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Quattro parole per definire l’amore di Roberto Badenas* Che cosa vogliamo intendere quando parliamo di amore? Parliamo di un sentimento, di un bisogno, di un’illusione, di un desiderio, di un istinto, di un’arte, di un mito o di un mistero? Che cosa significa per noi la parola amore? L’amore è definibile? Migliaia di poeti, scrittori, filosofi, pensatori e scienziati hanno cantato, descritto, analizzato, teorizzato e cercato di spiegare la complessa realtà che chiamiamo amore. Che cosa non è stato già detto sull’amore? Possiamo trovare all’incirca tante opinioni e definizioni quante sono le persone. Perché esiste una tale divergenza di parere su una realtà così universale? Il linguaggio dell’amore è veramente rivelatore, perché «dall’abbondanza del cuore la bocca parla» (Mt 12:34). Il linguaggio è eloquente sia quando esprime e descrive i sentimenti sia quando li dissimula o li nasconde. Il linguaggio dell’amore, prendendo esempio dalla propria esperienza di vita, varia a seconda delle persone, del tempo e delle circostanze; cambia da un’epoca a un’altra, da un’età della vita all’altra. Ogni paese, ogni cultura, ogni lingua ha il suo modo di esprimere i sentimenti. E sebbene ciascuna di queste realtà abbia un linguaggio proprio per parlare d’amore, ogni essere umano dà alle parole che lo esprimono un tono e un accento personale. In francese si utilizza la parola amore per esprimere una gamma di sentimenti estremamente vari che va dall’amore per Dio, all’amore per il coniuge, per la patria, per un determinato profumo o per un semplice frutto. Altre lingue usano termini diversi per significare le varie categorie di ciò che chiamiamo confusamente amore. Senza avere la pretesa di mettere ordine in un mondo tanto complesso e soggettivo come quello dei sentimenti, vorrei distinguere quattro tipi di amore, lasciandomi guidare da quattro termini diversi che gli antichi greci usavano per parlare d’amore, illustrandoli con alcuni esempi tratti dalla rivelazione biblica. 1. Eros: l’amore attrazione Una delle realtà più immediate nella nostra esperienza con l’amore è il suo carattere di pulsione e di desiderio. Buona parte di ciò che chiamiamo amore è in relazione con l’attrazione fisica, e ha, più o meno, delle connotazioni sentimentali e sessuali. È l’amore eros, parola da cui derivano i termini «erotismo» ed «erotico». Questa forma di amore si presenta generalmente come un bisogno imperioso, come un’urgenza involontaria, addirittura irresistibile. Una forza fatta d’istinti che ci attira verso l’altro, apparentemente sopravanzando la nostra volontà ed emarginando ogni riflessione, talvolta anche contro la nostra stessa ragionevolezza. Platone descriveva l’amore eros come «un furore, un delirio, una passione» che si impone all’individuo al di là della sua volontà. L’innamorato ha l’impressione di avere avuto «un colpo di fulmine», cioè di essere stato colpito da qualcosa che gli è caduto addosso, un’aggressione di cui ignora i meccanismi oscuri. Quest’impressione di essere «vittima» piuttosto che «soggetto» dell’amore è descritto nel mondo classico con la figura di Cupido, questo dio adolescente, birichino e burlone, che si diverte a colpire i cuori alla cieca con le sue frecce inattese. È un’immagine per descrivere la sensazione di vivere un desiderio che non dipende completamente da noi, di essere sotto l’influenza di una forza esterna, addirittura sovrannaturale (divina o diabolica, secondo i casi) che fa irruzione nella nostra vita, senza che possiamo dominarla. Questo amore ha ispirato ampiamente la letteratura di tutti i tempi. Nella Bibbia è il re Salomone che ha cantato meglio la sua forza: «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio; perché l’amore è forte come la morte, la gelosia è dura come il soggiorno dei morti. I suoi ardori sono ardori di fuoco, una fiamma potente» (Ct 8:6). Questo tipo d’amore, romantico e capriccioso, cantato e reinventato costantemente dalla letteratura occidentale durante i vari secoli, e divulgato oggi attraverso i media, è caratterizzato spesso da «irresponsabilità», cioè dalla tendenza a rifiutare di rendere conto a chicchessia. Questo amore piomba addosso come una malattia e va via così come è venuto, senza avvertire. 1
L’amore eros è loquace, vulnerabile e capriccioso perché è innanzitutto desiderio. E il desiderio, se è solo istinto e pulsione, si placa o si spegne con il possesso, cioè con la soddisfazione del desiderio. E i nostri desideri umani, confusi spesso con i capricci e i piaceri, durano raramente per sempre. Sono effimeri, fugaci e mutevoli come il piacere stesso. Questa realtà è illustrata chiaramente nella storia di Amnon e di Tamar (2 Sam 13:1-­‐19). Amnon si è innamorato della sorellastra, la bella Tamar, al punto da diventarne malato. Ma subito dopo essere riuscito a violentarla, «Amnon ebbe verso di lei un odio fortissimo; a tal punto che l’odio per lei fu maggiore dell’amore di cui l’aveva amata prima» (v. 15). 2. L’amore storghé Il verbo sterghein designava nel mondo ellenistico l’amore spontaneo e naturale che nasce tra persone unite da legami di sangue, o di parentela di qualunque tipo, ivi compresi i legami geografici, etnici e storici. È il sentire di appartenere a qualcuno, a una dinastia, a una famiglia, a un clan, a un gruppo. È un amore di appartenenza verso ciò che sento come «mio»: i miei genitori, i miei bambini, la mia donna, il mio villaggio, la mia tribù, la mia patria, la mia squadra di calcio… Una delle più belle storie d’amore storghé nella Bibbia è quella di Rut e Naomi. È l’amore storghé che, rivolgendosi alla suocera, fa dire a Rut queste parole: «Rut rispose: “Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io, e là sarò sepolta. Il Signore mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!”» (Rt 1:16-­‐17). Questa forma d’amore consiste nell’accettazione responsabile dei legami di famiglia che, anche se talvolta sono indipendenti dalle proprie scelte, offrono un destino comune con le persone dell’ambiente in cui si vive. In esso vi è qualcosa di molto istintivo ma anche di molto «sociale» (la tendenza al patriottismo, al sentimento del clan è universale e può arrivare fino alla guerra… o alla furia dei tifosi nello sport!). Quest’affetto verso ciò che ci appartiene, verso ciò che è nostro, generalmente ha un che di possessivo. Ma, allo stesso tempo, può dare una forza capace di portare i legami fino all’eroismo. È quello che ci racconta la tragica storia di Rispa, che ama e protegge i suoi figli contro tutto e contro tutti, anche dopo la loro morte (2 Sam 21:1-­‐14). 3. L’amore philía Siamo tutti d’accordo che l’amore non è soltanto desiderio o istinto. Vi è una forma d’amore che si distingue per un sentimento di affinità e di affetto condiviso. I greci hanno chiamato questa forma d’amore philía, descrivendola con il verbo philéo: amare nel senso di apprezzare e provare affetto. Questa faccia dell’amore è molto comune e tocca diverse relazioni che sono al di fuori della sfera familiare e sentimentale. Contrariamente all’amore di chi si innamora e segue la legge del tutto o niente («O mi ami, o non mi ami»), philía ha una gamma infinita di forme e di gradi. Questa forma di amore consiste nella soddisfazione di una relazione affettiva per mezzo di legami più o meno stabili che si concretano idealmente con l’amicizia. La caratteristica dell’amore philía (amicizia) è la reciprocità. Possiamo innamorarci (eros) senza ricevere niente in cambio. L’amicizia (philía) non esiste veramente se non è condivisa. Se non c’è soddisfazione reciproca non c’è vera amicizia. L’amore eros c’impedisce spesso di vedere l’altro com’è realmente perché ci s’innamora appassionatamente dell’altro idealizzandolo. Nell’amicizia, invece, è proprio la realtà dell’altro che ci attira. L’amore philía è fatto di ammirazione e contemporaneamente di accettazione dell’altro, indipendentemente dalle circostanze. Contrariamente a eros, philía è un sentimento molto stabile: «L’amico ama in ogni tempo» (Prv 17:17), «C’è un amico che è più affezionato di un fratello» (Prv 18:24). Una bella storia di amicizia tra due uomini è quella di Davide e Gionatan, nonostante che il padre di quest’ultimo fosse nemico giurato di Davide (1 Sam 18:1-­‐5; 20:1-­‐42; 2 Sam 1:26). Gesù ha vissuto con i suoi discepoli un rapporto di amicizia, ed è questo il modello supremo per le nostre amicizie (Gv 15:12-­‐17). 4. L’amore agàpe Sebbene le parole eros, storghé e philía siano usate più frequentemente in greco per indicare l’amore, il Nuovo Testamento preferisce utilizzare un altro termine: agàpe. Questa parola, molto rara nel greco classico, descrive la forma più elevata di amore, e pertanto è utilizzata per designare l’amore di Dio verso di noi, l’amore con cui egli vorrebbe essere ricambiato e l’amore che dovremmo avere gli uni per gli altri. 2
Proprio come ahav nell’Antico Testamento (Lv 19:18), agàpe è una forma di amore che può essere imposta, perché implica, innanzitutto, un impegno di lealtà e di fedeltà verso l’altro. L’amore agàpe descrive quell’amore che è stato scelto e deciso personalmente, in modo deliberato, indipendentemente dai sentimenti e dalle emozioni. È la decisione di fare il bene dell’altro, di agire nel suo interesse, di cercare il suo bene. Ecco perché questa forma di amore va al di là dei sentimenti per diventare una decisione della volontà, un impegno davanti a Dio o verso l’altro. Il termine potrebbe essere tradotto con fedeltà. Quando siamo arrivati ai confini dei nostri sentimenti, ai limiti del nostro amore storghé, eros o philía; quando, nonostante tutto, teniamo alla nostra relazione con l’altro, possiamo entrare, se lo vogliamo, nella quarta dimensione dell’amore, nell’ agàpe. In realtà, quando la passione e il desiderio diminuiscono o spariscono, quando la fiducia dell’amicizia è ferita, l’amore agàpe può continuare a sbocciare,se sappiamo coltivarlo. Perché, a differenza delle altre forme, l’amore agàpe dipende dalla nostra decisione. Il verbo «amare» (agàpe) è un verbo di azione. È un po’ la lezione che ci ha voluto trasmettere Saint Exupéry nel libro Il piccolo principe. Dopo essere fuggito dal suo pianeta in seguito ai dissapori con la sua rosa, dopo aver percorso altri mondi e pianeti, il piccolo principe comprende finalmente che sarebbe potuto rimanere a casa sua: «Sono responsabile della mia rosa». Egli scopre alla fine la dimensione dell’amore agàpe, cioè la forza di creare la propria realtà aiutando l’altro a seguire il suo divenire per il suo bene più grande, e non secondo i nostri desideri, rispettando la sua volontà, senza forzarla. Come lo ha definito Tommaso d’Aquino, l’amore agàpe è il desiderio di rendere l’altro felice. Martin Luther King, nel libro La forza di amare descrive questa forma di amore come «volontà essenziale». Scott Peck (nel libro La strada meno frequentata) dice che «l’amore più vero è un atto della volontà, cioè desiderio e azione contemporaneamente». L’amore agàpe è cercare innanzitutto il bene dell’altro e agire per lui in questa direzione. Questo amore è, innanzitutto, accettazione dell’altro in quanto essere diverso da me; è fatto di rispetto e d’incoraggiamento. Enrique Rojas chiama questa forma d’amore «l’amore intelligente». San Paolo descrive le modalità d’azione dell’amore agàpe in 1 Corinzi 13:4-­‐8: «L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L’amore non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita». È la parola agàpe che la Bibbia ha scelto per descrivere l’amore di Dio verso di noi. Egli non ci ama perché gli piacciamo o perché ci ammira. Dio ci ama perché desidera il nostro bene più grande. Questa forma di amore riflette la natura divina a tal punto che Giovanni definisce Dio dicendo: «Dio è amore agàpe » (1 Gv 4:8). Perciò questa forma di amore si trova pienamente soltanto in Dio, e solo lui, che ne è la sorgente, può donarcela. Dio ci ha amati di un amore supremo in Gesù, anche quando non ne eravamo degni (Rm 5:8), perché vuole il nostro bene ed è pronto a fare tutto per il nostro bene. In realtà, solamente un grande amore è capace di un grande sacrificio. Ogni rapporto d’amore vero può sfociare nell’ agàpe con l’aiuto divino. Entriamo nella sfera dell’agàpe quando siamo decisi ad aiutare l’altro a sviluppare le sue capacità, a nobilitarsi aprendogli la via verso sentimenti sempre più elevati. L’esempio migliore è indubbiamente l’amore di Gesù per noi: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13:1). Concludendo, possiamo dire che ogni forma di amore, eros, philía, o storghé, se lo vogliamo, può sempre arricchirsi della dimensione agàpe. Nella coppia, le quattro forme di amore hanno un loro posto e sono tutte necessarie per realizzare un amore forte, solido, maturo, intelligente e duraturo. Ma Dio solo può darci, attraverso il suo amore agàpe, la forza e la gioia di cui abbiamo bisogno per continuare a fare progressi nella difficile arte di amare. * Direttore dei dipartimenti Educazione e Famiglie presso la Divisione euroafricana 3