Quadro 7 - Comune di Albese con Cassano
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Quadro 7 - Comune di Albese con Cassano
Quadro 7.1 Leggere il paesaggio. Il centro storico di Albese è addossato ai piedi del rilievo montuoso, propaggine meridionale del Triangolo Lariano e si affaccia nella parte orientale sulla piccola valle in cui scorre il Rio Valle Ciappa. Fino alla metà dell’Ottocento il paese finiva qui, con un confine segnato da muri di cinta e dalle robuste fiancate delle cascine. Il suo sviluppo urbano, avvenuto a partire dal Medioevo, aveva occupato il suolo senza modificare le pendenze, sfruttando posizioni in rilievo e ben esposte (vedi Quadro e 4.1 e 5.1). Gli spazi aperti (corti, vie, piazzette) formano ancora oggi un tortuoso intreccio dove non esistono limiti fisici precisi fra terreno privato e terreno pubblico; in un passato non molto lontano lo stesso selciato che rivestiva le corti si estendeva anche nelle pubbliche vie, rendendo ancora più forte l’omogeneità dell’edificato. Quadro 7.2 Il passato scomparso 7.2.1 Il vecchio mercato L’uso del suolo pubblico fu spesso oggetto di contrasti fra la comunità e i singoli proprietari di edifici e di terreni. Un esempio significativo riguarda il piccolo slargo che si trova proprio di fronte alla casa Meroni, di pertinenza della casa ma concesso almeno a partire dal XVII per svolgere il mercato dei prodotti agricoli lungo la strada al tempo più importante e nello slargo più ampio del paese. Quando i legittimi proprietari decisero di prenderne pieno possesso, ad esempio ponendovi grandi cataste di legname, la piazza si trovò ad essere inagibile, la strada ulteriormente ristretta e il mercato senza una sede. Queste contraddizioni fra uso esclusivo e antiche consuetudini derivanti da concessioni feudali si risolsero lentamente nel corso dell’Ottocento: da un lato il mercato trovò altre sedi e forme diverse dalla vendita diretta in piazza, dall’altro l’uso degli spazi di circolazione e sosta venne sottoposto ad una normativa generale che li pose interamente sotto il controllo delle autorità comunali. 7.2.2 La filanda Gavazzi La Filanda Gavazzi, di cui si può vedere.., nella seconda metà dell’800, di proprietà di Pietro Gavazzi, comprendeva anche un incannatoio con 1440 fusi, attivo mediamente per 10 mesi all’anno. Assorbiva quasi interamente la produzione di bachi del paese e poteva premere efficacemente sulle autorità comunali per la soluzione di pratiche relative ai locali che ospitavano l’opificio, minacciando, in caso di risposte negative, l’abbandono della piazza di Albese per il rifornimento di materie prime e di mano d’opera. 7.2.3 La vecchia parrocchiale di S. Cassiano La piazza Motta (dedicata a don Chiarino Motta, parroco di Albese dal… al… e ricordato da una lapide sul fondo della piazza), che oggi fronteggia la chiesa di S. Margherita era occupata, fino alla fine del Settecento, dalla antica parrocchiale di origine medievale che venne abbattuta alla fine del secolo XVIII perché si era rivelata troppo piccola o e perché ormai da tempo era considerata pericolante. La vecchia chiesa era nominata per la prima volta nel “Liber sanctorum Mediolani” di Goffredo da Bussero (XIII sec.) come dedicata a S. Cassiano, nella quale era presente un altare di S. Margherita (insieme ad uno dedicato a S. Stefano). In un disegno della pianta e dell’alzato risalente al XVI secolo viene invece indicata sotto il nome di S. Margherita: il suo aspetto non doveva essere molto diverso da quello di S. Pietro a Cassano. Aveva una navata unica con un’abside semicircolare, una semplice facciata a capanna con annesso un campanile più ridotto Sul lato sinistro, a fianco dell’entrata, c’era un piccolo ambiente utilizzato come battistero; davanti alla porta principale c’era un portico che si congiungeva con il muro delimitante il sagrato. Luigi Riva nel suo manoscritto “Memorie storiche di Albese e (Cassano Albese)” ricorda inoltre: «La Chiesa vecchia, […] era basata da ponente a levante, cioè il coro era levante, e la porta guardava il ponente». Nel 1574 S. Carlo Borromeo, in visita pastorale, l’aveva designata come Parrocchiale di Albese e Cassano, forse per il maggiore sviluppo demografico di Albese rispetto a Cassano e per la necessità di accorpare le due comunità sotto il controllo di un’unica autorità ecclesiastica. Negli archivi sono ancora conservate documenti che testimoniano le tracce delle ingiurie del maltempo e degli effetti di un abbandono progressivo che nel corso dei secoli colpirono questo edificio; sono infatti frequenti le testimonianze che riferiscono di numerosi allagamenti procurati dalle acque di montagna che, dopo forti precipitazioni, inondavano la chiesa e la canonica, contribuendo a comprometterne la solidità. La vecchia chiesa era affiancata da una canonica, a sua volta demolita circa un secolo più tardi, completando quello slargo che è l’attuale piazza Motta. Quadro 7.3 I nomi dei luoghi Albese il toponimo riportato nelle carte del Catasto Teresiano, risalenti all’inizio del XVIII è quello di Albesio. Dante Olivieri lo fa derivare dal latino medievale Albesium o Alpense, con un vago riferimento alla realtà delle Alpi, i vasti complessi di pascoli montani che ancora oggi caratterizzano il territorio comunale. Cioss Vigna cinta da un alto muro, o anche orto coltivato con una cura particolare, come riporta Pietro Monti; in questo caso la definizione di orto calza a pennello, trattandosi di aree che fino a tempi molto recenti hanno mantenuto questa destinazione. Via per Incasate (l’attuale via Cadorna) secondo gli studiosi di toponomastica lombarda, come Dante Olivieri, potrebbe essere composto da in – casate, con quest’ultima parte che assume significati differenti a seconda dei contesti; per il nostro caso casate come casèra o cason, edifici per l’allevamento alpestre. Quadro 7.4 Luoghi memorabili 7.4.1 La chiesa parrocchiale di S. Margherita La chiesa parrocchiale di S. Margherita fu costruita in forme neoclassiche fra il 1790 e il 1792, quando era parroco don Francesco Vittani, lungo la strada Como-Erba. II progetto fu affidato all’ingegnere G.A. Bonizzoni di Milano (che il 20 settembre 1790 lasciò la sua firma sul fianco destro dell’altare della Madonna), per volontà dei nobili Parravicini che avevano donato il terreno. La comunità di Albese si impegnò entusiasticamente a contribuire alla costruzione della nuova chiesa. Luigi Riva nel suo manoscritto “Memorie storiche di Albese e (Cassano Albese)” scrive: «Tutti i signori possidenti facevano a gara nel donare vino uno più dell’altro… nei tre anni prima furono impiegati dal popolo ad unire materiali, uomini, fanciulli, giovani e vecchi, era una continua gara, ed una invidiosa vicenda di chi voleva travagliare, l’uno più che l’altro». Infatti negli anni precedenti erano stati accumulati i materiali e raccolti i finanziamenti necessari, ricavati dalle offerte e dalla vendita del legname proveniente dai boschi di proprietà pubblica. Per realizzare la nuova chiesa fu necessario palificare il terreno delle fondazioni, a causa delle notevoli infiltrazioni d’acqua presenti. La sacrestia, di notevoli dimensioni, con sovrastante salone, fu aggiunta nella prima decade dell’800. Il campanile fu realizzato solo molto più tardi, tra il 1839 e il 1850, anch’esso in forme monumentali. Nel 1852 si collocarono le campane. Tra il 1860 e il 1862, sotto l’impulso del parroco don Cesare Oggioni, la chiesa venne abbellita con affreschi sempre ispirati allo stile neoclassico, decorazioni a stucco, e rivestimenti in stucco lucido sulle pareti. Curò la direzione dei lavori l’architetto milanese Ambrogio Nava, allora Presidente dell'Accademia di Belle Arti di Brera; aveva sposato Francesca d’Adda, vedova del famoso architetto Luigi Cagnola progettista dell’Arco di Trionfo di Milano e della Rotonda di Inverigo. L’ambiente oggi chiamato “Gesiolo” venne aggiunto nel 1878. L’edificio fu consacrato nel 1891 dal patriarca di Alessandria, Mons. Paolo Angelo Ballerini. Negli anni Trenta dello scorso secolo fu ridimensionato il presbiterio, che giungeva fino ai confessionali. Nel 1992-93, in occasione del bicentenario della costruzione, la chiesa è stata interessata dal rifacimento della copertura e dal restauro della facciata e del portale d’ingresso. La chiesa di Albese è una delle più importanti del decanato di Erba: può contenere 2000 persone, ovvero tutti gli abitanti di Albese e Cassano nel secolo scorso. La facciata, di ordine dorico, è ripartita da lesene sovrastate da un grande timpano; alla base vi è un’alta zoccolatura di lastre in pietra. L’interno è ampio e maestoso. Presenta un’unica navata su cui si aprono le cappelle laterali. La volta a botte che copre la navata è divisa in tre parti, al centro, in corrispondenza delle finestre sono affrescati due angeli, motivi floreali e simboli religiosi; agli estremi due episodi raffiguranti l’Assunta e l’Immacolata, eseguiti da Gaetano Barabini /Verga. Entrando, sul lato destro, dopo una piccola cappella dedicata a S. Antonio di Padova, si trova la cappella della Madonna del Rosario (a lato di questo altare si trova la firma di Bonizzoni), affiancata dagli affreschi di S. Apollonia e S. Agata, opera sempre di Gaetano Barabini. La nicchia seguente ospita un confessionale ligneo, sovrastato da una lunetta con l’educazione della Vergine, opera di Gaetano Barabini (1861). Di fronte a questa nicchia, sul lato opposto della navata, si apre l’ingresso in sacrestia, sopra il quale in una lunetta, è affrescata la Sacra Famiglia di Nazaret di Gaetano Barabini (1861). In sacrestia è conservata un’interessante pala d’altare, del primo Seicento lombardo, proveniente dalla vecchia chiesa albesina, raffigurante S. Carlo Borromeo che adora il Crocifisso. I tratti salienti dell’opera sono la precisione del ritratto di S. Carlo e l’espressione drammatica del Cristo, caratteri tipici della pittura controriformista. La composizione e l’esecuzione di questo quadro sono all’altezza di quelle di pittori come il Cerano o i Procaccini, che spesso ritrassero S. Carlo, o a quella dei Nuvoloni, ai quali in passato si è pensato per una attribuzione di paternità. All’ingresso della sagrestia, sul lato sinistro, segue la cappella dell’Addolorata, affiancata dagli affreschi di S. Antonio eremita e di S. Giovanni Battista, opera di Gaetano Barabini. La pala d’altare è una seicentesca Pietà con due figure di santi commissionata dalla famiglia Volpi per la chiesa (poi sconsacrata) di S. Antonio a Como e finita ad Albese dopo la dispersione del suo patrimonio artistico; i documenti d’archivio indicano come autore il pittore Domenico Carpani di Como, che la concluse nel 1658 e al quale si deve riconoscere una certa originalità compositiva e una evidente precisione nelle fisionomie dei santi che si affacciano sulla scena. A lato dell’ingresso, sulla sinistra è collocato il fonte battesimale risalente probabilmente all’epoca di S. Carlo, che ha come sfondo una tela seicentesca raffigurante il Battesimo di Gesù nel Giordano, sempre proveniente dalla precedente chiesa. Di questa opera non si hanno notizie documentarie certe, ma per la resa delle sfumature nei paesaggi e per la scelta cromatica, l’autore sembra essersi ispirato alla pittura della bottega dei Fiammenghini. Lungo l’architrave che percorre tutto il perimetro della chiesa, dall’ingresso all’altare, si ripetono decorazioni a finto stucco con festoni e medaglioni con dei volti all’interno, dipinti nel 1861 da Gustavo Noger. mentre gli ornamenti sono del pittore svizzero Prada nel 1862. La zona del presbiterio, rialzata di tre gradini, è divisa dalla navata da una balaustra in marmo. È delimitata da semipilastri sormontati da archi a tutto sesto, su cui poggia la copertura a cupola. La cupola è affrescata a cassettoni con rosoni a creare un effetto di finto stucco, eseguiti dal pittore Luigi Zambrini tra il 1861 e il 1862. Nei quattro pennacchi compaiono quattro evangelisti in rilievo eseguiti a stucco; anche alla sommità della cupola appare un motivo floreale sempre a stucco. Ai lati del presbiterio sono presenti due grandi affreschi rappresentanti due momenti del martirio di Santa Margherita, opera del pittore Gaetano Barabini. Il catino absidale è affrescato da tre riquadri raffiguranti le virtù teologali Fede, Carità e Speranza rappresentate da tre figure femminili con abiti rispettivamente bianco, rosso e verde, eseguite nel 1861 dal pittore milanese Verga. È interessante notare come la Carità, solitamente raffigurata con due bambini, qui ne abbia attorno tre. All’interno della chiesa parrocchiale di S. Margherita, degno di nota è anche il monumentale organo collocato “a muro” nella controfacciata della chiesa. Fu costruito dai fratelli Prestinari di Magenta nel 1835 utilizzando parti di un organo preesistente probabilmente situato nel coro. Lo strumento assunse la sua conformazione definitiva nel 1889 quando il parroco don Chiarino Motta ne affidò il potenziamento e la revisione alla ditta “Talamona e Vedani” di Varese che conservò il ripieno dei Prestinari. Lo strumento, contenuto in una cassa lignea riccamente decorata, è stato sottoposto nel 2003-2005 ad un accurato restauro promosso dalla Pro Loco coinvolgendo le realtà del territorio con l’istituzione di un’apposita “Commissione Restauro Organo” (ora Gruppo “Chordis et Organo”) formata dai rappresentanti dei diversi Enti ed Associazioni del Paese. Il campanile, separato dalla chiesa, ha il piano di basamento e la cella campanaria in pietra a vista, mentre le pareti sono ripartite in campi intonacati con bordi in bugnato; la copertura è a cupola rivestita in rame. BOX S. Margherita d’Antiochia Storicamente si ritiene che Margherita o Marina fosse una giovane di Antiochia vissuta tra il secolo III e IV e che subì il martirio all’epoca dell’imperatore Diocleziano, probabilmente all’inizio del secolo IV. Le notizie su di lei derivano per lo più da leggende diffuse nel corso del Medioevo. Secondo quanto riporta la tradizione, Margherita era la figlia di un sacerdote pagano. Dopo la morte della madre, fu affidata a una balia, segretamente cristiana, che la educò e battezzò in questa fede. Tutto ciò avvenne all’insaputa del padre che, quando se ne accorse, la cacciò di casa. Si ritirò in campagna, dove per vivere, pascolava il gregge. Qui la notò il governatore Olibrio, che rimase tanto colpito dalla sua bellezza da volerla per sé; avendo consacrato la sua verginità a Dio, Margherita lo respinse e professò la sua fede. Fu sottoposta a carcerazione e torture. Secondo la tradizione, in carcere a Margherita appare il demonio sotto forma di un terribile drago, ma lei, armata da una croce che teneva tra le mani, lo sconfisse squarciandogli il ventre. Da questo episodio, la Santa viene invocata dalle donne in gravidanza per ottenere un parto facile. Durante un nuovo interrogatorio pubblico, si narra che una forte scossa di terremoto fece sussultare la terra e apparve una colomba che andò a deporre una corona sul capo di Margherita. La giovane fu infine decapitata. Margherita è una tra le sante più popolari del tardo Medioevo; fu inserita tra i “Quattordici Santi Ausiliatori”, alla cui intercessione il popolo cristiano ricorre nei momenti più difficili. Villa Pellegrini-Sormani Si affaccia lungo via Cadorna. Di impianto ottocentesco, fu realizzata in forme tardo-neoclassiche, con pianta ad U. Nel corpo centrale un androne con triportico conduce al retrostante giardino paesistico. Negli ultimi anni del secolo scorso ha subito un decisivo restauro in seguito ad un cambio di proprietà. Villa Andujar, poi Meroni, poi Masciadri, Adiacente a Villa Pellegrini-Sormani, già appartenuta alla nobile famiglia Andujar nel XVII secolo, poi ai Meroni, è di proprietà Masciadri da fine ‘800. Di stile seicentesco, l’edificio presenta una pianta ad U irregolare, con un massiccio corpo centrale; nella parte retrostante è presente una torre con passeraia, che fa ipotizzare origini ancora più antiche, come pure la collocazione della villa lungo il vecchio tracciato pedemontano che congiungeva Como con Erba. La Galetera o meroni Si tratta di un monumentale palazzo di epoca settecentesca, recentemente restaurato, che con la sua mole si impone nei pressi di piazza Motta lungo via … e rivela un gusto spiccatamente rococò sia in facciata che nelle sopravvivenze dell’antico cortile, con archi su colonne di aspetto classico. Il suo nome deriva……Nel portale di ingresso, una….in ferro battuto, si può ancora vedere il cigno, che campeggia nello stemma dei Parravicini,… L’ex-lavatoio (ora Museo Etnografico e dell’acqua “Lavandée”) Il tipo architettonico del portico con archi in muratura e copertura a falde era particolarmente diffuso nell’architettura rurale del comasco; tra Settecento e Ottocento trovò applicazione soprattutto nella costruzione di mercati coperti, lavatoi, filande. Un’originale variazione sul tema si ritrova nell’ex-lavatoio pubblico di Albese, costruito sulla base di un progetto del 1822. In questo caso, infatti, due funzioni pubbliche erano state associate: al piano terreno era posta una lavanderia pubblica dove le ampie arcate agevolavano l’accesso alle vasche, comunque al riparo dalle intemperie, oltre al ricambio dell’aria; superiormente si trovava l’aula che, per circa ottanta anni dal al , ospitò la scuola elementare. L’edificio era posto a fianco della casa del canonico, a ricordarci il ruolo predominante della Chiesa nel sistema dell’istruzione in anni in cui, specialmente nei piccoli comuni rurali, le attività di formazione si svolgevano fra mille contrasti e con una cronica insufficienza di mezzi economici, spazi idonei e personale adeguatamente preparato. Attualmente la costruzione ospita il Museo Etnografico e dell’acqua “Lavandée”, realizzato nel … dall’Amministrazione Comunale. All’interno è stata ricostruita la vasca con i piani di lavaggio in sasso di Moltrasio. Il Museo conserva una serie di oggetti di provenienza locale legati ai diversi usi dell’acqua, a partire da quello domestico, mediante i contenitori e gli strumenti propri della pratica del bucato, dell’igiene, dell’alimentazione, del riscaldamento. Non mancano però gli oggetti per il trasporto dell’acqua per esigenze agricole e i sistemi di prelievo dai pozzi, sia manuali che con pompe idrauliche. Ma la testimonianza più significativa è una macchina dei pompieri risalente al 1872, una delle più antiche della zona, da sempre custodita proprio presso l’antico lavatoio e impiegata fino agli anni ’50 del secolo scorso, in dotazione alla squadra di volontari del paese. Alle pareti del Museo sono appesi interessanti pannelli illustrativi degli aspetti naturalistici e storici dell’acqua nel territorio. L’ingresso è libero, con visite guidate su prenotazione per singoli e scolaresche a cura del “Gruppo Amici del Museo” e dell’equipe didattica del Museo. Villa Parravicini Le residenze delle principali famiglie formavano grandi complessi cresciuti a partire dal XVII secolo e modificati anche in base a necessità pratiche e alle fortune economiche dei proprietari: all’inizio del Settecento non ci deve sorprendere quindi la presenza contemporanea di funzioni così diverse come la residenza nobiliare, la casa d’affitto o quella del massaro; una simile mescolanza derivava dalla crescita di una proprietà di grandi dimensioni che con il passare del tempo aggiungeva nuove parti all’edificio e ne mutava le destinazioni. Nel corso del Settecento si andarono affermando nuovi modelli di residenza delle classi sociali più elevate. Ne è un esempio Villa Parravicini che si affaccia con un ampio prospetto ed una facciata monumentale su quella che al tempo era la principale via di Albese e presenta una composizione della facciata e decorazioni che non avevano precedenti in paese, tipici dell’architettura barocchetta. La presenza in Albese di proprietà della famiglia Parravicini (proveniente dalla Valtellina) risale al Cinquecento. Questa struttura, legata allo sfruttamento della campagna e perciò di chiara impostazione colonica, dovette probabilmente essere trasformata in villa di soggiorno in epoca non chiarita. Sappiamo comunque con certezza che nel 1755 (epoca del Catasto teresiano) questo edificio era già di proprietà della nobile famiglia. L’ultima proprietaria, la Marchesa Eugenia Parravicini di Persia, nel 1907 (o 1927??? Cfr Brunati) lasciò in eredità la proprietà alla Comunità di Albese per farne un ospedale per i poveri, Ora la villa è stata trasformata in casa di Riposo intitolata alla figlia, Ida, prematuramente scomparsa nel… e gestita da una Fondazione. La parte più antica della villa è composta da un giardino sul quale si apre, per mezzo di una serie di archi a tutto sesto, un edificio a pianta rettangolare prolungato con due ali simmetriche, delle quali una si unisce all’oratorio di S. Elisabetta. (dal giardino o dalla villa si entra nell’oratorio) Il giardino all’italiana è ricavato terrazzando il pendio a monte della villa. I diversi livelli del parco sono collegati da un’unica scala centrale affiancata da canaline in pietra nelle quali un tempo scorreva l’acqua proveniente da un’esedra decorata a grotta, posta alla sommità del giardino. Dall’esedra, al centro della quale ci doveva essere un tempo una fontana con statua; l’acqua scorreva verso il basso fermandosi in piccole vasche poste ad ogni piano, creando così un rinfrescante gioco di cascatelle. L’interno della villa, contrariamente a quanto accaduto ad altre residenze nobiliari, non ha subito gravi snaturamenti. La parte più interessante è costituita da porte intagliate, camini monumentali, decorazioni e affreschi presenti in alcune sale del pianterreno e del piano nobile, che risalgono ai secolo XVII e XVIII. I Parravicini, che non risiedevano stabilmente in Albese, decisero tuttavia di decorare questa dimora di campagna con opere degne di un palazzo cittadino. I diversi ambienti sono distinguibili anche dal tema trattato dalle pitture eseguite al loro interno. Al piano terreno, oltre a vasti saloni con decorazioni a stucco bianco, incontriamo una stanza di passaggio con una decorazione di putti che si dedicano ai lavori agricoli; al piano nobile abbiamo invece una stanza delle cacce, una della mitologia, una delle vedute dove spiccano raffigurazioni precise di edifici rinascimentali e uno stanzino dal soffitto ribassato forse un tempo destinato a sala da bagno, con soggetti legati alla Bibbia e una chiara citazione di Masaccio nella cacciata dal Paradiso Terrestre. A coronamento di una scala che dall’esterno del cortile porta alle stanze decorate sul soffitto troviamo una scena, molto rovinata, con una donna che allatta dei bambini. Per le sue caratteristiche stilistiche il ciclo di affreschi può essere fatto risalire alla prima metà del Seicento; per quanto riguarda gli autori invece è possibile fare soltanto ipotesi in mancanza di documenti. Sulla base di un confronto stilistico con altre opere del periodo, possiamo avvicinare il ciclo di Albese a quelli del Castello del Valentino a Torino e di Palazzo Lambertenghi a Como, eseguiti da Isidoro Appiani con la collaborazione dei fratelli Recchi di Como; simili sono i temi trattati, i motivi decorativi, le vedute con rovine, l’uso di false architetture dipinte. Gli autori di Albese dimostrano tuttavia una maggiore capacità nella resa prospettica e una leggerezza di pennellata nella descrizione della natura che ricorda i modelli genovesi del tempo. ???Nel quadro della disputa secolare sul destino delle terre comuni, Villa Parravicini fu teatro di tumulti che scoppiarono a più riprese quando i principali proprietari terrieri del paese si incontrarono per dividersi la montagna: a difesa del vecchio ordine si ponevano i contadini poveri che potendo accedere gratuitamente alle terre comuni vi vedevano una possibilità di sfuggire alla fame e i nobili proprietari delle terre più fertili che consideravano le terre comuni come un tampone efficace contro le rivolte che sarebbero scoppiate per l’eccessiva miseria. Come ricorda Luigi Riva nel suo manoscritto “Memorie storiche di Albese e (Cassano Albese)”: «Fino dall’anno 1745 erasi formata in Albese una lega fra i diversi possidenti, fra i quali primeggiavano certi Carpani, Someana, Calvi, Meroni, Maesani, Molteni, per dividersi la montagna […] la causa venne difesa dai Comunisti poveri che consideravano la montagna come loro patrimonio. Le donne infuriate, si levarono a tumulto (ci sarà stata anche la tacita aderenza degli uomini) corsero in casa Parravicini dove tenevasi allora il Convocato, era il giorno 15 aprile 1745, e minacciarono il cancelliere che vi presiedeva della vita, e stracciarono varie carte. Cinque donne furono dopo arrestate, perché con falce alla mano, si erano mostrate le più feroci, ed una certa Brunati detta la Tosina [?] prese pei capelli il presidente, o commissario, e come un’altra Giuditta lo minacciò niente meno che del taglio della testa, se parlava ancora di dividere o livellare la montagna. Furono queste donne in numero di cinque arrestate, tenute per tre giorni rinserrate sotto la scala che ascende al giardino di casa Parravicini , e quindi dopo una seria ammonizione lasciate libere». L’oratorio di S. Elisabetta Il piccolo oratorio dedicato a S. Elisabetta, all’interno del giardino di Villa Parravicini, rappresenta uno dei tanti esempi dell’interesse per l’arte della nobile famiglia. Realizzato dal 1679 al 1682, nasce per ospitare le funzioni private dei Parravicini, ma anche per un uso pubblico a vantaggio della comunità di Albese. Dalla ricca documentazione conservata presso l’Archivio Storico Diocesano di Milano si può apprendere che nel 1679, Paolo Parravicini, figlio di Giovanni Battista, residente a Milano, chiede il permesso per edificare sulla sua proprietà di Albese un oratorio «per sua devozione e pubblica comodità», essendovi in paese soltanto la Parrocchiale. La costruzione, a navata unica con lunghezza e larghezza quasi uguali, con abside rettangolare, presenta due entrate: una monumentale, che dà direttamente sulla via…. e una laterale, attraverso la quale i Parravicini accedevano direttamente dal giardino della loro villa ad un piccolo balconcino ligneo ad intaglio, posto sulla destra del vano absidale. L’oratorio di S. Elisabetta, piccolo gioiellino di arte barocca, presenta diversi motivi di interesse, sia per la ricchezza delle decorazioni pittoriche e plastiche, sia perché testimonia un’architettura legata alle prescrizioni emanate da S. Carlo Borromeo nel 1577 nel suo “Istructionum fabricae et suppectilis ecclesiasticae libri in duo”, sia per la sua felice ambientazione, in stretta dipendenza con il complesso della villa. L’interno si presenta omogeneo dal punto di vista stilistico e costituisce un esempio di alta qualità del gusto barocco. La decorazione ad affresco e a stucco del XVII secolo si estende in larga parte nelle pareti verticali e sopra l’altare, in misura minore nella volta a botte ribassata che copre l’aula. In particolare le opere in stucco rivestono una notevole importanza nell’insieme decorativo, ponendosi come contrappunto, incorniciatura ed esaltazione stessa della pittura e dell’architettura. Per quanto riguarda gli affreschi, nella volta si può osservare la gloria della Santa, dal vivace cromatismo, opera che richiama per lo scorcio degli angeli e per i panneggi delle figure lo stile del Morazzone e dei suoi seguaci come pure quello della bottega dei Nuvoloni; sulla volta del presbiterio un dipinto raffigurante il Padre Eterno, circondato da angeli; agli angoli (sulle pareti laterali) della navata le immagini, di S.Apollonia, S. Agata, S. Carlo e S. Antonio, poco più recenti. Quest’ultimo santo, grazie ad una prospettiva illusoria, ha un piede che sembra fuoriuscire dal dipinto: si tratta di un espediente tipicamente barocco per coinvolgere il pubblico con una immagine molto reale del soprannaturale. La pala d’altare raffigura la visitazione di Maria a S. Elisabetta: lo stile ricorda quello delle cappelle dipinte da Paolo Ghianda nel 1624 per il Sacro Monte di Varese, specialmente nelle figure di Giuseppe, di Maria e dell’uomo con il turbante. Sulle pareti laterali sono situati lapidi funerarie di alcuni membri della famiglia Parravicini. Il piccolo oratorio nel 2003 è risultato uno dei luoghi più segnalati (il quattordicesimo su 100 sparsi in tutta Italia) nella prima edizione del Concorso FAI “I luoghi del cuore”; nel 2008-2009 è stato oggetto di accurati restauri e… La torre di Via Diaz Nel nucleo di Albese diverse tipologie di edifici richiamano funzioni cancellate dal tempo e rappresentano efficacemente lo spirito di epoche passate. In via Diaz la torre ancora oggi riconoscibile rende l’idea di quello che doveva essere, durante il Medio Evo, un luogo centrale: nel punto più elevato del paese questo edificio, grazie alla sua altezza fuori dall’ordinario, consentiva di controllare un ampio territorio. Ai suoi piedi, fino ad epoche relativamente recenti (secondo una antica consuetudine) si svolgevano funzioni tipiche della piazza medievale, intesa come luogo delle decisioni e del confronto pubblico: le aste per l’aggiudicazione degli appalti, gli incontri, non sempre tranquilli, tra i feudatari ed i membri della comunità. La vecchia pesa Due sono le pese che esistevano ad Albese sopra cui dovevano sostare i carri “car” carichi dei blocchi di pietra provenienti dalle cave. La più importante, la “Pesa vecchia” occupava lo slargo ancora visibile tra via Vittorio Veneto e Via IV Novembre e conserva ancora il casello con la strumentazione. L’altra era posizionata davanti all’edificio all’angolo tra Via Vittorio Veneto e Via Prato, ora smantellata.