heine jaubert

Transcript

heine jaubert
HENRI HEINE . 1
Il signor Heine e il signor Gerusez sostenitori di Alfred de Musset. ­ Lettera d'accompagnamento al libro del signor Heine sulla Germania, a C.J. ­ Due biglietti di scuse. ­ La principessa di Belgiojoso. ­ Victor Cousin. ­ Il compositore Bellini. ­ Jettatura. ­ Cavolfiore e ambrosia. ­ Malitourne dalla parte di J.­J. Rousseau. ­ La signora Heine. ­ Un'ultima visita. ­ Una voce da piccola selvaggia. ­ Su Théophile Gautier e Gérard de Nerval. ­ La signora Kalergis. ­ L'Éléphant blanc. ­ Lettera di Heine. ­ La fatina. ­ Béranger. ­ Un epiteto equivocato. ­ Moribondaggio e gelosia. ­ I signori Thiers, Guizot e Cousin in sogno. ­ Augustin Thierry. ­ La piccola Véronique. ­ Orazione funebre per il pappagallo. ­ La crisi fatale. ­ La donna nera e l'angolo divino.
Durante un ballo dato a Parigi nell'inverno 1835 mi fu presentato Henri Heine. All'epoca parlava francese con qualche difficoltà, pur esprimendo il suo pensiero in forma spiritosa; coi capelli d'un biondo caldo, tagliati diritti, un po' lunghi, sembrava più giovane della sua vera età, che mi disse scherzando. “Io sono”, mi disse, “il primo uomo del mio secolo”. Nel corso di una vivace conversazione, mi confessò quanto lo infastidisse essere il continuo oggetto della nostra ammirazione francese, che lo poneva allo stesso livello di Goethe, Byron o Victor Hugo. Sicché, scorgendo Alfred de Musset in mezzo a un gruppo di valzatori, disse: “Non capisco nulla dei Parigini; a sentirvi parlare di poesia, vi si crederebbe cultori sfrenati, ed ecco là un poeta per eccellenza, che vi appartiene per diritto di natività... Ebbene, devo dire che, nel buon mondo, è sconosciuto quanto potrebbe essere un poeta cinese!”
A quell'altezza, la critica era fondata; solo la Ballata alla Luna e la Canzone della marchesa andalusa, di Alfred de Musset, costituivano tutto il bagaglio letterario dei salotti, in base al quale il giovane scrittore era preso in giro, giudicato, valutato. Ricordiamo ancóra lo sbalordimento generale quando, una sera, in mezzo ad una trentina di persone riunite a casa mia, il signor Geruzez, professore supplente del signor Villemain al corso di letteratura della Sorbona, prese spontaneamente le difese del nuovo poeta e spinto dall'entusiasmo recitò la bella tirata del duello dal Don Paez, una delle prime poesie di Alfred de Musset, che comincia con questi versi:
Tal d'estate si vedono sopra l'erbe falciate
Due lupe che calpestano le foglie disseccate,
Muso a muso fermandosi, mostrandosi le zanne...
Dopodiché il signor Geruzez analizzò, col connaturato acume fine e delicato unito all'autorità del suo sapere, la bellezza di questa poesia, giungendo a dire: “È un astro che sorge”.
Il fortunato incontro con Heine non rimase senza conseguenze. Ricevetti da lui la lettera seguente:
Ho l'onore, signora, di inviarvi allegato il mio libro sulla Germania. V'invito a lèggere la sesta parte; vi tratto delle ondine, delle salamandre, degli gnomi e delle driadi. Sono consapevole che le mie conoscenze in questo campo sono molto limitate, benché abbia letto, nell'idioma originale, le opere del grande Aureolo, Teofrasto, 1 Da: Caroline Jaubert, Souvenirs de Madame Jaubert. Lettres et correspondances. Troisième édition. Hetzel, Paris [1881], pp. 283­320. Tutte le note sono dell'autrice.
Paracelso, Bombasto di Hohenheim. Ma quando ho scritto il mio libro, non avevo mai visto questi spiriti elementari; dubitavo persino che fossero altro che prodotti della nostra immaginazione, e che non abitassero gli elementi, ma solamente il cervello dell'uomo... ; tuttavia, dall'altrojeri, io credo alla realtà della loro esistenza. … Il piede che ho visto l'altrojeri può appartenere solo ad uno degli esseri fantastici di cui ho parlato nel mio libro; sarà forse il piede di un'ondina? ­ penso che sia lùbrico come l'onda, e che sarebbe capace di danzare sull'acqua;
O appartiene ad una salamandra?
“Non fa freddo” disse Joseph Marteau a Geneviève, quando il piede della bella fioraja diede fuoco alla sua immaginazione2. Forse è il piede d'uno gnomo, ­ è abbastanza piccolo, minuto, fine e delicato per questo – o il piede di una driade? La dama è davvero così eterea, così fatata... Sarà buona o cattiva?
Non ne so nulla; ma questo dubbio mi tormenta, m'inquieta, mi pesa. È vero! Non sto scherzando. Vedete, signora, che i miei progressi nelle scienze occulte non sono ancóra tali da fare di me un gran mago; sono solamente il vostro umilissimo e obbedientissimo servitore. HENRI HEINE.
Addì 22 aprile 1835.
Il finale di questa lettera, in cui Henri Heine esprimeva in forma di dubbio la sua inquietudine a riguardo della mia bontà, mi fece sorridere, ciò che era dovuto alla prima impressione lasciatami da lui, quella di mancare proprio di questa preziosa qualità; che non esclude affatto la malizia, la quale dovrebbe considerarsi come il balocco dello spirito. Frequentemente confermata dalle sue affermazioni, quest'impressione impedì a lungo alla mia amicizia di rispondere alla sua. Tuttavia il fascino esercitato dalla sua immaginazione, il divertimento suscitato dal suo spirito rendevano piacevolissima la sua presenza nei piccoli ricevimenti; trascinava, brillava; il suo spirito, con quel che di bisantinato, diventava un elemento prezioso; spesso gli chiedevo di aggiungersi ai miei convitati, quando potevano piacergli; portava con sé un'amabile inappuntabilità in tutti i rapporti di società. Se era aspettato ed era impedito, una parola di scusa vi avvertiva in tempo. Per mostrare quale fosse la cifra della sua maniera informale, copiamo qui di séguito due biglietti presi a caso:
Signora, Vedo con gran piacere che vi ostinate a non dimenticarmi. Ve ne ringrazio; ma non sapete, allora, che sono morto da molto tempo?
Questo non m'impedirebbe di venire a cena da voi oggi, dato che la mia spoglia mortale mi è sopravvissuta; ma soffro in questo momento dei postumi d'un'emicrania assai fastidiosa. Non posso venire, e siate persuasa che mi dispiace molto; sapete che cosa sia l'emicrania, questo piccolo inferno che sta nel cervello.
Verrò, signora, di questi giorni a ringraziarvi di persona. Nell'attesa, prego gli dèi immortali di prendervi nella loro santa e degna guardia. Di lunedì mattina. HENRI HEINE.
Fatina! Da quel giovane stordito che sono, mi sono dimenticato jeri che m'è necessario tornare oggi a Montmorency; dunque non potrò cenare con voi, e vi rivedrò solamente a Marly, dove andrò probabilmente sabato. Direi una grossa menzogna, 2 George Sand, Roman d'André.
se dicessi che il piacere che ogni volta risento nel rivedervi non sia di quelli che mi rendono la vita un po' sopportabile. Di mercoledì mattina.
Vostro devotissimo,
HENRI HEINE.
Nella campagna di Marly, si sappia per quanto riguarda questo biglietto, risiedeva la principessa di Belgiojoso, presso cui pure ci incontrammo sovente. Henri Heine ammirava molto il tipo di bellezza di lei, nel contempo strano e classico, e la sua intelligenza vivace e seria, il suo spirito appassionato e pungente. Questa ricca natura, fatta di forti contrasti, sconcertava l'osservatore. Pronto agli entusiasmi, lo spirito della principessa era troppo penetrante perché non fosse spesso obbligata a tornare sui proprî passi. A questo proposito, il poeta tedesco si era provato a prenderla un po' in giro, opponendosi ad oltranza alle argomentazioni della bella Milanese. Ma la replica, scoccata senza perifrasi, lo distolse assai presto da questa velleità. Da quel momento preferì discutere o armeggiare con quelli che il caso portava di volta in volta – letterati, accademici o filosofi – nella cerchia della signora di Belgiojoso. Tra questi si trovava Victor Cousin, al quale allora Henri Heine era molto ostile. Era un finto pensatore, sosteneva, che si parava con le piume di tutti i filosofi tedeschi. Non perdeva occasione di farglielo presente. Quando, portatovi dalla conversazione, Cousin cominciava ad esporre il proprio pensiero, Heine lo interrompeva: “Lo so, lo so che cosa volete dire: è la teoria di Fichte, che fu proseguita da Schelling”, e attaccava una controversia come se si stesse rivolgendo allo stesso filosofo che aveva individuato. Una o due interruzioni altrettanto spiacevoli smorzavano gli entusiasmi a Cousin, che rinunciava, preferendo a quel pugilato filosofico l'auditorio plaudente al quale era abituato.
Una volta padrone del campo, il poeta lasciava emergere il carattere germanico, trasparente dall'insistenza con la quale si ostinava nell'attaccare. Questo spirito che per il tratto incisivo, piacevole e sciolto è stato con ragione tante volte paragonato a quello di Voltaire, nella conversazione non aveva sempre una leggerezza di tocco veramente francese; egli non era capace di abbandonare un argomento, ma vi s'incaponiva. Così, per continuare il suo attacco contro Cousin, stabiliva tutt'a un tratto un parallelo col signor Mignet, opponendo ai plagî dell'uno, su cui si dilungava malignamente, l'onestà, la dirittura coscienziosa, il talento di nobile lega dello storico. “Costui non nasconde mai le fonti da cui trae! E finalmente! Ecco uno scrittore! Vero, giusto, sobrio, una bell'anima!”
Dopo quest'elogio sincero, la solita punta beffarda tornava a far capolino:
“Sì, dico: una bell'anima! Dotata di quella particolare bellezza così ben confacente alle donne, perché si manifesta nella purezza dei lineamenti del viso; salta agli occhî, si può dire, parla tutte le lingue, costituisce un'anima cosmopolita!”
Ma una vittima sulla quale la malizia di Henri Heine si esercitava con vero trasporto era l'affascinante compositore Bellini, come lui nel novero dei visitatori che dimoravano talvolta in campagna presso la principessa di Belgiojoso. ­ Biondo, bianco e roseo, e buon ragazzo, dalla parlata e dalle maniere infantili, al giovane maestro, allora all'apogeo della sua gloria, festeggiato, adulato dalle più graziose donne di Parigi, insomma alla moda, poteva attagliarsi questo verso della Giovane prigioniera:
Tutto negli occhî ho splendido il mio saluto al giorno.
Dato che la sua esistenza scorreva così nella bambagia, le beffe gli erano tanto più sensibili. Per sua disgrazia, aveva ingenuamente confessato di essere molto superstizioso. Ora, il nostro poeta tedesco per riposare la vista già indebolita portava spesso gli occhiali, ciò che si trovava a soddisfare ad una delle condizioni essenziali dello jettatore. Bisognava vederlo mettere alla prova la debolezza manifesta del giovane Italiano, e tutte le smorfie mefistofeliche con cui gli faceva questa piccola guerra; quando la mattina, in campagna, giocavano al biliardo uno contro l'altro, con la mano libera il pauroso maestro faceva continuamente le corna nel tentativo di scongiurare gli spiriti maligni; Heine, che malgrado le sue precauzioni se ne accorgeva, si compiaceva moltissimo della paura che ispirava, e, continuando il suo ruolo:
“Sì, sì”, diceva, “tirate al boccino, carambolate, godete, vivete in fretta, mio caro amico: il vostro immenso genio vi condanna a morire giovane, giovanissimo, come Raffaello, Mozart, Gesù...”.
“È orribile! Non dite cattiverie” protestava Bellini, “non parlate della morte. ­ Principessa! Impediteglielo”. Inutilmente la signora di Belgiojoso rispondeva all'appello; col pretesto di spiegarsi, il poeta continuava l'attacco:
“I miei timori sono probabilmente chimerici. ­ Quanto a voi, Principessa, siete ben sicura che un nuovo genio si sia rivelato?”
E come ultimo sberleffo aggiungeva:
“Del resto, non conosco una nota delle opere del vostro affascinante compatriota; come vedete, la mia minaccia è senza séguito”.
Poi, rivolgendosi a Bellini:
“Speriamo, mio caro amico, che ci sia dell'esagerazione nella reputazione che vi siete fatto nel bel mondo. Il vostro viso da cherubino rassicura il mio cuore sulla vostra sopravvivenza”. Tuttavia il maestro non aveva gradito questo umorismo funebre, e ne serbò rancore. Fu nell'intento di una riconciliazione che pensai di farli incontrare nuovamente da me, con la principessa di Belgiojoso e alcuni amici.
Il giorno indicato, sonata l'ora di cena, Bellini non arrivava. Lo jettatore gli fa proprio paura, ci dicevamo ridendo. La porta si apre, è lui! No; è un biglietto, in vece sua, col quale l'autore dei Puritani esprime un vero dispiacere, ma è troppo malato e non può unirsi a noi. “Sono preoccupata”, disse la Principessa, “per rinunciare il mio povero Bellini deve sentirsi davvero male. Non vedeva l'ora di venire a questa cena”.
Anch'io me ne dolevo, rileggendo il biglietto.
“Ecco come sono le donne”, disse Heine; “preoccuparsi per un bollettino medico scritto dal malato stesso, e su carta filigranata giallina! Mi permettete di leggerlo?
“Ebbene, secondo me non si può lèggere nulla di più rassicurante: caratteri torniti, carta profumata; dal tono delle doglianze, si direbbe che siano state tracciate con una canna da zucchero... E sarebbe un grande compositore, quello che ha confezionato questo biglietto? Crederei piuttosto che sia opera del giovine Werther, che s'è disimpegnato per tenere compagnia alla sua Lolotte”.
E, su questo commento, ebbe un grande scoppio di risa, tanto lo divertivano le sue stesse malignità.
Quattro giorni più tardi Bellini era morto, portato via da una specie di colera. Ricevendo la notizia di bocca di qualche nostro amico, Heine disse con un sorriso: “Come avevo previsto!”
Sosteneva con fatuità il suo ruolo di profeta3.
Uscite di questo genere mi rendevano diffidente; solo lo spettacolo delle sue sofferenze, la costanza eroica con la quale le sopportava poterono forzarmi all'amicizia. Né potei rimanere indifferente al piacere che gli destava la mia presenza, mentre, confinato in letto in condizioni miserande, rifiutava di ammettere la gran parte dei visitatori; alla lunga divenni ancor più indulgente, constatando che diceva spesso malignità senz'altra intenzione che di dirle, e non con l'intenzione di nuocere. I primi preannuncî della paralisi si presentarono a Heine due o tre anni prima di afferrarlo completamente; parlava del suo male in modo scherzoso; come avremmo potuto, noi, prenderlo sul serio?
“Perdo la vista”, diceva, “e questo mi farà solo cantare meglio, come l'usignolo”.
Un'altra volta, dopo mille battute di spirito, annunciò che il muscolo facciale dal lato destro stava impigrendo in modo deplorevole.
“Ahimè!” diceva, “ormai posso solo masticare da un lato, piangere da un occhio solo! Sono ridotto a una metà d'uomo. Non posso esprimere l'amore, posso solo piacere dal lato sinistro. O donne! D'ora in poi avrò diritto solo alla metà d'un cuore?”
Tutto questo, accompagnato da un tono tragicomico, lasciava credere a nojaltri convitati che era solamente un tema sul quale la fantasia del poeta si esercitava. Tuttavia il tempo scorreva, e presto si dovette constatare che la palpebra andava abbassandosi sull'occhio destro e che dallo stesso lato la faccia era diventata immobile, ciò che formava un singolare contrasto con la fisionomia vivace del lato sinistro. Con questo doppio aspetto, la sua faccia sembrava esprimere un'interiorità perfettamente divisa tra la prosa e la poesia. Era proprio così, e nella conversazione egli ne forniva la costante conferma. Mi ricordo come un giorno, stimolato indubbiamente dalla presenza di Malitourne, uomo di lettere e di spirito, aveva, con immagini enfatiche e poetiche, idealizzato il suo argomento; stavamo ascoltando vivamente interessati quando, con brusco scarto, si mise a involgarire tutto il discorso con paragoni grotteschi. Indignata lamentai:
“Ma si potranno creare simili incanti per poi distruggerli? Per avvilirli?”
“Mia cara amica, un cavolfiore innaffiato d'ambrosia; questa è la mia impresa!”
Uno scoppio di risa accompagnò questo dardo scagliato contro sé stesso, riso al quale Malitourne aggiunse volentieri il proprio.
“Ebbene”, ripresi, “se ho risentimento per il poeta, non ne ho per il comune mortale, e gli chiedo di trovare un'intesa col signor Malitourne affinché si ritrovino insieme a tavola davanti ad un cavolfiore con le sponde”.
“Ahi, ahi, la mia salute!” gemette Heine; “uscire di sera, vestirmi, in questo momento è al disopra delle mie forze”.
“Venite in veste da camera!”
“No, Signora, non mi vedrete mai vestito da Armeno, come Jean­Jacques Rousseau, per attirare gli sguardi”.
A queste parole, fattosi rosso cremisi, levandosi dritto sulla sedia come per lo scatto di una molla, Malitourne, con voce stridente, rivolgendosi al poeta:
“Signore”, disse, “solo quelli che soffrono dello stesso male di Jean­Jacques hanno il diritto di giudicare il suo comportamento; dirò di più: solo quelli attinti 3 V. edizione Lévy, 1856, le Notti fiorentine. La serata, quale Henri Heine la ricorda, risaliva a due mesi prima della fine di Bellini, ma il tempo dalla morte è stato abbreviato a fini artistici: d'altra parte queste del poeta non sono né confessioni né memorie, ma squisite fantasie, in cui si coniugavano e confondevano realtà e fantasia.
da quel male hanno il diritto di lèggere le Confessioni!...”.
Poi, tutto agitato, tornò a sedere.
Che buffa espressione aveva assunto Henri Heine durante quest'uscita singolare; gli angoli della bocca abbassati, naso all'aria, guardando da sotto attraverso le lenti bluastre!
Si alzò a sua volta:
“È un'opinione di cui farò conto”, disse, salutandoci, “appena arrivo a Montmorency passo a lasciare il biglietto da visita all'Ermitage”.
Qualche anno più tardi la morte di Malitourne pose il suggello a questo episodio singolare. Attinto in effetti dalla stessa malattia di Rousseau, tra crudeli sofferenze giunse a tali squilibrî d'intelletto e tali bizzarrie che dovette terminare i suoi giorni in una casa di cura.
Come ho già accennato, i sintomi della paralisi in Heine diventavano ad ogni incontro più vistosi. Non era più possibile farsi illusioni sull'avvenire che incombeva su lui. Mi confortava allora il pensiero che fosse sposato, benché questo matrimonio sarebbe parso stravagante a chi considerasse le condizioni in cui era stato contratto.
Nel 1835 o nel 1836, una delusione d'amore fece conoscere agli amici del poeta il suo attaccamento, il suo legame con una giovane e graziosa operaja, e la rottura di quest'unione in séguito ad un violento accesso di gelosia. Ne parlava col primo venuto, in luogo di confidare prudentemente la sua pena agli alberi e alle mute rocce, secondo l'uso antico. Voleva darci conto esatto del suo dolore, noi non si credeva che fosse rimasto così scosso. Gli si ricordavano le sue stesse parole: “La farfalla non domanda al fiore Hai già ricevuto i bacî d'un'altra farfalla?, e questo non le risponde Hai già volteggiato intorno a un altro fiore?”.
Tuttavia, non volendo morire di dolore, ma anzi guarirne, si applicava assiduamente a trovare un altro amore. Ma poteva piacere a qualcuna, continuando a ricordare la donna che rimpiangeva, la sua piccola? Si finiva coll'imporgli il silenzio. Pose fine a questa crisi amorosa il fatto che, non potendo disabituarsi né consolarsi, dopo diversi mesi di separazione i due si ricongiunsero. Chi dei due aveva perdonato l'altro? Venni a sapere al tempo stesso che aveva messo la giovane in collegio. Questo tentativo d'educazione mi parve indicare che, nel suo cervello, cominciasse ad agitarsi un primo pensiero di matrimonio: sicché non fui oltremisura sorpresa quando più tardi fui messa da lui davanti al fatto compiuto. Credette doverlo presentare come un caso di coscienza; alla vigilia d'un duello, aveva ritenuto che un galant'uomo dovesse farsi un dovere dell'avvenire della piccola. A questo fine, lo scontro alla pistola fu rimandato a sùbito dopo la celebrazione del matrimonio. Tutto questo fu raccontato con un certo sforzo, che contrastava con la sua abituale disinvoltura. Ma qual è l'uomo che non dà segno di qualche imbarazzo annunciando di aver appena impegnato la propria libertà? Non feci nessuna domanda, non diedi segno di alcuno stupore, e gli chiesi sorridendo il permesso di annunciare quest'avvenimento a Rossini, che ne sarebbe stato particolarmente lieto.
“E perché?”, interrogò Heine con aria circospetta.
“Per spirito di corpo, senza dubbio”, gli risposi; “egli si compiace di avere illustri confratelli. Qui stesso, pochi giorni fa, sentendomi nominare la signora Berryer, mi domandò tutto sorpreso: Ma come? Forse il mio amico Berryer è sposato? ­ Veramente sì, gli risposi, e da parecchî anni, con una donna deliziosa. Allora il gran maestro, pieno di gioja, esclamò: Che felicità! Pensare che anche lui possiede una legittima moglie, una sposa legittima! Proprio come me! Ecco un'idea che mi dà altrettanta soddisfazione della vista di un piatto d'eccellenti maccheroni!”
“Ebbene”, rispose sostenutamente Heine, “aggiungiamo alla sua felicità quella di sapere che sono ormai esposto, come lui, a tutte le intemperie del matrimonio; e lo metta in musica, mentre io ci farò dei versi. E sappia anche che è colla pistola alla tempia che è stata decisa la mia felicità”.
Tornò quindi all'argomento del duello, dove il suo avversario era un Tedesco. Diede un'incantevole descrizione del luogo in cui il combattimento aveva avuto luogo, e della singolarità del suo stato d'animo.
“Il cielo era così sgombro, così azzurro! Tutti i meli in fiore! Intorno a me spiravano profumi campestri che centuplicavano la mia vitalità; rivolsi un'invocazione a Flora e Pomona. In faccia alla morte, tutto il mio paganesimo m'è ritornato in cuore. Dio senza dubbio non ha voluto che fossi colpito da una palla nel momento in cui altro non avevo in testa che le bellezze di questo mondo... quelle che parlano ai sensi”. Ahimè! Povero poeta! È vicino il momento in cui ritroverai solo in sogno gli splendori della natura dai quali il tuo genio si sentiva così vivacemente stimolato.
Era trascorso un anno, durante il quale, assorbita da preoccupazioni familiari, avevo perso di vista qualunque altro interesse.
Ritrovato agio di distrarmi, diedi segni di vita a Henri Heine, e questo nella forma che poteva davvero toccarlo, mescolando il nome di sua moglie, della sua Juliette, al mio ricordo. Ecco la risposta che m'inviò:
Addì 13 aprile 1847.
Vi ringrazio, signora, delle vostre ultime letterine, e degli altri vostri confetti. Juliette, come avete previsto, ha divorato pressoché tutta la scatola. Quanto siete gentile!
Ho passato un inverno tremendo, e mi stupisco di non aver soccombuto. Sarà per un'altra volta.
Sono felicissimo di quello che mi dite della signora vostra figlia; ma da giovani ci si riprende presto. Tra pochissimo passerò da voi. Sono curioso di vedere com'è Mme de Grignan convalescente.
Dev'essere molto dimagrita, e la magrezza deve conferirle un fascino tutto speciale. Alla fin dei conti, la carne nasconde la bellezza, che si rivela in tutto il suo splendore ideale solo dopo che una malattia abbia animato il corpo; quanto a me, a quest'ora ormai adoneggio fino alla scheletritudine. Le donne belle si voltano, quando passo per strada; i miei occhî chiusi (l'occhio destro è aperto ormai solo per un ottavo), le gote incavate, la barba prolissa, il passo vacillante, tutto questo mi dà un'aria da agonizzante che mi sta a pennello! Vi assicuro, in questo momento come moribondo sto riscuotendo un successone. Mangio cuore; però non riesco a digerirlo. Al momento sono un uomo pericolosissimo, e vedrete come la marchesa Christine Trivulzi cadrà innamorata di me; sono proprio l'osso di morto che le ci vuole. Addio, buonissima e bellissima! Dio vi preservi dall'imbellire alla mia maniera. Vi raccomando alla sua santa e degna guardia.
HENRI HEINE.
Questa frecciata all'indirizzo della marchesa di Trivulzio4 circa il modo di piacerle era una piccola vendetta delle beffe con cui erano stati sempre accolti i pianti di Henri Heine sia a proposito della sua piccola, sia nel momento in cui pretese di trasformare l'ammirazione platonica di cui la principessa era oggetto in fiamma amorosa. Non senza gelosia egli vedeva il vivo interesse che destava in quel cuore 4 Nome di famiglia della principessa di Belgiojoso.
femminino lo spettacolo delle sofferenze fisiche, tra cui la disgrazia dell'illustre cieco Augustin Thierry, rimasto vedovo. Ella lo chiamava a sé e s'interessava dei suoi lavori storici con amicizia devota. Più tardi, per converso, Heine apprezzò vivamente questa carità amicale, e rimpianse spesso di esserne rimasto privo durante il lungo esilio in Oriente della signora di Belgiojoso. Prima di procedere, trascriverò una nota presa sotto l'impressione recente di una visita resami dal poeta malato in data 26 novembre 1847.
“Henri Heine è venuto a vedermi... vedermi? Ahimè! Le sue pupille paralizzate gli tengono gli occhî chiusi. Il male sembra peggiorare. Al suo povero corpo rimane solo il respiro, ma il suo spirito ha tutto il suo vigore. “Mi ha parlato della madre, che abita ad Amburgo. Le scrive tutti i giorni per rassicurarla, per quanto penoso gli sia questo cómpito date le condizioni della sua vista. Le gazzette tedesche hanno reso pubblico il male che l'ha colpito. Sicché Henri Heine ha escogitato di convincere la vecchia madre che farlo passare per moribondo fosse un'ingegnosa speculazione dovuta alla fantasia del suo editore. “Per quanto sia forte, ha aggiunto, jeri mi sono intenerito ricevendo una lettera di mia madre, che mi faceva sapere che ella ogni giorno manda grazie a Dio dal fondo del cuore per aver conservato la salute al caro figlio.
“E Dio accetta questo senza rimorsi! Ah! È proprio un Dio barbaro, questo, alla maniera degli Egizî. Una divinità della Grecia non tratterebbe mai così un poeta, lo colpirebbe col fulmine! Ma farlo morire miserabilmente, pezzo a pezzo...
“Quali pensieri destati da queste parole! Sicché un lungo silenzio è seguìto, dopodiché, continuando il pensiero ad alta voce, Heine riprese:
“Quel popolo egizio non conosceva le arti, né se ne curava... Per essere sincero, aggiungerò che attraverso tutta questa miseria fisica, nella solitudine, sono meno da compiangere di molti altri. Sento, non dico quel che valgo, ma quel che sono, ed esco di me stesso.
“Ebbene, domandai, dato che questa separazione tra materia e spirito vi si fa ogni giorno più sensibile, che piega stanno prendendo, allora, le vostre idee sull'immortalità o sul nulla?
“Heine esitò a lungo, al modo che testimonia una profonda incertezza. Poi, con un sospiro, rispose: “Eppure c'è un angolo di divino nell'uomo!”
Fu all'inizio del gennajo 1848 che Henri Heine mi rese l'ultima visita. S'era fatto portare a spalle dal domestico, dalla vettura al mio secondo piano. Dopo questo sforzo, appena deposto sul canapè del salotto, fu colto da una di quelle terribili crisi che sono continuate fino all'ultimo giorno: crampi che partivano dal cervello e si prolungavano fino alle estremità dei piedi. Questa sofferenza intollerabile era alleviata solamente da applicazioni di morfina. Gliene spargevano alcune moxa posate in successione e tenute ferme lungo la spina dorsale; più tardi è stato lui a rivelarmi il particolare spaventoso che era arrivato ad assumere di questo veleno calmante per cinquecento franchi in un anno. Durante la crisi di cui fui testimone involontaria, tutta tremante nel vedere tanta sofferenza, potevo solo ripetere a me stessa: Che idea, che follia farsi portar qui in un simile stato! Non appena parve tornare la calma, lo supplicai di sospendere con le uscite fino a quando un trattamento mirato non avesse migliorato le sue condizioni.
“Il mio male è incurabile”, fu la risposta. “Vado a mettermi a letto per non rialzarmi più. Sicché sono qui, cara amica, per strapparvi la promessa, con giuramento, che per vedermi verrete da me, e che non mi abbandonerete mai. Se non giurate, mi farò riportare qui, e vi farò passare di nuovo il bello spavento di poco fa”.
Allora Henri Heine, tornato del tutto in sé, si mise a tracciare un quadro lamentevole e comico dell'imbarazzo in cui m'avrebbe messo se fosse morto lì sul mio canapè; il pubblico avrebbe immediatamente collegato l'amore all'avvenimento. “Di che affascinante romanzo postumo diverrei l'eroe!”, diceva.
“Fatemi una novella di questa cosa, avrebbe comandato Buloz a uno dei suoi luogotenenti”. Dopo una pausa: “No, avrebbe designato un abile capitàno, per farmi onore”.
Fu tutto un succedersi di battute, senza che però perdesse di vista la promessa che voleva estorcermi. Volendo saperlo il prima possibile a casa sua, mi prestai al gioco. Non appena diedi la mia parola, come esatto, sùbito partì un'altra serie di spiritosaggini. Sosteneva la sua abilità nel trar partito da un lugubre incidente, come pure il diritto di moribondaggio (espressione favorita) che in tal modo aveva così stabilito. A datare da quel giorno, in effetti, non si alzò più, e io risposi sempre alla sua chiamata. Aveva dunque indovinato che sarei stata schiava della mia promessa? Provavo una tenera pietà nel vedere la pazienza rassegnata con cui subiva la propria cecità, come le crudeli sofferenze dovute alla paralisi. Né il genio poetico, né lo spirito prodigioso di Henri Heine potevano far sospettare che possedesse l'eroismo del martire. Messo alla prova, mi si rivelava come un uomo nuovo. Non vediamo forse che un paesaggio cambia aspetto a mano a mano che la luce del giorno lo investe? È dunque naturale che le persone appajano differenti a mano a mano che il nostro pensiero le illumina. Solamente la malattia che lo ha inchiodato otto anni su un letto di sofferenze ha potuto rivelarci la sua ammirevole fermezza. Alcuni mesi dopo la rivoluzione del 1848, cedendo alle preghiere della moglie, il povero malato consentì a farsi trasportare a Passy. Volevano sperimentare un cambiamento d'aria. Da là mi venne il biglietto seguente, attraverso la cui incerta scrittura erano patentemente visibili i danni della malattia:
Parigi, addì 16 giugno 1848
Cittadina, Se siete a Parigi, e un giorno vi trovate a passeggio al Bois de Boulogne, vi prego di fermarvi qualche istante a Passy, 64 Grande­Rue, dove in fondo ad un giardino risiede un povero poeta tedesco, che al momento è completamente paralizzato. Le mie gambe sono divenute completamente inerti, e sono trasportato e nutrito come un bambino.
Saluti e fraternità.
HENRI HEINE.
Dopo le terribili giornate di Giugno, resi la sollecitata visita, e trovai il poeta coricato su due materassi posati a terra. Questa era la soluzione ormai da lui adottata. Una minuziosa pulizia testimoniava sempre delle cure di cui sua moglie lo circondava. A Passy era sistemato davanti ad una portafinestra aperta, attraverso la quale gli pervenivano i profumi di un giardino pieno di fiori. Gli avvenimenti recenti diedero abbondanti argomenti alla nostra conversazione; avido di particolari, fece in modo fa parlare di tutto salvo che di sé. E a che cosa sarebbe servito? Era sufficiente guardarlo. Non ebbi il coraggio di confessargli che mi sarei allontanata qualche tempo da Parigi; rimandai fino al giorno della partenza per dargli conto dei tentatìvi infruttuosi fatti per lui presso il Ministero degli affari esteri, unendovi i miei addii.
E quella donna giovane, così vitale, che amava il piacere da vera Parigina, senza figlî, pigra d'intelletto in conseguenza della sua educazione, conduceva una vita gravosa da sopportare, e si può solo lodare il suo comportamento nei confronti di Henri Heine e come marito e come malato. Passeggiare a braccetto con lui, mostrarsi con lui in pubblico erano soddisfazioni vanitose di cui raramente aveva goduto; era lei a trascinarlo, prima della segregazione, ai concerti a pagamento che si davano alla sala Herz, o alla Érard. Per lei era un'occasione per vedere e farsi vedere; ci era persino capitato di incontrare la coppia mentre si piegava a quella sorta di rito, ciò che metteva Heine in un divertente imbarazzo: voleva comportarsi da scapolo e tuttavia non voleva lasciare la moglie. Aggiungivi l'insofferenza che gli causava la musica, aveva veramente l'aria del diavolo nell'acquasantiera; sosteneva di amare solamente la grande musica, ma che cosa intendesse con ciò è difficile stabilire, dato che rifuggiva tanto l'Opéra quanto gl'Italiens e il Conservatoire. Forse l'unica musica che gustava erano le sinfonie che sentiva in sogno.
Amava maggiormente la pittura? Crediamo di sì. In quest'arte la sua indole trovava ricco pascolo. Grazie all'intelligenza, poteva persino supplire giudicando un quadro dal sentimento, se capitava che quest'ultimo gli facesse difetto; i capolavori lo toccavano in modo sensuale, ciò che forse spiega la sua preferenza per la statuaria. In quel caso, essendo l'immaginazione destata dalla sensazione, tutte le sue facoltà poetiche si svegliavano, assorbendo tesori di comparazioni, d'analogie e d'antitesi; bisognava sentirlo raccontare la sua ultima visita alla Venere, come egli la chiamò, per conoscere la potente fascinazione che un bel marmo poteva esercitare sul poeta. Nella primavera del 1848, grazie alle cure del dottor Gruby, le condizioni del malato andavano migliorando; aveva recuperato l'uso delle mani, la sensibilità del palato; riusciva a tenere una palpebra socchiusa, e qualche speranza sembrava giustificata. Heine volle provarsi, prendere aria per ristorarsi: si recò al pianterreno di una delle gallerie del Louvre che ospitano le statue, e si sedette in faccia alla Venere di Milo. Là, nella penombra, sotto l'influsso di quel sorriso divino, di quella plastica bellezza che per lui, ormai, poteva solo essere un ricordo, cadde in una specie d'estasi. Poi il passato, il presente, l'avvenire gli apparvero insieme, e si confusero in una disperazione acuta.
“Ah, perché non sono morto d'un colpo, qui stesso, in questo istante!”, esclamò. “Sarebbe stata una morte poetica, pagana, superba, e che mi sarebbe spettata. Sì, avrei dovuto spegnermi in quest'angoscia”.
Dopo un breve silenzio riprese in tono beffardo:
“Ma la dea non mi ha teso le braccia! Sapete che cosa la rende infelice? La sua divinità è dimezzata, come la mia umanità. Ora, in barba a tutte le regole di matematica e d'algebra, le nostre due metà non sarebbero riuscite a fare un tutto”.
Era un vero piacere sentire Heine descrivere un paesaggio: era la sua specialità. Lo spettacolo della natura lo inebriava, e rimaneva vivissima in lui l'impressione di tutti gli aspetti in cui gli si erano mostrati le acque, i cieli, le vegetazioni. Le donne pallide, dai tratti regolari, d'una bellezza un po' spettrale, lo interessavano particolarmente; anche un viso bizzarro, che avesse un po' dello sfingeo, lo attraeva. Ci fu una celebre donna, di questo genere, che fu sulla bocca di tutti per un certo periodo, designata col nome di Reine Pomaré. A suo riguardo la vena di Heine era inesauribile, ma lui era sempre in mezzo a questi amori.
La passione che l'ha ucciso è stata ispirata da quella giovinetta che divenne sua moglie, viso tondo e pieno, grandi occhî neri, capelli folti, bei denti bianchi nella bocca ridente, forme generose, vero tipo dell'operaja parigina, con mani di distinzione aristocratica; il suono della sua voce era per Henri Heine un incanto perpetuo, non mancava mai di farvi riferimento; più volte, durante la lunga agonia, mi ha ripetuto che quella voce aveva richiamato indietro la sua anima nel momento in cui essa prendeva decisamente il volo verso l'ignoto.
Prestandovi attenzione, mi parve che questa voce da piccola selvaggia fosse tenuta costantemente sulla corda alta, evitando accuratamente le note medie, indubbiamente nella consapevolezza dell'effetto sortito; sicché, quando per caso succedeva che le sue parole, risonando in anticamera, giungessero fino a noi, bisognava vedere il malato interrompere di botto il discorso … poi, con un sorriso compiaciuto, rimanere in ascolto di quel suono finché non era completamente svanito.
Benché sequestrato e costretto a concentrarsi su sé, Heine non aveva nessunissima difficoltà ad animare la conversazione; tutto quello che aveva scritto, sia in verso sia in prosa, costituiva una galleria di quadri viventi nella sua memoria. Se il dialogo portava su uno di questi ricordi, egli riprendeva l'argomento in forma descrittiva, come se la realtà fosse stata lì, sotto i suoi occhî, aggiungendo sviluppi e particolari prima sacrificati alle esigenze imposte dall'arte. Immaginate, infine, una memoria che conservasse tutte le punzecchiature che il suo spirito gli aveva dettato da quando era al mondo. Un modo per fuggire alla prigionia forzata era per Heine nell'assidua lettura di racconti di viaggî in paesi lontani. Quello che vi cercava non erano le scoperte scientifiche, ma piuttosto le singolarità dei costumi, gli uomini e gli animali stravaganti, le bizzarrie religiose. Sempre come distrazione si fece lèggere tutti i romanzi d'Alessandro Dumas.
“Questo mulatto mi diverte”, esclamava con aria incantata; “è prodigioso! La sua immaginazione permette alla mia di riposarsi”.
Dopo essersi nutriti in silenzio delle opere di Henri Heine per una ventina d'anni, era inevitabile che gli scrittori che lo plagiavano lo nominassero. I suoi Reisebilder, tradotti e pubblicati, alcuni articoli da lui inseriti nella Revue des Deux Mondes avevano a poco a poco familiarizzato il pubblico francese con quella reputazione così considerevole in Germania. Era avidissimo d'incontrare il proprio nome o un'allusione alle proprie opere. Non mancavo mai di avvertirlo quando ne venivo a conoscenza; spesso avevo modo di menzionargli Théophile Gautier, che era davvero impregnato delle poesie e dello spirito dell'illustre scrittore.
“Sì, Théo è un buon ragazzo”, diceva Heine, “credo che provi amicizia per me”. Poi, dopo una pausa: “Con lui posso andar tranquillo; lui almeno dove mette mano non fa guasti; se avesse potuto tradurmi!”
“Ma per voi c'è Gérard de Nerval!”
“C'è lui, c'è lui... Ed è ottimo, quando c'è. Ma non si riesce più a trovarlo, e pensate, mia buona amica” (qui alzava un poco la testa dal cuscino), “pensate che mi porta ficcato in fondo alla tasca!” (qui la testa ricadeva esausta).
“Non pretenderete, mio povero Heine, che un uomo che non ha domicilio possieda un portafoglî”.
“O piccola Fata, perché non conoscete il tedesco? Grazie a voi metterei i miei versi al sicuro, a mano a mano che nascessero; dato che, dopo che me li sono fissati nel cervello la sera per la mattina seguente, bisognerebbe dettarli. Ma a chi? ­ Voi capìte il pericolo!”
Questo pensiero era accompagnato da un gemito che la sofferenza fisica non era in grado di strappargli. Assai diffidente, raddoppiava le cautele a riguardo del segretario. Costui avrebbe potuto fare copia dei versi, inviarli in Germania, venderli... Talvolta risolveva di prenderne uno d'intelletto limitato, sperando che non capisse il valore dei suoi dettati; ma un susseguirsi di sviste l'obbligò ben presto a modificare il criterio. Tra i postulanti scartava decisamente tutti gli ebrei tedeschi, che gli sembravano particolarmente temibili. Un giorno, durante un interregno segretariale, lo trovai tutto mesto perché non poteva nemmeno farsi lèggere il giornale. “Non potreste” dissi con la massima naturalezza, “chiedere questo piccolo servizio alla signora Heine?”
“No, è in grado di lèggere solamente le lettere scelte di madame de Sévigné, e non è di questo che ho bisogno”.
Dal che si vede come, trasportato dal gusto della battuta, giungesse a farsi beffe anche di chi amava di più al mondo.
Involontariamente gli diedi occasione di dar prova di questa insopprimibile tendenza del suo spirito. La contessa di K. …, nipote del signor di Nesselrode, bellezza russa assai di moda durante la repubblica del 1848 e nei primi anni dell'Impero, s'era messa in testa di conoscere tutte le celebrità. Mente colta, a cui le opere di Henri Heine erano accessibili nell'originale, desiderava appassionatamente conoscere l'autore. Mi supplicò di ajutarla. Opposi inutilmente la reticenza dell'illustre ammalato di ricevere persone sconosciute, cioè nuove. Da quando due turiste tedesche erano riuscite a giungere fino a lui, non aveva mai smesso di protestare; tra le rarissime eccezioni citerò Fanny Lewald, la cui presenza fu per lui una gioja. E tuttavia l'insistenza è forza, come dimostrò la signora de K. … Cedetti, e cominciai la negoziazione, che ebbe un esito difficile. Cercai di suscitare la curiosità del poeta, leggendogli i versi di Théophile Gautier che aveva cantato sotto il titolo Sinfonia in bianco maggiore l'abbagliante incarnato di quella nordica bellezza; Heine mi ascoltava, faceva una smorfia, ma per farlo cedere dovetti prenderlo per fame. Sollevando una delle palpebre paralizzate era in grado di reggere non più di un secondo la vista di un oggetto fortemente illuminato.
“Mi costerà fatìca”, disse, “percepire gli splendori che mi vantate”.
La presentazione ebbe luogo. Di natura amabile e graziosa, la contessa quel giorno raddoppiò le sue doti. Al momento del congedo, in apparenza, la soddisfazione era comune. Il favore di una seconda visita fu sollecitato ed accordato. Rifiutai d'assistervi, riservandomi di venire il giorno a seguente a sincerarmi dell'impressione definitiva ricevuta dall'insieme di quella bellezza sul poeta. “Ebbene, merito un ringraziamento?”, gli chiesi entrando, “ne siete stato stregato?”
“Non è una donna, mia buona amica, quella che m'avete introdotto; è un monumento; è la cattedrale del dio d'Amore!”
Partito questo dardo, presentii quello che stava covando. Non potè resistere al desiderio, e un istante dopo mi recitò versi appena appena sbocciati e rubricati nella sua memoria sotto il titolo de L'elefante bianco. Me li traduceva in maniera pittoresca, e con entusiasmo giovanile. Mi battei coraggiosamente per ottenere che le rudi allusioni fossero un po' attenuate. Ma quello di cui chiedevo la soppressione era sempre il meglio. Niente potè trattenerlo dall'inviare immediatamente questi versi in Germania per essere inclusi nel Romancero che allora s'andava pubblicando; volume che si affrettò ad offrire alla contessa di K. …
Credeva, così procedendo, mettersi al riparo da tutto. In Germania l'allegoria aveva, è vero, poca importanza; ma passare questi versi in traduzione (opera sua) alla Revue des Deux­Mondes era rivolgersi direttamente al circolo scelto frequentato dalla signora de K. … Insistetti che era una sconvenienza, e devo confessare di aver ottenuto solo minime modificazioni.
“Perché questa donna ha tanta passione per le bestie rare? Voglio solo fargliene passare la voglia”, ripeteva ostinato. “D'altronde, questi versi non sono forse elogiatìvi?”
Per provarlo, ne enfatizzava ironicamente la pomposità facendone il commento. La cugina della bella straniera, la baronessa di S. … (M.lle de Nesselrode) sollecitò a sua volta il favore di giungere a Henri Heine. Con lei fu delizioso, la trovò simpatica e credette alla sincerità della sua emozione di fronte al “miserevole poeta”. Di ritorno in città, trovai notizie del mio malato, dettate e non più di suo pugno. La sola firma era della sua mano. Il contenuto della lettera dà un bollettino della sua salute:
Passy, 19 settembre 1848
Fatina!
(E' con questo nome, che v'è stato dato dalla signora Heine, che siete conosciuta da noi), vi devo ancóra ringraziare della prima, graziosa lettera da voi scrittami nel momento di salire in vettura per tornare alle Roches, o dalla signora de Grignan, non so. Stamane ho ricevuto la vostra seconda lettera, il cui tono affettuoso e comprensivo mi fa tanto bene, benché la notizia che mi date non abbia nulla di allegro. A dir vero, sono talmente stordito dal dolore fisico che questa cattiva nuova, il fallimento agli affari esteri, non mi fa grande effetto: un colpo di spillo ad un uomo che si trova torturato dalle braci ardenti del Sant'uffizio.
Nell'attesa, v ringrazio dello zelo di cui avete dato prova in quest'occasione, e vi prego anche di essere presso il vostro signor fratello il tramite della mia sincera riconoscenza. Vi scrivo oggi per dirvi che domani non mi troverete più nella mia villa Dolorosa di Passy, che lascio per rientrare a Parigi, rue de Berlin n° 9 (angolo con rue d'Amsterdam); ci resterò solo il tempo necessario alla signora Heine per trovare un appartamento più conveniente alle mie condizioni di salute. Dopo aver avuto la consolazione di vedervi, i miei mali sono aumentati, e sintomi allarmanti m'inducono a rientrare a Parigi...
Non voglio essere sepolto a Passy; il cimitero vi dev'essere scomodissimo. Voglio avvicinarmi a quello di Montmartre, che da lungo tempo ho scelto come mia ultima dimora. I crampi non sono cessati; al contrario, si sono estesi a tutta la spina dorsale, e salgono fino al cervello, dove probabilmente hanno fatto più guasti di quanto io stesso possa constatare; pensieri religiosi mi invadono...
Addio, Fatina, che il buon Dio perdoni le vostre incantagioni, e che vi prenda sotto la sua santa e benigna guardia.
HENRI HEINE.
A datare da questo ritorno a Parigi, il poeta subì il male in tutta la sua crudeltà, vale a dire senza alcuna speranza di guarigione, e con il terrore incessante, vivamente sentito, dell'avanzamento della paralisi fino il cervello; avrebbe perso le facoltà intellettive? Così non fu. Heine rimase sé stesso, conservò his self possession, espressione inglese che calza a pennello. ­ Assicurare tramite un contratto col librajo l'avvenire di colei che sarebbe rimasta dopo di lui divenne il fine per il quale combattè con indomita energia. Amava la moglie insieme come un'amante e come una figlia; la mancanza di previdenza di Juliette lo commuoveva; la sua ignoranza del mondo lo affascinava. “Non ha mai letto niente di mio”, mi confidava abbassando la voce; “ella non sa che cosa sia un poeta! Tuttavia, ho scoperto che ha una vaga idea che il mio nome sia stampato in qualche rivista”, qui abbassò ancóra la voce, “solo non sa quale”. Tutte le volte che si parlava o di Goethe o di sua moglie, il malato sollevava il collo e abbassava il tono, come se avesse avuto timore che qualcuno origliasse alle porte. Povero Heine! Era spaventosamente geloso. Ora, se Juliette non era letterata, in compenso aveva un gusto spiccato per l'ippodromo e il teatro. L'esistenza della giovane era solitaria e triste. Talora ella otteneva dal marito l'autorizzazione di unirsi a qualche amica per andare agli spettacoli; in quei casi, se non confidava le angosce del suo cuore, qualche parola sfuggita le faceva intravedere. Tuttavia fu al caso che dovetti la conoscenza del lato intimo e doloroso di quest'unione. Un mattino ricevetti la visita di un medico mandato a prevenirmi che Henri Heine era reduce da una crisi gravissima, e che sarebbe stato felice di vedermi; allarmata, chiesi al dottore se il malato era in pericolo imminente. Costui, credendomi al corrente delle desolazioni di quell'intimo, mi parlò apertamente:
“Che cosa può l'arte nostra”, rispose, “se lotta contro un amore insensato, una gelosia stravagante? Nulla può distrarne Heine, dato che ha l'oggetto della propria follia costantemente accanto. In queste condizioni, il matrimonio era fatale, e ha molto affrettato il decorso della malattia”.
“Tuttavia”, ripresi, “sua moglie lo cura perfettamente, e nelle condizioni presenti è per lui una gran consolazione”.
Facendo spallucce il dottore proseguì:
“Non è colpa di sua moglie; ma quali cure potrebbero rimediare al danno di una notte come quella appena trascorsa? Ignoro quali ingiusti sospetti attraversino l'immaginazione del malato: constato il fatto; scivolando giù, o piuttosto lasciandosi cadere dal materasso posato in terra, trascinandosi sul ventre con l'ajuto delle mani, dopo sforzi che furono il trionfo della volontà, è riuscito a raggiungere la porta della camera della signora Heine, dov'è rimasto svenuto; per quanto tempo? Nessuno lo sa. Come medico, ho avuto il dovere di chiarire quest'incresciosa avventura, spiegarmi perché mi ritrovavo il malato sul letto di sua moglie. Ella vi si è piegata con aria veramente afflitta”.
Si trattò poi delle fasi successive, torture e sviluppi che sarebbero conseguiti alla paralisi degli organi interni. Ahimè! Il cuore sanguinava a sentir anticipare così l'avvenire.
“Heine conosce il suo destino”, aggiunse il dottore, “e, io lo prevedo, il suo coraggio non si smentirà. Quest'uomo è sorprendente: dissimulare il presente alla madre, assicurare l'avvenire della moglie, queste sono le sue sole occupazioni”.
“Ma quest'uomo è veramente buono!” esclamai io, con tono di rimprovero rivolto ai miei passati dubbî.
“Relativamente”, replicò freddamente il dottore. “Bisogna ricordarsi che è d'indole vendicativa. La sua bontà è selettiva, e guardiamoci dalla sua inimicizia. Tanto varrebbe mettere il piede in un nido di vipere. Vedete come si accanisce contro Meyerbeer! Sotto quel titolo, Monsieur l'Ours, ha di nuovo poc'anzi pubblicato in Germania versi che lo fanno a pezzi; e come mai questa guerra contro l'uomo di cui era stato ammiratore e amico? Aveva chiesto all'autore del Profeta un palco per una prima, e il giorno fissato non l'aveva ottenuto!”
“Notate, dottore, che, una nuova volta, è l'amore che n'è causa. Il palco richiesto era per la sua Juliette, che non vedeva l'ora, e non ha mai potuto perdonare a Meyerbeer questa defezione. Che dire? Questo ricordo ha un palco nel teatro del suo risentimento”.
Una volta allontanatosi il dottore, rimasi pensosa, cercando tra i miei ricordi tutto quello che era stato detto. Ebbene, lo confesserò? Mi sentii in qualche modo più indulgente verso i torti di Heine nei confronti dell'illustre compositore, torti di cui l'amore lo scusava. Amava tanto! Era così infelice!
Giudicavo con più severità gli attacchi ai quali si lasciava andare per puro piacere. Lasciar debordare l'ironia, perseguitare con prese in giro crudeli i proprî migliori amici, la penna in mano, gli pareva uno svago concesso. Cercavate di destare in lui il pentimento per questo modo di procedere? Vi ascoltava con curiosità, come se fosse estraneo alla questione. Poi, riprendendo con vivacità e di nascosto l'argomento, vi aggiungeva una quantità di frecciate che prima non avrebbe osato pubblicare, e che gli venivano fuori giojosamente. Questa era la sua forma di pentimento. Immagino che, quando, dopo un esame di coscienza, si diceva: “Il mio cuore non vi partecipa”, si credesse innocente. Così si spiegherebbe il suo bizzarro modo di andare a chiedere senza esitazione servizî ad una persona che aveva precedentemente offeso coi suoi scritti.
Sorpresa, gli chiesi allora se aveva dimenticato il tale passaggio, e glielo ricordavo.
“Oh! Come avrebbe potuto offendersene? Non eravamo amici?”
“Ma appunto per questo”, gli replicavo.
“Bah! Sanno come sono fatto. Il pittoresco, l'immaginoso, il comico mi attraggono, è la mia natura”.
“Suvvia”, gli dissi una volta, spazientita; “rispondete come farebbe il fungo di una favola, accusato d'essere velenoso: E' la mia natura”.
“Brava! È esattamente questo, mia buona amica”.
Ed ecco come si esaltava il malato, senza preoccuparsi di tutte le preziose amicizie che s'era alienato.
Tuttavia percepii, da qualche domanda che mi rivolse su Béranger, che non era rimasto indifferente al fatto che Béranger, che aveva in grande stima, non si fosse più fatto sentire. Se lo spiegava ancor meno pensando che aveva fatto un articolo che lo riguardava, pieno d'elogî, assicurava, avendolo scritto con tutto il sentimento. Per sincerarmene, lessi l'articolo, e scoprii il passo in cui aveva associato al nome di Béranger l'aggettivo furfante. “E' tutto qui, mio caro Heine”, esclamai; “è evidente che non percepite l'accezione in cui intendiamo questa parola noi Francesi. Sarà stato male interpretato”.
A quel punto, mettendo ostinazione nella propria difesa, non volle mai ammettere il torto, pretendendo di rifarsi ad antiche autorità francesi.
“Dato che amate Béranger”, gli replicai, “inviategli una parola di spiegazione”.
Macché, si ostinò e mise il broncio. In contrasto con quest'indole personale, frequente nei poeti, la sua memoria serbava sempre presente nei nostri abituali scambî quello a cui tenevo; quale che fosse il suo stato di salute, la sua accoglienza era di una vivacità affascinante. Spesso, sentendomi entrare, esclamava:
“Non è forse da ridere che v'imponga una simile corvée in nome di tutti i begli e buoni sentimenti?”
C'è da notare che di tutti i suoi mali e di tutte le miserie che ne derivavano, egli parlava pochissimo, e sempre con semplicità; talvolta giungeva a prendersi un po' in giro, ma non aveva mai una frase tendente a commuovere. Due volte la testa dei materassi, posata contro il caminetto, prese fuoco: sembrava, a sentirgli raccontare l'incidente, che non avesse corso più pericolo di chiunque altro. Il suo mobilio era quello di un borghese agiato, tenuto in una pulizia indefettibile. Un bel ritratto di Laëmlin ricordava sua moglie quando era assente. All'arrivo di un visitatore, la signora Heine si ritirava discretamente nel suo appartamento di rue d'Amsterdam; la camera di madame era situata in fondo in fondo all'appartamento. Supponevo che questa disposizione delle stanze fosse stata decisa dal malato, in modo di sentire chi andava e veniva; ascoltava, orecchie tese, le voci e i passi di quelli che circolavano al difuori. Rimasto innamorato e geloso, inchiodato al capezzale, chi può dire se, in quest'uomo di genio, il supplizio dell'anima non sia stato ancor più terribile di quello del corpo?
Una presenza che gli suscitò una vera gioja fu quella della principessa di Belgiojoso di ritorno dall'Oriente. Ella era stata fino a Gerusalemme a visitare i luoghi santi. Ora, quello era uno dei paesi che il malato percorreva spesso con l'immaginazione da quando la Bibbia era diventata la sua lettura preferita. Durante gli ultimi anni della sua vita, questo libro fu per lui una potente distrazione; se non riusciva ad apprezzare, proprio come Voltaire, il libro di Ezechiele, in altri luoghi incontrava una poesia il cui splendore lo rapiva, lo trasportava. A sentire l'interesse caloroso col quale Heine s'informava su quel viaggio in terra santa, la principessa s'ingannò, e credette di cogliere un bagliore di religiosità nel malato. Ella parlò dell'abate Caron, molto di moda a quell'epoca, come d'un uomo interessante e di molto merito. Ella propose di condurlo; consentendo alla richiesta, temo fortemente che l'unico movente di Heine fosse la curiosità di fare un doppio studio.
Dopo due o tre visite dell'abate, egli mi disse:
“La principessa mi aveva portato l'abate Caron, lo sapevate?” (assumendo un'aria di compunzione) “Aveva destato in me qualche velleità religiosa...” (poi, ridendo) “ma torno decisamente ai cataplasmi. Il sollievo è più immediato!”
Per ben rendersi conto della forma mentis del poeta, bisogna ricordare che egli era contemporaneamente aperto a tutta la poesia religiosa, quale che fosse il profeta, Confucio o Maometto, Mosè o Lutero, e assolutamente refrattario allo spirito devoto; la fede, le pratiche, il clero erano per lui una fonte inesauribile di beffe e sarcasmi, alle quali la stessa morte, nel momento in cui ne sentiva il soffio gelato, non poteva fermare il corso. Durante l'ultima estate che passò su questa terra, sfidai un giorno una calura canicolare per andare a trovarlo; come entrai:
“Oh! amica mia”, esclamò, “che paura ho avuto! Immaginate un po'; avevano aperto la finestra e, con questo sole ardente, invece di pensare ai tiglî in fiore, come avrebbe fatto qualunque uomo ragionevole, ecco che mi tornano alla memoria una dopo l'altra tutte le cattedrali che ho visitato in Italia durante i miei viaggî. ­ Al soccorso! ­ ho gridato. ­ La paralisi è arrivata al cervello! ­ Non è nulla, signore, solo la calura – mi risponde flemmatico il segretario. ­ Il termometro segna trentasei gradi Réaumur all'ombra. ­ Quest'indicazione mi ha funto da lampo d'illuminazione. Mi sono ricordato di un passo dei Reisebilder in cui notavo come la religione cattolica sia una buona religione estiva, data la frescura delle chiese. ­ Adesso potete vedere, amica mia, che associazione d'idee ha causato la sensazione”.
Questo grido di spavento, che riproduceva in maniera buffonesca, era tuttavia l'espressione d'un terrore che non lo lasciava mai. Sicché, avido di particolari che potessero servirgli da termini di riferimento, s'informava continuamente sullo stato di persone attinte dallo stesso male. Augustin Thierry lo preoccupava particolarmente; se ero appena stata a trovarlo, le domande premevano: “Ha dormito? Ha mangiato? Come lavorava?”, con commovente insistenza sulle condizioni del cervello: “Davvero l'illustre storico conservava intatta l'attività, la potenza intellettuale?”. Dopo la mia risposta positiva, lasciava andare un lungo sospiro di sollievo. “Sapete, cara amica”, soggiungeva, “che il nostro male ha la stessa origine?”
Poi, con tono di presa in giro:
“E' l'eccesso di lavoro, dicono i galantuomini; eccesso è la parola giusta. Dico bene?”
Aveva in altissima considerazione le opere di Augustin Thierry. È sotto l'impressione di una lettura della Conquista dei Normanni che lui, Heine, aveva scritto i versi intitolati Il Campo di battaglia di Hastings, riferiti alla data del 1854, nel libro di Lazzaro. Tuttavia questo brano è di molto più vecchio. Credo che l'edizione di Michel Lévy pubblicata nel 1855, sotto la supervisione dell'autore, riporti molte date trasposte. Condivido a questo proposito l'opinione di Gérard de Nerval, che diceva dell'Intermezzo, datato 1821 e 1822: “Ammenoché mi si mostri un'edizione tedesca di vecchia data, attribuisco il componimento al periodo molto più tardo dell'espansione del suo cuore e della sua passione. Una volta sposato, Henri Heine si pentì e volle deviare”.
In effetti, quali che siano la precocità e il dono intuitivo dei quali supponiamo dotato il poeta, egli non potrebbe mai creare quello che l'esperienza sola aggiunge al talento. È solo a sue spese che egli acquista una certa conoscenza. Il più abile naturalista non avrebbe potuto né inventare né divinare la proprietà deleteria del manzaniglio. Per constatarla, bisogna almeno esserglisi avvicinati.
Ho visto schiudersi a frammenti le deliziose pagine del Romancero. L'autore, in forma di sogno, si compiaceva di descrivermi i suoi elfi, le sue driadi e i suoi gnomi, che nascondevano le zampine d'anatra sotto i lunghi mantelli rossi. “Per non inquietarli facevo finta di non vederli”.
Dicendo questo, Heine si abbandonava alle smorfie più stravaganti, agitando le mani diafane, vellutate e affusolate, la sola parte del suo essere che fosse rimasta libera. Non ho mai potuto appurare se chiamasse sogno una specie di eccitazione, compagna frequente dell'insonnia, o se era letteralmente durante il sonno che gli nasceva una parte delle meraviglie che si compiaceva a raccontare e che spesso sono diventate le pagine più incantevoli dei suoi libri. Altre volte le sue fantasticherie erano burlesche. Lo trovai un mattino che m'aspettava con impazienza febbrile, volendomi raccontare, ad impressione ancóra calda, la steeple­chase delirante alla quale aveva assistito in sogno.
“Immaginate”, disse, “che ho appena visto coi miei occhî, corse alle quale tutta Parigi prendeva parte; e i corridori erano poi i signori Thiers, Guizot e Cousin, che montavano ognuno su uno struzzo. In luogo d'indossare la tenuta da jockey, come il buon gusto avrebbe esatto”, soggiunse gravemente Heine, “il signor Thiers portava un'uniforme da generale; il signor Guizot, con una tiara in capo, una croce in mano a guisa di frustino, aveva l'abito abbottonato che porta di consueto, e il signor Cousin s'era travestito da filosofo tedesco. Ma, nel sogno, immediatamente, senza esitazioni, lo riconoscevo”. Qui il narratore, facendo una vistosa smorfia, si fermava. Poi, ridendo a gola spiegata: “Vedete, fatina mia, se questa corsa avesse luogo, mi alzerei di letto per veder correre sugli struzzi quei tre fantini!”
“Mio caro Heine”, risposi, “le vostre antipatie sono immutabili, persino in sogno; ritrovo in tutta la sua vivacità quella che il signor Cousin vi ha ispirato”.
“Ma converrete, fatina, che il mezzo filosofo che cavalca su uno struzzo...” (qui fu preso da un nuovo accesso di gajezza). “Sì, non dimentico”, continuò: “Così ho presente come fosse avvenuto jeri la faccia dell'illustre professore quella sera dalla principessa di Belgiojoso, nel momento in cui fu annunciata la cena, e lui, travolgendo divani e invitati, si precipitò ad offrire galantemente la mano alla padrona di casa.
“Oh che faccia comica prese il posto della sua espressione civettuola quando la principessa, con un sorriso incantevole incorniciato da fossette gli si rifiutò seccamente – con queste parole, pronunciate in tono armonicale: 'Perdonate, signor Cousin, non vorrete crearmi problemi con la Russia”, ­ e con un rapido ondeggiamento si volse verso l'ambasciatore Pozzo di Borgo, a cui prese il braccio. Ah, la dura lezione di savoir­vivre! Avervi assistito è uno dei più bei ricordi della mia giovinezza!”
Dopo che aveva dato libero corso alla malizia, era bene indirizzare la sua memoria sui paesi che aveva percorso con l'immaginazione durante la notte, mentre quel corpo insensibile era costretto all'immobilità; bisognava udire allora le affascinanti descrizioni che ne dava. Tuttavia, senza stancare la sua pazienza né il suo coraggio, i mali s'aggravavano. Heine valutava il proprio stato con tanta precisione quanta fermezza; aveva chiesto a mio marito di voler accettare l'incarico di esecutore testamentario e di indicargli, per dettare il suo testamento, un notajo del quale potesse fidarsi. ­ Questo scritto è stato pubblicato, col mio permesso, in un volume postumo edito da Michel Lévy, Tedeschi e Francesi.
Vertendo la conversazione, a quell'epoca, su queste gravi faccende, il malato espresse nuovamente la volontà di essere sepolto silenziosamente e, com'era vissuto, senza cerimonia. “Devono parlare le mie opere, e basta! E sapete anche voi, amica mia, che gli allori letterati non sono nulla che m'interessi. No, io sono un coraggioso guerriero, che ha posto la sua forza e i suoi talenti al servizio della grande famiglia dell'umanità. ­ Ponete, se desiderate, come ornamento sulla tomba una fronda e un arco”.
“Con alcune buone frecce?” mormorai.
Sorrise.
“Davvero, non vi chiedo altro”, continuò, “che di mettervi un ramo di reseda; ricordate, amica mia, che è il fiore che m'aveva dato la piccola Véronique?...”
“E ricordo anche”, replicai, “che di questa passione infantile ho conosciuto solamente l'inizio”.
“È tempo allora di confessarvi che tutta la storia è contenuta in questo preludio. Salendo per la montagna, la bambina giocava con il fiore che aveva in mano: era un ramo di reseda. Tutt'a un tratto ella lo portò alle labbra, e poi me lo diede. L'anno seguente, durante le vacanze, correvo da lei. La piccola Véronique era morte! Da quel tempo, il suo ricordo è venuto a mettersi di traverso ad ogni fluttuazione del mio povero cuore. Perché? Come mai? Non è bizzarro, misterioso? Talora, pensando a quest'episodio, la sensazione si fa dolorosa, come il ricordo di una grande disgrazia”. Il silenzio calò tra noi. I ricordi, il presente, tutto parlava di morte. Avrei voluto cambiare tema alla conversazione; mi riuscì male. Vagavo distrattamente con lo sguardo intorno al malato, e, notando per la prima volta una sorta di sistema fatto di corde, fissato al muro sulla testiera del suo giaciglio, gli chiesi che cosa significasse quella novità. “Oh! questo è un apparecchio ginnico, nelle intenzioni per esercitare il mio braccio destro. Ma, detto tra noi, a me sembra più un invito a impiccarmi: un'attenzione amorevole del mio dottore. Ci sono però degli stolti”, continuò Heine, “che ammirano il coraggio con cui prolungo la mia esistenza. Ora, hanno mai pensato a quale mezzo potrei scegliere per darmi la morte? Non posso né impiccarmi, né avvelenarmi, men che meno bruciarmi le cervella o buttarmi dalla finestra; mi tocca dunque morire di fame? Puah – un tipo di morte contrario a tutti i miei principî. ­ Seriamente, quantomeno si deve poter scegliere la forma di suicidio, altrimenti è meglio lasciar perdere tutto quanto”.
Henri Heine non ha mai pensato di affrettare la sua fine, di separarsi da sua moglie. Non aveva forse ella bisogno di lui? Non era lui il suo protettore? Questo ruolo lo lusingava particolarmente; mentre la signora Heine si occupava dei fiori o del pappagallo, era lui che, nella sua condizione di moribondaggio, ordinava, regolava e saldava tutte le spese. Dopo avere, ancóra ragazzo, fatto alcuni debiti poi pagati dallo zio Heine, il ricco banchiere di Amburgo, dopo il matrimonio era diventato molto scrupoloso nel far pareggiare entrate ed uscite. Non si poteva vederlo tirar fuori da sotto il traversino il sacchetto degli scudi, che slegava a tentoni, estraendone la somma che la serva chiedeva, senza che la memoria fosse attraversata dal ricordo dei suoi antenati. Ma quello che era interamente suo era l'indole generosa, che lo rendeva ingegnoso nello scegliere i doni da inviare ai suoi amici alle date stabilite, quali le feste e il capodanno. Tra questi ricordi, divenuti reliquie d'amicizia, segnalo un profilo in bronzo, opera dello scultore David, di perfetta rassomiglianza. Per offrirmelo, lo fece inquadrare in una ghirlanda di rose cesellate. Niente poteva ricordare più vividamente la corona di spine destinata al genio brillante di cui si osserva il ritratto. Questa terribile antitesi riempie di melanconia; pure, lo sguardo vi torna sù, e ci si fa pensosi.
Abbiamo già parlato del sentimento protettivo col quale Heine considerava la moglie e del quale si compiaceva nel suo moribondaggio. Ma bisogna anche dire che era fiero di subire l'influenza magnetica della sua Juliette, influenza così grande, assicurava lui, che il suono di quella voce, il tocco di quella mano, più volte, l'avevano riportato alla vita. Bisogna citare, a riprova di questo potere fluidico, l'aneddoto del pappagallo, che si colloca precisamente negli ultimi tempi dell'esistenza di Henri Heine. Preda nel cuor della notte di una di quelle crisi omicide, che questa volta si poteva a buon diritto credere l'ultima, la moglie accorse al suo capezzale terrorizzata; ella prese la mano di lui, stringendola, scaldandola, carezzandola. Ella piangeva calde lacrime, e, con voce spezzata, tra un singhiozzo e l'altro gli fece sentire questo: “No, Henri, no, non mi farai questo, tu non morirai! Avrai pietà! Ho già perduto il mio pappagallo questa mattina; se morissi tu, sarei troppo sventurata!”.
“Era un ordine”, soggiunse lui, “ho obbedito e ho continuato a vivere; voi capìte, amica mia, quando mi si dànno buone ragioni...”.
Il malato si divertì follemente a raccontarmi questa storia; la ripeteva, compiacente, imitando il tono commosso della signora Heine, e sottolineando la parola pappagallo; era contemporaneamente nella natura umoristica del poeta essere vivamente toccato dal dolore che causava, e molto divertito della forma comica che la disperazione assumeva. Tuttavia, dall'inizio di quell'anno 1855, tutto faceva presagire una fine prossima.
Gli attacchi di crampi erano sempre più frequenti, e l'effetto potente della morfina veniva meno.
Fu quindici giorni circa prima della morte di Henri Heine che, presentandomi da lui di buon'ora, non incontrando nessuno nell'ingresso e trovando aperta la porta della sua camera, vi penetrai senza far rumore. Stavano rifacendogli letto, mentre egli era deposto su una specie di sofà­lettiera, che aveva richiesto mesi interi di aggiustamenti successìvi prima di risultargli soddisfacente. Rimasi là, in piedi, immobile, supponendo che lo affliggesse dare spettacolo del suo disfacimento.
Una delle serve occupate intorno a lui lo prese sulle braccia per trasferirlo dal sofà ai materassi a terra, involtolato nella flanella. Il suo corpo, rimpicciolito dall'atrofia, pareva essere quello di un bambino di dieci anni; i suoi piedi penzolavano inerti, oscillanti, ritorti, di modo che i talloni si trovavano posti davanti, là dove doveva esserci il collo del piede.
Quale vista, quale rivelazione! che carattere tragico e pungente prende a questo ricordo la magnifica poesia del libro di Lazzaro!
“La donna nera mi abbracciò, disse, e fui paralizzato.
“Ella mi baciò gli occhî e io divenni cieco!
“Ella succhiò, con le labbra selvagge, ella succhiò il midollo delle mie reni!”
La strofa che segue aggiunge:
“Il mio corpo adesso è un cadavere in cui lo spirito è imprigionato”.
Un'ultima volta, quattro giorni prima della sua morte, rividi Henri Heine; conversò con la solita libertà di spirito, solo il tono era grave.
“Morire è una cosa parecchio seria”, scrisse La Bruyère, “è un momento a cui non si addice lo scherzo, ma la costanza”.
Quest'ultima virtù non fece difetto un solo istante al coraggioso martire. Allorché, separandomi da lui, misi, come il solito, la mia mano nella sua, a mo' d'addio, egli la trattenne per qualche poco, quindi mormorò: “Non fate tardi, amica mia, è più prudente”.
Fino all'ultimo respiro, la sua meravigliosa intelligenza non subì alcuna alterazione. Nel sentirsi in uno e vivo e morto, senza dubbio, il filosofo si osservava, e il poeta s'indagava; questa convinzione, già espressa una volta da Henri Heine, dev'essere stata il suo ultimo pensiero:
“C'è un angolo di divino nell'uomo”.