Michiaki Okuyama Nanzan Institute for Religion and
Transcript
Michiaki Okuyama Nanzan Institute for Religion and
Michiaki Okuyama Nanzan Institute for Religion and Culture, Nanzan University Nagoya, Japan TEMI RECENTI NEGLI STUDI DI STORIA DELLE RELIGIONI IN GIAPPONE1 La prima cattedra di Studi Religiosi in Giappone fu istituita nel 1905 presso l’Università Imperiale di Tokio. Nel centenario della fondazione, 2005, furono pubblicati in inglese parecchi libri per fare il punto sullo stato degli studi religiosi in Giappone e sulla storia della religione giapponese. Nel frattempo l’Associazione Giapponese per gli Studi Religiosi, fondata nel 1930, ha organizzato con successo nel 2005 a Tokyo il congresso internazionale dell’IAHR (International Association for the History of Religion), con la collaborazione di molte istituzioni accademiche associate. In questo saggio passerò in rassegna alcuni degli argomenti presentati in quelle panoramiche, per proseguire nella trattazione di un argomento recente mettendo in rilievo la figura di uno storico giapponese. La storia degli studi religiosi in Giappone Come rassegna della storia degli studi religiosi in Giappone, la seconda edizione dell’Encyclopedia of Religion pubblicata nel 2005 contiene un articolo istruttivo dal titolo Study of Religion: The Academic Study of Religion in Japan, scritto da Satoko Fujiwara, la quale presenta un’esposizione cronologica dalla Prehistory of Study of Religion, attraverso gli Early Developments (1905-1945), sino ai Developments since 1945. Non è possibile qui coprire tutti gli argomenti trattati dall’autrice, ma posso mettere a fuoco soltanto alcuni punti che ritengo importanti. Guardando alla preistoria, prima dell’era Meiji (1868-1912), osserva Fujiwara che Non vi erano termini fissi, come più tardi shukyo (religione), che le collocasse [shinto, buddhismo e confucianesimo] in una categoria singola. Talvolta la gente le chiamava kyo (“insegnamento”), allo scopo di sottolineare i loro aspetti dottrinali; in altre occasioni veniva usata una parola dalle connotazioni più pratiche: do (dal cinese tao, cioè “via”). [Fujiwara 2005, p. 8776]. Questa situazione di mancanza di un generico concetto di "religione" cambiò drasticamente nel corso dell’era Meiji, in seguito a nuove circostanze politiche e giuridiche. Fujiwara spiega che «il governo si sforzò di modernizzare il Giappone seguendo i sistemi occidentali e ciò facendo si rese conto che la libertà religiosa era da riguardarsi come uno dei requisiti di una società moderna» (ibid.). Introducendo il moderno, o piuttosto occidentale, sistema giuridico che incorporava la libertà religiosa, si dovette formulare il concetto stesso di religione. Continua l’autrice: Il concetto, importato dall’Occidente, fu modellato sul Cristianesimo, in particolare sul protestantesimo basato sull'asse fede/dottrina. Alla luce di questa definizione di religione, lo shinto, che consisteva essenzialmente di pratiche rituali, fu definito non-religioso. Il governo dichiarò che lo shinto non era una religione, bensì un sistema rituale di stato superiore alle religioni individuali. (ibid.) Notiamo quindi che “religione” e “shinto” rimasero distinti sul piano concettuale e vennero trattati separatamente dal governo; tale separazione continuò sino alla fine della seconda guerra mondiale. Dobbiamo tuttavia esplorare ulteriormente, in aggiunta alla ricerca sul concetto di “religione”, che cosa abbia significato questo “shinto” in quel periodo non soltanto per gli intellettuali, ma pure per la gente comune. Mettendo da parte questo problema, che toccherò più oltre, vorrei ritornare ora sul testo di Fujiwara. Nel quadro dell’instaurazione della libertà di religione, che fece dello shinto un’eccezione, il cristianesimo (proibito sino al 1873) poté fruire in teoria della libertà di proselitismo nel Giappone moderno. Ma tale teoria non funzionò bene. Spiega Fujiwara: Il Giappone fu l’unica tra le culture che incontrarono l’occidente moderno a registrare l’insuccesso delle missioni ad espandere il cristianesimo, già ritenuto come la religione perfetta secondo il nuovo concetto adottato di religione, sul proprio territorio. (ibid.) Questa parole sembrano spiegare che le religioni preesistenti in Giappone abbiano ostacolato le missioni cristiane, benché il concetto di religione stesso fosse pressoché nuovo per il popolo giapponese. Su questo sfondo, Fujiwara continua ad esaminare i primi sviluppi degli studi sulle religioni. L’istituzione già citata del Dipartimento di Studi Religiosi all’Università Imperiale di Tokyo e l’organizzazione accademica su scala nazionale, l’Associazione Giapponese per gli Stdi Religiosi possono essere collocati in questi primi sviluppi. A proposito di questo periodo, Fujiwara sottolinea alcuni punti interessanti. A seguito della modernizzazione e della tendenza verso la razionalizzazione, si potrebbe arguire che le religioni potevano andare fuori moda, ma «una gran quantità di studiosi delle religioni, osserva Fujiwara, si auguravano che il ruolo della religione si mantenesse nella società contemporanea e pure in quella futura» (ibid.). Così continua l’autrice: Essi quindi difendevano la religione contro il laicismo moderno. Ora era evidente per la maggior parte di loro che la religione può servire al consolidamento e all’espansione della nuova nazione-stato, e in questo aspetto del lealismo nazionale essi non furono molto diversi dai nazionalisti di destra che avevano promosso l’editto imperiale sull’educazione2. (ibid.) Qui Fujiwara fa rilevare il ruolo sociale della religione stessa, ma anche degli studiosi della religione nel processo di formazione della moderna nazione-stato giapponese3. Al contrario, i dibattiti intellettuali intorno alle definizioni di religione in questo periodo, nella loro interpretazione presentavano immagini della religione generalmente «polarizzate sull’aspetto psicologico-soggettivo» (ibid.). Ciò fa pensare che gli studiosi giapponesi abbiano privilegiato gli aspetti umani ed esperienziali della religione a scapito di quelli divini o sovrumani. Quanto ai più recenti sviluppi a partire dal 1945, Fujiwara caratterizza gli studi sulla religione nel dopoguerra come tendenti verso una neutralità scientifica diversa dall’impegno sociale presente in quelli dell’anteguerra. Un’altra differenza può essere colta nel tipo di interessi delle ricerche. Secondo Fujiwara «gli studiosi dell’anteguerra si occupavano prevalentemente della religione delle élites», mentre quelli del dopoguerra «rivolsero la loro attenzione alle tradizioni cosiddette “minori”, le religioni popolari» (ibid.) Pur tralasciando l’analisi dettagliata di Fujiwara sugli sviluppi postbellici dello studio della religione, mi fermo al 1995, quando l’attacco con i gas di Aum Shinrikyo alla metropolitana di Tokyo «scosse profondamente gli studiosi giapponesi della religione». Fujiwara racconta che «l’incidente li forzò a rivedere seriamente il ruolo pubblico che lo studio della religione potrebbe rivestire», specialmente per il fatto che «lo studio dei nuovi movimenti religiosi si è assai diffuso nel dopoguerra» e gli studiosi giapponesi della religione «furono biasimati per avere appoggiato le nuove religioni» (p. 8778). Negli ultimi paragrafi del suo saggio, Fujiwara cita le recenti tendenze nello studio della religione in Giappone, caratterizzate dall’interesse verso la «diversità all’interno delle tradizioni religiose minori, particolarmente in rapporto alle questioni di genere e di etnicità», dalla formazione di nuove organizzazioni intellettuali e dalla riconsiderazione del ruolo dello studio della religione nella società. L’autrice conclude il suo saggio con la seguente affermazione: «Con questo nuovo tema [sul contributo alla società] lo studio della religione affronta ancora una volta la sfida di servire gli interessi pubblici e nazionali senza rinunciare alla sua prospettiva» (p. 8779)4. Le argomentazioni di Fujiwara sono assai utili quando si desiderano informazioni intorno agli studi religiosi in Giappone. Ora vorrei rivolgere la mia attenzione ad un altro lavoro che tratta dello status degli studi sulla storia religiosa giapponese. Lo stato attuale degli studi sulla storia religiosa del Giappone con particolare attenzione allo Shinto. Nel suo più recente sahggio Fujiwara fa riferimentoal Nanzan Institute for Religion and Culture caratterizzandolo come segue: "[Il Nanzan Institute] pubblica il “Japanese Journal of Religious Studies”, il periodico più prestigioso in lingua inglese in questo settore. L’Istituto fa parte della Nanzan University, un’università cattolica che promuove il dialogo interreligioso5. Il periodico non è specificamente polarizzato sul dialogo interreligioso, ma si impegna nel portare avanti una comprensione interreligiosa. [Fujiwara 2008, p. 208] Una delle recenti pubblicazioni del Nanzan Institute, la Nanzan Guide to Japanese Religions (a cura di P. L. Swanson e C. Chilson), può essere considerata come un autentico manuale recente sulle religioni giapponesi. Essa contiene una sezione di Storia suddivisa in sei periodi, in aggiunta alle parti che trattano sei distinte tradizioni, sei nuclei tematici, ed altri soggetti ulteriori includenti la metodologia della ricerca e la cronologia delle religioni giapponesi. Vorrei anzitutto soffermarmi sui punti menzionati nelle sezioni di “Storia” della guida, in particolare sulle recenti interpretazioni dello shinto, o piuttosto sulle relazioni tra buddhismo e shinto6, per poi procedere all'esame di un altro lavoro. Yoshida Kazuhico, nel suo capitolo sulla “Religione nel Periodo Classico” si occupa del periodo in cui il Buddismo fu introdotto in Giappone. Yoshida apre la sua indagine osservando che «vi erano delle credenze in divinità (i kami) nel territorio di Wa (l’antico Giappone) prima dell’arrivo del Buddismo», ma «in assenza di documentazioni testuali, non abbiamo un’idea concreta di come questi kami fossero percepiti, su quali fossero le credenze nei kami o di come questi fossero venerati» [Yoshida 2006, p. 144]. Sono importanti le seguenti osservazioni: Si possono classificare questi fenomeni [credenze relativamente semplici nei kami, prive di ogni dottrina sistematica o di strutture religiose] come un tipo delle credenze comuni negli dei diffuse nell’Asia orientale nei tempi antichi. Queste credenze negli dei/kami nell’antico Giappone furono considerate, in tempi più recenti, come le forme originarie dello shinto. Attualmente, invece, quelle forme religiose sono considerate diverse da ciò che oggi chiamiamo “shinto”. L’idea che lo shinto sia esistito come entità indipendente prima dell’introduzione del Buddhismo nel sesto secolo è oggi non più sostenibile. (pp. 144-5) Yishida spiega che le antiche credenze nei kami non furono soltanto giapponesi, ma ebbero elementi in comune con le tradizioni e i costumi dell’Asia orientale. Così, egli osserva che una serie di rituali religiosi di stato (jingi saishi), sviluppatisi alla fine del settimo secolo, «furono modificati sulla base di rituali religiosi diffusi al tempo della Cina dei T’ang» (p. 150). L’osservazione di Yoshida relativa all’introduzione in Giappone del sistema cinese vale pure per l’amalgama tra i kami e i buddha che «è stato spesso spiegato e compreso nei termini di un unico sviluppo all’interno dell’arcipelago giapponese come se si trattasse di un fenomeno “giapponese”» (p. 155). Seguendo Tsuda Sokichi, «il quale spiegò che lo stesso fenomeno spiegato come un’amalgama giapponese dei kami con i buddha può pure essere rintracciato in antiche biografie di monaci cinesi», Yoshida conclude che «l’amalgama tra i kami e i buddha nell’antico Giappone si sviluppò accogliendo tali idee già presenti nel buddhismo cinese» (p. 156). Per semplificare la tesi di Yoshida, possiamo riassumere dicendo che la fusione tra i kami e i buddha «in ultima analisi si sviluppò entro la teoria honji-suijaku, che funzionò come mezzo per combinare i kami con i buddha e i bodhisattva del buddismo» (p. 159) W. M. Bodiford, che ha scritto il capitolo intitolato Il periodo medievale: dall’XI° al XVI° secolo, ha pure rivolto un’attenzione critica alla relazione tra buddhismo e shinto. Così scrive: Malgrado che la maggioranza di libri, articoli e opere di consultazione circolanti traccino anacronisticamente, o usino un linguaggio che stabilisce una precisa distinzione tra buddhismo e shinto, in realtà questo tipo di ovvia separazione non esiste prima del 1868. [Bodiford 2006, p. 171] La principale distinzione religiosa era che i riti per gli dei, per quanto importanti per un’ampia varietà di obiettivi immediati (famigliari, geografici, economici, agricoli, politici, ecc.), generalmente non erano rivolti al fondamentale veicolo soteriologico dei buddha. Malgrado queste minori differenze, i buddha e gli dei abitavano lo stesso spazio cosmologico e rivelavano gli stessi insegnamenti religiosi (p. 112). La tradizione di tale coabitazione di buddha e divinità fu sciolta in età moderna. Continua Bodiford: La separazione tra i buddha e le divinità, decisa dal governo nel 1868, non solo aiutò a creare una falsa immagine dello shinto come essenzialmente diverso dal buddhismo, ma pure l’altrettanto falsa rappresentazione di un buddhismo senza divinità. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Gli dei giocano un ruolo essenziale nelle scritture buddhiste ed essi sono stati venerati dai buddisti in tutte le parti dell’Asia. Il Giappone non è stata un’eccezione. (ibid.) Se prendiamo sul serio entrambe le argomentazioni di Yoshida e di Bodiford, dobbiamo ripensare a che cosa ha significato lo shinto nella storia religiosa del Giappone.Nello stesso periodo in cui uscì la Nanzan Guide to Japanese Religions, la “Religious Studies Review” pubblicò nel 2006 un numero speciale dedicato alle religioni giapponesi. Oltre ad un articolo dedicato specificamente ai pellegrinaggi di Barbara Ambros, e tre saggi che esaminavano l’opera di tre studiosi delle religioni giapponesi: Susumo Shimazono (Takeshi Rimura), Nelly Naumann (Kazuo Matsamura) e Bernard Faure (G. A. Keyworth), questo numero speciale includeva un saggio sullo Shinto dal titolo Shinto: Beyond “Japan’s Indigenous Religion”, in cui l’autrice, Sarah Thal, analizzava quattro dotti lavori in inglese (uno dei quali tradotto dal giapponese) pubblicati nel 2003 e 20047. Non intendo ripetere qui le dettagliate argomentazioni della Thal, ma soltanto mettere a fuoco le sue idee di fondo sullo shinto. L’autrice inizia l’articolo nel modo seguente: Trappole pericolose minacciano di irretire qualsiasi autore che si occupi dello shinto. La “strada dei kami” è stata a lungo definita come la “religione indigena del Giappone”, oppure come “l’essenza dell’essere giapponese”. Questo essenzialismo e queste generalizzazioni romantiche hanno dominato molti dibattiti sui kami in relazione alle pratiche religiose in Giappone. Mentre la maggioranza degli studiosi oggi giustamente evita simili problemi, altri enunciano versioni del nazionalismo estetico sostenuto dai nativisti e dai nazionalisti sin dal tardo XVIII° secolo. [Thal 2006. p. 145] L’autrice cerca poi di «provvedere ad una breve sinopsi della storia dello shinto allo scopo di chiarire i problemi inerenti ad una sua descrizione essenzialista», prima di procedere ad una rassegna di lavori recenti sullo shinto. Come Bodiford ha fissato nel 1868 un punto di svolta nella storia dello shinto, o piuttosto nella storia del fraintendimento dello shinto, cito qui, nella sua intera lunghezza, la tesi della Thal relativamente a questa data: Quando nel 1868 i leaders della Restaurazione Meiji rovesciarono lo shogunato Tokugawa e cercarono di di stabilire il loro potere in nome dell’imperatore, essi fondarono sulla base delle loro idee nativiste [di Motoori Norinaga, Hirata Atsutane e dei loro seguaci] la “separazione dei buddha dai kami” (shinbutsu bunri), la “purificazione” dei riti, dei templi e dei sacerdoti correlati con i kami (e quindi con l'imperatore). I riti e gli insegnamenti che essi promossero divennero presto noti come shinto e furono spiegati sia ai giapponesi, sia ai forestieri come pratiche indigene onorate da tempo. Così la purezza e la sincerità espresse tramite l’obbedienza generosa al volere degli dei (e di conseguenza all’imperatore del Giappone, considerato come discendente diretto dalla dea del sole Amaterasu) furono strombazzate come la quintessenza delle virtù giapponesi: un’acritica semplificazione che favorì la nascita del fascismo in Giappone e servì assai bene la propaganda del tempo di guerra. In breve, l’intuitiva, estetizzante versione della venerazione dei kami di Motoori (Norinaga) alimentò lo sviluppo del culto nazionale di un’innata sensibilità – ciò che ora chiamiamo shinto – che da allora è stata utilizzata per spiegare il Giappone (ibid.). Secondo Thal, negli ultimi due decenni circa lo studio critico dello Shinto ne ha portato alla luce lo sfondo storico e il lavoro di Helen Hardacre, Shinto and the State, 1868-1988 (Princeton University Press, 1989) è diventato un classico sull’argomento. Come spiegano questi autori, sia nella Nanzan Guide, sia nel numero speciale di “Religious Studies Review”, una delle più importanti interpretazioni della storia religiosa giapponese è una riflessione critica intorno allo shinto ed ai suoi rapporti con il buddhismo che mette in guardia contro una proiezione capovolta della moderna comprensione dello shinto nei confronti della sua storia più antica, in modo anacronistico (per usare il termine di Bodiford). Come è stato sottolineato, l’era moderna a partire dal 1868 ha prodotto una situazione completamente nuova nella storia religiosa del Giappone. Per riflettere su questa nuova situazione nel Giappone moderno, ci occuperemo nel prossimo paragrafo del lavoro di uno storico: Yasumaru Yoshio. Rivalutazione di Yasumaru Yoshio La seconda edizione di Sources of Japanese Tradition, vol. 2: 1600-2000, compilata da W. Theodore de Bary, Carol Gluck e Arthur E. Tiedemann, venne pubblicata nel 2005. Essa contiene un estratto intitolato National Religion, the Imperial Institution, and Invented Tradition: The Western Stimulus, scritto da Yasumaru Yoshio. Il suo saggio, citato in Sources of Japanese Tradition, apparve per la prima volta nel 2000, in un libro dal titolo: Canon and Identity. Japanese Modernization Reconsidered: Trans-Cultural Perspectives, a cura di Irmela HijiyaKirschnereit. I temi di questo libro si basano su un convegno tenuto a Berlino nel 1995, avendo la curatrice come organizzatore. L’estratto presente in Sources of Japanese Tradition è troppo breve per esprimere chiaramente le ricche idee dell’autore, ma Yasumaru Yoshio (n. 1934) merita una speciale attenzione da parte nostra quando ci accingiamo a ripensare la moderna storia religiosa del Giappone. Yasamaru aveva pubblicato i suoi lavori regolarmente negli ultimi quarant’anni nel campo della storia moderna giapponese, dirigendo la sua attenzione non soltanto sulla cultura popolare, ma anche sulla religione del popolo. In aggiunta alla recente pubblicazione nel 2007 di una nuova collezione di saggi, Bunmeika no Keiken: Kindai Tenkanki no Nihon [Esperienze di transizione verso la civiltà: il Giappone nel periodo d’ingresso nella modernità], alcuni tra i suoi primi lavori sono stati ristampati uno dopo l’altro in Giappone in una nuova edizione economica che gli ha fatto guadagnare nuovi lettori. Molti convegni accademici si sono tenuti dopo la pubblicazione di Bunmeika no Keiken per riflettere sui successi universitari di Yasamaru nel loro complesso (ad es. uno nel gennaio 2008 presso il Nanzan Institute for Religion and Culture, un altro nell’ottobre 2008 presso l’International Center for Japanese Studies). Ci sono buone ragioni per tentar di rivalutare le sottili interpretazioni della moderna storia religiosa giapponese che si trovano nell’ultima parte di questo saggio. Uno degli interessi costantemente perseguiti da Yasumaru è quello diretto alla formazione della moderna istituzione imperiale e al cosiddetto shinto di Stato da un lato e, dall’altro, ai fenomeni di reazione o di opposizione, dove le energie creative popolari si sono espresse in forme diverse nel loro modo di pensare e di credere. Yasumaru considera la formazione e lo sviluppo dello shinto di Stato come la versione giapponese di trasformazioni ideologiche dei moderni stati-nazione: il caso giapponese può essere collocato nel contesto della formazione di un moderno stato- nazione sotto la pressione delle potenze occidentali [Yasamaru 2007, p. 141]. Nel seguito riassumerò alcune argomentazioni di Yasumaru presenti nel saggio prima citato, con particolare attenzione alla trasformazione politico-religiosa del Giappone moderno e, in aggiunta, allo shinto nel contesto di tale trasformazione. Nel saggio National Religion, the Imperial Institution, and Invented Tradition: The Western Stimulus, Yasumaru prima cerca di spiegare il fattore religioso nella moderna monarchia giapponese, il sistema imperatore, nel modo seguente: Nel periodo Tokugawa, almeno tra le élites dominanti nelle sfere politiche e culturali, prevalse la razionalità. L’emergenza di un culto irrazionale dell’imperatore e dell’esaltazione di un regime politico mistico nel tardo XVIII° secolo a prima vista potrebbe sembrare una battuta d’arresto intellettuale. Ma al tempo della grande transizione, la cosmologia religiosa è un vitale meccanismo di mutamento che riorienta il sistema (una “piattaforma girevole”, per usare un termine weberiano). [Yasumaru 2000, p. 170] Specialmente nel periodo di transizione verso la modernità in Giappone, non solo il cristianesimo (che era stato soppresso sin dal XVII° secolo), ma anche la setta Fuju Fuse (un ramo del Nichiren) e la Kakure Nenbutsu (una branca del buddhismo della Terra Pura), furono vietati per secoli e considerati come una minaccia per lo shogunato, ma anche la religione popolare fu vista come un pericolo latente per l’autorità dello stato. Scrive Yasumaru: I gruppi religiosi avevano l’energia o il potenziale di gettare le istituzioni nel caos. Il sistema politico nazionale e il sistema dell’imperatore - la cosmologia dell’ordine - assunsero un carattere altamente ecclesiastico poiché il caos poteva presentarsi in forma religiosa. (p. 171) La spiegazione di Yasumaru procede verso la Restaurazione Meiji, che fu intesa come tale perché «la norma imperiale implicava un ritorno al governo iniziato dal leggendario imperatore Jinmu» (p.173). In questa Restaurazione «furono adottati un unico sistema politico nazionale e il rituale shinto», mentre «un men che ventenne [imperatore Meiji] divenne un’autorità sacra che aveva ereditato gli spiriti dei suoi antenati divini: un carisma istituzionalizzato» (p. 174).Così continua il nostro autore: Il governo rilanciò un’idea antica, l’unità del rituale religioso e dell’amministrazione governativa [siasei itchi], e designò dei proponenti del Partito Nazionale e degli shintoisti, elemento assai minoritario nella lotta anti-shogunato, a creare questa maschera ideologica. (ibid.) Nel 1871 il governo Meiji abbandonò l’idea di stabilire uno stato religioso con l’unità dei riti e dell’amministrazione, «ma procedette facendo dello shinto la religione nazionale, la quale lottò meno contro l’introduzione della civiltà occidentale che contro uno stato teocratico» (ibid.). Perciò ne seguì l’istituzionalizzazione di santuari come sistema nazionale e l’insieme dei riti shinto come riti della famiglia imperiale. Yasumaru ricorda che «dopo il 1880 i rapporti tra lo stato e i santuari furono ridotti e il Giappone diventò una nazione secolare con meno sfarzi religiosi. Ma i santuari Shinto continuarono a fornire il loro supporto ideologico al sistema politico nazionale e all’istituzione imperiale» (ibid.). La Restaurazione Meiji introdusse una varietà di riforme, ma anche il governo cercò di mantenere l’ordine e l’identità sociali. Continua Yasumaru: Precisamente poiché erano necessari mutamenti rivoluzionari, l’ordine fu imprescindibile, un paradosso concentrato nell’istituzione imperiale. Creando una peculiare identità nazionale, il sistema imperiale permise a uno stato non-europeo partito in ritardo di entrare nel moderno sistema capitalistico. L’identità fu autenticata dalla devozione all’antica tradizione, l’ininterrotta linea dinastica dell’imperatore. (p. 178) Yasumaru nota tuttavia che «in effetti l’istituzione imperiale era già cambiata, e l’imperatore Meiji rappresentava un leader carismatico, costruttore di uno stato illuminato» (ibid.). Qui, nell’esempio del moderno stato imperiale, in aggiunta agli altri aspetti dello shinto moderno, come Yasumaru sembra suggerire, possiamo vedere casi giapponesi di “invenzione della tradizione”, secondo la nota espressione di Eric Hobsbawm (p. 180). Conclusione Anche se sono state effettuate importanti ricerche sulla preistoria della disciplina accademica relativa agli studi religiosi prima del Giappone Meiji, possiamo affermare che studi veri e propri si sono avviati nel corso dell’era Mejij, quando il concetto stesso di religione cominciò ad essere fissato nell’ambito accademico e nel contesto intellettuale del Giappone. Tale concetto tuttavia, non importa come esso possa essere definito, ha ripreso e mantenuto una connotazione occidentale derivante dal cristianesimo, o meglio dal protestantesimo, ancora oggi. Ciò potrebbe far sentire qualche giapponese imbarazzato quando si occupa seriamente della religione, dal momento che il cristianesimo non è la religione della maggioranza dei giapponesi, e qualcosa di associato al cristianesimo, sia pure in modo leggero, sarà sempre loro estraneo. Le istituzioni giuridiche e politiche del Giappone moderno, in gran parte introdotte dall’Occidente, hanno cercato di collocare la religione nel contesto giapponese, ma questo tentativo stesso si è spesso risolto in un progetto maldestro, specialmente in relazione ai rapporti tra religione e politica. Così sia il moderno sistema imperiale, sia lo shinto moderno hanno presentato se stessi come delle sfide all’attuale comprensione giapponese della religione e della politica. Questo saggio ha cercato di illustrare, sulla base di indagini recenti, come la riforma istituzionale del 1868, che costruì il moderno sistema imperiale da un lato e tentò di separare artificialmente il buddhismo e lo shinto dall’altro, abbia portato a dei mutamenti nell’interpretazione giapponese della religione, le cui conseguenze sembrano ora collocarsi al di là della nostra comprensione. Un’ulteriore analoga trasformazione nella comprensione giapponese della religione può essere colta nella riforma successiva al secondo conflitto mondiale. La storia religiosa che si colloca tra il 1868 e il 1945 dovrà essere dunque un importante argomento che vale la pena riprendere in considerazione da parte degli studiosi il cui interesse sia rivolto non soltanto alla moderna storia religiosa del Giappone, ma di ogni altra regione. NOTE 1. Nel titolo uso intenzionalmente il termine “Storia delle Religioni” allo scopo di evidenziare il suo duplice significato: uno come disciplina accademica di studi religiosi in generale, l’altro come storia religiosa in quanto oggetto di studio. 2. L’Editto Imperiale sull’Educazione fu emanato nel 1890, l’anno successivo alla promulgazione della Costituzione dell’Impero del Giappone, altrimenti nota come Costituzione Meiji. Per la traduzione inglese del testo dell' Editto Imperiale sull’Educazione, vd. Mullins, Shimazono e Swanson 1993. 3. Fujiwara accenna pure al ruolo sociale degli studiosi della religione intorno al 1930 e oltre; uno di contrasto ai movimenti antireligiosi ispirati al marxismo, l’altro in favore dell’imperialismo e del colonialismo giapponese, sia tramite la Kyioto School of Philosophy, sia con gli studi etnografici nelle nuove colonie in Asia (p. 8777). 4. Proprio di recente Fujiwara ha ripreso lo stesso tema in un capitolo dedicato agli studi sulla religione giapponese, nel volume intitolato Religious Studies: A Global View, edito da Gregory D. Alles. Il capitolo infatti sembra una versione rivista e ampliata del suo precedente articolo che abbiamo preso in esame, ma contiene dati esplicativi basati sulle sue ricerche, in aggiunta alla concreta informazione sugli studiosi giapponesi e suoi loro risultati. 5. Potrebbe essere non appropriato dire che la Nanzan University promuova il dialogo interreligioso, ma il Nanzan Institute ha assunto la promozione di tale dialogo tra i suoi obiettivi. L’autore del presente contributo è stato affliato presso il Nanzan Institute come ricercatore sin dal 1998. 6. I testi originali contengono caratteri cinesi e lettere giapponesi per indicare nomi propri o importanti concetti, ma in questa sede cito soltanto i testi scritti in lettere latine, omettendo gli altri. 7. I testi recensiti sono i seguenti: Inoue Nobutaka (ed.), Shinto. A Short History, tradotto e adattato da M. Teeuwen e J. Breen, Routledg Curzon, London 2003; M. Teeuwe e F. Rambelli (ed.), Buddhas and Kami in Japan: Honji Suijaku as a Combinatory Paradigm, Routledge Curzon, London 2003; T. P. Kasulis, Shinto: The Way Home, University of Hawaii Press, Honolulu 2004; Stuart D. B. Picken, Sourcebook in Shinto: Selected Documents, Resources in Asian Philosophy and Religion, Praeger Publishers, Westport, CT 2004. BIBLIOGRAFIA • W. M. Bodiford, The Medieval Period: Eleventh to Sixteenth Centuries, in Swanson and Chilson 2006, pp. 163-183. • S. Fujiwara, Study of Religion: The Academic Study of Religion in Japan, in L. Jones (ed.), Encyclopedia of Religion2, Detroit, MI, vol. 13, pp.8775-80. • Eadem, Japan, in G. D. Alles (ed.), Religious Studies: A Global View, Routledge, London & New York 2008, pp. 191217. • H. Hardacre, Shinto and the State, 1868-1988, Princeton University Press, Princeton, NJ, 1989. • I. Hijiya-Kirschnereit (ed.), Canon and Identity. Japanese Modernization Reconsidered: Trans-Cultural Perspectives, Deutsches Institut für Japanstudien, Berlin-Tokyo 2000. • M. R. Mullins, S. Susumu, P. L. Swanson (eds.), Religion and Society in Modern Japan, Asian Humanities Press, Berkeley, CA, 1993. • P. L. Swanson, C. Chilson (eds.), Nanzan Guide to Japanese Religions, University of Hawaii Press, Honolulu 2006. • S. Thal, Shinto: Beyond "Japan's Indigenous Religion", "Religious Studies Review", 32/3, July 2006, pp. 145-150. • Y. Yasumaru, National Religion, the Imperial Institution, and Invented Tradition: The Western Stimulus, trad. da F. Baldwin, in Hijiya-Kirschnereit 2000, pp. 167-181. • Idem, Bunmeika no Keiken: Kindai Tenkanki no Nihon [The transitional experiences toward civilization: Japan around the turn into modernity], Tokyo 2007. • K. Yoshida, Religion in the Classical Period, in Swanson and Chilson 2006, pp. 144-162.