Riduzione dell`orario di lavoro e retribuzione

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Riduzione dell`orario di lavoro e retribuzione
Confederazione Generale Italiana del Lavoro
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Riduzione dell'orario di lavoro e retribuzione
di P.G. Alleva
(la nota è una risposta teorica a un problema irrisolto in dottrina, che si inserisce nella
problematica generale dell'orario di lavoro di cui si discute da tempo. In tal senso se ne
propone il testo. Si fa presente che nell'ormai annosa diatriba sulla riduzione dell'orario di
lavoro in Italia si è verificata l'esigenza di dare una concreta risposta a tale problema).
Viene posto da più parti l'interrogativo se una diminuzione, per precetto legislativo,
dell'orario di lavoro settimanale lascerebbe invariato il trattamento retributivo. Oppure ne
comporterebbe, nel silenzio del testo normativo, un automatico, implicito e proporzionale
ridimensionamento.
La questione nasce, come intuibile, dal progetto di legge governativo sulla introduzione,
in un futuro non troppo lontano, di un "orario normale" di 35 ore settimanali, la cui concreta
disciplina dovrà, però, essere largamente rimessa alla contrattazione collettiva.
Quest'ultima, dunque, potrebbe agevolmente risolvere il problema con previsioni
espresse, in un senso o nell'altro; tuttavia sarebbe ingenuo ritenere che ciò lo risolva o lo
renda puramente accademico, perché non è certo indifferente, al momento di inizio di un
negoziato contrattuale, sapere cosa accadrebbe, ai solo sensi di legge, ove il negoziato
stesso non approdasse a nulla.
A nostro avviso, la risposta va cercata nel regime, insieme legale e contrattuale, della
retribuzione, e cioè nella questione se esista ancora una retribuzione "ad ore" o se sia
divenuta generale l'adozione della retribuzione mensile(cd. "paga fissa" o "mensilizzazione
reale").
E' questo, per meglio dire, il primo profilo "tecnico" della questione, giacché non si può
sottovalutare il corso di un ulteriore criterio interpretativo, troppo spesso trascurato, ma ben
presente nell'art. 12 - preleggi - del Cod. civ., secondo cui tra i criteri interpretativi delle leggi
vi è anche "l'intenzione dei legislatore". Intenzione difficilmente si può ritenere comporti una
perdita salariale (di circa il 12%) visto che nella storia, tutte le diminuzioni d'orario sono state
fatte, in Italia e fuori d'Italia, a parità di salario. Procedendo, comunque, secondo un profilo
tecnico, riteniamo di dover affermare, in sintesi, che con l'adozione della retribuzione
mensile, "l'effettuazione di un determinato numero di ore lavorative non rileva più nel
sinallagma genetico, ma solo in quello funzionale del rapporto di lavoro". L'espressione può
sembrare un po' ostica. ma il concetto è facile: se si paga "a mese", non importa quante ore
lavorabili vi siano nel singolo mese, perché lo scambio (sinallagma) si instaura, appunto, tra
lo stipendio mensile e il lavoro che secondo regole legali o contrattuali collettive "esterne"
risulteranno lavorabili, e non importa allora che in un mese vi siano 31 giorni, e in un altro
28, che in un mese si concentrino 5 domeniche e 3 festività infrasettimanali, ed in un altro
non cada alcuna festività e vi siano solo 4 domeniche. Lo stipendio mensile sarà eguale,
ancorché, in concreto le ore lavorative effettuate possano variare, per i motivi suddetti, e non
di poco. Del concetto si è fatto, in passato, applicazione anche con riguardo al regime delle
festività infrasettimanali, con la affermazione giurisprudenziale della inesistenza la di un
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diritto per il lavoratore "a paga fissa" mensile di vedersi retribuita la festività infrasettimanale
effettivamente goduta (da retribuirsi specialmente, invece, per il lavoratore a paga oraria o
giornaliera), o anche quella che coincidesse fortuitamente con la domenica (salva una
espressa previsione favorevole di legge per le quattro festività nazionali).
Il numero delle ore effettivamente prestate rileva, pertanto, solo con riguardo a
scostamenti, in più o in meno, rispetto alla "normalità" in quel modo determina (sinallagma
funzionale): variazione in meno (ad esempio: permesso non retribuito) o in più (ad esempio:
ora straordinaria) cui si collegano trattenute o maggiorazioni stipendiali, il cui valore unitario
è. ancora una volta, disancorato dal numero di ore lavorabili effettivamente esistente nei
singoli mesi.
Per determinare, infatti il compenso da togliere o aggiungere per ogni ora lavorata in più
o in meno, si divide il salario mensile per 173, ancorché nessun mese dell'anno "contenga"
in realtà 173 ore di lavoro, essendo questo solo un valore convenzionale, delle ore medie
mensili, calcolate su base annua, al lordo di ferie, festività e domeniche:
(40x52=
173)
12
Si comprende, dunque, come in presenza di una mensilizzazione "vera", cioè di una
retribuzione "a mese", l'orario normale massimo imposto dalla legge o dal contratto collettivo
sia indifferente. o, per meglio dire, siano indifferenti le sue diminuzioni o aumenti, per
muoversi l'accordo di scambio su un diverso livello temporale.
Rende lavorativo: bene la situazione il concetto di "debito" lavorativo a fronte dello
stipendio il lavoratore ha un "debito" lavorativo, la cui consistenza, però, è determinata in via
eteronoma dalla legge o dal contratto collettivo, e può cambiare con il mutare di queste fonti.
Tale mutamento potrà semmai incidere sulla regolazione da dare a quelle vicende individuali
del rapporto, talché, ad esempio, la diminuzione di orario dovrebbe comportare una variare
del divisore
(35x52)
412
=
151
da
applicare
allo
stipendio
mensile,
lordo
stabilire il compenso per l'ora lavorata in più o in meno.
Quanto detto sino ad ora vale per i lavoratori con retribuzione "a mese" (o "mensilizzati
veri"), quali gli impiegati pubblici e privati, i lavoratori dei servizi, ecc., ma il discorso è
diverso, e certo più delicato, laddove restino, per le qualifiche operaie di settori economici
"poveri" regolamentazioni contrattuali di mensilizzazione "solo contabile".
Con quest'ultimo sistema, viene, bensì, fissato dal contratto collettivo anzitutto il salario
mensile. ma poi, applicando ad esso, il divisore 173, si ottiene un valore orario che viene
ulteriormente moltiplicato per le ore effettivamente lavorate nel mese: ad esempio, ove il
salario mensile sia di L: 1.730.000, il valore dell'ora sarà di L. 10.000, ma -a differenza del
sistema visto più sopra il lavoratore riceverà di più, nel mese di gennaio rispetto a quello di
febbraio perché in gennaio vi sono più ore normalmente lavorabili, poniamo 180 contro 165.
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Si potrebbe quindi dire, da qualcuno, che essendo questi lavoratori, nella sostanza pagati
"ad ora", la diminuzione del numero di ore lavorative comporterebbe automaticamente, per
loro una perdita salariale.
In senso contrario, però si potrebbe osservare che, in ogni caso, anche con questo
sistema viene fissata una retribuzione mensile che si assume essere quella dovuta per una
durata normale, "media" della prestazione, salvo correggere questo valore, in più o in meno,
a seconda delle caratteristiche dei singoli mesi che contengono più o meno giornate
lavorative (e salve sempre -ciò è scontato- le variazioni individuali del rapporto). Se - in altre
parole- non si è proceduto direttamente, come nei tempi antichi, a stabilire la paga oraria,
ma si è seguito un percorso all'apparenza più tortuoso, cominciando, invece, con lo stabilire
prima un salario mensile di riferimento, ciò significa che su questo valore (seppur medio e di
riferimento) si è formato un consenso negoziale, settimanale. Un ancoraggio" rispetto al
nonché il divisore che da quale l'orario rappresentando elementi esso discende, sostituibili e
modificabili, non incidono sulla identificazione, come congruente, sufficiente (nel senso
dell'art. 36 Cost.) del valore.
Insomma, si può razionalmente sostenere, ma con un ovvio margine di opinabilità, che il
sistema costituisce una soluzione intermedia tra quello della "retribuzione a mese", (nel
quale il numero delle ore lavorabili nella settimana e nel mese è indifferente), e quello della
retribuzione "ad ora" che, al contrario non prende in considerazione alcuna il reddito mensile
che il lavoratore può attendersi dal suo lavoro. almeno come dato medio, ancorché non
puntualmente garantito nei singoli mesi.
In questa soluzione intermedia, invero, il numero delle ore dell'orario settimanale serve a
trovare il valore della singola ora, proprio a partire -dal salario mensile medio voluto dalle
parti contrattuali (onde poi determinare il salario puntuale dei singoli mesi). Ma l'ammontare
del salario medio è invece garantito. Con la conseguenza logica -appunto, che ove muti, ad
esempio per intervento legislativo, l'orario settimanale, ciò comporterà semplicemente il
riproporzionamento del divisone (ad esempio: da 173 e 151) dunque, l'aumento del
compenso riferitile alla singola ora, ed infine un ampliamento delle oscillazioni del salario
percepito nei singoli mesi, ad esempio a gennaio rispetto a febbraio
¨¨¨
Le considerazioni che precedono sono anche in qualche modo introduttive all'ulteriore
filone argomentativo, riguardante, come detto, l'intento dei legislatore. Non è davvero
avversa, possibile leggere, come vorrebbe l'opinione imposizione di un tetto massimo di 35
ore settimanali quale orario normale, come ribasso anche dei salari, in imminente un
autoritativo violazione del requisito di "sufficienza" della retribuzione, che nell'ordinamento è
portato a coincidere proprio con il livello del reddito da lavoro previsto dai contratti collettivi, Il
che resta vero anche quando si consideri la fínalizzazione di promozione occupazionale
della riduzione d'orario, ed è anzi confermato dai precedenti legislativi: il legislatore quando
si è occupato espressamente del binomio orario-occupazione (contratti di solidarietà: legge
863/1984, legge 236/1993) ha sempre dimostrato di tenere nel debito conto il principio
costituzionale della sufficienza", garantendo ai lavoratori una compensazione salariale.
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