6 – creazione e caduta - Istituto Superiore di Scienze Religiose

Transcript

6 – creazione e caduta - Istituto Superiore di Scienze Religiose
6 – CREAZIONE E CADUTA
6.1 CORSO: CREAZIONE E CADUTA
IL CONCETTO DI “PECCATO” NELLA TENSIONE FRA PRINCIPIO, CENTRO E LIMITE
Nel semestre invernale 1932-1933 Bonhoeffer tiene un corso pubblicato con il titolo Creazione e
caduta1. A differenza degli altri testi accademici che finora si sono visti, qui Bonhoeffer sembra mettere da
parte il fine immediatamente polemico o di dibattito a favore di una riflessione più ampia.
Per comprendere a fondo il testo è necessario porre attenzione al titolo completo: Creazione e peccato.
Interpretazione teologica di Genesi 1-3. Non si tratta di un semplice commentario o di un approfondimento
esegetico, ma di una interpretazione teologica, sulla scia di K. Barth e del suo commento alla Lettera ai
Romani; anche2 Bonhoeffer propose una lettura del testo biblico fatta dentro la chiesa, a partire da ciò che la
chiesa è e sa. Una lettura radicale, che non risparmia le domande e non dà nulla per scontato, dove anzi i
temi della somiglianza con Dio, della comunione, del tempo, della sessualità, del peccato stesso e delle sue
conseguenze sulla vita sono oggetto di una riflessione nuova, assolutamente non scontata.
Si tratta di un corso tenuto in un momento particolare della crescita umana e spirituale di Bonhoeffer, in
una fase del suo pensare ed agire come cristiano. Pur rimanendo centrato sul testo biblico, il contenuto delle
lezioni può e deve essere letto in rapporto agli sconvolgimenti incombenti in campo politico, ecclesiastico e
sociale. Il problema emerso negli altri corsi era stato quello di fornire un fondamento alla questione etica, qui
la risposta a questa esigenza è data dal testo biblico che si candida ad essere il fondamento di ogni agire
etico.
Il testo acquista anche un notevole interesse sul profilo autobiografico in quel cambiamento – colto nella
lettera da Finkenwalde del 1936 – che Bonhoeffer stesso descrive come “passaggio da teologo a cristiano”;
indirettamente il testo rivela che fu proprio la Bibbia a determinare questo salto. Gallas, riferendosi alla
lettera, fa notare che in essa è presente, come si vedrà più avanti, un interessante parallelismo fra la sua
esperienza e quella di Adamo.
Il saggio è segnato da un'originalità particolare legata al fatto di essere nato da un corso tenuto da
Bonhoeffer stesso; è quello che emerge in una lettera di uno degli studenti che hanno partecipato al corso:
Era lui, Dietrich Bonhoeffer! Fin dalla prima lezione mi fece l'impressione, poi confermata, di un uomo che
volesse incidere in profondità... che si mettesse in una 'posizione extra storica' – così mi sembrava – per
ricavare dal testo nuovi significati essenziali per la vita e la conoscenza... Tutta la lezione era un tentativo
insistente, un combattimento per giungere ad un'espressione linguistica corretta e chiara: uno stile espressivo
rientrante nel genus subtile, senza far ricorso deliberato – di questo ero convinto – alla retorica. Si voleva
evitare seriamente ogni compromesso... dunque non era uno dei soliti corsi di dogmatica. Naturalmente sullo
sfondo c'erano la teologia sistematica e l'esegesi, ma a parlare era Bonhoeffer!... Quest'uomo straordinario
nel corso che seguii fece saltare tutti gli schemi che avevo per abitudine o tradizione fatto miei in materia di
teologia e chiesa, di stato e politica, di scienza e ricerca, e così via 3.
Per la nostra ricerca un nodo centrale è individuabile nella seconda parte dove Bonhoeffer tratta del
peccato in maniera più sistematica, ma già la prima parte dell'opera presenta aspetti interessanti. La lettura è
ecclesiale: riprendendo il rapporto fra la rivelazione e la chiesa approfondito in Essenza della chiesa,
Bonhoeffer legge la Bibbia come libro della chiesa e come tale lo interpreta, il che porta ad una precisa
prospettiva dalla quale leggere la creazione: a partire dalla fine, da Cristo e dalle cose nuove in lui 4. Questo
1
2
3
4
CeC. È questo l'unico testo dei corsi accademici giunto in forma completa perché pubblicato da Bonhoeffer stesso per
l'insistenza dei suoi stessi studenti. «Quanto poco egli pensasse ad un libro vero e proprio lo si deduce dal fatto che non si diede
nemmeno la pena di documentare le citazioni bibliche e letterarie con annotazioni a piè pagina, come aveva fatto naturalmente
nei suoi libri precedenti. Non stese neppure un indice. Solo il titolo doveva essere cambiato, per sfuggire a una confusione con
Emanuel Hirsch che aveva usato il titolo “Schöpfung und Sünde“ già nel 1931» (DB, 214). Alcuni studi critici rilevanti per una
maggiore comprensione di Creazione e caduta sono E. BETHGE, Note on Temptation, in D. BONHOEFFER Creation and Fall: A
Theological Interpretation of Genesis 1-3, London/New York, 1966, 96; G. CLASS, Der verzweifelte Zugriff auf das Leben,
Dietrich Bonhoeffers Sündenverständnis in »Schöpfung und Fall«, (diss.), Heidelberg 1990; A. GALLAS, Il problema dell'esegesi
teologica e l'esempio di Bonhoeffer in Creazione e caduta, in Teologia 3 (1978), 120-130.
Per cogliere la relazione fra questo corso e l'opera di K. Barth, cfr. M. RÜTER. - I. TÖDT, Postfazione dei curatori in CeC 131s.
H.H. FLÖTER, Lettera a Reinhart Staats del 27.5.1987 cit. nell'edizione critica di CeC, 6.
Cfr. CeC, 20.
vale per ogni realtà creata ed in particolare per l'uomo. Questa è l'unica prospettiva possibile per noi e il
motivo è quello già visto gnoseologicamente in Atto ed essere, ora ripreso nella sua accezione antropologica:
Il tentativo disperato di tornare, qui dove è in questione l'origine e l'essere dell'uomo, nel mondo ormai
perduto del principio, facendo un gigantesco balzo indietro, con l'intento di scoprire ora ciò che può essere
stato l'uomo alle origini, di far coincidere il nostro ideale di uomo con la realtà creata da Dio, di
misconoscere il fatto che noi possiamo sapere qualcosa dell'uomo in principio solo a partire da Cristo, questo
tentativo tanto disperato quanto comprensibile, ha sempre avuto l'effetto di mettere la chiesa, in questo
pericoloso passaggio, nelle mani della libera speculazione. Noi sappiamo qualcosa del principio solo nel
centro, come coloro che vivono a partire da Cristo5.
Ecco allora la chiave di lettura per accostarci a questi capitoli. Il tutto va inserito nel cammino fatto fino
a qui: è vero il nostro essere “a partire da Cristo”, ma si è visto in Sanctorum Communio e Atto ed essere, che
questo essere in Cristo rimane una realtà dinamica, nella tensione con l'essere in Adamo. Se quindi i dati
della rivelazione si possono accogliere nella chiesa a partire da Cristo, questa recezione sarà sempre
un'accoglienza di fede in quanto, almeno intuitivamente, si sentiranno sempre gli effetti del peccato nella
percezione umana. In un appunto di uno studente riportato da Bethge c'è una traccia di un'introduzione che
nella versione stampata è stata modificata:
In questi tre capitoli Dio parla a noi così come siamo oggi, insieme peccatori, noi che siamo insieme a lui
crocifissi6.
Si avverte in questi passaggi l'inquietudine sul piano etico che l'Autore mostra, sia nelle sintesi di passi
fatti nelle opere precedenti, sia aprendo vie nuove che matureranno in seguito.
In rapporto al tema che esaminiamo merita una prima analisi la riflessione sul “principio”. Riprendendo
un'intuizione di Agostino7, Bonhoeffer si sofferma sull'impossibilità umana di comprendere fino in fondo
questa parola. Entrambi concordano sul fatto che questo sia un dato della rivelazione in Cristo. Bonhoeffer
però esplicita il perché di quest'impossibilità:
Il nostro pensiero, di uomini cioé che devono guardare a Cristo per sapere qualcosa di Dio, di uomini caduti,
non ha principio perché è circolare8.
La causa è da rintracciarsi nella condizione post-lapsaria nella quale l'uomo si trova. Si conosce
quest'impossibilità gnoseologica dell'uomo già da Atto ed essere. Il riferimento è marcatamente hegeliano 9 e
su questo Bonhoeffer tornerà anche quando commenterà la creazione ex nihilo.
Nel guardare a se stesso come principio, il pensiero pone sé come oggetto di se stesso, e quindi si pone
sempre di nuovo alle spalle di questo oggetto, o viceversa si trova sempre di fronte a quell'oggetto che esso
pone. Dunque è per il pensiero impossibile un asserto definitivo sul principio; misurandosi col principio
annienta se stesso. […] La filosofia critica è la disperazione sistematica circa il principio, non solo il proprio,
ma il principio in genere. Sia che essa rinunci orgogliosamente a ciò che non è in grado di conseguire, o
viceversa la rassegnazione la conduca alla completa distruzione, in ogni caso si tratta sempre dell'odio
dell'uomo nei confronti del principio che non conosce10.
Qui tutto questo è ripreso e ampliato al di là del piano filosofico, per raggiungere una dimensione
esistenziale: l'uomo si rende conto della sua impossibilità di conoscere il principio, e questo gli provoca uno
stato d'anima di inquietudine, di tristezza e quasi di rabbia:
l'uomo non vive più nel principio, ma lo ha perduto: ora si trova nel mezzo, senza saper niente né del
principio né della fine, sapendo solo di trovarsi nel mezzo, per cui c'è un principio da cui viene e una fine a
cui deve tendere. […] L'uomo, che si rende conto di essere del tutto espropriato della propria destinazione,
visto che viene da un principio e tende ad una fine di cui non sa neppure il significato, odia il principio ed è
pieno di orgoglio nei suoi confronti. Non ci può essere dunque per l'uomo niente di più inquietante, di più
irritante che il parlare del principio in termini che non lo evocano come quell'oscuro aldilà della mia cieca
5
CeC, 53-54.
Appunti di U. Köhler in DB, 214.
Cfr. ad esempio AGOSTINO, Le confessioni, XI-XII; ID., La Genesi difesa contro i Manichei, I, 2, 3-4; ID., La Genesi alla lettera, I,
3, 7-8.
8 CeC, 24.
9 Cfr. M. RÜTER – I. TÖDT, 138s.
10 CeC, 24.
6
7
esistenza, assolutamente inarticolabile e inesprimibile11.
Risuona anche altrove, seppur con altri toni, il dramma dell'uomo sulla sua impossibilità gnoseologica,
ma qui c'è un passaggio in più: Bonhoeffer non si limita a descrivere l'uomo staticamente, ma in chiave
dinamica; questa condizione diventa provocazione perché egli è posto di fronte alla scelta di ascoltare la
rivelazione di Colui che è verità fin dal principio o di colui che è menzogna.
[a parlare di fronte a quest'inquietudine] o sarà colui che è il mentitore fin dal principio, il maligno, per il
quale il principio è la menzogna e la menzogna è il principio, quel maligno a cui l'uomo crede proprio perché
viene da lui ingannato. […] Dirà: io sono il principio e tu, uomo, anche lo sei. […] Tu sei il principio e fine,
perché sei in me; credi in me, che sono il mentitore fin dal principio […] oppure sarà colui che è la verità fin
dal principio, la via e la vita, che era in principio, Dio in persona, Cristo, lo Spirito santo 12.
In queste righe si condensa un passaggio significativo: la dinamica tentatore-uomo è riproposta nei
termini del racconto genesiaco, ma qui non si è più nello stato pre-lapsario, ma esattamente al centro della
storia segnata dal peccato. È questa dunque una descrizione di quanto altre volte Bonhoeffer aveva detto
proprio in rapporto al peccato d'origine che ogni volta si ripete in ogni uomo, poiché tutti siamo Adamo. Fra
l'Adamo biblico e l'“essere Adamo” di ogni uomo è evidente una differenza ontologica, poiché l'uomo non
può in assoluto risalire a questo principio, ma in entrambi avviene l'evento della tentazione, della possibilità
di scelta, seppur con una libertà diversa.
Inoltre questa opzione dell'uomo non si riduce ad una scelta meramente morale. Ripercorrendo la
domanda sul fondamento etico che caratterizza il pensiero di Bonhoeffer in questo momento, la scelta
dell'uomo acquista un'estrema attualità poiché ad essa sono connesse anche delle scelte politiche e sociali 13.
C'è anche un ulteriore sviluppo rispetto ad Atto ed essere riguardante la stessa gnoseologia: qui viene
definita l'unica esperienza possibile di Dio per l'uomo segnato dal peccato.
A noi è possibile un sapere del principio in senso proprio, solo in quanto sentiamo parlare del principio della
nostra posizione intermedia fra principio e fine. […] Non è lasciando il centro e ponendoci al principio, che
veniamo a conoscerlo. Questo potremmo farlo solo nella menzogna, e non ci troveremmo dunque veramente
in principio, ma la nostra posizione nel centro sarebbe solo dissimulata. […] Noi cogliamo il principio solo
restando nel centro. […] Se del principio può parlare solo colui che si trova nel centro, angosciato dal
problema del principio e della fine, sempre alle prese con le proprie catene, che solo nella sua condizione di
peccato è consapevole di essere stato creato da Dio, basta questo per rendere superflua la questione se si tratti
del principio di Dio o del principio di Dio nel suo rapporto col mondo, infatti per noi Dio non può essere
principio, se non come principio che ci ha creati insieme al mondo, e di questo Dio non possiamo sapere altro
tranne il suo essere creatore del nostro mondo14.
All'uomo dunque è sempre data la possibilità di tentare ad oltranza di trarsi fuori dal disagio della sua
posizione nel centro e mettere se stesso in principio 15, ma è solo rimanendo in questa posizione centrale, in
questa coscienza di essere peccatore, che egli può accogliere da Dio la sua parola di rivelazione. Il testo
prosegue con il richiamo agostiniano, effettuato attraverso Lutero 16, dell'insensatezza di farsi domande al di
fuori della rivelazione.
Bonhoeffer dedica un'ampia sezione al tema della Parola che giunge all'uomo e alla creazione tutta,
delineando un elemento interessante nel nostro lavoro: egli sofferma l'attenzione sulla libertà di Dio espressa
proprio dal suo creare pronunciando la Parola, ma anche sulla concretezza di questa parola che viene da lui
detta, una parola che non produce effetti, ma essa stessa è opera, poiché in lui l'imperativo coincide con
l'indicativo il che crea un'indissolubile unitarietà fra la parola che è comandamento e il suo realizzarsi.
Anche questo è un concetto che l'essere umano in sé non può comprendere in quanto
il fatto che per noi sia assolutamente impossibile pensare insieme l'imperativo e l'indicativo, dimostra che
non viviamo più nell'unità della parola efficace di Dio, e che siamo caduti. Riusciamo a pensare il nesso di
imperativo e indicativo solo mediandolo in un continuum, per lo più nello schema della causalità, del
11 Ivi, 25.
12 Ibidem.
13 Come si è visto nel corso che Bonhoeffer tiene in contemporanea sulle pubblicazioni teologiche più recenti, in particolare a
proposito dell'opera di Stapel.
14 CeC, 27.
15 Cfr. Ivi, 29.
16 Cfr. nota 18 in Ivi, 27.
rapporto causa-effetto17.
Questa “non comprensione” ancora una volta si situa sul limite fra gnoseologia ed etica: non solo,
infatti, essa si manifesta nel momento della creazione, ma i suoi effetti emergono ogni volta che questa
parola è rivolta all'uomo. Sembra dunque sentire in questa non coincidenza fra comandamento e parola di
Dio il dramma segnalato nel sermone per l'Exaudi.
Si trova qui una distinzione importante rispetto alla comprensione del “principio”. Se riguardo al
“principio” l'impossibilità è dovuta esclusivamente alla posizione occupata dall'uomo nella storia, qui c'è una
difficoltà anche connaturale all'uomo stesso, in quanto essere creato nel tempo che non riesce a cogliere il
presente di Dio;
per noi resta semplicemente impossibile comprendere quel primo atto senza parola della creazione, poiché il
creatore è uno e, come sue creature, noi siamo creati per mezzo della parola; questi due attimi in Dio sono un
solo atto, né potremmo esprimerci altrimenti.
In realtà quest'unicità dell'atto comprende un altro istante: il fermarsi di Dio a contemplare la sua
creazione e definirla “buona”. Qui la riflessione di Bonhoeffer si amplia e riprende quanto sarà detto anche in
Venga il tuo regno:
Lo sguardo di Dio serba il mondo dalla ricaduta nel nulla, nell'annientamento totale. Lo sguardo di Dio vede
il mondo buono, creato – anche se si tratta del mondo decaduto – e noi viviamo grazie a questo sguardo, con
cui Dio abbraccia la propria opera e non l'abbandona18.
In quest'espressione c'è innanzitutto l'aspetto più evidente del carattere relazionale della creazione stessa,
relazione che qualche riga prima era stata definita “d'amore”, un amore concreto che si manifesta nella
conservazione anziché nel respingere e annientare. Nella conclusione del capitolo Bonhoeffer distinguerà fra
una conservazione originaria e una conservazione della creazione decaduta, pur mantenendo costante il
riferimento di questa conservazione alla creazione 19. Bonhoeffer poco dopo espliciterà questo “non
abbandonare” mettendo a confronto due ipotesi teologiche: la “creatio continua” e la “conservazione”, con
riferimento – secondo l'edizione critica dell'opera – alla Dogmatik di Bartmann, nella quale, prendendo
spunto da Agostino, la conservazione e la creazione «sono in Dio un unico atto eterno» 20. Gallas propone una
lettura diversa del testo di Bonhoeffer introducendo l'idea del “linguaggio di benedizione”, nel quale il
concetto di “creazione continua” non rientra, sia perché compromette l'unicità e la libertà dell'azione creativa
di Dio, sia perché implicherebbe comunque una discontinuità 21. Per la nostra ricerca è significativo che in
questo passaggio delicato, ancora una volta, sia il concetto di peccato a fare da filtro per discernere le
proposte teologiche più coerenti con il vangelo e la fede cristiana integrale:
il concetto di creatio continua ignora anche la realtà del mondo decaduto, che non è la creazione sempre
nuova, ma la creazione conservata22.
Merita inoltre soffermarsi su una considerazione molto interessante che Bonhoeffer fa a proposito di
“ciò che è fisso”. Riconoscendo che il significato letterale del testo biblico fa riferimento a concezioni
cosmologiche antiche e ormai superate, e avvia una riflessione più profonda leggendo, al di là dei riferimenti
specifici, in Gen 1,6-10.14-19 ciò che è indifferente alla vita umana, ciò che non dipende da essa e non ne
subisce conseguenze. Da qui l'attenzione si concentra sulla fissità di questi elementi creati e, osservando che
di fatto dal firmamento l'uomo di oggi così come di ieri trae la propria scansione temporale, interpreta questi
versetti con un riferimento – non esclusivo – al calcolo, ai numeri e alle leggi 23. Sono qui presenti espressioni
dal sapore pitagorico:
17 Ivi, 36.
18 CeC; 38.
19 Cfr. Ivi, 40.
20 Cfr. nota 6 in Ivi, 39.
21 Cfr. AT, 125.
22 CeC, 39.
23 I riferimenti che l'edizione critica cita sono il Der Untergang des Abendlandes di Spengler e Lutero (cfr nota 6 in CeC, 44).
Riferimenti a questa interpretazione matematica del versetto sono già in Agostino, ad esempio in La Genesi alla lettera, 4. Allo
stesso modo la trascendenza del numero ha un chiaro riferimento pitagorico – citato, tra l'altro, esplicitamente da Bonhoeffer
nelle sue lezioni, secondo la trascrizione degli appunti di uno studente (cfr. nota 10 in CeC, 45) – e platonico e sarà ripreso da
tutta la filosofia successiva compreso Agostino, come ad esempio in De libero arbitrio, 2, 8, 20ss.
gli uomini che stanno al centro continuano ad avere conoscenza del numero e di ciò che è immutabile, fisso,
apparentemente non coinvolto nella sua caduta. È una conoscenza peculiare sperimentare come, procedendo
sempre più in alto nel mondo del numero, l'aria intorno a lui si faccia sempre più pura, ma anche sempre più
scarsa e rarefatta, sicché egli in questo mondo non può vivere24.
Anche in questa conoscenza si annida un'ambiguità che, se rettamente accolta, può portare ad
un'apertura che dispone all'accoglienza della rivelazione, ma può anche far perdere il riferimento ad essa e
divenire essa stessa principio illudendo l'uomo che, possedendo il numero si possieda la verità e l'eternità.
Esiste un dato empirico che testimonia l'essere in una condizione decaduta, non originaria:
anche la matematica, quando affronta le questioni ultime, non sfugge al paradosso. La scienza del numero
che prescinde da Dio finisce nel paradosso, nella contraddizione25.
Questo dato, nel quale ogni matematico inevitabilmente si imbatte, dunque ha la sua origine proprio da
questa posizione centrale nella quale l'uomo decaduto si trova, da dove si percepisce, ma non si conosce “ciò
che è fisso”. Solo la rivelazione permette all'uomo di comprendere questa sua deficienza e mantenere il
carattere non assoluto del numero.
Questo passaggio ha indubbiamente un fascino dato dalla connessione fra matematica e teologia. È
possibile inserire, inoltre, questa riflessione all'interno di quella ricerca più profonda dell'unità, individuata
da Gallas come matrice interpretativa di tutto il pensiero bonhoefferiano verso l'Ánthropos téleios.
Questa impostazione è approfondita da Bonhoeffer nel capitolo riguardante il centro della terra, dove,
dopo aver ribadito che pur utilizzando un linguaggio favolistico il testo descrive realtà autentiche,
caratterizzate da una libertà donata e una scelta posta;
la decisione che riguarda tutto il mondo, e noi stessi in quanto coinvolti, interessati, chiamati in causa,
accusati, condannati, cacciati via, Dio stesso che benedice e maledice; la nostra storia originaria, che
riguarda effettivamente noi, il principio, il destino, la colpa, la fine di ciascuno: questo è ciò che dice la
chiesa di Cristo26.
La decisione umana viene presentata attraverso il ricorso all'immagine dei due alberi. Per l'uomo non
comporta pericolo l'albero della vita; l'uomo, infatti, la possiede. La minaccia, ciò che provoca il dramma, è
dato dall'attingere all'albero della conoscenza del bene e del male, segnato dal divieto divino di mangiarne il
frutto, posto come limite al centro dell'esistenza umana per preservarne libertà e creaturalità. Dunque questo
divieto, questo limite, in realtà è una grazia per l'uomo; l'unico modo per vivere è il mantenersi nella grazia
attraverso l'unità dell'obbedienza, l'unità della conoscenza di Dio, senza scissioni della conoscenza del bene e
del male.
Adamo non sa né cosa sia buono né cosa sia cattivo; vive nel più vero senso del termine al di là del bene e
del male, cioè vive la vita che viene da Dio, rispetto alla quale sarebbe un'impensabile caduta tanto una vita
nel bene come nel male27.
Bonhoeffer chiarisce che i termini “bene” e “male” hanno qui un significato che va oltre la semplice
sfera morale; per questo Bonhoeffer utilizzerà i termini in ebraico tob e ra. Questa specificazione implica il
fatto che il peccato, che qui avrà la sua origine avrà una dimensione più profonda di quella morale: il reale
significato di ciò che è bene e ciò che è male sfugge alla comprensione umana, che li percepisce sempre nella
loro parzialità:
Tob e ra sono concetti che indicano la più profonda scissione della vita umana in ogni senso. L'essenziale in
essi è che si presentano accoppiati, che nel loro dualismo si richiamano inevitabilmente. […] Questi siamo
noi, che abbiamo mangiato dell'albero della conoscenza, ma non Adamo28.
Bonhoeffer avverte che questa scissione è molto più concreto che una semplice presa di coscienza:
non si tratta di un qualsivoglia uomo delle origini, a noi più o meno indifferente […]. Questa storia non ci
sfiora come ascoltatori fantasiosi, ma ci coinvolge come uomini, che non sono assolutamente in grado, per
24 CeC, 45,
25 Ibidem.
26 Ivi, 70.
27 Ivi, 75.
28 Ivi, 75.76.
quanti sforzi di fantasia facciano, coinvolgendo anche tutte le altre loro risorse spirituali, di trasferirsi in
questo paradiso “al di là del bene e del male”, “al di là del piacere e del dolore”; uomini che invece restano
condizionati, con tutto il loro pensiero, dal mondo lacerato, dall'opposizione, dalla contraddizione; e questo
perché anche il nostro pensiero è solo espressione della nostra esistenza, del nostro essere, che è fondato sulla
nostra contraddizione. Poiché la nostra esistenza non si trova nell'unità, anche il nostro pensiero è lacerato 29.
Questa lacerazione intacca l'esistenza dell'uomo ben oltre la sola conoscenza; tocca la sua stessa essenza.
Il peccato assume ancora qui una dimensione essenziale, che si riflette in tutte le dimensioni della vita
umana.
Tra l'altro Bonhoeffer sottolinea un riferimento al suo tempo. L'attenzione su “ciò che è vivente” gli
aveva offerto, nel capitolo precedente, l'occasione, riprendendo la concezione di conservazione, di
confrontarsi sia con l'evoluzionismo sia con il concetto di analogia. Con la creazione dell'uomo diventa
chiaro che l'“analogia”, per essere coerente con il dato della rivelazione, deve essere un analogia relationis, e
non un'analogia entis, l'unica che preserva sia la libertà di Dio che la libertà creata dell'uomo.
Dopo il peccato anche queste relazioni risultano intaccate nella loro essenza e le conseguenze sono
manifeste anche empiricamente; così nel rapporto con le realtà create
non siamo noi a dominare, ma subiamo il dominio; sono le cose, il mondo a dominare l'uomo, e questi è
prigioniero, schiavo del mondo, il suo dominio è illusorio30.
Questa situazione ha il suo punto di forza proprio in ciò che l'uomo crede più propriamente suo:
la tecnica è il potere con cui la terra afferra l'uomo e lo tiene sottomesso. Per il fatto di non aver più
in mano il potere, perdiamo terreno e la terra non è più nostra, e noi diventiamo estranei ad essa31.
A testimonianza della particolare lettura del testo che Bonhoeffer fa, dove il dato biblico si carica non
solo di una fortissima valenza teologica, ma offre anche una particolare prospettiva dalla quale leggere la
propria realtà e la propria storia, si nota come qui siano presenti gli stessi termini usati nella conferenza Il
Führer e il singolo nella giovane generazione:
la tecnica destinata a servire da dominio sulla natura era stata rivolta contro l'uomo inerme nei suoi confronti
ed era stata quindi privata del suo senso essenziale!32
È soprattutto nel rapporto uomo-donna che questa scissione si manifesta tragicamente. Il racconto
genesiaco parla dell'uomo come unità, un'unità che ha in sé una diversità originaria. Anche l'essere della
donna era stato dato come grazia da Dio affinchè, nel suo essere limite, l'uomo potesse non solo sopportarla,
ma amarla. Il limite, necessario per preservare la creaturalità e la libertà, nel progetto di Dio è offerto
all'uomo come possibilità di essere amato come parte di se stesso. Questa dinamica è offerta in modo
specifico alla relazione uomo-donna, ma i suoi caratteri si estendono ad ogni relazione umana.
Bonhoeffer legge in queste pagine la creazione della chiesa come relazione originaria voluta da Dio per
gli uomini, una relazione però che può ormai essere accolta solo nella fede in Gesù Cristo. Infatti,
là dove sia venuto meno l'amore per l'altro, l'uomo ha ormai la sola possibilità di odiare il proprio limite, e
non desidera che avere in proprio possesso l'altra persona umana senza alcun freno, o addirittura annientarla
senza alcun freno. […] La grazia dell'altra persona umana, che è nostro aiuto, in quanto ci aiuta a sopportare
il nostro limite […] si è trasformata in maledizione, e l'altro è diventato l'occasione di rendere sempre più
esacerbato il nostro odio nei confronti di Dio33.
Tutto questo diventa più forte nel rapporto sponsale:
la comunione di uomo e donna è quella che viene da Dio, che lo glorifica come creatore, è la comunione
adorante dell'amore. Perciò è chiesa nella sua forma originaria. Ed essendo chiesa, è comunione costruita da
un legame eterno34.
29
30
31
32
33
34
Ivi, 78-79.
Ivi, 57.
Ibidem.
D. BONHOEFFER, Il Führer e il singolo, 572. cfr. anche AT, 147ss.
CeC, 84.
Ivi, 85.
Questa comunione comprende tutto l'uomo ed ha una stretta connessione con la sessualità. Pur tuttavia,
anche in questa sfera, la nostra comprensione è viziata e, ancora una volta, è diventata luogo di
frantumazione. Si assiste così al mutamento della
comunione dell'amore, che il desiderio sessuale ha completamente frantumato e trasformato in bramosia, fino
a farne un'affermazione di se stessi e una negazione dell'altro come creatura di Dio35.
Questo trova espressione concreta nel mutamento del senso del pudore in vergogna:
la vergogna deriva solo dal sapere della scissione dell'uomo, della scissione del mondo in genere, dunque
anche della scissione in se stessi. La vergogna è l'espressione del fatto che l'altro non viene più accolto come
dono di Dio, ma che viceversa è oggetto di un desiderio bramoso, e che contemporaneamente io so che anche
l'altro da parte sua, non si contenta di appartenermi, ma brama qualcosa da me. La vergogna è il coprirsi
davanti all'altro, a causa della mia e della sua malvagità, cioè a causa della scissione che è intervenuta fra noi
36
.
Nella sua impostazione antropologica Bonhoeffer dedica una grande attenzione alla corporeità di
Adamo, sottolineando soprattutto un aspetto legato proprio al peccato e alla redenzione:
Dio trova la propria gloria nel corpo, e precisamente nel corpo di questo specifico essere che è il corpo
dell'uomo. Perciò Dio, quando il corpo originario è andato distrutto nel suo carattere di essere creato, entra di
nuovo nel corpo di Gesù Cristo, e poi, quando anche questo corpo è lacerato, nella forma del sacramento del
corpo e del sangue37.
In questo passaggio si nota innanzitutto una valutazione molto positiva della corporeità che si oppone ad
un certo modo di intendere la fede cristiana come qualcosa che riguarda solo l'anima e lo spirito, ma è
soprattutto la dimensione sacramentale che qui acquisisce uno spazio importante, sviluppato ulteriormente in
Cristologia: già ora la sacramentalità è vista come luogo in cui si compie la nuova creazione.
6.2 IL RACCONTO DELLA CADUTA
Bonhoeffer affronta specificamente il tema della caduta nell'ultima parte del corso, ma il fatto di aver
trovato numerosi riferimenti allo stato di peccato nelle sessioni precedenti – dove era descritta la situazione
pre-lapsaria dell'uomo – testimonia che la lettura di Bonhoeffer dei primi capitoli della Genesi è
primariamente teologica. Procedendo in questo modo, supportati dal concetto di rivelazione esposto in
Essenza della chiesa, è possibile definire quella di Creazione e caduta una lettura ecclesiologica con una
matrice fortemente cristologica. Si rilegge la Genesi nell'unico modo possibile: a partire da Cristo. È
evidente in essa l'impostazione cristocentrica del peccato invece che amartiocentrica, con il ristabilire il
primato assoluto di Cristo. Non solo, ma grazie all'esposizione intorno al concetto di nulla, che accentua
l'assoluta libertà divina, si ha uno schema interpretativo cristocentrico in grado di sostenere
quest'impostazione pur mantenendo la cronologia amartiocentrica.
Inoltre, è proprio la presa di coscienza di un'impossibilità ontologica (e non di semplice difficoltà) di
risalire all'origine per l'uomo che vive un tempo intermedio – idea sviluppata gnoseologicamente in Atto ed
essere, ma qui presentata più organicamente – che offre una lettura più profonda dei primi capitoli della
Genesi, che riacquistano un valore rivelativo spesso ignorato. Tra l'altro sarà questo un dato da tener presente
tutte le volte in cui Bonhoeffer insisterà sul mettere Cristo al centro della vita e non solo come soluzione ai
margini di essa: i margini, infatti, traggono luce proprio da quest'evento centrale che è Cristo stesso; ancora
una volta, il buio del peccato non fa altro che esaltare questa luce.
Bonhoeffer pone qui una premessa importante: è vano il tentativo di chi volesse ritrovare nella Bibbia
una descrizione o una spiegazione dell'origine del male. C'è innanzitutto una complessità da mantenere nel
racconto della Genesi, senza la quale si assiste ad una lettura riduttiva del testo. Allo stesso modo ogni
tentativo di leggere linearmente il racconto, senza tener conto delle ambiguità in esso contenute, ne dà una
prospettiva parziale, che non accoglie il dato più evidente della rivelazione biblica: l'assoluta
incomprensibilità, l'inescusabilità e l'impossibilità di spiegare questo evento. Insieme a questo è da
35 Ibidem.
36 Ivi, 86.
37 Ivi, 68.
accogliere, senza possibilità di riduzione, la responsabilità immensa che pesa sull'uomo quale protagonista di
questo evento38.
Il testo, inoltre, non descrive semplicemente un evento chiuso nel passato, ma ha una sua tremenda
attualità:
non sarà mai possibile richiamarsi semplicemente al demonio che avrebbe sedotto uno di noi, ma il demonio
si troverà sempre in quel preciso punto in cui io, creatura di Dio, avrei dovuto vivere nel mondo di Dio e non
l'ho voluto39.
L'attenzione si concentra sui veri protagonisti dell'evento: Dio e l'uomo, o meglio, la volontà di Dio e
l'uomo. Più che sul serpente, ci si concentra sulle sue parole; indossando gli abiti della più pura devozione,
proponendo una ricerca della vera volontà di Dio e del suo vero volto, il serpente non fa altro che spingere
l'uomo stesso a farsi giudice della parola di Dio, a renderla oggetto di riflessione e a immetterla nei propri
schemi e principi, sciogliendo il legame fra la Parola e Dio stesso. Anche quando questa parola tornerà ad
essere un comandamento, non riuscirà a superare la frattura all'interno del rapporto stesso con Dio, in quanto
passerà sempre attraverso la mediazione della riflessione umana e mai più come semplice obbedienza a Dio.
Si ritroverà questa dinamica in Sequela, nel commento biblico al brano del giovane ricco 40. È questa
l'esposizione più chiara di quanto finora detto a proposito dell'etica bonhoefferiana: non si tratta di pura
azione morale, ma di una questione dogmatica; ad essere messa in crisi è la rivelazione stessa di Dio,
l'accoglienza del suo stesso essere. Ecco perché Bonhoeffer non esita a definire il dialogo fra Eva e il
serpente
il primo dialogo su Dio, il primo dialogo religioso, teologico. Non si tratta di una comune invocazione o
adorazione di Dio, ma un discorso su Dio e oltre Dio41.
È possibile ritrovare un ulteriore contributo alla concezione del cristianesimo-non-religioso, così come il
contrasto fra la semplice obbedienza e la riflessione devota, che sarà poi presente anche in Sequela ed Etica.
Tutto questo, però, non basta a descrivere l'evento della caduta: la tentazione del serpente ne crea solo le
condizioni, costituendone la premessa. Bonhoeffer sottolinea il fatto che la caduta sia un'azione storica
concreta. La profondità di questo passaggio si può comprendere leggendo parallelamente un brano di
Sequela nel quale in positivo, è descritta la necessità assoluta del primo passo concreto per la sequela 42. Nel
caso del testo genesiaco, però, non c'è però questa assoluta necessità. Bonhoeffer distingue la caduta
dall'essere creatura dell'uomo: c'è, fra i due, un passaggio storico chiaro, al punto da definire un prima e un
dopo assolutamente diversi.
La descrizione dell'evento della caduta abbandona il linguaggio simbolico del racconto biblico per
mostrare il fatto nella sua realtà: l'uomo supera il limite e si mette se stesso al centro, cominciando a vivere
da sé e non attingendo più la vita dal centro. Quest'azione crea una nuova realtà e la precedente riflessione
sul “nulla” fa comprendere quanto sia profonda questa novità. Il “dopo” non si situa come continuum –
seppur modificato – del prima, ma davvero come realtà nuova, un abisso infinito che si frappone fra la
conclusione dei fatti precedenti e il compiersi vero e proprio del misfatto 43. L'Adamo pre-lapsario è
ontologicamente diverso dall'Adamo caduto:
Adamo non è più creatura. Si è sottratto alla sua creaturalità. È sicut deus e questo “essere” va inteso con la
massima serietà, non nel senso che egli si senta tale, ma nel senso che lo è veramente. Insieme al limite
Adamo perde la sua creaturalità. [...]La caduta trasforma realmente la creatura, l'uomo- imago-dei,
nell'uomo-creatore-sicut-deus e in primo luogo non c'è più ragione di interpellare quest'ultimo nella sua
creaturalità, né c'è più possibilità di riconoscerlo in tale creaturalità44.
Chiaramente qui è superata ogni riduzione morale del peccato stesso. Più avanti Bonhoeffer dirà che
proprio per questo il termine disubbidienza è insufficiente per descrivere il misfatto, poiché lo riduce
estremamente:
38 Cfr. CeC, 88.
39 Ibidem.
40
41
42
43
44
S, 57ss.
CeC, 92.
Cfr. S, 57ss.
Cfr, Ivi, 97s.
Ivi, 96.
qui non si tratta semplicemente di un passo falso di natura etica, ma della distruzione della creazione ad
opera della creatura. Ciò significa che la dimensione di questa caduta coinvolge tutto il mondo creato, che si
vede sottratta la propria creaturalità45.
Bonhoeffer tenta di ricostruire la sequenza che ha portato a questo fatto: il divieto imposto da Dio ad
Adamo come appello alla sua creaturalità, la creazione della donna come limite amato e più vicino, la
scissione – nel dialogo fra questa e il serpente – fra l'obbedienza e l'oggetto dell'obbedienza. Quindi la
caduta, come evento non consequenziale, ma assolutamente nuovo posto dall'uomo. È una caduta che
riguarda tutto l'uomo, nella sua integralità di uomo e donna:
Eva cade per prima […] solo al caduta di Adamo rende integrale la caduta di Eva, perché i due in effetti sono
una cosa sola. Adamo cade a causa di Eva, Eva a causa di Adamo; i due sono una cosa sola, sono due pur
essendo una cosa sola anche nella colpa. Cadono insieme come un solo essere e portano la colpa intera
ognuno per sé solo46.
Il peccato dunque è un qualcosa che tocca l'umanità intera e ciascuno ne porta la colpa; è un'azione
dell'umanità nella sua interezza, da cui nessun uomo può liberarsi. Ad aggravare il misfatto è la sua assoluta
inescusabilità. Bonhoeffer rifiuta ogni schema interpretativo che tenti di spiegare o relativizzare l'azione
stessa:
non si può individuare il fondamento di quest'atto né nella natura dell'uomo, né in quella della creazione, né
in quella del serpente. […] Ogni tentativo di renderlo comprensibile si risolve solo con l'accusa rivolta dalla
creatura al creatore47.
Il dato però più importante del capitolo è individuabile sicuramente nell'ultima parte, laddove
Bonhoeffer chiarisce i termini della questione, operando una fondamentale distinzione fra una lettura
speculativa e una lettura teologica del testo biblico, laddove specifica che la differenza non è di impostazione
ma di reale possibilità per l'uomo. È qui sviluppata un'idea già riscontrata in Atto ed essere: l'uomo non può
contemporaneamente essere soggetto e oggetto di conoscenza, poiché è necessaria una distanza fra questi
due. L'uomo non può quindi ontologicamente porsi la domanda sul “perché del male”,
perché presuppone che si possa risalire oltre l'esistenza che ci è imposta dall'essere peccatori. Se potessimo
rispondere al perché non saremmo noi ad essere peccatori. Potremmo dare la responsabilità a qualcos'altro.
Quindi la domanda sul “perché” può ricevere risposta solo per mezzo del “che”, il cui peso grava
integralmente sull'uomo48.
La questione teologica rimane, ma essa guarderà all'evento dall'unica prospettiva possibile: il suo reale
superamento sulla croce.
Si trova qui tematizzato quanto finora è stato solo intuíto: la lettura teologica del peccato che Bonhoeffer
fa è una lettura assolutamente cristocentrica, che, pur soffermandosi costantemente sullo stato del peccato e
sui suoi effetti nella realtàne esige sempre il superamento nell'evento pasquale. È in quest'ottica che vanno
letti i capitoli successivi nei quali Bonhoeffer continua la sua lettura interrogandosi innanzitutto sulla natura
del peccato. Attenendosi al dato biblico, egli legge come parziali gli studi che riducono l'atto a un problema
che descrive la maturità sessuale acquisita dall'uomo stesso. C'è indubbiamente una conseguenza che investe
anche questa sfera (si è visto a proposito del pudore trasformato in vergogna), ma questa non è che la
manifestazione di una frattura più profonda che la caduta ha aperto nell'ontologia stessa dell'uomo. Il peccato
porta una conoscenza del tob e del ra che sussistono ora in una dualità che non riesce a ritrovare un'unità.
Ciò si manifesta innanzitutto nel rapporto fra Adamo ed Eva: la donna era stata offerta da Dio come
limite da amare. Adesso che il limite è superato, non accettato, essa non appare più come grazia, ma come ira
di Dio, come odio e invidia e l'altro è visto non più nell'amore ma nel suo essere di fronte, nella scissione.
Questo fatto investe innanzitutto la corporeità, a partire dalla sfera sessuale:
l'uomo rivendica il suo aver parte al corpo della donna; più in generale, ognuno rivendica il proprio diritto
sull'altro e avanza la pretesa al possesso dell'altro, negando e distruggendo in tal modo la creaturalità
dell'altro. Questa brama dell'essere umano nei confronti dell'altro essere umano trova la sua espressione
45
46
47
48
Ivi, 100.
Ivi, 99.
Ivi, 100.
Ivi, 101.
originaria nel desiderio sessuale. Il desiderio sessuale dell'uomo che trasgredisce il proprio limite è il rifiuto
di riconoscere qualsiasi limite, la brama smisurata di essere illimitato […], è volontà di autoaffermarsi,
volontà bramosa e impotente di unità nel mondo della scissione, volontà bramosa di risalire alla comune
umanità dell'origine, impotente perché l'uomo, con il suo limite, ha perduto definitivamente anche l'altro
essere umano49.
Bonhoeffer opera ora un passaggio importante rispetto a quanto si è visto in Sanctorum Communio,
prendendo posizione sulla questione della propagazione del peccato attraverso la sessualità e – con
riferimento ad Agostino – del desiderio sessuale come espressione del peccato originale. Egli rivede la
propria posizione a partire da questa nuova interpretazione di tob e ra, integrandola con la prospettiva
proposta da H. Schmidt50:
Il sapere del tob e ra in origine non è conoscenza astratta di principi etici, ma desiderio sessuale, cioè
pervertimento dei rapporti tra gli esseri umani. E poiché a quel punto il desiderio sessuale consiste in un esser
creativi nel distruggere, è proprio nel procreare che si conserva da una generazione all'altra l'oscuro mistero
della natura ereditariamente peccaminosa dell'essere umano51.
Bonhoeffer qui si avvicina alla dottrina agostiniana anche nei termini 52, anche se si trova in questo
passaggio particolare una riflessione che supera l'idea della trasmigrazione delle anime e si concentra
maggiormente su ciò che l'uomo, che vive in questo stadio intermedio segnato dal peccato, può comprendere
di queste verità. In particolare si soffermerà sull'ambiguità che il termine “naturale” acquista.
Merita un'attenzione particolare, infine, una caratteristica che segna questi ultimi capitoli. Nei versetti
precedenti, in ogni elemento della creazione si erano individuati i segni del peccato che intralciano la
percezione umana della realtà creata; qui ogni conseguenza del peccato rivela un'ambiguità che richiama un
intervento della grazia.
Ad esempio, la vergogna, che era stata riconosciuta come indizio di una relazione segnata dal peccato,
viene presentata come un atto necessario all'uomo peccatore, ma nella sua costrizione rinvia al limite, quale
involontario riferimento alla rivelazione, al limite, all'altro, a Dio. È evidente la contraddizione, ma essa è
propria della condizione decaduta:
nel mondo decaduto l'unica possibilità, per quanto altamente contraddittoria, di richiamare e di santificare la
nudità delle origini, è data dalla salvaguardia di questa vergogna: non perché in se stessa sia qualcosa di
buono – questa è la concezione moralistica e puritana, assolutamente non biblica – ma perché essa è una
testimonianza involontaria della propria condizione di essere decaduto53.
Questa vergogna, questo coprirsi, nascondersi, non è solo nel rapporto con l'altro, ma è soprattutto nel
rapporto con Dio che non può essere più sostenuto. Per questo, immediatamente, appena ne sente la
presenza, l'uomo si nasconde da lui. Qui Bonhoeffer riprende un tema presente più volte nelle sue opere che
acquisisce qui una definizione nuova:
questa fuga, questo nascondersi di Adamo al cospetto di Dio, è ciò che chiamiamo coscienza54.
Una coscienza che – Bonhoeffer lo ha ribadito più volte – non esisteva prima del peccato originale e che,
ora è descritta in maniera sistematica in un intreccio fra il racconto biblico e i processi psicologici che
spingono l'uomo all'autogiustificazione. La coscienza ha un'ambiguità intrinseca che rimanda a qualcos'altro:
è la vergogna davanti a Dio, con la quale viene nascosta la nostra malvagità e con la quale l'uomo giustifica
se stesso, ma anche al tempo stesso contiene un involontario riferimento all'altro 55.
I termini richiamano quanto affermato nel capitolo precedente sui rapporti tra l'uomo e la donna. Lo
49 Ivi, 103,
50 Non riconoscendo in Gen 3 un riferimento al peccato originale, egli ne individua le tracce ne l racconto deuteronomico che
conoscerebbe «un legame nella colpa del popolo – certo non nel senso di un'eredità puramente naturale, trasmessa da una
generazione all'altra, ma nel senso di un peso condiviso da padri e figli, antenati e discendenti». Cfr. H. SCHMIDT, Die Erzählung
von Paradies und Sündenfall, Tübingen 1931, 48s. cit. in nota 15 in CeC,105.
51 CeC, 105.
52 Anche Agostino parlerà di obscura quaestio ad esempio in AGOSTINO, Il castigo e il perdono dei peccati e il battesimo dei
bambini, 3, 10, 18.
53 CeC, 104-105.
54 Ivi, 107.
55 Ivi, 108.
scopo nella relazione decaduta con l'altro era quello di distruggere l'altro come limite; ora l'uomo è
consapevole della sua inferiorità e tenta di sfuggire dal cospetto di Dio. L'alterità assoluta di Dio rende però
illusoria questa fuga, perché Dio conosce l'uomo, e chiamandolo, ne uccide la coscienza. Il dramma diventa
così infinito, in una costante ripresa della fuga da parte dell'uomo, che tenta di sacppare nuovamente ogni
volta che viene raggiunto da Dio: in questo modo non solo l'uomo rimane nella sua condizione di caduta, ma,
dal momento che rifiuta l'appello rivoltogli da Dio, questa sua caduta «si accelera all'infinito»56.
Anche in questo “essere in fuga” l'uomo, però, viene raggiunto da Dio attraverso la sua Parola, che però
si presenta nella forma ambigua data dalla dicotomia “indicativo-imperativo” e che nel testo assume la
tensione fra la maledizione e la promessa.
Allo stesso modo nell'inimicizia col serpente l'uomo da una parte scopre la possibilità ancora di essere
raggiunto da una parola da Dio, dall'altra, però, questa parola sarà sempre una “parola che ferisce il
calcagno”, una parola con la quale lottare e la cui ricezione non sarà mai pacifica. È facile leggere fra queste
righe la domanda su “cosa dobbiamo fare” che caratterizza gli scritti bonhoefferiani di questo periodo.
6.3 IL PECCATO DI ADAMO E DI EVA
Allo stesso modo il rapporto con la donna sarà sicut-deus caratterizzato non più solo dall'amore, ma dal
binomio bramosia e dolore. Pur tuttavia in quest'ambiguità alla donna è consentito sia di appartenere ad
Adamo, sia di generare ancora vita. Nel rapporto con la natura, con quella terra maledetta spesso citata, entra
una scissione legata al lavoro segnato dalla fatica, anche se, affrontando la scissione, l'uomo può trarre il cibo
per continuare a vivere.
Il rapporto con la vita è un elemento cardine del testo di Bonhoeffer: già quando aveva esposto la lettura
del centro della terra si era soffermato sull'albero della vita che segna un'esistenza che è posseduta
propriamente solo da Dio e che all'uomo è donata come vita umana in unità e obbedienza al creatore,
orientato verso questo centro57. Poco più avanti Bonhoeffer fa notare come l'appropriarsi dell'albero della
conoscenza del tob e del ra rende questo albero un albero della morte poiché si prende consapevolezza del
proprio non possedere la vita e quindi dell'essere morti. Il rapporto con la vita già lì veniva descritto in questi
termini:
Che significa esser morto? Non significa il toglimento della creaturalità, bensì non vivere più al cospetto di
Dio, e tuttavia dover vivere al suo cospetto; significa stare al cospetto di Dio come proscritti, perduti,
dannati, non però inesistenti, cioè significa non ricevere più da Dio la vita come grazia che viene dal centro e
dal limite del proprio essere, ma riceverla come comandamento. […] Esser morto significa dover-vivere. […]
nel comandamento della vita mi si chiede qualcosa che non sono in grado di soddisfare. Devo vivere in base
alle mie forze, contando su di me, ma non ne sono capace58.
Chiaramente non si tratta solo dell'ignorare la morte come evento concreto da parte dell'uomo: non c'è
solo una lettura teologica della morte, né una sua interpretazione simbolica, qui la morte è vista in una
tragicità maggiore, che non coinvolge solo l'ultimo istante di esistenza terrena, ma investe tutta l'esistenza
dell'uomo. È una condizione dalla quale non ci si può sottrarre neppure con una morte volontaria, perché
anche in questo caso «la condizione dell'esser morto è sovrastata dal comandamento della vita»; ciò
comporta che essa non sia una liberazione (la morte fisica come “fuga nella morte”) ma sia «fuga nella più
terribile schiavitù della vita»59. Ciò è facilmente intuibile in quanto fuggire nel suicidio altro non è che
riconoscere in pienezza da una parte questo dover-vivere e dall'altra la propria incapacità ad adempiere
questo comandamento.
In questo “non poter morire” c'è il compimento della menzogna del serpente: nell'esser sicut-deus si
realizza l'impossibilità di morire, il dover vivere, che è morte.
Non si può esprimere questa realtà ultima della morte di Adamo se non ricorrendo a questa espressione
paradossale. Voler vivere, non poter vivere, e dover vivere: questo significa l'essere morto dell'uomo sicutdeus. […] Questa è infatti la disperata condizione di Adamo, il vivere delle proprie risorse, prigioniero di se
stesso, l'esser capace di volere solo se stesso, di aspirare solo a sé, poiché egli è ormai Dio a se stesso,
56 Cfr. Ivi, 108-109.
57 Cfr. Ivi, 72.
58 Ivi, 77.
59 Cfr. Ibidem.
creatore della propria vita; nel cercare Dio e la vita, non fa che cercare se stesso, di aspirare solo a se stesso, e
d'altra parte questa solitudine, questo fondarsi su se stesso, questo essere in sé. È proprio causa della sua sete
infinita60.
Gallas legge qui la forte nota biografica alla quale si accennava all'inizio 61. Questo ragionamento offre a
queste idee una valenza diversa, in grado di cogliere il nesso fra le conseguenze ontologiche della caduta e
quelle empiricamente percettibili.
Ecco che la solitudine non solo subíta, ma cercata ha la sua espressione più tragica e manifesta nel
prosieguo della storia che inizia dopo la caduta. Un primo esempio di ciò si ha, infatti, con la nascita del
primo uomo nella terra maledetta: Caino.
Adamo tenuto in vita nella prospettiva della morte, Adamo che si consuma nella sete di vita, genera Caino
l'omicida. Ecco l'elemento nuovo in Caino, figlio di Adamo: come uomo sicut deus egli attenta
personalmente alla vita dell'uomo. L'uomo che non può mangiare dell'albero della vita si rivolge con tanto
maggior desiderio ad afferrare il frutto della morte, l'annientamento della vita. Solo il creatore può annientare
la vita, e Caino si arroga questo ultimo diritto del creatore, e diventa omicida62.
Eppure questa non è l'ultima parola: in due passaggi dei brani citati torna il concetto di “conservazione”
. Pur nell'ambiguità che caratterizza la realtà dopo la scissione causata dalla caduta, è questo il segno più
immediato della misericordia di Dio. Egli non ha annientato Adamo dopo la caduta, così come non lo ha
condannato ad un'esistenza senza nutrimento, ma ha mantenuto la sua benedizione. L'uomo non può
percepire questo in pienezza, poiché ciò che immediatamente sperimenta è il fatto che questa conservazione
è finalizzata alla morte; egli continua a vivere in vista di una morte. Allo stesso tempo è spinto ad
interrogarsi sul perché di questa conservazione. Non è dato all'uomo, con le sue sole forze, rispondere a
questa domanda: sarà necessaria la rivelazione per comprendere questa finalità e leggerla come estremo atto
di misericordia. In questo stato, l'essere umano può comunque percepire un'ombra di questa grazia nella
morte stessa:
63
questa morte come ritorno alla polvere deve essere intesa da Adamo come la morte del suo attuale esser
morto, del suo essere-sicut-deus. Morte della morte: questo è il carattere di promessa di questa maledizione 64.
Questa promessa è letta dagli occhi di Adamo decaduto come promessa che si realizza come ripiombare
nel nulla, che ha il carattere di misericordia inteso come fine della pena e della disperazione della situazione
attuale. È questa una lettura presente già in un filone della spiritualità cristiana latina che, ispirandosi alla
filosofia platonica, considera la morte come un bene in quanto liberazione dell'anima dai lacci del corpo. In
particolare in Ambrogio di Milano, soprattutto nel suo De bono mortis; egli collegandosi a influssi epicurei,
si sforza di persuadere che la morte fisica è un bene. A questo filone si contrappone la visione più radicata
nella Bibbia e riaffermata fortemente da Agostino che nel De Civitate Dei nega la prospettiva di Ambrogio,
nonostante i profitti che i buoni ne possono trarre 65. L'impostazione bonhoefferiana è ancora più radicale in
quanto supportata, da una parte dalla sua esposizione sul concetto di “nulla” e dall'altro dalle affermazioni
sulla forza dell'assolutezza della rivelazione in Cristo. Il tratto caratteristico di tutta l'opera è la forte matrice
escatologica che emerge in tutti i capitoli e che, concentrandoci sui passi citati sopra, scioglie l'ambiguità
riscontrata, ricapitolando tutto e rispondendo in pienezza alle istanze insite nel cuore dell'uomo.
I tratti di questa speciale prospettiva si leggono già nell'Introduzione:
[la chiesa] vede la creazione a partire da Cristo, o meglio, pur trovandosi nel vecchio mondo caduto, crede al
nuovo mondo della creazione, al mondo del principio e della fine, e può farlo perché crede a Cristo, e a lui
soltanto66.
60 Ivi, 119.
61 «Queste pagine devono essere lette come uno dei più significativi documenti autobiografici nella produzione
bonhoefferiana. La sorte di Adamo è la sorte che Bonhoeffer ha conosciuto personalmente; il suo tentativo di vivere
per se stesso e il non poterlo fare è stato anche il suo modo di impostare l'esistenza, che per esito ha avuto la
solitudine: “Una folle ambizione... mi rendeva difficile la vita e mi sottraeva l'amore e la fiducia dei miei simili.
Allora ero terribilmente solo e lasciato a me stesso”». AT, 132.
62 CeC, 122.
63 Cfr. Ivi, 113.
64 Ibidem.
65 Cfr. G. CIOLI, “Et per peccatum mors” (Rm 5,12), in Vivens Homo 16 (2005), 75.
66 CeC, 20.
In realtà non c'è uno sviluppo organico cristologico nell'opera stessa. Gallas sottolinea la perfetta
continuità fra questo corso e quello del semestre successivo che avrà per oggetto proprio la cristologia. Sono
suggestive a questo proposito le parole che chiudono il testo, nel quale si prende coscienza che l'apice del
dramma non è nella storia di Caino in quanto
Cristo in croce, il figlio di Dio ucciso, è la fine della storia di Caino, quindi la fine della storia in generale.
[…] E sotto i colpi della spada fiammeggiante, ai piedi della croce, muore il genere umano. Ma Cristo vive.
Il tronco della croce diventa il legno della vita, e ora al centro del mondo nuovo s'innalza la vita, al di sopra
del terreno maledetto. […] Singolare paradiso, questa collina del Golgota, questa croce, questo sangue,
questo copro spezzato; singolare albero della vita, questo tronco sul quale Dio stesso ha dovuto soffrire e
morire: ma questo è appunto il regno della vita, della risurrezione, regno che Dio ha restituito per grazia [...]
l'albero della vita, la croce di Cristo, il centro del mondo di Dio, caduto e conservato, questa è la fine della
storia del paradiso per noi67.
Anche in questo caso queste affermazioni trovano riscontri assai pratici in tutti gli ambiti di vita: ad
esempio Bonhoeffer sottolinea questo in maniera originale proprio in quella comunione infranta dal peccato,
segnata pesantemente dal desiderio sessuale. Questo però, anche adesso, oltre ad essere tenuto a freno dalla
vergogna, lo è anche soprattutto
nella vocazione della comunione regolata dal matrimonio ad essere chiesa68.
La frantumazione della vocazione alla relazione uomo-donna, dovuta al desiderio sessuale 69, non riesce
ad eliminare la destinazione di questa comunione fra uomo e donna ad essere chiesa, come afferma Paolo
nella lettera agli Efesini70.
Questi passaggi del ragionamento sono importanti anche come esplicitazione degli “ordinamenti della
conservazione”, la cui importanza nella discussione etica si è più volte ricordata.
C'è in questo contesto ancora un appunto interessante che merita di essere considerato: nel rapporto
“maledizione-promessa” Bonhoeffer dedica un breve capitolo alle parole pronunciate da Adamo su Eva,
come “madre di ogni vivente”.
Il capitolo si conclude con queste parole
Eva, la madre degli uomini, caduta e piena di saggezza, è il primo inizio; Maria, innocente, ignara madre di
Dio, è il secondo inizio.
Il confronto fra Maria ed Eva appartiene alla tradizione patristica 71, ma risulta abbastanza originale per
la tradizione luterana, anche se non in Lutero, la cui posizione in proposito rimane fino alla fine piuttosto
ambigua72.
6.4 IL CONCETTO DI “PECCATO” IN CREAZIONE E CADUTA
Tentare di tracciare una sintesi della concezione del peccato in Creazione e caduta non è semplice, in
quanto più che le linee generali, sono i singoli passaggi che offrono spunti nuovi rispetto alle opere
precedenti.
E forse è proprio questa la prima novità. Pur rimanendo la matrice prettamente cristologica della
tradizione, l'avere offerto un approccio sistematico agli eventi della caduta garantisce alla nostra ricerca un
passaggio importante. Se finora si è intuita l'importanza di questo tema nell'opera di Bonhoeffer, qui tutto si
esplicita. Dato il particolare contesto biografico nel quale quest'opera è prodotta, si ha un'ulteriore conferma
di quanto supposto sopra.
In questo corso il peccato è innanzitutto letto come peccato originale: Bonhoeffer attinge sia alla
67
68
69
70
71
Ivi, 122-123.
Ivi, 106.
Cfr. Ivi, 85.
Ef 5,30-32. cfr. CeC, 86.
Cfr ad esempio IRENEO, Adv. Haer. III, 22, 4; EPIFANIO, Haer. 78, 18 GIROLAMO, Epist. 22, 21; AGOSTINO, Serm. 51, 2, 3; Serm. 232,
2: 1108; CIRILLO DI GERUSALEMME, Catech. 12, 15; GIOVANNI CRISOSTOMO, In Ps. 44, 7; GIOVANNI DAMASCENO, Hom. 2 in dorm. B.M.V.,
3.
72 Cfr. B. GHERARDINI, Lutero-Maria. Pro o contro, Giardini Editori e stampatori in Pisa, Pisa 1985, 78-85; 140-147; 211-214; 271279.
Scrittura sia alla tradizione ecclesiale a piene mani per descrivere, riflettere e impostare la sua visione,
mantenendo quel carattere marcatamente biblico anziché teologico che lo porta ad usare frequentemente
l'espressione “in Adamo” rispetto al più dogmatico “peccato originale”, pur essendo anche questa dicitura
presente73. Qui ad essere tematizzato è il “peccato originale”, non semplicemente il “peccato delle origini”:
pur mantenendosi, infatti, sempre sul piano della lettura biblica meditata, la riflessione travalica spesso tali
confini e abbraccia l'attualità e non solo nei riferimenti storici e autobiografici a cui si è accennato all'inizio.
È interessante, ad esempio, rileggere il capitolo riguardante La domanda devota74 per cogliere il continuo
passaggio dalla terza alla prima persona: l'evento del peccato originale non è qualcosa di compiuto nel
passato, ma è un evento che, avendo un'origine precisa nel passato, continua nel presente nella sua
originalità; risulta importante accogliere entrambi questi livelli nella loro realtà e nella loro intersezione.
Da una parte, infatti, il dato storico del peccato è centrale nell'intero corso: una storicità da intendersi nel
senso di appartenere alla storia nella doppia accezione di passata e presente. È un peccato che è avvenuto,
infatti, in Adamo concretamente. E qui Bonhoeffer, leggendo il brano biblico, descrive ora le dinamiche di
questo evento nella loro successione. Non è sua intenzione leggere il testo genesiaco come una cronaca
storica nel senso della ricerca storico-critica, dal momento che proprio l'unicità dell'evento rende impossibile
una sua ricostruzione quasi giornalistica. Ma proprio perché sono evidenti i segni – disseminati in tutta la
realtà – di ciò che è avvenuto, è possibile affermare che se qualcosa è avvenuto è avvenuto nella storia. Il
“se” qui vuole ribadire l'impossibilità umana ad accedere ad un tempo precedente la nostra storia in quanto
non si dispone della capacità di una tale comprensione. È possibile però affermare che l'istante della caduta
sia un tempo storico dal quale prende l'avvio una particolare storia umana tutta condizionata da esso.
Dall'altra parte il peccato rimane un evento storico anche nel presente, nel senso che esso rimane un
evento che il singolo uomo pone nella storia concretamente. È questo, si è visto, l'elemento su cui è posto
maggiormente l'accento rispetto alla trattazione sistematica di Sanctorum Communio e di Atto ed essere. Il
peccato segna ontologicamente l'uomo, ma questa impostazione antropologica qui è più esplicitamente
dinamica al fine di cogliere la responsabilità di Adamo e di ogni uomo in Adamo, al fine di evitare ogni
automatismo.
Se l'idea di un cambiamento ontologico che il peccato crea nell'uomo e nella storia è un dato che
appartiene a tutta la tradizione cristiana, qui viene vigorosamente descritta l'ampiezza di questo salto che da
una parte crea un assolutamente novum, dall'altra esclude ogni possibile nesso di necessità nella successione
degli eventi. Tutto questo ha come implicazione importante il ribadire la piena responsabilità dell'uomo.
Una tale interpretazione assume un particolare significato nel contesto delle opere di questo periodo. Il
peccato, per Bonhoeffer non è mai un fatto semplicemente morale, inteso come il venir meno ad una legge;
esso è un evento voluto dall'uomo che si colloca al cuore del rapporto con Dio, nella relazione con lui. Il
singolo atto peccaminoso non è altro che il frutto di una scelta che l'uomo fa in direzione del suo essere
sicut-deus, scelta che si concretizza nel costante tentativo di fuggire da questa situazione e diventare
“persona in fuga” anziché accogliere responsabilmente questa libertà, lasciandosi in essa raggiungere da
Cristo per essere da lui liberati.
Assume qui un particolare rilievo il concetto di “limite” e quello di “coscienza”. Quest'ultimo tra l'altro,
subisce un ulteriore approfondimento rispetto all'ampia trattazione in Atto ed essere, nella scelta fatta di non
tradurre i termini tob e ra.
Un'ultima osservazione va fatta in merito alla presenza di Eva nell'evento della caduta. Si è, infatti, più
volte sottolineato come, a differenza di altre impostazioni, l'originalità di Bonhoeffer sembra essere date nel
suo leggere il peccato in un'impostazione antropologica non individualistica. Eva permette di cogliere due
aspetti in unità. Innanzitutto per gli effetti del peccato che, pur segnando tutta la realtà, sono inseriti in modo
particolare nel contesto della relazione umana ed in particolare nella relazione di coppia. Si è visto come
questa relazione subisca le tensioni della concupiscenza, in particolare sotto l'aspetto del desiderio sessuale.
Inoltre è una relazione segnata dalla vergogna e dall'odio. A partire da questa particolare relazione, ogni
rapporto umano è caratterizzato poi da una forza creativa distruttrice, il che apre lo spazio alla riflessione
sugli ordinamenti. C'è, inoltre, una nuova sottolineatura che Bonhoeffer fa e che permette di cogliere come il
peccato non sia un qualcosa di individuale, neppure quanto alle cause. Il nostro Autore sembra quasi sostare
sul fatto che Eva cade per prima, anche se lo scopo del racconto è presentare la caduta di Adamo 75. In questo
modo anche la responsabilità, pur essendo sempre pienamente personale, non è mai individuale 76.
Una più approfondita interpretazione di quest'opera è possibile a chi al legge in correlazione con quanto
73
74
75
76
Cfr. ad es. CeC, 105.
Cfr. CeC, 87-92.
Cfr. CeC, 99.
Cfr. C. SCHLIESSER, Everyone Who Acts, 57ss.
avviene nel periodo coevo al corso universitario da cui nasce.
Innanzitutto l'attenzione che Bonhoeffer dimostra nel cogliere i segni che il peccato ha lasciato nella
realtà nel suo complesso fa emergere una relazione profonda fra quest'opera e Atto ed essere. Il problema di
una gnoseologia segnata dal peccato che aveva caratterizzato quell'opera sembra trovare ora un'integrazione:
non solo la capacità umana di conoscere la realtà, ma anche la realtà stessa è segnata dal peccato. L'uomo che
vuole comprendersi e comprendere deve tenerne conto non solo quanto alla sua capacità, ma anche quanto ai
risultati ai quali giunge.
Il testo si colloca, poi, in maniera più ampia nella ricerca di un fondamento etico sviluppata negli altri
corsi, negli interventi e nei sermoni di questo periodo. Come si è osservato più volte, non è possibile
prescindere da questo contesto nel comprendere le singole questioni affrontate nel testo. Sottolineature e
approfondimenti rivelano la loro ragion d'essere in rapporto a questa ricerca e, soprattutto, nel dialogo
implicito che avviene con gli autori contemporanei a Bonhoeffer. Si è visto ad esempio sotto questa luce la
questione sugli ordinamenti. Creazione e caduta, se da una parte continua la lettura critica delle diverse
posizioni teologiche, dall'altra proprio in questa ricchezza di particolari, rivela che la critica si sta aprendo
decisamente verso una soluzione: il fondamento della domanda etica è da ricercarsi nella Scrittura: il testo di
Gen 1-3, letto cristianamente, si candida ad essere uno dei suoi pilastri.
L'opera si colloca praticamente in contemporanea al corso sulla cristologia e ad esso costantemente si
richiama. In questa ulteriore tensione è possibile cogliere uno sviluppo di quell'impostazione cristocentrica
anziché amartiocentrica che qui, emergendo proprio nella lettura del testo genesiaco, diventa esplicita fin
nelle premesse date all'inizio del corso. Il fondamento biblico dell'opera, il costante riferimento alla realtà
concreta laddove la parola della Scrittura è incarnata nelle situazioni contemporanee al lettore e lo rende
responsabile come singolo e come uomo appartenente ad una comunità (familiare, ecclesiale o umana)
sembrano essere le premesse per Sequela e Vita comune, testi che in maniera riflessa percorreranno “in
Cristo” le vie che qui sono state tracciate “in Adamo”.