dichiarare guerra ora? All’islam? Ai 250mila cittadini musulmani che sono già riusciti a entrare in Danimarca? Ai giovani figli degli immigrati, che molti considerano dei disadattati? A tutti quelli che non sono pronti a giurare sulla Bibbia di essere dalla parte della cultura danese e della sua carne con le patate? Oggi i danesi si stanno contando: i 250mila musulmani del paese devono farsi avanti e Tre ore dopo il primo attentato la leader danese Helle Thorning-Schmidt non aveva ancora fatto dichiarazioni. Il presidente francese François Hollande aveva già commentato l’attacco di Copenaghen, Thorning-Schmidt no. Poi finalmente è stato difuso un comunicato stampa che sembrava scritto dall’ispettore di polizia di turno. “Molti indizi lasciano pensare a un attentato di matrice politica e quindi a un atto terroristico”, ha dichiarato la prima ministra facendo eco alle speculazioni della stampa. La sera dell’attentato Thorning-Schmidt non è comparsa in tv per rivolgersi ai danesi. Poi, con poca convinzione, ha comunicato ai cittadini che dovevano “continuare la vita di sempre”. Dopo l’11 settembre 2001 l’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, invitò gli americani a continuare a fare acquisti senza esitazione. Thorning-Schmidt forse vuole dirci la stessa cosa: non ostaco- late lo sviluppo economico, fate come se non fosse successo nulla. “Voglio salvaguardare la Danimarca che conosci”, si legge sui manifesti con il suo ritratto, aissi sui muri di tutto il paese. Qualunque cosa ci voglia dire con i suoi discorsi inconsistenti, un fatto è chiaro: la sera del 14 febbraio, mentre a Copenaghen si sparava, la Danimarca non aveva una guida. Nel luogo in cui si sarebbe dovuta trovare la prima ministra c’era un vuoto morale. Certo, è importante scoprire tutto sull’attentatore e sulle sue motivazioni: è un combattente rientrato dalla Siria? Il focolaio dell’infezione è all’estero? Ma c’è un’altra domanda ugualmente importante: cos’è la Danimarca come nazione? Probabilmente nei prossimi giorni descriveremo l’attentatore come un giovane che si è radicalizzato da solo. Ma nessuno è un’isola e quindi potrebbe aver trovato motivazioni e ispirazioni in modi e luoghi molto diversi. Non può essere il nostro paese uno dei focolai dell’infezione? La nazione danese non si è forse radicalizzata da sola? La Danimarca e il Regno Unito sono gli unici paesi europei che negli ultimi dodici anni hanno partecipato a tutte le guerre in Medio Oriente: in Iraq, Afghanistan, Libia e oggi contro il gruppo Stato islamico. Insieme al Belgio e al Regno Unito, la Danimarca è il paese europeo da cui, in rapporto alla popolazione totale, sono partiti più volontari per andare a combattere in Siria. La Danimarca è indiscutibilmente il paese con il partito xenofobo di destra più potente d’Europa, il Dansk folkeparti (Partito del popolo danese, Df ). È possibile che alle prossime elezioni il Df diventi la prima forza politica e che la sua visione degli stranieri venga condivisa dalla maggioranza degli altri partiti del Folketing (il parlamento di Copenaghen), socialdemocratici compresi. È davvero un caso che la scintilla del terrore sia passata direttamente da Parigi a Copenaghen? In Danimarca il problema della libertà d’espressione non sta nel fatto che non è rispettata. Il problema è legato al fatto che questa libertà non viene esercitata a suicienza, che i danesi che protestano non sono abbastanza. Se i politici della destra danese sono tra i peggiori demagoghi d’Europa, il problema non riguarda la libertà d’espressione, ma il senso di dignità e di responsabilità che dovrebbe essere patrimonio irrinunciabile di ogni rappresentante democraticamente eletto. Oggi, però, asso- ciare concetti come dignità e responsabilità ai politici danesi è impossibile. Una Danimarca aperta e ospitale esiste ancora: è la società civile che cerca di sfondare il muro costruito dai mezzi d’informazione e dai partiti. Ma nessun leader politico si rivolge più a lei. Nessun partito la incoraggia. Nessuno la invita a parlare. Questa Danimarca tollerante deve essere messa a tacere, e da domani la sua distanza dai microfoni sarà più grande che mai. Parole sagge L’aspetto più curioso delle reazioni sui social network agli attentati è stato la totale mancanza di sorpresa. Tutti se lo aspettavano. La Danimarca negli ultimi vent’anni ha puntato allo scontro diretto. E oggi l’ha ottenuto. I nostri politici ci hanno preparato a questa possibilità. E noi abbiamo preparato a questa possibilità gli immigrati, i rifugiati e i loro igli con una profezia che si autoavvera: dietro i veli, dietro le barbe lunghe, dietro le mura delle moschee voi siete come noi vi abbiamo dipinto. E la violenza è sempre in agguato: nella vostra religione, nella vostra cultura, nella vostra storia, nella vostra rabbia, nel vostro spirito. Nei dibattiti seguiti all’attacco terroristico contro il settimanale francese Charlie Hebdo, in Danimarca non è mai stata fatta una distinzione tra satira e difamazione. Io non ho letto la rivista, ma ho creduto alle parole del suo direttore Stéphane Charbonnier, che aveva deinito la satira di Charlie cordiale e comica. Al contrario, quasi tutto quel che si dice sui musulmani e sulla loro religione non è né cordiale né comico. Si tratta di una demagogia maligna e che punta a cancellare il loro carattere umano. Di recente ho apprezzato la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha deinito gli ispiratori di Pegida, il movimento di protesta di estrema destra, persone che hanno l’odio e il gelo nel cuore: se avesse fatto una dichiarazione simile in Danimarca si sarebbe dovuta scusare per poter continuare a fare politica. In questa Danimarca che si è radicalizzata da sola, sono i cuori gelidi a dettare l’ordine del giorno su entrambi i versanti della linea del fronte. u fp Carsten Jensen è uno scrittore e giornalista danese. In Italia ha pubblicato il romanzo La leggenda degli annegati (Rizzoli 2007). Da sapere L’attacco e le reazioni u Nel pomeriggio del 14 febbraio 2015 un uomo armato, poi identiicato come Omar el Hussein, un cittadino danese di 22 anni di origine palestinese, fa irruzione nel centro culturale Krudttønden, a Copenaghen. Nel centro è in corso un convegno sulla libertà di espressione organizzato dal vignettista svedese Lars Vilks, nella lista nera degli estremisti islamici dal 2007 per aver disegnato Maometto con il corpo di un cane. Nell’attacco muore il documentarista Finn Nørgaard e rimangono feriti tre poliziotti. L’attentatore fugge in auto. Dopo la mezzanotte attacca la principale sinagoga della città, dove è in corso una festa di bat-mitzvà, e uccide un membro della comunità ebraica locale, Dan Uzan, ferendo altri due agenti. Alle 5 del mattino, nel quartiere di Nørrebro, El Hussein muore in una sparatoria con la polizia. Il 15 febbraio gli agenti arrestano due persone sospettate di aver aiutato l’attentatore. Secondo le autorità danesi, El Hussein si era avvicinato all’estremismo islamico in carcere, dove era inito nel 2013 per reati non legati al terrorismo. u “Lo scopo dei terroristi è far paura alla gente, non tanto uccidere”, ha commentato l’ex rabbino capo della Danimarca Bent Melchior in un’intervista a Information. “Sono preoccupato dalla reazione della mia comunità. Se vogliamo che in Europa ci sia una comunità ebraica, è importante che gli ebrei possano riunirsi senza che questo sia un atto di coraggio”. Melchior ha poi criticato le parole del primo ministro israeliano Benjamin Ne- tanyahu, che dopo gli attentati di Copenaghen ha ripetuto l’appello fatto dopo quelli di Parigi del 7 e 8 gennaio, esortando gli ebrei europei a emigrare in Israele, la loro “vera casa”. “È una dichiarazione stupida”, ha detto Melchior. “Qui non si specula sulle tragedie e non avrebbe dovuto farlo neanche Netanyahu. Avrebbe dovuto limitarsi a fare le condoglianze. È un equivoco dire che Israele è la nostra vera casa. Io sono sionista, ma questo non signiica che gli ebrei debbano abitare tutti in un determinato posto. Sarebbe apartheid. Israele deve essere un centro di riferimento per gli ebrei di tutto il mondo, ma ci devono essere ebrei dappertutto. E per la stessa ragione ci dev’essere posto per i cristiani e i musulmani nella società israeliana”. u fc, pb Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 29 Europa Francia GERMANIA “Il 15 febbraio la Spd ha vinto nettamente le elezioni per il rinnovo della Bürgerschaft (il consiglio comunale) di Amburgo con il 45,7 per cento dei voti”, scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung, “ma non avrà la maggioranza assoluta”. Per governare, il candidato socialdemocratico Olaf Scholz avrà bisogno di allearsi con i Verdi. Brusco crollo per la Cdu, che si è fermata al 15,9 per cento, perdendo il 6 per cento rispetto a quattro anni fa. Ma tra i risultati spicca l’affermazione del partito euroscettico Alternative für Deutschland (Afd), che con il 6,1 per cento ottiene otto senatori ed entra per la prima volta nelle istituzioni di un land della Germania occidentale. Università occupata La Macedonia è attraversata da un’ondata di proteste studentesche. Come scrive il settimanale Fokus, dopo le mobilitazioni degli scorsi mesi, “gli studenti sono tornati all’azione e hanno occupato l’università di Skopje dichiarandola ‘zona autonoma’”. Chiedono il ritiro della nuova legge sull’università, che prevede l’introduzione di esami con valutazioni esterne, di cui saranno incaricate non le istituzioni accademiche ma agenzie del governo. “Gli studenti sanno che la lotta sarà lunga e vogliono proseguire ino al raggiungimento dei loro obiettivi”. La protesta si sta ampliando a macchia d’olio e negli ultimi giorni è stata decisa l’occupazione delle università di Bitola e Štip. VINCENt KESSLEr (rEutErS/CONtrAStO) Euroscettici ad Amburgo MACEDONIA L’ultima profanazione Cinque ragazzi tra i 15 e i 17 anni sono in stato di fermo a Sarreunion, in Alsazia, con l’accusa di aver profanato 250 tombe del locale cimitero ebraico il 15 febbraio (nella foto). Il presidente François Hollande ha ricordato che il cimitero era già stato bersaglio di attacchi: nel 1998 e nel 2001 erano state profanate decine di tombe. “La giustizia stabilirà cosa è dovuto all’incoscienza, all’ignoranza o all’intolleranza. Ma ormai il danno è fatto”, ha detto Hollande. Come sottolinea Le Figaro, in Francia gli atti di antisemitismo sono in forte aumento: nel 2014 sono stati 854, il doppio rispetto al 2013. L’appello della presidente Turchia La nuova presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović ha prestato giuramento a Zagabria il 15 febbraio. Nel suo discorso ha pronunciato parole concilianti nei confronti dei paesi vicini, ma più dure sul fronte interno. Il sito H-Alter critica in particolare l’appello all’unità e alla paciicazione nazionale: “Questo tema viene regolarmente riproposto in momenti di grave crisi, quando sta maturando una rivolta sociale. E la Croazia oggi si trova proprio in una situazione del genere, con un’alta disoccupazione e una popolazione molto indebitata. A questi problemi il governo socialdemocratico non sa dare risposta. Così la presidente di destra ricorre a un linguaggio perentorio parlando di unità nazionale e individuando un capro espiatorio nei nostalgici della Jugoslavia, accusati di ogni male”. Le donne protestano Yeni Asır, Turchia La vicenda di Özgecan Aslan, la studentessa di vent’anni rapita e uccisa dopo un tentativo di violenza da tre uomini nella città di Mersin, ha innescato proteste nell’intero paese. Come tutta la stampa turca, anche il quotidiano Yeni Asır dedica la copertina alla memoria della ragazza e alle manifestazioni in suo onore. “Per la prima volta da molto tempo”, scrive il quotidiano Habertürk, “il paese è unito nell’afrontare un lutto. Non è banale. Finora, infatti, la polarizzazione della società aveva impedito ai turchi di esprimere un sentimento di empatia capace di superare le diferenze politiche e sociali”. Secondo Habertürk per sconiggere la piaga della violenza di genere, obiettivo auspicato anche dal presidente recep tayyip Erdoğan, “bisognerà superare la retorica uiciale che relega la donna a un ruolo subalterno nella famiglia e nella società”. ◆ LASZLO BALOGH (rEutErS/CONtrAStO) CROAZIA IN BREVE Ungheria Il 17 marzo il presidente russo Vladimir Putin ha incontrato a Budapest il primo ministro ungherese Viktor Orbán per discutere di un contratto sul gas. Il giorno prima duemila persone avevano manifestato contro la visita (nella foto). Francia Il 17 febbraio la procura di Lilla ha chiesto di prosciogliere l’ex direttore dell’Fmi Dominique Strauss-Kahn dall’accusa di sfruttamento aggravato della prostituzione. Grecia Prokopis Pavlopoulos, ex ministro conservatore, è stato eletto presidente della repubblica dal parlamento il 18 febbraio con 233 voti su 300. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 31 IMAgetAkeR/DeMOtIx/CORbIS/CONtRAStO Asia e Paciico L’esecutivo continua a ripetere che la magistratura è indipendente e sottolinea come in questo caso la denuncia sia partita dall’assistente con cui avrebbe commesso il reato di sodomia. tuttavia sembra chiaro a tutti che dietro alle vicende legali di Anwar ci siano motivazioni politiche. Phil Robertson, uno degli osservatori di Human rights watch (Hrw), ha deinito il verdetto una farsa. Il ricatto dei conservatori Veglia per Anwar Ibrahim a Kuala Lumpur, 11 febbraio 2015 Un passo indietro per la Malesia The Economist, Regno Unito La condanna di Anwar Ibrahim per sodomia avrà ricadute negative anche per il governo. Il capo dell’opposizione, infatti, sapeva tenere insieme le diverse componenti etniche del paese opo quattro mesi di attesa, il 10 febbraio la corte suprema malese ha respinto l’appello del leader dell’opposizione Anwar Ibrahim e confermato la sua condanna a cinque anni di carcere per sodomia. Inoltre Anwar, 67 anni, sarà interdetto dagli incarichi pubblici per i cinque anni successivi al rilascio. Sarà quindi escluso dalle prossime due tornate elettorali e probabilmente la sua carriera politica è inita. Il Pakatan rakyata (Pr), la coalizione guidata da Anwar, è la minaccia più concreta che l’Organizzazione nazionale malese unita (Umno) abbia dovuto afrontare nei suoi quasi sessant’anni di governo ininterrotto. La forza dell’opposizione, tuttavia, è legata alla leadership di Anwar, perciò la sua condanna è una buona notizia per il primo ministro Najib Razak. Ma festeg- D 32 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 giare sarebbe sintomo di poca lungimiranza. L’uscita di scena di Anwar porterà dei vantaggi politici al governo. Alle elezioni generali del 2013 il Pr ha ottenuto più voti del barisan Nasional (bn), la coalizione guidata dall’Umno, ma gli è stato attribuito solo il 40 per cento dei seggi in parlamento grazie a una modiica dei distretti elettorali fatta per favorire il bn. Il Pr, tuttavia, è una coalizione improbabile e frammentata, composta da un partito islamico conservatore che si rivolge alla maggioranza musulmana di etnia malese, da una formazione che rappresenta soprattutto la minoranza di etnia cinese e dal partito multirazziale e laico guidato da Anwar. Per tenere insieme questi elementi Anwar è stato fondamentale. ex vice primo ministro, nel 1998 era stato il principale sostenitore della reformasi, il movimento a favore delle riforme politiche, sociali e del sistema giudiziario. Oggi è la figura più nota e carismatica dell’opposizione, a dispetto, anzi, in parte a causa dei sei anni trascorsi in carcere per corruzione e un altro caso di sodomia, un’accusa poi revocata. Questa seconda condanna, tuttavia, rappresenta solo in parte una benedizione per il governo. gli aspetti curiosi di questa vicenda sono molti. Secondo Hrw la legge in base alla quale Anwar è stato condannato è stata applicata solo sette volte dal 1938. Anwar, che secondo l’accusa ha commesso il reato nel 2008, era stato scagionato nel 2012 perché i campioni di dna usati come prova erano stati manomessi. Il procuratore generale, tuttavia, ha presentato ricorso contro questa decisione. Il caso ha danneggiato l’immagine del sistema giudiziario malese e quella dello stesso Najib, ritenuto coinvolto nelle decisioni dei tribunali. La reputazione del primo ministro era già stata intaccata quando il suo governo aveva fatto ricorso a un’altra legge draconiana per perseguire chi critica il governo, come Zunar, il vignettista arrestato per un tweet contro la condanna di Anwar. Dopo aver promesso di abrogare la legge sulla sedizione, lo scorso novembre Najib ha dichiarato invece di volerla raforzare. Una mossa che è stata interpretata come una concessione ai conservatori dell’Umno, che rappresentano per Najib una minaccia ben più grave rispetto all’opposizione. Attaccato dall’ala più conservatrice della sua coalizione, Najib ha poco spazio per portare avanti le riforme politiche ed economiche, alcune delle quali richiederebbero l’abrogazione delle norme che in Malesia regolano un sistema di discriminazione commerciale a favore della maggioranza malese a cui molti esponenti dell’Umno sono legati. Perciò il bn, i cui esponenti di etnia cinese e indiana hanno riportato risultati disastrosi alle elezioni del 2013, rischia di diventare solo un contenitore per una Umno sempre più ostaggio delle forze nazionaliste di etnia malese, intensiicando una pericolosa polarizzazione razziale nella politica nazionale. Anwar ha molti detrattori, ma almeno avrebbe potuto guidare con una qualche credibilità una coalizione in grado di mediare tra le diverse componenti etniche del paese. u gim NICoLAS ASFoURI (AFP/GeTTy IMAGeS) Hong Kong BIRMANIA Scontri nel Kokang Shopping pericoloso Hong Kong, 15 febbraio 2015 THAILANDIA Decine di studenti hanno sida to la legge marziale e il 14 feb braio hanno inscenato a Bang kok una inta elezione (nella foto) per protestare contro la deci sione della giunta militare, che ha preso il potere con un colpo di stato nel maggio del 2014, di rimandare al 2016 il voto previ sto per quest’anno. Quattro atti visti del Centro degli studenti tailandesi per la democrazia, un’organizzazione che raccoglie sia simpatizzanti dell’ex pre mier yingluck Shinawatra sia i igli dei sostenitori più inluenti della giunta al potere, sono stati arrestati. Gli studenti hanno promesso di proseguire la pro testa e di essere pronti ad anda re in carcere in nome della de mocrazia, scrive il Bangkok Post. GIAPPONE La tentazione dell’apartheid Sì alla forza lavoro straniera, ma impariamo dal Sudafrica dell’apartheid. L’opinione di Ayako Sono, scrittrice e consu lente per l’istruzione del gover no di Shinzō Abe nel 2013, è sta ta pubblicata l’11 febbraio dal quotidiano di destra Sankei Shimbun e ha provocato l’indi gnazione dell’ambasciatrice sudafricana a Tokyo. “Ho solo detto che le Chinatown e le Lit tle Tokyo sono una buona cosa”, ha replicato Sono. TyRoNe SIU ( ReUTeRS) Gli studenti e i militari Nei giorni scorsi i cittadini di Hong Kong si sono scagliati contro gli abitanti della Cina continentale che ogni anno arrivano nell’ex colonia britannica a decine di milioni per comprare merci duty free e poi rivenderle una volta tornati a casa. Alcune centinaia di manifestanti hanno aggredito dei visitatori di un centro commerciale. u SRI LANKA Equilibrismi diplomatici Il progetto da 1,5 miliardi di dol lari aidato a un’azienda cinese per la costruzione di una città portuale vicino a Colombo con tinua a far discutere. Dopo che il presidente Maithripala Sirisena ha confermato l’accordo con Pe chino cancellato dal suo prede cessore Mahinda Rajapaksa, è intervenuto il primo ministro, Ranil Wickremesinghe, recla mando la facoltà del governo di decidere in merito al progetto. La nuova città dovrebbe sorgere su 108 ettari di terreno boniica to, aittato all’azienda di costru zioni cinese per 99 anni. Il pro getto, che deve ancora superare un esame di impatto ambienta le, fa parte della Via della seta marittima, il piano lanciato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping per realizzare una rete di porti commerciali afacciati sull’oceano Indiano. Un disegno che per Pechino è economica mente e strategicamente impor tante, ma che New Delhi vede come una minaccia. Per rassicu rare l’India, il presidente Sirise na l’ha scelta come meta della sua prima visita uiciale, comin ciata il 16 febbraio. Ma, come scrive M K Bhadrakumar su Asia Times, “il raforzamento dei rapporti con Pechino garan tisce a Colombo un sostegno economico di cui ha disperata mente bisogno e gli dà un van taggio nei rapporti diplomatici con New Delhi”. Migliaia di persone sono fuggite in Cina a causa degli scontri scoppiati il 9 febbraio nello stato Shan tra l’esercito e i ribelli ko kang dell’esercito dell’alleanza democratica nazionale, nato nel 1989 dopo lo scioglimento del Partito comunista birmano, una forza armata ilocinese e antigo vernativa. I kokang, di etnia ci nese han, sono una delle mino ranze che chiedono maggior au tonomia e con cui il governo bir mano sta cercando un accordo di pace, scrive Irrawaddy. Il 13 febbraio i ribelli hanno attaccato una base militare a Laukai, ca poluogo dell’area controllata dai kokang, uccidendo 47 soldati e ferendone più di 70. L’esercito ha risposto con raid aerei. Se condo il governo le violenze, le peggiori degli ultimi anni, sono legate al ritorno nel paese di uno dei leader kokang, Phone Kya Shin, messo in fuga dall’esercito birmano nel 2009. Il 17 febbraio nel Kokang è stato dichiarato lo stato d’emergenza. IN BREVE Afghanistan Il 17 febbraio ven ti poliziotti sono morti in un at tentato suicida nella provincia di Logar. Secondo le Nazioni Unite, le vittime civili del con litto nel 2014 sono state 10.548 (la cifra comprende morti e feri ti), con un aumento del 22 per cento rispetto al 2013. Cina Il 16 febbraio il Partito co munista cinese ha espulso un suo alto responsabile, Su Rong, accusato di corruzione. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 33 Americhe Netlix approda a Cuba Leonardo Padura Fuentes, El País, Spagna l 9 febbraio l’azienda statunitense Netlix ha inaugurato il suo servizio di video in streaming a Cuba. Questa notizia riguarda i cubani che hanno accesso alla rete a banda larga e alle carte di credito internazionali, ma è forse la più importante dopo l’annuncio, il 17 dicembre 2014, della ripresa delle relazioni bilaterali tra l’Avana e Washington. Non è un segreto che a Cuba l’informazione è una questione di stato. Radio, tv e giornali sono in mano a enti uiciali che rispondono al governo. I contenuti trasmessi in tv, un mezzo particolarmente difuso e inluente, sono da sempre i più controllati. Cuba ha cinque reti televisive nazionali con dei proili ben deiniti. Nel corso del tempo la programmazione si è aperta e diversiicata, e oggi i cubani hanno a disposizione una vasta oferta nazionale e internazionale: programmi sportivi e ilm, ma anche canali d’informazione come Telesur, di cui Cuba è azionista. Sull’isola si guardano spesso i prodotti provenienti dagli Stati Uniti. A volte ilm, serie tv e documentari sono trasmessi quasi in contemporanea nei due paesi. Spesso, quando nelle sale spagnole si proiettano i ilm candidati agli Oscar, noi cubani li abbiamo già visti alla tv pubblica senza aver pagato un centesimo. Probabilmente in questo senso la qualità dell’oferta cubana è tra le più alte del mondo, perché le tv possono selezionare le opere migliori da un’enorme banca dati. Il tallone d’Achille è la produzione nazionale scarsa e spesso scialba, soprattutto per quanto riguarda i teleilm. Le diicoltà economiche di Cuba limitano le possibilità creative e tecniche, e la I 34 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 ALExANDRE MENEghINI (REUTERS/CONTRASTO) Dal 9 febbraio il servizio di video in streaming è disponibile anche sull’isola. Ma per ora solo pochi cubani potranno usarlo, a causa della connessione internet molto lenta L’Avana, 10 febbraio 2015 qualità della produzione televisiva ne risente. I copioni sono poco avvincenti e non vanno incontro alle aspettative del grande pubblico. Nel caso delle telenovelas, lo spettatore cubano preferisce quelle importate, soprattutto brasiliane, a quelle nazionali. Sonni tranquilli Ma è una sitcom prodotta nell’isola ad avere il più alto gradimento di pubblico. Vivir del cuento va in onda tutti i lunedì in prima serata, e ogni settimana è uno degli argomenti di conversazione principali tra gli abitanti dell’isola. Sulla carta Vivir del cuento potrebbe sembrare uno dei tanti programmi che danno spazio a storie sempre uguali, ma le peripezie dei suoi personaggi, in particolare del vecchio Pánilo Epifanio e del suo amico Chequera, rispecchiano in modo molto incisivo le condizioni di vita nel paese e ofrono una cronaca delle varie strategie di sopravvivenza a cui ricorrono molti cubani nella loro vita quotidiana. Anche se la programmazione televisiva uiciale è diversiicata e di qualità, i cubani sono insoddisfatti e cercano delle alternative. Per esempio le antenne che permettono di ricevere i canali ispanici di Miami o il popolarissimo paquete (pacchetto), un mi- sto di programmi eterogenei – sitcom, informazione e intrattenimento – che non va in onda a Cuba e circola su hard disk esterni al prezzo di tre o quattro pesos convertibili alla settimana (circa tre euro). L’arrivo a Cuba di Netlix, con il suo archivio di due miliardi di ore di serie tv e di ilm, potrebbe cambiare il consumo televisivo sull’isola e fare concorrenza ai canali pubblici e a quelli alternativi. Ma per ora possono dormire tutti sonni tranquilli: alcuni cubani si abboneranno a Netlix addebitando ai parenti all’estero il costo del servizio, ma difficilmente riusciranno a guardare la terza stagione di House of cards. Oggi scaricare un allegato di quattro mega da un’email è una missione impossibile e vedere un ilmato di due minuti su YouTube somiglia a una delle fatiche di Ercole. Con la connessione a internet che ha la maggior parte dei cubani, accedere a Netlix sarà come fare un viaggio nel mondo di Blade runner. u fr Leonardo Padura Fuentes è uno scrittore cubano nato nel 1955. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Venti di quaresima (Tropea 2011). MIrAFLOrES PALACE/rEuTErS/CONTrASTO stati uniti cOlOmbia mai più ragazzi nella guerriglia Esecuzioni sospese Tom Wolf, governatore della Pennsylvania il complotto fallito In un discorso trasmesso in tv il 12 febbraio, il presidente del Venezuela Nicolás Maduro (nella foto) ha dichiarato di aver sventato un colpo di stato contro il suo governo. “Secondo il presidente”, scrive Semana, “il complotto prevedeva un attacco al palazzo della presidenza e il bombardamento del ministero della difesa e degli uici della rete tv Telesur a Caracas. Gruppi di destra e gli Stati uniti avrebbero aiutato a realizzare il golpe”. La portavoce del dipartimento di stato americano, Jen Psaki, ha deinito “ridicole” le accuse del Venezuela. Finora sono stati arrestati un generale in pensione e tredici persone. MArk MAkELA (rEuTErS/CONTrASTO) vEnEzuEla Il 13 febbraio Tom Wolf, il governatore della Pennsylvania, ha annunciato la sospensione della pena di morte nello stato. “La moratoria durerà ino a quando Wolf non avrà esaminato il rapporto del comitato che dal 2011 sta indagando sull’uso e l’applicazione della pena capitale”, scrive il Philadelphia Inquirer. “Dal 1976 ci sono state solo tre esecuzioni, l’ultima nel 1999”. Nonostante questo, la Pennsylvania è uno degli stati con il più alto numero di detenuti nel braccio della morte. Attualmente 186 persone condannate a morte sono in attesa dell’esecuzione, alcune da più di trent’anni. L’Economist spiega che negli ultimi anni anche altri stati, tra cui Colorado, Oregon e Washington, hanno sospeso le esecuzioni e messo in discussione l’utilità della pena di morte. u “Il 17 febbraio, mentre all’Avana i delegati del governo colombiano e del gruppo guerrigliero delle Farc discutevano per raggiungere un accordo sulle vittime, il portavoce della guerriglia Iván Márquez ha annunciato che i minori di 15 anni arruolati nell’organizzazione saranno rilasciati”, scrive El Espectador. Il 12 febbraio le Farc si erano impegnate a non reclutare più combattenti al di sotto dei 17 anni, mentre il governo ha fatto sapere di aver salvato quasi seimila bambini soldato negli ultimi quindici anni. Intanto il 15 febbraio, in un attacco attribuito ai guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln), tre soldati sono stati uccisi nel dipartimento Norte de Santander, vicino al conine con il Venezuela. stati uniti Regole per i droni Il 15 febbraio l’agenzia statunitense per l’aviazione civile ha presentato una prima bozza di regolamento per l’uso dei droni commerciali. Il progetto, che si applica ai velivoli che pesano almeno ventiquattro chilogrammi, prevede norme meno restrittive di quelle attuali. Gli operatori dovranno ottenere una certiicazione e dovranno sempre avere il mezzo nella loro visuale. “Il regolamento”, scrive l’Atlantic, “proibirebbe i servizi di consegna con i droni che alcune compagnie, come Amazon, stanno sperimentando”. stati uniti il texas sida Obama In Texas un giudice federale ha bloccato il decreto sull’immigrazione annunciato a novembre dal presidente Barack Obama per regolarizzare cinque milioni di immigrati senza documenti. Il giudice si è pronunciato su un ricorso presentato da ventisei stati guidati da governatori del Partito repubblicano. La sentenza proibisce all’amministrazione Obama di attuare i programmi per la concessione di permessi agli immigrati che rischiano l’espulsione. Secondo il Texas Observer è una sconitta per Obama, almeno temporanea. “La Casa Bianca ha risposto ribadendo la correttezza giuridica del provvedimento e ha annunciato che ricorrerà contro la decisione del giudice”. Espulsioni di immigrati senza documenti negli Stati Uniti, migliaia Fonte: The Economist Presidenza George W. Bush Presidenza Barack Obama 400 300 200 100 0 2001 2009 2013 in bREvE Cile Il 13 febbraio Sebastián Dávalos, iglio della presidente Michelle Bachelet, si è dimesso da direttore socioculturale della presidenza dopo essere stato accusato di aver approittato della sua posizione per far avere un credito alla moglie. Haiti Il 17 febbraio almeno 18 persone sono state uccise dal crollo di un cavo dell’alta tensione a Port-au-Prince durante la silata dei carri per il carnevale. Stati Uniti Il 16 febbraio Craig Hicks, 46 anni, è stato incriminato per l’uccisione di tre studenti musulmani a Chapel Hill, nel North Carolina. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 35 Le opinioni La Grecia merita un’altra possibilità Paul Krugman Q uando si discute delle misure necessarie debiti. L’austerità ha devastato l’economia greca proin un’economia mondiale depressa, c’è prio come la sconitta militare devastò la Germania di sempre qualcuno pronto ad agitare lo Weimar. Dal 2007 al 2013 il pil reale pro capite greco è spettro della Repubblica di Weimar, che sceso del 26 per cento. In Germania dal 1913 al 1919 scedovrebbe essere un monito sui pericoli se del 29 per cento. Malgrado la catastrofe, la Grecia sta ripagando i del deicit di bilancio e di una politica suoi creditori e ha raggiunto un avanzo primario (le monetaria espansiva. Ma la storia della Germania dopo la prima guerra entrate superano le spese al netto degli interessi) di mondiale viene quasi sempre citata in modo curiosa- circa l’1,5 per cento del pil. Il nuovo governo di Atene è disposto a mantenere questo surplus di mente selettivo. Si parla continuamente bilancio, ma non ad accogliere la richiedell’iperinflazione del 1923, quando la Nel primo sta dei creditori che vorrebbero veder gente andava in giro con le carriole piene dopoguerra i di banconote, e non della ben più impor- tentativi di imporre triplicare l’avanzo primario greco nei prossimi anni. tante delazione degli anni trenta, quan- un tributo a un Cosa dovrebbe fare la Grecia per ragdo il governo del cancelliere Heinrich paese in rovina giungere questo obiettivo? Dovrebbe taBrüning provò a mantenere l’ancoraggio azzopparono la al sistema aureo con una stretta moneta- democrazia tedesca gliare ulteriormente la spesa pubblica, ma non solo. I tagli alla spesa hanno già ria e una durissima austerità. e avvelenarono i spinto la Grecia in una profonda recesE che dire di quello che avvenne prirapporti con sione, e ulteriori tagli non farebbero che ma dell’iperinlazione, quando gli alleati i paesi vicini aggravare la situazione. Ma il calo dei vittoriosi cercarono di costringere la Gerredditi ridurrebbe anche il gettito iscale, mania a pagare salatissime riparazioni di guerra? È una vicenda da cui possiamo imparare molto, e dunque il deicit scenderebbe molto meno rispetto perché riguarda direttamente la crisi che attanaglia la alla riduzione iniziale della spesa, probabilmente meno Grecia. Oggi più che mai è fondamentale che i leader della metà. Per raggiungere l’obiettivo la Grecia dovrebbe fare europei ricordino bene la storia. In caso contrario il progetto europeo di pace e democrazia attraverso la pro- un altro ciclo di tagli, e poi un altro ancora. Inoltre il crollo dell’economia farebbe diminuire la spesa privasperità non sopravvivrà. In breve, la storia delle riparazioni è questa: la Fran- ta, altro costo indiretto dell’austerità. Mettiamo insiecia e il Regno Unito, invece di considerare la neonata me tutti questi fattori, e il +3 per cento del pil chiesto dai democrazia tedesca come una potenziale alleata, la creditori costerebbe alla Grecia non il 3 per cento, ma trattarono come una nemica sconitta chiedendole di una cifra vicina all’8 per cento del pil. Il tutto dopo una ripagare i danni della guerra. Fu una mossa poco sag- delle peggiori crisi economiche della storia. Cosa succede se la Grecia si riiuta di pagare? Forgia, perché le richieste fatte alla Germania erano impossibili da soddisfare. Per due motivi. Innanzi tutto tunatamente, nel ventunesimo secolo le nazioni l’economia tedesca era già stata devastata dal conlitto. dell’Europa non usano più gli eserciti per recuperare i Secondo, il fardello imposto a un’economia così inde- crediti. Ma ci sono altre forme di coercizione. Oggi, bolita – come spiegò John Maynard Kaynes nel suo libro per esempio, sappiamo che nel 2012 la Banca centrale Le conseguenze economiche della pace – sarebbe stato di europea ha sostanzialmente minacciato di distruggere gran lunga superiore ai pagamenti diretti ai vendicativi il sistema bancario irlandese se Dublino non avesse accettato il piano del Fondo monetario internazionale. alleati. Com’era inevitabile, alla ine la somma pagata dalla Una minaccia simile pende implicitamente sulla GreGermania fu molto inferiore alle richieste degli alleati. cia, anche se spero che la Bce, guidata oggi da persone E i tentativi di imporre un tributo a un paese in rovina – più ragionevoli, non voglia darle seguito. In ogni caso, i creditori europei devono capire che la la Francia arrivò perino a occupare con l’esercito la Ruhr, il cuore industriale della Germania, per estorcere lessibilità – cioè dare alla Grecia la possibilità di riprenle riparazioni – azzopparono la democrazia tedesca e dersi – è anche nel loro interesse. Magari non gli andrà a genio il nuovo governo di sinistra, ma è un governo avvelenarono i rapporti con i paesi vicini. Questo ci porta allo scontro tra la Grecia e i suoi cre- regolarmente eletto e i suoi leader, da quello che ho ditori. Si può sostenere che la Grecia si è messa nei guai sentito inora, credono sinceramente negli ideali deda sola, anche se è stata aiutata da creditori irresponsa- mocratici. L’Europa può peggiorare la situazione. E se i bili. Ma la realtà è che Atene non può ripagare tutti i creditori saranno vendicativi, succederà. u fas 36 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 PAUL KRUGMAN è un economista statunitense. Nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia. Scrive sul New York Times. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Un paese non è un’azienda! (Garzanti 2015). Le opinioni La crisi dello Yemen fa tremare i paesi arabi Rami Khouri L’ incredibile situazione in Yemen, dove tentativi di democratizzazione, di pluralismo politico, le fondamenta dello stato stanno len- di dialogo nazionale. È stato segnato da rivoluzioni potamente crollando, è un esempio dei polari, interventi diretti delle potenze vicine come problemi strutturali che affliggono l’Arabia Saudita e il Gcc o delle Nazioni Unite, interventi indiretti dell’Iran e di altri paesi, cospicui inanziamolti paesi nel mondo arabo. Se si volesse spiegare a qualcuno menti dall’esterno, uniicazioni e separazioni del nord perché il mondo arabo continua a trascinarsi da un con- e del sud del paese, seri tentativi di redigere una costilitto all’altro in un vortice di violenza politica e debo- tuzione fondata sul consenso popolare e di decentralizlezza istituzionale che si estende in tutta la regione, lo zare il potere e inine, come se non bastasse, una grave crisi di approvvigionamento idrico che Yemen potrebbe essere l’esempio perfetdiventerà catastroica se non sarà afronto. Questo paese è lo specchio della pro- Se si volesse fonda fragilità che si ritrova ormai in una spiegare a qualcuno tata subito. A questo caos di politica, identità, nadecina di altri paesi arabi. La mancanza perché il mondo zionalismo e sovranità si sono ora agdi legittimità degli stati agli occhi dei cit- arabo continua a giunti altri sviluppi: la conquista della tadini porta inevitabilmente alla disinte- trascinarsi in un capitale Sanaa da parte dei ribelli houthi grazione di quei paesi in entità più picco- vortice di violenza le, controllate da gruppi armati e alitte politica e debolezza e la proclamazione di un nuovo sistema costituzionale di transizione, che ha solda violenza cronica. istituzionale, lo levato nuovi dubbi e minacce da varie Lo Yemen richiede un’attenzione parYemen sarebbe parti. La cosa incredibile è che i principaticolare, perché rappresenta un rischio l’esempio perfetto li gruppi politici yemeniti continuano a concreto per gli altri stati della regione e incontrarsi sotto la supervisione dell’inper il resto del mondo. È vicino ai paesi produttori di petrolio che fanno parte del Consiglio di viato speciale dell’Onu per cercare una soluzione alle cooperazione del Golfo (Gcc) e ad alcune delle più im- tensioni che hanno fatto a pezzi il loro paese. Lo Yemen può prendere diverse strade, tutte già portanti rotte marittime mondiali, senza contare la presenza di Al Qaeda nella penisola araba (Aqap) e le provate in passato senza troppo successo: la secessione conseguenze che il crollo dello stato avrebbe in un pae- del sud, la creazione di feudi tribali al nord, il decentramento costituzionale, la guerra civile, il pluralismo dese di 25 milioni di persone a basso reddito. Dopo la ine della guerra fredda nel 1990, il mondo mocratico e la condivisione del potere, oppure uno staarabo non ha più potuto fare aidamento su forze ester- to autoritario centralizzato e basato sulla sicurezza. ne per mantenere l’ordine nella regione e nemmeno Quello che spaventa tutti, in Yemen e all’estero, è la per sostenere i paesi più vulnerabili impedendo che presenza consolidata ma ancora limitata di Al Qaeda e crollassero e che i loro problemi si ripercuotessero sui la possibilità che il gruppo Stato islamico possa sfruttapaesi vicini. La crisi yemenita è preoccupante perché re il caos per insediarsi nel paese. Ancora una volta il Gcc sarà probabilmente il princista avvenendo in un momento in cui nessuno ha l’autorità per mantenere una parvenza di ordine e d’integrità pale attore esterno che cercherà di mantenere l’ordine, come ha già fatto anni fa quando contribuì alla caduta nazionale. Il caos locale rilette quello regionale. La cosa allarmante è che lo Yemen vive queste ten- del presidente Ali Abdullah Saleh, avviando un sistema sioni da almeno mezzo secolo, in dalla “guerra per pro- di potere più pluralistico, anche se di breve durata, atcura” tra Arabia Saudita ed Egitto e tra Stati Uniti e traverso il dialogo nazionale. Gli stati del Golfo consiUnione Sovietica che si è combattuta sul suo territorio dereranno la presa del potere degli houthi come l’ennenegli anni sessanta. L’alternarsi di fasi di costruzione sima minaccia ordita dall’Iran contro il predominio dello stato e collasso istituzionale che lo Yemen ha co- sunnita nella regione, e cercheranno di neutralizzarla. Questa visione a breve termine non può mascherare nosciuto in dagli anni cinquanta comprende praticamente tutti gli elementi politici che hanno costruito e le profonde debolezze del mondo arabo moderno, di cui lo Yemen è solo l’ultima dimostrazione. Tra queste distrutto il mondo arabo in quel periodo. La lunga lista include forze tribali e religiose, movi- ci sono la costante mancanza di stabilità e sviluppo da menti nazionalisti arabi e separatisti, gruppi settari ar- parte di stati che hanno cercato di ottenere legittimità mati, gruppi terroristici come Aqap. Il paese ha subìto la attraverso le loro forze armate o gli alleati stranieri, e manipolazione coloniale straniera (nello Yemen del non attraverso un consenso capace di cementare lo stasud prima del 1967), le ingerenze da parte di altri stati to o la partecipazione dei cittadini nella politica e nelle arabi e le ricadute della guerra fredda. È passato per istituzioni. u f 38 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 RAMI KHOURI è columnist del quotidiano libanese Daily Star. È direttore dell’Issam Fares institute of public policy and international afairs all’American university di Beirut. In copertina La vergogna d Arundhati Roy, Prospect, Regno Unito Foto di Michele Palazzi io padre era un indù. L’ho conosciuto solo da adulta. Sono cresciuta con mia madre in una famiglia cristiana siriana ad Ayemenem, nel Kerala, la regione del sudovest dell’India che all’epoca era governata dai comunisti. Eppure ero circondata dalle divisioni e dalle spaccature create dalle caste. Ayemenem aveva una chiesa separata per i paraiyar (una casta di schiavi), dove i sacerdoti paraiyar si rivolgevano a quella congregazione di intoccabili. La casta di appartenenza delle persone traspariva dai loro nomi, dal modo di rivolgersi agli altri, dal lavoro che facevano, dagli abiti che indossavano, dai matrimoni che organizzavano, dalla lingua che parlavano. Nessun testo scolastico, però, faceva riferimento al concetto di casta. Solo quando ho letto Annihilation of caste (L’eliminazione delle caste), il testo del 1936 dell’intellettuale indiano B.R. Ambedkar, mi sono resa conto di quest’enorme lacuna nell’universo culturale degli indiani. Leggendo il discorso di Ambedkar ho capito che quella lacuna esiste ancora e che continuerà a esistere inché la società indiana non si trasformerà nel profondo. M L’altra Malala Se avete sentito parlare di Malala Yousafzai, la diciassettenne pachistana che ha vinto il Nobel per la pace nel 2014 (insieme all’attivista indiano Kailash Satyarthi), ma non di Surekha Bhotmange, allora dovete leggere Ambedkar. A 15 anni Malala aveva già commesso diversi crimini: era una ragazza, viveva nella valle dello Swat, in Pakistan, 40 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 scriveva un blog sul sito della Bbc, era apparsa in un video del New York Times e andava a scuola. Malala voleva diventare medico, suo padre avrebbe voluto che entrasse in politica. Era una ragazza coraggiosa. Non ha dato ascolto alle minacce dei taliban quando dicevano che le scuole non erano fatte per le ragazze e minacciavano di ucciderla se non smetteva di criticarli. Il 9 ottobre 2012 un uomo armato è salito sullo scuolabus dove viaggiava e le ha sparato un colpo alla testa. Malala è stata portata in aereo nel Regno Unito, dove è stata curata ed è sopravvissuta. È stato un miracolo. Malala ha ricevuto messaggi di sostegno dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama e dalla sua segretaria di stato, Hillary Clinton. Madonna le ha dedicato una canzone. Angelina Jolie ha scritto un articolo su di lei. La rivista Time le ha dedicato la copertina. Pochi giorni dopo l’attentato, l’ex premier britannico Gordon Brown, oggi inviato speciale dell’Onu per l’istruzione nel mondo, ha lanciato la campagna “I am Malala” per chiedere al governo pachistano di garantire a tutte le bambine la possibilità di studiare. Surekha Bhotmange, invece, aveva quarant’anni e anche lei aveva commesso vari crimini. Era una donna indiana ed era una dalit (un’intoccabile, appartenente alla casta più bassa) ma non viveva nella povertà estrema. Più istruita del marito, svolgeva le funzioni del capofamiglia. Come Ambedkar, che era il suo idolo, lei e la famiglia avevano rinunciato all’induismo per convertirsi al buddismo. I igli di Surekha avevano studiato: i due maschi, Sudhir e Roshan, erano andati al college; la femmina, Priyanka, era all’ultimo anno di CONTRASTO La democrazia non ha sradicato il sistema delle caste, ma l’ha consolidato e modernizzato. E l’occidente spesso lo giustiica come parte integrante della cultura indù, scrive Arundhati Roy liceo. Surekha e il marito avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno nel villaggio di Khairlanji, nello stato del Maharashtra. Il terreno era circondato da fattorie di persone che si consideravano di una casta superiore a quella di Surekha. Poiché era una dalit e non aveva il diritto di dell’India Nelle foto in queste pagine, dalit convertiti al cristianesimo. Vellakulam, Tamil Nadu, 2008 aspirare a una vita dignitosa, il panchayat (assemblea) del villaggio non le aveva concesso il permesso di allacciarsi alla rete elettrica né di trasformare la sua capanna di fango e paglia in una casetta di mattoni. Gli abitanti del villaggio non consentivano alla sua famiglia di irrigare i campi con l’ac- qua del canale o di attingere all’acqua del pozzo pubblico. Un giorno hanno deciso di costruire una strada sulla proprietà di Surekha. Quando lei ha protestato, sono passati sui suoi terreni con i carri trainati dai buoi e hanno portato gli animali a pascolare nei suoi campi coltivati. Surekha non si è arresa. Ha denunciato il fatto alla polizia, che però non l’ha ascoltata. Nei mesi successivi le tensioni nel villaggio sono aumentate. Per lanciare un avvertimento alcuni abitanti hanno aggredito un parente di Surekha, riducendolo in in di vita. Lei ha sporto di nuovo denuncia. La Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 41 In copertina polizia ha arrestato un po’ di persone, ma sono state liberate su cauzione quasi subito. Lo stesso giorno, il 29 settembre 2006, una quarantina di uomini e donne ha circondato la casa dei Bhotmange. Il marito di Surekha, Bhaiyalal, era nei campi. Quando ha sentito delle grida, è corso a casa. Si è nascosto dietro una siepe e ha visto la folla aggredire la sua famiglia. È andato nel villaggio più vicino e ha avvertito la polizia. Gli agenti non sono mai arrivati. La folla ha trascinato Surekha, Priyanka e i due ragazzi fuori dalla casa. Ai ragazzi è stato ordinato di violentare la madre e la sorella. Quando si sono riiutati gli hanno tagliato i genitali e li hanno linciati. Surekha e Priyanka sono state stuprate più volte e massacrate di botte. I quattro cadaveri sono stati gettati in un canale, e trovati il giorno dopo. All’inizio la stampa indiana ha presentato l’accaduto come un delitto d’onore, lasciando intendere che la comunità era rimasta turbata dalla presunta relazione di Surekha con un parente (l’uomo che era stato aggredito). Alla ine, però, le proteste dei dalit hanno costretto la magistratura a fare indagini più approfondite. Le ricerche di alcuni comitati di cittadini, infatti, avevano appurato che le prove erano state inquinate. Nel primo grado di giudizio il tribunale ha condannato a morte i principali responsabili degli omicidi, senza però fare riferimento alla legge del 1989 per la prevenzione delle atrocità sulle caste e le tribù riconosciute: il giudice ha considerato la strage di Khairlanji come un crimine dettato dal desiderio di “vendetta”. Secondo lui non c’erano prove degli stupri e il delitto non era motivato da questioni legate alla casta di appartenenza delle vittime. Quando una sentenza indebolisce il movente di un crimine, poi spesso in un grado di giudizio successivo la pena viene ridotta. È una pratica comune in India. Se il giudice avesse riconosciuto che il pregiudizio di casta è ancora una realtà, avrebbe fatto un passo nella direzione giusta. Invece ha preferito non afrontare il discorso. Surekha Bhotmange e i suoi igli vivevano in una democrazia capitalista, per questo non ci sono state campagne indirizzate al governo indiano dall’Onu, né messaggi indignati da parte dei leader stranieri. “Per gli intoccabili”, scrisse Ambedkar nel 1945, dimostrando un coraggio raro tra gli intellettuali indiani, “l’induismo è un’autentica stanza degli orrori”. Oggi il termine “intoccabile” è stato sostituito dalla parola dalit (letteralmente “oppresso”), che spesso è usata come sinonimo di “casta riconosciuta” (il termine con cui i dalit sono indi- 42 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 cati dalla legge sulle caste e le tribù). Ma è un uso improprio, fa notare la studiosa indiana Rupa Viswanath, perché mentre il termine dalit si riferisce anche agli intoccabili che si sono convertiti ad altre religioni per sfuggire al marchio della casta (come i paraiyar del mio villaggio d’origine, convertiti al cristianesimo), quello di casta riconosciuta no. La terminologia uiciale del pregiudizio è un labirinto che può far apparire qualsiasi cosa si scriva come un documento uscito dalla penna di un burocrate intransigente. Per questo cerco di usare il termine Ogni sedici minuti un dalit è vittima di un reato commesso da un non dalit “intoccabile” parlando del passato, e dalit quando scrivo del presente. Per i dalit che si sono convertiti ad altre religioni speciicherò se si tratta di dalit sikh, dalit musulmani e dalit cristiani. Secondo il casellario giudiziale indiano, ogni sedici minuti un dalit è vittima di un reato commesso da un non dalit; ogni giorno più di quattro donne intoccabili vengono stuprate da uomini “toccabili”; ogni setti- Da sapere Una società divisa u In India ci sono più di tremila caste e un numero ancora maggiore di sottocaste. Le caste più importanti sono sei: i bramini, la casta più alta, tradizionalmente composta da sacerdoti e insegnanti, sono una piccola minoranza della popolazione indiana ma occupano posizioni chiave nella società, in parte un’eredità del colonialismo britannico. I ksatriya, storicamente la classe militare, oggi sono soprattutto proprietari terrieri, meno importanti rispetto al passato. I vaisya, una volta soprattutto mandriani, agricoltori, artigiani e mercanti, oggi formano la classe media e costituiscono circa un quinto della popolazione indiana. I sudra, la più bassa delle quattro antiche classi sociali (dette varna), oggi fanno parte delle caste riconosciute dal governo come “storicamente svantaggiate”. Gli adivasi appartengono alle tribù indigene dell’India. Più del 95 per cento vive nelle zone rurali. I dalit, letteralmente “oppressi”, “schiacciati”, sono la più bassa di tutte le caste, considerati intoccabili. Anche se la legge indiana proibisce la discriminazione di casta, il sistema castale è ancora molto forte. Secondo l’India human development survey, nel 2014 i matrimoni tra persone di caste diverse erano solo il 5 per cento del totale. Prospect mana tre dalit sono assassinati e sei vengono rapiti. Nel 2012 sono state stuprate 1.574 dalit (mediamente viene denunciato solo il 10 per cento degli stupri o di altri reati contro i dalit) e 651 dalit, uomini e donne, sono stati uccisi. Questa è la situazione solo per quanto riguarda gli stupri e gli omicidi, perché non si contano i casi di persone costrette a spogliarsi e a silare nude o a mangiare merda (letteralmente), i casi di sequestro dei terreni, di isolamento sociale o di restrizioni all’accesso all’acqua potabile. Le statistiche uiciali non includono, per esempio, vittime come Bant Singh, un dalit sikh che nel 2005 ha subìto l’amputazione delle braccia e di una gamba per aver denunciato gli uomini che avevano stuprato la iglia. “Se la comunità si oppone al riconoscimento dei diritti fondamentali, non c’è legge, parlamento o sistema giudiziario che possa garantirli”, scriveva Ambekdar. “Cosa se ne fanno dei diritti fondamentali i neri negli Stati Uniti, gli ebrei in Germania e gli intoccabili in India? Come ha detto Burke, non è ancora stato trovato il modo per punire una moltitudine”. Chiedete a un qualunque poliziotto di un villaggio indiano qual è il suo compito: probabilmente vi risponderà che è “mantenere la pace”. Quasi sempre questo risultato si ottiene difendendo il sistema delle caste. Le aspirazioni dei dalit sono considerate una violazione della pace. Altre vergogne della nostra epoca come l’apartheid, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo economico e il fondamentalismo religioso sono state messe in discussione in tutto il mondo, a livello politico e intellettuale. Perché il sistema indiano delle caste – uno dei modelli di organizzazione gerarchica più violenti della storia – non ha suscitato lo stesso sdegno? Forse perché ormai è così legato all’induismo e, per estensione, a tante altre cose ritenute nobili e sagge – il misticismo, la spiritualità, la nonviolenza, la tolleranza, il vegetarianismo, Gandhi, lo yoga, i turisti zaino in spalla, i Beatles – che sembra impossibile riuscire a isolarlo e a inquadrarlo. Una questione interna L’appartenenza a una casta non è deinita – come, per esempio, nell’apartheid – dal colore della pelle, e quindi è più diicile da individuare. Inoltre, a diferenza dell’apartheid, il sistema delle caste viene difeso strenuamente dai più potenti. Secondo loro la casta è un collante sociale in grado di unire, oltre che di separare, popoli e comunità in modi interessanti e per certi versi positivi. Sempre secondo loro, avrebbe dato alla società indiana la forza e la lessibilità ne- CONtrAStO Tamil Nadu, 2008 cessarie a superare varie side. Il governo indiano non può permettere che la discriminazione e la violenza di casta siano paragonate al razzismo e all’apartheid. Quando, nel 2001, i dalit hanno cercato di sollevare il problema delle caste in India alla conferenza mondiale contro il razzismo di Durban, in Sudafrica, il governo indiano li ha attaccati duramente, sostenendo che si trattava di “una questione interna” e promuovendo le tesi di noti sociologi secondo i quali il sistema delle caste non era equiparabile al razzismo e la casta non coincideva con l’appartenenza razziale. Ambedkar sarebbe stato d’accordo con i sociologi. Ma nel contesto della conferenza di Durban, i dalit ponevano la questione in altri termini: anche se casta e razza sono due cose diverse, il sistema delle caste e il razzismo sono comparabili perché sono forme di discriminazione basate sulla discendenza familiare. Per solidarietà con la causa dei dalit, il 15 gennaio 2014, durante la commemorazione dell’85° anniversario della nascita di Martin Luther King, gli afroamericani hanno irmato una dichiarazione di solidarietà per chiedere “la ine dell’oppressione dei dalit in India”. Nel dibattito su identità e giustizia, crescita e sviluppo, molti dei più noti studiosi indiani trattano la questione delle caste al massimo come uno spunto di discussione, un sottotitolo o una nota a piè di pagina. Inserendo la casta all’interno di un’analisi di classe marxista, l’intellighenzia indiana di sinistra ha reso il problema ancora meno visibile. Questa cancellazione, quest’invisibilità programmatica, a volte è il risultato di una volontà politica, altre volte è il prodotto di una vita trascorsa in ambienti chiusi e privilegiati, dove le diferenze di casta non emergono mai. Per questo molti hanno inito per convincersi che il sistema sia stato sradicato, come il vaiolo. Gli antropologi continueranno ancora per molti anni a discutere di come sono nate le caste. Ma i princìpi organizzatori di queste divisioni sociali – fondati su una scala gerarchica di diritti e doveri, purezza e impurità – e il modo in cui sono stati e sono ancora difesi e messi in atto non sono poi così diicili da inquadrare: la cima della piramide delle caste è considerata pura e gode di molti diritti, la base è considerata impura e non ha diritti, solo doveri. I concetti di purezza e impurità sono legati a un elaborato sistema ancestrale di organizzazione ereditaria del lavoro fondato sulle caste. Nei testi all’origine dell’induismo, il cosiddetto “sistema delle caste” è noto come var- nashrama dharma, il sistema dei quattro varna (colori, classi). Le circa quattromila caste e sottocaste (jati) endogame della società induista, ognuna con la sua speciica occupazione ereditaria, si dividono in quattro varna: i bramini (sacerdoti), i ksatriya (soldati), i vaisya (commercianti) e i sudra (servitori). Al di fuori di questi varna ci sono le caste avarna: gli ati-shudra, subumani, organizzati nelle loro gerarchie – intoccabili, inguardabili, inavvicinabili – la cui presenza, il cui tocco, la cui stessa ombra sono considerati impuri e contaminanti dagli indù delle caste privilegiate. In alcune comunità, per impedire l’endogamia (l’obbligo di sposare persone della stessa casta), ogni casta endogama è divisa in gotra (o clan) esogami. Sull’esogamia viene esercitato un controllo altrettanto forte di quello che regola l’endogamia, con decapitazioni e linciaggi approvati degli anziani. Ogni regione dell’India ha perfezionato una sua versione della crudeltà nei rapporti tra le caste fondata su un codice non scritto. Oltre a dover vivere in zone segregate, gli intoccabili non potevano usare le stesse strade usate dalle caste privilegiate, non potevano bere dai pozzi comuni, non potevano entrare nei templi indù né accedere alle scuole delle caste privilegiate, non poInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015 43 In copertina CoNtRASto Melakondai, Tamil Nadu, 2008 tevano coprire la parte superiore del corpo e potevano indossare solo certi tipi di abiti e di gioielli. Alcune caste, come i mahar – la casta a cui apparteneva Ambekdar – dovevano legarsi una scopa alla vita per cancellare le orme impure che lasciavano dietro di sé. Altri dovevano appendersi una sputacchiera al collo per raccogliere la saliva impura. Gli uomini delle caste privilegiate godevano di diritti sui corpi delle donne intoccabili. L’amore è impuro. Lo stupro è puro. In molte parti dell’India funziona ancora così. Il passato che resiste Come se il varnashrama dharma non fosse suiciente, c’è l’aggravante del karma. Nascere in una casta inferiore è considerato una punizione per le cattive azioni commesse nelle vite precedenti. È come vivere scontando una condanna all’ergastolo. Gli atti d’insubordinazione possono condurre a un inasprimento della pena, che signiicherebbe un altro ciclo di rinascita come intoccabile o sudra. Quindi conviene comportarsi bene. “Non c’è un modello di organizzazione sociale più degradante del sistema delle caste”, diceva Ambekdar. “È un sistema che paralizza e indebolisce gli individui ino ad annichilirli, impedendo- 44 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 gli di dedicarsi ad attività utili”. L’indiano più famoso del mondo, Mohandas Karamchand Gandhi, non era d’accordo. Era convinto che le caste rilettessero il genio della società indiana. Nel 1921, nella sua rivista Navajivan, in lingua gujarati, Gandhi scriveva: “Se la società indù è riuscita a sopravvivere è perché si fonda sul sistema delle caste. Se distruggessimo il sistema delle caste per adottare il sistema sociale occidentale, gli indù dovrebbero rinunciare al principio dell’occupazione ereditaria, che è alla base del sistema castale. Il principio ereditario è un principio eterno. Cambiarlo signiicherebbe creare disordine. Non so cosa farmene di un bramino, se non ho la certezza che resterà un bramino inché vive. Sarebbe il caos se ogni giorno un bramino dovesse diventare un sudra e un sudra diventare un bramino”. Pur essendo un ammiratore del sistema castale, Gandhi pensava che non dovesse esserci una gerarchia tra le caste e che tutte dovessero essere considerate uguali. Le caste avarna dovevano entrare nel sistema dei varna. Invece Ambekdar obiettava: “Il fuori casta è un efetto del sistema castale: inché ci saranno le caste, ci saranno anche i fuori casta. Solo l’abbattimento del sistema potrà emancipare i fuori casta”. Sono trascorsi quasi settant’anni dal passaggio di poteri dal governo britannico a quello indiano nell’agosto del 1947. Le caste appartengono al passato? Molte cose sono cambiate. L’India ha avuto un presidente dalit, K.R. Narayanan, e un ministro della giustizia dalit. L’ascesa di partiti politici dominati dai dalit e da altre caste subalterne è uno sviluppo importante e per molti versi rivoluzionario. Anche se ha assunto la forma di una minoranza ristretta ma visibile – la leadership – che realizza i sogni della grande maggioranza, l’affermazione dell’orgoglio dalit nella politica non può che essere una cosa positiva, vista la storia dell’India. Le accuse di corruzione rivolte a partiti come il Bahujan samaj party (Partito della società maggioritaria, Bsp, nato nel 1984 per rappresentare le caste e le tribù riconosciute e le minoranze in generale) potrebbero essere estese, su scala ancora più vasta, ai vecchi partiti. Ma le critiche al Bsp assumono un tono più acceso e ofensivo perché la sua leader è una donna: Mayawati Kumari è dalit e single, ma non si vergogna di nessuna delle due cose. Qualsiasi errore possa avere commesso, il Bsp ha avuto il merito di restituire dignità ai dalit. Anche se le caste subordinate stanno diventando una forza politica con cui bisogna fare i con- ti in una democrazia parlamentare, il timore è che la democrazia venga comunque minata in maniera grave e strutturale. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’India, un tempo alla testa del movimento dei paesi non allineati, si è riposizionata come “alleato naturale” degli Stati Uniti e di Israele. Negli anni novanta il governo indiano ha lanciato una serie di riforme economiche radicali, aprendo al capitale globale un mercato un tempo protetto. Le risorse naturali, i servizi essenziali e le infrastrutture realizzate con il denaro pubblico nel corso dei precedenti cinquant’anni sono stati consegnati a multinazionali private. Vent’anni dopo, nonostante una crescita straordinaria del pil (che di recente ha subìto un rallentamento), le nuove politiche economiche hanno portato alla concentrazione della ricchezza nelle mani di un gruppo di persone sempre più ristretto. Oggi i capitali dei cento indiani più ricchi equivalgono a un quarto del pil. In un paese di 1,2 miliardi di abitanti, più di 800 milioni di persone vivono con meno di venti rupie (30 centesimi di euro) al giorno. Praticamente le multinazionali possiedono e amministrano il paese. Politici e partiti hanno cominciato a funzionare come iliali delle grandi aziende. Che efetto ha avuto tutto questo sulle caste? C’è chi pensa che il sistema castale abbia protetto la società indiana impedendole di frammentarsi come è successo alla società occidentale dopo la rivoluzione industriale. Altri sostengono il contrario: i livelli senza precedenti di urbanizzazione e la nascita di un nuovo mercato del lavoro stravolgeranno il vecchio ordine e renderanno le gerarchie di casta irrilevanti, se non addirittura obsolete. Entrambe le posizioni meritano un’attenta analisi. Nella lista dei miliardari pubblicata nel 2013 dalla rivista Forbes ci sono 55 indiani. I dati, naturalmente, si basano sul patrimonio dichiarato. Perino tra i miliardari la distribuzione della ricchezza è una piramide alta e stretta: la ricchezza complessiva dei primi dieci supera quella degli altri 45. Sette di questi dieci sono vaisya che amministrano multinazionali con interessi economici in tutto il mondo: porti, miniere, giacimenti di gas, compagnie marittime, aziende farmaceutiche, reti telefoniche, stabilimenti petrolchimici, industrie di lavorazione dell’alluminio, aziende di telefonia mobile, catene di negozi alimentari, scuole, case cinematograiche, sistemi di conservazione di cellule staminali, reti per la fornitura elettrica e zone economiche speciali. Tra gli altri 45, ci sono 19 vaisya, poi vengono i par- si, i bohra e i khatri (tutte caste di commercianti) e i bramini. Nella lista non igurano dalit o adivasi (indigeni indiani). Oltre alle multinazionali, ci sono i bania (che fanno parte dei vaisya): controllano le piccole imprese nelle città e gli usurai tradizionali delle zone rurali che hanno spinto nel gorgo dei debiti milioni di contadini e di adivasi. Dall’indipendenza in poi, negli stati indiani del nordest – Arunachal Pradesh, Manipur, Mizoram, Tripura, Meghalaya, Nagaland e Assam – ci sono state rivolte, interventi militari e massacri. Nonostante Gandhi era convinto che le caste rilettessero il genio della società indiana questo, i commercianti marwari e bania si sono stabiliti in quelle zone, consolidando le loro attività e senza attirare troppo l’attenzione. Oggi controllano quasi tutta l’attività economica della regione. Nella piccola e grande imprenditoria, nell’agricoltura e nell’industria, casta e capitalismo si sono fusi dando vita a una “lega” indiana decisamente unica e inquietante. I vaisya stanno solo obbedendo a una volontà divina. L’Arthashastra, un trattato politico scritto intorno al 350 aC, aferma che l’usura è un diritto dei vaisya. Il testo di diritto Manusmriti, del 150 dC, andava oltre, indicando una scala progressiva di tassi di interesse: il 2 per cento al mese per i bramini, il 3 per cento per i ksatriya, il 4 per cento per i vaisya e il 5 per cento per i sudra. Su base annuale un bramino doveva pagare il 24 per cento d’interessi, contro il 60 per cento richiesto a dalit e sudra. Ancora oggi c’è chi concede prestiti a contadini disperati o a braccianti senza terra a un tasso d’interesse di almeno il 60 per cento. Se non possono restituire la somma in contanti, quei contadini restano intrappolati nella cosiddetta “servitù del debito”, che per generazioni li costringe a lavorare per gli usurai. Inutile dire che, sempre secondo il Manusmriti, nessuno può essere costretto a servire chi appartiene a una casta “inferiore”. Se i vaisya controllano l’economia indiana, cosa fanno i bramini? Secondo il censimento del 1931, l’ultimo a distinguere la casta dei bramini, all’epoca costituivano il 6,4 per cento della popolazione (i vasiya il 2,7 per cento). Ma è probabile che nel frattempo – com’è successo ai vaisya – la per- centuale sia diminuita. Secondo una ricerca del Centro per lo studio delle società in via di sviluppo (Csds), il numero dei bramini in parlamento, un tempo esageratamente alto, si è ridotto drasticamente. Signiica che sono diventati meno inluenti? Al tempo di Ambekdar i bramini – che nel 1948 erano il 3 per cento della popolazione – occupavano il 37 per cento dei posti da dirigente e funzionario della pubblica amministrazione e il 43 per cento dei posti da impiegato. Ormai non esiste più un modo aidabile di osservare questa tendenza, perché a partire dal 1931 è cominciato il processo di “invisibilizzazione”. In un articolo del 1990, intitolato “Potere bramino”, lo scrittore Khushwant Singh sosteneva: “I bramini formano non più del 3,5 per cento della popolazione indiana. Oggi occupano almeno il 70 per cento dei posti di lavoro statali. Immagino che il dato si riferisca solo alle qualiiche di livello superiore. Nei ranghi più alti della pubblica amministrazione, a partire dal livello di vicesegretario in su, su 500 impiegati 310 sono bramini (il 63 per cento). Inoltre sono bramini 19 segretari generali su 26; 13 governatori e vicegovernatori su 27; nove giudici della corte suprema su 16; 166 giudici delle alte corti su 330; 58 ambasciatori su 140; 2.376 funzionari amministrativi su 3.300. Se la cavano altrettanto bene negli incarichi elettivi: dei 508 deputati del Lok sabha (la camera bassa del parlamento) 190 sono bramini; dei 244 del Rajya sabha (camera alta) 89 sono bramini. Queste statistiche dimostrano chiaramente che il 3,5 per cento della comunità bramina indiana occupa i posti di lavoro migliori del paese. Come sia successo, non lo so. Ma stento a credere che dipenda esclusivamente dalla superiorità del loro quoziente intellettivo”. La casta dell’informazione Le statistiche citate da Singh hanno più di vent’anni. Sarebbero utili i dati di un nuovo censimento. Secondo un altro studio del Csds, nel 47 per cento dei casi i presidenti della corte suprema tra il 1950 e il 2000 erano bramini. Nello stesso periodo il 40 per cento dei giudici associati delle corti erano bramini. In un rapporto del 2007 la commissione sulle classi arretrate ha dichiarato che il 37,7 per cento dell’apparato burocratico indiano era costituito da bramini. Tradizionalmente i bramini hanno sempre dominato anche il settore dei mezzi d’informazione. Nel 2006 il Csds ha svolto una ricerca sui professionisti dell’informazione a New Delhi. Su 315 direttori e giornaInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015 45 In copertina listi di 37 pubblicazioni e reti televisive in hindi e in inglese, quasi il 90 per cento dei giornalisti della carta stampata in inglese e il 79 per cento di quelli televisivi appartenevano alle caste superiori. Tra loro, il 49 per cento erano bramini. Neanche uno era dalit o adivasi; solo il 4 per cento apparteneva a caste designate come sudra e il 3 per cento era musulmano. Tre dei quattro maggiori quotidiani indiani in lingua inglese appartengono a imprenditori vaisya, e uno è di proprietà di una famiglia di bramini. Il Times Group – il più grande gruppo editoriale indiano, che comprende The Times of India e il canale tv Times Now – è di proprietà della famiglia Jain (bania). L’Hindustan Times è dei Bhartiya (bania marwari), The Indian Express è dei Goenka (bania marwari), The Hindu è di un’azienda familiare bramina, Dainik Jagran – un quotidiano in hindi che, con una difusione di circa 55 milioni di copie, è il più venduto in India – è di proprietà della famiglia Gupta (bania di Kanpur). Il Dainik Bhaskar – tra i più inluenti quotidiani in hindi, con una difusione di 17,6 milioni di copie – è degli Agarwal (bania). La Reliance industries di Mukesh Ambani (bania gujarati) è azionista di maggioranza di 27 emittenti televisive nazionali e regionali. La Zee Tv, uno dei maggiori gruppi d’informazione e intrattenimento indiani, è di proprietà di Subhash Chandra, anche lui bania. Discriminazione positiva Dopo l’indipendenza, nel tentativo di riparare a un torto storico, il governo indiano ha avviato una politica di quote (discriminazione positiva) nelle università e nella pubblica amministrazione per favorire chi appartiene alle caste e alle tribù riconosciute. Per le caste riconosciute la politica delle quote è l’unica opportunità di inserirsi nella società. Il provvedimento non si applica ai dalit che si sono convertiti ad altre religioni e che continuano quindi a essere discriminati. Per poter usufruire delle quote, un dalit deve avere un diploma superiore. Secondo i dati forniti dal governo, il 71,3 per cento degli studenti appartenenti alle caste riconosciute non va all’università, e questo signiica che anche ai livelli più bassi della pubblica amministrazione la politica delle quote si applica solo a un dalit su quattro. Il requisito minimo per un posto da impiegato è una laurea triennale. Secondo il censimento del 2011, solo il 2,24 per cento della popolazione dalit è laureato. Nonostante la minuscola percentuale di popolazione dalit a cui è applicabile, la politica delle quote ha comunque dato ai dalit la 46 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 possibilità di ottenere un impiego nella pubblica amministrazione o di diventare medici, insegnanti, giornalisti, giudici e poliziotti. I numeri sono esigui, ma il fatto che esista una rappresentanza dalit nelle alte sfere del potere altera i vecchi equilibri sociali. Crea situazioni che qualche secolo fa sarebbero state impensabili: un impiegato bramino, per esempio, potrebbe avere un capuicio dalit. Ma perino questa piccola opportunità che i dalit hanno faticosamente conquistato s’infrange contro il muro di In realtà il “merito” è diventato un eufemismo per indicare il nepotismo ostilità eretto dalle classi privilegiate. La commissione nazionale per le caste e le tribù riconosciute, per esempio, riferisce che nelle aziende del governo federale solo l’8,4 per cento dei funzionari di alto livello appartiene alle caste riconosciute, mentre la percentuale dovrebbe essere il 15 per cento. La commissione fornisce statistiche allarmanti sulla presenza dei dalit e degli adivasi in magistratura: tra i venti giudici dell’alta corte di New Delhi, nessuno appartiene alle caste registrate e in tutti gli altri incarichi giudiziari la rappresentanza di dalit e adivasi è stimata intorno all’1,2 per cento. In Rajasthan le cifre sono simili; il Gujarat non ha nessun giudice dalit o adivasi; nel Tamil Nadu, che ha una lunga storia di movimenti per la giustizia sociale, solo quattro dei 38 giudici dell’alta corte sono dalit; il Kerala, con la sua eredità marxista, ha un solo giudice dalit sui 25 dell’alta corte. Uno studio della popolazione carceraria mostrerebbe probabilmente un rapporto inverso. L’ex presidente dalit K.R. Narayanan fu deriso dai magistrati indiani quando propose di garantire alle caste e alle tribù riconosciute – che secondo il censimento del 2011 costituiscono il 25 per cento degli 1,2 miliardi di indiani – un’adeguata rappresentanza tra i giudici della corte suprema. “Anche tra loro ci sono persone qualiicate. Non è giustiicabile che non siano rappresentati”, dichiarò nel 1999. “Il sistema delle quote è una minaccia per l’indipendenza della corte e per lo stato di diritto”, fu la risposta di un avvocato della corte suprema. Un altro giurista disse: “Le quote sono un tema molto discusso. Ma credo che prima venga il merito”. Il merito è l’arma preferita dell’élite indiana che per millenni ha dominato il sistema in virtù di una presunta autorizzazione divina, negando alle caste subordinate il diritto all’istruzione e alla conoscenza. Oggi che l’élite viene messa in discussione, le caste privilegiate protestano ardentemente contro la politica delle quote. Si parte dal presupposto che il merito esista in una sorta di vuoto storico e sociale, e che i vantaggi che le caste privilegiate traggono dalla loro rete di relazioni sociali e dalla radicata ostilità della classe dirigente nei confronti delle caste subordinate non siano fattori determinanti. In realtà il merito è diventato un eufemismo per indicare il nepotismo. Alla Jawaharlal Nehru university di New Delhi, considerata una roccaforte dei sociologi e degli storici progressisti, solo il 3,29 per cento dei docenti è dalit e l’1,44 per cento adivasi, mentre le quote riservate sono rispettivamente il 15 e il 7,5 per cento. Eppure il sistema delle quote è uicialmente in vigore da 27 anni. Nel 2010 è stato sollevato il problema e alcuni professori emeriti dell’università hanno risposto che applicare la politica delle quote riservate, come previsto dalla costituzione, impedirebbe all’università di “rimanere un centro d’eccellenza”. Il rischio, secondo loro, è che “gli studenti più ricchi s’iscriveranno alle università straniere o a quelle private, e quelli svantaggiati non avranno più accesso all’istruzione di livello internazionale che l’ateneo è stato orgoglioso di offrire inora”. B.N. Mallick, docente di biologia, è stato più esplicito: “La malnutrizione ha un impatto genetico su alcune caste, e non ci si può fare molto. Potrebbero compromettere l’eccellenza e il valore dell’istituzione”. In fondo alla piramide Questa è la situazione nella parte più avanzata della “nuova India”. Il rapporto della commissione Sachar, nominata nel 2005 per indagare sulle condizioni di vita dei musulmani indiani, spiega che dalit e adivasi restano ancora in fondo alla piramide economica dove sono sempre stati, al di sotto della comunità musulmana. Dalit e adivasi formano la maggioranza degli undici milioni di indiani costretti ad abbandonare le loro case per lasciare il posto a miniere, dighe e altre grandi infrastrutture. Molti sono braccianti agricoli pagati una miseria e operai edili. Il 70 per cento dei dalit non possiede terreni. In stati come Punjab, Bihar, Haryana e Kerala questa percentuale arriva al novanta per cento. C’è un settore del pub- CONtRAStO In una scuola a Nallalam, Tamil Nadu, 2008 blico impiego, però, in cui i dalit sono sovrarappresentati: sono quasi il 90 per cento degli operatori ecologici, quelli che spazzano le strade, si calano nei tombini per la manutenzione delle fognature, puliscono i bagni e svolgono lavori non qualiicati. Anche questo settore sarà presto privatizzato e le aziende potranno subappaltare il lavoro dei dalit con contratti a termine e salari ancora più bassi, senza rispettare nessuna norma di sicurezza sul lavoro. Mentre i posti di guardiano nei centri commerciali e negli uici dotati di gabinetti moderni che non richiedono la pulizia manuale delle latrine vanno ai non dalit, ci sono ancora 1,3 milioni di indiani, per lo più donne, che continuano a guadagnarsi da vivere trasportando secchi di merda. Anche se è vietato dalla legge le ferrovie indiane continuano a impiegare un numero altissimo di addetti alla pulizia manuale dei bagni. I 14.300 treni del paese trasportano ogni giorno 25 milioni di passeggeri lungo una rete di 65mila chilometri. La merda dei passeggeri inisce direttamente sui binari, attraverso 172mila gabinetti. Questa merda – diverse tonnellate ogni giorno – è pulita a mano, senza guanti o dispositivi di protezione, esclusivamente dai dalit. La legge che vieta l’impiego di addetti alla pulizia manuale delle latrine e ne prevede la riabilitazione è stata approvata nel settembre del 2013, ma le ferrovie indiane l’hanno ignorata. Con l’aumento della povertà e la costante diminuzione dei posti di lavoro nella pubblica amministrazione, molti dalit saranno costretti a tenersi ben stretta la loro mansione ereditaria di “pulitori di merda”. Pochi dalit sono riusciti a superare questi ostacoli e ognuno di loro ha una storia personale straordinaria. Alcuni imprenditori dalit hanno costituito la Dalit indian chamber of commerce and industry, un’istituzione molto apprezzata. È sponsorizzata dalle grandi aziende e pubblicizzata in tv e sui giornali perché contribuisce a dare l’impressione che, per chi lavora sodo, il capitalismo sia intrinsecamente ugualitario. Un sistema esportabile In passato, per un indù ortodosso attraversare l’oceano signiicava perdere la casta e diventare impuro. Oggi il sistema delle caste è pronto per essere esportato. Ovunque vadano, gli indù se lo portano dietro. Esiste tra i tamil perseguitati nello Sri Lanka ed esiste tra gli immigrati indiani che aspirano a farsi strada in Europa e negli Stati Uniti. Da una decina d’anni, nel Regno Unito, alcuni gruppi guidati da dalit fanno pressioni ainché la legge britannica punisca anche la discriminazione di casta. Per il momento le lobby degli indù delle caste superiori sono riuscite a evitarlo. La democrazia non ha sradicato la casta, l’ha inglobata e modernizzata. Il sistema castale regna incontrastato: i bramini controllano l’istruzione e il sapere, i vaisya il mondo degli afari. Gli ksatriya hanno visto tempi migliori, ma sono ancora in buona parte proprietari terrieri. I sudra tengono lontani gli intrusi. Gli adivasi lottano per sopravvivere. E i dalit abbiamo visto cosa fanno. È possibile eliminare le caste? No, se non abbiamo il coraggio di riordinare le stelle del cielo. No, se quelli che si deiniscono rivoluzionari non elaborano una critica radicale del brahmanesimo. No, se quelli che capiscono il brahmanesimo non ainano la loro critica del capitalismo. Fino a quel momento resteremo gli uomini e le donne malati dell’Hindustan, che non sembrano interessati a guarire. u dic L’AUTRICE Arundhati Roy è una scrittrice indiana. Nel 1997 ha vinto il Booker Prize con il suo romanzo d’esordio, Il dio delle piccole cose (Guanda). Il suo libro più recente è In marcia con i ribelli (Guanda 2012). Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 47 Argentina Le bugie di Buenos Aires Sebastian Rotella, ProPublica, Stati Uniti Alberto Nisman indagava sull’attentato del 1994 contro un centro ebraico. È stato trovato morto il 18 gennaio. Non si sa ancora se si è suicidato o se è stato ucciso. In ogni caso, gli argentini non crederanno alla versione uiciale el 2013 ho parlato con Alberto Nisman, il magistrato argentino morto in circostanze misteriose il 18 gennaio 2015. Non l’avevo mai conosciuto, ma sapevo che stava indagando sull’attentato terroristico del 1994 all’Asociación mutual israelita argentina di Buenos Aires (Amia) in cui morirono 85 persone. Come corrispondente dall’estero mi ero occupato a lungo del più grave attentato antisemita nella storia dell’America Latina. Avevo intervistato superstiti, inquirenti, diplomatici, spie e personaggi equivoci provenienti dal Sudamerica, dagli Stati Uniti e dal Medio Oriente. L’indagine era stata inquinata dalla corruzione e dai depistaggi. Anni dopo, Nisman avrebbe incriminato per l’attentato alcuni esponenti delle istituzioni iraniane e i miliziani dell’organizzazione sciita libanese Hezbollah, assicurandosi un mandato di cattura internazionale dell’Interpol. La sua morte improvvisa ha sconvolto l’Argentina. Purtroppo non è la prima volta. La storia del paese e di gran parte dell’America Latina è un elenco di nefandezze: omicidi, massacri, scandali, congiure, incidenti di comodo e falsi suicidi. Il caso Nisman è un labirinto di bugie e intrighi dove tutto sembra possibile (a parte accertare i fatti) e quasi nulla è come appare. Per descrivere la realtà sfuggente di un paese sudamericano, una volta un alto funzionario delle forze dell’ordine statunitensi mi ha detto: “Le luci si stanno spegnendo nella casa degli 48 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 NATACHA PISAReNKO (AP/ANSA) N Alberto Nisman, 2013 specchi”. Non si riferiva all’Argentina, ma l’immagine è perfetta. Nell’estate del 2013 ho intervistato Nisman al telefono e per email. Avrei dovuto incontrarlo a Washington, perché una commissione del congresso lo aveva invitato a testimoniare sulla rete di spionaggio iraniana in America Latina e sul presunto ruolo di Teheran nel tentativo di organizzare un attentato all’aeroporto John F. Kennedy di New York. All’ultimo momento, però, il governo di Buenos Aires ha bloccato la partenza del magistrato. Alcuni mesi prima la presidente Cristina Fernández de Kirchner aveva istituito, d’accordo con i leader iraniani, una commissione incaricata di stabilire la verità sul caso: la decisione rientrava nell’ambito di uno spostamento geopolitico del paese verso l’Iran e il Venezuela. Nisman e molte altre persone temevano che il governo volesse insabbiare l’inchiesta. In un’email del 10 luglio 2013, il magistrato mi ha scritto: “Ho seguito l’audizione al congresso su internet e mi è dispiaciuto non esserci”. Ma il peggio doveva ancora arrivare. A dicembre del 2014 il governo ha sollevato dall’incarico Antonio Stiuso, il capo dell’intelligence che collaborava con Nisman all’inchiesta. La risposta del magistrato è stata clamorosa: ha accusato la presidente Fernández, il ministro degli esteri Héctor Timerman e altri politici di aver tramato per assolvere gli iraniani incriminati in cambio di accordi commerciali con Teheran. Secondo Nisman, il diplomatico iraniano Mohsen Rabbani, tra i principali sospettati dell’attentato del 1994, aveva partecipato segretamente ai negoziati. Alcune spie argentine “hanno trattato con Rabbani. Quindi non solo con lo stato che protegge i terroristi, ma anche con i terroristi stessi”, ha dichiarato Nisman in un’intervista trasmessa in tv il 14 gennaio. Il governo di Buenos Aires ha respinto le accuse. Il 18 gennaio il magistrato è stato trovato morto dagli uomini della scorta nel bagno del suo appartamento, con un proiettile calibro 22 nella testa. La sera prima si era fatto prestare la pistola da un collaboratore perché aveva subìto minacce. Il 19 gennaio avrebbe dovuto presentarsi davanti al parlamento argentino per argomentare le sue accuse, contenute in un dossier di 290 pagine. Il suicidio resta un’ipotesi possibile: secondo le autorità, non ci sono segni di col- ALEjANDrO PAGNI (AfP/GETTy IMAGES) Buenos Aires, 19 gennaio 2015. Una manifestazione il giorno dopo la morte di Nisman luttazione o d’intrusione nell’appartamento. Il magistrato, noto per essere un lavoratore instancabile, era sotto pressione. Ma secondo la famiglia, i colleghi e i leader dell’opposizione, Nisman è stato ucciso. In casa non sono stati trovati biglietti d’addio e negli ultimi giorni il magistrato si stava preparando per l’audizione in parlamento con collaboratori, politici e giornalisti. Zona liberata Perché Nisman avrebbe dovuto uccidersi in un momento così importante? Se si è suicidato, qualcuno lo ricattava o lo minacciava? Oppure aveva ricevuto una rivelazione clamorosa che avrebbe compromesso l’indagine? Se invece è stato ucciso, è stato vittima di una faida interna all’intelligence tra lealisti della presidenza e spie vicine ai servizi segreti occidentali? Quale delle due fazioni ricaverebbe un vantaggio dalla sua morte? La violenza e gli intrighi di stato non sono una novità in Argentina. Come in altri paesi dell’America Latina, anche qui domi- na la criminalità organizzata. E spesso i criminali hanno agganci con le forze dell’ordine e radici nella dittatura militare, inita nel 1983. Le macchinazioni sono così difuse da giustiicare qualsiasi paranoia. C’è una pratica nota come “operetta”: la polizia si mette d’accordo con i malviventi per organizzare rapine e spartirsi il bottino, poi li uccide e sbandiera la “vittoria contro la criminalità”. Nel 1998, durante un’ondata di rapine nei locali notturni di Buenos Aires, i malviventi spararono a un poliziotto che faceva la guardia a un ristorante. Poi si scoprì che i killer stavano scontando una pena in carcere. La polizia li faceva uscire il tempo necessario per fare le rapine, creandogli così un alibi perfetto: uicialmente erano dietro le sbarre. I metodi e la terminologia della “guerra sporca” sono ancora vivi. Durante la dittatura i poliziotti in divisa facilitavano il lavoro degli squadroni della morte ritirandosi dalla zona dell’obiettivo e creando un cordone intorno alla “zona liberata”. Gli argentini usano ancora quest’espressione quando la polizia è sospettata di complicità in attività criminali. Nel caso della morte di Nisman, le crepe nella sicurezza (la scorta ha aspettato dieci ore prima di entrare nell’appartamento anche se il magistrato non rispondeva al telefono) hanno indotto qualcuno a parlare di “zona liberata”. L’espressione si adatta anche alle circostanze dell’attentato all’Amia. Il presidente Carlos Menem, eletto nel 1989 e iglio d’immigrati siriani, era in buoni rapporti con vari governi mediorientali, tra cui la Siria e l’Iran, e aveva lanciato un programma di cooperazione nucleare con Teheran. Presto però il suo governo fu travolto dagli scandali. Gruppi criminali con collegamenti in Medio Oriente si erano iniltrati nei ministeri, nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nelle agenzie doganali e nelle aziende di trasporti per riciclare denaro e contrabbandare armi, droga, merci e persone. Monzer al Kassar, un traicante d’armi siriano condannato a trent’anni di carcere per terrorismo negli Stati Uniti, ricevette in modo illeInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015 49 Argentina ENRIqUE MARCARIAN (REUTERS/CoNTRASTo) Buenos Aires, 18 luglio 1994. Il centro ebraico dopo l’attentato gale e a tempo di record un passaporto argentino. Secondo la testimonianza rilasciata dello stesso Al Kassar a un magistrato spagnolo, per la foto usò una camicia e una cravatta prestate da Menem. Negli anni novanta alcuni parenti e collaboratori del presidente furono coinvolti in casi di corruzione insieme ad Al Kassar e a un magnate argentino di origini siriane che si chiamava Alfredo Yabrán. Bersaglio facile Dopo la morte di Nisman si è ricominciato a parlare di un “suicidio” avvenuto il 13 dicembre 1990. La polizia trovò il brigadiere generale Rodolfo Echegoyen, un funzionario della polizia doganale che stava indagando su Yabrán, con una pallottola in testa e un biglietto d’addio. Ma anni dopo gli esperti della polizia scientiica stabilirono che il colpo, partito da una pistola calibro 38, era stato sparato da un’altra persona. Nel 1998 Yabrán si uccise (qualcuno non ci crede) mentre la polizia stava per arrestarlo con l’accusa di essere il mandante di un delitto che aveva sconvolto l’Argentina: l’omicidio del fotografo José Luis Cabezas per mano di un gruppo di poliziotti corrotti che scaricarono la colpa su alcuni criminali. In seguito a questi scandali, Menem si riavvicinò a Washington, considerando l’alleanza 50 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 con gli Stati Uniti fondamentale per il futuro del suo paese. In poco tempo a Buenos Aires ci furono due attentati: nel 1992 una bomba all’ambasciata israeliana uccise 29 persone e nel 1994 l’attacco all’Amia provocò 85 vittime. Come corrispondente del Los Angeles Times ho cominciato a scrivere dell’Amia nel 1996. È stato doloroso rivivere la strage con i superstiti e i leader della comunità ebraica, vedere le scuole e le sinagoghe circondate da transenne e poliziotti, sentire a ogni anniversario discorsi accorati e commossi sulla necessità di fare giustizia. L’inchiesta è stata rallentata dall’inesperienza e dalla corruzione. È stato anche messo in dubbio che l’attentatore si sia fatto esplodere con un’autobomba. La polizia federale ha accusato la polizia provinciale di aver fornito il furgone usato come autobomba. La polizia provinciale si è inventata un testimone falso – un uomo condannato per omicidio – per depistare gli inquirenti. Si è parlato di un coinvolgimento dell’Iran, di Hezbollah, della Siria e di ex militari neofascisti che si trovavano sul luogo dell’attentato a bordo di un’ambulanza. Le autorità hanno denunciato alcuni diplomatici iraniani insieme agli agenti, ma nel 2004 un tribunale ha assolto gli agenti e un loro presunto complice. Gli stessi inquirenti sono stati denunciati per corruzione di testimone e intralcio Da sapere Ultime notizie 14 gennaio 2015 Il magistrato Alberto Nisman accusa la presidente Cristina Fernández di aver cercato di coprire le responsabilità dell’Iran nell’attentato del 1994 contro la sede dell’Asociación mutual israelita argentina, in cui morirono 85 persone. 19 gennaio Nisman viene trovato morto nel suo appartamento, ucciso da un colpo di pistola alla testa. Doveva esporre al congresso il suo rapporto sulle responsabilità della presidente. 26 gennaio Fernández annuncia un progetto di legge per smantellare i servizi segreti. 1 febbraio Il quotidiano Clarín rivela che Nisman stava per chiedere al parlamento l’autorizzazione ad arrestare la presidente. 10 febbraio Gli antropologi forensi che si occupano del caso Nisman afermano di aver trovato il dna di una persona non identiicata nell’appartamento del procuratore. 13 febbraio Il magistrato Gerardo Pollicita chiede a un giudice federale d’indagare sulla presidente Fernández per il suo presunto coinvolgimento nel depistaggio sul ruolo dell’Iran nell’attentato all’Amia. MAxI FAILLA (AFP/GeTTy IMAGeS) Buenos Aires, 21 gennaio 2015. Una manifestazione in memoria di Nisman di fronte al centro ebraico alla giustizia. A quel punto il presidente Néstor Kirchner, defunto marito dell’attuale presidente, ha deciso che era il momento d’intervenire: ha nominato Nisman a capo di una speciale divisione inquirente, mettendogli a disposizione un budget generoso e uno staf di ottanta persone. Nisman ha lavorato a stretto contatto con Antonio Stiuso, ex capo della Secretaría de inteligencia argentina (Side) che aveva molti contatti con i servizi segreti stranieri. Nisman e Stiuso hanno incontrato gli agenti antiterrorismo statunitensi, israeliani ed europei. Nel 2006 Nisman ha accusato alcuni alti funzionari iraniani e miliziani di Hezbollah di aver organizzato l’attentato all’Amia, che sarebbe stato eseguito da militanti del gruppo sciita libanese e da spie iraniane, tra cui Rabbani, ex addetto culturale a Buenos Aires. L’Interpol ha emesso un mandato di cattura internazionale per cinque sospetti iraniani, tra cui il ministro della difesa di Teheran dal 2009 al 2013, e per Imad Mughniyeh, comandante dell’ala militare di Hezbollah ucciso nel 2008. L’inchiesta è andata avanti nonostante alcuni passi falsi, ma gli indizi raccolti e il lavoro d’intelligence (oltre al parere di quasi tutti i funzionari dell’antiterrorismo statunitensi, sudamericani, israeliani ed europei con cui ho parlato) conducono a Hez- bollah e all’Iran, sia per l’attentato all’ambasciata sia per quello all’Amia. Secondo i funzionari dell’antiterrorismo, le due azioni vanno viste nel quadro di una guerra ombra con Israele. L’Argentina era un bersaglio facile a causa della scarsa vigilanza delle forze dell’ordine e per la forte rete terroristica presente nella regione. Anche il cambio di politica estera di Menem ebbe un ruolo. Tuttavia ancora oggi alcuni commentatori argentini sono convinti che l’attentato sia stato commesso da terroristi legati alla Siria e agli intrighi di Menem. L’Iran nega ogni coinvolgimento. Nel 1998 intervistai Abdolrahim Sadatifar, il più alto diplomatico dell’ambasciata iraniana in Argentina, dove si crede che sia stato organizzato l’attentato all’Amia. Accusò la Cia e il Mossad di aver incastrato il suo governo: “Non abbiamo nulla a che fare con questa storia perché le persone civili e di cultura non hanno bisogno di ricorrere a metodi brutali”, disse. Con l’avvicinamento tra Cristina Fernández e l’ex presidente venezuelano Hugo Chávez, la politica estera dell’Argentina è diventata sempre più antioccidentale. Il governo si è scontrato con Washington e, secondo le autorità statunitensi, ha smesso di collaborare con la Cia, la Drug enforcement administration (Dea) e le altre agenzie fe- derali statunitensi. I leader argentini hanno stretto i rapporti con l’Iran, che ha raforzato la sua presenza in America Latina. Nel 2013 Buenos Aires e Teheran hanno irmato un protocollo d’intesa proponendo l’istituzione di una “commissione verità” composta da esperti di paesi terzi per portare avanti l’inchiesta sull’Amia con la partecipazione di Teheran. L’opposizione e la comunità ebraica non hanno visto di buon occhio il fatto che l’Iran, accusato di sostenere gruppi terroristici, contribuisse a indagare su un caso in cui erano coinvolti i suoi funzionari. Alla ine la proposta è rimasta lettera morta. Nisman ha interpretato il drastico cambio di politica estera come un tradimento. Si è attirato così l’ostilità dei sostenitori del governo e ha ricevuto minacce anonime. “Da iglio prediletto Nisman è diventato un diavolo”, mi dice al telefono Daniel Santoro, un noto giornalista investigativo del quotidiano Clarín. “Il governo ha fatto una svolta ideologica molto brusca, un voltafaccia inluenzato dal Venezuela”, aggiunge. Nel frattempo è scoppiato uno scontro tra le forze di sicurezza. Nel 2013, in un episodio poco chiaro, una squadra speciale della polizia ha fatto irruzione in casa di Pedro Tomás Viale, un capo dell’intelligence, e lo ha ucciso durante una sparatoria. Un magistrato ha accusato dieci agenti di aver Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 51 Argentina simulato un raid antidroga per uccidere il funzionario dei servizi segreti, vicino a Stiuso. E a dicembre del 2014 molti commentatori hanno interpretato l’allontanamento di Stiuso dalla Side come una purga ai danni di una fazione dell’intelligence allineata con la Cia e altre agenzie occidentali. Temendo che avrebbero preso di mira anche lui, Nisman è tornato dalle vacanze nel pieno dell’estate argentina e ha formulato una serie di accuse contro il governo, deinendo l’accordo pubblico con l’Iran una cortina di fumo dietro cui si nascondeva un complotto. Nell’intervista del 14 gennaio ha dichiarato che, dalle intercettazioni telefoniche, emergeva un piano per far ricadere la colpa dell’attentato all’Amia sui “fascisti locali”. Secondo il magistrato, alcuni sospettati avevano passato agli iraniani informazioni sull’inchiesta e dettagli personali su di lui e la sua famiglia. Durante le telefonate i sospettati l’avevano insultato con espressioni antisemite. Nella denuncia non ci sono intercettazioni telefoniche della capo di gabinetto Jorge Capitanich ha stracciato una copia del Clarín in diretta tv deinendolo “spazzatura”. Ma poco dopo l’uicio del procuratore generale ha confermato la ricostruzione di Santoro. Un numero da circo La storia ha insegnato agli argentini a guardare con sospetto ogni dettaglio. L’inchiesta sulla morte del magistrato va a rilento e il lavoro della polizia scientiica è ancora incompleto. Sulle mani di Nisman non sono state trovate tracce di polvere di sparo, ma secondo le autorità può dipendere dal fatto che la pistola era di piccolo calibro. La polizia ha aperto un’indagine interna sui dieci uomini della scorta, che non avrebbero applicato le misure di sicurezza necessarie. Secondo le autorità, nelle ultime ore prima di morire Nisman ha telefonato a Stiuso varie volte. Gli inquirenti hanno chiamato l’ex capo dell’intelligence a testimoniare in tribunale e c’è grande aspettativa per la sua deposizione. Forse Nisman è stato ucciso Secondo il giornalista Daniel Santoro, Nisman era isolato e in diicoltà: “Intorno a lui si era scatenata una campagna denigratoria” presidente. E il ministro degli esteri Timerman, accusato da Nisman di essere una igura centrale nel presunto complotto, è ebreo. Secondo il giornalista Santoro, Nisman era isolato e in diicoltà: “Intorno a lui si era scatenata una campagna denigratoria”. Uno scenario coerente sia con l’ipotesi del suicidio sia con quella dell’omicidio. La reazione di Fernández alla notizia della sua morte ha gettato benzina sul fuoco. All’inizio la presidente ha scritto sulla sua pagina Facebook che Nisman si era suicidato. Poi, pochi giorni dopo, ha avanzato l’ipotesi dell’omicidio e ha accusato Stiuso di aver manipolato il magistrato con “falsi indizi” per danneggiare il governo. Ha fatto cadere dei sospetti su Diego Lagomarsino, il collaboratore che ha prestato a Nisman la pistola, accusato solo di detenzione abusiva di armi. “È il più grande scandalo del governo di Fernández e il peggiore dai tempi di Isabel Perón”, sostiene Santoro. “Il governo ha commesso degli errori gravissimi”. Il 1 febbraio Santoro ha pubblicato uno scoop: dai documenti trovati nell’appartamento di Nisman è emerso che il magistrato voleva chiedere l’arresto della presidente e di altri politici. Il governo nega tutto e il 52 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 da gruppi ilogovernativi che hanno risposto con metodi maiosi alla sua sida, oppure da gruppi antigovernativi che volevano destabilizzare la presidente. Ma la spiegazione più plausibile potrebbe essere la più semplice: il magistrato aveva mosso delle accuse afrettate a persone potenti e, in un momento di rimorso e disperazione, si è tolto la vita. Quest’incertezza mi ricorda un episodio del 1999, quando incontrai un testimone dell’attentato all’Amia. Wilson Dos Santos era un brasiliano di 38 anni, loquace e con gli occhi verdi. Aveva into di essere un ingegnere italiano per sposare una donna ricca, ingannando lei e la sua famiglia. Si diceva che fosse un informatore della polizia e contrabbandasse permessi di soggiorno e merci nella zona di frontiera tra l’Argentina, il Brasile e il Paraguay, base di malavitosi ed estremisti legati a Hezbollah e ad altri gruppi. Nel luglio del 1994 Dos Santos si era presentato ai consolati di Argentina, Brasile e Israele a Milano avvertendo le autorità di un imminente attacco terroristico a Buenos Aires. Sosteneva di aver lavorato nella zona della triplice frontiera per un gruppo di terroristi iraniani che, due anni prima, aveva organizzato l’attentato all’ambasciata isra- eliana e stavano pianiicando un nuovo attacco. L’obiettivo era un palazzo in ristrutturazione. Come capita spesso con i testimoni spontanei, nessuno lo prese troppo sul serio. Almeno ino alla settimana successiva, quando una bomba fece saltare in aria il centro dell’Amia, che guarda caso era in ristrutturazione. Dos Santos testimoniò a lungo a Buenos Aires, poi cambiò versione, negò tutto, fu denunciato per falsa testimonianza e scappò in Brasile. La sua testimonianza restava comunque uno dei pochi dati certi in un mare di ambiguità. Secondo gli inquirenti, alcuni servizi segreti stranieri, forse brasiliani, erano venuti a conoscenza del piano e avevano usato Dos Santos per mandare indirettamente un avvertimento. Rintracciai Dos Santos e parlammo in un ristorante di un centro commerciale a São Paulo. Due uomini ci osservavano da lontano e uno mi seguì ino alla macchina. Poi venni a sapere che le autorità brasiliane stavano tenendo d’occhio l’ex testimone pentito. Quel giorno Dos Santos confermò la sua ultima versione: non era una spia e non conosceva nessun terrorista. Il fatto che si fosse presentato ai consolati poco prima dell’attentato era stata una casualità, “come fare bingo. Sono uno stupido”, disse, “altrimenti non mi sarei inventato questa storia”. Mentre parlava pensavo a Luis Czyzewski, padre di una delle vittime dell’Amia. Paula Czyzewski, una ragazza di 21 anni, era nell’atrio quando l’esplosione la uccise sul colpo. La madre si salvò perché era andata dall’altra parte dell’ediicio per mandare un fax. Nel 1998 Czyzewski andò in Brasile per la testimonianza di Dos Santos di fronte ai magistrati argentini. Durante l’audizione scoppiò in lacrime: “Ho avuto la sensazione di essere davanti a qualcuno che forse aveva partecipato alla morte di mia iglia”, mi disse. “Più che un interrogatorio sembrava un numero da circo: Dos Santos era sommerso dalle sue stesse bugie”. Il caso Nisman evoca lo stesso miscuglio di tristezza, disgusto e frustrazione. Gli argentini si sono sentiti raccontare bugie per anni e qualsiasi sarà la conclusione dell’inchiesta, è probabile che molti non ci crederanno. Il magistrato è l’ennesima vittima di un intrigo che non porta alla giustizia, ma solo ad altri intrighi. u fas L’AUTORE Sebastian Rotella è un giornalista statunitense. Si occupa di terrorismo, crimini di guerra e immigrazione. Il suo ultimo libro è il romanzo The convert’s song (Mulholland Books 2014). Siria InStItUte Antakya, Turchia, 8 settembre 2014. Raed Fares, il fondatore di Radio Fresh Radio Siria libera Eliza Griswold, The New York Times Magazine, Stati Uniti Foto di Luca Locatelli Gli Stati Uniti inanziano undici emittenti gestite da attivisti dell’opposizione siriana. Come quella diretta da Raed Fares, odiato dal regime e dai jihadisti 54 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 spesso lavora ino alle quattro di notte, è uscito presto dall’uicio. Mentre cerca di chiudere la macchina, sente qualcuno cor rere verso di lui. Eccoli, pensa. Si fermano proprio davanti alla sua auto. Fares si rende conto di aver lasciato a casa la pistola. Riesce a distinguere due milizia ni del gruppo Stato islamico. Uno apre il fuoco e crivella di proiettili la macchina, il muro dell’uicio e lo stesso Fares. L’attivi sta sente i proiettili che gli si coniccano nella parte destra del petto e nella spalla. Quando cade a terra, gli torna in mente un incubo che faceva spesso da bambino: tre cani neri che gli davano la caccia. “Non c’è altro dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta”, dice più forte che può. Spera che la professione di fede gli apra le porte del paradiso. Fares è river so in una pozza di sangue in mezzo alla strada. Dopo qualche minuto arriva suo fratello maggiore, che ha sentito gli spari, e lo inila in macchina per portarlo di corsa in ospedale. “Chi gli ha sparato?”, chiede un amico che è insieme a loro. Fares cerca di descri vere quello che ha visto. “Non parlare!”, gli ordina il fratello. “Sto morendo”, risponde lui. Poi perde conoscenza. Messaggi al resto del mondo a luce dell’abitacolo della Mazda 626 blu non funzio na. Raed Fares, 42 anni, un attivista siriano che orga nizza proteste sia contro il gruppo Stato islamico sia contro il presidente Bashar al Assad, ar meggia un po’ con la lampadina prima di uscire dall’auto. La strada è buia. A Kafran bel, la città del nordovest della Siria dove vive Fares, il governo di Assad ha tagliato gran parte delle forniture di energia elettri ca, oltre all’acqua corrente e ai servizi di te lefonia mobile. L’unica luce è una striscia di led sulla porta del vicino. È mezzanotte e tre quarti del 29 gennaio 2014. Fares, che L Otto mesi dopo Fares è seduto sul sedile po steriore di una Kia che attraversa la Turchia meridionale. I killer hanno sparato 46 pro iettili: 27 hanno colpito il muro alle sue spal le, 17 l’auto. Solo due l’hanno raggiunto, rompendogli sette ossa della spalla e del costato, e perforandogli il polmone destro. Dal letto d’ospedale Fares ha continuato a organizzare proteste, pubblicando messag gi, foto e video su Facebook e su YouTube. In alcune foto si vedono gli striscioni scritti in stampatello che l’hanno reso famoso: “Obama! Il tuo ruolo in Siria non sarà mai visto come un errore, com’è successo a Clinton con il Ruanda, ma come un crimine premeditato”. “Faccio ancora fatica a respirare”, am mette Fares, “ma il dottore mi ha detto che i polmoni non dovrebbero essere un proble ma perché ho il naso grande”. I due statuni tensi seduti sui sedili anteriori dell’auto si mettono a ridere. Jim Hake, 57 anni, è fon datore e direttore di Spirit of America, un’organizzazione non governativa nata per sostenere gli sforzi militari e diplomati ci degli Stati Uniti nel mondo. L’autista, Isaac Eagan, 33 anni, è un ex militare che lavora per Hake. Pochi giorni fa Fares ha at traversato il confine con la Turchia per prendere in consegna le cinquecento radio alimentate a energia solare e a manovella che Spirit of America, in collaborazione con il dipartimento di stato di Washington, ha regalato a Radio Fresh, l’emittente di Fares. Eagan è riuscito a procurarsele dopo un pa io di mesi di contrattazioni con un produt tore cinese. Ora devono trovare un furgone per trasportarle. Un prototipo è appoggiato sul sedile posteriore della Kia, decorato con gli adesivi di Radio Fresh. Fares vorrebbe distribuire le radio nelle botteghe dei barbieri, nelle sale da tè e in altri posti dove la gente si riunisce per ascol tare le poche notizie che circolano. Dal 2012, l’anno in cui i ribelli moderati dell’Esercito siriano libero (Esl) hanno libe rato Kafranbel dalle truppe di Assad, la cit tadina è rimasta isolata e subisce continui attacchi delle forze governative. Nelle sue trasmissioni Fares parla soprattutto della sopravvivenza quotidiana: spiega agli ascoltatori quali strade fare per evitare i cecchini, li avverte quando arriva un raid aereo e gli dà suggerimenti su come tenere al caldo i bambini in una casa con le inestre rotte. Fares ha anche un’altra missione: rac contare al mondo gli orrori della guerra in Siria, che deinisce il “Ruanda di Obama”. Quasi ogni venerdì ilma i suoi compagni attivisti che reggono striscioni con messag gi provocatori rivolti al resto del mondo e poi posta i video su YouTube. Con penna relli, lenzuola e frasi che di solito non supe rano i 140 caratteri, Fares ha trovato il modo di twittare anche se non ha followers. Dove inisce l’oliveto, a una sessantina di metri, comincia la Siria. In fondo a un campo punteggiato da ciui di cotone, vici no a un ilo da bucato con dei peperoncini rossi messi a seccare al sole, si vede un bull dozer giallo che scava una trincea profonda tre metri sul lato di una collina. La trincea serve per mettere in sicurezza il conine tra Turchia e Siria, lungo più di 800 chilometri e pieno di passaggi. La zona è molto trai cata a causa della guerra civile siriana, dove sono conluiti combattenti di ogni tipo: i moderati dell’Esl, i miliziani del gruppo Stato islamico e altri jihadisti. “Cosa ne pensi dei combattenti che arri vano dall’estero?”, chiede Hake a Fares. “Li odio”, risponde. “Perché combatto no contro di noi”. “Cosa li attira in Siria?”, chiede Hake mentre studia il percorso sulla mappa dell’iPhone. “Hanno visto troppe volte Rambo”, re plica Fares. “Le loro motivazioni non hanno nulla a che vedere con l’islam”. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 55 Siria Hake chiede a Fares se considera un male peggiore Assad o il gruppo Stato islamico. È una domanda diicile per l’attivista: sa che entrambi lo vorrebbero morto. Secondo Fares la minaccia immediata viene dai jihadisti, ma il vero nemico del popolo siriano è Assad. “Quando riusciremo a far cadere il regime sarà più facile liberarsi del gruppo Stato islamico, di Al Qaeda e del Fronte al nusra”, dichiara. I jihadisti giustiicano la loro presenza in Siria dicendo ai siriani che sono qui per rovesciare Assad. Quando il regime sarà caduto, prosegue Fares, la gente comincerà a vedere i combattenti stranieri per quello che sono: dei parassiti. La Kia supera una ila di cipressi che si snoda lungo il letto di un torrente secco. Vicino si vedono le tende blu dei profughi. Alcune pecore pascolano sui pendii coperti di arbusti. Hake si chiede come facciano i jihadisti ad attraversare il conine. Fares si sporge dal sedile posteriore: “Come fanno i messicani negli Stati Uniti: trovano una via illegale”. aziende private che gestiscono i satelliti, ma funziona solo in poche zone. Hake suggerisce di creare una rete di comunicazione geograica (wan) come quella sviluppata dal Massachusetts institute of technology che ha già visto in funzione a Jalalabad, in Afghanistan. Secondo lui questo sistema potrebbe funzionare anche nella Siria rurale. Hake, un imprenditore della Silicon valley, ha usato il denaro guadagnato agli albori di internet per lanciare Spirit of America nel 2003. Invece di presentarsi come un’organizzazione neutrale, la sua ong prende posizione in modo esplicito. Hake è convinto che gli statunitensi abbiano il dovere di sostenere la politica del loro paese ed è stato conquistato dai messaggi di Fares. “Perché non usare gli aiuti di privati cittadini per sostenere le persone buone come lui?”, si è chiesto. Ora vuole sapere da Fares cosa gli serve. “Una sirena”, risponde l’attivista. La città subisce spesso bombardamenti aerei e Fares ha realizzato un sistema d’allerta usan- Radio Fresh intercetta le comunicazioni dei piloti militari che parlano con la torre di controllo del governo siriano Eagan appoggia gli avambracci sul volante. Sono pieni di tatuaggi: frasi in arabo e una croce celtica. Osserva attentamente la strada in cerca del camioncino con le radio che è stato parcheggiato a Bab al Hawa, un valico di frontiera controllato dall’Esercito siriano libero. Gran parte del conine, invece, è sorvegliato dal Fronte al nusra, il ramo siriano di Al Qaeda. “Al nusra controlla tutta questa zona”, spiega Fares indicando il pendio che segna l’inizio della Siria. “Attenti ai cecchini”, dice con un sorriso sarcastico. A cinque chilometri e mezzo dal valico uiciale, una carovana di camion coperti di polvere fa la ila per entrare in Siria. Alcuni autisti si sono accampati per strada perché l’attesa può durare giorni. Lungo il bordo dell’autostrada quelli che somigliano a formicai bianchi sono in realtà mucchi di mozziconi di sigarette. “Abbiamo bisogno di tantissime cose, per questo la ila di camion è sempre più lunga”, spiega Fares. Molti camion trasportano cemento. “Bisogna ricostruire quello che viene distrutto”. I cellulari non funzionano a Kafranbel e Hake chiede a Fares se Assad ha interrotto anche l’accesso alla banda larga. No, risponde Fares, la sua città non ha mai avuto la banda larga. Il servizio è fornito dalle 56 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 do due ricevitori. Da una collina un dipendente di Radio Fresh intercetta le comunicazioni dei piloti militari che parlano con la torre di controllo del governo siriano. Poi trasmette l’informazione al dj che, quando serve, interrompe le trasmissioni: “Notizia dell’ultim’ora. Sta arrivando un aereo”. Dopo gli attacchi, quando il pilota annuncia che sta rientrando, il dj dà alla popolazione il “via libera”. “Cambiano sempre frequenza, però riusciamo a trovarli lo stesso”, spiega Fares. Vorrebbe una sirena per poter avvertire anche chi non ascolta la radio. Quella che ha lui è debole. “Il mio clacson fa più rumore”, scherza. In seguito Eagan gli ha procurato cinque sirene della seconda guerra mondiale. Alimentate a manovella, non hanno bisogno di elettricità. Lotta quotidiana Il problema principale di Kafranbel sono le scuole. Si stima che in Siria il 50 per cento dei bambini non sia iscritto a scuola. Gli istituti sono spesso presi di mira dai bombardamenti e i genitori non vogliono mandarci i igli. Negli ediici scolastici vuoti si sono accampati profughi o gruppi armati come il Fronte al nusra. Durante la guerra la popolazione di Kafranbel è cresciuta, passando da 15mila a 30mila abitanti, perché sono arrivati molti siriani scappati dai combattimenti. “Abbiamo fatto la rivoluzione per i nostri igli”, osserva Fares. “Ma ora i piccoli stanno tutto il giorno per strada. Qualsiasi gruppo armato può arrivare e trasformarli in terroristi”. C’è silenzio mentre la Kia avanza lentamente. “Dovete essere davvero stanchi dopo una guerra così lunga”, commenta Hake. Fares non risponde. Lui, sua moglie e i tre igli adolescenti sono sopravvissuti lottando ognuno a modo suo. Mentre Fares organizza proteste su Facebook e collabora con gli altri abitanti per ricostruire la città, sua moglie Montaha cerca di dar da mangiare alla famiglia. I prodotti alimentari costano cinque volte di più rispetto a prima della rivoluzione. “Mia moglie lotta con me”, dice Fares. “E fa una vita più dura. Mi dispiace per lei, ma non posso fare niente per migliorare la nostra situazione”. I due igli più grandi di Fares lavorano per i mezzi d’informazione dell’Esl e documentano le battaglie che il gruppo conduce contro i jihadisti e contro il regime. “Ho cercato di mandarli negli Stati Uniti ma non hanno il passaporto”, racconta. L’unica alternativa sarebbe unirsi ai 3,5 milioni di siriani che hanno lasciato il paese per chiedere asilo politico all’estero. Eagan intravede un distributore di benzina. “Ecco il camion”, dice. I tre uomini escono dalla Kia sul piazzale coperto di ghiaia. Hake aggiunge un punto sulla mappa del mondo del suo iPhone: è a meno di un chilometro dal conine tra la Turchia e la Siria. Eagan ha dei documenti da far irmare a Fares. In uno c’è scritto, in inglese e in arabo: “Non ho fornito e non fornirò sostegno o risorse a individui o organizzazioni che appoggiano, inanziano, favoriscono o hanno commesso atti di terrorismo”. Le radio costano 25 dollari l’una, ma non è per fare afari che il dipartimento di stato americano ha voluto coinvolgere Spirit of America. L’ong è in grado di realizzare progetti più rapidamente e su scala più ridotta rispetto a quanto potrebbe fare il governo statunitense. “Se questo progetto funziona, sapremo che distribuire radio tra le comunità siriane può davvero aiutarci a estendere il raggio d’azione dei mezzi d’informazione indipendenti”, spiega Rick Barton, il diplomatico che ha ideato il programma quando lavorava all’uicio per i conlitti e la stabilizzazione del dipartimento di stato. Hake, che usa spesso metafore tratte dal mondo degli INSTITUTE Antakya, Turchia, 8 settembre 2014. Camion in attesa di entrare in Siria affari, parla di “esternalizzazione dei rischi”. Per lui “Fares è un imprenditore che rischia di essere ucciso dai concorrenti”. Quando aveva sette anni Fares assistette dalla inestra di casa all’uccisione di un uomo da parte delle forze di sicurezza del regime. Hafez al Assad, il padre dell’attuale presidente, aveva ordinato di massacrare migliaia di persone per reprimere una rivolta dei Fratelli musulmani. Kafranbel, una delle città ribelli, era inita nella lista nera del regime e i giovani del posto avevano dificoltà a farsi strada nella vita. Molti coetanei di Fares cominciarono a drogarsi. Tra loro c’era anche suo fratello maggiore. Quando aveva dodici anni lo trovò fatto di Diazepam, un sedativo, con il dito sul grilletto di un kalashnikov. Lo vide appoggiarsi la canna del fucile alla guancia e suicidarsi. A diciassette anni anche Fares cominciò ad assumere il Diazepam, poi a snifare e iniettarsi l’eroina (in seguito è riuscito a smettere di sua volontà). Per far contento il padre si iscrisse alla facoltà di medicina, anche se in realtà preferiva scrivere poesie e suonare l’oud. Presto abbandonò gli studi per trasferirsi in Libano, dove trovò lavoro in un’azienda di frigoriferi e condizionatori. Nel 2009 Fares è tornato in Siria per fare l’agente immobiliare, ma è stato scoperto a falsificare un documento di proprietà: voleva aiutare un uomo a riprendersi la terra che il governo gli aveva sequestrato. Ha trascorso due mesi in carcere ed è rimasto sconvolto dalle torture inlitte ai prigionieri politici. Dopo essere uscito di prigione, ha cercato di non attirare l’attenzione, sognando il giorno in cui i siriani non avrebbero più dovuto fare i conti con la corruzione del governo. Poi nel 2011 sono arrivate le rivolte arabe. Insieme a un gruppo di amici Fares ha organizzato una protesta contro il presidente Bashar al Assad. Un venerdì dell’aprile del 2011 uno dei suoi compagni ha scandito nella moschea lo slogan: “Dio, Siria, libertà!”. A Fares sono venuti i brividi. I 150 agenti di sicurezza presenti sul posto si sono limitati a guardare e ad annotare nomi. Il mullah ha urlato: “Prendeteli! Arrestateli!”. E un uomo in mezzo alla folla ha risposto gridando: “Prendete il mullah per la barba!”. Su YouTube e i social network Dopo quell’episodio, in pochi mesi a Kafranbel i manifestanti sono passati da poche decine a seimila. Ogni settimana Fares riprendeva le proteste con il cellulare e inviava i ilmati a un amico in Arabia Saudita che li spediva alle tv arabe. Il governo di Assad sosteneva che quelle folle non si trovavano in Siria, così Fares ha cominciato a scrivere sugli striscioni il nome di Kafranbel. I video sono diventati virali e il regime si è vendicato. Il 4 luglio 2011 le forze di Assad hanno invaso la città, saccheggiando i negozi e bruciando le case. Nel successivo anno di occupazione Fares e i suoi amici hanno continuato a far sentire la loro voce usando YouTube e i social network. Non potendo riunirsi per più di trenta secondi, facevano delle specie di lash mob. Una volta Fares ha fatto indossare ai suoi amici dei sudari e li ha fatti uscire dalle tombe: il messaggio era che perino i morti volevano la caduta di Assad. Un’altra volta con i capelli forniti da un salone di bellezza della città ha fatto parrucche e barbe e ha mascherato i manifestanti da cavernicoli che venivano uccisi dal regime con il gas sotto gli sguardi impassibili della comunità internazionale (i grugniti risolvevano il problema della traduzione). Il video, pubblicato nel 2013 con il titolo “Kafranbel: la rivoluzione siriana in tre minuti”, è stato visto più di centomila volte su YouTube. “Abbiamo puntato sulla comicità”, spiega Fares. “Volevamo essere speciali. C’erano migliaia di arabi che manifestavano, noi Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 57 Siria eravamo solo una cinquantina, ma volevamo anche noi inire su Al Jazeera”. Fares scriveva i suoi striscioni in inglese “per costringere il mondo a prestare attenzione”. Con l’aiuto delle sue “spie” siriano-americane negli Stati Uniti, ha scritto messaggi sperando di essere ascoltato da Washington. Il 16 dicembre 2011 ha criticato per la prima volta il presidente statunitense Barack Obama: “Le indecisioni di Obama ci uccidono. Ci manca l’audacia di Bush. Il mondo è un posto migliore con i repubblicani d’America”. Nell’autunno del 2012, dopo la liberazione di Kafranbel, Fares è riuscito a frequentare un laboratorio in Turchia sui mezzi d’informazione, dove ha incontrato i funzionari del governo degli Stati Uniti incaricati di individuare gli attivisti a cui destinare gli aiuti statunitensi. Da allora l’emittente di Fares è diventata una delle nove radio inanziate da Washington (che inanzia anche due tv e inora ha versato aiuti per 25 milioni di dollari). In apparenza questi inanziamenti ricordano le strategie zi, quando l’Esercito siriano libero ha aiutato gli abitanti di Kafranbel a riconquistare la città nel corso di una battaglia di quattro giorni cominciata il 6 agosto 2012. Quando è stato chiaro che le forze fedeli ad Assad stavano scappando, Fares è corso alla moschea e ha urlato dagli altoparlanti: “Popolo di Kafranbel, sei libero!”. Da allora, tra un attacco aereo e l’altro i cittadini hanno cercato di ricostruire una società civile. Fares è uno dei leader. Il suo ruolo è più diicile di quanto immaginasse. “Abbiamo riunito sette diversi consigli locali ma non siamo mai riusciti a decidere niente”, dice. Perciò Fares ha fondato un’organizzazione, l’Unione degli uici rivoluzionari, che dà lavoro a 365 persone ed è inanziata da alcune ong. Oltre a Radio Fresh e a un centro per le comunicazioni, l’Unione gestisce un centro per le donne, tre centri di assistenza diurna e dei seminari sui diritti umani per gli avvocati, e ha quasi completato un progetto per fornire di nuovo acqua alla cittadina e ad altri tre villaggi. Fares ha realizzato lo striscione “Aliens”, dove la Siria è raigurata come un alieno dal cui petto esplode il mostro Stato islamico della guerra fredda: usare mezzi d’informazione fantoccio per difondere messaggi ilostatunitensi in un regime ostile. La programmazione, però, è completamente siriana. “Non è la tradizionale guerra psicologica in cui gli Stati Uniti controllano le radio”, aferma Barton. “Il punto è piuttosto trovare persone del posto che abbiano talento”. Un ruolo insolito Gli undici attivisti inanziati dagli Stati Uniti, compreso Fares, non sono giornalisti in senso stretto. Hanno un ruolo insolito nel conflitto: attraverso i social network, in modo informale, sorvegliano un lusso di più di due miliardi di dollari di aiuti diretti in un paese a cui Washington non ha accesso. Riferiscono quali progetti funzionano e quali no. La Siria può essere pericolosa per i giornalisti – dal 1992, secondo il Committee to protect journalists, ne sono stati uccisi ottanta – ma può esserlo ancora di più per gli attivisti. Per ridurre i rischi gli Stati Uniti li addestrano a lavorare in ambienti ostili. Fares aveva da poco cominciato a ricevere dagli Stati Uniti le attrezzature per registrare, montare e trasmettere i suoi servi- 58 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Queste attività hanno reso Fares un bersaglio del gruppo Stato islamico. Il 28 dicembre 2013 i jihadisti hanno cercato di conquistare Kafranbel: i miliziani hanno distrutto tutto quello che hanno trovato nel centro per le comunicazioni, compresi i trasmettitori e l’oud di Fares (lui in quel momento si trovava negli Stati Uniti). “La cosa divertente è che quegli idioti hanno distrutto prima di tutto il generatore”, racconta Fares ridendo all’idea dei jihadisti che cercano di rubare e distruggere tutto nell’oscurità più completa. Ma i messaggi che ha ricevuto non erano divertenti: l’hanno minacciato di decapitarlo appena fosse rientrato dagli Stati Uniti. Fares ha deciso che era arrivato il momento di manifestare contro i jihadisti. Con i suoi collaboratori ha realizzato uno striscione rimasto famoso intitolato “Aliens”, dove la Siria è raigurata come un alieno dal cui petto esplode un mostro chiamato Stato islamico. Lo stesso giorno l’Esl ha cacciato i jihadisti dalla città. “Non ho ancora cominciato a usare la radio come vorrei”, dice Fares a Hake. Conquistare gli ascoltatori di Radio Fresh con concorsi a premi e quiz è stato solo il primo passo. Poiché non ci sono telefoni a Kafranbel, Fares ha ideato un sistema per comunicare con il pubblico: ha appeso una ventina di scatole di metallo ad alcuni pali sparsi nelle campagne dove gli ascoltatori possono mettere le risposte ai quiz, le richieste di canzoni e i consigli. A volte qualcuno ci inila biglietti con minacce di morte. Fares vuole lanciare un nuovo programma per ricordare alla gente che la rivoluzione è cominciata in modo paciico, come una lotta per la libertà. Ma per dare un senso alla parola libertà è sempre più urgente definire il tipo di governo che potrebbe prendere il posto di quello di Assad. Uno dei migliori amici di Fares, il tenente colonnello Fares al Bayyoush, che comanda quasi mille uomini dell’Esl, è uno dei leader locali che stanno contribuendo a ricostruire Kafranbel. Al Bayyoush vive a Reyhanlı, in Turchia. Fares vuole fargli incontrare Hake ed Eagan. Porta i due statunitensi nel centro della cittadina, ino a un ediicio giallo in una strada tranquilla. In fondo al corridoio di un appartamento usato come uicio politico, superata una camera da letto in cui alcuni ragazzi in divisa guardano la tv, due comandanti siedono su un divano. Fares li conosce e si ida di entrambi, ma non può dire altrettanto di altri uomini dell’Esl. L’organizzazione è frammentata, in parte perché le singole brigate sono inanziate da donatori privati. Questo spiega la diicoltà degli Stati Uniti nell’individuare i comandanti da sostenere. “Io sono siriano, e non so di chi idarmi nell’Esl a parte questi due”, dice Fares, che di recente ha denunciato ad Al Bayyoush un comandante che vendeva armi al gruppo Stato islamico. Al Bayyoush si alza per stringere la mano a Hake. Ha una barzelletta da raccontare: “Un comandante dell’Esl e un comandante delle forze governative s’incontrano in paradiso. Stupiti di vedersi, guardano in basso per vedere chi è inito all’inferno. Lì ci abbiamo messo tutti i siriani”. Al Bayyoush ride mentre Fares lo guarda impassibile. Accanto ad Al Bayyoush c’è il suo capo, il colonnello Hasan Hamada, che ha disertato dall’esercito regolare siriano nel 2012, volando in Giordania a bordo di un aereo da combattimento. Nell’ultimo anno e mezzo Hamada e Al Bayyoush hanno ricevuto quasi cento milioni di dollari di aiuti statunitensi, sotto forma di prodotti alimentari, forniture mediche e furgoni. Hanno ricevuto anche aiuti segreti, comprese armi leggere, e hanno inviato alcuni dei loro soldati in Giordania per farli partecipare a un programma di addestramento to, oggi non esisterebbe lo Stato islamico”, aferma Hamada, pur riconoscendo che la colpa non è solo di Washington, ma anche delle debolezze dell’Esercito siriano libero. INSTITUTE Identità multiple Antakya, 8 settembre 2014. Fares prova un giubbotto antiproiettile segreto lanciato dagli Stati Uniti nel 2013. Al Bayyoush è stato ferito e non è più in grado di combattere, ma dal suo computer in Turchia continua a comandare le truppe tramite Skype e WhatsApp. Usa Facebook per pubblicare i comunicati dell’Esercito siriano libero. Anche se Al Bayyoush ha collaborato con il Fronte al nusra contro Assad, l’Esercito siriano libero e Al nusra sono su posizioni opposte quando si tratta della costruzione della società civile. Fares interviene chiedendo ad Al Bayyoush di parlarci delle discussioni sul fumo. Il Fronte al nusra aveva distribuito nelle tabaccherie di Kafranbel un documento in cui sosteneva che fumare è contrario all’islam. Al Bayyoush, che come Fares fuma con grande gusto, ha pubblicato su Facebook una dichiarazione contro il gruppo qaedista dove si dice che l’Esl è l’unica autorità legittima a Kafranbel. Secondo Al Bayyoush il messaggio ha colto nel segno. Gli chiedo come fa a saperlo: “Ho delle spie dentro Al nusra, me l’hanno detto loro”, risponde. Rido, pensando che sia una battuta. “No”, precisa. “Ho davvero delle spie”. “Tre anni fa gli Stati Uniti avrebbero potuto salvare migliaia di vite umane”, prosegue Al Bayyoush. Secondo lui la soluzione era semplice: missili antiaerei, bombardamenti contro Assad, una no-ly zone. Il modello era la Libia, dove i bombardamenti aerei a sostegno dell’opposizione avevano contribuito a rovesciare Muammar Gheddai. Ma il paese nordafricano è sprofondato nella guerra civile. Fares sa bene che la Libia non è stata un successo ma se non altro, sostiene, gli Stati Uniti so- no intervenuti per proteggere la popolazione. In Siria Assad è stato lasciato libero di imprigionare e uccidere sistematicamente quei moderati che ora gli Stati Uniti cercano invano. Un uiciale statunitense in pensione conferma che il ritardo nel sostegno all’Esercito siriano libero ha portato alla morte gran parte dei comandanti militari moderati: “Se li avessimo aiutati prima, le cose sarebbero andate diversamente”. I bombardamenti della coalizione internazionale contro il gruppo Stato islamico in Siria, in corso dal settembre del 2014, hanno deluso i comandanti dell’Esercito siriano libero per due motivi. In primo luogo, il principale nemico dell’Esl non è il gruppo Stato islamico, come per gli Stati Uniti, ma Assad. “Il regime ha lanciato attacchi con armi chimiche e ha massacrato molta più gente di quanto non abbiano fatto i jihadisti”, dice Al Bayyoush. In secondo luogo, i comandanti dell’Esl avevano cominciato ad avvertire gli Stati Uniti dell’avanzata jihadista nel 2013. “Se ci avessero aiutato subi- All’una di notte Fares crolla su una poltrona beige nella sua stanza d’albergo in Turchia e si collega alla sua pagina Facebook. Nel giro di pochi secondi appare una lista di chat con altri attivisti, di messaggi con battute idiote e di richieste d’interviste. Molti attivisti siriani hanno diverse identità online, per esempio una pagina ilo-Assad e una ilo-Stato islamico. Se ti fermano a un posto di blocco, spiega Fares, puoi provare la tua lealtà mostrando l’identità giusta. L’indirizzo email di Fares è un nome americano di fantasia. Ma non l’ha scelto per ragioni di sicurezza: “L’ho fatto per conoscere le ragazze”. Fares ha imparato l’inglese prima dell’inizio della rivoluzione, ingendo in rete di essere dell’Indiana. Tra le foto del suo proilo Facebook si distinguono tre scatti. Sono i volti di tre studenti di medicina che facevano parte di un gruppo di 21 giovani originari di Kafranbel che studiavano all’università di Aleppo ino all’inizio del 2014. “Il regime li ha arrestati perché erano originari della nostra città”, dice Fares. I tre ragazzi sono stati torturati a morte. Il 23 aprile, racconta Fares i loro corpi mutilati sono stati rispediti alle rispettive famiglie con un avvertimento: “Se pubblicate le foto di questi cadaveri su Facebook, uccideremo anche gli altri 18”. Gli striscioni realizzati e fotografati da Fares cercano spesso di creare legami tra persone di tutto il mondo. Uno striscione era indirizzato alla famiglia di Trayvon Martin, il ragazzo afroamericano ucciso da un vigilante di quartiere in Florida nel 2012: “Famiglia Martin! I siriani sanno meglio di chiunque altro cosa signiichi perdere una persona amata per mano di criminali che godono dell’immunità”. Un altro, scritto in arabo e contrassegnato con tre X, raigura una specie di spermatozoo. “Questo è sull’impotenza della coalizione”, spiega Fares. “È per adulti…”. Un altro ancora, realizzato in occasione della morte di Robin Williams, cita l’attore nelle vesti del genio del cartone animato Aladdin: “Essere liberi. Ecco cosa sarebbe meglio di tutte le magie e di tutti i tesori del mondo. Riposa in pace, Robin Williams”. “Avrei sempre voluto vivere negli Stati Uniti”, dice Fares. “Ma ora che ho un visto di due anni, voglio solo restare in Siria”. u gim Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 59 Scienza Quanto dura il presente Laura Spinney, New Scientist, Regno Unito Neuroscienziati e psicologi stanno cercando di misurare il periodo di tempo che chiamiamo “adesso”. Se ci riuscissero la nostra comprensione del mondo potrebbe cambiare completamente osa vuol dire “adesso”? Per tutti noi è un’idea familiare, ma secondo la isica è una pura illusione. Tendiamo a vederlo come il momento attuale, l’istante senza durata. Ma, se fosse atemporale, non vivremmo una serie di adesso nel corso del tempo. E non saremmo neanche in grado di percepire fenomeni come il movimento. Se il presente non avesse una durata non potremmo agire nel mondo. Ma allora quanto dura? Sembra una domanda metaisica, ma i neuroscienziati e gli psicologi hanno una risposta. Negli ultimi anni hanno raccolto una serie di prove a sostegno dell’ipotesi che l’adesso duri in media tra i due e i tre secondi. È l’attimo di cui siamo coscienti, la inestra all’interno della quale il nostro cervello fonde quello che stiamo vivendo in un “presente psicologico”. È un tempo sorprendentemente lungo. Ma questa non è l’unica stranezza. L’adesso che percepiamo è costituito da un miscuglio di piccolissimi adesso subcoscienti e il nostro cervello sceglie con cura gli eventi da inserire in quei frammenti di tempo. Le diverse parti del C 60 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 cervello misurano l’adesso in modo diferente. Inoltre in alcune situazioni la inestra del presente si espande, mentre in altre si contrae. Se riuscissimo a deinire con precisione il concetto di presente potremmo comprendere come il cervello costruisce l’esperienza del tempo in generale. E non solo. La percezione del presente è fondamentale anche per capire come conosciamo il mondo. Ci sono eventi che ci sembrano simultanei ma non lo sono, e questo comporta una serie di conseguenze per la nostra comprensione dei rapporti di causa-efetto. “Il senso dell’adesso è alla base di tutta la nostra esperienza cosciente”, aferma Marc Wittmann dell’Istituto per le zone di frontiera della psicologia e della salute mentale di Friburgo, in Germania. Comprendere il momento presente ci aiuta anche ad afrontare la questione del libero arbitrio. Sappiamo da tempo che il cervello contiene strutture capaci di usare i cicli di luce e buio per regolare il suo orologio quotidiano. Ma è molto meno chiaro come faccia a seguire il passare dei secondi e dei minuti. A questo livello, esistono due tipi di meccanismi generali, uno implicito e uno esplici- to. Quello esplicito permette di giudicare la durata di un evento, cosa che riesce sorprendentemente bene. Il meccanismo implicito serve a calcolare l’adesso: è il modo in cui il cervello deinisce un momento psicologico e di conseguenza struttura la nostra esperienza cosciente. Il nostro senso del tempo implicito ha due aspetti apparentemente incompatibili tra loro: esistiamo nel presente ma al tempo stesso vediamo il tempo come qualcosa che scorre dal passato al futuro. Come si cuciono insieme i singoli momenti presenti per formare questo iume di tempo? Wittmann ha cercato di rispondere a questa domanda ricorrendo all’enorme quantità di dati raccolti negli ultimi decenni dagli psicologi e dai neuroscienziati. Lo studioso pensa che esista una gerarchia di adesso, una piramide dove ogni livello è costituito da mattoncini che fanno da base per l’adesso successivo, ino ad assumere le caratteristiche di un lusso. Se l’ipotesi di Wittmann è corretta, per capire il nostro senso dell’adesso dobbiamo prima capire la sua componente subcosciente, il “momento funzionale” che opera all’interno della dimensione temporale in Sydney, Australia TrEnT PArkE (MAGnUM/ConTrASTo) cui una persona è in grado di distinguere un evento dall’altro, e che varia a seconda dei sensi. Il sistema uditivo, per esempio, può distinguere due suoni a distanza di due millisecondi, mentre il sistema visivo ha bisogno di decine di millisecondi per identiicare due immagini diverse. Stabilire l’ordine degli stimoli richiede ancora più tempo: tra due eventi devono passare almeno cinquanta millisecondi per capire quale è avvenuto prima. Per interpretare il mondo, il cervello deve in qualche modo conciliare queste diverse soglie di percezione. E il suo compito è reso ancora più diicile dal fatto che la luce e il suono viaggiano a velocità diverse e quindi possono raggiungere il nostro apparato sensoriale in momenti diversi, anche se sono stati emessi dallo stesso oggetto nello stesso momento. Come fa il cervello a legare questi stimoli separati in un unico evento psicologico, in un momento funzionale? È dimostrato che il cervello fa le sue previsioni anche al livello subcosciente dei millisecondi. Ce ne accorgiamo quando vediamo un ilm in cui le immagini e l’audio non sono sincronizzati. Il cervello si aspetta che il lusso sonoro e quello visivo siano simultanei e, se lo sfasamento non supera i duecento millisecondi, dopo un po’ smettiamo di accorgerci che i movimenti delle labbra e le voci degli attori non coincidono. Sfruttando questo effetto, Virginie van Wassenhove e i suoi colleghi del Cognitive neuroimaging unit di Gif-sur-Yvette, in Francia, hanno cercato di capire come fa il cervello a collegare in un unico momento funzionale tutte le informazioni che gli arrivano. E quello che hanno scoperto è decisamente afascinante. Il crogiolo della mente I ricercatori hanno presentato ai volontari una sequenza di bip e lampi di luce, che scattavano entrambi a distanza di un secondo ma erano sfasati di duecento millisecondi. Poi attraverso le tecnologie che permettono di osservare il cervello in azione, hanno registrato l’attività elettrica provocata da quegli stimoli. Hanno notato che nel cervello si producevano due onde, una nella corteccia uditiva e una nella corteccia visiva, che oscillavano entrambe a una frequenza di un hertz cioè una volta al secondo. All’inizio le due oscillazioni erano sfasate, e i vo- lontari avevano la sensazione che la luce e il suono non fossero sincronizzati. Ma quando cominciavano a dire che percepivano simultaneamente i bip e i lampi di luce, l’oscillazione della corteccia uditiva si allineava con quella visiva. “Questo cambiamento fa pensare a un intervento cosciente dei partecipanti”, afferma Wassenhove, “quindi dobbiamo ipotizzare che nel cervello esiste un meccanismo attivo che regola il tempo”. In altre parole: se ritiene che due eventi debbano essere associati, il cervello modiica isicamente i segnali per sincronizzarli. È la prima volta che il senso del tempo implicito trova una conferma biologica. Questo fa anche pensare che il cervello scelga (a livello subconscio) quello che rientra in un momento. Ma questo momento funzionale non è l’adesso di cui siamo coscienti, che è il livello successivo della gerarchia di Wittmann, il “momento vissuto”. Cosa ne sappiamo? Il momento vissuto sembra durare dai due ai tre secondi. L’anno scorso lo hanno dimostrato chiaramente David Melcher e i suoi colleghi dell’Università di Trento. I ricercatori hanno presentato ai volontari una serie di brevi video con segmenti che duravano da pochi millisecondi a diversi secondi e che erano stati a loro volta suddivisi in segmenti più piccoli e poi rimescolati a caso. Se il rimescolamento era avvenuto all’interno di un segmento che durava ino a due secondi e mezzo, i soggetti riuscivano ancora a seguire la storia come se non avessero notato gli spostamenti. Ma quando la durata del segmento aumentava, si confondevano. In altre parole, sembra che il nostro cervello sia in grado di fondere una serie di stimoli rimescolati in un insieme comprensibile entro un periodo di due secondi e mezzo. Secondo i ricercatori, questo potrebbe essere il “presente soggettivo” che ci permette di percepire coscientemente sequenze complesse di eventi. Melcher paragona questo effetto alla nostra capacità di riconoscere una parola scritta anche se sono state tolte o spostate alcune lettere. Vediamo la parola come un’unità coesa, quindi siamo in grado di riempire i vuoti. Ma se le parole che la precedono e la seguono non ci forniscono un contesto, o se sono state omesse la prima o l’ultima lettera, la comprensione diventa più diicile. Melcher pensa che il presente soggettivo, questa inestra di due o tre secondi, sia una sorta di meccanismo per compensare il fatto che il nostro cervello opera sempre su informazioni superate. In questo momento, il nostro cervello sta elaInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015 61 Scienza borando stimoli che sono arrivati ai nostri sensi centinaia di millisecondi fa, ma se reagissimo in modo così sfasato non avremmo vita facile nel mondo reale. “Il nostro senso del momento presente può essere visto come un’illusione psicologica basata sul passato e su una previsione del prossimo futuro”, dice Melcher. “E quest’illusione è calibrata in modo da permetterci di fare cose come correre, saltare, fare sport o guidare una macchina”. Più o meno coscientemente, i montatori dei ilm tengono conto di questo meccanismo e non creano quasi mai sequenze che durano meno di due o tre secondi, a meno che il regista non voglia trasmettere un’idea di caos e di confusione. “Tre secondi sono abbastanza per permetterci di capire quello che sta succedendo, ma non troppo da dover ricorrere alla memoria per non perdere le informazioni importanti”, dice Melcher. “È la durata giusta”. Wittmann, del centro di ricerca di Friburgo, ammette di non aver capito come un insieme di momenti funzionali subcoscienti possa combinarsi per dar vita al momento vissuto cosciente. La firma biologica del momento vissuto non è ancora stata scoperta, anche se il neuroscienziato e ilosofo Georg Northof dell’università di Ottawa, in Canada, ha suggerito una possibilità. Nel suo libro Unlocking the brain (Oxford University Press 2013) ipotizza che il senso del tempo implicito sia collegato ai potenziali corticali lenti, una specie di attività elettrica di fondo che si può rilevare in tutta la corteccia cerebrale. È signiicativo, dice Wittmann, che queste onde di attività elettrica possano durare diversi secondi. E fa notare come la coscienza stessa sia una specie di iltro, perché concentra la nostra attenzione su alcune cose escludendone altre: sotto l’inluenza di fattori come l’emozione o la memoria, per creare un momento vissuto la coscienza può stabilire che alcuni momenti funzionali sono collegati tra loro. La creazione del lusso Comunque nascano, questi momenti presenti sono combinati in modo da darci il senso della continuità o di “presenza mentale”, che è poi l’adesso inale nella gerarchia di Wittmann e copre un periodo di circa trenta secondi. In base a questo modello, il collante che tiene insieme i momenti vissuti per darci l’impressione dello scorrere del tempo sarebbe la memoria di lavoro, cioè la nostra capacità di trattenere una quantità limitata di informazioni per un breve periodo. Alla base della sensazione che siamo noi a vivere gli eventi c’è la pre- 62 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Esistono molte prove aneddotiche del fatto che il nostro senso del tempo si espande o si contrae a seconda di quello che ci sta succedendo intorno to, ne ricordano anche più dettagli e riescono a descriverlo con maggior precisione. Secondo lui, questo dimostra che l’elasticità del tempo riflette un cambiamento nell’elaborazione degli stimoli sensoriali. Un fattore che a livello evolutivo può aver rappresentato un vantaggio: accelerando i tempi di elaborazione nei momenti critici e rallentandoli quando l’ambiente torna a essere tranquillo e prevedibile, non sprechiamo risorse cognitive preziose. Meditare fa bene senza mentale: “l’adesso dell’io”, come la chiama Wittmann. Le possibili implicazioni di questa nuova visione del momento presente sono enormi. Prendiamo, per esempio, la questione del libero arbitrio. Negli anni ottanta, durante un esperimento sugli stimoli, il neuroisiologo statunitense Benjamin Libet fece una scoperta interessante: le persone dicevano di aver deciso di piegare il polso circa cinquecento millisecondi dopo che Libet aveva rilevato nel loro cervello l’attività che precedeva quel movimento. La sua conclusione, oggi molto discussa, fu che abbiamo meno controllo cosciente sulle nostre azioni di quanto pensiamo. Ma, considerato quello che sappiamo del nostro senso del tempo implicito, è possibile che l’attività rilevata da Libet fosse il prodotto dell’incapacità del cervello di stabilire una sequenza in tempi molto brevi. I cinquecento millisecondi, dice Wittmann, “rientrano decisamente nei margini di tempo in cui non siamo in grado di stabilire quale evento è avvenuto prima”. E poi c’è il problema dell’elasticità del momento presente. Esistono molte prove aneddotiche del fatto che il nostro senso del tempo si espande o si contrae a seconda di quello che succede intorno a noi. Per esempio, durante un incidente automobilistico sembra che tutto si svolga al rallentatore. Questo tipo di espansione è riproducibile anche in laboratorio: ai volontari è presentata una serie di stimoli di uguale lunghezza ma loro sostengono che un determinato evento è durato di più. Inoltre, alcuni risultati preliminari di Melcher e della sua équipe di Trento dimostrano che, quando le persone sovrastimano la durata di un even- Questi diversi modi di elaborare gli stimoli sensoriali sono inconsci. Ma siamo in grado di controllare consapevolmente la nostra percezione del momento presente? Chi medita con regolarità spesso sostiene di vivere il presente in modo più intenso degli altri. Per veriicare questa afermazione, Wittmann ha chiesto a 38 persone che meditavano e a 38 che non meditavano di guardare il disegno di un cubo di Necker (in cui non è possibile dire quale faccia è rivolta verso chi guarda e quale è il retro) e di premere un bottone ogni volta che avevano la sensazione che la prospettiva si fosse invertita. Il tempo che trascorre tra un’inversione e l’altra è considerato un buon metro per misurare la durata del presente psicologico. In base a questo parametro, i volontari di entrambi i gruppi attribuivano all’adesso una durata di circa quattro secondi. Un dato che sembrava confutare le afermazioni di quelli che erano soliti meditare. Ma quando Wittmann ha chiesto ai volontari di cercare di mantenere una certa prospettiva più a lungo possibile, quelli abituati a meditare arrivavano in media a otto secondi, mentre gli altri non superavano i sei. Secondo Wittmann, chi fa meditazione tende a riportare un punteggio più alto nei test che misurano l’attenzione e la capacità della memoria di lavoro. “Se sei più consapevole di quello che ti succede intorno, non solo vivi di più il momento presente ma memorizzi anche più dettagli”. E questo a sua volta inluisce sul senso dello scorrere del tempo. “Chi medita ha la sensazione che il tempo passi più lentamente, sia nel presente sia per quello che riguarda il passato”, conclude. Questo fa pensare che con un po’ di sforzo saremmo tutti in grado di modiicare la nostra percezione del momento presente. Se la meditazione allunga il presente, oltre che ad allargarci la mente potrebbe anche allungarci la vita. Quindi tenete sotto controllo la vostra coscienza e godetevi il momento più a lungo. Non c’è niente di meglio del presente. u bt Portfolio Le foto dell’anno La giuria del World press photo ha scelto le migliori immagini del 2014. Il primo premio è andato al fotografo danese Mads Nissen Jon e Alex, una coppia omosessuale ritratta a San Pietroburgo, in Russia. Foto di Mads Nissen, Scanpix/Panos/Prospekt, foto dell’anno Portfolio l 12 febbraio la giuria del World press photo ha annunciato ad Amsterdam i vincitori della 58a edizione del più importante premio fotogiornalistico del mondo. Quest’anno i partecipanti sono stati 5.692, di 131 nazionalità diverse, per un totale di 97.912 immagini. I fotograi premiati sono stati 42, di 17 nazionalità, in otto categorie. Il premio per la foto dell’anno è andato al danese Mads Nissen. L’immagine mostra un momento d’intimità tra Jon, 21 anni, e Alex, 25, una coppia omosessuale che vive a San Pietroburgo, in Russia. La foto fa parte del progetto Homophobia in Russia, che afronta il tema delle discriminazioni contro la comunità Lgbt in Russia. La presidente della giuria Michele McNally ha spiegato i motivi della scelta: “La foto dell’anno deve essere d’impatto e avere il potenziale per diven- I Sopra: Massimo Sestini. General news, singole, secondo premio. Un’imbarcazione piena di migranti soccorsa dalla marina italiana al largo della Libia, il 7 giugno 2014. Qui accanto: Paolo Verzone, Agence Vu. Ritratti, reportage, terzo premio. Allieva dell’accademia militare Koninklijke a Breda, Paesi Bassi. 66 Internazionale 1090 | 2o febbraio 2015 tare un’icona. L’immagine di Nissen è esteticamente potente e ha una forte umanità”. I fotograi italiani premiati sono stati dieci: Fulvio Bugani, Turi Calafato, Giulio Di Sturco, Paolo Marchetti, Michele Palazzi, Andy Rocchelli, Massimo Sestini, Gianfranco Tripodo, Giovanni Troilo e Paolo Verzone. Le foto premiate saranno in mostra al Museo di Roma in Trastevere dal 29 aprile al 22 maggio 2015 e alla Galleria Carla Sozzani, a Milano, dal 1 al 31 maggio 2015. Saranno anche pubblicate in un libro edito da Contrasto. u Nella foto grande: un malato di ebola ripreso dopo un tentativo di fuga dal centro medico Hastings a Freetown, in Sierra Leone. Pete Muller, Prime per National Geographic/The Washington Post. General news, reportage, primo premio. Qui accanto, da sinistra: Sergei Ilnitsky, European Pressphoto Agency. General news, singole, primo premio. Una casa bombardata nel centro di Donetsk, Ucraina, 26 agosto 2014. Jérôme Sessini, Magnum Photos per De Standaard. Spot news, reportage, secondo premio. Violenze a Kiev, Ucraina, 19-21 febbraio 2014. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 67 Portfolio Sopra, dall’alto: Bulent Kilic, Agence France-Press. Spot news, singole, primo premio. Una ragazza ferita durante una manifestazione a Istanbul, in Turchia, il 12 marzo 2014. Poche ore prima si era svolto il funerale di Berkin Elvan, un quindicenne morto a causa delle ferite riportate alcuni mesi prima negli scontri con la polizia durante una protesta antigovernativa. Yongzhi Chu. Natura, singole, primo premio. Una scimmia durante l’addestramento in un circo a Suzhou, nella provincia dell’Anhui, in Cina. In alto a destra: Ami Vitale, National Geographic. Natura, 68 Internazionale 1090 | 2o febbraio 2015 singole, secondo premio. Guerrieri samburu con un rinoceronte a Lewa Downs, in Kenya. In basso, da sinistra: Glenna Gordon. General news, reportage, secondo premio. Le uniformi scolastiche di tre delle 276 ragazze rapite dai miliziani di Boko haram a Chibok, nel nord della Nigeria, il 14 aprile 2014. Ronghui Chen, City Express. Temi di attualità, singole, secondo premio. Wei, un operaio di 19 anni, in una fabbrica di decorazioni natalizie a Yiwu, in Cina. La maschera e il cappello da Babbo Natale lo proteggono dai coloranti in polvere. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 69 Ritratti Hervé Falciani Cavaliere oscuro Gérard Davet e Fabrice Lhomme, Le Monde, Francia. Foto di Corentin Fohlen I dati che ha sottratto alla Hsbc hanno rivelato che in Svizzera le banche aiutano gli evasori ad aggirare il isco. Lui si presenta come un paladino della legalità, ma dalle inchieste emerge una personalità ambigua uest’uomo è più opportunista che poliedrico. Di sicuro Hervé Falciani può recitare molti ruoli e usare un linguaggio oscuro per nascondersi. Ha saputo navigare in acque torbide, reagire a ogni avversità e approittare di tutte le occasioni. È stato un programmatore, un ladro d’informazioni riservate, un cavaliere solitario, un mitomane, un manipolatore, un allarmista, una vittima del sistema. Ma Falciani è prima di tutto, e nessuno può negarlo, il fulcro dell’incredibile vicenda Hsbc. Dopo cinque anni di indagini, dopo la lettura di migliaia di rapporti conidenziali e di testimonianze inedite, possiamo inalmente raccontare la vita di Falciani, l’incubo della Hsbc Private Bank. Per i suoi interlocutori francesi era Ruben al Chidiack. A Ginevra però è sempre stato Hervé Falciani, per i colleghi, per gli amici e per le conquiste di una sera. Compagnone, festaiolo. Programmatore di buon livello, il 14 marzo 2006 lascia la succursale monegasca della Hsbc e passa alla sede di Ginevra del gigante bancario britannico. Croupier dal 1992 al 2000, sposato due volte, padre di una bambina e di nuovo sul punto di divorziare. Un personaggio dannato, un millantatore, un furbastro. Un playboy, un incallito giocatore di poker, uno scialacquatore. A Carouge, nei pressi di Gi- Q 70 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 nevra, era noto per l’abitudine di abbordare le donne in piscina. Alla giovane Doina ha raccontato che era separato e aveva una iglia autistica. Anche a Myriam, una studentessa di ilosoia incontrata durante un torneo di poker, ha mentito profusamente sulla sua vita. Le due lo hanno descritto agli inquirenti svizzeri come un “manipolatore”. All’epoca aveva già una relazione con la collega Georgina Mikhael, una franco-libanese sedotta nel 2006, anche lei al tavolo da poker. Insomma, Falciani non è proprio il genere di persona a cui aidereste i segreti di una delle più potenti banche private del mondo, dove per aprire un conto ci vuole almeno un milione di dollari. Eppure è proprio lui che si è ritrovato lì, nel sancta sanctorum. Gli è stata affidata una missione cruciale: approntare uno strumento chiamato Customer relationship management (Crm), che doveva facilitare i rapporti tra la banca e i suoi clienti. A Monaco Hervé ha eseguito questo compito diligentemente. Il lavoro era semplice e ripetitivo: trasferire i dati dal vecchio sistema informatico Siic, su cui sono conservati i documenti relativi ai titolari di conti correnti, al Crm. Nel 2006 la Hsbc cercava di rendere il sistema più eiciente. Oggi tutti gli impiegati della banca interrogati dagli inquirenti sono convinti che Falciani abbia trovato Biograia ◆ 1972 Nasce a Monte Carlo. ◆ 2006 Lavora in Svizzera al database della Hsbc Private Bank e s’impossessa dei dati di centomila correntisti presunti evasori iscali. ◆ 2009 Collabora con le autorità francesi. ◆ Febbraio 2015 Un consorzio di giornali, tra cui Le Monde, pubblica i risultati dell’inchiesta sui conti della Hsbc. una falla nel sistema informatico tra il 2006 e il 2008, quando a causa di un intoppo i dati non erano criptati. Jean-Claude Brodard, direttore della logistica della banca, ricorda che “tutti i trasferimenti si facevano nel ine settimana. La prima parte è stata completata nel 2006”. Florent Donini, un altro dipendente del settore informatico, concorda con i colleghi: “Hervé era l’unico responsabile della costruzione del Crm. Ha avuto accesso a dati non criptati. Il trasferimento dura 4 o 5 ore, durante le quali vediamo silare i dati e possiamo salvare quello che appare sullo schermo”. È in quei preziosi momenti che i programmatori come Falciani hanno avuto accesso alle informazioni? Probabile. Jérôme Charlot, responsabile del settore informatico presso Hsbc Pb, ricorda che “Hervé avrebbe dovuto distruggere i dati dopo aver completato il trasferimento”, ma sembra proprio che non abbia rispettato l’impegno. Roland Vezza, dirigente della Hsbc Pb, spiega che “Falciani è abbastanza bravo dal punto di vista tecnico, ma umanamente è un manipolatore, un mitomane”. La persona ideale per innescare un meccanismo distruttivo, soprattutto perché la carriera non gli stava regalando le soddisfazioni che sperava. La banca infatti aveva scelto un modello di Crm diverso da quello proposto da Falciani, e gli aveva anche riiutato un incarico nel settore della sicurezza. È stato quest’uomo instabile, frustrato sul piano professionale, bugiardo su quello sentimentale, che ha ottenuto e conservato i dati segreti dei clienti della Hsbc Pb. Intervistato da Le Monde il 15 dicembre 2014, Falciani ha dato una versione molto diversa della vicenda: “È vero, ho rubato i dati”, ha ammesso, ma ha assicurato di es- DIveRgeNCe sere stato aiutato da complici interni alla banca e di aver agito spinto da motivazioni etiche. “Non avevo l’autorità per accedere a dati operativi, ma lavoravo su tutti i pro getti riservati, in contatto con i vertici della banca. Mi dicevano ‘Le cose stanno così’. È in questo modo che ho avuto accesso ai da ti, attraverso intermediari. La maggior parte di quelli che mi hanno aiutato l’ha fatta franca. Loro mettevano i dati su un server e io mi assicuravo che le informazio ni fossero coerenti”. Vacanze libanesi Questa ricostruzione dei fatti non convin ce gli inquirenti svizzeri, che vorrebbero portare Falciani davanti a un tribunale fe derale. La giustizia elvetica dispone di ele menti solidi, in primo luogo le contraddi zioni del programmatore. Ascoltato dalla polizia francese nel gennaio del 2009, Fal ciani ha dichiarato che i dati erano stati ottenuti attraverso il “data mining e i backup” che aveva fatto nell’ambito della sua normale attività professionale. All’epoca non aveva parlato di collaboratori né di motivi etici. In ogni caso, all’inizio del 2008 Falciani disponeva di migliaia di dati riservati. Per la precisione, di informazioni sui conti di 107.181 persone, presumibil mente evasori iscali. La lista valeva oro. Che farsene? Falciani giura di aver sempre agito per idealismo e per smascherare i metodi illegali, comportandosi come un informatore, il ruolo con cui si protegge da molte accuse. Forse è vero, ma dall’analisi dei fatti emerge una verità meno lusin ghiera. Il 22 dicembre 2008 Mikhael ha denun ciato il suo amante alle autorità svizzere: “Poco tempo dopo l’inizio della nostra re lazione, Hervé Falciani mi ha confessato di essere in possesso di un database che vole va vendere per procurarsi i soldi che dove va alla moglie a causa del divorzio. Ha mi nacciato di fare del male a me e alla mia famiglia se avessi raccontato la storia dei dati a qualcuno”. I due amanti hanno inito per separarsi, ma inizialmente le loro in tenzioni sembravano coincidere, come confermano le conversazioni su Skype esa minate nell’ambito dell’inchiesta: “Hai pescato?”, chiede nel 2007 la ragazza. “Tre mesi di update per ogni indirizzo e perso na”, risponde Falciani. “Non ti hanno bec cato?”, chiede lei. “Per ora mancano le ci fre”, risponde lui. “Bisogna fare attenzio ne, baby”, conclude Mikhael. Secondo Mikhael, lei e Falciani pensa vano di guadagnare una fortuna. Dal 2 al 9 febbraio le loro tracce compaiono in Liba no, dove secondo Mikhael volevano ven dere le liste alle banche locali. “Dal Libano avrei potuto rivelare le informazioni”, si giustiica oggi Falciani: voleva lanciare l’al larme, svelare il sistema che aveva contri buito a perfezionare. Ma perché non ha semplicemente denunciato la Hsbc alle autorità svizzere? “La Svizzera non indaga sulle banche. Non siate ingenui, il potere del denaro funziona così”, spiega. Torniamo alla coppia in vacanza in Li bano. È lì che appare per la prima volta il nome falso Ruben al Chidiack. Identità fal se, documenti falsi, una società di facciata, la Palorva, creata a Hong Kong per l’occa sione. Falciani si spaccia per il responsabile commerciale dell’azienda presso quattro banche di Beirut. Nell’afare entra anche suo fratello Philippe, a cui Hervé vende l’idea fumosa di “dati progetto”. Philippe rivelerà in seguito agli inquirenti che il fra tello “voleva fare soldi” grazie a dei dati provenienti da ricerche sul dark web. “Le banche avrebbero dovuto pagare una certa cifra, che personalmente ignoro, per ac quistare il database”, conferma Mikhael nel dicembre del 2008. Secondo lei è pro babile che il prezzo si aggirasse intorno ai mille dollari per nome. Per spiegare l’origi Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 71 Ritratti ne dei ile Hervé parlava di “intercettazioni di fax”. Interrogata una seconda volta nel 2010, Mikhael non ha cambiato versione: “Falciani mostrava alle banche una lista enorme di clienti con nomi in codice”. Queste dichiarazioni sono confermate dai banchieri libanesi rintracciati a Beirut. Jacques Aouad, di Bnp Paribas Beirut, ricorda che “due persone avevano preso un appuntamento chiedendo se la mia banca fosse interessata ad acquisire informazioni”. Il 4 febbraio 2008 la coppia incontra Samira Harb della banca Audi. La donna ricorda il fantomatico Al Chidiack: “Diceva di avere delle liste che contenevano indirizzi, nomi, numeri di conti correnti. E di aver ottenuto questi nomi intercettando dei fax”. Sui documenti che Falciani mostrava ai potenziali acquirenti il logo della Hsbc era in bella vista. Anche George Tabet della banca Blominves ha ricevuto la coppia. Tutti hanno testimoniato davanti alla giustizia svizzera, giurando di non aver accettato le oferte di Falciani e Mikhael. A questo punto è molto diicile credere alla versione di Falciani, soprattutto perché ha oferto spiegazioni diverse durante i vari interrogatori. Falciani cambia spesso versione, passando da una all’altra a seconda degli interessi del momento. Il 20 gennaio 2009, per esempio, ha dichiarato alle autorità francesi che voleva “realizzare un software di data mining. Per farlo avevo bisogno di un inanziamento”. Ecco spiegato, in teoria, il viaggio in Libano. Ma nel luglio del 2013, davanti al giudice di Parigi Renaud Van Ruymbeke, il tono cambia radicalmente: “Il mio unico obiettivo era far scattare la denuncia da parte della iliale libanese di una banca svizzera, per mettere ine alle attività illecite della Hsbc”. Cataclisma inanziario Ma qual è il vero Falciani? Il programmatore alla ricerca di denaro facile o il cavaliere solitario in missione divina? Hervé ha indossato entrambe le maschere, perfettamente in linea con il suo opportunismo. In efetti dopo il suo viaggio in Libano non ha più cercato di vendere i dati. Al contrario, ha inviato messaggi ai servizi segreti britannici e tedeschi promettendo meraviglie. Ecco l’email indirizzata il 18 marzo 2008 a un’agenzia governativa britannica: “Ho la lista completa dei clienti di una delle cinque maggiori banche private. Questa banca ha sede in Svizzera. Garantisco anche l’accesso al sistema informatico”. Nella primavera del 2008, in Liechtenstein, un impiegato della banca Lgt ha venduto al isco tedesco una lista ininitamen- 72 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 te meno completa rispetto a quella di Falciani, incassando 5 milioni di euro. La coppia Falciani-Mikhael aveva trovato un altro modo per fare soldi? Oggi lui sostiene di aver avuto un solo obiettivo: smascherare il sistema bancario svizzero. Nell’aprile del 2008 entra in contatto con il isco francese. Falciani non chiede denaro, ma solo aiuto. E promette un cataclisma inanziario. In ogni caso uno dei suoi obiettivi, quello di allertare la giustizia svizzera, viene raggiunto: il 20 marzo del 2008 l’Associazione svizzera dei banchieri scopre le attività della coppia in Libano, e il 29 maggio si apre un’inchiesta. Anche se in Svizzera non si scherza con il furto di dati bancari, l’inchiesta è inizialmente discreta. Il telefono di Mikhael viene messo sotto sorveglianza, e gli agenti scoprono che frequenta assiduamente Falciani. Poi, il 17 dicembre del 2008, gli inquirenti scoprono che Mikhael si prepara a lasciare la Svizzera. Viene arrestata il 22 dicembre e denuncia subito il complice. “Il mio unico riconoscimento sarà la condanna della giustizia svizzera” Gli agenti perquisiscono gli uici dei due e Falciani viene convocato per l’indomani, 23 dicembre, alle 9.30. È un grave errore, perché le autorità svizzere non lo rivedranno mai più. Convinto che le autorità francesi lo aiuteranno, Falciani decide di scappare nel sud della Francia. Aitta una macchina a Ginevra e la riconsegna all’aeroporto di Nizza. Da lì parte per Castellar, dove ha una casa in campagna. Il 24 dicembre, nel pomeriggio, contatta i suoi referenti nel isco francese e chiede di incontrarli due giorni dopo. Il 26 dicembre, all’aeroporto di Nizza, ripreso dalle telecamere di sorveglianza, consegna al isco francese cinque dvd contenenti i suoi dati. In questo modo ha la garanzia che saranno usati. Gli svizzeri, consapevoli del loro errore, chiedono subito l’estradizione. Il 20 gennaio 2009 Falciani si ritrova davanti una squadra di gendarmi francesi accompagnati da un magistrato svizzero. Accetta di collaborare con la giustizia francese. La Confederazione elvetica, che spera di recuperare i dati originali, resta a bocca asciutta perché il procuratore di Nizza Eric de Montgolier non vuole lasciarsi sfuggire il caso, tanto più che ha l’appoggio del i- sco. La vicenda Falciani diventa la vicenda Hsbc Pb. Falciani collabora. Dalle liste emergono centinaia di nomi. Il isco e la giustizia conducono inchieste parallele. Il programmatore sfugge all’estradizione in Svizzera e viene stipendiato da un ente parastatale francese. Nel marzo del 2009 termina la sua collaborazione con il isco. L’estrazione di dati è quasi terminata. Presto la vicenda attira l’attenzione delle istituzioni estere. Il tribunale di Torino contatta la Francia, seguito dalla giustizia statunitense. Nel luglio del 2012 Falciani è in Spagna, dove viene arrestato e rilasciato cinque mesi dopo in cambio della promessa di aiutare la giustizia spagnola. Inine, nel 2012, le autorità britanniche ottengono i suoi dati, interessandosi soprattutto ai clienti delle isole anglo-normanne. Il piacere dell’onestà Oggi Falciani collabora con i governi di Argentina e India per combattere l’evasione iscale. Si muove con discrezione, consapevole di essere sorvegliato. La sua vita è cambiata radicalmente. È sotto protezione. Ci sono troppi interessi in gioco. La sua carriera di informatore è sulla buona strada. Ma ha ancora una vita? Vive di contratti a tempo determinato e in questo momento dichiara di essere disoccupato. “Avevo trovato lavoro, ma sono stato scartato appena hannno letto il mio nome. Questa è la mia vita. Sopravvivo inché sono utile. L’unico riconoscimento uiciale che avrò sarà la condanna della giustizia svizzera. Mi sarebbe piaciuto diventare un consulente, sarebbe stata come una medaglia, un segno di rispetto per i rischi che ho corso”. Il futuro? Di sicuro Falciani non metterà più piede in Svizzera. “Che m’importa del processo in Svizzera? Non ho niente da fare laggiù. Voglio voltare pagina, cambiare nome, sparire e avere una vita normale”. Gli resteranno il ricordo di un’avventura straordinaria e i segreti che porta con sé. Terribilmente umano, inalmente. A volte nella sua corazza si apre una crepa: “Dovrebbe esserci una legge per aiutare gli informatori. Non sono un cavaliere solitario, ma c’è qualcosa di molto bello e gratiicante nello svelare la verità. Quando le cose vanno male questa consapevolezza aiuta, ti ricorda che hai lasciato una traccia”. Falciani avrebbe potuto guadagnare molto denaro e probabilmente ci ha provato. Gli resta la consapevolezza di essere stato utile. Non male per un ex croupier, programmatore, seduttore, ladro. E informatore. u as Viaggi L’autobus turco e le sue regole Le disavventure di un turista australiano a cui è stato assegnato per errore un posto accanto a una signora. In un paese sempre meno laico il culmine del Ramadan, il mese di celebrazioni che coinvolge tutto il Medio Oriente. E le conseguenze si vedono anche a Konya, in Turchia. Alcune le ho già sperimentate. Dal punto di vista gastronomico non c’è molta scelta, perché in città si digiuna tutto il giorno. E per bere degli alcolici – cosa già abbastanza diicile in questa roccaforte del suismo nell’Anatolia centrale – serve fantasia e capacità investigativa. Il caldo, però, rende tutto più diicile. La birra e il raki (un distillato), apprezzati dai miei amici di Istanbul e Izmir, non si addicono ai seguagi di Rūmi. Almeno non in pubblico: in realtà si dice che Konya abbia un tasso di alcolismo tra i più alti della Turchia. Tutto questo non mi sorprende, quello che non immaginavo sono gli effetti del mese sacro sul turismo. Il Ramadan è tradizionalmente un periodo di migrazione di massa, ma mi sarei aspettato che i fedeli si spostassero verso i centri religiosi come Konya, non che li abbandonassero. La fortuna mi aiuta e riesco a prendere l’ultimo posto sull’ultimo autobus disponibile per Gaziantep, a 562 chilometri a est di Konya. Sono costretto a ritardare l’orario di partenza e mi toccherà viaggiare di notte, ma almeno ho il biglietto. Il viaggio durerà nove ore. Comincio a tempestare di email l’albergo a Gaziantep per informarli che arriverò con un giorno di ritardo, scusandomi in un pessimo turco tradotto su Google. In tutto il mondo i terminal degli autobus sembrano dei recinti per il bestiame: confusione, corpi sudati e ansimanti. In Turchia a tutto questo si aggiunge un detta- è 74 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 glio: le grida del personale, che sembrano quelle dei banditori d’asta. “Izmir! Izmir! Izmir!”, grida un uomo. “Ankara! Ankara! Ankara!”, grida un altro. In questo paese sembra che buona parte della popolazione maschile si guadagni da vivere urlando, forse anch’io potrei fare carriera. Chissà se gli uomini che urlano i nomi delle città si fanno le ossa gridando i nomi dei vari tipi di kebab: “Şiş kebab! Urfa kebab! Adana kebab!”. O viceversa? “Antep! Antep! Antep!”. È il mio autobus, ma non si vede. Ogni cinque minuti trascino il bagaglio ino alla biglietteria della compagnia di autobus Metro Turzim per avere la conferma che il numero della banchina sia giusto. La scena si ripete per quattro volte. In una lingua che non capisco e con gesti che seguo a stento mi assicurano che è il numero giusto. Almeno credo. Gli altri passeggeri diretti a Gaziantep fumano una sigaretta dietro l’altra, divertiti dal mio comportamento. Le donne distolgono lo sguardo. L’autobus ha mezz’ora di ritardo e quando inalmente appare mi sento sollevato. IzzET KERIbAR (GETTy IMAGES) Matthew Clayield, The Saturday Paper, Australia Vestito lungo Il mio posto è occupato da un bambino che dorme. Ma soprattutto, accanto a lui c’è una donna di mezza età. Mi guarda come se mi aspettassi qualcosa e io ricambio lo sguardo. Ho un brutto presentimento perché negli autobus turchi un uomo non si siede mai vicino a una donna che non conosce. Mi preparo stoicamente a una lunga attesa notturna. Una settimana dopo racconto l’episodio a una tedesca che incontro nella città curda di Van. Siamo a un matrimonio curdo, dove uomini e donne siedono separati e partecipano a turno al banchetto di nozze. Regole che la tedesca non rispetta, mostrando una naturalezza tutta europea. Si mette a ridere e mi racconta un episodio che le è capitato. Due anni fa si è trovata in una situazione simile alla mia. Doveva assolutamente prendere un autobus e l’unico posto libero Konya, Turchia. Il mausoleo di Mevlana e la moschea di Selimiye era accanto a un uomo. La biglietteria non voleva venderle il biglietto, ma poi grazie alla sua caparbietà tedesca è riuscita a risolvere la situazione. Si è presa la responsabilità per qualsiasi cosa potesse succedere durante la notte. Ha pagato e si è seduta al suo posto. “Il mio vicino si è comportato da perfetto gentiluomo”, racconta. “Ha sorriso educatamente ed è stato sempre dalla sua parte”. Così lei si è addormentata. Ma la mattina dopo il suo vestito, che le arrivava ino alle caviglie, era sollevato sopra le ginocchia. La questione del mio posto occupato dal bambino causa scompiglio. Rimango in piedi con la testa che tocca il soitto mentre il mio caso viene sviscerato a voce alta Informazioni pratiche u Arrivare e muoversi Il prezzo di un volo dall’Italia per Konya (Pegasus Airlines, Turkish Airways, Lufthansa) parte da 249 euro a/r. Per avere informazioni sugli orari degli autobus da Konya a Gaziantep si può consultare il sito della compagnia Metro Turzim: metroturizm.com.tr. u Dormire L’Otel Nil (otelnil.com) di Konya ofre una doppia per 100 lire turche a notte (35 euro). u I lettori consigliano L’Anadoru Evleri, a Gaziantep (anadoluevleri.com), che è un albergo a quattro stelle, si trova nella città vecchia in un ediicio storico. Una doppia costa 68 euro a notte. u Leggere Irfan Orga, Un viaggio in Turchia, Passigli 2008, 16,50 euro. u La prossima settimana Viaggio nella Guyana francese, lungo il iume Maroni. Avete suggerimenti su posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected]. nel minimo dettaglio. Perché prima di partire non ho pensato a migliorare il mio pessimo turco? Potevo almeno imparare a dire “mi dispiace”, o “non capisco” o “sono un idiota”. Siamo in ritardo di 45 minuti e i passeggeri cominciano a protestare sotto la luce implacabile delle lampade al neon. Gli autobus turchi funzionano bene, meglio che nei paesi anglofoni, e per il personale della Metro Turzim è più importante dare una spiegazione che trovare una soluzione. Lo steward ha la situazione sotto controllo e sembra gustarsi la scena. Non è un errore, mi spiega a gesti facendomi vedere le matrici dei biglietti. Entrambi abbiamo i biglietti giusti e i posti giusti. Allora dov’è lo sbaglio? Sul biglietto della donna c’è scritto che il passeggero è un uomo. Una svista della biglietteria. Un errore amministrativo che investe anche una questione morale. Comincia la ricerca di un passeggero maschio disposto a sedersi vicino a me e che in più abbia una moglie disposta a sedersi accanto a un’estranea con due bambini (un secondo bambino, si scopre, sta dormendo sul pavimento sotto il sedile). Comincia anche la ricerca delle scarpe dei bambini, che durante la notte sono scivolate lungo il corridoio. La caccia alle scarpe continua tra una fermata e l’altra ino alle prime ore del mattino. L’arrivo di Erdoğan La donna a cui ho tolto il posto la prende relativamente bene. In compenso il tizio con cui sono costretto a viaggiare è molto meno contento e per tutta la notte cerco di non toccarlo e di non sudargli addosso. Un po’ per rispetto e un po’ per paura di rappresaglie. L’autobus delle 22 per Gaziantep parte da Konya dopo le 23. La mia amica tedesca non riesce a capire come mai in Turchia gli uomini e le donne non possono stare seduti vicini in autobus. “Vogliono salvare le donne dagli uomini libidinosi o salvare gli uomini dalla tentazione?”. Ho il sospetto che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ce ne darà un’idea più chiara nei prossimi anni. Il conservatorismo religioso che ha portato Erdoğan al potere è sempre più radicato e i suoi sostenitori sono sempre più attivi e aggressivi nell’afrontare le questioni sociali. La concezione laica dello stato, faticosa conquista della Turchia e spina nel ianco dei credenti per quasi un secolo, viene lentamente e deliberatamente erosa. Arriviamo a Gaziantep la mattina presto, con qualche ora di ritardo e la tipica sensazione che si prova dopo i viaggi notturni in autobus: quella di sentirsi sporchi. Mi risparmio il minibus per il centro e mi faccio portare in taxi direttamente al mio modesto albergo. Mi butto sul letto quando giù in strada cominciano ad arrivare e a vociare i primi commercianti. Quando mi sveglio, è già quasi sera. u fas Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 75 Graphic journalism 76 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Clément Baloup è un autore franco-vietnamita nato nel 1978 a Mont Didier, in Francia. Abita a Marsiglia. Il suo ultimo libro, pubblicato insieme a Christophe Alliel, è Le Ventre de la Hyène (Le Lombard 2014). Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 77 Cultura Giornali STEPHEN CHERNIN (AP/ANSA) David Carr, agosto 2008 L’eroe del Times Bruce Weber e Ashley Southall, The New York Times, Stati Uniti David Carr è stato uno dei più brillanti giornalisti del New York Times. È morto il 12 febbraio. Aveva 58 anni na di queste battaglie aveva smorzato la sua energia. Andava spesso in tv, ospite di talk show e programmi d’informazione, teneva lezioni e conferenze sul giornalismo e nel 2011 è stato tra i protagonisti di un documentario sul New York Times. avid Carr, sfuggito al demone della tossicodipendenza per trasformarsi in una celebrità del giornalismo, editorialista del New York Times e autore di un’autobiograia diventata un best seller, è morto il 12 febbraio. Aveva 58 anni. È stato trovato privo di sensi nella redazione del quotidiano a Manhattan poco dopo le 21. È stato portato al St. Luke’sRoosevelt hospital, dove è stata constatata la sua morte. Carr era sopravvissuto a un cancro e aveva lottato contro l’alcolismo, ma nessu- Un volto noto D 78 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Il giorno della sua morte ha moderato un dibattito su Citizenfour, il documentario candidato all’Oscar su Edward Snowden, con la regista Laura Poitras, Glenn Greenwald (il giornalista che per primo ha pubblicato le rivelazioni dell’ex analista dell’Nsa) e lo stesso Snowden, in collegamento video dalla Russia. “C’è qualcosa nel modo in cui hai realizzato questo ilm e in quello che rivela che non ci fa dormire sonni tranquilli”, ha detto Carr a Poitras. Per il New York Times Carr all’inizio si era occupato di cultura pop, inaugurando la rubrica The carpetbagger, dedicata alle notizie e alle follie della stagione dei premi di Hollywood. Ha sostenuto ilm anticonformisti come Juno e ha intervistato star afermate ed emergenti, da Woody Harrelson e Neil Young a Michael Cera. Ma forse Carr è diventato famoso soprattutto per le sue analisi, spesso pionieristiche, sugli sviluppi dell’editoria, della tv e dei social network. Nella sua rubrica del lunedì, The media equation, e in altri articoli, parlava di questioni che diventavano presto d’attualità; di nuovi dispositivi interessanti e allo stesso tempo fastidiosi (il bastoncino pieghevole per i selie, che qualcuno chiama Narcissistick); di celebrità del mondo dell’informazione, come Julian Assange, di dinosauri, come Michael R. Bloomberg e Rupert Murdoch, o di meteore come Randy Michaels, che era stato a capo della Tribune Company ino al 2010, quando un articolo di Carr ne mise in evidenza la volgarità e la tendenza a usare metodi clientelari, costringendolo a dimettersi. La scrittura di Carr era franca, a volte perino brusca. Spesso aveva con i lettori la complicità di un cospiratore e a volte era autoreferenziale e oppresso dal senso di colpa. L’effetto era un atteggiamento al tempo stesso alla mano e soisticato, la voce di uno scettico ben informato. “Vogliamo che i nostri conduttori siano bravi a leggere le notizie e anche a farci credere di esserne al centro”, aveva scritto l’8 SARA KRULWICH (THE NEW YORK TIMES/CONTRASTO) 13 febbraio 2015, la redazione del New York Times ricorda David Carr febbraio, quando è venuto fuori che Brian Williams, conduttore della Nbc, aveva mentito raccontando di essersi trovato su un elicottero nel bel mezzo di un attacco in Iraq nel 2003. “Quando gli uomini o madre natura provocano il caos, i grandi network sono costretti a spedire un afollato carroz zone in zone remote, con un conduttore a fare da portabandiera. E il conduttore dev’essere ovunque, dev’essere famoso, giramondo, divertente, alla mano e soprat tutto affidabile. Nessuno può soddisfare tutti questi requisiti”. L’editore del giornale, Arthur Ochs Sulz berger Jr., ha dichiarato in un comunicato che “Carr è stato uno dei giornalisti di mag giore talento tra quelli che hanno lavorato al New York Times”. In un’email alla reda zione, il direttore Dean Baquet ha scritto: “Era il nostro più grande sostenitore e la sua ininita passione per il giornalismo e per la verità mancherà molto al Times, ai suoi let tori in tutto il mondo e a tutti quelli che amano il giornalismo”. Dall’abisso L’ascesa di Carr è ancora più straordinaria se si tiene conto dell’abisso da cui è partita. Come si legge nella sua autobiograia del 2008, The night of the gun, alla ine degli an ni ottanta era dipendente dal crack e viveva con una spacciatrice, con cui aveva avuto due iglie gemelle. Una notte, poco dopo la nascita delle bambine, le lasciò in macchi na mentre lui andava a procurarsi della co caina da un certo Kenny. “I racconti da spacciatore di Kenny erano più rainati e in un certo senso più appaganti rispetto a quel li di quasi tutti gli altri spacciatori”, ha scrit to Carr. “La sua visione del mondo era pie na di elicotteri neri e rumore bianco. Pre senze invisibili e misteriose che un giorno ci sarebbero venute a cercare. Mi teneva con il iato sospeso. Ma quella sera avevo compa gnia. Di sicuro non potevo portare dentro le gemelle. Varcare la soglia dello spaccio con due neonate sarebbe stato troppo. Seduto nell’oscurità del sedile anteriore, decisi che le mie piccole gemelline sarebbero state al sicuro, che dio si sarebbe preso cura di loro mentre io non lo facevo”. Qualche mese dopo Carr entrò in un programma di recupero. Nel 2008 è riuscito a guardare al suo passato e a scrivere: “Oggi sono una persona sincera e spesso piacevo le, svolgo un lavoro duro per un giornale prestigioso e con il passare del tempo ho di mostrato di essere un padre e un marito at tento”. Arrivato al New York Times nel 2002 come esperto di economia per il magazine settimanale, si è ritagliato un ruolo di primo piano nella redazione con la sua aria vissu ta, la voce gracchiante e la postura da cico gna. Poteva essere piuttosto burbero, la sfrontatezza intellettuale e l’intolleranza nei confronti degli stupidi emergeva dalle sue conversazioni e dai suoi articoli. Ru bando la scena a tutti diventò l’incarnazio ne del quotidiano nel documentario del 2011, Page one. Inside The New York Times, non limitandosi a raccontare storie, ma di fendendo l’onore del giornale. David Michael Carr era nato l’8 settem bre del 1956 a Minneapolis ed era cresciuto a Hopkins, alla periferia della città. Suo pa dre John aveva un negozio di abbigliamen to e dopo aver lottato anche lui contro l’al colismo era diventato un sostenitore dei programmi di riabilitazione. La madre di David, Joan, era un’insegnante. David Carr si era laureato all’università del Minnesota, dove aveva seguito corsi di psicologia e giornalismo. Prima di trasferirsi a New York aveva lavorato per un settimanale alternativo, il Twin Cities Reader, e poi per il Washington City Paper. Si era occupato del mondo dell’informazione per il sito Inside e prima di entrare al New York Times aveva colla borato con l’Atlantic Monthly e con il New York magazine. Carr viveva a Montclair, nel New Jersey. Lascia sua moglie, Jill Rooney Carr, le iglie Maddie, Erin e Meagan, i fratelli Jim, John Jr. e Joe, e le sorelle Missy e Lisa. “Vivo una vita che non merito”, ha scrit to Carr alla ine di The night of the gun. “Ma tutti percorriamo questa terra sentendoci degli impostori. Il trucco è mostrarsi grati e sperare di essere scoperti il più tardi possi bile”. u gim Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 79 Cultura Cinema Italieni Dall’Iran I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana il britannico Paul bompard. Un orso contro la censura 80 L’Orso d’oro a Taxi di Jafar Panahi sembra premiare più l’ostinazione del regista che la qualità artistica del ilm Il regista iraniano Jafar Panahi è un artista che si batte per la democrazia e la libertà d’espressione. Un artista ribelle che non sopporta l’ingiustizia, le prepotenze e la repressione dello stato. In Iran gli è stato impedito di produrre ilm per vent’anni, ma girando in gran segreto e con mezzi ridotti all’osso è riuscito a lavorare al riparo dalla censura. Nel suo ultimo ilm Taxi Panahi si mette alla Taxi guida di un taxi per le strade di Teheran e parla con le persone che porta. Forse la Berlinale avrebbe potuto premiare un ilm più bello. Invece, assegnando l’Orso d’oro al regista iraniano, ha scelto di sostenere Panahi e la sua resistenza, mettendo in secondo piano le questioni artistiche. Tutto questo fa pensare che, in un certo senso, le opere degli artisti provenienti da paesi “marginali” sono giudicate secondo criteri diversi da quelli applicati ai paesi occidentali. Gli ultimi tre ilm di Panahi (This is not a ilm, Clo sed curtain e Taxi) rilettono la sua determinazione a non piegarsi alla volontà dello stato, coltivando il proprio amore per il cinema. Ma sono anche la testimonianza del fatto che l’Iran ha trasformato un autore di qualità in un regista costretto a fare ilm con mezzi inadeguati. Radio Zamaneh (Iran) Massa critica Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo T Re H E gn D o AI U L n Y L E i to T EL Fr F EG an I G ci A R a R A O PH T C HE an G ad L a OB E T A Re H E N D gn G M o UA U A ni R D IL T t o IA Re H E N gn I o ND U n E L I i to P E N Fr BÉ D an R EN ci AT a T IO LO N St S at A iU N n GE L E i ti L E Fr M S T an O IM ci N a D E S E T St H E at N iU E n W T i t i YO St H E R at W K T iU A IM ni S H E ti I S N G T O N PO ST Patria Di Felice Farina. Con France sco Pannoino. Italia 2014, 89’ ●●●●● Una piccola fabbrica del nord sta per chiudere, con la perdita di quaranta posti di lavoro. Un operaio siciliano per protesta si arrampica su una ciminiera, e viene raggiunto da un sindacalista e poi dal portiere disabile della fabbrica. È una protesta inutile, nessuno se ne accorge, a nessuno importa. Però, durante la notte i tre parlano, discutono, litigano. E sulla base di questa conversazione, inventata e frammentata, sul “perché” della chisura della fabbrica, si costruisce una carrellata documentaria sulla storia italiana dal 1970 a oggi. Attraverso ilmati, interviste, fotograie, si racconta di Sindona, Fanfani, Agnelli, Moro, Gardini, Berlinguer, Berlusconi, Di Pietro, Forlani, Craxi e tanti altri. Le storie di grande corruzione emerse con Mani pulite, la maia e i suoi intrecci con la politica e l’imprenditoria, il maxiprocesso di Palermo, gli attentati, l’uccisione di Falcone e Borsellino e le stragi ancora misteriose come quella di Ustica. Ne emerge un’Italia tragica e corrotta, dannata e senza speranza. Patria funziona benissimo per ricordare, a chi le ha forse un po’ dimenticate, le radici marce dell’Italia di oggi. Ma in un’ora e mezza è diicile raccontare questi avvenimenti a chi non è abbastanza vecchio per avere ricordi, anche se remoti, da risvegliare. Media 11111 - bIRDman 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 - 11111 11111 11111 GOne GIRL 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 the Iceman 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 the ImItatIOn Game 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 - 11111 11111 SeLma 11111 - 11111 11111 IL SettImO fIGLIO - - 11111 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 mORtDecaI - 11111 11111 - 11111 - 11111 11111 - 11111 11111 - - 11111 11111 11111 - 1ccc1 tImbuktu 11111 11111 - 11111 - 11111 11111 11111 11111 tuRneR 11111 - 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 WhIPLaSh 11111 - 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 - 11111 I consigli della redazione Timbuktu Abderrahmane Sissako (Francia/Mauritania, 97’) Whiplash Damien Chazelle (Stati Uniti, 105’) In uscita Un piccione seduto su un ramo rilette sull’esistenza Di Roy Andersson. Con Holger Andersson. Svezia/Norvegia/ Francia/Germania 2014, 100’ ●●●●● Due venditori ambulanti trascinano il loro campionario di facezie in giro per una cittadina svedese. “Vogliamo che la gente si diverta”, ripetono come un mantra. Ma hanno l’aria di persone pronte a partecipare a un funerale e seguendoli nelle loro impacciate avventure non sappiamo se ridere o piangere. I due ambulanti sono le nostre guide attraverso il meraviglioso e misterioso intreccio di Roy Andersson, capace come nessun altro di spingerci in uno stato di gioia lugubre. Non è possibile dare un senso a questo ilm più di quanto sia possibile darlo alla vita stessa. Passando da un negozio a un altro per piazzare la loro merce i due venditori incrociano gli altri strani abitanti di questo ilm. Che regista coraggioso, seducente e assolutamente inclassiicabile è Roy Andersson. Pensa che la vita sia una commedia, la sente come una tragedia, ma attraversa questi sentimenti conlittuali con una splendida impassibilità. I suoi iltri colorati bagnano il racconto con una luce ultraterrena, come guardare l’azione all’interno di un acquario. La sua cinepresa statica crea dei quadri all’interno dei quali i personaggi vanno alla deriva come dei placidi lamantini. Restano a una distanza issa l’uno dall’altro: abbastanza vicini per guardarsi e studiarsi ma non per toccarsi. Forse Andersson ci sta dicendo che questa è la distanza a cui si tengono gli esseri umani l’uno dall’altro. Si esce dal cinema Un piccione seduto su un ramo… come in uno stato di ebrezza. Il regista è riuscito nel suo intento: è arrivato con la valigia piena dei suoi giochini e ci ha fatto divertire. Xan Brooks, The Guardian Mortdecai Di David Koepp. Con Johnny Depp, Gwyneth Paltrow. Stati Uniti 2015, 106’ ●●●●● Il ilm di David Koepp ricorda alcune brutte commedie che Peter Seller cominciò a fare tra gli anni sessanta e gli anni settanta: i peggiori ilm della pantera rosa o quel iasco pieno di star del 1967 che fu Casino Royale. Ci si fa qualche risata, ma non abbastanza. Johnny Depp almeno all’inizio sembra fare il suo dovere nella parte dell’aristocratico acchiappaladri. Gwyneth Paltrow, si sa, adora sfoderare il suo accento britannico e interpretare la tipica inglese di alta classe. C’è un divertente cameo di Paul Whitehouse nel ruolo di un meccanico spagnolo e qualche gag comica che coinvolge Paul Bettany nella parte del tuttofare di Johnny Depp, incline all’infortunio come alcuni personaggi minori di Benny Hill. Il rovescio della medaglia è tragico: una sceneggiatura ipercomplicata intorno a un Goya rubato, troppi cambi di location (i personaggi sono sbattuti senza motivi validi da Londra a Los Angeles a Mosca), troppe gag su vomito e formaggio avariato e alcuni dialoghi incredibilmente noiosi che sarebbero a malapena accettabili in una sitcom britannica degli anni settanta. David Koepp è uno sceneggiatore di grido, ma non dimostra una mano fortunata nella commedia. I produttori pensano di dar vita a una serie, ma già il primo sembra un ilm vecchio. Geofrey Macnab, The Independent Il settimo iglio (3d) Di Sergej Bodrov. Con Jef Bridges. Stati Uniti/Regno Unito 2015, 102’ ●●●●● Ogni anno, in quel piccolo spazio tra la stagione autunnale dei premi e la follia degli Oscar, le major gettano nella mischia le peggiori scorie cinematograiche che gli sono rimaste: roba che va dal brut- Il segreto del suo volto Birdman Alejandro González Iñárritu (Stati Uniti, 119’) to, al ridicolo, all’inspiegabile. Anche sulla carta l’ultimo usa e getta di febbraio, Il settimo iglio, sembra una pessima idea, nonostante disponga del talento di Dante Ferretti e di una irma con un certo credito come quella di Sergej Bodrov. Eppure c’è qualcuno (come chi scrive) pronto a vedere qualsiasi cosa se nel cast ci sono Jef Bridges, Julianne Moore, un’orda di draghi digitali e l’adorabile Jon Snow di Trono di spade. Il piacere maggiore che si trae dalla visione del ilm è immaginare cosa si potevano dire Jef Bridges e Julianne Moore, tra un ciak e l’altro, per non cedere alla disperazione. Manohla Dargis, The New York Times Il segreto del suo volto Di Christian Petzold. Con Nina Hoss, Ronald Zehrfeld. Germania 2014, 98’ ●●●●● Creduta morta ad AuschwitzBirkenau, alla ine della seconda guerra mondiale Nelly cambia volto e identità. Anche il marito Johnny la crede morta e quando si rincontrano non la riconosce. Notando una somiglianza le propone di prendere il posto della sua defunta moglie per salvarne il patrimonio. Il segreto del suo volto è un ilm complesso come la sua trama, grazie anche a un ottimo lavoro di Christian Petzold: una variazione sul noir e sulla migliore tradizione dei ilm sentimentali. Un ilm sulla ricostruzione isica e psichica di una donna, ma anche un modello psicoanalitico emozionante, intelligente e angosciante. Un ilm molto ambizioso anche perché Petzold ha deciso di afondare le mani nella storia tedesca. Anke Westphal, Berliner Zeitung Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 81 Cultura Libri Italieni Dall’Australia I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana l’australiano Desmond O’Grady. Spie improvvisate 82 I servizi segreti australiani non erano granché Alla base di Dirty secrets, una raccolta di saggi curata da Me redith Burgmann, ex deputata socialista del Nuovo Galles del Sud, c’è l’idea di far com mentare alcune operazioni dei servizi segreti australiani (Asio), compiute tra il 1950 e il 1990, alle persone che furono oggetto di quelle indagini: giornalisti, scrittori, attivisti e militanti, molti dei quali par teciparono alle manifestazio ni contro la guerra in Viet nam. Questi casi, ricostruiti in base a documenti ora di pub blico dominio, testimoniano la paranoia che regnava a Canberra durante la guerra fredda. Dopo un primo mo mento di rabbia, i “sorvegliati speciali” si sono stupiti della Sydney 1966. Manifestazione paciista VIC SUMNeR (FAIRFAx MeDIA/GeTTy IMAGeS) Paolo Maurensig Amori miei e altri animali Giunti, 154 pagine, 14 euro ●●●●● Paolo Maurensig ha avuto di verse passioni intense ma pas seggere, come giocare a golf o costruire e suonare lauti. In vece quella per gli animali è una passione permanente, so prattutto per i cani e i gatti, ai quali dedica questa raccolta di saggi. Una passione nata cu riosamente quando aveva solo otto anni, grazie a uno schnau zer gigante grigio, e maturata parallelamente a quella per gli scacchi che si rivelerà così uti le per la sua narrativa. Il libro è ricco di rilessioni sulla natura di cani e gatti, ma il suo fasci no maggiore risiede nelle sto rie prese dalla realtà. Come quella del suo gatto Felix, un guerriero, che per un anno si è scontrato con un minaccioso siamese. Alla ine Felix ha vin to, rendendo orgoglioso Mau rensig che però poco dopo ha scoperto che il suo adorato gatto aveva una seconda vita e una seconda casa da un vicino. Ci sono storie divertenti e as surde, in cui gli animali metto no gli uomini in diicoltà e al tre più complesse in cui sono gli esseri umani a sfruttare e maltrattare gli animali. Il sag gio più lungo riguarda Joyce, il golden retriever dell’autore. Quando ho intervistato Mau rensig ero convinto che il no me del cane fosse un omaggio a James Joyce, ma invece non è così, anche perché Joyce è una femmina. Uno di quei casi in cui il libro rivela qualcosa dell’autore al di là della lette ratura. trivialità e dell’inutilità delle informazioni raccolte dagli 007 australiani. Il libro mo stra chiaramente come, per anni, i servizi segreti austra liani abbiano perso tempo a contrastare minacce inesi stenti. I dati non erano segreti, quasi sempre venivano raccol ti grazie ad archivi pubblici o articoli di giornale. Purtroppo è altrettanto evidente che l’Asio vedeva “la minaccia co munista” dietro ogni forma di attivismo, associando così umanesimo e sovversione in modo ossessivo. Books Il libro Gofredo Foi Dalla Persia all’Iran, via Parigi Goli Taraghi La signora melograno Calabuig, 270 pagine, 14 euro Una delle cose positive dell’editoria italiana recente è la scoperta delle letterature dette minori, e che spesso non lo sono afatto. Una casa edi trice nuova e di belle promes se è Calabuig, milanese. I pri mi volumi sono l’ambizioso afresco di Mario Levrero (Il romanzo luminoso), sorta di Ulisse montevideano, e dall’Iran, l’antica Persia, i rac conti di una scrittrice di una certa età che ci era già nota Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 per Tre donne, tradotta dall’iranista Anna Vanzan, e che si è dedicata al racconto invece che al romanzo rica vandone risultati assai belli. Queste sette storie sono piene di un sottile e continuo pathos “politico” e di un’ironia afet tuosa e partecipe per i destini di umani che ricostruisce, per lopiù borghesi travolti dalla ri voluzione che rovesciò lo scià e impose Khomeini. Taraghi emigrò allora a Parigi ma con tinua a far la spola con Tehe ran, rainando la sua cono scenza del genere umano e dei paradossi della storia nel confronto tra due società. In contri casuali e “casi della vi ta” e della storia, spesso biz zarri come in Gentile, ma ladro, o nel racconto dei gemel li. Il più complesso è narrato in Un altro posto e quello più comune nel racconto che dà il titolo alla raccolta e che mi ha ricordato La signora scende a Pompei di Domenico Rea e mi ha ugualmente commosso. Madame Lupo parla di un vici nato francese, meno estrover so e più disperato, dal punto di vista di un’immigrata. u I consigli della redazione Nihad Sirees Il silenzio e il tumulto (Il Sirente) Il romanzo Akhil Sharma Vita in famiglia Einaudi, 178 pagine, 19 euro ●●●●● Cosa vuol dire far parte di una famiglia povera di New Delhi emigrata in America? Vita in famiglia racconta una storia di perdita e di estraniamento. Perché non è un romanzo sul lasciare la propria patria per un mondo nuovo dove nulla è familiare: riguarda anche un altro tipo di migrazione, quella che porta una famiglia dalla vita quotidiana in un luogo oscuro e segreto dove il dolore li ha rinchiusi. Scritto dal punto di vista di Ajay, che arriva a New York dopo un’infanzia passata a New Delhi e impara a crescere come un qualunque ragazzo del Queens, mostra una chiara traiettoria, tipica di tante altre storie di emigrazione, dall’estraneo al familiare, dove le vecchie tradizioni fanno spazio a nuovi costumi. Questo modello narrativo piuttosto comune è spezzato, tuttavia, quando Birju, il fratello maggiore di Ajay destinato a grandi cose, sbatte la testa sul bordo di una piscina e subisce un danno permanente al cervello. A quel punto toccherà ad Ajay crescere e ottenere successi al suo posto. Il suo senso di colpa enorme e inespresso per essere il fratello sopravvissuto è il centro emotivo e letterario del libro di Sharma. È una storia non raccontata che raggiunge il suo apice sconvolgente nelle ultime pagine del romanzo. Via via che la famiglia si americanizza e Ajay avvera le TIM KNox (EYEVINE/CoNTRASTo) L’altra migrazione Akhil Sharma promesse del fratello – crescere al suo posto e studiare per ottenere un lavoro che gli consenta di girare il mondo e mandare alla famiglia tanti di quei soldi da non sapere come spenderli – assistiamo anche alla sua completa distruzione. La storia di Sharma è profondamente americana perché prende un ragazzo povero e lo rende ricco, esaltando le meraviglie del mondo materiale e rivestendo il suo eroe di uno splendore iabesco. Ma è americana anche nel mostrare chiaramente le crepe che intaccano quella stessa storia, con il padre di Ajay che sprofonda nell’alcolismo e nella teledipendenza e la madre che si chiude nel silenzio. Come in certi libri di Fitzgerald o di Cheever, o più di recente di James Salter e Louis Begley, Vita in famiglia illumina un tipo di sopravvivenza in America che può rivelarsi fatale. Kirsty Gunn, The Guardian Sorj Chalandon Chiederò perdono ai sogni (Keller) Yves Pagès Ricordarmi di L’Orma, 139 pagine, 11 euro ●●●●● Che piacere ricostruire pezzo dopo pezzo l’itinerario di questo cinquantenne pieno di nostalgia, che ordina e disordina i propri ricordi per riporli in una sorta di cassa comune. Ricordarmi di, libro fatto di frammenti, autoritratto malinconico, evoca obbligatoriamente Georges Perec, ma molto presto l’autore va a farsi un giro nella propria esistenza in “apnea memoriale”. Ne risulta un’opera fatta di piccoli nulla, bagliori di realtà e dettagli che vanno a comporre un puzzle di centinaia di pezzi. C’è l’aneddoto condiviso: “Di non dimenticarmi che la voglia di rubare il martelletto frangicristalli che troneggia alle estremità di ogni vagone della Società nazionale delle ferrovie francesi mi viene da lontano”. C’è il frammento familiare: “Di non dimenticare che non ho mai osato dire a mia madre quand’era viva che mio fratello e io l’avevamo già sorpresa a fumare alla inestra della cucina…”. C’è la rilessione sociale, scolastica, letteraria, politica. Spesso umoristica, insolente, rabbiosa, a volte triste. A conti fatti, questi “ricordarmi di” così personali formano un quadro puntinista di mezzo secolo di lutti, di scherzi infantili e di lezioni di vita. Christine Ferniot, Télérama Amélie Nothomb Pétronille Voland, 128 pagine, 14 euro ●●●●● Com’è il nuovo libro di Amélie Nothomb? Frizzante, come lo champagne che scorre a iumi in ogni pagina di Pétronille. Nothomb padroneggia perfettamente l’arte dell’incipit: Autori vari Racconti di cinema (Einaudi) “L’ubriachezza non s’improvvisa. Rientra nel campo dell’arte, che esige dedizione e cura. Bere a caso non porta da nessuna parte”. Le prime otto pagine sono una rilessione di grande respiro e bellezza sull’ebbrezza. Si può non essere d’accordo ma resta il fatto che se ne è sedotti. Un capitolo da antologia, vivace e virtuosistico. Ma già si prepara l’intreccio: “Mi serve un compagno o una compagna di bevute”. Perché, si sarà capito, Nothomb ha dei princìpi: bere, sì, ma mai da sola. L’incontro ha luogo in una libreria, con una delle sue numerose lettrici. Pétronille Fonta, donna con i modi di un’adolescente, l’aria di un ragazzaccio sempre pronto a fare a pugni, ma compagna di bevute ideale. A partire da questo incontro l’autrice racconta una storia rocambolesca che ci porta da un palazzo londinese all’ospedale Cochin passando per un piccolo padiglione di Bobigny e la bella stazione sciistica di Acariaz. Un’occasione di narrare degli squarci di vita degni delle grande commedie. In verità questo romanzo, oltre a essere bizzarro, è un’ode all’amicizia (e allo champagne). Viene fuori che la compagna di bevute è anche lei una scrittrice esigente e un po’ appartata, specialista di letteratura elisabettiana. Raramente uno scrittore di successo ha disegnato con tanta empatia e ammirazione il ritratto di uno scrittore meno conosciuto. Mohammed Aissaoui, Le Figaro Hakan Günday A con Zeta Marcos y Marcos, 447 pagine, 18 euro ●●●●● Tutti i mali della società turca e della modernità neoliberale Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 83 Cultura Libri ne che impregna la società turca, anche se cade a volte in banalità un po’ grandguignolesche. Marc Semo, Libération Louis Zamperini Sopravvissuto Newton Compton, 347 pagine, 9,90 euro ●●●●● Zamperini cresce in una famiglia operaia italoamericana a Torrance, in California. Tutto quel che fa, lo fa con passione. Prima è un delinquente incallito, poi un corridore disciplinato. Gareggia alle Olimpiadi del 1936. Entra in aviazione e nel 1943 precipita nel Paciico. Con altri due uomini dell’equipaggio del suo bombardiere va alla deriva per 47 giorni. Uno dei tre muore, mentre gli altri due sono messi in salvo, ma dai giapponesi. Zamperini è un atleta famoso e allora, durante la prigionia, lo picchiano quasi tutti i giorni, ma lo tengono in vita perché sperano che farà trasmissioni di propaganda in cambio di un trattamento meno duro. Lui riiuta, e alla ine della guerra pesa poco più di trenta chili. Tornato a casa, consumato dall’odio e tormentato dagli incubi, Zamperini si dà all’alcol e allontana la moglie, Cynthia, che per disperazione lo trascina nella crociata del predicatore Billy Graham. Si converte al cristianesimo, cambia vita e non torna più indietro. Perdona i giapponesi e nel 1950 visita una prigione di Sugamo, un quartiere di Tokyo per portare il vangelo ai criminali di guerra. Come prigioniero, Zamperini vide nella disumanità dei campi di prigionia la prova che la causa degli alleati era giusta. Ci si domanda cosa avrebbe detto di Abu Ghraib, di Guantanamo e delle prigioni segrete della Cia. Quella di Zamperini è una storia che sembra venire da un altro mondo, un mondo dove era più facile tracciare la linea di divisione tra il bene e il male. Michael Harris, Los Angeles Times Non iction Giuliano Milani Il pianeta dei libri Pierre Bayard Come parlare di un libro senza averlo mai letto Excelsior 1881, 208 pagine, 21 euro Da qualche anno Pierre Bayard porta avanti una sua forma di critica letteraria estrema e paradossale che considera i libri più importanti dei loro autori. L’esercizio che esprime meglio questo suo metodo (praticato per esempio in Chi ha ucciso Roger Ackroyd) consiste nel ripercorrere classici del giallo dimostrando prove alla mano che l’assassino non è 84 quello che viene incastrato alla ine del libro, ma un altro, e spiegando perché l’autore ha dovuto nascondere la verità. Dietro quest’analisi c’è la convinzione (condivisa da alcuni grandi autori come Salman Rushdie o Vladimir Nabokov) che la letteratura sia a tutti gli efetti un altro mondo, separato e indipendente da quello in cui viviamo, che si può esplorare senza preoccuparsi necessariamente del modo e delle intenzioni con cui è stato generato. In questo libro Bayard trae un’altra conseguen- Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 za, ancora più sorprendente, da questa sua idea: se i libri costituiscono un mondo coerente e separato, una sorta di “biblioteca collettiva”, per parlarne non c’è bisogno di leggerli tutti, serve piuttosto una visione d’insieme, una conoscenza del paesaggio in cui sono inseriti. Nasce così una guida onesta e curiosa che riesce a esaltare la lettura come pratica intellettuale, pur rivelando che spesso chi legge libri per mestiere in realtà si limita a scorrerli o a leggerne le recensioni. u Siria DELORES jOHNSON in generale sono denunciati con la prosa al vetriolo che ha reso famoso Hakan Günday. Questo francofono e iglio di diplomatici, afascinato dal Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, è considerato l’enfant terrible della nuova generazione di scrittori turchi. Derdâ è una ragazza curda cresciuta in un orfanotroio che è quasi un carcere, poi venduta a undici anni dalla madre a un ricco estremista islamico che traica merci di ogni genere per conto di una potente confraternita per metà religiosa e per metà maiosa. Prigioniera al dodicesimo piano di un ricco palazzo di Londra, riesce a scappare e diventa, nuda sotto il chador, l’icona del mondo sadomaso della città. In parallelo si svolge la storia di Derda (senza accento), bambino poverissimo che l’aveva incrociata prima che partisse per Londra. Questo romanzo duro e sconvolgente mostra la violenza, il peso dell’ingiustizia, la disperazio- Sumia Sukkar The boy from Aleppo who painted the war Eyewear Adam è un ragazzino siriano con la sindrome di Asperger. La sua mente traduce immagini, emozioni e rumori in colori, e ama dipingere la guerra perché gli dà ininite possibilità pittoriche. Sukkar è una giovane scrittrice di madre algerina e padre siriano. Vive tra Londra e Abu Dhabi. Saadallah Wannous Four plays from Syria Martin E. Segal theatre center Finalmente tradotte in inglese quattro pièce teatrali di Saadallah Wannous (1941–1997), rappresentativi, del contributo politico, sociale e narrativo dell’autore siriano al teatro. A cura di Larissa Bender Innenansichten aus Syrien Edition Faust Raccolta di testimonianze di artisti e intellettuali sulla realtà quotidiana della Siria in tempo di guerra. Larissa Bender, docente di arabo in Germania, spiega di voler “mostrare come i siriani vivono la distruzione del loro paese”. A cura di Malu Halasa, Zaher Omareen, Nawara Mahfoud Syria speaks Saqi Books Raccolta di racconti, poesie, canzoni, fumetti, poster politici e fotograie che sidano la cultura della violenza in Siria. Maria Sepa usalibri.blogspot.com Ragazzi Ricevuti Vite diicili Anghelos Trojani Route 117 Iride, 140 pagine, 12 euro Poesia come forma di speranza e come forma di vita, incisa nel cammino simbolico di una strada. Don Claudio Burgio e Domenico Zingaro Ragazzi cattivi Giunti, 192 pagine, 12 euro “Era una giornata di sole, calda come sempre, e stavo giocando con i miei amici a calcio in uno sterrato proprio alla ine del mio quartiere. Sembrava una giornata come tante, insomma. E invece quel pomeriggio ho imboccato la strada che ha cambiato per sempre la mia vita”. Jaysi ha 11 anni, i narcotraicanti colombiani lo usano come stafetta della droga, gli mettono una pistola in mano, distruggono la sua felicità. Per salvarlo la nonna lo manda in Italia dal padre. Ma in Europa le cose peggiorano. Jaysi diventa un ragazzo irrequieto, bugiardo, randagio. Uno che ruba, uno che se ne frega della legge. Poi l’incontro con la comunità Kayros di Don Claudio Burgio (fondata nel 2000) lo cambia. Ed è lì che i sogni fanno di nuovo capolino nella sua vita. Lo stesso è accaduto ad Antonino, David, Daniele, Anas, Chilenito, Massimiliano, anche loro ragazzi non ancora maggiorenni che hanno conosciuto la violenza e la prigione, ma soprattutto la paura e la solitudine. Sette storie di vita che ci spiegano come può sentirsi solo un ragazzo a cui qualcuno mette in mano una pistola o un panetto di hashish da andare a vendere per strada. Non sono ragazzi cattivi, ma solo ragazzi bisognosi d’amore. Don Claudio Burgio lo sa e per questo non li lascia mai soli. Igiaba Scego Kurt Vonnegut Quando siete felici, fateci caso Minimum fax, 107 pagine, 13 euro Nove discorsi tenuti dallo scrittore agli studenti dei college statunitensi: un inno all’anticonformismo, alla creatività e alla libertà dello spirito umano. Fumetti Simbiosi perfetta Gani Jakupi e Jorge González Ritorno al Kosovo 001 edizioni, 112 pagine, 19,90 euro Nel restituirci il suo doloroso e battagliero racconto di kosovaro esule in Spagna, il disegnatore, sceneggiatore, giornalista e musicista jazz Gani Jakupi si aida al pennello di uno dei disegnatori più interessanti degli ultimi anni, lo spagnolo Jorge González. La simbiosi è perfetta. Capolavoro sulla tragedia del Kosovo (che avrebbe meritato però una traduzione e un lettering migliori visto lo sforzo notevole dell’editore italiano in termini di eleganza nella veste editoriale e cura nella stampa) è anche la quintessenza di molti elementi di cui parliamo spesso. Lo vediamo in dal prologo dove González rappresenta l’indicibile mediante immagini di un’astrazione prossima al magma, tra fuoco e pietra lavica. Poi ci sarà posto più volte per il disegno d’infanzia, simbolo d’innocenza, di cui il momento più alto è l’apparizione del volto di una bambina (pagina 51) diafano come un fantasma, simbolo di tutte le piccole morti e di tutte le infanzie rubate. Poi è un lorilegio di linee di un colore sempre prossimo all’infanzia, alternato a immagini primitive dal color terra: le sequenze festive quanto estive della rinascita del Kosovo, dove “il 70 per cento della popolazione ha meno di trent’anni”, si alternano ad altre, come quella di tre ragazzi “sudici, cenciosi, chiaramente senza niente e nessuno”, autori di un probabile linciaggio. Infanzie rubate a confronto: una dialettica che struttura l’intero, appassionante, racconto. Grande lezione di graphic journalism, che non manca di puntare il dito contro i mezzi d’informazione e che parla di tutti con estrema umanità partecipata, rovesciando così la logica della pulizia etnica. Francesco Boille Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano Un’odissea partigiana Feltrinelli, 220 pagine, 18 euro Dopo la liberazione, centinaia di ex partigiani processati per reati gravi scontarono la loro pena detentiva nei manicomi, dove furono vittime di isolamento e vessazioni quotidiane che li portarono alla pazzia e alla morte. Laura Pariani Questo viaggio chiamavamo amore Einaudi, 196 pagine, 19 euro Intenso romanzo sul poeta Dino Campana durante i suoi anni di reclusione nel manicomio di Castel Pulci. La follia, il genio, il viaggio, mai veriicato, in Argentina. Marco Gaucho Filippi Riso avaro. Un anno di vignette L’Espresso, ebook, 2,99 euro Centoventi vignette comparse sul blog satirico dell’autore che, come scrive Erri De Luca nella prefazione, non punta a castigare i costumi, ma a farli rinsavire. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 85 Cultura Musica Dal Mali The Decemberists Milano, 1 marzo, magazzinigenerali.it Arriva il blues indie Mark Lanegan Band Bologna, 3 marzo, estragon.it; Ciampino (Rm), 4 marzo, orionliveclub.com; Milano, 5 marzo, alcatrazmilano.com Songhoy Blues è una band arrivata dal Sahara Katy Perry Assago (Mi), 21 febbraio, forumnet.it The Subways Milano, 28 febbraio, lasalumeriadellamusica.it Curtis Harding Bologna, 27 febbraio, covoclub.it Peace Segrate (Mi), 1 marzo, circolomagnolia.it Kitty Davis & Lewis Terni, 3 marzo, 0744 544111; Segrate (Mi), 4 marzo, circolomagnolia.it Jack Savoretti Roncade (Tv), 27 febbraio, newageclub.it The Gentle Storm Bologna, 26 febbraio, locomotivclub.it Cordoba Reunion Casalgrande (Re), 28 febbraio, crossroads-it.org The Subways 86 Garba Touré e la sua chitarra erano una presenza familiare nelle strade di Diré, una polverosa cittadina sulle rive del Niger. Ma quando gli estremisti islamici hanno preso il controllo del Mali settentrionale nella primavera del 2012 Touré ha capito che era il momento di andarsene: “Il primo gruppo di ribelli a prendere il controllo della città non era contrario alla musica. Poi ne è arrivato un altro, che ha ordinato agli abitanti di smettere di fumare sigarette, bere alcolici e suonare musica. Così mi sono sposta- ANDY MORGAN Dal vivo Songhoy Blues to nel sud”. Come migliaia di altri profughi, ha preso una borsa, la sua chitarra ed è andato a Bamako. “Ho cercato di ricreare il clima del nord con degli amici”. Così insieme al cantante Aliou Touré e al secondo chitarrista Oumar Touré (tra loro non c’è nessuna parentela: Touré è il cognome più difu- so del paese) ha dato vita ai Songhoy Blues, che sono diventati rapidamente uno dei gruppi più popolari di Bamako. Poi in città è arrivato il progetto Africa Express, che unisce musicisti europei e nordamericani, e la band ha cominciato a lavorare con Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs, con il quale ha registrato un pezzo per l’album collettivo Maison des jeunes. Ora esce il disco d’esordio, Music in exile, e per lanciarlo sono andati a Londra: “Non riusciamo neanche a spiegare quanto sia enorme la nostra gioia”. Andy Morgan, The Guardian Playlist Pier Andrea Canei Trance globale Giovanni Truppi Lettera a papa Francesco I “Scioglila!”. Il consiglio è questo, tutto il resto è predicozzo, perché “ci vuole un gesto mai fatto prima, di amore di morte e di resurrezione”, e insomma, il coautore è Antonio Moresco, ma si pensa a Edoardo Bennato, che tanti anni fa strillava Afacciati affacciati! e poi “tanto sono quasi duemila anni che stai a guardare!”. Ma quello non era rivolto a un ponteice preciso, e invece ora, col papa più pop di tutti i tempi, il pezzo diretto era nell’aria; e il cantautore napoletano sa snifare aria dei tempi ed esalare parole con una sua sfacciata scioltezza. 1 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Sizarr Scooter accident Vengono da un borghetto del Palatinato questi giovani cavalieri della malinconia mitteleuropea, ma limitano l’uso del tedesco a poche parole tipo Angst, che il cantante Fabian Altstötter si incarica di modulare con quel timbro da crociato dell’esistenza che accomuna tutta una teoria di voci del pop bianco anglosassone, da David Bowie ai Tears for Fears. E intanto la band crea soundscape mai banali (e per nulla krautrock) con pochi, eicaci settaggi elettronici, e il loro album Nurture ha una vena di ennui esplorativo insolito senza essere straniante. 2 Africa Express In C Mali Una composizione datata 1964 del padre della musica iterativa Terry Riley (un accordo in do ripetuto a oltranza, e un set di 55 frasi melodiche da incrociare e variare strada facendo, con strumentisti variabili all’ininito) africanizzata a Londra sotto la direzione di André de Ridder con Damon Albarn, Brian Eno, e un’ammaliante selezione di musicisti del Mali, i cui lauti e zucche ritmiche, kalimbe, djembé e kora e balafon, fanno spiccare il volo, su ali di corda, legno, lamelle di latta, pelle animale, per una planata di 40 minuti nel cuore della creazione. 3 Jazz/ impro Scelti da Antonia Tessitore Jack DeJohnette Made in Chicago (Ecm) Matana Roberts Coin Coin chapter three: river run thee (Constellation) John Tejada Signs under test (Kompakt) ●●●●● Con una carriera quasi ventennale alle spalle, John Tejada è ormai uno dei principali produttori della scena techno. Dal 2011 pubblica per l’etichetta tedesca Kompakt, per la quale sono usciti già l’ottimo Parabolas e il suo seguito The predicting machine. Ora è la volta di Signs under test, che continua a esplorare i sentieri tracciati dai due dischi precedenti. L’ascolto dell’album produce inizialmente un dolce dolore più che Carl Barât and The Jackals energia. La musica è piena di synth gorgoglianti, fendenti acidi e riverberi simili a quelli delle campane, e tutto è piuttosto opaco. Ma alla lunga si capisce che dietro c’è in realtà una composizione solida e curata nei minimi particolari. In Beacht, per esempio, un frammento di melodia s’insinua sotto una serie di manipolazioni tenute insieme in modo quasi caotico. In Vaalbara, uno dei vertici dell’album, una melodia meravigliosamente lebile si eleva da un grumo sonoro. Signs under test dimostra che la capacità di Tejada di costruire album solidi è ormai completa. Abby Garnett, Pitchfork Subplots Autumning (Cableattack!!) ●●●●● Dalle prime note della prima canzone, Wave collapse, si capisce che l’ascolto del secondo album dei Subplots sarà piacevole. Sono passati quasi sei anni dalla pubblicazione di Nightcycles, il primo album del duo irlandese composto da Phil Boughton e Daryl Chaney. Il lungo intervallo sta a indicare che i due musicisti amano pianiicare le cose con cura, senza farsi condizionare dalla fretta. Questo spirito pervade l’intero Autumning, la cui estetica mu- sicale ricorda un po’ band come The National e Radiohead (in modalità sperimentale). Pezzi come Colourbars, Future tense, End of print e Follower si dispiegano con grande armonia, tra melodie audacemente commerciali o uno stile artpop non convenzionale, ma sempre di altissima qualità. Tony Clayton-Lea, The Irish Times Ibeyi Ibeyi (Xl Recordings) ●●●●● Contemporaneo, antico, tropicale e cosmopolita. L’album di debutto delle Ibeyi mette a segno un’audace serie di collisioni fra culture. I ritmi uniscono schemi e strumenti afrocubani a una produzione digitale di ultima generazione, grazie al capo della Xl Richard Russell. Allo stesso tempo, cori yoruba DR Carl Barât and The Jackals Let it reign (Cooking Vinyl) ●●●●● Credo che sarete perdonati se all’inizio avrete visto con scetticismo Carl Barât and The Jackals. I paragoni con i Libertines erano inevitabili e forse ingiusti. Ma questa band non è solo un hobby per il suo fondatore. Il debutto Let it reign ne è la prova, con cui mostrano di essere accattivanti e coinvolgenti al punto giusto. L’album compie un balzo notevole rispetto a The Libertines del 2004 e sembra fare riferimento più al garage punk dei Dirty Pretty Things e alla rabbia dei primi Clash. È anche piuttosto diverso dal disco solista di Barât, che mostrava un lato più gentile e introspettivo ma senza cui non sarebbe arrivato quest’ultimo: furbo, con testi intelligenti e una maggiore sicurezza nella scrittura. Ed è così che si stacca anche dai suoi riferimenti e trova una sua originalità, rimanendo onesto, pazzo e seducente. Let it reign è un’introduzione convincente. James Reynolds, Artrocker ROgER SARgENT Album Ibeyi Daniel Carter and Federico Ughi Extra room (577 Records) trapiantati nel nuovo mondo con la diaspora africana s’incontrano con un soul jazz impregnato di Parigi e hip-hop, a volte nella stessa canzone (Behind the curtain o Mama says). E la cosa funziona. Perché le gemelle franco-cubane Naomi e Lisa-Kainde Díaz, iglie del percussionista Angá Díaz, mettono ordine tra queste inluenze, parlando della morte (del padre e della sorella) e del bisogno di amore, che sida il tempo e lo spazio. Kitty Empire, The Observer Svjatoslav Richter The complete album collection (Rca and Columbia) (Sony Classical) ●●●●● Le registrazioni in studio più vecchie di questo box sono famose e ammirate da decenni: il secondo concerto di Brahms diretto da Leinsdorf a Chicago, il primo di Beethoven diretto da Munch a Boston e alcune sonate di Beethoven. Ma la cosa notevole è la prima ristampa uiciale della leggendaria serie di recital alla Carnegie Hall del 1960, che era stata ritirata dal mercato su richiesta del pianista. Riascoltati oggi questi dischi giustiicano il mito, nonostante il suono mediocre delle registrazioni? La risposta, senza possibile dubbio, è sì. Sono impressionanti per molti motivi, a cominciare dalla varietà del repertorio: pochi pianisti dell’epoca (ma anche di oggi) aprirebbero un programma di Schumann e Debussy con una sonata di Haydn senza farla sigurare. E quello dedicato tutto a Prokofev è un vero momento storico. Richter era immenso, e questa edizione gli rende il giusto omaggio. David Hurwitz, ClassicsToday Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 87 Cultura Arte Kazimir Malevič, Quadrato nero DR Storie dell’arte Fino agli anni novanta c’erano i giapponesi che acquistavano gli impressionisti a un ritmo forsennato. Oggi gallerie e musei sono disposti a pagare cifre folli per opere sempre più grandi. Ma il mondo dell’arte è sempre stato così. Nel 1937 fece notizia Arte degenerata, una mostra organizzata a Monaco dai nazisti; qualche mese fa lo stesso tema è stato al centro di una mostra a New York. Nel 1991 mercanti e appassionati si accalcavano davanti alla galleria Sonnabend per vedere le performance sessuali di Jef Koons e Ilona Staller; e nel 2014, sempre a New York, una simile folla ha accolto Koons al Whitney Museum. Il mondo dell’arte ha sempre agito sull’istinto del gregge. Ma nel corso degli anni si è trasformato in un’enclave di privilegi e potere, con i galleristi e i mercanti che girano il mondo su jet privati e gli artisti che vengono inseguiti come star di Hollywood. Gli attori sono cambiati, ma i meccanismi che mettono in moto prezzi esorbitanti, donazioni e supergallerie internazionali, rimandano ancora a sacche di ricchezza che provengono dall’Asia, dalla Russia, dal Medio Oriente e da procacciatori di fondi che vivono per strada. Si dice che i capi di Christie e Sotheby decidano le quotazioni delle opere in una limousine. Poi si narra di un falso Rockwell ancora in circolazione o di quel pomeriggio in cui gli scienziati del Museo di storia naturale di Londra dovettero sostituire uno squalo di Hirst, appena acquistato per otto milioni di dollari, perché si stava decomponendo. Così si perde di vista la ragione che ci lega all’arte: la pura gioia di guardare opere prodotte secoli prima o poche ore fa. The New York Times Londra La rivoluzione del quadrato nero Adventures of the black square, Whitechapel Gallery, Londra, ino al 6 aprile Tanti auguri al Quadrato nero di Malevič. L’opera simbolo del modernismo compie cento anni e la Whitechapel celebra quel movimento con una mostra sull’impatto che ebbes. Malevič appare come un fulmine a ciel sereno all’ingresso della mostra. È vero, dipingere un quadrato nero era rivoluzionario, ma quel movimento aveva radici nella ricerca nel cubismo e nelle avanguardie, che sono completamente ignorate dalla mostra. Malevič ri- dusse la pittura ai suoi fondamentali: una forma pura in un unico colore, senza alcuna funzione rappresentativa. Il suo quadrato diventò l’emblema della rivoluzione artistica e politica che voleva spazzare via il vecchio e aprirsi al nuovo. La mostra procede cronologicamente ino ai giorni nostri. A un certo livello l’astrazione si traduce solo in quadrati, cerchi e forme geometriche. Roba da matematici. Per molti diventa un vicolo cieco artistico, e il quadrato di Malevič è la ine, non un nuovo inizio. Negli ultimi decenni, l’era dell’ironia, l’astrazione è apparsa come il segno postmoderno sui primi lavori astratti. Rosmarie Trockel riproduce il quadrato nero di Malevič in lana; Dan Flavin ricrea il Monumento alla Terza internazionale con tubi al neon verticali. Lascia perplessi, invece, l’omissione nell’ultimo capitolo della mostra. Ovvero, come l’astrazione si sia fatta strada nel mondo delle grandi imprese, con loghi che usano le forme geometriche per evocare le caratteristiche di un’azienda. Un argomento che andava afrontato. The Telegraph Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 89 Pop Io sono stupido e cattivo Slavoj Žižek L SLAVOJ ŽIŽEK è un ilosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. È appena uscito il suo libro L’islam e la modernità. Rilessioni blasfeme (Ponte alle grazie 2015). Il titolo originale di quest’articolo è “Je suis bête et méchant”. 90 a formula di identiicazione patetica “Io due sessi? L’interrogativo, insomma, è: perché i musono” o “Siamo tutti” funziona solo en- sulmani, che indubbiamente sono stati esposti a sfruttro certi limiti, oltre i quali diventa osce- tamento, dominio e altri aspetti distruttivi e umilianti na. Sì, possiamo proclamare “Io sono del colonialismo, prendono di mira nella loro risposta Charlie” o “Siamo tutti Charlie”, ma le quella che è (almeno per noi) la parte migliore del recose cominciano a complicarsi con taggio occidentale, il nostro egualitarismo e le nostre esempi come “Viviamo tutti a Sarajevo!” (nei primi libertà personali, compresa la possibilità di deridere anni novanta quando Sarajevo era sotto assedio), op- tutte le autorità? La risposta più ovvia sarebbe che pure “Siamo tutti a Gaza!” (quando Gaza era bombar- hanno scelto bene il loro bersaglio: ciò che rende l’ocdata dall’esercito israeliano): la realtà del fatto che non cidente democratico così intollerabile non è solo che siamo tutti a Sarajevo o a Gaza è troppo forte per essere pratica lo sfruttamento e il dominio violento, ma che, mascherata da un’identiicazione verbaaggiungendo al danno la befa, presenta le. Questa identiicazione diventa assur- La minaccia questa realtà brutale con la maschera da nel caso dei “musulmani” (Musel- terroristica è del suo contrario, della libertà, mannen, i morti viventi di Auschwitz- riuscita a ottenere dell’uguaglianza e della democrazia. Birkenau): è impossibile dire “Siamo l’impossibile: Torniamo allo spettacolo dell’11 gentutti musulmani!” semplicemente per- riconciliare la naio 2015, con i leader politici di tutto il ché ad Auschwitz-Birkenau la disuma- generazione dei mondo che si tengono per mano in segno nizzazione delle vittime si è spinta ino al rivoluzionari del di solidarietà con le vittime del massacro punto che identiicarsi con loro in quadi Parigi, da Cameron a Lavrov, da Ne1968 con il loro lunque modo signiicativo non è possibitanyahu ad Abbas: se mai c’è stata un’impeggior nemico, le. I “musulmani” erano per l’appunto magine di ipocrita falsità, è questa. esclusi dallo spazio simbolico dell’iden- la polizia Quando la processione di Parigi è passata tiicazione di gruppo, ed è per questo che sotto la sua inestra, un cittadino anonisarebbe stato assolutamente osceno proclamare “Sia- mo ha difuso con l’altoparlante l’Inno alla gioia di Beemo tutti Muselmannen!”: possiamo dirlo, ma chi è thoven, l’inno non uiciale dell’Unione europea, agescluso dalla categoria di soggetti così identiicati sono giungendo un tocco di kitsch politico al disgustoso proprio i “musulmani”, vale a dire quelli con cui voglia- spettacolo messo in scena proprio dai leader che più di mo identiicarci (all’estremo opposto, sarebbe anche tutti sono responsabili del caos in cui ci troviamo. Che ridicolo afermare la nostra solidarietà con le vittime dire dell’oscenità del ministro degli esteri russo Lavrov dell’11 settembre dichiarando “Siamo tutti newyorche- accanto a quei dignitari che protestavano per l’uccisiosi”: milioni di persone nel terzo mondo direbbero con ne di alcuni giornalisti? Se volesse partecipare a una enfasi “Ci piacerebbe moltissimo diventare new- protesta simile a Mosca (dove sono stati assassinati deyorchesi, dateci un visto!”). cine di giornalisti) verrebbe immediatamente arrestaLo stesso vale per la strage di Charlie Hebdo: pos- to! Che dire dell’oscenità di Netanyahu che si fa largo in siamo tutti identiicarci facilmente con Charlie, ma prima ila, quando in Israele è proibito perino citare troveremmo molto più diicile, addirittura imbaraz- pubblicamente la nakba (la catastrofe del 1948 per i pazante, gridare pateticamente “Siamo tutti di Baga!”, lestinesi)? Dov’è la tolleranza per il dolore e la soferenmanca semplicemente una base per l’identiicazione za dell’altro? E lo spettacolo era letteralmente una mes(per chi non lo sapesse: Baga è la cittadina nel nordest sa in scena: nelle immagini difuse dai mezzi d’infordella Nigeria di cui Boko haram ha ucciso tutti i due- mazione sembrava che la ila dei capi di stato e di govermila abitanti, un fatto che sarebbe piuttosto diicile no fosse alla testa di una grande folla che percorreva un “capire” come una forma di difesa dal colonialismo viale, in segno di solidarietà e unità con il popolo. Solo imperialista). Il nome Boko haram può essere appros- che l’evento era stato allestito per i fotograi: una foto di simativamente tradotto come “l’istruzione occidenta- tutta la scena dall’alto mostra chiaramente che dietro i le è proibita”, in particolare l’istruzione delle donne. politici c’erano solo un centinaio di persone e molti spaCome spiegare allora il fatto bizzarro di un grande mo- zi vuoti pattugliati dalla polizia. Di fatto, Charlie Hebdo vimento sociopolitico il cui primo punto programma- avrebbe dovuto pubblicare in copertina una grande catico è la regolamentazione gerarchica dei rapporti tra i ricatura per prendere in giro senza ritegno questo even- Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 francesca ghermandI to, con disegni di netanyahu e abbas, Lavrov e cameron e altre coppie che si baciano e si abbracciano calorosamente ailando i coltelli dietro la schiena. anche se sono fermamente ateo, credo che questa oscenità sia stata troppo anche per dio, che si è sentito costretto a intervenire con un’oscenità degna dello spirito di charlie hebdo: mentre françois hollande abbracciava Patrick Pelloux, medico e giornalista del settimanale, un uccello ha defecato sulla spalla sinistra del presidente francese con lo staf della rivista che ha dovuto cercare di nascondere le risate. Una risposta veramente divina dalla realtà a quel disgustoso rituale. ricorda il motivo cristiano della colomba che scende a consegnare un messaggio divino. e poi, in certi paesi, una colomba che ti fa la cacca in testa è un segno di buona fortuna. ma c’è un altro elemento dei recenti avvenimenti francesi che è sembrato passare quasi inosservato: non c’erano solo adesivi e manifesti con la scritta “Je suis charlie”, ma anche adesivi e manifesti con “Je suis lic”. L’unità di tutta la nazione celebrata in grandi manifestazioni pubbliche non era solo l’unità del popolo che abbracciava tutti i gruppi etnici, le classi e le religioni, ma anche (e forse soprattutto) l’uniicazione del paese con le forze dell’ordine e del controllo. La francia è uno dei pochi paesi occidentali dove i poliziotti sono spesso protagonisti di barzellette irriverenti in cui appaiono stupidi e corrotti (come era prassi comune nei paesi ex comunisti). Quel giorno, sulla scia dell’attentato a charlie hebdo, la polizia è stata applaudita e lodata, abbracciata come una madre protettrice, e non solo la polizia ma anche le forze speciali (crs, che nel 1968 erano state ribattezzate “crs ss”), i servizi segreti, l’intero apparato della sicurezza statale. non c’è posto per snowden o manning in questo nuovo universo. O, come ha scritto Jacques-alain miller: “Il rancore contro la polizia non è più quello di prima, tranne che per i giovani poveri di origine araba o africana. Una cosa indubbiamente mai vista nella storia francese”. Quella che di tanto in tanto si vede nel Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 91 Pop Storie vere Danielle e Alexander Meitiv, di Silver Springs, nel Maryland, hanno educato i loro igli Rai e Dvora a essere dei bambini svegli e indipendenti: li hanno lasciati giocare fuori casa, poi gli hanno permesso di fare dei giri dell’isolato, poi li hanno mandati a fare la spesa da soli. Ora che Rai ha compiuto dieci anni e Dvora sei gli hanno dato il permesso di andare ino a un parco che sta a più di un chilometro da casa: “Hanno imparato a essere responsabili”, ha spiegato la madre. Essere responsabili non gli è bastato: sono stati presi dalla polizia, che li ha riportati a casa e ha accusato i genitori di abbandono di minori. “Avete idea di quant’è pericoloso il mondo?”, ha detto ai genitori uno degli agenti che ha riportato Rai e Dvora a casa. Ora i coniugi Meitiv saranno processati. “Il vero pericolo è crescere delle persone che non sanno essere autonome”, ha dichiarato Danielle. “Pensate che un adulto indipendente spunti come un genio dalla lampada? Ci vuole tempo”. 92 mondo e in Francia è, in rari momenti privilegiati, l’entusiastica “osmosi di una popolazione con l’esercito nazionale che la protegge dalle aggressioni esterne. Ma in questo caso stiamo parlando dell’afetto di una popolazione per le forze della repressione interna”. In breve, la minaccia terroristica è riuscita a ottenere l’impossibile: riconciliare la generazione dei rivoluzionari del 1968 con il loro peggior nemico, la polizia. È una sorta di versione francese del Patriot act approvato per acclamazione popolare, con la gente che si ofre volontariamente all’oppressione. È evidente che i momenti estatici delle manifestazioni parigine hanno dato corpo a un trionfo dell’ideologia: hanno unito il popolo contro un nemico che con la sua fascinosa presenza cancella momentaneamente ogni antagonismo. All’opinione pubblica è stata oferta una scelta triste e deprimente: o sei (parte dello stesso organismo di) un lic o sei (solidale con) un terrorista. Ma come s’inserisce in questa alternativa l’umorismo irriverente di Charlie Hebdo? Per rispondere alla domanda è essenziale avere presente la relazione reciproca tra i dieci comandamenti e i diritti umani come moderna antitesi, che l’esperienza della nostra società democratica e permissiva dimostra ampiamente. I diritti umani in ultima analisi sono semplicemente il diritto di violare i dieci comandamenti. Il “diritto alla privacy” è il diritto all’adulterio, commesso in segreto, quando nessuno ci vede o ha il diritto di indagare nella nostra vita. Il “diritto alla ricerca della felicità e al possesso della proprietà privata” è il diritto di rubare, di sfruttare gli altri. La “libertà di stampa e di espressione” è il diritto di mentire, calunniare e umiliare. Il “diritto dei liberi cittadini di possedere armi” è il diritto di uccidere. E soprattutto il “diritto di credo religioso” è il diritto di venerare falsi dèi. Naturalmente i diritti umani non condonano automaticamente la violazione dei comandamenti, si limitano a tenere aperta una zona grigia marginale che dovrebbe rimanere fuori dalla portata del potere, laico o religioso: in questa zona oscura posso violare i comandamenti, e se il potere indaga e mi sorprende con i pantaloni calati e cerca d’impedire le mie violazioni posso gridare: “È un attacco ai miei diritti fondamentali!”. Il fatto è che per il potere è strutturalmente impossibile tracciare una linea di demarcazione netta e impedire l’abuso di un diritto umano senza limitarne allo stesso tempo l’uso corretto, cioè l’uso che non viola i comandamenti. È in questa zona grigia che rientra l’umorismo di Charlie Hebdo. Il settimanale nacque nel 1970 come successore di Hara-Kiri, una rivista messa al bando perché aveva scherzato sulla morte del generale de Gaulle. Quando un lettore accusò Hara Kiri di essere bête et méchant (stupido e cattivo) la frase fu scelta come slogan uiciale della rivista ed entrò nella vita quotidiana. È questa la zona grigia di Charlie Hebdo: non una satira benevola ma, letteralmente, stupida e cattiva. Sarebbe stato molto più appropriato per le migliaia di manifestanti dichiarare “Je suis bête et méchant” invece del piatto “Je suis Charlie”. Le manifestazioni parigine di solidarietà sono state efettivamente bêtes et méchants. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Anche se in certe situazioni può apparire rigenerante, l’atteggiamento bête et méchant di Charlie Hebdo è chiaramente limitato dal fatto che la risata di per sé non è liberatoria, ma profondamente ambigua. Il contrasto tra i solenni e aristocratici spartani e gli allegri e democratici ateniesi fa parte della nostra comune visione dell’antica Grecia. Questa visione popolare, tuttavia, non coglie il fatto che gli spartani, molto orgogliosi della loro severità, mettevano il riso al centro della loro ideologia e della loro prassi perché lo consideravano un potere che aiuta ad accrescere la gloria dello stato (gli ateniesi, al contrario, limitavano legalmente questa risata sguaiata ed eccessiva come una minaccia allo spirito di un rispettoso dialogo democratico in cui non dovrebbe essere permessa nessuna umiliazione dell’avversario). Il tipo di risata degli spartani – l’irrisione di un nemico o di uno schiavo umiliato per schernire i suoi timori e la sua soferenza da una posizione di potere – sopravvive ancora oggi: la troviamo, tra l’altro, nei discorsi di Stalin quando si befa del panico e della confusione dei “traditori”, nel torturatore che schernisce i deliri confusi delle sue vittime più morte che vive e nelle belle maniere del gentiluomo che si fa gioco dei goi tentativi dei suoi servi di imitarlo. Il problema dell’umorismo di Charlie Hebdo non era che esagerava con l’irriverenza, ma che era un eccesso innocuo che si adattava perfettamente al cinico funzionamento egemonico dell’ideologia nelle nostre società. Non rappresentava in alcun modo una minaccia per i potenti, rendeva semplicemente più tollerabile il loro esercizio del potere. S u questo sfondo si dovrebbe afrontare il tema delicato degli stili di vita. Mentre nelle società laiche e democratiche dell’occidente il potere statale protegge la libertà pubblica e interviene nello spazio privato (per esempio quando sospetta abusi sull’infanzia), queste intrusioni nello spazio domestico, la violazione della sfera privata, non sono ammesse dalla legge islamica, anche se la conformità del comportamento pubblico può essere molto più rigorosa: per la comunità, quello che importa è la prassi sociale del soggetto musulmano – comprese le dichiarazioni verbali – non i suoi pensieri interiori, quali che possano essere. Anche se il Corano dice “chi vuole creda, e chi non vuole respinga la fede”, questo diritto a pensare qualunque cosa si desideri non comprende il diritto di esprimere le proprie convinzioni religiose o morali pubblicamente con l’intenzione di convertire la gente a un falso impegno. Per questo i musulmani ritengono impossibile rimanere in silenzio davanti alla blasfemia: la loro reazione è così appassionata perché, per loro, la blasfemia non è né libertà di espressione né la sida di una nuova verità, ma qualcosa che cerca di distruggere una relazione viva. Dal punto di vista dell’occidente c’è ovviamente un problema con entrambi i termini di questo né/né: e se la libertà di espressione dovesse includere comportamenti che possono distruggere una relazione viva? E se anche una nuova verità potesse avere lo stesso efetto distruttivo? L’universo scientiico non tende frANCESCA gHErMANdI forse a questo? E se una nuova consapevolezza etica fa apparire ingiusta la vecchia relazione viva? Se per i musulmani non solo è impossibile rimanere in silenzio davanti alla blasfemia, ma anche rimanere inattivi – e questa urgenza di fare qualcosa può comportare gesti violenti e omicidi – allora la prima cosa da fare è collocare questo atteggiamento nel suo contesto contemporaneo. Non vale esattamente lo stesso per il movimento antiabortista cristiano? Anche per loro è impossibile rimanere in silenzio davanti a centinaia di migliaia di feti uccisi ogni anno, una strage che paragonano all’olocausto. È qui che comincia la vera tolleranza, la tolleranza di quello che sentiamo impossibile da sopportare (l’impossible-à-supporter, come lo chiama Lacan). E a questo livello il politicamente corretto della sinistra si avvicina al fondamentalismo religioso, con un elenco di cose davanti alle quali è impossibile rimanere in silenzio, come sessismo, razzismo e altre forme di intolleranza. Cosa succederebbe, poniamo, se un giornale scherzasse apertamente sull’olocausto? È facile deridere le norme con cui i musulmani regolano i dettagli della vita quotidiana (una caratteristica, sia detto per inciso, che condividono con il giudaismo), ma che dire dell’elenco politically correct dei tentativi di seduzione che possono essere considerati molestie o delle storielle che sono ritenute razziste o sessiste? Quella che andrebbe sottolineata qui è la contraddizione intrinseca alla posizione della sinistra: la posizione libertaria dell’ironia e dello sberlefo universale, la derisione di tutte le autorità, spirituali e politiche (la posizione incarnata da Charlie Hebdo), tende a scivolare nel suo contrario, un’accentuata sensibilità per il dolore e l’umiliazione dell’altro. È a causa di questa contraddizione che gran parte della sinistra ha reagito alla strage di Parigi seguendo uno schema prevedibile e deplorevole: anche se sospettavano giustamente che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nello spettacolo della solidarietà unanime con le vittime, la loro distanza critica ha preso una piega totalmente distorta nel momento in cui sono riusciti a condannare il massacro solo dopo lunghe e noiose precisazioni del tipo “anche noi siamo colpevoli”. Questo timore che, condannando apertamente la strage, s’incoraggi in qualche modo il pericolo dell’islamofobia è assolutamente sbagliato sul piano politico ed etico. Non c’è nulla di islamofobico nel condannare risolutamente l’attentato di Parigi, così come non c’è nulla di antisemitico nel condannare con fermezza la politica di Israele nei confronti dei palestinesi. Nel momento in cui si cerca un qualche equilibrio arriva il fallimento politico. Quanto all’idea che dovremmo contestualizzare e “capire” l’attentato di Parigi, anche questo è del tutto fuorviante. Se mai c’è stata una stupidità assoluta mascherata da profonda saggezza, è il detto: “Un nemico è qualcuno di cui non hai sentito la storia”. Il migliore esempio letterario di questa tesi è Frankenstein di Mary Shelley. Shelley fa una cosa che un conservatore non avrebbe mai fatto. Nella parte centrale del romanzo permette al mostro di parlare per se stesso, di raccontare la storia dal suo punto di vista. Questa scelta espri- me l’atteggiamento democratico nei confronti della libertà di espressione nella sua versione più radicale: bisognerebbe sentire il punto di vista di tutti. In Frankenstein il mostro non è una cosa, un oggetto orribile che nessuno osa afrontare: è pienamente soggettivizzato. Mary Shelley si muove nella sua testa e si chiede cosa signiichi essere etichettato, bollato, oppresso, scomunicato, perino isicamente distorto dalla società. Il criminale assoluto può così presentarsi come la vittima assoluta. L’assassino assoluto si rivela un essere profondamente ferito e disperato, che desidera ardentemente compagnia e amore. Ma questo metodo ha un limite evidente: siamo anche disposti ad afermare che Hitler è un nemico solo perché la sua storia non è stata ascoltata? Per me è vero il contrario, più conosco e capisco Hitler, più è mio nemico. Perché capire il male non signiica perdonarlo, signiica analizzare come funziona e perché: in questo modo il male non è afatto relativizzato o ammorbidito. Questo signiica anche che, afrontando il conlitto israelopalestinese, bisognerebbe attenersi a criteri freddi e spietati, sospendendo l’impulso a cercare di capire la situazione: bisognerebbe resistere incondizionatamente alla tentazione di capire l’antisemitismo arabo come una reazione “naturale” alla triste sorte dei palestinesi, o di capire le misure israeliane come una reazione “naturale” sullo sfondo della memoria dell’olocausto. Non dovrebbe esserci comprensione per il fatto che in molti se non quasi tutti i paesi arabi Hitler è ancora considerato un eroe e i sussidiari riprendono tutti i tradizionali miti antisemitici, dai famigerati e falsi protocolli dei savi di Sion agli ebrei accusati di usare il sangue dei bambini cristiani (o arabi) a scopi sacriicali. Sostenere che questo antisemitismo esprime con una dislocazione la resistenza al capitalismo non lo giustiica in nessun modo (lo stesso vale per l’antisemitismo nazista, che a sua volta traeva energia dalla resistenza anticapitalista): la dislocazione qui non è un’operazione seconInternazionale 1090 | 20 febbraio 2015 93 Pop daria, ma il gesto fondamentale di una mistiicazione ideologica. Quello che questa tesi implica davvero è l’idea che, a lungo termine, l’unico modo per combattere l’antisemitismo non è predicare la tolleranza democratica, ma dare voce in modo diretto alle motivazioni anticapitalistiche che la sostengono. Il punto centrale è quindi proprio non interpretare o giudicare singoli atti collocandoli in un contesto più ampio, ma estrapolarli dal loro tessuto storico: le azioni dell’esercito israeliano in Cisgiordania non devono essere giudicate sullo sfondo dell’olocausto, e il fatto che molti arabi esaltino Hitler o che in Europa le sinagoghe siano profanate non deve essere giudicato come una reazione sbagliata ma comprensibile a quello che gli israeliani stanno facendo in Cisgiordania. Quando qualunque protesta contro le attività dell’esercito israeliano in Cisgiordania viene condannata come un’espressione di antisemitismo e – almeno implicitamente – equiparata a una difesa dell’olocausto, quando l’ombra dell’olocausto è costantemente evocata per neutralizzare qualunque critica alle operazioni militari e politiche d’Israele, non basta insistere sulla diferenza tra l’antisemitismo e la critica di particolari misure dello stato d’Israele: bisognerebbe fare un passo avanti e sostenere che è lo stato di Israele, in questo caso, a profanare la memoria delle vittime dell’olocausto, manipolandole spietatamente e strumentalizzandole per legittimare le sue attuali politiche. Questo signiica che bisognerebbe respingere seccamente l’idea stessa di un rapporto logico o politico tra l’olocausto e le attuali tensioni israelopalestinesi. Si tratta di due fenomeni totalmente diversi: il primo appartiene alla storia europea di resistenza conservatrice alle dinamiche della modernizzazione, mentre il secondo è uno degli ultimi capitoli nella storia della colonizzazione. D’altra parte, i palestinesi hanno davanti a sé il diicile compito di accettare che il loro vero nemico non sono gli ebrei, ma gli stessi regimi arabi che manipolano la sorte del po- polo palestinese proprio per impedire la loro radicalizzazione politica fuori da Israele. Un’aggravante dell’odierna situazione in Europa è la crescita dell’antisemitismo: per esempio a Malmö, in Svezia, la minoranza musulmana aggressiva molesta gli ebrei al punto che hanno paura di camminare per strada nei loro abiti tradizionali. Questi fenomeni dovrebbero essere apertamente e univocamente condannati: la lotta contro l’antisemitismo e la lotta contro l’islamofobia dovrebbero essere considerate due aspetti della stessa lotta. Ben lontana dal rappresentare una posizione utopistica, questa necessità di una lotta comune si basa sulla constatazione che la soferenza estrema ha conseguenze di vastissima portata. Mi viene in mente un passaggio di Vivere ancora, le memorie di Ruth Klüger sulla esperienza di Auschwitz-Birkenau. Durante una visita in Israele con un amico, la scrittrice incontra un sopravvissuto all’olocausto che parla dei palestinesi della Cisgiordania in termini apertamente razzisti deinendoli ladri, pigri e terroristi che vanno cacciati via da quella terra. Il suo amico è sconvolto da tanta furia e le dice che non riesce a capire come una persona che ha vissuto Auschwitz-Birkenau e ne conosce tutte le soferenze possa parlare in quel modo. Ma Ruth gli risponde che l’orrore estremo di AuschwitzBirkenau non lo ha reso un luogo capace di puriicare le vittime e trasformarle in superstiti eticamente sensibili privi di ogni meschino interesse egoistico. Al contrario, parte dell’orrore di Auschwitz-Birkenau è che ha disumanizzato anche molte delle sue vittime, facendone esseri brutalmente insensibili che non sono più in grado di esercitare l’arte del giudizio etico equilibrato. La lezione da trarre è che dobbiamo abbandonare l’idea di trovare qualcosa di emancipatore nelle esperienze estreme, come se potessero insegnarci a fare chiarezza e aprire i nostri occhi alla verità ultima di una situazione. Questa, forse, è la lezione più triste del terrore. u gc Scuole Tullio De Mauro Due vie Il 9 febbraio nelle discussioni in Francia su ciò che la scuola fa o non fa per educare ai valori della repubblica e al riiuto del terrorismo sono intervenuti anche il primo ministro Manuel Valls e la ministra dell’istruzione Najat Vallaud-Belkacem: gli insegnanti saranno coinvolti in progetti per capire come far lezione sui valori civici e repubblicani. Ma queste lezioni, si obietta, non servono se poi fuori della scuola sussistono drames, chaos et ruptures. La scuola dunque non può fare nulla? 94 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Qualcuno prospetta un’altra via: un’istruzione che funzioni davvero, eicace per tutti. Nel suo blog di esperienze didattiche Monsieur Samovar spiega: bisogna trascinare tutti, anche gli allievi usciti dalla banlieue più sfavorita, a sgobbare per capire con la loro testa ogni più arduo argomento, magari Le Cid di Corneille. Solo così spezzerete la barriera che separa gli allievi svantaggiati dai Pierini del dottore. Questa è la scuola democratica che realizza i valori della repubblica. Molto tempo fa un vecchio professore (si chiamava Luigi Fiorito) raccontò una storia: ai tempi dell’impero zarista un ispettore generale entra in una classe e ascolta paziente una lezione di matematica. Alla ine dell’ora chiama da parte l’insegnante e gli dice: “Voi non insegnate ad amare lo zar”. E quello: “Ma io insegno matematica!”. E l’ispettore: “Sì, ma l’insegnate senza farla capire, senza appassionare gli alunni. Così voi non insegnate l’amore per lo zar”. u Scienza LUCAS JACkSoN (REUtERS/CoNtRASto) New York, luglio 2014 A gara di previsioni Il vantaggio più evidente dell’Ecmwf è la sua potenza di calcolo. Il supercomputer Cray XC30 può eseguire ino a due milioni di miliardi di calcoli al secondo, circa dieci volte di più dell’hardware del Gfs prima dell’aggiornamento. Può quindi suddividere l’atmosfera terrestre in sottili celle di 16 chilometri quadrati con 137 livelli verticali contro i 27 chilometri quadrati e i 64 livelli del vecchio Gfs. Le proiezioni dell’Ecmwf, inoltre, sono costruite a partire dal clima delle ultime 12 ore grazie a 40 milioni di dati raccolti da stazioni di terra, aerei, sonde e satelliti. Il Gfs, invece, parte dalla situazione di un singolo momento. L’Ecmwf, inine, è stato il primo a usare i satelliti per acquisire dati mancanti sugli oceani e a sviluppare le “previsioni di ensemble”, che generano una serie di previsioni possibili a partire da condizioni iniziali leggermente diverse. Il modello attuale ne genera 52 in parallelo, ciascuna con il suo grado di probabilità. I soldi non bastano The Economist, Regno Unito Gli europei parlano del tempo più spesso degli americani e sono anche più bravi a prevederlo. Ma ora gli Stati Uniti stanno cercando di colmare la distanza stata una vittoria troppo piccola perché si possa parlare di rimonta. Ma i meteorologi statunitensi hanno comunque esultato quando la tempesta che a gennaio si è abbattuta sulla costa orientale del paese ha lasciato la città di New York quasi illesa. Da più di vent’anni il Global forecast system (Gfs), il principale modello per le previsioni meteo degli Stati Uniti, è sensibilmente meno accurato del suo più importante concorrente, lo European centre for medium-range weather forecasts (Ecmwf ). Lo scarto tra i modelli, passato inosservato per anni, è emerso chiaramente nel 2012 con Sandy. Una settimana prima che l’uragano si abbattesse sulla terraferma, l’Ecmwf aveva previsto che avrebbe virato verso la costa, mentre secondo il Gfs sarebbe rimasto sul mare. Il congresso statunitense ha reagito al è 96 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 iasco del Gfs destinando alle previsioni meteo 34 milioni di dollari in più. Il 14 gennaio una nuova versione del Gfs è entrata in funzione e due settimane dopo ha dato un’ottima prova di sé. Il 25 gennaio l’Ecmwf aveva previsto che il 27 a New York sarebbero caduti 64 centimetri di neve portati da una tempesta. Il Gfs, che di centimetri ne aveva previsti 18, si è avvicinato molto di più alla realtà. Ma per gli americani è ancora presto per esultare. è vero che il Gfs è stato più preciso sulla traiettoria della tempesta, ma la sua proiezione relativa al fronte occidentale diferiva solo di duecento chilometri rispetto a quella dell’Ecmwf, pochissimo per una previsione meteorologica. La discrepanza è stata notata solo perché riguardava la città più popolosa del paese. Inoltre, potrebbe essere stata solo fortuna. Nel complesso, in tre settimane di funzionamento il nuovo Gfs è stato meno preciso dell’Ecmwf. La sua buona prestazione durante la tempesta di gennaio, però, consola chi temeva che in campo meteorologico gli Stati Uniti non avrebbero mai raggiunto l’Europa. Le previsioni sono molto complicate e in genere si perfezionano accumulando lentamente piccoli progressi. Anche se i meteorologi statunitensi possono usare il modello dell’Ecmwf, hanno ancora buoni motivi per non farlo. Le aziende private devono pagare per avervi accesso, ed è improbabile che gli europei sviluppino modelli regionali o locali speciici per gli Stati Uniti. Senza contare che il nuovo Gfs ha senza dubbio accorciato le distanze: pur avendo ancora 64 livelli verticali, ora ha una risoluzione di 13 chilometri ed entro novembre dovrebbe girare su un computer più veloce di quello dell’Ecmwf. Nel caso in cui il congresso repubblicano eletto a novembre decidesse di reintrodurre il Weather forecasting improvement act proposto l’anno scorso, poi, potrebbero arrivare altri aggiornamenti, anche se c’è da aspettarsi che i repubblicani poco convinti del riscaldamento globale chiedano di non destinare alla ricerca sul cambiamento climatico il grosso dei 120 milioni di dollari all’anno in più previsti da quella legge. Secondo Clif Mass, docente di meteorologia alla Washington university, a Seattle, i soldi non basteranno per raggiungere gli europei. Gli Stati Uniti dovrebbero accorpare gli organismi dedicati alla ricerca e alle previsioni, e accogliere più contributi di esperti non governativi. Ma forse è più facile fare delle buone previsioni del tempo che promuovere un cambiamento culturale nell’imponente burocrazia pubblica. u sdf SALUTE si stima che negli stati uniti ogni anno muoiano 480mila persone per malattie legate al tabagismo come il cancro al polmone, l’infarto e l’ictus. Ma le sigarette in realtà provocherebbero tra i 60 e i 120mila decessi in più per patologie che di solito non compaiono nella lista nera delle 21 malattie associate al fumo. l’American cancer society ha esaminato dieci anni di dati sullo stato di salute di quasi un milione di statunitensi con più di 55 anni tra fumatori, non fumatori ed ex fumatori. ne è emerso che i tabagisti hanno tassi di mortalità maggiori per diverse patologie formalmente non legate al fumo, come insuficienza renale, infezioni, cirrosi epatica, ischemia intestinale, malattie respiratorie, cancro al seno e alla prostata. Il peso del tabacco sulla società è stato sottovalutato, scrivono i ricercatori sul New England of Journal of Medicine. si stima che ogni anno nel mondo il fumo uccida quasi sei milioni di persone. Clima Raccolti sempre più scarsi Pnas, Stati Uniti 880 milioni Paleontologia vivono nei paesi a medio e basso reddito Fonte: Oms IN BREVE Salute Al contrario di quanto indicato da ricerche precedenti, il consumo di alcol potrebbe non proteggere dalle malattie cardiovascolari. secondo il British Medical journal, gli studi sull’alcol sono stati poco obiettivi, anche perché hanno messo a confronto i “consumatori” di alcolici e i “non consumatori”, senza considerare che questi ultimi potevano essere stati forti bevitori in passato e quindi essere meno in salute. APrIl I. neAnDer, un. oF CHICAgo 1,1 miliardi Insieme a nuove politiche agricole e ambientali, il cambiamento climatico ha probabilmente contribuito alla stagnazione della produttività agricola in europa, scrivono i Proceedings of the national Academy of sciences, indicando l’Italia tra i paesi più penalizzati. lo studio parte dalla constatazione che i raccolti nel continente europeo hanno mostrato nel complesso una situazione di stallo, con regioni nelle quali la produttività è aumentata e altre nelle quali è diminuita. In particolare, sono state analizzate le rese di frumento, mais, orzo e barbabietola da zucchero tra il 1989 e il 2009. nel modello sono stati inseriti i cambiamenti del regime delle piogge e delle temperature. si è scoperto che la variazione del clima a lungo termine può giustiicare un calo delle rese di frumento in media del 2,5 per cento e di quelle dell’orzo del 3,8 per cento, e un piccolo aumento della resa del mais e della barbabietola. l’efetto medio del cambiamento climatico in europa è quindi stato abbastanza limitato. Tuttavia, l’area mediterranea è stata inluenzata in modo più netto e negativo. “l’impatto è stato maggiore in alcune regioni: la combinazione della tendenza al riscaldamento e all’inaridimento in Italia è stata particolarmente dannosa”, scrivono i ricercatori. u Fumatori nel mondo AnjulI BArBer (MesserlI r. I.) Tutti i danni delle sigarette La varietà dei primi mammiferi sono stati scoperti in Cina due fossili di mammiferi risalenti a un periodo compreso tra i 170 e i 145 milioni di anni fa, nel giurassico. le due specie, tra le più antiche dei mammiferi, mostrano forti segni di specializzazione e adattamento all’ambiente. Il Docofossor brachydactylus era simile alle attuali talpe, mentre l’Agilodocodon scansorius (nel disegno) viveva sugli alberi come i ghiri. sembra quindi che, malgrado la competizione dei dinosauri, i primi mammiferi siano riusciti a occupare diverse nicchie ecologiche, scrive Science. u ETOLOGIA Sensibilità canine I cani riescono a distinguere un viso sorridente da uno arrabbiato, anche in persone sconosciute. Questa capacità potrebbe essere sorta durante il processo di addomesticamento, scrive Current Biology. è possibile che gli animali usino la loro esperienza, cioè la memoria dei visi, per capire le manifestazioni emotive. Finora si pensava che solo le persone potessero riconoscere un’emozione in un’altra specie. RICERCA L’élite accademica l’analisi delle carriere accademiche di quasi 19mila ricercatori negli stati uniti ha fatto emergere una struttura fortemente gerarchica che rivela una profonda disuguaglianza sociale. Il prestigio dell’università in cui si è studiato è un indicatore più afidabile delle classiiche di merito per prevedere le possibilità di assunzione. solo il 10 per cento dei docenti o ricercatori universitari lavora per un’istituzione più “prestigiosa” di quella dove ha conseguito il dottorato. Dall’analisi compiuta dall’équipe dell’informatico Aaron Clauset emerge inoltre che le donne ottengono posizioni leggermente peggiori dei colleghi maschi, scrive Science Advances. Per quanto riguarda le scienze informatiche, ai primi posti della classiica delle università statunitensi più prestigiose secondo Clauset ci sono, nell’ordine, stanford, Berkeley, l’Mit, il Caltech, Harvard e la Cornell. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 97 Il diario della Terra Ethical living -56,1 °C Kyusyur, Siberia Stati Uniti 4,3 M Stati Uniti Egitto Messico 4,9 M Higos Australia 5,2 M Argentina 6,7 M Fundi 46,7°C Mandora, Australia dARIo GIANA (REUTERS/CoNTRASTo) Argentina Tempeste di sabbia Una tempesta di sabbia ha costret to le autorità a chiudere il ca nale di Suez, in Egitto. Svizzera Regno Unito Una coppia di Aquile 3,9 M aquile di mare dalla testa bianca, simbolo degli Stati Uniti, ha nidiicato a New York per la prima volta da più di un secolo. La specie era stata dichiarata a rischio di estinzione nel Mozambico paese nel 1967, ma da allora la situazione è migliorata. Cordoba, Argentina Alluvioni Almeno sette persone sono morte nelle allu vioni che hanno colpito la pro vincia di Cordoba, nel centro dell’Argentina. Circa mille persone sono state costrette a lasciare le loro case. 98 India 4,5 M Oceani Si stima che ogni anno siano riversati tra i cin que e i 13 milioni di tonnellate di plastica negli oceani. Sedici dei venti paesi più inquinanti sono a medio reddito, come Cina, Indonesia e Filippine, con un’economia in espansio ne, ma senza infrastrutture per il trattamento dei riiuti. Secondo Science, se non sarà preso alcun provvedimento, entro il 2025 la quantità di residui di plastica riversati ogni anno in mare potrebbe raddoppiare. dEP. oF CoNSERvATIoN/REUTERS/CoNTRASTo Neve Il nordest degli Stati Uniti è stato colpito da una grande tempesta di neve, con temperature inferiori di 17 gra di alle medie stagionali. Nuova Zelanda climatiche attuali e passate, ricostruite attraverso la lettura degli anelli degli alberi, con le proiezioni future di 17 modelli climatici, hanno calcolato l’arrivo di una siccità tra il India 2050 e il 2099 che potrebbe durare venti, trenta o anche cinquant’anni. Siccità I ricercatori del Goddard institute for space studies della Nasa prevedono l’arrivo di un lungo periodo di siccità negli Stati Uniti sudoccidentali e nelle Grandi pianure. Sarebbe la peggiore siccità degli ultimi mille anni, scrivono su Science Advances. Confrontando le condizioni Terremoti Un sisma di ma gnitudo 6,9 sulla scala Richter ha colpito il nordest del Giap pone, causando uno tsunami di venti centimetri. Scosse più lievi sono state registrate nel nord dell’Australia, nel nord ovest dell’Argentina, nel nord ovest del Messico e alle isole statunitensi Hawaii. Cicloni Cinque persone so no morte nel passaggio del ci clone Fundi sul Madagascar. u Il tifone Higos si è formato a est di Guam, nel Paciico. Giappone 6,9 M Balene Almeno 103 balene pilota sono morte dopo essersi arenate su una spiaggia a Cape Farewell, in Nuova Zelanda. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 Pelle e pellicce Considerato che mangiamo grandi quantità di carne e usiamo scarpe, borse e porta fogli di pelle, non è un’ipocri sia riiutare le pellicce? Secon do il Guardian, non ci sono dubbi che sia l’industria delle pellicce sia quella del cuoio possono essere molto crudeli e inliggere grandi soferenze agli animali. L’organizzazione Peta ha raccolto video racca priccianti di allevamenti di animali usati per la produzio ne di cuoio e pellicce. Anche se si trovano in paesi occiden tali, che hanno norme per il ri spetto del benessere degli ani mali, alcuni stabilimenti ten gono gli animali rinchiusi in gabbie piccolissime, senz’ac qua né cibo. Condizioni inna turali che inducono gli animali al cannibalismo e all’autole sionismo. Inoltre, le industrie di trasformazione sono spesso inquinanti. Un esempio è il fiume Buriganga, in Bangla desh, inquinato dalle concerie ed ecologicamente morto. Tuttavia, “l’industria delle pellicce crea più gas serra e in quinamento dell’acqua e dell’aria di ogni altro prodotto tessile”, precisa il quotidiano britannico. Le pellicce sinteti che non sono una vera alterna tiva. Certo, non vengono dagli animali, ma non sono ecologi che: perché derivano dal pe trolio e perché non sono bio degradabili. Poiché il cuoio è spesso un sottoprodotto della produzione di carne, pone un po’ meno problemi. Alcuni produttori stanno cercando di migliorare il settore, riciclando il vecchio cuoio, usando meto di di produzione innovativi e sostanze vegetali per la con ciatura. Il pianeta visto dallo spazio 24.01.2015 La nascita di un iceberg in Antartide Nord 2 km EARthOBSERvAtORy/NASA Baia Breid Iceberg Piattaforma King Baudouin u Nell’Antartide occidentale i grandi iceberg si staccano regolarmente dalle piattaforme di ghiaccio galleggianti. Invece la costa dell’Antartide orientale, più fredda e asciutta, è meno attiva. Il distacco di un pezzo di ghiaccio di settanta chilometri quadrati dalla piattaforma King Baudouin a gennaio ha quindi suscitato un certo interesse, perché l’ultima formazione di un grande iceberg in questa regione risale agli anni sessanta. Prima che il blocco di ghiaccio si staccasse del tutto, i satelliti hanno osservato per diverse settimane la zona, rilevando una spaccatura al limitare del ghiacciaio. Il satellite Landsat 8 ha scattato questa foto il 24 gennaio. Poi le nuvole hanno impedito la visuale del Landsat, ma il 28 gennaio un radar del satellite Sentinel-1, dell’Agenzia spaziale europea (Esa), ha rilevato l’iceberg mentre si allontanava dalla piattaforma. Ora si trova nella baia Breid, al largo della terra della regina Maud. La formazione di nuovi iceberg dalle piattaforme di ghiaccio galleggiante, attaccate alle calotte che coprono la terraferma, è un processo comune. Quando sulle calotte si accumula la neve, i ghiacciai scivolano verso il mare ed è inevitabile L’Operational land imager a bordo del Landsat 8 ha scattato questa foto di un iceberg che sta per staccarsi dalla piattaforma King Baudouin il 24 gennaio. u che alcuni pezzi si stacchino. Poiché le piattaforme sono già galleggianti, l’iceberg generato non incide sul livello dell’acqua del mare. La nascita di questo iceberg non sembra indicare un indebolimento della piattaforma King Baudouin. In un’intervista pubblicata dall’International polar foundation, Reinhard Drews, glaciologo dell’Università libera di Bruxelles, ha spiegato che le misurazioni della velocità di movimento del ghiaccio dagli anni sessanta a oggi indicano che la piattaforma non è cambiata molto negli ultimi decenni.–Adam Voiland (Nasa) Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 99 HArry CHOI (TONGrO IMAGeS/COrbIS/CONTrASTO) Tecnologia Il buco nero dei bit Ian Sample, The Guardian, Gran Bretagna I ile in cui archiviamo le foto e i documenti nella speranza di conservarli a lungo potrebbero rivelarsi inutili. Perché la tecnologia su cui si basano cambia molto in fretta na grande quantità di contenu ti digitali (blog, tweet, imma gini e video, ma anche docu menti come email ufficiali e sentenze dei tribunali) potrebbe sparire a causa della scomparsa dei programmi ne cessari per visualizzarli. Lo ha spiegato Vint Cerf, vicepresidente di Google, in oc casione dell’incontro annuale dell’Ameri can association for the advancement of science a San Jose, in California. Secondo Cerf potremmo avere una “generazione dimenticata o addirittura un secolo dimenticato” a causa del bit rot (de terioramento del software), il processo che rende inutilizzabili i ile dei vecchi compu ter. Per questo dovremmo trovare un siste ma per conservare i vecchi software e hardware in modo da poter recuperare i formati che non si usano più. “Se pensia U mo alla quantità d’informazioni sulla no stra vita quotidiana archiviate in formato digitale, è evidente che rischiamo di per dere una parte enorme della nostra storia”, ha messo in guardia Cerf. Il joystick in soitta Tutto questo evidenzia un aspetto para dossale della tecnologia. Oggi archiviamo in formato digitale la musica, le foto, le let tere e altri documenti nella speranza che sopravvivano più a lungo. Ma mentre i ri cercatori migliorano i sistemi di archivia zione, i programmi e l’hardware per visua lizzare questi ile diventano presto obsole ti. “Senza accorgercene stiamo buttando tutti i nostri dati in quello che potrebbe di ventare un buco nero dell’informazione. Digitalizziamo tutto perché pensiamo che questo basti a preservare i nostri ricordi, ma non capiamo che se non facciamo qual che passo in più queste versioni digitali potrebbero essere anche più fragili dei contenuti che abbiamo digitalizzato”, ha spiegato Cerf al Guardian. “Se avete foto graie a cui tenete particolarmente, vi con viene stamparle”. Le civiltà del passato non avevano que sti problemi. Gli storici che scrivevano sul le tavolette d’argilla o sui papiri avevano bisogno solo degli occhi per leggere. Per esaminare la cultura di oggi, invece, gli studiosi del futuro dovranno gestire pdf e centinaia di altri tipi di ile che possono es sere interpretati solo con certi tipi di soft ware e hardware. Il problema esiste già. Negli anni ottanta era normale salvare i documenti sui floppy disk, caricare il videogioco Jet Set Willy da una cassetta sul lo ZX Spectrum, uccidere alieni con un joystick Quickire II e conservare le cartuc ce dei videogiochi Atari in soitta. Oggi, anche se le cassette, i dischi e le cartucce sono in buone condizioni, gli strumenti per usarli si trovano solo nei musei. L’ascesa dei videogiochi ha un ruolo importante nella storia della cultura digi tale, ma secondo Cerf a inire nel bit rot saranno anche importanti documenti poli tici e storici. Nel 2005 la storica americana Doris Kearns Goodwin pubblicò un’opera in cui racconta come il presidente Lincoln avesse voluto nel suo governo alcuni di quelli che lo avevano sidato per la presi denza. Kearns aveva fatto il giro delle bi blioteche statunitensi per trovare le lettere delle persone coinvolte, ricostruendo così i loro scambi. “Nel mondo di oggi quelle lettere sarebbero email, e la possibilità di ritrovarle tra cent’anni sarebbe minima”, spiega Cerf. Il vicepresidente di Google ammette che gli storici faranno il possibile per conservare il materiale importante, ma spesso l’importanza di un documento può essere colta solo dopo secoli. Alla Carnegie Mellon university di Pittsburgh, in Pennsylvania, hanno trovato una soluzione (parziale) al problema del bit rot. Qui Mahadev Satyanarayanan scat ta istantanee dei dischi rigidi mentre ese guono diversi software e poi le carica su un computer che imita le apparecchiature su cui funzionano quei software. Il risultato è un computer che può leggere ile altrimen ti irrecuperabili. Ma inventare nuove tec nologie è appena metà dell’opera. La parte più diicile riguarda i problemi legali: quando le aziende tecnologiche fal liscono o smettono di aggiornare i loro pro dotti possono venderne i diritti, rendendo quasi impossibile ottenere le autorizzazio ni necessarie. “Per fare le cose come si de ve, i diritti di conservazione devono essere inclusi nel nostro modo di intendere il copyright e i brevetti. Stiamo parlando di conservare per centinaia o addirittura mi gliaia di anni”, spiega Cerf. u as Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 101 Economia e lavoro responsabilità non sono chiare”, spiega Roane. Con la nuova legge le amministrazioni locali dovranno suddividere i debiti in categorie distinte. Nel primo gruppo rientreranno i progetti pubblici importanti ma non autosuicienti a livello economico, come le scuole, i ponti e i sistemi fognari. Queste spese saranno registrate nei bilanci dei governi locali e saranno inanziate attraverso il nuovo mercato obbligazionario, spiega Louis Kuijs, economista della Royal Bank of Scotland a Hong Kong. I prestiti ricevuti per costruire strutture commerciali (alberghi, uici o palazzi residenziali di lusso), invece, saranno scorporati e classiicati come debiti commerciali, dice Kuijs. Il governo sta anche cercando di inserire alcuni investimenti privati in una terza categoria di opere pubbliche in grado di produrre utili, come i sistemi idrici urbani. JASoN Lee/FILeS (ReuteRS/CoNtRASto) Pechino, Cina Pechino prova a limitare i debiti Dexter Roberts, Bloomberg Businessweek, Stati Uniti Il governo cinese ha deciso di ridurre la dipendenza delle amministrazioni locali dai canali di inanziamento informali creando un mercato uiciale delle obbligazioni hiudere la porta sul retro, aprire quella principale”. È lo slogan usato per la riforma delle inanze statali cinesi più ambiziosa degli ultimi vent’anni. L’obiettivo della legge, che entrerà in vigore alla ine del 2015, è eliminare la dipendenza delle amministrazioni locali (migliaia tra città, province e comuni pesantemente indebitati) dai inanziamenti informali oferti sia dalle banche sia dagli istituti non regolamentati che formano la cosiddetta inanza ombra. In futuro i fondi necessari per sostenere la rapida urbanizzazione del paese (per costruire infrastrutture e inanziare i programmi pensionistici) arriveranno da un mercato obbligazionario locale e regolamentato dalla legge. “Lo sviluppo di un mercato obbligazionario locale è una pietra miliare”, commenta Debra Roane, respon- “C 102 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 sabile crediti di Moody’s Investors Service. “Quando le amministrazioni locali emetteranno titoli a proprio nome, sarà chiaro che se ne assumono anche la responsabilità, e di conseguenza prenderanno decisioni più prudenti”. L’ultima grande riforma iscale attuata in Cina risale alla metà degli anni novanta, quando l’allora vicepremier Zhu Rongji restituì al governo centrale il controllo delle inanze pubbliche. Da allora le amministrazioni locali si trovano di fronte a un dilemma: ricevono la metà del gettito fiscale complessivo del paese, ma devono coprire l’80 per cento di tutte le spese statali, tra cui quelle per le scuole, per le strade e per l’assistenza sanitaria. Finora, inoltre, i governi locali non potevano contrarre debiti direttamente dalle banche e non erano autorizzati a emettere obbligazioni. La conseguenza è stata lo sviluppo di un vasto settore informale formato da circa diecimila società inanziarie che procurano alle amministrazioni locali i fondi necessari. Grazie a queste aziende sono state intraprese iniziative apparentemente folli, come l’ediicazione di interi quartieri che oggi sono quasi disabitati. “Il risultato è una situazione decisamente rischiosa e poco trasparente, in cui le Progetto pilota Nel 2009 il ministero delle inanze ha lanciato un progetto pilota per valutare l’eicacia di un mercato obbligazionario locale. Il suo sviluppo è stato controllato rigorosamente, e le rendite non sono state determinate dal mercato. I titoli emessi, per un valore totale di 1.200 miliardi di yuan, sono stati comprati quasi esclusivamente dalle banche di stato, che li conserveranno ino alla scadenza. “Dal momento che si trattava di quantità ridotte, gli istituti di credito sono stati disposti a comprare”, dice Chen Long, del centro di ricerca GavekalDragonomics. “Ma la situazione non è sostenibile. In futuro, quando le amministrazioni vorranno vendere molto di più, sarà più diicile trovare acquirenti”. Secondo Chen, infatti, il mercato dovrebbe diventare dieci volte più grande per soddisfare i loro bisogni. La riforma delle finanze locali arriva mentre città e province sono sempre più a corto di liquidità. A causa della crisi del settore immobiliare, nel quarto trimestre del 2014 la vendita di terreni, che è un’importante fonte di inanziamento locale, è diminuita del 21,5 per cento. Se le autorità prenderanno davvero provvedimenti contro i canali inanziari non regolamentati, le città e i comuni afronteranno una stretta iscale che ostacolerà ulteriormente l’economia. “Nei prossimi mesi si tornerà alle vecchie abitudini”, dice Andrew Polk, economista del China center for economics and business. “Dicono di voler chiudere la porta sul retro, ma è probabile che poi siano costretti a riaprirla”. u fp KrISTIAN HeLGeSeN (BLooMBerG/GeTTy) Giappone ZIMBABWE Nostalgia monetaria Ripresa debole Tra il 2008 e il 2009, con l’inlazione alle stelle, lo Zimbabwe ha deciso di abbandonare la propria moneta adottando il dollaro statunitense. L’operazione, spiega l’Economist, ha portato diversi vantaggi: più disciplina di bilancio, meno inlazione, più stabilità economica. Ma ora che l’economia è di nuovo in diicoltà, si sente la mancanza di una valuta locale. L’economia del paese è tenuta i piedi dalle rimesse degli emigrati, che ammontano in media a 500 dollari all’anno, mentre il deicit pubblico sale e gli aiuti stranieri sono in forte calo. così nel paese si discute se reintrodurre il dollaro zimbabwiano. “A gennaio, intanto, il governo ha lanciato le bond coin, monete che possono essere usate solo in Zimbabwe”. Più disciplina di bilancio Il governatore della banca centrale norvegese, Øystein olsen (nella foto), ha esortato il governo a una maggiore attenzione nella gestione del bilancio pubblico. olsen, spiega la Neue Zürcher Zeitung, si riferisce all’uso del fondo sovrano in cui conluiscono i proventi del gas e del petrolio. Il fondo, il più grande al mondo nel suo genere, oggi ammonta a circa 900 miliardi di dollari. Il governo può spendere solo la rendita annuale del fondo, che inora è stata del 4 per cento. ora però la banca centrale prevede che il calo del prezzo del greggio e la crisi possano ridurre stabilmente la rendita a meno del 3 per cento. “Negli ultimi tre mesi del 2014 il Giappone è riuscito a superare la recessione”, scrive il Guardian. Il pil del paese asiatico, infatti, è aumentato dello 0,6 per cento rispetto al trimestre precedente, mentre la crescita relativa all’intero anno è stata del 2,2 per cento. Il dato, però, è ben al di sotto delle previsioni, che parlavano di una crescita annuale del 3,7 per cento. La ripresa giapponese, quindi, “è ancora fragile”. Secondo gli analisti, il motivo è che sia i consumi delle famiglie sia gli investimenti delle imprese non hanno raggiunto un livello suiciente “per dare una spinta decisiva all’economia nazionale”. u TECNOLOGIA SVIZZERA Perquisita la banca Hsbc Il 18 febbraio la polizia ha perquisito a Ginevra gli uici della iliale svizzera della banca britannica Hsbc. Gli inquirenti, spiega la Bbc, hanno aperto un’inchiesta sull’istituto per riciclaggio di denaro e potrebbero estendere l’indagine a persone esterne alla banca. Secondo i documenti pubblicati da un suo ex dipendente, la iliale svizzera dell’Hsbc “aiutava ricchi clienti da tutto il mondo a eludere il isco del loro paese”. Fino al 2007 l’istituto ha oferto conti esteri protetti dal segreto bancario a 107mila clienti di 203 paesi. I robot fermano la crescita “Il progresso tecnologico potrebbe essere bloccato dai pochi investimenti e dalla prevalenza di prospettive a breve termine nelle scelte economiche. Alla ine, un maggiore uso dei robot rischia solo di penalizzare l’occupazione”. Lo ha detto Andrew Haldane, il capo economista della Banca d’Inghilterra, scrive il Daily Telegraph. La nuova rivoluzione industriale annunciata dalle macchine, ha spiegato, “avrà efetti sull’occupazione e sulla disparità di reddito ancora impossibili da prevedere. L’aumento della disuguaglianza, comunque, potrebbe bloccare la crescita, perché por- ta le famiglie più povere a investire di meno nell’istruzione dei igli”. Mentre le rivoluzioni registrate negli ultimi 250 anni hanno garantito salari più alti e un generale miglioramento del livello di vita, ha aggiunto l’economista, “la combinazione di fattori sociologici che caratterizza l’avvento dei robot potrebbe mettere a rischio i vantaggi della nuova rivoluzione industriale”. Alla ine, ha concluso Haldane, “potrebbero aver ragione i pessimisti”, cioè gli esperti che prevedono “alti livelli d’indebitamento, disparità di reddito e stagnazione economica e demograica”. Una conclusione, osserva il Daily Telegraph, che ricorda il concetto di “stagnazione secolare” ripreso dall’economista statunitense Larry Summers. PHILIMoN BULAwAyo (reUTerS/coNTrASTo) NORVEGIA DAvID MAreUIL (ANADoLU AGeNcy/GeTTy) Tokyo, Giappone Harare, Zimbabwe IN BREVE Stati Uniti La bolla dei prestiti agli studenti negli Stati Uniti assume proporzioni sempre più preoccupanti. Secondo uno studio della Federal reserve di New york pubblicato il 17 febbraio, alla ine del 2014 il totale dei prestiti agli studenti ha raggiunto i 1.160 miliardi di dollari, una cifra superiore al debito accumulato dalle carte di credito in tutto il paese. Negli ultimi tre mesi del 2014 i prestiti agli studenti sono aumentati dell’11,4 per cento. Questo tipo di credito riguarda 40 milioni di statunitensi, ognuno dei quali deve restituire in media 30mila dollari. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 103 L’oroscopo Rob Brezsny “Non è normale sapere cosa vogliamo”, diceva lo psicologo Abraham Maslow. “È una conquista psicologica rara e diicile”. Questa è la cattiva notizia, Pesci. Quella buona è che forse sei sul punto di smentire la teoria di Maslow. Nelle prossime settimane avrai più probabilità che in passato di capire cosa vuoi. Ti consiglio di celebrare un rituale in cui ti impegni a smascherare questo prezioso segreto. Scrivi un comunicato uiciale in cui dichiari la tua intenzione di comprendere a fondo i motivi per cui sei su questo pianeta. ARIETE La tua intelligenza ha molte sfaccettature, ognuna delle quali matura in tempi diversi. Per esempio, è possibile che la tua capacità di pensare in modo simbolico evolva più lentamente di quella di pensare in modo astratto. E che la tua comprensione del comportamento umano maturi più rapidamente della profonda consapevolezza delle tue emozioni. Nelle prossime settimane un particolare aspetto della tua intelligenza farà uno scatto in avanti: la comprensione delle esigenze del tuo corpo e del modo di soddisfarle. TORO ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI Qual è la miscela giusta per te in questi giorni? Il 51 per cento di piacere e il 49 per cento di dovere? O il contrario? Lascio a te la scelta, Toro. Qualunque decisione prenderai, ti consiglio di provare a intrecciare piacere e dovere il più spesso possibile. Sei in una di quelle fasi in cui succede di tutto e il divertimento si sposa bene con l’ambizione. Immagino che riuscirai a stringere rapporti fecondi alle feste e scommetto che saprai rendere più piccante la tua vita sociale sfruttando le tue esperienze di lavoro. GEMELLI Nel 1900 i matematici più famosi del mondo si incontrarono a Parigi per un congresso. Il genio tedesco David Hilbert presentò la sua lista di 23 problemi matematici irrisolti. All’epoca nessuno aveva mai fatto un inventario così completo. La sua sida determinò la direzione che avrebbe preso la ricerca matema- tica nel corso del novecento. Oggi Hilbert è considerato un profetico anticipatore. Mi piacerebbe che tu compilassi l’elenco dei tuoi principali problemi irrisolti, Gemelli. In questo momento hai una particolare capacità di prevedere su quali progetti faresti bene a lavorare e con quali dovresti giocare nei prossimi anni. CANCRO Spanipelagic è l’aggettivo che gli scienziati inglesi usano per deinire quelle creature che vivono nelle profondità del mare e aiorano molto raramente in supericie. Questa parola non è una metafora perfetta per te, visto che sali in supericie abbastanza spesso per riprendere iato. Ma in questa fase tendi a trattenerti più a lungo negli abissi, tutto preso da oscuri misteri e incommensurabili emozioni. Almeno secondo la mia lettura dei presagi astrali. Ma prevedo che da un momento all’altro riemergerai dall’abisso e resterai a galla per molto tempo. sfruttare la saggezza che cresce dentro di te mentre sei disteso al buio. VERGINE Edward Albee scrisse il dramma teatrale Chi ha paura di Virginia Woolf? nel 1962. L’opera vinse molti premi e le compagnie teatrali la rappresentano ancora oggi. Albee ha raccontato di aver trovato il titolo in un bar di New York. Dopo aver inito la sua birra, era andato in bagno e sullo specchio aveva visto la scritta “Chi ha paura di Virginia Woolf?”. Nei prossimi giorni ti consiglio di prepararti a cogliere questo tipo di ispirazioni, Vergine: inaspettate, provocatorie e fuori contesto. Quando dobbiamo prendere una decisione importante, a volte diciamo che vogliamo “dormirci sopra”. Rimandiamo la scelta inale a quando avremo raccolto più informazioni e compreso meglio tutta la faccenda. E a volte per riuscirci serve sul serio una bella dormita. Quello che succede nei sogni può rivelarci sfumature che da svegli sfuggono alla nostra coscienza. E anche se non ricordiamo i sogni, mentre dormiamo la nostra mente elabora e passa in rassegna tutte le possibilità. Nelle prossime settimane ti consiglio di fare ampio uso di questa strategia, Leone. Impara a Nel racconto Bartleby lo scrivano, di Herman Melville, un avvocato assume nel suo studio un uomo di nome Bartleby. All’inizio è un impiegato modello, che svolge i suoi compiti con grande impegno e serietà. Ma un giorno cambia tutto. Quando il suo capo gli assegna un incarico speciico, Bartleby comincia a dire “preferirei di no”. Con il passare dei giorni lavora sempre meno, ine a quando smette di fare qualsiasi cosa. Vorrei che ti ispirassi a lui, Sagittario. Non hai già fatto abbastanza? Non meriti una pausa per ricaricare le tue batterie psicospirituali? Io dico di sì. CAPRICORNO BILANCIA Il re inglese Edoardo III ammirava molto il poeta Geofrey Chaucer. Nel 1374 gli promise un grande dono come prova dell’ammirazione che aveva per il suo talento: un gallone di vino al giorno per tutta la vita. Se fossi stato al posto di Chaucer, non avrei gradito un regalo simile. Non riuscirei a combinare niente se bevessi sedici bicchieri di vino ogni 24 ore. Non sarebbe stato meglio uno stipendio regolare? Tieni a mente questa storia, Bilancia, mentre pensi ai beneici o ai premi che potresti ricevere. Chiedi quello che ti serve veramente, non sei costretta ad accettare quello che ti ofrono. SCORPIONE LEONE SAGITTARIO Per preparare il cocktail Sex on the beach (sesso sulla spiaggia) bisogna mescolare succo di mirtillo, di arancia e di ananas, grappa alla pesca e vodka. Esiste anche una versione alternativa chiamata Safe sex on the beach (sesso sicuro sulla spiaggia): si fa con gli stessi succhi di frutta ma senza alcol. Vista la probabilità che il tuo adolescente interiore svolga un ruolo importante nelle tue prossime avventure, Scorpione, ti consiglio di scegliere la versione sicura. Almeno per il momento, è meglio mettere freno alla turbolenta energia giovanile e imprevedibile che preme per esplodere. “Tutta la vita è un esperimento. Più esperimenti fai meglio è”, diceva il ilosofo Ralph Waldo Emerson. Se per tua natura non sei portato a cogliere la saggezza di questo atteggiamento, nelle prossime tre settimane ti invito a giocarci un po’. Non devi farlo per sempre. Non deve diventare un tratto permanente della tua ilosoia. Solo per un po’, considera la possibilità che molti esperimenti potrebbero aiutarti a scoprire non solo nuove verità, ma nuove verità divertenti, interessanti e utili. ACQUARIO Le opere d’arte del pittore dell’Acquario Armand Guillaumin (1841-1927) sono esposte nei musei più prestigiosi. Non è famoso come i suoi amici impressionisti Paul Cézanne e Camille Pissarro, ma esercitò una grande inluenza su entrambi. Ci mise molto tempo a raggiungere il successo, perché per guadagnarsi da vivere doveva lavorare. Ma a cinquant’anni vinse una bella somma alla lotteria e da quel momento si dedicò a tempo pieno alla pittura. Non dico che presto ti capiterà una fortuna simile, Acquario, ma queste cose a volte succedono. Penso che il tuo reddito potrebbe aumentare. E le tue probabilità di avere un colpo di fortuna cresceranno se ti impegnerai a migliorare i doni che hai da ofrire ai tuoi simili. Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015 105 internazionale.it/oroscopo PESCI COMPITI PER TUTTI In quale campo della tua vita t’impegni più di quanto dovresti? E in quale non t’impegni abbastanza? kroll, le soIr, BelgIo gaDo, the DaIly natIon, kenya L’ultima Un’altra barca africana diretta in europa. kal, the eConomIst, regno UnIto BénéDICte, 24 heUres, sVIzzera Benjamin netanyahu: “ebrei d’europa, ricordate… allora venite in Israele. e votate per me”. tavola rotonda: la libertà d’espressione. BarsottI glez, BUrkIna Faso Vladimir Putin e il cessate il fuoco in Ucraina: “Che c’è? non vi idate di me?”. la libia prima e dopo gheddai. “mi dispiace, l’ha mancato per un soio. È appena andato a casa”. Le regole Fare battute 1 Il vero talento non è fare battute, ma scegliere il momento. 2 “Dovevi esserci per capire” è la frase con cui inisce una storia che non fa ridere. 3 Quando copi la battuta di un qualcun altro su Facebook, ricordati di iltrarlo. 4 Vuoi essere sicuro di far ridere tutti? Fai solo battute su te stesso. 5 Dire “scherzavo” per rimediare a una brutta igura peggiora solo le cose. [email protected] 106 Internazionale 1090 | 20 febbraio 2015