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UNIVERSITÀ TELEMATICA INTERNAZIONALE UNINETTUNO FACOLTÀ DI PSICOLOGIA Corso di Laurea in Discipline Psicosociali Elaborato finale in Psicologia Dinamica Titolo tesi Neuroni Specchio nell’Esperienza Estetica Candidato Paola Bagnasco Matr:1891 Relatore Prof. Ammaniti Anno Accademico 2014-2015 A Matilde ed Emanuele 2 1 Indice 1 Introduzione ................................................................................................................... 4 2 3 Neuroni Specchio: Dal Movimento All’empatia All’esperienza Estetica. ............... 6 2.1 Descrizione Breve Storia e Accenni Neurobiologici ......................................... 6 2.2 Infant Research e Simulazione Incarnata ........................................................ 12 2.3 Arte Esperienza Estetica e Neuroscienze ......................................................... 16 Arti Figurative Simulazione Incarnata e Neuroni Specchio.................................... 21 3.1 Neuroni Specchio Ed Arti Visive (Pittura E Scultura) .................................... 21 3.2 Freedberg e Gallese: Approccio Storico e Approccio Neuroscientifico All’analisi Delle Opere D’arte .................................................................................... 26 3.3 Analisi Opere D’arte con Soggetti Non Naturalistici e Movimenti che Non Paiono Finalizzati ....................................................................................................... 32 4 Recenti Articoli tratti da Riviste Specializzate (Peer Reviewed) che avvallano le Teorie e Sperimentazioni Descritte nei primi due capitoli ............................................. 38 4.1 Scienza e Ricerche (Rivista Peer Reviewed) ................................................... 38 Articolo scritto da Barbara Missana, Storica D’arte (27 Marzo 2015) ....................... 38 Le Nuove Frontiere della Scienza Applicata All’arte: La Neuroestetica ................... 38 4.2 State Of Mind Il Giornale Delle Scienze Psicologiche (Rivista Peer Reviewed). Articolo scritto da Guest, (04 Dicembre 2015) .......................................................... 42 4.3 Nuova Atlantide (Rivista Peer Reviewed) ....................................................... 48 Articolo scritto il 23 Settembre 2015 da Antonio Gaeta............................................. 48 Comunicare Per Immagini, Quale Fondamento Del Linguaggio ............................... 48 5 Conclusioni.............................................................................................................. 51 6 Bibliografia.............................................................................................................. 53 7 Sitografia ................................................................................................................. 56 8 Ringraziamenti ........................................................................................................ 57 3 1 Introduzione Arte e scienza sono espressione specifica della condizione umana e sono volte entrambe a interrogare l’invisibile per renderlo visibile. Il filosofo tedesco Nietzche, in un passo tratto da Aurora, scrive: “Per comprendere l’altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sgorgare sentimenti in noi analoghi, in virtù di un’antica associazione tra movimento e sensazione”. L’opera ben congegnata è in grado di evocare in noi tutto questo, catapultandoci in quella dimensione di sensazioni ed emozioni che l’artista abile ha costruito per noi. Sin dalla preistoria, l’uomo ha sentito il bisogno di esprimere la propria interiorità sensoriale ed emotiva attraverso l’utilizzo della danza, della musica ma anche della pittura, della scultura e, in tempi più recenti, con l’avvento della scrittura, della poesia. L’arte è comunicazione del proprio essere e del proprio intimo pensiero verso l’esterno. In questo senso l’arte diventa simbolo e costituisce un legame intersoggettivo tra colui che crea e colui che osserva. La ricerca neuroscientifica ha recentemente sviluppato alcune ipotesi interessanti sui modi in cui entriamo in risonanza empatica col prossimo, consentendo di sottolineare l’importanza del ruolo dei modelli impliciti di comportamento e delle esperienze altrui. Il potere empatico delle immagini, l’importanza dei processi emotivi nel campo della percezione sociale così come l’analisi attenta di immagini accomunate da una forte reazione emotiva nello spettatore, conduce a tracciare una sintomatologia della visione e della reazione. L’esperienza condivisa ha basi neurali connaturate alla natura genetica dell’essere umano, di cui i neuroni specchio sono l’ultima scoperta scientificamente dimostrata e dimostrabile. Sulla base del principio neuroscientifico definito “meccanismo specchio”, una stessa reazione emotiva viene attivata nel cervello di una persona sia che la stessa stia compiendo una esperienza, sia che stia osservando un soggetto terzo che la compie. Lo stesso “transfer” emotivo avviene di fronte a opere d’arte che rappresentano emozioni umane. La neuroestetica (approccio scientifico che indaga la creazione artistica), negli ultimi 20 anni, si è posta l’obbiettivo di esplorare le basi neuronali della creatività e dell’esperienza artistica. Tutte le nostre azioni, verbali e fisiche, originano nella mente. Grazie alle tecniche di brain imaging e agli strumenti scientifici oggi a nostra 4 disposizione possiamo verificare cosa accade nel nostro cervello durante la contemplazione di un’opera d’arte. Quando incrociamo lo sguardo enigmatico della Monna Lisa qualcosa accade nel nostro sistema nervoso e l’impatto emotivo può biologicamente essere “misurato” tramite l’attivazione di determinate aree del cervello, in particolare possiamo verificare l’attivazione dei neuroni specchio. Questo non significa che la neuroestetica sia in grado di scandagliare i meccanismi reconditi dell’animo umano (che sono il frutto della cultura, del contesto sociale, dell’esperienza personale e dello sviluppo cognitivo di ogni individuo) ma che possiamo dare un fondamento scientifico a istinti primordiali di piacere o non piacere. Difficilmente, presentando il Cafè de Nuit di Van Gogh a un boscimano del Khalahari, riscontreremo la stessa attivazione neuronale che potremmo riscontrare in un occidentale appassionato di Impressionismo. Tuttavia, ritengo che una danza tribale, un movimento cadenzato del corpo, piuttosto che un motivo musicale o un canto o un paesaggio di mare dipinto ad acquarello (ovvero una forma d’arte congenitamente condivisa da ogni essere umano di cultura, stato sociale e tradizione diversa), possa presumibilmente originare attivazioni neuronali simili. Oggi, infatti, la scienza è in grado di identificare l’origine di alcune percezioni elementari e comuni in ogni essere umano e, pertanto, di proporre una spiegazione neurologica all’universalità dell’espressione e dell’interpretazione artistica, vista come comunicazione di impressioni ed emozioni profonde che non possono essere espresse attraverso il semplice lessico. 5 2 Neuroni Specchio: Dal Movimento All’empatia All’esperienza Estetica. 2.1 Descrizione Breve Storia e Accenni Neurobiologici Negli anni '80 e '90, un gruppo di ricercatori dell'Università di Parma, composto da Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallese, Giuseppe Di Pellegrino, e coordinato da Giacomo Rizzolatti, stava analizzando il funzionamento neuronale della corteccia premotoria nella scimmia. Gli scienziati avevano posizionato alcuni elettrodi sulla corteccia frontale inferiore di alcuni macachi al fine di osservare i neuroni motori specializzati nel controllo dei movimenti della mano, durante l’atto di raccogliere o maneggiare oggetti. Nel corso di ogni esperimento, veniva registrato il comportamento dei neuroni presenti nel cervello mentre gli animali accedevano a frammenti di cibo: l’obbiettivo era quello di misurare la risposta neuronale a specifici movimenti. Come molte altre notevoli scoperte scientifiche, anche quella dei neuroni specchio fu dovuta al caso. Pare, infatti, che uno sperimentatore del gruppo colse una banana da un cesto di frutta quando, improvvisamente, alcuni neuroni di una scimmia, che osservava la scena, si attivarono. Fino ad allora si era pensato che quei neuroni reagissero soltanto per funzioni motorie, ma la scimmia non si era mossa, aveva solo osservato la scena! In un primo momento, gli sperimentatori pensarono si trattasse di un guasto nella strumentazione ma le rilevazioni dimostrarono il corretto funzionamento delle apparecchiature e l’esattezza delle misurazioni. Pertanto, le attivazioni neuronali si manifestarono nuovamente non appena fu ripetuta l'azione di afferrare da parte dell’animale. I neuroni si attivavano sia quando la scimmia eseguiva un atto motorio finalizzato, come prendere oggetti con la mano o con la bocca, sia quando osservava un altro individuo eseguire atti motori analoghi. Gli esperimenti continuarono: i ricercatori dimostrarono, confermarono e pubblicarono la scoperta di una classe di neuroni, che definirono “specchio”, localizzati in entrambe la regioni parietali e frontali inferiori del cervello. I neuroni specchio esemplificano un meccanismo neuronale che mette in relazione le azioni eseguite da altri con il repertorio motorio dell’osservatore. L’osservazione di un’azione induce nell’osservatore l’automatica simulazione di quell’azione. Questo meccanismo consente una forma implicita e diretta di comprensione delle azioni altrui. I neuroni specchio sono in grado di mediare la comprensione dello scopo di un’azione 6 anche quando essa non è completamente visibile e, quindi, il suo scopo finale può solo essere immaginato, oppure quando l’unico elemento disponibile alla scimmia è il suono prodotto dall’azione. Nella vita quotidiana dei primati, gli atti motori sono, solitamente, parte di sequenze motorie più complesse, volte a uno scopo finale. Spesso, lo stesso atto motorio appartiene ad azioni differenziate. Per esempio, si può prendere una mela per mangiarla o per riporla in un cesto. È stata descritta una classe di neuroni specchio, presenti sia nella corteccia premotoria, sia in quella parietale posteriore, che si attiva selettivamente durante l’esecuzione (oppure l’osservazione) di uno stesso atto motorio solo ed esclusivamente in relazione al tipo movimento che segue (per esempio, primo atto motorio: afferrare un oggetto, secondo atto motorio: portarlo alla bocca o, diversamente, porlo in un contenitore). Ciò significa che la risposta del neurone specchio predice ciò che sarà fatto in seguito dall’agente, suggerendo che i neuroni specchio possano giocare un ruolo importante non solo nella comprensione degli atti motori, ma anche nel riconoscimento dell’intenzione motoria dell’agente stesso. Numerosi studi, condotti utilizzando diverse metodiche sperimentali, hanno dimostrato che anche il cervello umano è dotato di un meccanismo di rispecchiamento che mappa le azioni osservate sugli stessi circuiti nervosi che ne controllano l’esecuzione. Nel 1995, Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Giovanni Pavesi e Giacomo Rizzolatti dimostrarono, per la prima volta, l'esistenza nell'uomo di un sistema simile a quello scoperto nella scimmia. Utilizzando la stimolazione magnetica transcranica osservarono, infatti, che la corteccia motoria dell'uomo viene facilitata dall'osservazione di azioni e movimenti altrui. Più recentemente, ulteriori sperimentazioni, ottenute tramite fMRI, TMS, EEG e test comportamentali, hanno confermato che nel cervello umano esistono sistemi simili e molto sviluppati. Sono state identificate con precisione le regioni che rispondono all'azione/osservazione. Vista l’analogia genetica esistente fra tutti i primati, non è affatto sorprendente che queste regioni cerebrali siano strutturalmente simili tra scimmia e homo sapiens. La localizzazione anatomica del meccanismo neurale di rispecchiamento delle azioni nell’uomo è stata ottenuta con la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI), che permette di rilevare la distribuzione differenziale del flusso sanguigno cerebrale. Le aree cerebrali coinvolte in uno specifico compito hanno un metabolismo maggiore e richiamano una maggiore quantità di sangue. Studi iniziali hanno mostrato che, durante l’esecuzione e l’osservazione di determinati movimenti, si ha un’attivazione delle aree 7 premotorie 6, 44 e 45 di Brodmann, del lobulo parietale inferiore, e della regione del solco temporale superiore. Questo circuito corticale corrisponde approssimativamente a quello dei neuroni specchio nella scimmia. Successive ricerche hanno dimostrato che il meccanismo di rispecchiamento appare implicato nell’esecuzione e nell’osservazione di una grande varietà di comportamenti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo, come mordere una mela, afferrare una tazza, o calciare un pallone, di movimenti corporei come danzare, di atti comunicativi, ed anche, nell’imitazione degli stessi comportamenti o nell’apprendimento imitativo di nuove sequenze motorie. Ogni volta che osserviamo le azioni altrui il nostro sistema motorio “risuona” con quello dell’agente osservato. Le aree premotorie del cervello umano, dove risiedono le proprietà caratteristiche dei neuroni specchio, sono coinvolte anche nella comprensione del «perché» dell’azione, cioè dell’intenzione motoria che l’ha promossa, verosimilmente, utilizzando un meccanismo neurofisiologico non dissimile da quello scoperto nei neuroni specchio parietali e premotori della scimmia (Rizzolatti, Sinigaglia 2006). Buccino (2001) scoprì che il sistema specchio nell’uomo è organizzato in modo somatotopico: l’osservazione di azioni eseguite da altri con la mano, la bocca e il piede attiva regioni distinte del sistema motorio frontoparietale. Le proprietà dei neuroni specchio sono più complesse nell’uomo: gli stessi, a differenza che nella scimmia, rispondono anche ad atti motori intransitivi, o solo mimati, e sono in grado di selezionare sia una specifica azione, sia la sequenza di atti che la compongono. Il livello di astrazione è ciò che distingue l’uomo dal macaco, tanto è vero che le ricerche condotte nell’ultimo decennio dimostrano che il meccanismo di rispecchiamento sconfina dal dominio delle azioni a quello delle emozioni e sensazioni. Regioni cerebrali come l’insula, l’amigdala e la corteccia cingolata anteriore vengono similmente attivate sia durante l’esperienza, in prima persona, di emozioni come la paura e il disgusto, o di sensazioni, come il dolore, sia durante la loro osservazione negli altri. Secondo la stessa logica, le aree corticali attivate dall’esperienza tattile diretta, si attivano anche quando assistiamo alle esperienze tattili altrui. Buccino sostiene che la risposta dei neuroni specchio dipende, inoltre, dall’appartenenza dell’azione osservata al repertorio di quelle conosciute. In un esperimento del 2004 (Buccino) furono presentati ad un soggetto umano alcuni filmati privi di sonoro in cui un uomo, una scimmia e un cane compivano l’atto di mordere per mangiare o eseguivano un atto comunicativo (rispettivamente parlare per l’uomo, schioccare le 8 labbra per la scimmia e abbaiare per il cane). L’atto di mangiare implicava in tutte e tre le specie l’attivazione delle medesime aree corticali frontoparietali nell’osservatore (umano), evocando l’analoga rappresentazione motoria codificata nel loro circuito neurale. Relativamente al movimento, altresì, si registrava una forte risposta della parte premotoria nella regione di Broca alla vista dell’uomo che parlava, una reazione più debole della stessa allo schioccare delle labbra della scimmia e nessuna reazione all’abbaiare del cane. Questo dimostra che solo le azioni comunicative già codificate nel comportamento umano (parlare e schioccare le labbra) attivano regioni cerebrali corrispondenti. In altre parole, l’atto di ingerire e mordere vengono compresi attraverso una modalità preconcettuale basata sulla “conoscenza motoria” e codificata nelle aree motorie del cervello umano deputate a questo tipo di azione. Altresì, l’atto di abbaiare viene compreso attraverso una categorizzazione cognitiva dell’informazione visiva ma non attraverso i neuroni specchio. Numerosi studi empirici di fMRI confermano che le stesse strutture nervose che presiedono all’organizzazione delle azioni intervengono nella comprensione semantica delle espressioni linguistiche che le descrivono. Tale comprensione si fonda su meccanismi legati al corpo (Lakoff & Johnson 1980, Lakoff 1987, Gallese e Lakoff 2005). Sempre Buccino (2005) sostiene, sulla base di esperimenti neurologici, che la costruzione lessicale di frasi relative ad azioni eseguite con la mano, o il piede, attiva in modo specifico diverse regioni della corteccia motoria che controllano i movimenti degli stessi effettori. La lettura silenziosa o l’ascolto di parole o frasi che descrivono azioni della bocca, della mano o del piede hanno effetti analoghi (Hauk, Johnrude & Pulvermuller, 2004; Tettamanti 2005). Ormai numerosi studi attestano il ruolo dei neuroni specchio nel riconoscimento delle emozioni, nelle quali l’associazione tra percezione e azione regola le strategie di adattamento agli eventi ambientali. Secondo uno studio di Carr del 2003, il medesimo circuito neurale (corteccia premotoria ventrale, amigdala e insula) viene attivato sia nell’osservazione, sia nell’imitazione dell’espressione facciale delle emozioni di base (paura, rabbia, felicità, disgusto, sorpresa, tristezza). Percezione e produzione attiva delle manifestazioni espressive avrebbero quindi una base comune. Il ruolo più importante pare svolto dall’insula (più grande nell’uomo che nella scimmia), che connette nei primati il sistema limbico ai 9 neuroni specchio, ed è un centro di integrazione visceromotoria, ossia, trasforma gli input sensoriali in reazioni viscerali. La comprensione delle emozioni altrui veicolata dal sistema specchio è diretta ed esperienziale, fondata sul formato neurale condiviso, il quale è collegato alla sensazione del medesimo stato corporeo. Le ricerche di Damasio nel 1994 e 1999, evidenziarono i correlati neurali tra emozioni e stati corporei associati. Nel sistema dei neuroni specchio è ora possibile indentificare il substrato biologico dell’empatia, ovvero, la possibilità di provare interiormente le emozioni altrui. Questo non significa che i neuroni specchio spieghino i meccanismi di partecipazione affettiva, ma la loro attivazione dimostra, per la sfera emozionale, un’immediata e primaria compartecipazione empatica visceromotoria che poi potrà coinvolgere o meno il livello cognitivo e cosciente: questo dipenderà dalla tipologia di relazione con il soggetto per cui si attivano. A tal proposito, Rizzolatti e Sinigaglia (2006) affermano che si tratta di due processi ben distinti, sebbene il primo (attivazione empatica attraverso neuroni specchio) preceda sempre il secondo e non possa accadere il contrario. Goldman (2004) parla di “risonanza non mediata”. Gallese (2006) definisce questa attivazione come “riflesso condizionato”, come “riproduzione automatica” dello stato dell’altro, come una simulazione non volontaria, altresì detta “simulazione incarnata”, ovvero un’esperienza che precede la mediazione cognitivo linguistica e che si stanzia nelle strutture viscero motorie dell’essere umano. Questo meccanismo pare essere il fondamento neurobiologico del “nostro” essere sociali. In altri termini, ci rende capaci di entrare in consonanza con gli altri ed “empatizzare” con loro. Sembrerebbe pertanto la condizione sine qua non per lo sviluppo dell’intersoggettività, cioè il sistema in cui le identità individuali si delineano, a partire da uno spazio interpersonale comune. La popolarità dei neuroni specchio è dovuta proprio al fatto che spiegano le origini neurobiologiche dell’empatia, ossia, la capacità di identificarci nelle situazioni e nelle emozioni altrui, quel sentimento che tutti abbiamo provato piangendo di fronte ad un film drammatico oppure gioendo per una bella notizia raccontata da un amico. Rizzolatti afferma, quindi, che siamo geneticamente “costruiti” per provare amore verso il prossimo, sebbene la vita e la società, modifichino, poi, questa attitudine innata. Meccanismi fisiologici dell’empatia sono stati ipotizzati nel passato ma nessuno era mai riuscito a dimostrarli. Solo grazie al sistema specchio riusciamo, per esempio, a 10 codificare le espressioni facciali. I visi sono molto diversi tra loro e, di conseguenza, lo sono anche le manifestazioni di gioia, dolore, preoccupazione. Eppure, spesso anche di fronte a una semplice fotografia, riusciamo, senza troppa difficoltà, a ricondurre le smorfie facciali a emozioni che ci appartengono. Riconoscere le espressioni degli altri e “immedesimarsi” in loro, tuttavia, non è l’unico aspetto interessante dei neuroni specchio. Essi permettono anche di capire l’intenzionalità di un’azione. «Se per esempio in treno una ragazza passa il giornale al suo fidanzato, un osservatore esterno è in grado di capire l’armonia della coppia a partire da quel semplice gesto», spiega Rizzolatti. «Se, infatti, i due sono reduci da un dissapore, il quotidiano sarà passato in modo più brusco, mentre, se non ci sono tensioni, il movimento sarà più morbido». Si tratta di un’abilità che molti di noi ritengono scontata e attuano senza metterci pensiero, ma, che, in realtà, è molto complessa dal punto di vista neurobiologico. 11 2.2 Infant Research e Simulazione Incarnata Il neonato nasce come essere sociale e come tale cresce e si sviluppa: i meccanismi neuronali alla base del suo sviluppo sarebbero pertanto guidati dall’area visceromotoria e dai neuroni che in essa si trovano. La base biologica della socialità e dell’empatia, non di meno, parrebbe trovarsi proprio nelle aree del cervello sopra descritte. All’inizio della vita, le relazioni interpersonali sono prontamente istituite all’interno di uno «spazio noi-centrico» primitivo condiviso. I neonati condividono questo spazio con i loro caregivers. Lo spazio fisico occupato dal corpo del caregiver, la madre, in primo luogo, è “agganciato” al corpo del bambino per formare uno spazio condiviso. Questo spazio noi-centrico diventa più ricco e sfaccettato nel corso dello sviluppo, in relazione al più ampio spettro e significato dei rapporti interpersonali. Fin dalla nascita gli esseri umani sono impegnati in relazioni interpersonali mimetiche (Meltzoff e Moore 1977). Come Meltzoff ha scritto di recente, il fondamento su cui si basa la psicologia del senso comune è la percezione che gli altri sono simili a sé. I neonati instaurano i loro rapporti interpersonali con la percezione di base: “Qui c’è qualcuno simile a me”. I neonati sono congenitamente pronti a collegarsi a chi li accudisce attraverso l’imitazione di gesti buccali, come la protrusione della lingua o l’apertura della bocca. Inoltre, molto precocemente essi mostrano nel loro comportamento sequenze d’interazione sociale, sollecitando attivamente l’attenzione di chi li accudisce e impegnandosi in attività corporee che mostrano la struttura proto conversazionale di alternanza di ruolo, caratterizzata da una struttura molto simile alle conversazioni degli adulti. Questi risultati suggeriscono che l’oggetto principale delle relazioni interindividuali dei bambini è il comportamento affettivo dell’Altro. Come rilevato da Beebe (2005), la psicologia dell’età evolutiva ha dimostrato che la mente nasce come una mente condivisa. Le neuroscienze, con la scoperta dei neuroni specchio, hanno fornito il livello di descrizione subpersonale a questa dimensione relazionale della condizione umana. I meccanismi nervosi alla base della facoltà di comprendere il comportamento altrui erano fino a non molti anni fa poco conosciuti. La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia, e la successiva dimostrazione dell’esistenza di meccanismi di rispecchiamento nel cervello umano, hanno evidenziato, per la prima volta, un meccanismo 12 neurofisiologico capace di spiegare molti aspetti delle nostre capacità di relazionarci con gli altri. Le neuroscienze dimostrano, sempre più evidentemente, come l’intelligenza sociale della nostra specie non sia solo “meta – cognizione” sociale, cioè capacità di pensare i contenuti della mente altrui attraverso rappresentazioni preposizionali, ma sia, soprattutto, il frutto di un accesso diretto al mondo dell’altro. Questo accesso è garantito dal corpo vivo e dai meccanismi nervosi condivisi, di cui i neuroni specchio sono sottendono il funzionamento. La scoperta dei neuroni specchio non è la scoperta di un nuovo fenomeno clinico ma, solo, dei possibili meccanismi neurali che possono far luce su fenomeni clinici già noti. Naturalmente, nella storia della psicoanalisi, vi sono state varie intuizioni che hanno anticipato la comprensione ora permessa da questa scoperta. I primi anticipatori di questo processo di rispecchiamento sono Bion, Winnicott e Stern. Brevemente, Bion (1962), col concetto di funzione alfa, formulò una teoria secondo cui la rêverie materna permette il contenimento degli elementi di pensiero che possono essere trasformati e più tardi utilizzati dal bambino per costruire il suo apparato psichico. Winnicott (1967) parlò dell’importanza della “madre sufficientemente buona” che rispecchia il bambino, il quale in questo modo può essere visto, riconosciuto e, quindi, ritrovarsi negli occhi della madre. Nel concetto di Stern (1985) di attunement la madre risponde al bambino non semplicemente imitandolo, ma trascendendolo, alludendo ad aspetti di sentimenti sottostanti condivisi, introducendo “variazioni sul tema” e aggiungendo nuovi stimoli transmodali. Già Freud (1919), avulso di tutte le teorie sviluppatesi dagli anni ‘50 sul rapporto neonato-caregiver, tentò di costruire una teoria completa secondo cui la mente si differenzia in parti che si osservano l’un l’altra: nell’Io gradualmente si sviluppa una struttura capace di opporsi al resto dell’Io, una struttura che ha lo scopo della auto osservazione. Questa struttura auto osservantesi, che poi diventerà il Super Io, è il risultato di una precedente internalizzazione, quella del caregiver, che, gradualmente, svolgerà una funzione guida autonoma all’interno della mente. Ricordiamo anche la “fase dello specchio” di Lacan (1936), durante la quale il bambino di 8-10 mesi acquisisce la immagine totale del Sé. In tempi più recenti, Kohut, coi concetti di “transfert speculare” e “internalizzazione trasmutante”, evidenzia l’importanza dell’ “oggetto Sé” nella costruzione del Sé, grazie all’empatia dell’analista. Tutte queste concettualizzazioni, molto diverse l’una dall’altra e provenienti da diversi orientamenti 13 teorici, sottolineano l’importanza dell’oggetto (esterno, o, internamente rappresentato), nel rispecchiare il Sé, come una modalità fondamentale di ristrutturare il mondo interno. Il corpo del bambino, a cui lui non ha accesso visivo, simula quindi correttamente quello dell’adulto ma non come un arco riflesso, poiché le informazioni visive vengono trasformate in informazioni motorie attraverso un meccanismo che è stato chiamato “mappatura intermodale attiva” (active intermodal mapping [AIM]: Meltzoff & Moore, 1997), il quale definisce uno “spazio reale supramodale” (“supramodal actual space”: Meltzoff, 2002) non legato ad un singola modalità di interazione, sia essa visiva, uditiva, o motoria. Ovviamente, i bambini molto piccoli non sono in grado di simulare tramite inferenze per cui si suppone l’esistenza di una simulazione incarnata automatica fin dalla nascita. Questo processo intersoggettivo, che continua e si espande nel corso di tutta la vita, potrebbe essere alla base del rispecchiamento materno di cui parla Winnicott (1967) e anche del concetto di “sintonizzazione affettiva” di cui parla Stern (1985). La Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty (1945) afferma che la comunicazione o la comprensione dei gesti avvengono attraverso la reciprocità delle proprie intenzioni e dei gesti degli altri. Secondo questi autori, il corpo, nella misura in cui dispone di “pattern comportamentali”, usa le proprie parti come un sistema generale di simboli del mondo, così che quel mondo diventa comprensibile all’individuo stesso. Si tratta del meccanismo che innesca il processo di simulazione: volontario ed introspettivo, secondo la teoria “standard”, altresì automatico e preriflessivo, secondo la teoria della simulazione incarnata. Le due teorie sono diverse e complementari, in quanto riguardano livelli e contenuti mentali di differente complessità e sofisticazione. Neonati di appena 12 mesi sono capaci di anticipare lo scopo di azioni compiute da altri solo se loro stessi sono già capaci di compiere quelle stesse azioni (Sommerville & Woodward, 2005; Falck-Ytter, Gredeback & von Hofsten, 2006): questo dimostra che certe abilità cognitive dipendono dallo sviluppo delle abilità motorie e non viceversa. Vi sono esperimenti recenti che mostrano come neonati di soli 15 mesi riconoscano le false credenze (Onishi & Baillargeon 2005), per cui si presuppone esistano meccanismi di basso livello che si sviluppano pienamente prima della competenza linguistica. Per riassumere, mentre assistiamo al comportamento intenzionale degli altri, esperiamo uno specifico stato fenomenico di “consonanza intenzionale”, che genera una qualità particolare di familiarità con gli altri individui. Ciò costituisce un’importante componente dell’empatia. Chiaramente, l’identità sé altri non esaurisce tutto ciò che significa l’empatia. L’empatia, a differenza del contagio emotivo, comporta la capacità 14 di esperire ciò che gli altri provano ed essere, nel contempo, capaci di attribuire queste esperienze agli altri e non a sé stessi. La qualità ed il contenuto della nostra esperienza viva del mondo degli altri implica la consapevolezza della loro esistenza nonché della loro alterità. Questa alterità è, d’altra parte, evidente anche a livello subpersonale, essendo sostanziata dai diversi circuiti nervosi che entrano in gioco e/o dal loro diverso grado di attivazione quando siamo noi ad agire o ad esperire emozioni e sensazioni rispetto a quando sono gli altri a farlo. La simulazione incarnata, insomma, costituisce un meccanismo cruciale nell’intersoggettività. I diversi sistemi di neuroni specchio ne rappresentano i correlati subpersonali. Grazie alla simulazione incarnata non assistiamo solo a una azione, emozione o sensazione, ma parallelamente nell’osservatore vengono generate delle rappresentazioni interne degli stati corporei associati a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni, “come se” stesse compiendo un’azione simile o provando una simile emozione o sensazione. Ogni relazione intenzionale può essere vista come una relazione tra un soggetto e un oggetto. I sistemi di neuroni specchio stabiliscono una corrispondenza tra le diverse relazioni intenzionali in modo neutro rispetto alla specifica qualità o identità del parametro dell’agente/soggetto. Attraverso uno stato funzionale condiviso da due corpi diversi che tuttavia ubbidiscono alle stesse regole funzionali, “l’altro oggettuale” diventa in una certa misura “un altro sé stesso”. La simulazione incarnata non è l’unico meccanismo funzionale alla base dell’intelligenza sociale, ma funziona in parallelo con la “simulazione standard”. Il significato degli stimoli sociali può cioè essere decodificato anche tramite l’elaborazione cognitiva esplicita delle loro caratteristiche percettive contestuali, sfruttando conoscenze già acquisite. La nostra capacità di attribuire false credenze agli altri e le nostre più sofisticate abilità metacognitive probabilmente comportano l’attivazione di vaste regioni del nostro cervello, che includono il sistema sensomotorio. Un obiettivo di ricerca futuro sarà determinare come la simulazione incarnata, che è basata sull’esperienza ed è probabilmente il meccanismo più antico da un punto di vista evolutivo, possa essere il fondamento di forme più sofisticate e linguisticamente mediate della nostra capacità di interpretare il comportamento altrui in termini di stati mentali. Una possibilità è che i meccanismi di simulazione incarnata siano cruciali nel corso del lungo processo di apprendimento richiesto per divenire completamente competenti nell’uso degli atteggiamenti proposizionali. La narrazione di storie, cui siamo esposti fin dalla prima infanzia, gioca verosimilmente un ruolo importante in 15 questo processo di acquisizione. Peraltro, la simulazione incarnata è certamente in atto durante i processi di elaborazione del linguaggio. 2.3 Arte Esperienza Estetica e Neuroscienze Abbiamo visto come i meccanismi innescati dai neuroni specchio costituiscano una base neurale (Gallese 2006) e come la nostra capacità di comprendere le emozioni altrui dipenda primordialmente non da una Teoria della Mente (fondata sui principi cognitivi che si sviluppano nel corso della vita e dell’esperienza personale di ognuno), bensì dall’attivazione dei centri nervosi, da cui origina la simulazione incarnata. Se questi meccanismi sono in grado di spiegare l’intersoggettività e lo sviluppo di uno spazio condiviso, in cui possiamo comprendere, visceralmente ed empaticamente, le intenzioni e le emozioni altrui, il passo verso una primitiva comprensione dell’esperienza estetica diviene logico. L’arte è principalmente emozione e, se l’emozione ha una base neurale, possiamo ragionevolmente evincere che i neuroni specchio si attivino anche durante la produzione e/o osservazione di un’opera d’arte. Ad un certo punto della sua evoluzione, la specie uomo comincia a rapportarsi con il mondo esterno attraverso la dimensione artistica. L’oggetto materiale perde l’esclusiva connotazione di strumento da piegare per un utilizzo pratico (ricerca del cibo, necessità di procreare per continuare la specie, etc) per assumere una natura simbolica, capace di evocare la presenza di qualcosa che, apparentemente, non è presente, se non nella mente dell’artista, ed in quella di chi guarda la sua opera. Questa “sintonizzazione mentale”, tra creatore e fruitore, ha radici profonde nell’esperienza condivisa che tutti facciamo del mondo, grazie anche ai meccanismi neurali sopra citati. L’arte riassume questa esperienza, universalizzandola e, al tempo stesso, affermando un nuovo modo possibile di mettere in scena la realtà. L’oggetto artistico non è mai oggetto in sé stesso ma polo di una relazione intersoggettiva e sociale: emoziona in quanto evoca risonanze di natura sensoriale, motoria ed affettiva in colui che con esso si relaziona. L’approccio scientifico che indaga la creazione artistica è definito “neuroestetica” ed è stato coniato dal neuroscienziato Semir Zeki, professore di Neurobiologia allo University College di Londra. Zeki ha utilizzato la sua conoscenza erudita delle arti classiche, sia figurative, sia filosofico letterarie, come oggetto dei suoi studi, dei suoi esperimenti e delle sue innovative scoperte relative alla corteccia visiva. Secondo Zeki, 16 poiché l’estetica presuppone una conoscenza complessa della visione (che si spiega solo attraverso la neurobiologia), l’analisi dei meccanismi che connotano la personale e soggettiva “esperienza estetica” deve avere una base scientifica. Zeki ripropone in chiave biologica ciò che infinite schiere di filosofi e psicologi hanno confinato, per mancanza di dati scientifici, alla pura deduzione dei meccanismi che si scatenano nell’animo umano di fronte a una ballerina che danza oppure di fronte a un Van Gogh che evoca sensazioni potenti in chi lo osserva. Nel passato si pensava che l’occhio fosse semplicemente un canale attraverso cui i segnali visivi si imprimevano sulla retina. La scienza ha, invece, dimostrato che il cervello opera una scelta tra tutti i dati visivi disponibili e, confrontando l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera l’immagine visiva con un procedimento molto simile a quello messo in atto da un artista quando dipinge un quadro. La visione dell’opera d’arte, altresì, è un processo neurologico complesso. Molti esperimenti, su soggetti sani e cerebrolesi, dimostrano come l’atto del vedere sia costruttivo e possa essere scomposto in una serie di stadi (il riconoscimento del colore, della forma e delle relazioni cromatiche tra due aree prossime ma distinte e così via), la realizzazione dei quali è affidata a determinate strutture anatomiche, identificabili nel cervello e distinguibili fra loro. Zeki propone una curiosa correlazione tra alcune forme d’arte e la funzione conoscitiva di ciascuno degli stadi di cui si compone la visione come se, inconsapevolmente, alcuni artisti selezionassero precisi meccanismi neuronali della visione per sfruttarli, isolarli ed esaltarli, in modo che l’opera finita susciti e proietti nel fruitore finale l’esatto impatto emotivo che l’autore prova durante la sua realizzazione e, ancora prima, durante la sua ideazione. Zeki afferma che Monet sembrava quasi consapevole dei meccanismi che regolano la costanza del colore, ovvero il fatto che un oggetto ci appaia sempre dello stesso colore quando, invece, se viene sottoposto a luci differenti, non lo è. Con la celebre serie dedicata alla cattedrale di Rouen, Monet pare anticipare (o sottrarre, con un’ulteriore operazione cognitiva) l’omogeneizzazione cromatica, restituendo il “vero” colore della cattedrale nei diversi momenti del giorno e nelle diverse condizioni atmosferiche. Altri artisti, altresì, paiono meno consapevoli di aspetti quali la visione del movimento e della forma, pur tuttavia, suscitando, attraverso le loro opere, sensazioni visive che rispecchiano la loro “realtà visiva”. Il pittore francese Matisse, descrivendo i propri obiettivi, diceva: “Dopo aver osservato un paesaggio, dipingo con l’immaginazione, lo riproduco in forma semplificata”. L’immaginazione permette di semplificare la realtà. 17 Durante la percezione del mondo, il nostro cervello è continuamente ostacolato da dettagli irrilevanti e distraenti: deve quindi estrarre le informazioni essenziali e costanti, a partire da una massa di dati in continuo cambiamento. Lo scopo dell’arte è svelare l’essenza delle cose. “L’arte non rappresenta quello che vediamo, se mai rende le cose visibili”, diceva l’artista tedesco Paul Klee. Il Caravaggio, per esempio, riusciva a imprimere alla rappresentazione della realtà una forma eterna. E Raffaello Sanzio, nel dipingere una bella donna, la componeva come un puzzle di lineamenti sottili osservati su diverse modelle diverse. Pertanto, secondo Zeki, l’artista è un neurologo inconsapevole e l’arte stessa, può essere descritta scientificamente secondo meccanismi biologici simili a quelli che regolano la visione. In altre parole, se la visione si scompone in un processo di selezione e individuazione di costanti, finalizzato alla conoscenza del mondo esterno, in tal modo, a livello neuronale, può essere descritta l’arte. Le domande da cui l’analisi si dipana sono: che cosa accade nel cervello dell’artista quando si esprime creativamente? Che cosa accade nel nostro cervello quando osserviamo un’opera d’arte? Ma, soprattutto, è possibile dimostrare neurologicamente l’esistenza di un’area del cervello deputata alla creatività? Si può dimostrare l’attivazione dei neuroni specchio nell’esperienza estetica? La creatività è capacità di astrazione ed immaginazione ed è biologicamente attivata dai neuroni che si trovano nell’emisfero destro del cervello. La sensazione che si prova “vedendo” deriva dal greco sinestesia (syn = unione + aisthesis = sensazione) e significa “percepire insieme”. La sinestesia è anche un fenomeno percettivo reale che si manifesta come percezione sovrapposta, e non controllata, dei sensi. Può essere appannaggio di individui con elevate capacità mentali o essere indotta artificialmente dall’assunzione di droghe (il famoso fungo peyote messicano). Si ritiene che i neonati siano inizialmente sinestetici e, solo con lo sviluppo neurobiologico, le loro aree mentali si specializzino in zone sensoriali diverse (gusto, olfatto, tatto, etc). Una forma nota di sinestesia è quella fra colori e suoni: Mozart e Kandinsky, per esempio, percepivano in modo sincronico colori e suoni, faticando a scindere le due sensazioni (vista e udito): si presume che la loro creatività artistica sia stata favorita da questa particolarità sensoriale. Zeki sostiene che, se l’arte genera un senso di profondo appagamento in molte persone, questo significa che l’artista ha afferrato e “colpito” qualcosa di geneticamente scritto nel DNA umano, ovvero, qualcosa che riguarda tutti i soggetti sani. 18 La scoperta dei neuroni specchio, affermano Gallese e Freedberg, spiega neurologicamente la frequente sensazione fisica che induce a reagire all’opera d’arte con un’apparente imitazione delle azioni in essa rappresentate (per esempio, l’accasciarsi di fronte ad una figura piegata dal dolore) o, addirittura, con un’imitazione delle azioni che, certamente, ha compiuto l’artista nel crearla (per esempio, pennellate più o meno delicate o irruenti in un dipinto ad olio). I neuroni specchio offrono la possibilità di comprendere la relazione tra la reazione alla percezione del movimento in opere pittoriche, scultorie, architettoniche e le emozioni che tali opere suscitano. Il sistema specchio, che si mobilita osservando un’azione, in particolare quando viene orientata verso un obbiettivo, attiva le stesse aree neuronali coinvolte nell’esecuzione della stessa azione: questo semplice meccanismo di causa effetto, secondo Freedberg e Gallese, è in grado di spiegare il frequente coinvolgimento empatico con i movimenti rappresentati nelle opere d’arte. I neuroni specchio si sono dimostrati reattivi anche durante le azioni implicite persino qualora la loro fase finale non fosse visibile: essi consentono, pertanto, di comprendere le azioni altrui per mezzo della simulazione incarnata, attivando la rappresentazione motoria dell’azione in questione persino se la conclusione della stessa è solo accennata. La ricerca ha dimostrato inoltre che persino la visione di immagini statiche stimola l’atto di simulazione nel cervello dell’osservatore: guardare la foto di una mano che cerca di afferrare un oggetto attiva nel cervello la rappresentazione dell’azione raffigurata. Calvo e Merino hanno dimostrato che la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva sulla corteccia premotoria ventrale, (ma non dell’area visiva extrastriata, che risponde alla visione del corpi), disturba la capacità di percepire figure immobili di corpi danzanti come entità visive complete, suggerendo, quindi, come l’attività dei neuroni specchio sia coinvolta nell’elaborazione globale dei corpi. Pertanto, appare logico che un analogo processo di simulazione motoria possa scaturire dall’osservazione di immagini ferme di un’azione immortalata in un dipinto, per esempio. Non sorprende che reazioni fisiche ad opere d’arte siano spesso localizzate nella parte del corpo coinvolta in azioni fisiche intenzionali, tanto da sembrare che si imitino i gesti e i movimenti dell’immagine osservata, persino nei casi in cui l’azione pare il risultato di una reazione emotiva (esempio nella rappresentazione di scene di lutto). Tornando al concetto di simulazione incarnata, gli esperimenti di imaging encefalico negli esseri umani hanno dimostrato che l’osservazione di oggetti manipolabili stimola l’attivazione della corteccia premotoria ventrale ovvero un’area del 19 cervello deputata al controllo dell’azione e non alla rappresentazione di oggetti. Le particolari interazioni volontarie evocate dagli oggetti costituiscono una parte del loro contenuto rappresentativo, pertanto, stimolano l’attivazione delle regioni del cervello deputate al controllo dell’interazione con gli oggetti stessi. Gli oggetti statici tridimensionali vengono identificati e rappresentati anche nella loro possibile interazione con un osservatore, che è potenzialmente coinvolto anche emotivamente. Questo meccanismo di simulazione motoria, se associato alla risonanza emotiva che suscita (Lipps) è presumibilmente una componente cruciale dell’esperienza estetica legata alla rappresentazione artistica degli oggetti. Pertanto, anche una “natura morta” può essere “animata” dalla simulazione incarnata che evoca nel cervello dell’osservatore. Il ruolo di questo meccanismo neuronale, nell’esperienza estetica diventa oltremodo evidente se si considerano emozioni e sensazioni. L’integrità del sistema sensomotorio è cruciale per il riconoscimento delle emozioni manifestate dagli altri in quanto aiuta a ricostruire cosa proveremmo nel caso di una particolare emozione, mediante la simulazione incarnata del relativo stato corporeo. Antonio Damasio e collaboratori hanno dimostrato come le sensazioni emotive (“feeling”, che può essere anche tradotto come “empatia”) siano connesse alle mappe neuronali dello stato fisico corrispondente. Damasio ha ipotizzato, sulla base delle sue ricerche, che quando si osservano immagini che provocano reazioni forti, come la paura, il corpo viene aggirato e il cervello, in modo “simulato”, riproduce gli stati somatici osservati o impliciti nel dipinto o nella scultura, come se il corpo fosse presente. La scoperta dei neuroni specchio e della collegata teoria della simulazione incarnata sembra fornire la prova del loro ruolo in reazioni specificatamente estetiche. Nonostante gli esperimenti non siano ancora così documentati, la ricerca sui neuroni specchio offre diverse prove empiriche del fatto che la produzione di opere d’arte attivi, nel fruitore dell’opera, il medesimo programma motorio applicato dall’artista. Nel prossimo capitolo, riporterò l’analisi di alcune opere d’arte, effettuate dai neuroscienziati che avvallano questa teoria. 20 3 Arti Figurative Simulazione Incarnata e Neuroni Specchio Recentemente ho visitato una mostra di Claude Monet alla Galleria d’Arte Moderna di Torino. La visione di siffatte mirabili opere ha fatto registrare nel mio animo cento e più emozioni: dal timore reverenziale verso le forze della natura suscitato dal mare in burrasca e dal cielo plumbeo di Le Barche. Regate ad Argentouil (1874) - FIGURA 1, le cui pennellate danno la sensazione di una sferzata di maestrale alle vele, al calore e alla malinconia suscitata da Argentouil (1875) - FIGURA 2 - ove le medesime barche sono colorate e si rispecchiano nella tiepida acqua di un’estate di metà ottocento all’agghiacciante terrore della morte e al senso di vuoto che suscita Camille sul letto di morte (1879) - FIGURA 3 - con quei viola e quel velo che penetrano nell’animo lasciando una profonda sensazione di angoscia. Tutte queste emozioni le ho provate rimanendo inchiodata alle tele per carpire cosa non saprei descrivere ma, sicuramente, qualcosa che Monet in quel momento (150 anni dopo) voleva comunicare proprio a me! Questa è empatia e ritengo che, se in quei momenti avessi avuto elettrodi posizionati sul mio capo, o, se fossi stata sottoposta a risonanza magnetica funzionale, molto probabilmente, i neuroni specchio presenti nella mia corteccia prefrontale avrebbero dato segno di attivazione. 3.1 Neuroni Specchio Ed Arti Visive (Pittura E Scultura) Nella seconda metà del XIX secolo vari studiosi tedeschi, scrivendo sulle arti visive, hanno spostato le loro opinioni sul coinvolgimento corporeo dello spettatore in risposta a opere di pittura, scultura e architettura. L’importanza dell’empatia per l’estetica è stata sottolineata per la prima volta dal filosofo tedesco Robert Vischer nel 1873, anno in cui egli pubblicò un piccolo libro destinato ad esercitare un’influenza enorme sul dibattito estetico nei decenni a venire: “Sul sentimento ottico della forma”. In quest’opera Vischer distingue il mero processo del vedere da quello pragmaticamente attivo del guardare. Secondo Vischer la fruizione estetica delle immagini, in generale, e dell’opera d’arte, in particolare, implica un coinvolgimento empatico che si configurerebbe in tutta una serie di reazioni fisiche da parte dell’osservatore. Con il termine Einfuhlung (letteralmente “sentire dentro”), Vischer designa le reazioni fisiche prodotte dall’osservazione dei 21 dipinti, notando come forme particolari suscitino particolari reazioni emotive, a seconda della loro conformità al disegno e alla funzione dei muscoli corporei. Secondo Vischer, è attraverso la proiezione inconsapevole dell’immagine del proprio corpo che chi osserva riesce a stabilire una relazione estetica tra sé e l’immagine. Elaborando le idee di Vischer, Wolfflin propose le sue opinioni sul modo in cui l’osservazione di particolari forme architettoniche stimolava le reazioni fisiche degli osservatori. Nello stesso periodo, Bernard Berenson delineava le sue teorie su come l’osservazione del movimento rappresentato nelle opere d’arte rinascimentali potenziasse la consapevolezza di analoghe potenzialità muscolari nel proprio corpo: il suo concetto di “valori tattili” (le qualità che garantiscono all'opera d'arte quella che lo storico d’arte definiva “esaltazione della vita”), inoltre, prefigurava aspetti delle attuali scoperte sull’empatia. Allo stesso modo, Thedore Lipps elaborava le sue concezioni sul nesso fra godimento estetico, da una parte, e coinvolgimento fisico con lo spazio, dall’altra, nell’architettura e in altre arti. Tutti questi scrittori credevano che l’emozione del coinvolgimento fisico nelle opere d’arte non soltanto provocasse un sentimento di imitazione del movimento visto o implicito nell’opera d’arte ma potenziasse anche le reazioni emotive dello spettatore nei suoi confronti. La logica della Einfuhlung, grazie a Lipps, venne trasferita al dominio della psicologia delle relazioni interpersonali, esercitando una notevole influenza anche su Freud. L’opera di Vischer esercitò anche grande influenza sullo scultore Adolf Von Hildebrand e sullo storico dell’arte Aby Warburg. HIldebrand pubblicò, nel 1893, un libro dal titolo “Il problema della forma nell’arte figurativa”, nel quale sostenne che la percezione della spazialità dell’immagine fosse il risultato di un processo costruttivo sensomotorio. In questo libro, Hildebrand afferma che la realtà dell’immagine artistica risiede nella sua effettualità, concepita duplicemente sia come risultato delle cause che l’hanno prodotta, sia come effetto che provoca in chi la osserva. Secondo la stessa logica costruttivista, il valore di un’opera d’arte consisterebbe nella capacità di stabilire un rapporto tra la progettualità intenzionale dell’artista e la ricostruzione di tale progettualità da parte del fruitore dell’opera. In tal modo si stabilisce una relazione diretta tra creazione e fruizione artistica. Conoscere l’immagine equivale, secondo Hildebrand, a conoscere il processo che la realizza. Antonio Damasio, il più famoso scrittore di neuroscienza, sostiene che le emozioni abbiano una base fisica, enfatizzando i modi in cui le azioni fisiche precedono i 22 sentimenti e l’espressione delle emozioni. Nel descrivere il processo di integrazione tra processi cognitivi e sensazioni fisiche, Damasio sviluppa il concetto da lui definitivo “il circuito corporeo del come se”, sottolineando il sostrato neurologico che provoca nello spettatore la simulazione somatica di ciò che osserva. Damasio sostiene che quando osserviamo il comportamento fisico ed emotivo degli altri, il nostro cervello, in particolare la corteccia somatosensoriale destra, si riorganizza in modo da assumere la stessa conformazione che avrebbe assunto se fossimo stati realmente impegnati nelle azioni osservate, o se avessimo provato quelle stesse emozioni che invece stiamo osservando negli altri. Precisamente, Damasio suggerisce che la corteccia prefrontale ventromediale, l’amigdala ed altre importanti regioni limbiche comunichino direttamente alle cortecce somatosensoriali di organizzarsi come si sarebbero organizzate nel caso il corpo avesse effettivamente assunto quello stato. Di conseguenza, l’osservatore risponde alla vista di un’azione di una scena drammatica in cui è coinvolto il corpo o, addirittura, ad una scena che implica un movimento corporeo, attivando quelle parti della corteccia somatosensoriale e motoria che si sarebbero attivate qualora fosse stato veramente coinvolto nella scena. Un definizione biologica unanime di arte non si è ancora trovata, tuttavia, il recente movimento neuroestetico (che origina da Semi Zeki) ha compiuto alcuni tentativi per desumere regole di percezione generali che spieghino cosa sia e quali siano i piaceri estetici che ne ricava l’osservatore. Questi tentativi sono basati sulla conoscenza psicofisica e neurocognitiva della parte del cervello deputata alla visione ed hanno contemplato l’analisi di alcune opere d’arte famose. Gli studiosi che hanno esperito le suddette analisi sperimentali sono partiti dalla visione delle immagini e dalle reazioni corporali che derivano visceralmente dalle medesime. Nel 2007, Giacomo Rizzolatti, Emiliano Macaluso e Salvatore Giannella hanno verificato empiricamente il meccanismo per cui, quando un’opera d’arte ci cattura emotivamente, entriamo in uno stato di risonanza motoria, di empatia emotiva, che ci fa in qualche modo vivere le espressioni (fisiche) ed emozionali rappresentate. Sono state utilizzate, come esempio sperimentale, la bellezza delle sculture classiche nella loro forma perfetta (ma il discorso potrebbe essere analogo di fronte alla bellezza di un bimbo o di un fiore). Per catturare la sensazione che caratterizza l’esperienza estetica e per capire come il cervello risponde a essa, i neuroscienziati hanno mostrato ad alcuni volontari alcune immagini di sculture classiche (i Bronzi di Riace) – FIGURA 4 - e un famosissimo dipinto rinascimentale (la Venere di Botticelli) – FIGURA 5 - e, 23 contestualmente, hanno registrato l’attività del loro cervello con la risonanza magnetica funzionale. La scelta è ricaduta su immagini classiche e rinascimentali perché la loro bellezza è legata ad alcuni parametri estetici, primo tra tutti la proporzione tra le varie parti del corpo umano. Sono parametri che fanno riferimento alla bellezza ideale, che non è corruttibile dal tempo o da sentimenti negativi. Questi parametri, se alterati, rendono le stesse opere meno belle. In primo luogo, i ricercatori hanno, grazie all’ausilio di un algoritmo ingegneristico, modificato le immagini dei Bronzi, allungando o accorciando leggermente le loro equilibrate proporzioni. Analoghe modifiche nelle proporzioni sono state apportare alla “Nascita di Venere” di Botticelli: anche quest’opera insieme con le immagini “variate” della stessa, è stata sottoposta alla sperimentazione di un gruppo di osservatori volontari. In entrambi i casi, sono stati riscontrati simili risultati. Rizzolatti e la sua equipe, hanno, una volta di più, dimostrato l’esistenza nel cervello umano di una perfetta sincronia tra azione ed osservazione. La scoperta più importante è che le sculture e il dipinto originali attivano il cervello molto più delle immagini modificate e, soprattutto, attivano le aree emozionali dove risiedono i neuroni specchio. Rizzolatti ne evince che, sia gli scultori greci, sia il Botticelli hanno avuto il merito di colpire e incendiare i centri emozionali, arrivando indi a concludere che l’arte rende più forte l’empatia di chi la osserva mettendo in moto processi imitativi tali per cui la bellezza genera altra bellezza. Confrontando l’attività del cervello quando i volontari osservavano le immagini originali, ossia proporzionate, con la medesima attività di fronte all’osservazione di quelle modificate al computer, ovvero, quelle non proporzionate, sono state scoperte quali aree del cervello “si accendono”, procurando una sensazione di piacere estetico. Quando un’opera ci colpisce per la sua bellezza, si attivano diverse zone, alcune delle quali hanno lo scopo di analizzare la struttura fisica dello stimolo (del corpo umano, nel nostro caso specifico), altre, invece, sono sensibili al movimento (peculiare, se pensiamo che queste aree deputate al movimento si attivano anche solo guardando immagini statiche!). 24 Tuttavia, l’attivazione che ha colpito di più i ricercatori è stata quella dell’insula, ovvero, l’area neurologicamente coinvolta durante l’osservazione degli stati emotivi altrui, l’area deputata all’empatia. Da un punto di vista anatomico, l’insula, detta così per via della sua particolare forma a isola, è il ponte di collegamento che traduce le nostre espressioni corporee (elaborate dal sistema motorio) in stati emotivi (elaborati dal sistema emozionale), e viceversa. Quando quest’area si accende nel nostro cervello, i movimenti e le espressioni osservati negli altri si legano alle nostre emozioni e noi facciamo esperienza in prima persona di ciò che provano le altre persone. La neuroscienziata Cinzia Di Dio, collaboratrice di Rizzolatti, afferma quanto segue: “Tutti, quando osserviamo un’opera d’arte che ci piace, proviamo una sensazione quasi viscerale che ci fa sospirare di ammirazione. Partendo da questa esperienza condivisa, il nostro gruppo di lavoro studia il momento in cui, davanti a un’opera, proviamo una sorta d’incanto. A quel livello di elaborazione non è la nostra mente conscia, influenzata da fattori come la moda, la conoscenza, il valore comunemente attribuito all’opera e spesso quantificato nel suo costo, ma è più quell’emozione irrazionale, quell’esperienza profonda, in cui veniamo proiettati. L’esperienza estetica, appunto. La scansione delle attivazioni medie dei cervelli, durante l’osservazione dei Bronzi di Riace, nella risonanza magnetica funzionale, ha riscontrato quanto segue: l’attivazione di aree prefrontali e motorie, l’attivazione delle aree occipitali del cervello adibite all’analisi visiva degli stimoli ma anche, soprattutto, l’attivazione del circuito parietoprefrontale, nel quale sono stati rilevati e studiati neuroni con proprietà “specchio”: mentre i soggetti osservavano le immagini di sculture, il loro sistema motorio “risuonava” con i corpi delle sculture stesse”. Il gruppo di Parma, effettuando questi esperimenti, ha mostrato che l’insula si attiva quando osserviamo dipinti o sculture di pregio. Questa scoperta permette di suggerire che, quando ammiriamo un’opera che ha qualità intrinseche di bellezza, nel caso della scultura classica, dettate dalla perfezione delle sue forme, possiamo esperire gli stati e le espressioni trasmesse dalla stessa, entrando in quello stato di ammirazione che chiamiamo esperienza estetica. 25 3.2 Freedberg e Gallese: Approccio Storico e Approccio Neuroscientifico All’analisi Delle Opere D’arte La focalizzazione dell’analisi sulla dialettica immagine reazione emotiva è l’argomento del libro di David Freedberg1 intitolato “Il Potere delle immagini” (1989). Tale studio, all’epoca della sua pubblicazione, fu molto criticato e non venne apprezzato dai numerosi studiosi del settore; altresì, fu molto gradito agli artisti. Precedentemente, lo studioso aveva lavorato molto sull’iconoclastia e sugli atti di aggressione contro le immagini che si ripetono nella storia, secolo dopo secolo. Sostenne, allora, come alcune reazioni alle immagini da parte degli spettatori fossero comuni a tutte le culture – senza distinzione di latitudine geografica e culturale – e, sebbene alcuni atti di iconoclastia fossero strettamente connessi a precisi momenti storici, (es. la rivoluzione francese, la Russia stalinista, etc), per Freedberg, l’interesse principale era incentrato su quella qualità intrinseca all’immagine capace di causare reazioni emotive. Negli ultimi anni, in seguito all’iconoclastia della Russia post Stalinista e dei Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani, questa fondamentale relazione immagine reazione emotiva è stata finalmente degnata dell’importanza che merita e, quindi, presa in considerazione dagli altri studiosi. Chiaramente, ogni essere umano reagisce diversamente alla medesima immagine, sulla base del bagaglio culturale che possiede. Il “Potere delle immagini” di Freedberg è un libro sui sintomi di queste reazioni e, pertanto, sostanzialmente antiformalista. Le recenti scoperte neuroscientifiche ci permettono di considerare la relazione tra composizione artistica e un certo tipo di reazione, tra il colore e un altro tipo di reazione, e, di lavorare spesso a un livello più profondo dell’iconografia. Grazie alle David Freedberg è professore di Storia dell’Arte e direttore dell'Accademia Italiana di Studi Avanzati in America presso la Columbia University degli Stati Uniti d’America. Nell’ambiente accademico è conosciuto per il suo approccio psicologico all’arte: il campo predominante dei suoi studi sono le relazioni tra arte, storia, e neuroscienze cognitive, essendo da tempo impegnato nella ricerca e sperimentazione delle relazioni tra visione, simulazione incarnata, movimento ed emozione. Collaborando con diversi neuroscienziati italiani (tra cui Gallese), ha fondato Arte e Neuroscienze (poi Neuroscienze e Filosofia) nel 2001. L'obiettivo del progetto, basato su argomenti rilevanti per la comprensione dell'arte, della musica, la visione e l'emozione - è quello di non mescolare i campi, ma di incoraggiare il pensiero critico sui paradigmi metodologici ed epistemologici sottostanti ciascun dominio. Il suo lavoro è concentrato sull’empatia e sulle risposte motorie alla visione di opere d’arte senza rifuggire dagli elementi biologici sottostanti. Freedberg ha sviluppato la sua ricerca sul rapporto tra movimento ed emozione nell'arte per l'uso di nuovi paradigmi neuroscientifici nella comprensione della ricezione di immagini visive. 26 nuove scoperte neurologiche, sappiamo che vi sono alcune zone del nostro cervello responsabili di reazioni particolari; ciò significa che quelle che fino ad oggi erano considerate reazioni emotive culturalmente determinate, dipendono, invece, dall’attivazione di specifiche zone celebrali. Le teorie storiche dell’espressione fisiognomica, per esempio quelle elaborate da Charles Le Brun2 a partire dal 1688, suggerivano correlazioni tra particolari espressioni facciali ed emozioni specifiche. Nonostante l’opera di Paul Ekman3 sulle correlazioni tra emozione ed espressione fisiognomica, le tesi più antiche continuano ad essere considerate prive di fondamento empirico. Eppure l’attuale ricerca neuro – scientifica ha iniziato a rilevare le basi di queste correlazioni. Per esempio, le reazioni elettromiografiche nei muscoli facciali degli osservatori concordano con quelle coinvolte nelle espressioni facciali della persona osservata. L’integrità del sistema sensomotorio è cruciale per il riconoscimento delle emozioni manifestate dagli altri, perché aiuta a ricostruire cosa proveremmo nel caso di una particolare emozione, mediante la simulazione del relativo stato corporeo. David Freedberg, insieme con Gallese, il neuroscienziato cui si deve gran parte della sperimentazione sui neuroni specchio, ipotizza che l’elemento cruciale nell’apprezzamento estetico consista nell’attivazione dei meccanismi incarnati in grado di simulare azioni, emozioni e sensazioni corporee e che questi meccanismi siano universali. Questo tipo di reazione elementare serve per capire l’efficacia che le immagini hanno sugli osservatori sia nella vita quotidiana, sia nella dimensione artistica. La scoperta dei neuroni specchio e della simulazione incarnata non è stata ancora esaminata in tutte le sue implicazioni, soprattutto, in relazione alle reazioni empatiche alle immagini ed alle opere di arte, quella visiva, in particolare (sculture e dipinti). L’interesse di Freedberg sul rapporto tra corpo, emozioni e risposta alle immagini si concretizza nel sopra citato Potere delle Immagini, ove l’autore discute una varietà di reazioni psicologiche e comportamentali alle immagini, anche non prettamente “artistiche”, ricorrenti nello spazio e nel tempo e, soprattutto, analizza i sintomi della 2 Charles Le Brun (Parigi, 24 febbraio 1619 – Parigi, 22 febbraio 1690) è stato un pittore e decoratore francese. Le Brun è famoso soprattutto per i suoi lavori di arredamento e decorazione alla reggia di Versailles, durante il XVII secolo. 3 Paul Ekman(nato il 15/02/1934, Washington) è uno psicologo statunitense. È divenuto, grazie alle sue ricerche scientifiche, un pioniere nel riconoscere le emozioni e le espressioni facciali, è considerato uno dei 100 psicologi più importanti del ventesimo secolo. 27 risposta. Solo successivamente Freedberg si occupa di affrontare il nesso tra le immagini e le reazioni che essere provocano. Di seguito riporto l’analisi svolta dallo storico sull’impatto sensoriale che alcune opere d’arte hanno sugli osservatori. La prima opera che Freedberg prende in considerazione è la grande e commovente Deposizione dalla Croce di Rogier van der Weyden oggi al Prado – FIGURA 6, dipinta dal più grande pittore fiammingo del XV secolo dopo Jan van Eyck per la Chiesa di Nostra Signora fuori le mura a Lovanio. Si tratta di una pala d’altare notevole per la tecnica, lo stato di conservazione e le dimensioni (220 X 262 cm). La scena si svolge in uno spazio molto angusto, tanto che la fisicità di queste figure è spinta in primo piano. Impossibile non ammirare la qualità pittorica del dipinto, il controllo assoluto della linea, la modulazione del chiaroscuro che informa la fisionomia e l’anatomia, la complessa precisione con cui viene reso il panneggio e poi i colori, profondi e squillanti. Tuttavia, l’aspetto più straordinario consiste nella varietà di emozioni espresse attraverso il linguaggio corporeo. Come se l’autore avesse studiato, o forse intuito, come comunicare allo spettatore, nella maniera più efficacie, le emozioni attraverso la gestualità del corpo. La Deposizione si inserisce in una ben attestata tradizione di dipinti devozionali, pensati per provocare la risposta emotiva dello spettatore, invitato a immaginare e a condividere, anche fisicamente, la sofferenza dei personaggi. Van der Weyden si concentra su come le emozioni vengano espresse attraverso il corpo. Questo è evidente nelle lacrime della Madonna, nelle sopracciglia aggrottate di San Giovanni e nei lineamenti stravolti di San Nicodemo. Grande è l’attenzione che il pittore riserva ai gesti; basti osservare la Maddalena che si tormenta le mani per la disperazione o Maria di Cleofa che si stropiccia nervosamente le vesti. Sembra quasi che il pittore sappia perfettamente come trasferire agli spettatori il proprio dolore, come coinvolgerli ed appassionarli alla sofferenza di Cristo. L’artista coinvolge lo spettatore al punto tale di portarlo a imitare fisicamente tali gesti: coprirsi gli occhi o torcersi le mani per la disperazione, come accade alle donne dipinte. Da sottolineare, inoltre, il movimento nella parte centrale della scena: il lento scivolare del corpo di Cristo, riecheggiato nell’accasciarsi di quello della Madre. Freedman, insieme con Vittorio Gallese, fanno notare come questo dipinto non evochi solamente un’imitazione empatica dei sentimenti, e lo dimostra l’accasciarsi del corpo della Madre in conseguenza a quello del figlio. La madre soffre non solo interiormente ma anche fisicamente, con tutto il suo corpo. In quegli anni Leon Battista 28 Alberti scriveva relativamente al dipinto “Moverà l’istoria l’animo quando li homini ivi dipinti molto porgeranno suo movimento d’animo… piagniano con chi piagne, et ridiamo con chi ride, et doliansi con si duole. Ma questi movimenti d’animo si conoscono dai movimenti del corpo”. Ovviamente nel XIV secolo non si sarebbe usata la parola empatia ma “compassio”, non tanto nella moderna accezione del termine, come condivisione emotiva della sofferenza altrui, quanto nel senso di vero e proprio coinvolgimento fisico. Le evidenze storiche confermano l’incontro tra teoria artistica e religione. Nel 1423, appena qualche anno prima della Deposizione di Van der Weyden, si era inaugurata a Colonia la festa della “Compassione della Vergine” che aveva istituzionalizzato secoli di meditazione e preghiere sul tema della condivisione fisica e mentale della passione di Cristo. I tormenti patiti dal figlio diventano i tormenti della madre; e gli autori insistono in maniera forte e quasi visiva sulla necessità di generare un’analoga risposta nei fedeli. Le popolari Meditazioni sulla vita di Cristo sono costruite sul tema dell’identificazione con Cristo sofferente sulla croce. Le Meditazioni sono intessute di continue esortazioni a trasformare il “guardare” in “sentire fisico” per meglio comprendere la sofferenza di Cristo. Appeso alla croce Cristo disse: “Padre mio, vedi quanto mia Madre sia afflitta. Io devo essere crocifisso, non Lei; eppure Lei è qui con me sulla croce… non merita questa stessa mia sorte”. E’ esattamente questa capacità della vista di provocare empatia fisica che Van der Weyden comprese così bene. Mentre altri pittori avevano rappresentato la Vergine davanti alla croce, in piedi o inginocchiata, nella sua Deposizione, Van der Weyden la raffigura nella stessa posizione che il corpo del Figlio assume nel momento in cui viene calato dalla croce e ci comunica anche le emozioni causate, in lei, da tale crollo, così come gli altri atteggiamenti fisici rappresentati nel dipinto: occhi semichiusi, lacrime, abbandono degli arti ad indicare spossatezza, testa piegata nel dolore… Freedberg propone quindi di guardare questo quadro alla luce delle scoperte neuroscientifiche degli ultimi anni, chiedendosi come quest’opera potrebbe contribuire alla comprensione di come la percezione visiva diventi percezione fisica dei corpi. Freedman ha utilizzato l’ipotesi di Damasio (vedi I paragrafo) al fine di inquadrare meglio il problema del coinvolgimento fisico dello spettatore nei confronti delle reazioni fisiche dei protagonisti di una scena, coinvolgimento che si può anche esplicitare nell’imitazione esperita dai gesti dei personaggi raffigurati quando, nel percepire un peso corporeo, si mimano certe posizioni, o addirittura quando si 29 osservano oggetti che schiacciano verso il basso o minacciano di schiacciare i protagonisti della scena. Questa prospettiva, secondo Freedman, offre una nuova chiave di lettura alle strategie artistiche utilizzate da Van der Weyden, e da molti altri artisti, per provocare una reazione empatica da parte degli spettatori. Poco dopo avere letto Damasio, Freedberg si imbatte in Rizzolatti, Gallese e collaboratori del Gruppo di Parma. Se Damasio aveva sorvolato sulla questione del circuito corticale tra visione, movimento ed emozione, altresì le risposte fornite grazie alla scoperta dei neuroni specchio, gli danno la possibilità di ridefinire il problema della risposta dello spettatore alle immagini. I neuroni specchio propongono una spiegazione più chiara di quella offerta da Damasio sulla questione dell’imitazione esperita e istintiva dei gesti, o sulla questione del coinvolgimento corporeo ed emotivo dello spettatore con la scena osservata. Sebbene sia quasi impossibile, se non in circostanze del tutto particolari, isolare l'attività di singoli neuroni nel cervello umano, Gallese insieme con gli scienziati di Parma, si sono concentrati sui circuiti a specchio presenti nel cervello umano e li hanno isolati in un'area del cervello funzionalmente analoga all'area F5 del cervello delle scimmie ossia nella corteccia premotoria del lobo parietale e nell'opercolo frontale, più o meno l'area F44 di Brodmann, collidente con la regione di Broca, ossia, l'area del cervello deputata al linguaggio. In seguito, Gallese ha sviluppato la sua scoperta in diverse direzioni: innanzitutto ha capito le implicazioni dei neuroni specchio non soltanto per la comprensione delle azioni altrui ma, anche, delle intenzioni che stanno dietro tali azioni, in secondo luogo ha sviluppato la sua importante e decisiva teoria della simulazione incarnata, nella quale si includono tutte le sensazioni imitative riscontrate nel corpo dell'osservatore. Infine, insieme con Keysers4, ha trattato il problema dell’attivazione della corteccia somatosensoriale secondaria in un individuo che osservi una raffigurazione del tatto o una qualsivoglia sperimentazione di contatto. Il primo caso analizzato da Gallese e Keysers corrisponde a quella sensazione di brivido che si prova davanti a scene come quella del film Dottor No, in cui una tarantola passeggia sul petto di James Bond. Hanno, quindi, osservato casi di reazione empatica al dolore, provocati dalla vista di aghi che perforano la carne o, addirittura, di oggetti 4 Christian Kaysers (27 giugno 1973) è uno scienziato tedesco. Ha studiato psicologia e biologia presso l’Università di Costanza, l’Università della Ruhr e Bochum e infine a Boston. Nel 2000 ha completato il suo dottorato presso l’Università di Saint Andrews, in Scozia. Dal 2001 al 2004 ha studiato come borsista post – dottorato presso l’Università degli Studi di Parma. Durante questo periodo, il suo gruppo ha scoperto il ruolo dei neuroni specchio uditivi, ampliando la conoscenza del loro funzionamento. Ha poi ampliato il concetto dei neuroni specchio alle emozioni e sensazioni, dimostrando che la nostra corteccia somatosensoriale è attiva non solo quando si è toccati ma anche quando vediamo qualcuno essere toccato. 30 taglienti che provocano danni al corpo. Leggendo l’analisi di questi casi, uno storico dell'arte abbina immediatamente sensazioni causate da immagini, quali le ferite di Cristo nella pala di Van der Weyden, il chiodo conficcato nel palmo di Cristo nella Pala di Isenheim di Grunewald – FIGURA 7, il dito del Santo nella ferita del costato di Cristo nell’Incredulità di San Tommaso del Caravaggio – FIGURA 8. Analizzando quest’ultima tela, quello che emerge, a parte l'impressione della carne che si affloscia nel costato di Cristo, è la disturbante sensazione di avere la mano dentro a quella spaventosa ferita. Analoga impressione di comprensione empatica del dolore fisico altrui si prova nell'osservare i Disastri della guerra di Francisco Goya – FIGURA 9. In questa tela, l’empatia si rappresenta non solo nella reazione dell’osservatore ai molti disagi fisici delle figure rappresentate, ma, anche, nelle rappresentazioni, spesso orribili, di carne lacerata e trafitta. In questi casi, le reazioni fisiche degli osservatori sembrano localizzarsi precisamente nelle parti del corpo minacciate, oppresse, bloccate o destabilizzate nella raffigurazione. Inoltre, l’empatia fisica si tramuta facilmente in sentimento di empatia emotiva per i modi in cui il corpo viene danneggiato o mutilato. Persino quando l’immagine non contiene un riferimento apertamente emotivo, può provocare una sensazione di risonanza fisica. Sono tutti i casi in cui gli spettatori possono addirittura simulare automaticamente l’espressione emotiva, il movimento implicito della rappresentazione. Altro esempio di opera d’arte analizzata da Freedberg e Gallese sono i Pigioni di Michelangelo – FIGURA 10. Le reazioni riscontrate negli osservatori assumono la forma di una percezione di attivazione muscolare localizzata nelle stesse regioni corporee evidenziate nella scultura, in perfetta sintonia con l’intenzione di Michelangelo di rappresentare la lotta dei suoi personaggi per liberarsi dalla loro matrice materiale. Nonostante questi studi e le possibili deduzioni sul rapporto arte, emozione ed empatia, le cose non sono così lineari come potremmo pensare. Negli ultimi anni si è aperto un acceso dibattito circa l'esatta localizzazione del sostrato neurologico responsabile della risposta fisica dell'osservatore a simili immagini. Si discute soprattutto se questo possa essere collocato in specifiche aree somatosensoriali, analoghe a quelle già ricordate, o se la reazione fisica non debba essere interpretata, piuttosto, come una più generica reazione affettiva. Queste problematiche offrono chiavi diverse per leggere la personale risposta al dolore altrui, tuttavia, nessuno ha ancora discusso gli effetti specifici di determinate immagini e, ancora meno, la possibilità di trarre conclusioni dagli indici estetici delle immagini. Per tali ragioni, Gallese e Freedberg, stanno orientando la loro 31 ricerca in direzioni meno ovvie come la dimensione emozionale del colore (un argomento di enorme portata) oppure il rapporto tra il riconoscimento delle espressioni emotive facciali e la reazione empatica alle manifestazioni fisiche dell'emozione. Anche questo campo è limitrofo a un antico ambito della tradizionale storiografia dell'arte ossia quello della fisionomica già presente nell'opera di Della Porta, Le Brun, Lavater e altri, poi sistematizzato nel libro di Darwin “Expressions of the Emotions in Men and Animals” e nell'importante ma ancora piuttosto dibattuta opera di Paul Ekman. Ciò che emerge oggi dalla letteratura sul funzionamento dei neuroni specchio e sull'imitazione delle azioni è un nuovo e promettente campo di ricerca, in cui si analizzano le basi neurologiche comuni alla vista e alla percezione di emozioni negative, come il disgusto e la paura. Sulla base dei risultati ottenuti con lo scanning FmRI si può, infatti, affermare che sia in coloro che provano direttamente una determinata emozione, sia in coloro che osservano l'espressione dei soggetti che la provano, si attiva la medesima area del cervello: l’amigdala, nel caso della paura e l’insula nel caso del disgusto. 3.3 Analisi Opere D’arte con Soggetti Non Naturalistici e Movimenti che Non Paiono Finalizzati Cosa succede quando le azioni osservate non sono finalizzate o paiono senza senso? Le risposte a queste domande sono in parte state sviluppate grazie alla collaborazione di David Freedberg coi neuroscienziati Vittorio Gallese e Fortunato Battaglia5. Costoro hanno analizzato immagini naturalistiche ma, anche, rappresentazioni meno verosimili. Dopotutto, le ipotesi fenomenologiche sul coinvolgimento emotivo che suscitano le immagini non si sono mai limitate a rappresentazioni realistiche. Il filosofo – psicologo Merleau Ponty6, per esempio, aveva dedicato molte pagine alle reazioni provocate dai quadri di Cezanne. 5 City College di New York Maurice Merleau-Ponty (Rochefort-sur-Mer, 14 marzo 1908 – Parigi, 3 maggio 1961) è stato un filosofo francese, esponente di primo piano della fenomenologia francese del Novecento. Dopo gli studi secondari, terminati al liceo Louis-le-Grand di Parigi, Maurice Merleau-Ponty diviene allievo della École normale supérieure, nello stesso periodo di Sartre, e consegue il diploma di laurea in filosofia (agrégé) nel 1930. Dopo il servizio militare inizia la sua carriera di insegnante nei licei. Prima a Beauvais, dal 1930 al 1933, poi a Chartres fino a 1939 e dal 1940 al 1944 a Parigi, al liceo Carnot. Entrato nella Resistenza continua a studiare e a scrivere per il dottorato, che consegue nel 1945. Il dottorato in Lettere 1945 lo ottiene con due libri già molto significativi: La struttura del comportamento (1942) e La fenomenologia della percezione (1945). Nel 1948 è docente all'Università di Lione, ma nel 1949 ottiene la docenza in psicologia e pedagogia alla Sorbona. Dal 1952 fino alla morte, 6 32 La prima riflessione di Merleau-Ponty sulla pittura di Cézanne, esposta nel saggio Il dubbio di Cézanne, identifica nella pittura la forma più pregnante con cui si esplicita il linguaggio tacito del corpo. Il segreto della pittura sta nel suo riferirsi al corpo come apertura e veicolo dell’essere al mondo. Secondo Merleau – Ponty, Cézanne non ha scelto tra sensazione e pensiero, né tra caos e ordine; egli non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera di apparire ma vuole dipingere la materia che si sta formando e “descrivere” con la sua pittura l’ordine che nasce attraverso un’organizzazione spontanea. Noi percepiamo le cose, siamo ancorati ad esse e, solo su queste fondamenta “naturali”, costruiamo le scienze. Cézanne ha voluto dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua origine. Secondo Merleau-Ponty, il pittore ricerca il dispiegarsi del senso nel visibile e, al tempo stesso, annulla le differenze tra vedente e visibile, tra chi dipinge e chi è dipinto. L’arte non è imitazione, bensì è “un’operazione d’espressione” con cui “il pittore riprende e converte appunto in oggetto visibile ciò che, senza di lui, resta rinchiuso in ogni coscienza”. La ricerca avviata da Freedman, Gallese, Rizzolatti e Fortunato Battaglia ha originariamente sostenuto che i loro risultati andassero riferiti a risposte provocate da azioni finalizzate e non ad ogni tipo di movimento rappresentato in un’opera d’arte. Questa distinzione critica è stata messa un po’ da parte con le recenti scoperte sui neuroni specchio, tuttavia, è vero che sia nella vita reale, sia nelle opere d’arte, si incontrano spesso movimenti non finalizzati. In altre parole, come possiamo considerare le risposte a tutti quei gesti che a volte paiono essere un prodotto squisitamente culturale ma che altre volte si trovano in culture molto diverse tra loro? Quale sarebbe la natura di simili gesti? Quanto dipendono dai condizionamenti culturali? Il loro ripetersi in differenti contesti da quali altri fattori dipende? Queste domande si ricollegano ancora una volta alla storia dell’arte. Uno dei concetti chiave del grande storico dell’arte Aby Warburg è quello di pathosformel, formula del pathos, con la quale si intende che specifici movimenti del corpo vengono usati nelle opere d'arte per comunicare determinate emozioni interne. Simili movimenti sono vere proprie formule nel senso che risalgono a statue e rilievi antichi come quelli raffiguranti le Menadi, le ebbre seguaci di Bacco. Il concetto di pathosformel viene quindi allargato fino a comprendere tutta la varietà di formule avvenuta nel 1961, sarà titolare della cattedra di filosofia del Collegio di Francia: diventando il più giovane eletto a una cattedra. 33 gestuali che sembrano ricorrere nella storia dell'arte. La domanda che si pongono Freedman e colleghi non riguarda solo le ragioni del loro ricorrere ma, soprattutto, gli effetti che tali formule gestuali hanno sugli spettatori e il desiderio di imitazione interna che provocano. Freedman analizza, a tal proposito, il seppellimento di Cristo di Caravaggio – FIGURA 11. Come spesso accade per i suoi dipinti, anche questo evidenzia la connessione diretta tra reazioni corporee e stimoli emotivi. Questi ultimi sono provocati da diverse strategie pittoriche, quali, per esempio, il modo in cui il gomito di Giuseppe d’Arimatea penetra lo spazio. Tuttavia, ciò che maggiormente colpisce, è il gesto di dolore e disperazione della Vergine con le braccia alzate. L'impatto di tale gesto sullo spettatore deriva dal fatto che ricorre così frequentemente nella storia dell'arte o dal fatto che provoca un immediato bisogno di imitazione interna? Tale gesto si può riconoscere nelle innumerevoli immagini di seppellimento e compianto, ma anche in altri celebri dipinti, per esempio il 3 maggio 1808 di Goya – FIGURA 12. In quest’ultimo, non vi sono dubbi che si tratti di un gesto di disperazione per cui, sostengono Freedman e Battaglia, vale la pena di riflettere sulla profonda capacità di questi gesti, apparentemente formulari e stereotipati, di veicolare le emozioni. Ma come spiegare questa capacità? Si può stabilire un rapporto di causalità tra gesto ed emozione? Fino a che punto si può pensare che esistono formule gestuali standard per esprimere emozioni standard, come suggerito da Darwin, oppure, fino a che punto i gesti sono culturalmente condizionati? Il fatto che la stimolazione interna di simili gesti non fosse compresa nelle ricerche sui neuroni specchio, ha condotto Freedman e Battaglia ad elaborare una serie di esperimenti pensati appositamente per investigare le reazioni alla vista delle rappresentazioni di determinati movimenti usando inizialmente impulsi TMS singoli e doppi e, successivamente, l’elettroencefalogramma. Le ricerche si sono concentrate su movimenti estremamente semplici, primo tra i quali quello del polso, il quale reagisce, sollevandosi, alla stimolazione elettrica della corrispondente zona somatotopica nella corteccia motoria. In seguito alla stimolazione elettrica, sono state mostrate, ai soggetti sperimentali, immagini di un dipinto raffigurante lo stesso movimento (La cacciata dall’Eden di Michelangelo nella Cappella Sistina – FIGURA 13 - quindi una fotografia e un film). Il risultato dell’esperimento è stato che la vista del dipinto con il polso sollevato di Adamo e, anche, del solo film bastava per ridurre il quantitativo di corrente necessaria a indurre il movimento del polso. La conclusione sperimentale è stata che la 34 vista di queste azioni, che rappresentano il movimento del polso, incrementa il potenziale motorio evocativo. Inoltre, senza entrare in dettagli tecnici sperimentali, è interessante sapere che gli effetti motori evocativi sono stati meno evidenti per la fotografia rispetto alla vista del movimento realizzato da un soggetto terzo e alla vista del dipinto di Michelangelo. Lo stesso tipo di esperimento è stato ripetuto con altre opere d’arte e le ricerche preliminari hanno evidenziato nuove prospettive neuroscientifiche. Per esempio, è stata avvalorata, sebbene ancora non definitivamente dimostrata, la teoria di Berenson7, relativa ai valori tattili. Secondo Berenson, l'opera d'arte è un organismo vivente che trasferisce nello spettatore un accresciuto senso di capacità vitale, nondimeno una sensazione di capacità muscolare e fisica che va oltre le sue reali possibilità e che stimola nel contempo un piacere estetico. Opere analizzate da Berenson sono stati I Lottatori del Pollaiolo – FIGURA 14 - la cui osservazione generava eccitamento. Sebbene sia noto l'eccitamento che immagini sportive possono provocare, non siamo ancora in grado di spiegare come queste possano essere messe in relazione con le opere d'arte. L'idea di Berenson potrebbe sembrare inverosimile, tuttavia, Freedman e Battaglia hanno proprio osservato come l'opera d'arte possa in alcuni casi contribuire al miglioramento del potenziale muscolare di quegli stessi muscoli coinvolti nelle azioni raffigurate. Altro caso significativo può consistere nello studiare le reazioni corporee suscitate da opere di artisti quali Jackson Pollock o Lucio Fontana. Nel caso di dipinti astratti come quelli di Jackson Pollock – FIGURA 16, gli osservatori spesso avvertono una sensazione di coinvolgimento corporeo nei movimenti impliciti nelle tracce fisiche (i segni del pennello o gli schizzi di vernice) delle creazioni creative compiute dall’autore. Ciò vale anche per i tagli nelle tele di Lucio Fontana – FIGURA 17- dove la visione del dipinto squarciato favorisce una sensazione di movimento empatico che sembra coincidere con il gesto che ha prodotto lo strappo. Voglio parlare, in ultimo, di un artista moderno e non convenzionale, che Freedberg e Gallese hanno analizzato: Bill Viola. Bill Viola (New York, 25 gennaio 1951) è un artista statunitense, fra i più apprezzati nell'ambito della Videoarte. 35 L’indagine che qui si palesa è la relazione tra l’apparenza delle immagini dei lavori di Bill Viola e le reazioni che suscitano nello spettatore, come anche la volontà stessa dell’autore di provocare emozioni. L’attività di Bill Viola affascina perché rappresenta una sorta di processo di digitalizzazione dell’opera d’arte tradizionale che ha l’intento di ricercare costantemente le sensazioni dello spettatore, scaturite dall’introduzione in un sistema interattivo. Nell’opera intitolata Observance (che fa parte della una serie di opere video “The Passions”), Bill Viola inscena una coreografia di personaggi contemporanei che interpretano scene tipiche dell’iconografia tradizionale cristiana. Le figure vengono estrapolate da una simbologia religiosa e ricontestualizzate in una dimensione atemporale e universalmente poetica, come metafora dell’essenza della condizione umana. Observance è ispirato alla pala d’altare Die vier Apostel (1526) di Albrecht Dürer – FIGURA 15 - nella quale vengono rappresentati quattro apostoli immersi nel loro intimo dolore per la morte di Cristo. Anche nel video di Viola, l’oggetto della rappresentazione giunge a essere lo stesso, l’espressione fisica del dolore. I personaggi entrano ed escono nello spazio della rappresentazione concentrando il loro sguardo su di un punto fisso, che rimane nascosto e che rimane “fuori campo”, nello spazio dello spettatore. A volte, uno dei personaggi alza gli occhi verso lo spettatore come a cercare comprensione, altri, invece, rimangono immersi nella propria interiorità. Viola mostra l’intera azione in “slow motion”, portando lo spettatore a entrare lentamente nei dettagli dei gesti e dell’espressività mimica dei personaggi. Volendo seguire un’argomentazione neuroscientifica, l’opera di Viola è un “perfetto esempio di evocazione di empatia attraverso l’impatto visivo e attraverso l’attivazione dei neuroni specchio” (Rizzolatti, 1996, 2002); un’esperienza, pertanto, di secondo grado da parte dello spettatore, come atto involontario di “mimesis”. Elemento cruciale dell’apprezzamento estetico consiste nell’attivazione di meccanismi incarnati, in grado di simulare azioni, emozioni, sensazioni corporee che sono universali. Bill Viola agisce secondo diversi principi e attraverso differenti media. Questi hanno in comune l’intenzione di offrire una comprensione cognitiva delle opere passando attraverso il significato dell’esperienza emotiva ed empatica del visitatore. È un invito a immergersi nelle installazioni interattive, nei video, nelle animazioni, nella pittura monumentale e a perdersi in esperienze visive, uditive e corporee, per trovarsi a tu per tu con gli stimoli irrazionali e con le emozioni che queste opere sanno infondere. 36 Profondamente spirituale, la sua arte esplora il fenomeno della percezione sensoriale come strada maestra per la conoscenza di se stessi; essa si concentra sulle esperienze universali dell’uomo (la nascita, la morte, la natura, la relazione con l’universo). Riconducendo l’arte alle sue ragioni fondamentali, Viola la ricollega all’esperienza comune di ogni uomo; il vero luogo in cui l’opera di Viola prende corpo non è infatti uno schermo o la parete di una stanza ma sono la mente e il cuore dello spettatore. 37 4 Recenti Articoli tratti da Riviste Specializzate (Peer Reviewed) che avvallano le Teorie e Sperimentazioni Descritte nei primi due capitoli In quest’ultimo capitolo, riporto tre articoli di stampa recenti che comprovano quanto ho descritto nel corso del mio lavoro. Tutti gli articoli presentati sono tratti da Riviste Peer Reviewed. Ad ognuno di essi allego la propria bibliografia, tenendo presente che tutti e tre gli articoli sono stati scritti, per lo più, sulla base della stessa documentazione che ho utilizzato per scrivere i primi due capitoli. 4.1 Scienza e Ricerche (Rivista Peer Reviewed) Articolo scritto da Barbara Missana, Storica D’arte (27 Marzo 2015) Le Nuove Frontiere della Scienza Applicata All’arte: La Neuroestetica Il nostro secolo, quello dei nuovi “lumi” nel campo tecnologico, medico, scientifico e sociale, ha trasferito lo studio dell’Arte ad una realtà esplorabile mediante le nuove conoscenze sussistenti nell’unicità del Sapere. L’esperienza estetica viene ormai studiata come esperienza cognitiva e intellettiva: gli storici dell’arte e i filosofi hanno iniziato a pensare che il polo emotivo e quello cognitivo siano connessi tra loro e che quindi le opere d’arte siano analizzabili anche dal punto di vista dell’autore, della sua mente e del suo apparato di conoscenze. L’attenzione è puntata sull’oggetto come prodotto artistico, ossia come mezzo di comunicazione col fruitore, nato per sopravvivere nel tempo conservando quei valori eterni provenienti dalla mente e dal vissuto dell’artista. Recentemente sono stati compiuti incredibili passi in avanti proprio nell’ambito della scienza della percezione e dell’estetica della visione, ed è sorprendente scoprire che una parte di questi siano il risultato dell’apporto di studi così settoriali e così apparentemente lontani dalla Storia dell’arte come quelli neurobiologici. Negli ultimi due decenni, che sono stati decretati appunto i “decenni del cervello”, le scoperte in campo neurobiologico hanno reso il fatto artistico oggetto di indagini di tipo interdisciplinare atte a trovare una risposta concreta all’interrogativo se veramente esista una sorta di cifrario inequivocabile per comprendere i meccanismi cerebrali che sono dietro al processo creativo. Le neuroscienze hanno dimostrato l’esistenza, nell’ambito della corteccia visiva, di differenti aree in cui l’elaborazione degli stimoli visivi e il 38 riconoscimento dei processi mnemonici, che trapiantano nella nostra mente le forme e i colori categorizzandoli, avvengono simultaneamente. Queste scoperte hanno fornito uno spunto di riflessione innovativo per pensare al fenomeno estetico in una differente ottica: da un lato i neurobiologi sono desiderosi di scoprire l’esistenza di una solida base scientifica in grado di spiegare i processi di godimento estetico e di creatività, dall’altro i filosofi e gli storici dell’arte offrono loro gli spunti per reinterpretare e confermare il Sapere antico, le cui verità sono sempre più convergenti con quelle che emergono dallo studio della fisiologia del cervello. La “teoria dell’Einfühlung” (elaborata da Robert Vischer nel 1873 in Über das optische Formgefühl, e da Theodor Lipps in Aesthetik, 1903-06), ad esempio, insistendo sul fondamento psichico dell’esperienza artistica, è stata il primo tentativo di integrare la teoria estetica con un metodo di tipo empirico avviando ad una psicologia dell’arte e allo studio della percezione visiva. Nasce quindi, per input delle discipline umanistiche, la nuova branca dell’estetica e della critica d’arte col prefisso “Neuro”: la Neuroestetica, un filone di ricerca interdisciplinare che si occupa di analizzare a livello cerebrale quanto accade in un’artista e in un fruitore rivalutando la relazione sociale tra soggetto e oggetto. E’ un vanto poter dire che in Italia questa nuova disciplina è particolarmente viva e che una grande parte di letterati ha accettato il confronto con il mondo della scienza, non solo per merito di quei dipartimenti universitari come nel Polo di Parma che hanno contribuito attivamente con le loro ricerche a dare conferme, ma anche grazie alla fondazione nel 2005 della Società Italiana di Neuroestetica ad opera del neurobiologo Luca Ticini che l’ha dedicata al padre fondatore della disciplina, il professor Semir Zeki, neurobiologo dello University College di Londra. Negli anni ’90 nell’ambito dei suoi studi sulla specializzazione funzionale della corteccia visiva, Zeki ha analizzato le sue implicazioni sull’arte moderna: ha quindi affrontato una lettura dell’Arte in chiave scientifica (soffermandosi specialmente sulla vicenda astratta e cinetica) proponendo una sorta di neurologia degli elementi artistici primari, quali forma, colore e movimento. In conclusione a questo suo imponente lavoro di ricerca, ha affermato che la necessità di percepire ed elaborare le informazioni visive è la stessa che guida il gusto estetico, ereditata certamente nel tempo e dall’esperienza. Zeki parla di “specializzazione funzionale dell’estetica visiva” asserendo che nell’uomo coesistano tanti sensi estetici quante sono quelle aree addette al riconoscimento degli stimoli visivi; infatti, l’inefficienza di una particolare zona comporterebbe la mancanza di godimento di un aspetto particolare di un’opera d’arte; questo perché gli attributi di una immagine visiva – i colori, le forme – influenzano gli 39 effetti estetici che essa comporta. L’arte può essere quindi interpretata come una finestra sul mondo interiore e sul cervello dell’artista. E’ noto infatti come gli artisti con particolari disturbi hanno avuto una percezione estetica che è stata influenzata da essi e le loro opere rispecchiano questa condizione; basti pensare alla follia di Vincent Van Gogh o alla cataratta di Claude Monet. L’incontro con il testo di Zeki La visione dall’interno ha rappresentato per me e per quanti si avvicinano allo studio di questa nuova disciplina, lo spunto per pensare ad un’interpretazione critica della storia dell’arte tutta nuova – tanto da poter parlare di “neurocritica dell’arte”. La nozione fondante è che, per elaborare gli stimoli visivi esterni in concetti, le cellule specializzate delle differenti aree cerebrali della corteccia visiva hanno la capacità di astrarre gli elementi della visione. Se quindi la visione non è una semplice analisi di stimoli esterni ma un processo di conoscenza profondo, allora l’artista può essere studiato e paragonato a un neuroscienziato che utilizza gli strumenti dell’arte per comprendere come riuscire a stimolare le percezioni dell’osservatore e pertanto quali elementi utilizzare nella sua composizione pittorica. Le recenti scoperte sul cervello visivo, tra cui prima fra tutte quella dei “neuroni specchio”, sostengono questa tesi e conducono ad esiti ancora più esilaranti: il meccanismo di “simulazione incarnata” nell’uomo funziona anche nel caso di azioni fittizie, simulate e confuse, come può essere ad esempio bere senza un bicchiere. Da questa fondamentale verità ne è conseguita un’altra, scaturita dall’indagine sul manufatto artistico: nel 2007 il neurobiologo Vittorio Gallese dell’Università di Parma ha collaborato con lo storico dell’arte David Freedberg della Columbia University di New York ad un esperimento di fondamentale importanza, pubblicato su Trends col titolo di “Motion, Emotion and Empathy in Aesthetic experience. Ponendo degli osservatori dinanzi all’immagine di uno dei quattro Prigioni di Michelangelo – la famosa scultura “incompleta” dello schiavo detto Atlante (databile al 1525-1530) e conservata a Firenze nella Galleria dell’Accademia – è emerso che la risposta empatica è valida anche davanti all’opera d’arte rappresentativa: il cervello ha riprodotto in termini motori il movimento di torsione del busto della statua. Nel dicembre 2012 si è aggiunto un altro tassello importante all’interno del percorso di chiarificazione del valore dell’opera d’arte: l’oggetto preso in esame è stato per la prima volta un quadro informale, uno dei noti “concetti spaziali” di Lucio Fontana, più volgarmente ricordato come il “taglio”. Grazie all’ausilio dell’Elettroencefalografia, degli spettatori sono stati stimolati con tale immagine e quanto è emerso è stato incredibile: la percezione di quel tratto di tela squarciato è stata interpretata dal cervello 40 in termini senso motori ossia di ricostruzione del gesto del pittore. E’ straordinario sapere che chiunque, osservando un’opera d’arte, sta inconsapevolmente entrando in empatia “carnale” con essa, a livello cerebrale. Ciò significa che il nostro cervello non solo è in grado di ricreare i gesti compiuti dai grandi artisti della storia, ma di entrare in empatia con essi al di là del tempo e dello spazio. Ecco perché l’Arte è fondamentale: perché è un linguaggio che non conosce limiti. Quindi, ripercorrere questa piccolo ma rilevante capitolo di conquiste scientifiche è senz’altro utile per comprendere l’importanza del ruolo sociale dell’artista nella sua accezione di comunicatore universale grazie alla fisiologia stessa dell’uomo che si può definire un “animale empatico”. Partendo da una panoramica sulla fisiologia del cervello visivo, è evidente che il momento della creazione artistica coincida quasi con quello della fruizione, come se l’osservatore divenisse egli stesso un artista nel momento in cui esperisce l’opera d’arte. Zeki, infatti, considera l’arte come una ricerca di costanti attraverso un simile processo di selezione degli elementi essenziali del mondo. Riprendendo l’accezione poco fa espressa, l’arte può essere per ciò interpretata come una finestra sul mondo interiore dell’artista, una finestra che consente di vedere e di rivivere un’esperienza da lui vissuta, intrisa del suo pensiero, delle sue idee e della sua visione cerebrale ma, aggiungo, anche una finestra sul mondo del fruitore, su noi stessi. 41 4.2 State Of Mind Il Giornale Delle Scienze Psicologiche (Rivista Peer Reviewed). Articolo scritto da Guest, (04 Dicembre 2015) Il libro di Rizzolatti e Sinigaglia descrive le numerose ricerche compiute presso l’Università di Parma. La straordinaria scoperta dei neuroni specchio ha dato inizio a un nuovo modo di vedere il comportamento umano, l’intelligenza, il pensiero e le emozioni. La premessa inizia con una citazione di Peter Brook che ha affermato come tale scoperta abbia dato prova scientifica di ciò che il teatro sapeva da tempo, a dimostrare quanto questi studi non siano poi così lontani ma, in fondo, potenzialmente alla portata di molti studiosi di varie discipline. Questi studi hanno infatti catturato l’attenzione di studiosi di psicologia, pedagogia, sociologia, antropologia ecc. Non tutti però conoscono nei particolari la storia di questa scoperta e questo libro ha il merito di raccontarla e di spiegare come funziona il nostro cervello. Partendo dal semplice gesto di prendere una tazzina da caffè spiega come funziona il sistema motorio e cosa accade quando si decide di compiere un’azione. Infatti, anche se non ne siamo consapevoli, quando stiamo per afferrare un oggetto la nostra mano inizia a prepararsi per poterlo prendere, le dita e il palmo della mano si prefigurano per adattarsi al peso, alla forma e al materiale di cui è fatto l’oggetto. Appena si raggiunge la tazzina la mano riceve le informazioni dai recettori della cute, dai muscoli e dalle articolazioni che le permettono di perfezionare la presa e portare la tazzina alla bocca. Per molto tempo si è pensato che i fenomeni sensoriali, percettivi e motori fossero suddivisi in distinte aree corticali: le aree sensoriali visive nel lobo occipitale, somatosensoriali nella circonvoluzione postcentrale, uditive nella circonvoluzione temporale superiore ecc.. e dall’altro le aree motorie nella parte posteriore del lobo frontale. Tra queste due aree vi sono le aree associative che hanno la funzione di integrare le informazioni provenienti dalle due aree e per poter mettere in atto l’azione. In seguito si è cominciato a comprendere che “il sistema motorio non è solo connesso alle aree corticali responsabili delle attività cerebrali coinvolte in pensieri e sensazioni, ma possiede molteplici funzioni, le quali non sono riconducibili nel quadro di una mappa unitaria puramente esecutiva” (“So quel che fai, p.11 Rizzolatti, Sinigaglia). Le ricerche compiute negli ultimi anni hanno portato alla conclusione che la suddivisione della corteccia motoria nelle aree MI e SMA è troppo semplicistica. Infatti la corteccia motoria risulta formata da molteplici regioni diverse. L’uso di tecniche elettrofisiologiche sofisticate che prevedono 42 l’inserimento di microelettrodi capaci di stimolare piccoli gruppi di neuroni di proiezione, ossia microstimolazione intracorticale, ha infatti permesso di vedere come la corteccia motoria contenga una grande molteplicità di mappe funzionalmente distinte e localizzate nelle aree anatomiche delle regioni mesiale, dorsale, ventrale. Il modello dell’Homunculus motorio di Wilder Penfield, per tanto tempo punto fermo della neurologia, appare quindi notevolmente superato. Ritornando ora alla tazzina da caffè, per prendere un oggetto sono necessari due processi correlati, ossia raggiungere ed afferrare. Anche se il pensiero comune è che il raggiungere preceda l’ afferrare non è così, infatti la registrazione dei movimenti della mano e del braccio ha dimostrato che sono due processi paralleli. Afferrare richiede l’attivazione della corteccia motoria primaria F1, infatti lesioni di quest’area causano mancanza di forza, flaccidità e l’incapacità di muovere le dita in modo indipendente. F1 però non avendo accesso diretto all’area visiva, necessita dell’area F5 che contiene rappresentazioni motorie della mano e della bocca, che sono in parte sovrapposte. La maggior parte dei neuroni di quest’area codifica atti motori, ossia movimenti coordinati da un fine specifico (Rizzolatti, Gentilucci, 1988; Rizzolatti et al.,1988). Gran parte dei neuroni F5 si attivano infatti quando la scimmia afferra un pezzo di cibo con la mano o con la bocca, compiendo quindi un atto motorio. Molti neuroni F5, indipendentemente dalla classe di appartenenza, codifica il tipo di conformazione che deve avere la mano per compiere un’ azione, presa di precisione o afferrare. Un’ulteriore prova che i neuroni F5 si attivano durante gli atti motori è che a prescindere dalla loro specificità per i diversi tipi di presa la loro attivazione varia in relazione alle differenti fasi dell’atto motorio. Vi sono neuroni che si attivano quando la scimmia usa la “presa di precisione” e altri che si attivano quando afferra oggetti di media taglia con tutte le dita. Sin dai primi studi è emerso che una parte di neuroni F5 risponde in modo selettivo a stimoli visivi; nell’esperimento condotto da Akira Murata e colleghi (Murata et al., 1997. Rizzolati et al.,2000; Gallese, 2000) è stato indagata a fondo la funzione visuomotoria dei neuroni F5, portando quindi ad ipotizzare che le risposte visive sarebbero l’espressione di un ‘intenzione della scimmia di prendere un oggetto. La corteccia ventrale premotoria è formata oltre che dall’area F5 anche dall’area F4, che occupa l’area dorso-caudale ricevendo afferenze dall’area intraparietale ventrale (VIP). Da esperimenti di microstimolazione è stato dimostrato che in F4 sono presenti movimenti del collo, della bocca e del braccio ed è emerso che 43 la maggior parte di questi neuroni si attiva sia durante l’esecuzione di atti motori sia a stimoli sensoriali. In seguito a tale scoperta sono stati distinti due gruppi di neuroni: solo somatosensoriali e somatosensoriali e visivi o neuroni bimodali. Recentemente sono stati individuati anche neuroni trimodali capaci di rispondere a somatosensoriali visivi e uditivi (Graziano et al., 1999). La maggior parte dei neuroni somatosensoriali di F4 viene attivata da stimoli tattili superficiali e i loro campi recettivi sono abbastanza ampi e localizzati sulla faccia, sul collo, sulle braccia e sulle mani. I neuroni bimodali hanno caratteristiche somatosensoriali simili a quelle dei neuroni somatosensoriali puri, vengono però attivati da stimoli anche visivi in particolare da oggetti tridimensionali e stimoli in movimento. La scoperta più sorprendente che riguarda l’area F4 è stata che i campi recettivi visivi della maggior parte dei neuroni bimodali restano ancorati ai rispettivi campi recettivi somatosensoriali e risultano pertanto indipendenti dalla direzione dello sguardo (Gentilucci et al.,1983; Fogassi et al., 1996a, b.). Dall’analisi delle proprietà funzionali dei neuroni F5 è emerso che molti si attivano durante gli atti motori e a causa delle loro caratteristiche inizialmente, negli anni trenta, vennero chiamati neuroni canonici. Nelle prime situazioni sperimentali degli anni novanta le scimmie venivano lasciate agire liberamente e si è visto che nella convessità corticale F5 erano presenti neuroni che si attivavano sia quando la scimmia effettuava un’azione sia quando osservava lo sperimentatore compiere quell’azione. Questi sono stati chiamati neurons mirror, neuroni specchio. Per quanto riguarda le proprietà motorie i neuroni specchio sono indistinguibili dagli altri neuroni F5, la situazione cambia invece per quanto concerne le capacità visive , infatti i neuroni specchio rispondono alla presentazione dello stimolo visivo (es. cibo per la scimmia). La loro attivazione dipende dall’osservazione da parte della scimmia di determinate azioni compiute dallo sperimentatore che comportano un’ interazione effettore mano o boccaoggetto. Assumendo come criterio l’atto motorio codificato visivamente si possono suddividere in “neuroni-specchio-afferrare”, “neuroni-specchio-tenere”, “neuroni-specchio- collocare” quando la scimmia guarda lo sperimentatore mettere un oggetto su un supporto, “neuroni-specchio-interagire-con-le-mani” che si attivano alla vista di una 44 mano che si muove verso l’altra e mentre quest’ultima sta tenendo un oggetto. La loro funzione ad un esame superficiale porterebbe ad una preparazione ad agire per poi compiere la stessa azione ma se così fosse sarebbe simile a quei neuroni preparatori ampiamente diffusi nella corteccia premotoria. Un’interpretazione più sofisticata è quella di Marc Jeannerod (Jeannerod, 1994) in un articolo sull’analisi dell’immaginazione di tipo motorio, motor imagery). Jeannerod porta come esempio un allievo che osserva il maestro eseguire un passaggio complesso al violino. Secondo la sua ipotesi i neuroni responsabili di immagini motorie sarebbero gli stessi che si attivano durante la preparazione e la pianificazione dell’allievo della propria esecuzione. Pur apprezzando la ricerca di Jeannerod secondo Rizzolatti è comunque riduttivo affermare che la funzione primaria dei neuroni specchio sia legata a comportamenti imitativi. La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia ha suggerito l’ipotesi che anche nell’uomo potesse esistere un’area cerebrale simile. Attraverso gli studi di elettroencefalografia (EEG) già negli anni cinquanta sono state rilevate evidenze indirette di un meccanismo specchio anche nell’uomo. La prova dell’esistenza dei neuroni specchio anche nell’uomo si deve agli studi di stimolazione magnetica transcranica (TMS). La TMS è una tecnica non invasiva di stimolazione del sistema nervoso, quando la corteccia motoria viene colpita con un’ intensità appropriata da uno stimolo magnetico è possibile registrare i potenziali motori, motor evoked potential MEP, nei muscoli controlaterali. Luciano Fadiga e colleghi (Fadiga et al.,1995, Maeda et al.,2002), hanno registrato i MEP, attraverso la stimolazione della corteccia motoria sinistra, nei muscoli della mano e del braccio destro in soggetti che osservavano lo sperimentatore compiere un’azione come afferrare un oggetto. Il risultato è stato che i muscoli del braccio e della mano dei soggetti venivano attivati durante l’osservazione, mentre un altro sorprendente risultato è stato che l’attivazione aumenta notevolmente durante l’osservazione di atti intransitivi, non diretti verso un oggetto. Una differenza nell’uomo, rispetto alla scimmia, è che i neuroni specchio hanno anche la capacità di codificare e attribuire uno scopo all’azione osservata. Sin dalla loro scoperta ci si è chiesti se potessero essere alla base del comportamento imitativo, come è noto l’imitazione è la capacità di riprodurre un’azione nei dettagli dopo averla osservata e aver quindi appreso un pattern d’azione nuovo (Byrne, 1995; Tomasello, Call, 1997; Visalberghi, Fragaszy, 2002). 45 Secondo il modello che ha preso piede negli ultimi anni, grazie alle ricerche di Wolfang Prinz e collaboratori, l’azione osservata e quella eseguita condividono lo stesso codice neurale. Essi si rifanno al concetto di “azione ideomotoria” di Hermann Lotze, poi ripresa da William James (Lotze, 1852; James, 1890), poi estesa al principio di “compatibilità ideomotoria” dello psicologo Anthony G.Greenwald. Secondo questo principio più un atto percepito assomiglia ad uno presente nel patrimonio motorio dell’osservatore più tende a indurne l’esecuzione: percezione ed esecuzione delle azioni debbono possedere uno schema rappresentazionale comune (“So quel che fai”p.137 Rizzolatti, Sinigaglia). La scoperta dei neuroni specchio ha dato un notevole apporto allo studio delle emozioni e in particolare al riconoscimento delle espressioni facciali. Prendiamo ad esempio un’emozione primaria come il disgusto, la sua forma primitiva è legata all’ingerire, annusare o assaggiare il cibo, costituita quindi da movimenti delle labbra, della bocca, dall’arricciare il naso e talvolta da nausea e vomito (Rozin et al., 2000). Numerosi studi condotti negli ultimi anni hanno consentito di individuare le aree cerebrali coinvolte nelle reazioni di disgusto. Tra queste un ruolo importante appartiene al lobo dell’insula. Da tempo è noto che non si tratta di un’area omogenea, nella scimmia è divisa in tre zone citoarchitettoniche: insula agranulare, disagranulare e granulare. La regione anteriore è connessa con i centri olfattivi e gustativi e riceve informazioni dalla regione anteriore della parete ventrale del solco temporale superiore (STS), in cui molti neuroni rispondono alla vista delle facce. Nell’uomo l’insula è più grande che nella scimmia ma è molto simile. Andrew J. Calder e colleghi riportano il caso di un paziente (NK) che in seguito ad un’emorragia cerebrale, presentando gravi danni all’insula sinistra e alle strutture circostanti non era più in grado di riconoscere l’espressione di disgusto. Inoltre il danno cerebrale aveva causato un’incapacità anche a livello uditivo di riconoscere i suoni legati a tale emozione (il vomito), non era quindi in grado di provare e riconoscere il disgusto. Il riconoscimento di tutte le altre emozioni invece non presentava alcun deficit. L’osservazione di un volto che esprime un’emozione va quindi ad attivare i neuroni specchio della corteccia premotoria. Quest’area poi invia alle aree somatosensoriali e all’insula una copia efferente (del loro pattern di attivazione), simile a quello che inviano quando è l’osservatore a provare quell’emozione. Il riconoscimento delle emozioni sui volti degli altri, attraverso il meccanismo dei neuroni specchio, 46 rappresenta il prerequisito indispensabile per la messa in atto del comportamento empatico che è alla base dell’interazione tra gli individui. La spiegazione del meccanismo dei neuroni specchio ha dato una base comune per riprendere ad indagare la natura dei comportamenti e delle relazioni sociali e interpersonali. 47 4.3 Nuova Atlantide (Rivista Peer Reviewed) Articolo scritto il 23 Settembre 2015 da Antonio Gaeta Comunicare Per Immagini, Quale Fondamento Del Linguaggio Desta un particolare interesse apprendere da Heine Goettner-Abendroth che, per tutta la lunghezza dell’istmo di Darién, per lo più entro i confini di Panama, e in misura minore della Colombia, nel 2006 antropologi ed etnologi stimarono che la popolazione Cuna si aggirasse intorno ai 60.000 abitanti. I Cuna sono, per entità, uno tra i gruppi indigeni più consistenti dell’America Centrale, tra coloro che hanno mantenuto la loro cultura originaria. La loro politica di conservazione funziona talmente bene, che sono riusciti a preservarla, pur in presenza della “modernizzazione” operata dai governi panamensi, dai missionari cristiani e persino dagli etnologi. L’aspetto che ha colpito più di ogni altro la mia grande curiosità antropologica è stata la capacità millenaria di questa etnia di tramandare la sua storia, la concezione che essa ha della cosmogonia, nonché la connessa mitologia, grazie al canto. Nei tempi passati questo tipo di pratica era definita dai Cuna “cantare le immagini”. Si tratta di un linguaggio, che si fonda sui segreti della vita, condivisi da tutte le tradizioni dei Cuna. Da questa particolare capacità espressiva, che ha fatto uso di pochi pittogrammi, è nata la bravura delle donne di raccontare le stesse vicende storiche e mitologiche tramite il ricamo ornamentale per le bluse (o mola). Si tratta di creazioni che esprimono ancora oggi le forme fantastiche, che raffigurano l’insieme della loro cosmogonia e della loro mitologia. Il canto, sebbene ad uso narrativo, si ispira ad immagini dell’emisfero destro, che precedono nel tempo la stessa formazione del linguaggio verbale discorsivo. Francesco Ferretti nel suo saggio “Alle origini del linguaggio verbale” dimostra come anche questa particolare capacità comunicativa dell’essere umano sia il risultato di un processo evolutivo, che trae spunto da un preesistente bagaglio cognitivo, che a sua volta presenta tratti comuni a tutti i vertebrati superiori. Sarebbe lungo (sebbene di grande importanza) soffermarsi sulle elaborate ricerche, che inducono a dire che il linguaggio verbale non é un dono divino che distingue l’essere umano dagli altri animali. Tuttavia, prima che nascessero i linguaggi verbali, la comunicazione tra gli esseri umani assunse le forme espressive di modellamento creativo (compreso il canto) delle immagini: quelle che l’evoluzione della specie sviluppa nell’ambito dei processi neurali (o cerebrali). 48 Prima delle corde vocali, delle labialità e gutturalità della bocca, infatti, persino l’articolazione gestuale delle mani è stata la forma di protolinguaggio che permetteva di comunicare fluentemente. La grammatica del gesto precedette quella della parola! Le capacità articolatorie del corpo umano, nel suo complesso, in seguito, sono riuscite a esprimere composizioni fonetiche connesse con le immagini, anche simboliche, generate dalle interazioni dei neuroni. Tra questi determinanti furono i cosiddetti “neuroni-specchio”. Lo studio di questo fenomeno fisiologico, reso possibile dall’evoluzione biologica della specie, è di grande importanza per comprendere come, di fatto, fosse la capacità di mimesis ovvero la molla creativa che permise all’ominide di diventare Homo Sapiens. Questa capacità è il fondamento della creazione artistica, quale prima forma di comunicazione sociale! Secondo Donald i comportamenti complessi, tipici dell’Homo Erectus (uso controllato del fuoco, cottura del cibo, migrazione verso terre lontane, etc.) evidenziano capacità intellettive in grado di svincolarlo dal “qui e ora” (unica dimensione temporale, di cui disponevano gli australopitechi al pari degli altri animali). Scrive Donald che alla base di tale progresso fu la mimesis: una specifica capacità cognitiva, per mezzo della quale l’Homo Erectus riuscì a costruire una rappresentazione della realtà circostante attraverso l’utilizzo di forme espressive visivo motorie. In altre parole, l’articolazione motoria del corpo umano non si limitava alla deambulazione, al procacciamento del cibo e alla nutrizione, ma iniziava a porre le fondamenta della comunicazione sociale, mediante lo sviluppo di immagini, che accompagnarono l’evoluzione dei “neuroni specchio”. Fu questa evoluzione biologica delle immagini interiori a stimolare il bisogno di trasferire l’un all’altro i contenuti delle stesse immagini, rese sotto forma gestuale, labiale, simbolica (mediante lo sviluppo di segni e disegni) e, infine, canora. Non siamo ancora al “linguaggio verbale discorsivo”, giacché esso costituisce una successiva evoluzione, tipica dell’Homo Sapiens. Tuttavia, siamo ai fondamenti della comunicazione sociale mediante il linguaggio creativo, che a sua volta è il fondamento dell’arte! In questo senso possiamo dire che il “cantare per immagini” dei Cuna costituisce una delle prime forme espressive della comunicazione umana. Essa crebbe e si sviluppò tra i clan delle antichissime società matriarcali, che precedettero (e hanno accompagnato, fino ai giorni nostri) tutto ciò che oggi conosciamo come “Storia dell’Uomo”! Scrive André Breton in ”Arte Magica” che “La magia - come dice Boheme 49 - non é altro in sé che una volontà. E questa volontà é il grande mistero di ogni meraviglia e di ogni segreto. Essa nasce grazie all’appetito del desiderio dell’essere. Ma ora essa cerca uno sbocco, che minaccia di essere torrentizio, in un mondo dove tutto ha cospirato a sbarrargli la strada!”. Si può concordare con questa suggestiva e filosofica immagine di torrente in piena, che non é riuscito a fluire in modo graduale e naturale. Tutto lo sviluppo del linguaggio verbale discorsivo, infatti, da una parte ha aperto le porte alle scienze ed alla tecnologia più avanzata; dall’altra, con le guerre, ha sbarrato lo sviluppo del percorso biologico evolutivo, alla base della comunicazione sociale, fondata sull’espressione artistica diffusa. In fondo, la “magia” che invoca il Surrealismo di Breton altri non é che il segreto biologico, cui attinge tutta la vita. Non c’é e non ci sarà mai, infatti, un chimico molecolare e tanto meno un fisico esperto in dinamica delle particelle subatomiche, che potranno rivelare il “mistero della vita” e delle sue forme evolutive. Pertanto, l’unica comunicazione sociale interetnica e internazionale resta e sarà sempre quella della capacità suggestiva di rappresentazione artistica (o magica) dell’immagine! Persino le classi sociali principali, eredi ed interpreti della cultura patriarcale, si appropriarono e si appropriano sempre più delle immagini, per sottomettere le moltitudini umane alla loro volontà di potenza! Ciò che occorre a noi moltitudini, quindi, é la necessità di smascherare i contenuti narrativi, insiti in quelle immagini finalizzate ad imporre le volontà di dominio, per poter riportare la comunicazione umana alle volontà di convivenza pacifica ed egualitaria. Per fare questo, il nostro linguaggio creativo ha bisogno di comunicare immagini assolutamente diverse! 50 5 Conclusioni L’arte si modifica ed evolve con la società. La globalizzazione sta generando cambiamenti straordinari cui l’uomo deve abituarsi velocemente. Pellegrino nell’era delle più rivoluzionarie scoperte scientifiche e dei più repentini mutamenti storico sociali mai avvenuti nella sua storia, l’uomo ha sempre più la necessità di ricercare e comprendere sé stesso. In simile contesto, gli artisti si fanno portavoce di un’umanità che fatica a comprendere e trasmettere le emozioni che prova. Il lavoro di Bill Viola, per esempio, cui ho accennato nel secondo capitolo, è un tentativo di trasposizione del nostro sentire, attuando la reviviscenza delle nostre emozioni nascoste. La neuroscienza sta aprendo le porte alla decodificazione ed alla comprensione cognitiva dell’esperienza emotiva umana. La storia dell’arte si ricollega alle neuroscienze cognitive attraverso la “simulazione incarnata” di movimenti, gesti ed espressioni osservate. Questo implica la possibilità di comprendere le intenzioni e riconoscere le espressioni e le sensazioni altrui, non solo nella realtà, ma anche attraverso le raffigurazioni. Le potenzialità estetiche e terapeutiche insite nella ricerca di Freedman e del Gruppo di Parma ci conducono ad una più matura consapevolezza di noi stessi. La collaborazione tra storici d’arte e neuroscienziati genera, inevitabilmente, conflitti e preoccupazioni. In campo umanistico, sorge il timore di perdere l'identità disciplinare, sebbene la collaborazione di Freedman con i neuroscienziati Gallese, Rizzolatti e Battaglia provi il contrario. D’altro canto, il riduzionismo scientifico pare obnubilare quegli aspetti irrazionali e creativi, propri di molte forme artistiche come la pittura, la musica e la poesia. Premesso questo, Freedman suggerisce ambiti di ricerca che non riducano la complessità dei fenomeni ma che aprano, invece, nuovi orizzonti. Lo studio congiunto e le sperimentazioni attuate dallo storico d’arte insieme con i neuroscienziati cui dobbiamo la scoperta del “meccanismo specchio” non intendono suggerire che la neuroscienza possa spiegare integralmente il piacere estetico e la reazione emotiva ad un'immagine ed è giusto diffidare di quei neuroscienziati che tentano di individuare le basi neurologiche di concetti indefiniti quali la bellezza o, addirittura, l'amore. Lo scopo della collaborazione tra arte e scienza è quello di stabilire obbiettivi, progetti di ricerca e 51 compiti precisi. Oggi è quanto mai necessario accantonare l’antica contrapposizione tra natura e cultura. Siamo finalmente nella posizione di comprendere come la modulazione prefrontale delle risposte neurologiche provenienti dalla parte inferiore del cervello offra una spiegazione, seppure parziale, del rapporto che sussiste tra automaticità ed esperienza. Si potrebbe quindi iniziare a valutare quanto un’opera d'arte sia efficace sulla base di come l'artista riesce a veicolare, consciamente o inconsciamente, una certa conoscenza del corpo e, di conseguenza, a suscitare nel fruitore della sua opera esattamente quanto lo stesso artista prova nel momento della creazione. Osservando la convergenza dei vari campi disciplinari è possibile notare come storia, fenomenologia e scienza possano illuminarsi a vicenda anziché competere l’una contro l’altra. Il futuro prevede una collaborazione sempre più stretta tra le varie discipline, le quali non saranno dominanti l’una rispetto all’altra ma complementari e, pertanto, volte insieme a fornire una, seppure parziale, spiegazione scientifica ai moti suscitati nell’animo umano da ciò che noi, comuni mortali, consideriamo esteticamente gradevole. 52 6 Bibliografia Byrne, R.W (1995), The thinking Ape. Evolutionary Origins of Intelligence. Oxford University Press, Oxford. Andrè Breton – Arte Magica – Edizioni Adelphi (2003) Calder, A.J., Keane, J., Manes, F., Antun, N.,Young, A.W. (2000), “Impaired recognition and experience of disgust following brain injury” In Nature Neuroscience , 3 , pp. 1077-1078. Leila Craighero – Neuroni Specchio – Edizioni Il Mulino (2010) “L’evoluzione della mente. Per una teoria darwiniana della coscienza” di M. Donald – Edizioni Garzanti (2004) during Fadiga,L., Fogassi, L.,Pavesi, G., Rizzolatti, G. 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Zeki, La visione dall’Interno, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 17. 55 7 Sitografia http://www.arpa.umbria.it/resources/docs/micron%2028/micron-28-39.pdf - Mi specchio nei tuoi gesti - Arpa Umbria di Michela Perrone di www.columbia.edu/cu/.../Freedberg/Immagini-Risposta-Emotiva.pdf D Freedberg - 2009 http://giannellachannel.info/2013/09/28/neuroni-specchio-parma-perchè-bello-ebuono-accendono-il-nostro-cervello http://journal.frontiersin.org/article/10.3389/ Aesthetic Emotions Accross Arts: A Comparison Between Painting and Music (05 january 2016) old.unipr.it/arpa/mirror/pubs/pdffiles/prometeo_2008.pdf di D Freedberg http://www.psicoterapiaescienzeumane.it Psicoterapia e scienze umane, 2006, XL LA SIMULAZIONE INCARNATA: I NEURONI SPECCHIO, LE BASI NEUROFISIOLOGICHE DELL’INTERSOGGETTIVITA’ ED ALCUNE IMPLICAZIONI PER LA PSICOANALISI http://psychomedia.it/pm/culture/visarts/riva2.html PSYCHOMEDIA ARTE E RAPPRESENTAZIONE ARTI VISIVE L’intima relazionalità dell’esperienza artistica – Tino Shegal alla 55esima Biennale di Venezia per una revisione delle teorie psicoanalitiche sull’arte a cura di Alessandro Riva psicoart.unibo.it/article/viewFile/2057/1444 Quasi-soggetti e come-se: l'empatia nell'esperienza artistica di A Pinotti - 2010 http://unilitacagli.blog.it/2011/02/14-14-febbraio-2011-beatrice-viti.html NEUROESTETICA: MENTE E CERVELLO DI FRONTE AD UN’OPERA D’ARTE – Le basi neurobiologiche della fruizione e creazione artistica http://www.treccani.it/ encyclopedia/neuroni specchio _(XXI_Secolo)/ www.vertici.com Vertici Network 2007 – I neuroni specchio – Calzeroni R. 56 8 Ringraziamenti Ringrazio il Dottor Luca Cerniglia, per avermi suggerito questo interessante ed attuale argomento e per avermi seguita nell’elaborazione della tesi. Ringrazio la mia amica Dominique Mosca, eccellente esperta “informatica” (e non solo), per avermi aiutata nella sistemazione e nella stesura grafica. Senza di lei non sarei stata in grado di rendere giustizia “coreografica” al mio elaborato. Ringrazio il mio amico e compagno di studi Antonio Alberti, per avere sempre creduto in me ed avermi sostenuta e spronata a continuare in ogni momento, anche quando ero troppo stanca per studiare e la certezza di arrivare alla fine vacillava. Ringrazio la mia amica Maria Margherita Pezzetti per avermi detto sin dall’inizio che stavo commettendo un grosso errore ad assumermi un simile impegno con un lavoro full time e due bambini piccoli (!!), salvo poi essermi stata accanto SEMPRE, durante ogni singolo attimo di questi tre complicatissimi anni. In ultimo, il più importante grazie va ai miei meravigliosi bambini, Emanuele e Matilde. Amori miei, allegri positivi e illuminanti sempre, non sarà mai abbastanza la gratitudine che provo nei vostri confronti! Più di qualunque titolo accademico raggiunto o raggiungibile, siete il mio più grande orgoglio e sono onorata di essere la vostra mamma. Senza di voi nulla avrebbe senso perché voi siete il senso della mia vita. 57