Peer Reviewed

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Peer Reviewed
UNIVERSITÀ TELEMATICA INTERNAZIONALE
UNINETTUNO
FACOLTÀ DI PSICOLOGIA
Corso di Laurea in Discipline Psicosociali
Elaborato finale
in Psicologia Dinamica
Titolo tesi
Neuroni Specchio nell’Esperienza Estetica
Candidato
Paola Bagnasco
Matr:1891
Relatore
Prof. Ammaniti
Anno Accademico
2014-2015
A Matilde ed Emanuele
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1
Indice
1 Introduzione ................................................................................................................... 4
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3
Neuroni Specchio: Dal Movimento All’empatia All’esperienza Estetica. ............... 6
2.1
Descrizione Breve Storia e Accenni Neurobiologici ......................................... 6
2.2
Infant Research e Simulazione Incarnata ........................................................ 12
2.3
Arte Esperienza Estetica e Neuroscienze ......................................................... 16
Arti Figurative Simulazione Incarnata e Neuroni Specchio.................................... 21
3.1
Neuroni Specchio Ed Arti Visive (Pittura E Scultura) .................................... 21
3.2 Freedberg e Gallese: Approccio Storico e Approccio Neuroscientifico
All’analisi Delle Opere D’arte .................................................................................... 26
3.3 Analisi Opere D’arte con Soggetti Non Naturalistici e Movimenti che Non
Paiono Finalizzati ....................................................................................................... 32
4 Recenti Articoli tratti da Riviste Specializzate (Peer Reviewed) che avvallano le
Teorie e Sperimentazioni Descritte nei primi due capitoli ............................................. 38
4.1
Scienza e Ricerche (Rivista Peer Reviewed) ................................................... 38
Articolo scritto da Barbara Missana, Storica D’arte (27 Marzo 2015) ....................... 38
Le Nuove Frontiere della Scienza Applicata All’arte: La Neuroestetica ................... 38
4.2 State Of Mind Il Giornale Delle Scienze Psicologiche (Rivista Peer Reviewed).
Articolo scritto da Guest, (04 Dicembre 2015) .......................................................... 42
4.3
Nuova Atlantide (Rivista Peer Reviewed) ....................................................... 48
Articolo scritto il 23 Settembre 2015 da Antonio Gaeta............................................. 48
Comunicare Per Immagini, Quale Fondamento Del Linguaggio ............................... 48
5
Conclusioni.............................................................................................................. 51
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Bibliografia.............................................................................................................. 53
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Sitografia ................................................................................................................. 56
8
Ringraziamenti ........................................................................................................ 57
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1 Introduzione
Arte e scienza sono espressione specifica della condizione umana e sono volte entrambe
a interrogare l’invisibile per renderlo visibile.
Il filosofo tedesco Nietzche, in un passo tratto da Aurora, scrive: “Per comprendere
l’altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una
prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sgorgare sentimenti in noi
analoghi, in virtù di un’antica associazione tra movimento e sensazione”. L’opera ben
congegnata è in grado di evocare in noi tutto questo, catapultandoci in quella
dimensione di sensazioni ed emozioni che l’artista abile ha costruito per noi. Sin dalla
preistoria, l’uomo ha sentito il bisogno di esprimere la propria interiorità sensoriale ed
emotiva attraverso l’utilizzo della danza, della musica ma anche della pittura, della
scultura e, in tempi più recenti, con l’avvento della scrittura, della poesia. L’arte è
comunicazione del proprio essere e del proprio intimo pensiero verso l’esterno. In
questo senso l’arte diventa simbolo e costituisce un legame intersoggettivo tra colui che
crea e colui che osserva.
La ricerca neuroscientifica ha recentemente sviluppato alcune ipotesi interessanti sui
modi in cui entriamo in risonanza empatica col prossimo, consentendo di sottolineare
l’importanza del ruolo dei modelli impliciti di comportamento e delle esperienze altrui.
Il potere empatico delle immagini, l’importanza dei processi emotivi nel campo della
percezione sociale così come l’analisi attenta di immagini accomunate da una forte
reazione emotiva nello spettatore, conduce a tracciare una sintomatologia della visione e
della reazione. L’esperienza condivisa ha basi neurali connaturate alla natura genetica
dell’essere umano, di cui i neuroni specchio sono l’ultima scoperta scientificamente
dimostrata e dimostrabile. Sulla base del principio neuroscientifico definito
“meccanismo specchio”, una stessa reazione emotiva viene attivata nel cervello di una
persona sia che la stessa stia compiendo una esperienza, sia che stia osservando un
soggetto terzo che la compie. Lo stesso “transfer” emotivo avviene di fronte a opere
d’arte che rappresentano emozioni umane.
La neuroestetica (approccio scientifico che indaga la creazione artistica), negli ultimi 20
anni, si è posta l’obbiettivo di esplorare le basi neuronali della creatività e
dell’esperienza artistica. Tutte le nostre azioni, verbali e fisiche, originano nella mente.
Grazie alle tecniche di brain imaging e agli strumenti scientifici oggi a nostra
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disposizione possiamo verificare cosa accade nel nostro cervello durante la
contemplazione di un’opera d’arte. Quando incrociamo lo sguardo enigmatico della
Monna Lisa qualcosa accade nel nostro sistema nervoso e l’impatto emotivo può
biologicamente essere “misurato” tramite l’attivazione di determinate aree del cervello,
in particolare possiamo verificare l’attivazione dei neuroni specchio. Questo non
significa che la neuroestetica sia in grado di scandagliare i meccanismi reconditi
dell’animo umano (che sono il frutto della cultura, del contesto sociale, dell’esperienza
personale e dello sviluppo cognitivo di ogni individuo) ma che possiamo dare un
fondamento scientifico a istinti primordiali di piacere o non piacere. Difficilmente,
presentando il Cafè de Nuit di Van Gogh a un boscimano del Khalahari, riscontreremo
la stessa attivazione neuronale che potremmo riscontrare in un occidentale appassionato
di Impressionismo. Tuttavia, ritengo che una danza tribale, un movimento cadenzato del
corpo, piuttosto che un motivo musicale o un canto o un paesaggio di mare dipinto ad
acquarello (ovvero una forma d’arte congenitamente condivisa da ogni essere umano di
cultura, stato sociale e tradizione diversa), possa presumibilmente originare attivazioni
neuronali simili. Oggi, infatti, la scienza è in grado di identificare l’origine di alcune
percezioni elementari e comuni in ogni essere umano e, pertanto, di proporre una
spiegazione neurologica all’universalità dell’espressione e dell’interpretazione artistica,
vista come comunicazione di impressioni ed emozioni profonde che non possono essere
espresse attraverso il semplice lessico.
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Neuroni Specchio: Dal Movimento All’empatia All’esperienza
Estetica.
2.1 Descrizione Breve Storia e Accenni Neurobiologici
Negli anni '80 e '90, un gruppo di ricercatori dell'Università di Parma, composto
da Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallese, Giuseppe Di Pellegrino, e
coordinato da Giacomo Rizzolatti, stava analizzando il funzionamento neuronale della
corteccia premotoria nella scimmia. Gli scienziati avevano posizionato alcuni elettrodi
sulla corteccia frontale inferiore di alcuni macachi al fine di osservare i neuroni motori
specializzati nel controllo dei movimenti della mano, durante l’atto di raccogliere o
maneggiare oggetti. Nel corso di ogni esperimento, veniva registrato il comportamento
dei neuroni presenti nel cervello mentre gli animali accedevano a frammenti di cibo:
l’obbiettivo era quello di misurare la risposta neuronale a specifici movimenti. Come
molte altre notevoli scoperte scientifiche, anche quella dei neuroni specchio fu dovuta al
caso. Pare, infatti, che uno sperimentatore del gruppo colse una banana da un cesto di
frutta quando, improvvisamente, alcuni neuroni di una scimmia, che osservava la scena,
si attivarono. Fino ad allora si era pensato che quei neuroni reagissero soltanto per
funzioni motorie, ma la scimmia non si era mossa, aveva solo osservato la scena! In un
primo momento, gli sperimentatori pensarono si trattasse di un guasto nella
strumentazione ma le rilevazioni dimostrarono il corretto funzionamento delle
apparecchiature e l’esattezza delle misurazioni. Pertanto, le attivazioni neuronali si
manifestarono nuovamente non appena fu ripetuta l'azione di afferrare da parte
dell’animale. I neuroni si attivavano sia quando la scimmia eseguiva un atto motorio
finalizzato, come prendere oggetti con la mano o con la bocca, sia quando osservava un
altro individuo eseguire atti motori analoghi.
Gli esperimenti continuarono: i ricercatori dimostrarono, confermarono e pubblicarono
la scoperta di una classe di neuroni, che definirono “specchio”, localizzati in entrambe
la regioni parietali e frontali inferiori del cervello.
I neuroni specchio esemplificano un meccanismo neuronale che mette in relazione le
azioni eseguite da altri con il repertorio motorio dell’osservatore. L’osservazione di
un’azione induce nell’osservatore l’automatica simulazione di quell’azione. Questo
meccanismo consente una forma implicita e diretta di comprensione delle azioni altrui. I
neuroni specchio sono in grado di mediare la comprensione dello scopo di un’azione
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anche quando essa non è completamente visibile e, quindi, il suo scopo finale può solo
essere immaginato, oppure quando l’unico elemento disponibile alla scimmia è il suono
prodotto dall’azione.
Nella vita quotidiana dei primati, gli atti motori sono, solitamente, parte di sequenze
motorie più complesse, volte a uno scopo finale. Spesso, lo stesso atto motorio
appartiene ad azioni differenziate. Per esempio, si può prendere una mela per mangiarla
o per riporla in un cesto. È stata descritta una classe di neuroni specchio, presenti sia
nella corteccia premotoria, sia in quella parietale posteriore, che si attiva selettivamente
durante l’esecuzione (oppure l’osservazione) di uno stesso atto motorio solo ed
esclusivamente in relazione al tipo movimento che segue (per esempio, primo atto
motorio: afferrare un oggetto, secondo atto motorio: portarlo alla bocca o, diversamente,
porlo in un contenitore). Ciò significa che la risposta del neurone specchio predice ciò
che sarà fatto in seguito dall’agente, suggerendo che i neuroni specchio possano giocare
un ruolo importante non solo nella comprensione degli atti motori, ma anche nel
riconoscimento dell’intenzione motoria dell’agente stesso.
Numerosi studi, condotti utilizzando diverse metodiche sperimentali, hanno dimostrato
che anche il cervello umano è dotato di un meccanismo di rispecchiamento che mappa
le azioni osservate sugli stessi circuiti nervosi che ne controllano l’esecuzione.
Nel 1995, Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Giovanni Pavesi e Giacomo Rizzolatti
dimostrarono, per la prima volta, l'esistenza nell'uomo di un sistema simile a quello
scoperto
nella scimmia.
Utilizzando
la
stimolazione
magnetica
transcranica
osservarono, infatti, che la corteccia motoria dell'uomo viene facilitata dall'osservazione
di azioni e movimenti altrui. Più recentemente, ulteriori sperimentazioni, ottenute
tramite fMRI, TMS, EEG e test comportamentali, hanno confermato che nel cervello
umano esistono sistemi simili e molto sviluppati. Sono state identificate con precisione
le regioni che rispondono all'azione/osservazione. Vista l’analogia genetica esistente fra
tutti i primati, non è affatto sorprendente che queste regioni cerebrali siano
strutturalmente simili tra scimmia e homo sapiens.
La localizzazione anatomica del meccanismo neurale di rispecchiamento delle azioni
nell’uomo è stata ottenuta con la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI),
che permette di rilevare la distribuzione differenziale del flusso sanguigno cerebrale. Le
aree cerebrali coinvolte in uno specifico compito hanno un metabolismo maggiore e
richiamano una maggiore quantità di sangue. Studi iniziali hanno mostrato che, durante
l’esecuzione e l’osservazione di determinati movimenti, si ha un’attivazione delle aree
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premotorie 6, 44 e 45 di Brodmann, del lobulo parietale inferiore, e della regione del
solco temporale superiore. Questo circuito corticale corrisponde approssimativamente a
quello dei neuroni specchio nella scimmia. Successive ricerche hanno dimostrato che il
meccanismo di rispecchiamento appare implicato nell’esecuzione e nell’osservazione di
una grande varietà di comportamenti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo,
come mordere una mela, afferrare una tazza, o calciare un pallone, di movimenti
corporei come danzare, di atti comunicativi, ed anche, nell’imitazione degli stessi
comportamenti o nell’apprendimento imitativo di nuove sequenze motorie. Ogni volta
che osserviamo le azioni altrui il nostro sistema motorio “risuona” con quello
dell’agente osservato.
Le aree premotorie del cervello umano, dove risiedono le proprietà caratteristiche dei
neuroni specchio, sono coinvolte anche nella comprensione del «perché» dell’azione,
cioè dell’intenzione motoria che l’ha promossa, verosimilmente, utilizzando un
meccanismo neurofisiologico non dissimile da quello scoperto nei neuroni specchio
parietali e premotori della scimmia (Rizzolatti, Sinigaglia 2006).
Buccino (2001) scoprì che il sistema specchio nell’uomo è organizzato in modo
somatotopico: l’osservazione di azioni eseguite da altri con la mano, la bocca e il piede
attiva regioni distinte del sistema motorio frontoparietale. Le proprietà dei neuroni
specchio sono più complesse nell’uomo: gli stessi, a differenza che nella scimmia,
rispondono anche ad atti motori intransitivi, o solo mimati, e sono in grado di
selezionare sia una specifica azione, sia la sequenza di atti che la compongono. Il livello
di astrazione è ciò che distingue l’uomo dal macaco, tanto è vero che le ricerche
condotte nell’ultimo decennio dimostrano che il meccanismo di rispecchiamento
sconfina dal dominio delle azioni a quello delle emozioni e sensazioni. Regioni
cerebrali come l’insula, l’amigdala e la corteccia cingolata anteriore vengono
similmente attivate sia durante l’esperienza, in prima persona, di emozioni come la
paura e il disgusto, o di sensazioni, come il dolore, sia durante la loro osservazione negli
altri. Secondo la stessa logica, le aree corticali attivate dall’esperienza tattile diretta, si
attivano anche quando assistiamo alle esperienze tattili altrui.
Buccino sostiene che la risposta dei neuroni specchio dipende, inoltre, dall’appartenenza
dell’azione osservata al repertorio di quelle conosciute. In un esperimento del 2004
(Buccino) furono presentati ad un soggetto umano alcuni filmati privi di sonoro in cui
un uomo, una scimmia e un cane compivano l’atto di mordere per mangiare o
eseguivano un atto comunicativo (rispettivamente parlare per l’uomo, schioccare le
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labbra per la scimmia e abbaiare per il cane). L’atto di mangiare implicava in tutte e tre
le specie l’attivazione delle medesime aree corticali frontoparietali nell’osservatore
(umano), evocando l’analoga rappresentazione motoria codificata nel loro circuito
neurale. Relativamente al movimento, altresì, si registrava una forte risposta della parte
premotoria nella regione di Broca alla vista dell’uomo che parlava, una reazione più
debole della stessa allo schioccare delle labbra della scimmia e nessuna reazione
all’abbaiare del cane. Questo dimostra che solo le azioni comunicative già codificate nel
comportamento umano (parlare e schioccare le labbra) attivano regioni cerebrali
corrispondenti. In altre parole, l’atto di ingerire e mordere vengono compresi attraverso
una modalità preconcettuale basata sulla “conoscenza motoria” e codificata nelle aree
motorie del cervello umano deputate a questo tipo di azione. Altresì, l’atto di abbaiare
viene compreso attraverso una categorizzazione cognitiva dell’informazione visiva ma
non attraverso i neuroni specchio.
Numerosi studi empirici di fMRI confermano che le stesse strutture nervose che
presiedono all’organizzazione delle azioni intervengono nella comprensione semantica
delle espressioni linguistiche che le descrivono. Tale comprensione si fonda su
meccanismi legati al corpo (Lakoff & Johnson 1980, Lakoff 1987, Gallese e Lakoff
2005).
Sempre Buccino (2005) sostiene, sulla base di esperimenti neurologici, che la
costruzione lessicale di frasi relative ad azioni eseguite con la mano, o il piede, attiva in
modo specifico diverse regioni della corteccia motoria che controllano i movimenti
degli stessi effettori. La lettura silenziosa o l’ascolto di parole o frasi che descrivono
azioni della bocca, della mano o del piede hanno effetti analoghi (Hauk, Johnrude &
Pulvermuller, 2004; Tettamanti 2005).
Ormai numerosi studi attestano il ruolo dei neuroni specchio nel riconoscimento delle
emozioni, nelle quali l’associazione tra percezione e azione regola le strategie di
adattamento agli eventi ambientali.
Secondo uno studio di Carr del 2003, il medesimo circuito neurale (corteccia premotoria
ventrale, amigdala e insula) viene attivato sia nell’osservazione, sia nell’imitazione
dell’espressione facciale delle emozioni di base (paura, rabbia, felicità, disgusto,
sorpresa, tristezza). Percezione e produzione attiva delle manifestazioni espressive
avrebbero quindi una base comune. Il ruolo più importante pare svolto dall’insula (più
grande nell’uomo che nella scimmia), che connette nei primati il sistema limbico ai
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neuroni specchio, ed è un centro di integrazione visceromotoria, ossia, trasforma gli
input sensoriali in reazioni viscerali.
La comprensione delle emozioni altrui veicolata dal sistema specchio è diretta ed
esperienziale, fondata sul formato neurale condiviso, il quale è collegato alla sensazione
del medesimo stato corporeo.
Le ricerche di Damasio nel 1994 e 1999, evidenziarono i correlati neurali tra emozioni e
stati corporei associati.
Nel sistema dei neuroni specchio è ora possibile indentificare il substrato biologico
dell’empatia, ovvero, la possibilità di provare interiormente le emozioni altrui. Questo
non significa che i neuroni specchio spieghino i meccanismi di partecipazione affettiva,
ma la loro attivazione dimostra, per la sfera emozionale, un’immediata e primaria
compartecipazione empatica visceromotoria che poi potrà coinvolgere o meno il livello
cognitivo e cosciente: questo dipenderà dalla tipologia di relazione con il soggetto per
cui si attivano. A tal proposito, Rizzolatti e Sinigaglia (2006) affermano che si tratta di
due processi ben distinti, sebbene il primo (attivazione empatica attraverso neuroni
specchio) preceda sempre il secondo e non possa accadere il contrario.
Goldman (2004) parla di “risonanza non mediata”. Gallese (2006) definisce questa
attivazione come “riflesso condizionato”, come “riproduzione automatica” dello stato
dell’altro, come una simulazione non volontaria, altresì detta “simulazione incarnata”,
ovvero un’esperienza che precede la mediazione cognitivo linguistica e che si stanzia
nelle strutture viscero motorie dell’essere umano.
Questo meccanismo pare essere il fondamento neurobiologico del “nostro” essere
sociali. In altri termini, ci rende capaci di entrare in consonanza con gli altri ed
“empatizzare” con loro. Sembrerebbe pertanto la condizione sine qua non per lo
sviluppo dell’intersoggettività, cioè il sistema in cui le identità individuali si delineano,
a partire da uno spazio interpersonale comune.
La popolarità dei neuroni specchio è dovuta proprio al fatto che spiegano le origini
neurobiologiche dell’empatia, ossia, la capacità di identificarci nelle situazioni e nelle
emozioni altrui, quel sentimento che tutti abbiamo provato piangendo di fronte ad un
film drammatico oppure gioendo per una bella notizia raccontata da un amico.
Rizzolatti afferma, quindi, che siamo geneticamente “costruiti” per provare amore verso
il prossimo, sebbene la vita e la società, modifichino, poi, questa attitudine innata.
Meccanismi fisiologici dell’empatia sono stati ipotizzati nel passato ma nessuno era mai
riuscito a dimostrarli. Solo grazie al sistema specchio riusciamo, per esempio, a
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codificare le espressioni facciali. I visi sono molto diversi tra loro e, di conseguenza, lo
sono anche le manifestazioni di gioia, dolore, preoccupazione. Eppure, spesso anche di
fronte a una semplice fotografia, riusciamo, senza troppa difficoltà, a ricondurre le
smorfie facciali a emozioni che ci appartengono.
Riconoscere le espressioni degli altri e “immedesimarsi” in loro, tuttavia, non è l’unico
aspetto interessante dei neuroni specchio. Essi permettono anche di capire
l’intenzionalità di un’azione. «Se per esempio in treno una ragazza passa il giornale al
suo fidanzato, un osservatore esterno è in grado di capire l’armonia della coppia a
partire da quel semplice gesto», spiega Rizzolatti. «Se, infatti, i due sono reduci da un
dissapore, il quotidiano sarà passato in modo più brusco, mentre, se non ci sono
tensioni, il movimento sarà più morbido». Si tratta di un’abilità che molti di noi
ritengono scontata e attuano senza metterci pensiero, ma, che, in realtà, è molto
complessa dal punto di vista neurobiologico.
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2.2 Infant Research e Simulazione Incarnata
Il neonato nasce come essere sociale e come tale cresce e si sviluppa: i meccanismi
neuronali alla base del suo sviluppo sarebbero pertanto guidati dall’area visceromotoria
e dai neuroni che in essa si trovano. La base biologica della socialità e dell’empatia, non
di meno, parrebbe trovarsi proprio nelle aree del cervello sopra descritte.
All’inizio della vita, le relazioni interpersonali sono prontamente istituite all’interno di
uno «spazio noi-centrico» primitivo condiviso.
I neonati condividono questo spazio con i loro caregivers. Lo spazio fisico occupato dal
corpo del caregiver, la madre, in primo luogo, è “agganciato” al corpo del bambino per
formare uno spazio condiviso. Questo spazio noi-centrico diventa più ricco e sfaccettato
nel corso dello sviluppo, in relazione al più ampio spettro e significato dei rapporti
interpersonali.
Fin dalla nascita gli esseri umani sono impegnati in relazioni interpersonali mimetiche
(Meltzoff e Moore 1977). Come Meltzoff ha scritto di recente, il fondamento su cui si
basa la psicologia del senso comune è la percezione che gli altri sono simili a sé. I
neonati instaurano i loro rapporti interpersonali con la percezione di base: “Qui c’è
qualcuno simile a me”. I neonati sono congenitamente pronti a collegarsi a chi li
accudisce attraverso l’imitazione di gesti buccali, come la protrusione della lingua o
l’apertura della bocca. Inoltre, molto precocemente essi mostrano nel loro
comportamento sequenze d’interazione sociale, sollecitando attivamente l’attenzione di
chi li accudisce e impegnandosi in attività corporee che mostrano la struttura proto
conversazionale di alternanza di ruolo, caratterizzata da una struttura molto simile alle
conversazioni degli adulti. Questi risultati suggeriscono che l’oggetto principale delle
relazioni interindividuali dei bambini è il comportamento affettivo dell’Altro.
Come rilevato da Beebe (2005), la psicologia dell’età evolutiva ha dimostrato che la
mente nasce come una mente condivisa. Le neuroscienze, con la scoperta dei neuroni
specchio, hanno fornito il livello di descrizione subpersonale a questa dimensione
relazionale della condizione umana.
I meccanismi nervosi alla base della facoltà di comprendere il comportamento altrui
erano fino a non molti anni fa poco conosciuti. La scoperta dei neuroni specchio nella
scimmia, e la successiva dimostrazione dell’esistenza di meccanismi di rispecchiamento
nel cervello umano, hanno evidenziato, per la prima volta, un meccanismo
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neurofisiologico capace di spiegare molti aspetti delle nostre capacità di relazionarci
con gli altri.
Le neuroscienze dimostrano, sempre più evidentemente, come l’intelligenza sociale
della nostra specie non sia solo “meta – cognizione” sociale, cioè capacità di pensare i
contenuti della mente altrui attraverso rappresentazioni preposizionali, ma sia,
soprattutto, il frutto di un accesso diretto al mondo dell’altro. Questo accesso è garantito
dal corpo vivo e dai meccanismi nervosi condivisi, di cui i neuroni specchio sono
sottendono il funzionamento.
La scoperta dei neuroni specchio non è la scoperta di un nuovo fenomeno clinico ma,
solo, dei possibili meccanismi neurali che possono far luce su fenomeni clinici già noti.
Naturalmente, nella storia della psicoanalisi, vi sono state varie intuizioni che hanno
anticipato la comprensione ora permessa da questa scoperta. I primi anticipatori di
questo processo di rispecchiamento sono Bion, Winnicott e Stern. Brevemente, Bion
(1962), col concetto di funzione alfa, formulò una teoria secondo cui la rêverie materna
permette il contenimento degli elementi di pensiero che possono essere trasformati e più
tardi utilizzati dal bambino per costruire il suo apparato psichico. Winnicott (1967)
parlò dell’importanza della “madre sufficientemente buona” che rispecchia il bambino,
il quale in questo modo può essere visto, riconosciuto e, quindi, ritrovarsi negli occhi
della madre. Nel concetto di Stern (1985) di attunement la madre risponde al bambino
non semplicemente imitandolo, ma trascendendolo, alludendo ad aspetti di sentimenti
sottostanti condivisi, introducendo “variazioni sul tema” e aggiungendo nuovi stimoli
transmodali.
Già Freud (1919), avulso di tutte le teorie sviluppatesi dagli anni ‘50 sul rapporto
neonato-caregiver, tentò di costruire una teoria completa secondo cui la mente si
differenzia in parti che si osservano l’un l’altra: nell’Io gradualmente si sviluppa una
struttura capace di opporsi al resto dell’Io, una struttura che ha lo scopo della auto
osservazione. Questa struttura auto osservantesi, che poi diventerà il Super Io, è il
risultato di una precedente internalizzazione, quella del caregiver, che, gradualmente,
svolgerà una funzione guida autonoma all’interno della mente. Ricordiamo anche la
“fase dello specchio” di Lacan (1936), durante la quale il bambino di 8-10 mesi
acquisisce la immagine totale del Sé. In tempi più recenti, Kohut, coi concetti di
“transfert speculare” e “internalizzazione trasmutante”, evidenzia l’importanza dell’
“oggetto Sé” nella costruzione del Sé, grazie all’empatia dell’analista. Tutte queste
concettualizzazioni, molto diverse l’una dall’altra e provenienti da diversi orientamenti
13
teorici, sottolineano l’importanza dell’oggetto (esterno, o, internamente rappresentato),
nel rispecchiare il Sé, come una modalità fondamentale di ristrutturare il mondo interno.
Il corpo del bambino, a cui lui non ha accesso visivo, simula quindi correttamente
quello dell’adulto ma non come un arco riflesso, poiché le informazioni visive vengono
trasformate in informazioni motorie attraverso un meccanismo che è stato chiamato
“mappatura intermodale attiva” (active intermodal mapping [AIM]: Meltzoff & Moore,
1997), il quale definisce uno “spazio reale supramodale” (“supramodal actual space”:
Meltzoff, 2002) non legato ad un singola modalità di interazione, sia essa visiva,
uditiva, o motoria. Ovviamente, i bambini molto piccoli non sono in grado di simulare
tramite inferenze per cui si suppone l’esistenza di una simulazione incarnata automatica
fin dalla nascita. Questo processo intersoggettivo, che continua e si espande nel corso di
tutta la vita, potrebbe essere alla base del rispecchiamento materno di cui parla
Winnicott (1967) e anche del concetto di “sintonizzazione affettiva” di cui parla Stern
(1985). La Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty (1945) afferma che la
comunicazione o la comprensione dei gesti avvengono attraverso la reciprocità delle
proprie intenzioni e dei gesti degli altri. Secondo questi autori, il corpo, nella misura in
cui dispone di “pattern comportamentali”, usa le proprie parti come un sistema generale
di simboli del mondo, così che quel mondo diventa comprensibile all’individuo stesso.
Si tratta del meccanismo che innesca il processo di simulazione: volontario ed
introspettivo, secondo la teoria “standard”, altresì automatico e preriflessivo, secondo la
teoria della simulazione incarnata. Le due teorie sono diverse e complementari, in
quanto riguardano livelli e contenuti mentali di differente complessità e sofisticazione.
Neonati di appena 12 mesi sono capaci di anticipare lo scopo di azioni compiute da altri
solo se loro stessi sono già capaci di compiere quelle stesse azioni (Sommerville &
Woodward, 2005; Falck-Ytter, Gredeback & von Hofsten, 2006): questo dimostra che
certe abilità cognitive dipendono dallo sviluppo delle abilità motorie e non viceversa. Vi
sono esperimenti recenti che mostrano come neonati di soli 15 mesi riconoscano le false
credenze (Onishi & Baillargeon 2005), per cui si presuppone esistano meccanismi di
basso livello che si sviluppano pienamente prima della competenza linguistica. Per
riassumere, mentre assistiamo al comportamento intenzionale degli altri, esperiamo uno
specifico stato fenomenico di “consonanza intenzionale”, che genera una qualità
particolare di familiarità con gli altri individui. Ciò costituisce un’importante
componente dell’empatia. Chiaramente, l’identità sé altri non esaurisce tutto ciò che
significa l’empatia. L’empatia, a differenza del contagio emotivo, comporta la capacità
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di esperire ciò che gli altri provano ed essere, nel contempo, capaci di attribuire queste
esperienze agli altri e non a sé stessi. La qualità ed il contenuto della nostra esperienza
viva del mondo degli altri implica la consapevolezza della loro esistenza nonché della
loro alterità. Questa alterità è, d’altra parte, evidente anche a livello subpersonale,
essendo sostanziata dai diversi circuiti nervosi che entrano in gioco e/o dal loro diverso
grado di attivazione quando siamo noi ad agire o ad esperire emozioni e sensazioni
rispetto a quando sono gli altri a farlo. La simulazione incarnata, insomma, costituisce
un meccanismo cruciale nell’intersoggettività. I diversi sistemi di neuroni specchio ne
rappresentano i correlati subpersonali. Grazie alla simulazione incarnata non assistiamo
solo a una azione, emozione o sensazione, ma parallelamente nell’osservatore vengono
generate delle rappresentazioni interne degli stati corporei associati a quelle stesse
azioni, emozioni e sensazioni, “come se” stesse compiendo un’azione simile o provando
una simile emozione o sensazione. Ogni relazione intenzionale può essere vista come
una relazione tra un soggetto e un oggetto. I sistemi di neuroni specchio stabiliscono
una corrispondenza tra le diverse relazioni intenzionali in modo neutro rispetto alla
specifica qualità o identità del parametro dell’agente/soggetto. Attraverso uno stato
funzionale condiviso da due corpi diversi che tuttavia ubbidiscono alle stesse regole
funzionali, “l’altro oggettuale” diventa in una certa misura “un altro sé stesso”. La
simulazione incarnata non è l’unico meccanismo funzionale alla base dell’intelligenza
sociale, ma funziona in parallelo con la “simulazione standard”. Il significato degli
stimoli sociali può cioè essere decodificato anche tramite l’elaborazione cognitiva
esplicita delle loro caratteristiche percettive contestuali, sfruttando conoscenze già
acquisite. La nostra capacità di attribuire false credenze agli altri e le nostre più
sofisticate abilità metacognitive probabilmente comportano l’attivazione di vaste regioni
del nostro cervello, che includono il sistema sensomotorio.
Un obiettivo di ricerca futuro sarà determinare come la simulazione incarnata, che è
basata sull’esperienza ed è probabilmente il meccanismo più antico da un punto di vista
evolutivo, possa essere il fondamento di forme più sofisticate e linguisticamente
mediate della nostra capacità di interpretare il comportamento altrui in termini di stati
mentali. Una possibilità è che i meccanismi di simulazione incarnata siano cruciali nel
corso del lungo processo di apprendimento richiesto per divenire completamente
competenti nell’uso degli atteggiamenti proposizionali. La narrazione di storie, cui
siamo esposti fin dalla prima infanzia, gioca verosimilmente un ruolo importante in
15
questo processo di acquisizione. Peraltro, la simulazione incarnata è certamente in atto
durante i processi di elaborazione del linguaggio.
2.3 Arte Esperienza Estetica e Neuroscienze
Abbiamo visto come i meccanismi innescati dai neuroni specchio costituiscano una base
neurale (Gallese 2006) e come la nostra capacità di comprendere le emozioni altrui
dipenda primordialmente non da una Teoria della Mente (fondata sui principi cognitivi
che si sviluppano nel corso della vita e dell’esperienza personale di ognuno), bensì
dall’attivazione dei centri nervosi, da cui origina la simulazione incarnata. Se questi
meccanismi sono in grado di spiegare l’intersoggettività e lo sviluppo di uno spazio
condiviso, in cui possiamo comprendere, visceralmente ed empaticamente, le intenzioni
e le emozioni altrui, il passo verso una primitiva comprensione dell’esperienza estetica
diviene logico. L’arte è principalmente emozione e, se l’emozione ha una base neurale,
possiamo ragionevolmente evincere che i neuroni specchio si attivino anche durante la
produzione e/o osservazione di un’opera d’arte.
Ad un certo punto della sua evoluzione, la specie uomo comincia a rapportarsi con il
mondo esterno attraverso la dimensione artistica. L’oggetto materiale perde l’esclusiva
connotazione di strumento da piegare per un utilizzo pratico (ricerca del cibo, necessità
di procreare per continuare la specie, etc) per assumere una natura simbolica, capace di
evocare la presenza di qualcosa che, apparentemente, non è presente, se non nella mente
dell’artista, ed in quella di chi guarda la sua opera. Questa “sintonizzazione mentale”,
tra creatore e fruitore, ha radici profonde nell’esperienza condivisa che tutti facciamo
del mondo, grazie anche ai meccanismi neurali sopra citati.
L’arte riassume questa esperienza, universalizzandola e, al tempo stesso, affermando un
nuovo modo possibile di mettere in scena la realtà.
L’oggetto artistico non è mai oggetto in sé stesso ma polo di una relazione
intersoggettiva e sociale: emoziona in quanto evoca risonanze di natura sensoriale,
motoria ed affettiva in colui che con esso si relaziona.
L’approccio scientifico che indaga la creazione artistica è definito “neuroestetica” ed è
stato coniato dal neuroscienziato Semir Zeki, professore di Neurobiologia allo
University College di Londra. Zeki ha utilizzato la sua conoscenza erudita delle arti
classiche, sia figurative, sia filosofico letterarie, come oggetto dei suoi studi, dei suoi
esperimenti e delle sue innovative scoperte relative alla corteccia visiva. Secondo Zeki,
16
poiché l’estetica presuppone una conoscenza complessa della visione (che si spiega solo
attraverso la neurobiologia), l’analisi dei meccanismi che connotano la personale e
soggettiva “esperienza estetica” deve avere una base scientifica. Zeki ripropone in
chiave biologica ciò che infinite schiere di filosofi e psicologi hanno confinato, per
mancanza di dati scientifici, alla pura deduzione dei meccanismi che si scatenano
nell’animo umano di fronte a una ballerina che danza oppure di fronte a un Van Gogh
che evoca sensazioni potenti in chi lo osserva.
Nel passato si pensava che l’occhio fosse semplicemente un canale attraverso cui i
segnali visivi si imprimevano sulla retina. La scienza ha, invece, dimostrato che il
cervello opera una scelta tra tutti i dati visivi disponibili e, confrontando l’informazione
selezionata con i ricordi immagazzinati, genera l’immagine visiva con un procedimento
molto simile a quello messo in atto da un artista quando dipinge un quadro.
La visione dell’opera d’arte, altresì, è un processo neurologico complesso. Molti
esperimenti, su soggetti sani e cerebrolesi, dimostrano come l’atto del vedere sia
costruttivo e possa essere scomposto in una serie di stadi (il riconoscimento del colore,
della forma e delle relazioni cromatiche tra due aree prossime ma distinte e così via), la
realizzazione dei quali è affidata a determinate strutture anatomiche, identificabili nel
cervello e distinguibili fra loro. Zeki propone una curiosa correlazione tra alcune forme
d’arte e la funzione conoscitiva di ciascuno degli stadi di cui si compone la visione
come se, inconsapevolmente, alcuni artisti selezionassero precisi meccanismi neuronali
della visione per sfruttarli, isolarli ed esaltarli, in modo che l’opera finita susciti e
proietti nel fruitore finale l’esatto impatto emotivo che l’autore prova durante la sua
realizzazione e, ancora prima, durante la sua ideazione. Zeki afferma che Monet
sembrava quasi consapevole dei meccanismi che regolano la costanza del colore, ovvero
il fatto che un oggetto ci appaia sempre dello stesso colore quando, invece, se viene
sottoposto a luci differenti, non lo è. Con la celebre serie dedicata alla cattedrale di
Rouen, Monet pare anticipare (o sottrarre, con un’ulteriore operazione cognitiva)
l’omogeneizzazione cromatica, restituendo il “vero” colore della cattedrale nei diversi
momenti del giorno e nelle diverse condizioni atmosferiche.
Altri artisti, altresì, paiono meno consapevoli di aspetti quali la visione del movimento e
della forma, pur tuttavia, suscitando, attraverso le loro opere, sensazioni visive che
rispecchiano la loro “realtà visiva”. Il pittore francese Matisse, descrivendo i propri
obiettivi, diceva: “Dopo aver osservato un paesaggio, dipingo con l’immaginazione, lo
riproduco in forma semplificata”. L’immaginazione permette di semplificare la realtà.
17
Durante la percezione del mondo, il nostro cervello è continuamente ostacolato da
dettagli irrilevanti e distraenti: deve quindi estrarre le informazioni essenziali e costanti,
a partire da una massa di dati in continuo cambiamento. Lo scopo dell’arte è svelare
l’essenza delle cose. “L’arte non rappresenta quello che vediamo, se mai rende le cose
visibili”, diceva l’artista tedesco Paul Klee. Il Caravaggio, per esempio, riusciva a
imprimere alla rappresentazione della realtà una forma eterna. E Raffaello Sanzio, nel
dipingere una bella donna, la componeva come un puzzle di lineamenti sottili osservati
su diverse modelle diverse. Pertanto, secondo Zeki, l’artista è un neurologo
inconsapevole e l’arte stessa, può essere descritta scientificamente secondo meccanismi
biologici simili a quelli che regolano la visione. In altre parole, se la visione si
scompone in un processo di selezione e individuazione di costanti, finalizzato alla
conoscenza del mondo esterno, in tal modo, a livello neuronale, può essere descritta
l’arte.
Le domande da cui l’analisi si dipana sono: che cosa accade nel cervello dell’artista
quando si esprime creativamente? Che cosa accade nel nostro cervello quando
osserviamo un’opera d’arte?
Ma, soprattutto, è possibile dimostrare neurologicamente l’esistenza di un’area del
cervello deputata alla creatività? Si può dimostrare l’attivazione dei neuroni specchio
nell’esperienza estetica? La creatività è capacità di astrazione ed immaginazione ed è
biologicamente attivata dai neuroni che si trovano nell’emisfero destro del cervello. La
sensazione che si prova “vedendo” deriva dal greco sinestesia (syn = unione + aisthesis
= sensazione) e significa “percepire insieme”. La sinestesia è anche un fenomeno
percettivo reale che si manifesta come percezione sovrapposta, e non controllata, dei
sensi. Può essere appannaggio di individui con elevate capacità mentali o essere indotta
artificialmente dall’assunzione di droghe (il famoso fungo peyote messicano). Si ritiene
che i neonati siano inizialmente sinestetici e, solo con lo sviluppo neurobiologico, le
loro aree mentali si specializzino in zone sensoriali diverse (gusto, olfatto, tatto, etc).
Una forma nota di sinestesia è quella fra colori e suoni: Mozart e Kandinsky, per
esempio, percepivano in modo sincronico colori e suoni, faticando a scindere le due
sensazioni (vista e udito): si presume che la loro creatività artistica sia stata favorita da
questa particolarità sensoriale.
Zeki sostiene che, se l’arte genera un senso di profondo appagamento in molte persone,
questo significa che l’artista ha afferrato e “colpito” qualcosa di geneticamente scritto
nel DNA umano, ovvero, qualcosa che riguarda tutti i soggetti sani.
18
La scoperta dei neuroni specchio, affermano Gallese e Freedberg, spiega
neurologicamente la frequente sensazione fisica che induce a reagire all’opera d’arte
con un’apparente imitazione delle azioni in essa rappresentate (per esempio,
l’accasciarsi di fronte ad una figura piegata dal dolore) o, addirittura, con un’imitazione
delle azioni che, certamente, ha compiuto l’artista nel crearla (per esempio, pennellate
più o meno delicate o irruenti in un dipinto ad olio). I neuroni specchio offrono la
possibilità di comprendere la relazione tra la reazione alla percezione del movimento in
opere pittoriche, scultorie, architettoniche e le emozioni che tali opere suscitano. Il
sistema specchio, che si mobilita osservando un’azione, in particolare quando viene
orientata verso un obbiettivo, attiva le stesse aree neuronali coinvolte nell’esecuzione
della stessa azione: questo semplice meccanismo di causa effetto, secondo Freedberg e
Gallese, è in grado di spiegare il frequente coinvolgimento empatico con i movimenti
rappresentati nelle opere d’arte.
I neuroni specchio si sono dimostrati reattivi anche durante le azioni implicite persino
qualora la loro fase finale non fosse visibile: essi consentono, pertanto, di comprendere
le azioni altrui per mezzo della simulazione incarnata, attivando la rappresentazione
motoria dell’azione in questione persino se la conclusione della stessa è solo accennata.
La ricerca ha dimostrato inoltre che persino la visione di immagini statiche stimola
l’atto di simulazione nel cervello dell’osservatore: guardare la foto di una mano che
cerca di afferrare un oggetto attiva nel cervello la rappresentazione dell’azione
raffigurata. Calvo e Merino hanno dimostrato che la stimolazione magnetica
transcranica ripetitiva sulla corteccia premotoria ventrale, (ma non dell’area visiva
extrastriata, che risponde alla visione del corpi), disturba la capacità di percepire figure
immobili di corpi danzanti come entità visive complete, suggerendo, quindi, come
l’attività dei neuroni specchio sia coinvolta nell’elaborazione globale dei corpi.
Pertanto, appare logico che un analogo processo di simulazione motoria possa scaturire
dall’osservazione di immagini ferme di un’azione immortalata in un dipinto, per
esempio. Non sorprende che reazioni fisiche ad opere d’arte siano spesso localizzate
nella parte del corpo coinvolta in azioni fisiche intenzionali, tanto da sembrare che si
imitino i gesti e i movimenti dell’immagine osservata, persino nei casi in cui l’azione
pare il risultato di una reazione emotiva (esempio nella rappresentazione di scene di
lutto). Tornando al concetto di simulazione incarnata, gli esperimenti di imaging
encefalico negli esseri umani hanno dimostrato che l’osservazione di oggetti
manipolabili stimola l’attivazione della corteccia premotoria ventrale ovvero un’area del
19
cervello deputata al controllo dell’azione e non alla rappresentazione di oggetti. Le
particolari interazioni volontarie evocate dagli oggetti costituiscono una parte del loro
contenuto rappresentativo, pertanto, stimolano l’attivazione delle regioni del cervello
deputate al controllo dell’interazione con gli oggetti stessi.
Gli oggetti statici tridimensionali vengono identificati e rappresentati anche nella loro
possibile interazione con un osservatore, che è potenzialmente coinvolto anche
emotivamente. Questo meccanismo di simulazione motoria, se associato alla risonanza
emotiva che suscita (Lipps) è presumibilmente una componente cruciale dell’esperienza
estetica legata alla rappresentazione artistica degli oggetti. Pertanto, anche una “natura
morta” può essere “animata” dalla simulazione incarnata che evoca nel cervello
dell’osservatore. Il ruolo di questo meccanismo neuronale, nell’esperienza estetica
diventa oltremodo evidente se si considerano emozioni e sensazioni.
L’integrità del sistema sensomotorio è cruciale per il riconoscimento delle emozioni
manifestate dagli altri in quanto aiuta a ricostruire cosa proveremmo nel caso di una
particolare emozione, mediante la simulazione incarnata del relativo stato corporeo.
Antonio Damasio e collaboratori hanno dimostrato come le sensazioni emotive
(“feeling”, che può essere anche tradotto come “empatia”) siano connesse alle mappe
neuronali dello stato fisico corrispondente. Damasio ha ipotizzato, sulla base delle sue
ricerche, che quando si osservano immagini che provocano reazioni forti, come la
paura, il corpo viene aggirato e il cervello, in modo “simulato”, riproduce gli stati
somatici osservati o impliciti nel dipinto o nella scultura, come se il corpo fosse
presente.
La scoperta dei neuroni specchio e della collegata teoria della simulazione incarnata
sembra fornire la prova del loro ruolo in reazioni specificatamente estetiche. Nonostante
gli esperimenti non siano ancora così documentati, la ricerca sui neuroni specchio offre
diverse prove empiriche del fatto che la produzione di opere d’arte attivi, nel fruitore
dell’opera, il medesimo programma motorio applicato dall’artista.
Nel prossimo capitolo, riporterò l’analisi di alcune opere d’arte, effettuate dai
neuroscienziati che avvallano questa teoria.
20
3
Arti Figurative Simulazione Incarnata e Neuroni Specchio
Recentemente ho visitato una mostra di Claude Monet alla Galleria d’Arte Moderna di
Torino. La visione di siffatte mirabili opere ha fatto registrare nel mio animo cento e più
emozioni: dal timore reverenziale verso le forze della natura suscitato dal mare in
burrasca e dal cielo plumbeo di Le Barche. Regate ad Argentouil (1874) - FIGURA 1, le
cui pennellate danno la sensazione di una sferzata di maestrale alle vele, al calore e alla
malinconia suscitata da Argentouil (1875) - FIGURA 2 - ove le medesime barche sono
colorate e si rispecchiano nella tiepida acqua di un’estate di metà ottocento
all’agghiacciante terrore della morte e al senso di vuoto che suscita Camille sul letto di
morte (1879) - FIGURA 3 - con quei viola e quel velo che penetrano nell’animo
lasciando una profonda sensazione di angoscia. Tutte queste emozioni le ho provate
rimanendo inchiodata alle tele per carpire cosa non saprei descrivere ma, sicuramente,
qualcosa che Monet in quel momento (150 anni dopo) voleva comunicare proprio a me!
Questa è empatia e ritengo che, se in quei momenti avessi avuto elettrodi posizionati sul
mio capo, o, se fossi stata sottoposta a risonanza magnetica funzionale, molto
probabilmente, i neuroni specchio presenti nella mia corteccia prefrontale avrebbero
dato segno di attivazione.
3.1
Neuroni Specchio Ed Arti Visive (Pittura E Scultura)
Nella seconda metà del XIX secolo vari studiosi tedeschi, scrivendo sulle arti visive,
hanno spostato le loro opinioni sul coinvolgimento corporeo dello spettatore in risposta
a opere di pittura, scultura e architettura. L’importanza dell’empatia per l’estetica è stata
sottolineata per la prima volta dal filosofo tedesco Robert Vischer nel 1873, anno in cui
egli pubblicò un piccolo libro destinato ad esercitare un’influenza enorme sul dibattito
estetico nei decenni a venire: “Sul sentimento ottico della forma”. In quest’opera
Vischer distingue il mero processo del vedere da quello pragmaticamente attivo del
guardare.
Secondo Vischer la fruizione estetica delle immagini, in generale, e dell’opera d’arte, in
particolare, implica un coinvolgimento empatico che si configurerebbe in tutta una serie
di reazioni fisiche da parte dell’osservatore. Con il termine Einfuhlung (letteralmente
“sentire dentro”), Vischer designa le reazioni fisiche prodotte dall’osservazione dei
21
dipinti, notando come forme particolari suscitino particolari reazioni emotive, a seconda
della loro conformità al disegno e alla funzione dei muscoli corporei. Secondo Vischer,
è attraverso la proiezione inconsapevole dell’immagine del proprio corpo che chi
osserva riesce a stabilire una relazione estetica tra sé e l’immagine.
Elaborando le idee di Vischer, Wolfflin propose le sue opinioni sul modo in cui
l’osservazione di particolari forme architettoniche stimolava le reazioni fisiche degli
osservatori. Nello stesso periodo, Bernard Berenson delineava le sue teorie su come
l’osservazione del movimento rappresentato nelle opere d’arte rinascimentali
potenziasse la consapevolezza di analoghe potenzialità muscolari nel proprio corpo: il
suo concetto di “valori tattili” (le qualità che garantiscono all'opera d'arte quella che lo
storico d’arte definiva “esaltazione della vita”), inoltre, prefigurava aspetti delle attuali
scoperte sull’empatia.
Allo stesso modo, Thedore Lipps elaborava le sue concezioni sul nesso fra godimento
estetico, da una parte, e coinvolgimento fisico con lo spazio, dall’altra, nell’architettura
e in altre arti.
Tutti questi scrittori credevano che l’emozione del coinvolgimento fisico nelle opere
d’arte non soltanto provocasse un sentimento di imitazione del movimento visto o
implicito nell’opera d’arte ma potenziasse anche le reazioni emotive dello spettatore nei
suoi confronti. La logica della Einfuhlung, grazie a Lipps, venne trasferita al dominio
della psicologia delle relazioni interpersonali, esercitando una notevole influenza anche
su Freud. L’opera di Vischer esercitò anche grande influenza sullo scultore Adolf Von
Hildebrand e sullo storico dell’arte Aby Warburg. HIldebrand pubblicò, nel 1893, un
libro dal titolo “Il problema della forma nell’arte figurativa”, nel quale sostenne che la
percezione della spazialità dell’immagine fosse il risultato di un processo costruttivo
sensomotorio. In questo libro, Hildebrand afferma che la realtà dell’immagine artistica
risiede nella sua effettualità, concepita duplicemente sia come risultato delle cause che
l’hanno prodotta, sia come effetto che provoca in chi la osserva.
Secondo la stessa logica costruttivista, il valore di un’opera d’arte consisterebbe nella
capacità di stabilire un rapporto tra la progettualità intenzionale dell’artista e la
ricostruzione di tale progettualità da parte del fruitore dell’opera. In tal modo si
stabilisce una relazione diretta tra creazione e fruizione artistica. Conoscere l’immagine
equivale, secondo Hildebrand, a conoscere il processo che la realizza.
Antonio Damasio, il più famoso scrittore di neuroscienza, sostiene che le emozioni
abbiano una base fisica, enfatizzando i modi in cui le azioni fisiche precedono i
22
sentimenti e l’espressione delle emozioni. Nel descrivere il processo di integrazione tra
processi cognitivi e sensazioni fisiche, Damasio sviluppa il concetto da lui definitivo “il
circuito corporeo del come se”, sottolineando il sostrato neurologico che provoca nello
spettatore la simulazione somatica di ciò che osserva. Damasio sostiene che quando
osserviamo il comportamento fisico ed emotivo degli altri, il nostro cervello, in
particolare la corteccia somatosensoriale destra, si riorganizza in modo da assumere la
stessa conformazione che avrebbe assunto se fossimo stati realmente impegnati nelle
azioni osservate, o se avessimo provato quelle stesse emozioni che invece stiamo
osservando negli altri. Precisamente, Damasio suggerisce che la corteccia prefrontale
ventromediale, l’amigdala ed altre importanti regioni limbiche comunichino
direttamente alle cortecce somatosensoriali di organizzarsi come si sarebbero
organizzate nel caso il corpo avesse effettivamente assunto quello stato. Di
conseguenza, l’osservatore risponde alla vista di un’azione di una scena drammatica in
cui è coinvolto il corpo o, addirittura, ad una scena che implica un movimento corporeo,
attivando quelle parti della corteccia somatosensoriale e motoria che si sarebbero
attivate qualora fosse stato veramente coinvolto nella scena.
Un definizione biologica unanime di arte non si è ancora trovata, tuttavia, il recente
movimento neuroestetico (che origina da Semi Zeki) ha compiuto alcuni tentativi per
desumere regole di percezione generali che spieghino cosa sia e quali siano i piaceri
estetici che ne ricava l’osservatore. Questi tentativi sono basati sulla conoscenza
psicofisica e neurocognitiva della parte del cervello deputata alla visione ed hanno
contemplato l’analisi di alcune opere d’arte famose.
Gli studiosi che hanno esperito le suddette analisi sperimentali sono partiti dalla visione
delle immagini e dalle reazioni corporali che derivano visceralmente dalle medesime.
Nel 2007, Giacomo Rizzolatti, Emiliano Macaluso e Salvatore Giannella hanno
verificato empiricamente il meccanismo per cui, quando un’opera d’arte ci cattura
emotivamente, entriamo in uno stato di risonanza motoria, di empatia emotiva, che ci fa
in qualche modo vivere le espressioni (fisiche) ed emozionali rappresentate. Sono state
utilizzate, come esempio sperimentale, la bellezza delle sculture classiche nella loro
forma perfetta (ma il discorso potrebbe essere analogo di fronte alla bellezza di un
bimbo o di un fiore). Per catturare la sensazione che caratterizza l’esperienza estetica e
per capire come il cervello risponde a essa, i neuroscienziati hanno mostrato ad alcuni
volontari alcune immagini di sculture classiche (i Bronzi di Riace) – FIGURA 4 - e un
famosissimo dipinto rinascimentale (la Venere di Botticelli) – FIGURA 5 - e,
23
contestualmente, hanno registrato l’attività del loro cervello con la risonanza magnetica
funzionale. La scelta è ricaduta su immagini classiche e rinascimentali perché la loro
bellezza è legata ad alcuni parametri estetici, primo tra tutti la proporzione tra le varie
parti del corpo umano. Sono parametri che fanno riferimento alla bellezza ideale, che
non è corruttibile dal tempo o da sentimenti negativi. Questi parametri, se alterati,
rendono le stesse opere meno belle. In primo luogo, i ricercatori hanno, grazie
all’ausilio di un algoritmo ingegneristico, modificato le immagini dei Bronzi,
allungando o accorciando leggermente le loro equilibrate proporzioni.
Analoghe modifiche nelle proporzioni sono state apportare alla “Nascita di Venere” di
Botticelli: anche quest’opera insieme con le immagini “variate” della stessa, è stata
sottoposta alla sperimentazione di un gruppo di osservatori volontari. In entrambi i casi,
sono stati riscontrati simili risultati. Rizzolatti e la sua equipe, hanno, una volta di più,
dimostrato l’esistenza nel cervello umano di una perfetta sincronia tra azione ed
osservazione. La scoperta più importante è che le sculture e il dipinto originali attivano
il cervello molto più delle immagini modificate e, soprattutto, attivano le aree
emozionali dove risiedono i neuroni specchio. Rizzolatti ne evince che, sia gli scultori
greci, sia il Botticelli hanno avuto il merito di colpire e incendiare i centri emozionali,
arrivando indi a concludere che l’arte rende più forte l’empatia di chi la osserva
mettendo in moto processi imitativi tali per cui la bellezza genera altra bellezza.
Confrontando l’attività del cervello quando i volontari osservavano le immagini
originali, ossia proporzionate, con la medesima attività di fronte all’osservazione di
quelle modificate al computer, ovvero, quelle non proporzionate, sono state scoperte
quali aree del cervello “si accendono”, procurando una sensazione di piacere estetico.
Quando un’opera ci colpisce per la sua bellezza, si attivano diverse zone, alcune delle
quali hanno lo scopo di analizzare la struttura fisica dello stimolo (del corpo umano, nel
nostro caso specifico), altre, invece, sono sensibili al movimento (peculiare, se
pensiamo che queste aree deputate al movimento si attivano anche solo guardando
immagini statiche!).
24
Tuttavia, l’attivazione che ha colpito di più i ricercatori è stata quella dell’insula,
ovvero, l’area neurologicamente coinvolta durante l’osservazione degli stati emotivi
altrui, l’area deputata all’empatia.
Da un punto di vista anatomico, l’insula, detta così per via della sua particolare forma a
isola, è il ponte di collegamento che traduce le nostre espressioni corporee (elaborate dal
sistema motorio) in stati emotivi (elaborati dal sistema emozionale), e viceversa.
Quando quest’area si accende nel nostro cervello, i movimenti e le espressioni osservati
negli altri si legano alle nostre emozioni e noi facciamo esperienza in prima persona di
ciò che provano le altre persone.
La neuroscienziata Cinzia Di Dio, collaboratrice di Rizzolatti, afferma quanto
segue: “Tutti, quando osserviamo un’opera d’arte che ci piace, proviamo una sensazione
quasi viscerale che ci fa sospirare di ammirazione. Partendo da questa esperienza
condivisa, il nostro gruppo di lavoro studia il momento in cui, davanti a un’opera,
proviamo una sorta d’incanto. A quel livello di elaborazione non è la nostra mente
conscia, influenzata da fattori come la moda, la conoscenza, il valore comunemente
attribuito all’opera e spesso quantificato nel suo costo, ma è più quell’emozione
irrazionale, quell’esperienza profonda, in cui veniamo proiettati. L’esperienza estetica,
appunto. La scansione delle attivazioni medie dei cervelli, durante l’osservazione dei
Bronzi di Riace, nella risonanza magnetica funzionale, ha riscontrato quanto segue:
l’attivazione di aree prefrontali e motorie, l’attivazione delle aree occipitali del cervello
adibite all’analisi visiva degli stimoli ma anche, soprattutto, l’attivazione del circuito
parietoprefrontale, nel quale sono stati rilevati e studiati neuroni con proprietà
“specchio”: mentre i soggetti osservavano le immagini di sculture, il loro sistema
motorio “risuonava” con i corpi delle sculture stesse”.
Il gruppo di Parma, effettuando questi esperimenti, ha mostrato che l’insula si attiva
quando osserviamo dipinti o sculture di pregio. Questa scoperta permette di suggerire
che, quando ammiriamo un’opera che ha qualità intrinseche di bellezza, nel caso della
scultura classica, dettate dalla perfezione delle sue forme, possiamo esperire gli stati e le
espressioni trasmesse dalla stessa, entrando in quello stato di ammirazione che
chiamiamo esperienza estetica.
25
3.2
Freedberg e Gallese: Approccio Storico e Approccio Neuroscientifico
All’analisi Delle Opere D’arte
La focalizzazione dell’analisi sulla dialettica immagine reazione emotiva è l’argomento
del libro di David Freedberg1 intitolato “Il Potere delle immagini” (1989). Tale studio,
all’epoca della sua pubblicazione, fu molto criticato e non venne apprezzato dai
numerosi studiosi del settore; altresì, fu molto gradito agli artisti. Precedentemente, lo
studioso aveva lavorato molto sull’iconoclastia e sugli atti di aggressione contro le
immagini che si ripetono nella storia, secolo dopo secolo. Sostenne, allora, come alcune
reazioni alle immagini da parte degli spettatori fossero comuni a tutte le culture – senza
distinzione di latitudine geografica e culturale – e, sebbene alcuni atti di iconoclastia
fossero strettamente connessi a precisi momenti storici, (es. la rivoluzione francese, la
Russia stalinista, etc), per Freedberg, l’interesse principale era incentrato su quella
qualità intrinseca all’immagine capace di causare reazioni emotive.
Negli ultimi anni, in seguito all’iconoclastia della Russia post Stalinista e dei Buddha di
Bamiyan distrutti dai talebani, questa fondamentale relazione immagine reazione
emotiva è stata finalmente degnata dell’importanza che merita e, quindi, presa in
considerazione dagli altri studiosi.
Chiaramente, ogni essere umano reagisce diversamente alla medesima immagine, sulla
base del bagaglio culturale che possiede. Il “Potere delle immagini” di Freedberg è un
libro sui sintomi di queste reazioni e, pertanto, sostanzialmente antiformalista. Le
recenti scoperte neuroscientifiche ci permettono di considerare la relazione tra
composizione artistica e un certo tipo di reazione, tra il colore e un altro tipo di
reazione, e, di lavorare spesso a un livello più profondo dell’iconografia. Grazie alle
David Freedberg è professore di Storia dell’Arte e direttore dell'Accademia Italiana di Studi Avanzati in
America presso la Columbia University degli Stati Uniti d’America. Nell’ambiente accademico è
conosciuto per il suo approccio psicologico all’arte: il campo predominante dei suoi studi sono le
relazioni tra arte, storia, e neuroscienze cognitive, essendo da tempo impegnato nella ricerca e
sperimentazione delle relazioni tra visione, simulazione incarnata, movimento ed emozione. Collaborando
con diversi neuroscienziati italiani (tra cui Gallese), ha fondato Arte e Neuroscienze (poi Neuroscienze e
Filosofia) nel 2001. L'obiettivo del progetto, basato su argomenti rilevanti per la comprensione dell'arte,
della musica, la visione e l'emozione - è quello di non mescolare i campi, ma di incoraggiare il pensiero
critico sui paradigmi metodologici ed epistemologici sottostanti ciascun dominio. Il suo lavoro è
concentrato sull’empatia e sulle risposte motorie alla visione di opere d’arte senza rifuggire dagli elementi
biologici sottostanti. Freedberg ha sviluppato la sua ricerca sul rapporto tra movimento ed emozione
nell'arte per l'uso di nuovi paradigmi neuroscientifici nella comprensione della ricezione di immagini
visive.
26
nuove scoperte neurologiche, sappiamo che vi sono alcune zone del nostro cervello
responsabili di reazioni particolari; ciò significa che quelle che fino ad oggi erano
considerate
reazioni
emotive
culturalmente
determinate,
dipendono,
invece,
dall’attivazione di specifiche zone celebrali.
Le teorie storiche dell’espressione fisiognomica, per esempio quelle elaborate da
Charles Le Brun2 a partire dal 1688, suggerivano correlazioni tra particolari espressioni
facciali ed emozioni specifiche. Nonostante l’opera di Paul Ekman3 sulle correlazioni
tra emozione ed espressione fisiognomica, le tesi più antiche continuano ad essere
considerate prive di fondamento empirico. Eppure l’attuale ricerca neuro – scientifica ha
iniziato a rilevare le basi di queste correlazioni. Per esempio, le reazioni
elettromiografiche nei muscoli facciali degli osservatori concordano con quelle
coinvolte nelle espressioni facciali della persona osservata. L’integrità del sistema
sensomotorio è cruciale per il riconoscimento delle emozioni manifestate dagli altri,
perché aiuta a ricostruire cosa proveremmo nel caso di una particolare emozione,
mediante la simulazione del relativo stato corporeo. David Freedberg, insieme con
Gallese, il neuroscienziato cui si deve gran parte della sperimentazione sui neuroni
specchio, ipotizza che l’elemento cruciale nell’apprezzamento estetico consista
nell’attivazione dei meccanismi incarnati in grado di simulare azioni, emozioni e
sensazioni corporee e che questi meccanismi siano universali.
Questo tipo di reazione elementare serve per capire l’efficacia che le immagini hanno
sugli osservatori sia nella vita quotidiana, sia nella dimensione artistica.
La scoperta dei neuroni specchio e della simulazione incarnata non è stata ancora
esaminata in tutte le sue implicazioni, soprattutto, in relazione alle reazioni empatiche
alle immagini ed alle opere di arte, quella visiva, in particolare (sculture e dipinti).
L’interesse di Freedberg sul rapporto tra corpo, emozioni e risposta alle immagini si
concretizza nel sopra citato Potere delle Immagini, ove l’autore discute una varietà di
reazioni psicologiche e comportamentali alle immagini, anche non prettamente
“artistiche”, ricorrenti nello spazio e nel tempo e, soprattutto, analizza i sintomi della
2
Charles Le Brun (Parigi, 24 febbraio 1619 – Parigi, 22 febbraio 1690) è stato
un pittore e decoratore francese. Le Brun è famoso soprattutto per i suoi lavori di arredamento e
decorazione alla reggia di Versailles, durante il XVII secolo.
3
Paul Ekman(nato il 15/02/1934, Washington) è uno psicologo statunitense. È divenuto, grazie alle sue
ricerche scientifiche, un pioniere nel riconoscere le emozioni e le espressioni facciali, è considerato uno
dei 100 psicologi più importanti del ventesimo secolo.
27
risposta. Solo successivamente Freedberg si occupa di affrontare il nesso tra le
immagini e le reazioni che essere provocano.
Di seguito riporto l’analisi svolta dallo storico sull’impatto sensoriale che alcune opere
d’arte hanno sugli osservatori.
La prima opera che Freedberg prende in considerazione è la grande e commovente
Deposizione dalla Croce di Rogier van der Weyden oggi al Prado – FIGURA 6, dipinta
dal più grande pittore fiammingo del XV secolo dopo Jan van Eyck per la Chiesa di
Nostra Signora fuori le mura a Lovanio. Si tratta di una pala d’altare notevole per la
tecnica, lo stato di conservazione e le dimensioni (220 X 262 cm). La scena si svolge in
uno spazio molto angusto, tanto che la fisicità di queste figure è spinta in primo piano.
Impossibile non ammirare la qualità pittorica del dipinto, il controllo assoluto della
linea, la modulazione del chiaroscuro che informa la fisionomia e l’anatomia, la
complessa precisione con cui viene reso il panneggio e poi i colori, profondi e
squillanti. Tuttavia, l’aspetto più straordinario consiste nella varietà di emozioni
espresse attraverso il linguaggio corporeo.
Come se l’autore avesse studiato, o forse intuito, come comunicare allo spettatore, nella
maniera più efficacie, le emozioni attraverso la gestualità del corpo. La Deposizione si
inserisce in una ben attestata tradizione di dipinti devozionali, pensati per provocare la
risposta emotiva dello spettatore, invitato a immaginare e a condividere, anche
fisicamente, la sofferenza dei personaggi. Van der Weyden si concentra su come le
emozioni vengano espresse attraverso il corpo. Questo è evidente nelle lacrime della
Madonna, nelle sopracciglia aggrottate di San Giovanni e nei lineamenti stravolti di San
Nicodemo. Grande è l’attenzione che il pittore riserva ai gesti; basti osservare la
Maddalena che si tormenta le mani per la disperazione o Maria di Cleofa che si
stropiccia nervosamente le vesti. Sembra quasi che il pittore sappia perfettamente come
trasferire agli spettatori il proprio dolore, come coinvolgerli ed appassionarli alla
sofferenza di Cristo. L’artista coinvolge lo spettatore al punto tale di portarlo a imitare
fisicamente tali gesti: coprirsi gli occhi o torcersi le mani per la disperazione, come
accade alle donne dipinte. Da sottolineare, inoltre, il movimento nella parte centrale
della scena: il lento scivolare del corpo di Cristo, riecheggiato nell’accasciarsi di quello
della Madre. Freedman, insieme con Vittorio Gallese, fanno notare come questo dipinto
non evochi solamente un’imitazione empatica dei sentimenti, e lo dimostra l’accasciarsi
del corpo della Madre in conseguenza a quello del figlio. La madre soffre non solo
interiormente ma anche fisicamente, con tutto il suo corpo. In quegli anni Leon Battista
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Alberti scriveva relativamente al dipinto “Moverà l’istoria l’animo quando li homini ivi
dipinti molto porgeranno suo movimento d’animo… piagniano con chi piagne, et
ridiamo con chi ride, et doliansi con si duole. Ma questi movimenti d’animo si
conoscono dai movimenti del corpo”.
Ovviamente nel XIV secolo non si sarebbe usata la parola empatia ma “compassio”, non
tanto nella moderna accezione del termine, come condivisione emotiva della sofferenza
altrui, quanto nel senso di vero e proprio coinvolgimento fisico. Le evidenze storiche
confermano l’incontro tra teoria artistica e religione. Nel 1423, appena qualche anno
prima della Deposizione di Van der Weyden, si era inaugurata a Colonia la festa della
“Compassione della Vergine” che aveva istituzionalizzato secoli di meditazione e
preghiere sul tema della condivisione fisica e mentale della passione di Cristo. I
tormenti patiti dal figlio diventano i tormenti della madre; e gli autori insistono in
maniera forte e quasi visiva sulla necessità di generare un’analoga risposta nei fedeli.
Le popolari Meditazioni sulla vita di Cristo sono costruite sul tema dell’identificazione
con Cristo sofferente sulla croce. Le Meditazioni sono intessute di continue esortazioni
a trasformare il “guardare” in “sentire fisico” per meglio comprendere la sofferenza di
Cristo.
Appeso alla croce Cristo disse: “Padre mio, vedi quanto mia Madre sia afflitta. Io devo
essere crocifisso, non Lei; eppure Lei è qui con me sulla croce… non merita questa
stessa mia sorte”. E’ esattamente questa capacità della vista di provocare empatia fisica
che Van der Weyden comprese così bene. Mentre altri pittori avevano rappresentato la
Vergine davanti alla croce, in piedi o inginocchiata, nella sua Deposizione, Van der
Weyden la raffigura nella stessa posizione che il corpo del Figlio assume nel momento
in cui viene calato dalla croce e ci comunica anche le emozioni causate, in lei, da tale
crollo, così come gli altri atteggiamenti fisici rappresentati nel dipinto: occhi semichiusi,
lacrime, abbandono degli arti ad indicare spossatezza, testa piegata nel dolore…
Freedberg propone quindi di guardare questo quadro alla luce delle scoperte
neuroscientifiche degli ultimi anni, chiedendosi come quest’opera potrebbe contribuire
alla comprensione di come la percezione visiva diventi percezione fisica dei corpi.
Freedman ha utilizzato l’ipotesi di Damasio (vedi I paragrafo) al fine di inquadrare
meglio il problema del coinvolgimento fisico dello spettatore nei confronti delle
reazioni fisiche dei protagonisti di una scena, coinvolgimento che si può anche
esplicitare nell’imitazione esperita dai gesti dei personaggi raffigurati quando, nel
percepire un peso corporeo, si mimano certe posizioni, o addirittura quando si
29
osservano oggetti che schiacciano verso il basso o minacciano di schiacciare i
protagonisti della scena. Questa prospettiva, secondo Freedman, offre una nuova chiave
di lettura alle strategie artistiche utilizzate da Van der Weyden, e da molti altri artisti,
per provocare una reazione empatica da parte degli spettatori. Poco dopo avere letto
Damasio, Freedberg si imbatte in Rizzolatti, Gallese e collaboratori del Gruppo di
Parma. Se Damasio aveva sorvolato sulla questione del circuito corticale tra visione,
movimento ed emozione, altresì le risposte fornite grazie alla scoperta dei neuroni
specchio, gli danno la possibilità di ridefinire il problema della risposta dello spettatore
alle immagini. I neuroni specchio propongono una spiegazione più chiara di quella
offerta da Damasio sulla questione dell’imitazione esperita e istintiva dei gesti, o sulla
questione del coinvolgimento corporeo ed emotivo dello spettatore con la scena
osservata. Sebbene sia quasi impossibile, se non in circostanze del tutto particolari,
isolare l'attività di singoli neuroni nel cervello umano, Gallese insieme con gli scienziati
di Parma, si sono concentrati sui circuiti a specchio presenti nel cervello umano e li
hanno isolati in un'area del cervello funzionalmente analoga all'area F5 del cervello
delle scimmie ossia nella corteccia premotoria del lobo parietale e nell'opercolo
frontale, più o meno l'area F44 di Brodmann, collidente con la regione di Broca, ossia,
l'area del cervello deputata al linguaggio. In seguito, Gallese ha sviluppato la sua
scoperta in diverse direzioni: innanzitutto ha capito le implicazioni dei neuroni specchio
non soltanto per la comprensione delle azioni altrui ma, anche, delle intenzioni che
stanno dietro tali azioni, in secondo luogo ha sviluppato la sua importante e decisiva
teoria della simulazione incarnata, nella quale si includono tutte le sensazioni imitative
riscontrate nel corpo dell'osservatore. Infine, insieme con Keysers4, ha trattato il
problema dell’attivazione della corteccia somatosensoriale secondaria in un individuo
che osservi una raffigurazione del tatto o una qualsivoglia sperimentazione di contatto.
Il primo caso analizzato da Gallese e Keysers corrisponde a quella sensazione di brivido
che si prova davanti a scene come quella del film Dottor No, in cui una tarantola
passeggia sul petto di James Bond. Hanno, quindi, osservato casi di reazione empatica
al dolore, provocati dalla vista di aghi che perforano la carne o, addirittura, di oggetti
4
Christian Kaysers (27 giugno 1973) è uno scienziato tedesco. Ha studiato psicologia e biologia presso
l’Università di Costanza, l’Università della Ruhr e Bochum e infine a Boston. Nel 2000 ha completato il
suo dottorato presso l’Università di Saint Andrews, in Scozia. Dal 2001 al 2004 ha studiato come borsista
post – dottorato presso l’Università degli Studi di Parma. Durante questo periodo, il suo gruppo ha
scoperto il ruolo dei neuroni specchio uditivi, ampliando la conoscenza del loro funzionamento. Ha poi
ampliato il concetto dei neuroni specchio alle emozioni e sensazioni, dimostrando che la nostra corteccia
somatosensoriale è attiva non solo quando si è toccati ma anche quando vediamo qualcuno essere toccato.
30
taglienti che provocano danni al corpo. Leggendo l’analisi di questi casi, uno storico
dell'arte abbina immediatamente sensazioni causate da immagini, quali le ferite di
Cristo nella pala di Van der Weyden, il chiodo conficcato nel palmo di Cristo nella Pala
di Isenheim di Grunewald – FIGURA 7, il dito del Santo nella ferita del costato di
Cristo nell’Incredulità di San Tommaso del Caravaggio – FIGURA 8. Analizzando
quest’ultima tela, quello che emerge, a parte l'impressione della carne che si affloscia
nel costato di Cristo, è la disturbante sensazione di avere la mano dentro a quella
spaventosa ferita. Analoga impressione di comprensione empatica del dolore fisico
altrui si prova nell'osservare i Disastri della guerra di Francisco Goya – FIGURA 9. In
questa tela, l’empatia si rappresenta non solo nella reazione dell’osservatore ai molti
disagi fisici delle figure rappresentate, ma, anche, nelle rappresentazioni, spesso orribili,
di carne lacerata e trafitta. In questi casi, le reazioni fisiche degli osservatori sembrano
localizzarsi precisamente nelle parti del corpo minacciate, oppresse, bloccate o
destabilizzate nella raffigurazione. Inoltre, l’empatia fisica si tramuta facilmente in
sentimento di empatia emotiva per i modi in cui il corpo viene danneggiato o mutilato.
Persino quando l’immagine non contiene un riferimento apertamente emotivo, può
provocare una sensazione di risonanza fisica.
Sono tutti i casi in cui gli spettatori possono addirittura simulare automaticamente
l’espressione emotiva, il movimento implicito della rappresentazione. Altro esempio di
opera d’arte analizzata da Freedberg e Gallese sono i Pigioni di Michelangelo –
FIGURA 10. Le reazioni riscontrate negli osservatori assumono la forma di una
percezione di attivazione muscolare localizzata nelle stesse regioni corporee evidenziate
nella scultura, in perfetta sintonia con l’intenzione di Michelangelo di rappresentare la
lotta dei suoi personaggi per liberarsi dalla loro matrice materiale.
Nonostante questi studi e le possibili deduzioni sul rapporto arte, emozione ed empatia,
le cose non sono così lineari come potremmo pensare. Negli ultimi anni si è aperto un
acceso dibattito circa l'esatta localizzazione del sostrato neurologico responsabile della
risposta fisica dell'osservatore a simili immagini. Si discute soprattutto se questo possa
essere collocato in specifiche aree somatosensoriali, analoghe a quelle già ricordate, o se
la reazione fisica non debba essere interpretata, piuttosto, come una più generica
reazione affettiva. Queste problematiche offrono chiavi diverse per leggere la personale
risposta al dolore altrui, tuttavia, nessuno ha ancora discusso gli effetti specifici di
determinate immagini e, ancora meno, la possibilità di trarre conclusioni dagli indici
estetici delle immagini. Per tali ragioni, Gallese e Freedberg, stanno orientando la loro
31
ricerca in direzioni meno ovvie come la dimensione emozionale del colore (un
argomento di enorme portata) oppure il rapporto tra il riconoscimento delle espressioni
emotive facciali e la reazione empatica alle manifestazioni fisiche dell'emozione. Anche
questo campo è limitrofo a un antico ambito della tradizionale storiografia dell'arte ossia
quello della fisionomica già presente nell'opera di Della Porta, Le Brun, Lavater e altri,
poi sistematizzato nel libro di Darwin “Expressions of the Emotions in Men and
Animals” e nell'importante ma ancora piuttosto dibattuta opera di Paul Ekman.
Ciò che emerge oggi dalla letteratura sul funzionamento dei neuroni specchio e
sull'imitazione delle azioni è un nuovo e promettente campo di ricerca, in cui si
analizzano le basi neurologiche comuni alla vista e alla percezione di emozioni
negative, come il disgusto e la paura. Sulla base dei risultati ottenuti con lo scanning
FmRI si può, infatti, affermare che sia in coloro che provano direttamente una
determinata emozione, sia in coloro che osservano l'espressione dei soggetti che la
provano, si attiva la medesima area del cervello: l’amigdala, nel caso della paura e
l’insula nel caso del disgusto.
3.3
Analisi Opere D’arte con Soggetti Non Naturalistici e Movimenti che Non
Paiono Finalizzati
Cosa succede quando le azioni osservate non sono finalizzate o paiono senza senso?
Le risposte a queste domande sono in parte state sviluppate grazie alla collaborazione di
David Freedberg coi neuroscienziati Vittorio Gallese e Fortunato Battaglia5.
Costoro hanno analizzato immagini naturalistiche ma, anche, rappresentazioni meno
verosimili. Dopotutto, le ipotesi fenomenologiche sul coinvolgimento emotivo che
suscitano le immagini non si sono mai limitate a rappresentazioni realistiche. Il filosofo
– psicologo Merleau Ponty6, per esempio, aveva dedicato molte pagine alle reazioni
provocate dai quadri di Cezanne.
5
City College di New York
Maurice Merleau-Ponty (Rochefort-sur-Mer, 14 marzo 1908 – Parigi, 3 maggio 1961) è stato
un filosofo francese, esponente di primo piano della fenomenologia francese del Novecento. Dopo gli
studi secondari, terminati al liceo Louis-le-Grand di Parigi, Maurice Merleau-Ponty diviene allievo
della École normale supérieure, nello stesso periodo di Sartre, e consegue il diploma di laurea
in filosofia (agrégé) nel 1930. Dopo il servizio militare inizia la sua carriera di insegnante nei licei. Prima
a Beauvais, dal 1930 al 1933, poi a Chartres fino a 1939 e dal 1940 al 1944 a Parigi, al liceo Carnot.
Entrato nella Resistenza continua a studiare e a scrivere per il dottorato, che consegue nel 1945. Il
dottorato in Lettere 1945 lo ottiene con due libri già molto significativi: La struttura del
comportamento (1942) e La fenomenologia della percezione (1945). Nel 1948 è docente all'Università di
Lione, ma nel 1949 ottiene la docenza in psicologia e pedagogia alla Sorbona. Dal 1952 fino alla morte,
6
32
La prima riflessione di Merleau-Ponty sulla pittura di Cézanne, esposta nel saggio Il
dubbio di Cézanne, identifica nella pittura la forma più pregnante con cui si esplicita il
linguaggio tacito del corpo. Il segreto della pittura sta nel suo riferirsi al corpo come
apertura e veicolo dell’essere al mondo. Secondo Merleau – Ponty, Cézanne non ha
scelto tra sensazione e pensiero, né tra caos e ordine; egli non vuole separare le cose
fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera di apparire ma vuole
dipingere la materia che si sta formando e “descrivere” con la sua pittura l’ordine che
nasce attraverso un’organizzazione spontanea. Noi percepiamo le cose, siamo ancorati
ad esse e, solo su queste fondamenta “naturali”, costruiamo le scienze. Cézanne ha
voluto dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno
l’impressione della natura alla sua origine. Secondo Merleau-Ponty, il pittore ricerca il
dispiegarsi del senso nel visibile e, al tempo stesso, annulla le differenze tra vedente e
visibile, tra chi dipinge e chi è dipinto. L’arte non è imitazione, bensì è “un’operazione
d’espressione” con cui “il pittore riprende e converte appunto in oggetto visibile ciò che,
senza di lui, resta rinchiuso in ogni coscienza”.
La ricerca avviata da Freedman, Gallese, Rizzolatti e Fortunato Battaglia ha
originariamente sostenuto che i loro risultati andassero riferiti a risposte provocate da
azioni finalizzate e non ad ogni tipo di movimento rappresentato in un’opera d’arte.
Questa distinzione critica è stata messa un po’ da parte con le recenti scoperte sui
neuroni specchio, tuttavia, è vero che sia nella vita reale, sia nelle opere d’arte, si
incontrano spesso movimenti non finalizzati. In altre parole, come possiamo considerare
le risposte a tutti quei gesti che a volte paiono essere un prodotto squisitamente culturale
ma che altre volte si trovano in culture molto diverse tra loro? Quale sarebbe la natura di
simili gesti? Quanto dipendono dai condizionamenti culturali? Il loro ripetersi in
differenti contesti da quali altri fattori dipende? Queste domande si ricollegano ancora
una volta alla storia dell’arte.
Uno dei concetti chiave del grande storico dell’arte Aby Warburg è quello di
pathosformel, formula del pathos, con la quale si intende che specifici movimenti del
corpo vengono usati nelle opere d'arte per comunicare determinate emozioni interne.
Simili movimenti sono vere proprie formule nel senso che risalgono a statue e rilievi
antichi come quelli raffiguranti le Menadi, le ebbre seguaci di Bacco. Il concetto di
pathosformel viene quindi allargato fino a comprendere tutta la varietà di formule
avvenuta nel 1961, sarà titolare della cattedra di filosofia del Collegio di Francia: diventando il più
giovane eletto a una cattedra.
33
gestuali che sembrano ricorrere nella storia dell'arte. La domanda che si pongono
Freedman e colleghi non riguarda solo le ragioni del loro ricorrere ma, soprattutto, gli
effetti che tali formule gestuali hanno sugli spettatori e il desiderio di imitazione interna
che provocano.
Freedman analizza, a tal proposito, il seppellimento di Cristo di Caravaggio – FIGURA
11.
Come spesso accade per i suoi dipinti, anche questo evidenzia la connessione diretta tra
reazioni corporee e stimoli emotivi. Questi ultimi sono provocati da diverse strategie
pittoriche, quali, per esempio, il modo in cui il gomito di Giuseppe d’Arimatea penetra
lo spazio. Tuttavia, ciò che maggiormente colpisce, è il gesto di dolore e disperazione
della Vergine con le braccia alzate. L'impatto di tale gesto sullo spettatore deriva dal
fatto che ricorre così frequentemente nella storia dell'arte o dal fatto che provoca un
immediato bisogno di imitazione interna? Tale gesto si può riconoscere nelle
innumerevoli immagini di seppellimento e compianto, ma anche in altri celebri dipinti,
per esempio il 3 maggio 1808 di Goya – FIGURA 12. In quest’ultimo, non vi sono
dubbi che si tratti di un gesto di disperazione per cui, sostengono Freedman e Battaglia,
vale la pena di riflettere sulla profonda capacità di questi gesti, apparentemente
formulari e stereotipati, di veicolare le emozioni. Ma come spiegare questa capacità? Si
può stabilire un rapporto di causalità tra gesto ed emozione? Fino a che punto si può
pensare che esistono formule gestuali standard per esprimere emozioni standard, come
suggerito da Darwin, oppure, fino a che punto i gesti sono culturalmente condizionati?
Il fatto che la stimolazione interna di simili gesti non fosse compresa nelle ricerche sui
neuroni specchio, ha condotto Freedman e Battaglia ad elaborare una serie di
esperimenti pensati appositamente per investigare le reazioni alla vista delle
rappresentazioni di determinati movimenti usando inizialmente impulsi TMS singoli e
doppi e, successivamente, l’elettroencefalogramma. Le ricerche si sono concentrate su
movimenti estremamente semplici, primo tra i quali quello del polso, il quale reagisce,
sollevandosi, alla stimolazione elettrica della corrispondente zona somatotopica nella
corteccia motoria. In seguito alla stimolazione elettrica, sono state mostrate, ai soggetti
sperimentali, immagini di un dipinto raffigurante lo stesso movimento (La cacciata
dall’Eden di Michelangelo nella Cappella Sistina – FIGURA 13 - quindi una fotografia
e un film). Il risultato dell’esperimento è stato che la vista del dipinto con il polso
sollevato di Adamo e, anche, del solo film bastava per ridurre il quantitativo di corrente
necessaria a indurre il movimento del polso. La conclusione sperimentale è stata che la
34
vista di queste azioni, che rappresentano il movimento del polso, incrementa il
potenziale motorio evocativo. Inoltre, senza entrare in dettagli tecnici sperimentali, è
interessante sapere che gli effetti motori evocativi sono stati meno evidenti per la
fotografia rispetto alla vista del movimento realizzato da un soggetto terzo e alla vista
del dipinto di Michelangelo. Lo stesso tipo di esperimento è stato ripetuto con altre
opere d’arte e le ricerche preliminari hanno evidenziato nuove prospettive
neuroscientifiche.
Per esempio, è stata avvalorata, sebbene ancora non definitivamente dimostrata, la
teoria di Berenson7, relativa ai valori tattili. Secondo Berenson, l'opera d'arte è un
organismo vivente che trasferisce nello spettatore un accresciuto senso di capacità
vitale, nondimeno una sensazione di capacità muscolare e fisica che va oltre le sue reali
possibilità e che stimola nel contempo un piacere estetico. Opere analizzate da Berenson
sono stati I Lottatori del Pollaiolo – FIGURA 14 - la cui osservazione generava
eccitamento. Sebbene sia noto l'eccitamento che immagini sportive possono provocare,
non siamo ancora in grado di spiegare come queste possano essere messe in relazione
con le opere d'arte. L'idea di Berenson potrebbe sembrare inverosimile, tuttavia,
Freedman e Battaglia hanno proprio osservato come l'opera d'arte possa in alcuni casi
contribuire al miglioramento del potenziale muscolare di quegli stessi muscoli coinvolti
nelle azioni raffigurate.
Altro caso significativo può consistere nello studiare le reazioni corporee suscitate da
opere di artisti quali Jackson Pollock o Lucio Fontana.
Nel caso di dipinti astratti come quelli di Jackson Pollock – FIGURA 16, gli osservatori
spesso avvertono una sensazione di coinvolgimento corporeo nei movimenti impliciti
nelle tracce fisiche (i segni del pennello o gli schizzi di vernice) delle creazioni creative
compiute dall’autore. Ciò vale anche per i tagli nelle tele di Lucio Fontana – FIGURA
17- dove la visione del dipinto squarciato favorisce una sensazione di movimento
empatico che sembra coincidere con il gesto che ha prodotto lo strappo.
Voglio parlare, in ultimo, di un artista moderno e non convenzionale, che Freedberg e
Gallese hanno analizzato: Bill Viola. Bill Viola (New York, 25 gennaio 1951) è
un artista statunitense, fra i più apprezzati nell'ambito della Videoarte.
35
L’indagine che qui si palesa è la relazione tra l’apparenza delle immagini dei lavori di
Bill Viola e le reazioni che suscitano nello spettatore, come anche la volontà stessa
dell’autore di provocare emozioni.
L’attività di Bill Viola affascina perché rappresenta una sorta di processo di
digitalizzazione dell’opera d’arte tradizionale che ha l’intento di ricercare costantemente
le sensazioni dello spettatore, scaturite dall’introduzione in un sistema interattivo.
Nell’opera intitolata Observance (che fa parte della una serie di opere video “The
Passions”), Bill Viola inscena una coreografia di personaggi contemporanei che
interpretano scene tipiche dell’iconografia tradizionale cristiana. Le figure vengono
estrapolate da una simbologia religiosa e ricontestualizzate in una dimensione
atemporale e universalmente poetica, come metafora dell’essenza della condizione
umana. Observance è ispirato alla pala d’altare Die vier Apostel (1526) di Albrecht
Dürer – FIGURA 15 - nella quale vengono rappresentati quattro apostoli immersi nel
loro intimo dolore per la morte di Cristo. Anche nel video di Viola, l’oggetto della
rappresentazione giunge a essere lo stesso, l’espressione fisica del dolore. I personaggi
entrano ed escono nello spazio della rappresentazione concentrando il loro sguardo su di
un punto fisso, che rimane nascosto e che rimane “fuori campo”, nello spazio dello
spettatore. A volte, uno dei personaggi alza gli occhi verso lo spettatore come a cercare
comprensione, altri, invece, rimangono immersi nella propria interiorità. Viola mostra
l’intera azione in “slow motion”, portando lo spettatore a entrare lentamente nei dettagli
dei gesti e dell’espressività mimica dei personaggi. Volendo seguire un’argomentazione
neuroscientifica, l’opera di Viola è un “perfetto esempio di evocazione di empatia
attraverso l’impatto visivo e attraverso l’attivazione dei neuroni specchio” (Rizzolatti,
1996, 2002); un’esperienza, pertanto, di secondo grado da parte dello spettatore, come
atto involontario di “mimesis”. Elemento cruciale dell’apprezzamento estetico consiste
nell’attivazione di meccanismi incarnati, in grado di simulare azioni, emozioni,
sensazioni corporee che sono universali.
Bill Viola agisce secondo diversi principi e attraverso differenti media. Questi hanno in
comune l’intenzione di offrire una comprensione cognitiva delle opere passando
attraverso il significato dell’esperienza emotiva ed empatica del visitatore. È un invito a
immergersi nelle installazioni interattive, nei video, nelle animazioni, nella pittura
monumentale e a perdersi in esperienze visive, uditive e corporee, per trovarsi a tu per
tu con gli stimoli irrazionali e con le emozioni che queste opere sanno infondere.
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Profondamente spirituale, la sua arte esplora il fenomeno della percezione sensoriale
come strada maestra per la conoscenza di se stessi; essa si concentra sulle esperienze
universali dell’uomo (la nascita, la morte, la natura, la relazione con l’universo).
Riconducendo l’arte alle sue ragioni fondamentali, Viola la ricollega all’esperienza
comune di ogni uomo; il vero luogo in cui l’opera di Viola prende corpo non è infatti
uno schermo o la parete di una stanza ma sono la mente e il cuore dello spettatore.
37
4
Recenti Articoli tratti da Riviste Specializzate (Peer Reviewed) che
avvallano le Teorie e Sperimentazioni Descritte nei primi due
capitoli
In quest’ultimo capitolo, riporto tre articoli di stampa recenti che comprovano quanto ho
descritto nel corso del mio lavoro. Tutti gli articoli presentati sono tratti da Riviste Peer
Reviewed. Ad ognuno di essi allego la propria bibliografia, tenendo presente che tutti e
tre gli articoli sono stati scritti, per lo più, sulla base della stessa documentazione che ho
utilizzato per scrivere i primi due capitoli.
4.1 Scienza e Ricerche (Rivista Peer Reviewed)
Articolo scritto da Barbara Missana, Storica D’arte (27 Marzo 2015)
Le Nuove Frontiere della Scienza Applicata All’arte: La Neuroestetica
Il nostro secolo, quello dei nuovi “lumi” nel campo tecnologico, medico, scientifico e
sociale, ha trasferito lo studio dell’Arte ad una realtà esplorabile mediante le nuove
conoscenze sussistenti nell’unicità del Sapere. L’esperienza estetica viene ormai
studiata come esperienza cognitiva e intellettiva: gli storici dell’arte e i filosofi hanno
iniziato a pensare che il polo emotivo e quello cognitivo siano connessi tra loro e che
quindi le opere d’arte siano analizzabili anche dal punto di vista dell’autore, della sua
mente e del suo apparato di conoscenze. L’attenzione è puntata sull’oggetto come
prodotto artistico, ossia come mezzo di comunicazione col fruitore, nato per
sopravvivere nel tempo conservando quei valori eterni provenienti dalla mente e dal
vissuto dell’artista. Recentemente sono stati compiuti incredibili passi in avanti proprio
nell’ambito della scienza della percezione e dell’estetica della visione, ed è sorprendente
scoprire che una parte di questi siano il risultato dell’apporto di studi così settoriali e
così apparentemente lontani dalla Storia dell’arte come quelli neurobiologici. Negli
ultimi due decenni, che sono stati decretati appunto i “decenni del cervello”, le scoperte
in campo neurobiologico hanno reso il fatto artistico oggetto di indagini di tipo
interdisciplinare atte a trovare una risposta concreta all’interrogativo se veramente esista
una sorta di cifrario inequivocabile per comprendere i meccanismi cerebrali che sono
dietro al processo creativo. Le neuroscienze hanno dimostrato l’esistenza, nell’ambito
della corteccia visiva, di differenti aree in cui l’elaborazione degli stimoli visivi e il
38
riconoscimento dei processi mnemonici, che trapiantano nella nostra mente le forme e i
colori categorizzandoli, avvengono simultaneamente. Queste scoperte hanno fornito uno
spunto di riflessione innovativo per pensare al fenomeno estetico in una differente
ottica: da un lato i neurobiologi sono desiderosi di scoprire l’esistenza di una solida base
scientifica in grado di spiegare i processi di godimento estetico e di creatività, dall’altro
i filosofi e gli storici dell’arte offrono loro gli spunti per reinterpretare e confermare il
Sapere antico, le cui verità sono sempre più convergenti con quelle che emergono dallo
studio della fisiologia del cervello. La “teoria dell’Einfühlung” (elaborata da Robert
Vischer nel 1873 in Über das optische Formgefühl, e da Theodor Lipps in Aesthetik,
1903-06), ad esempio, insistendo sul fondamento psichico dell’esperienza artistica, è
stata il primo tentativo di integrare la teoria estetica con un metodo di tipo empirico
avviando ad una psicologia dell’arte e allo studio della percezione visiva. Nasce quindi,
per input delle discipline umanistiche, la nuova branca dell’estetica e della critica d’arte
col prefisso “Neuro”: la Neuroestetica, un filone di ricerca interdisciplinare che si
occupa di analizzare a livello cerebrale quanto accade in un’artista e in un fruitore
rivalutando la relazione sociale tra soggetto e oggetto. E’ un vanto poter dire che in
Italia questa nuova disciplina è particolarmente viva e che una grande parte di letterati
ha accettato il confronto con il mondo della scienza, non solo per merito di quei
dipartimenti universitari come nel Polo di Parma che hanno contribuito attivamente con
le loro ricerche a dare conferme, ma anche grazie alla fondazione nel 2005 della Società
Italiana di Neuroestetica ad opera del neurobiologo Luca Ticini che l’ha dedicata al
padre fondatore della disciplina, il professor Semir Zeki, neurobiologo dello University
College di Londra. Negli anni ’90 nell’ambito dei suoi studi sulla specializzazione
funzionale della corteccia visiva, Zeki ha analizzato le sue implicazioni sull’arte
moderna: ha quindi affrontato una lettura dell’Arte in chiave scientifica (soffermandosi
specialmente sulla vicenda astratta e cinetica) proponendo una sorta di neurologia degli
elementi artistici primari, quali forma, colore e movimento. In conclusione a questo suo
imponente lavoro di ricerca, ha affermato che la necessità di percepire ed elaborare le
informazioni visive è la stessa che guida il gusto estetico, ereditata certamente nel
tempo e dall’esperienza. Zeki parla di “specializzazione funzionale dell’estetica visiva”
asserendo che nell’uomo coesistano tanti sensi estetici quante sono quelle aree addette
al riconoscimento degli stimoli visivi; infatti, l’inefficienza di una particolare zona
comporterebbe la mancanza di godimento di un aspetto particolare di un’opera d’arte;
questo perché gli attributi di una immagine visiva – i colori, le forme – influenzano gli
39
effetti estetici che essa comporta. L’arte può essere quindi interpretata come una finestra
sul mondo interiore e sul cervello dell’artista. E’ noto infatti come gli artisti con
particolari disturbi hanno avuto una percezione estetica che è stata influenzata da essi e
le loro opere rispecchiano questa condizione; basti pensare alla follia di Vincent Van
Gogh o alla cataratta di Claude Monet. L’incontro con il testo di Zeki La visione
dall’interno ha rappresentato per me e per quanti si avvicinano allo studio di questa
nuova disciplina, lo spunto per pensare ad un’interpretazione critica della storia dell’arte
tutta nuova – tanto da poter parlare di “neurocritica dell’arte”. La nozione fondante è
che, per elaborare gli stimoli visivi esterni in concetti, le cellule specializzate delle
differenti aree cerebrali della corteccia visiva hanno la capacità di astrarre gli elementi
della visione. Se quindi la visione non è una semplice analisi di stimoli esterni ma un
processo di conoscenza profondo, allora l’artista può essere studiato e paragonato a un
neuroscienziato che utilizza gli strumenti dell’arte per comprendere come riuscire a
stimolare le percezioni dell’osservatore e pertanto quali elementi utilizzare nella sua
composizione pittorica. Le recenti scoperte sul cervello visivo, tra cui prima fra tutte
quella dei “neuroni specchio”, sostengono questa tesi e conducono ad esiti ancora più
esilaranti: il meccanismo di “simulazione incarnata” nell’uomo funziona anche nel caso
di azioni fittizie, simulate e confuse, come può essere ad esempio bere senza un
bicchiere. Da questa fondamentale verità ne è conseguita un’altra, scaturita
dall’indagine sul manufatto artistico: nel 2007 il neurobiologo Vittorio Gallese
dell’Università di Parma ha collaborato con lo storico dell’arte David Freedberg della
Columbia University di New York ad un esperimento di fondamentale importanza,
pubblicato su Trends col titolo di “Motion, Emotion and Empathy in Aesthetic
experience. Ponendo degli osservatori dinanzi all’immagine di uno dei quattro Prigioni
di Michelangelo – la famosa scultura “incompleta” dello schiavo detto Atlante
(databile al 1525-1530) e conservata a Firenze nella Galleria dell’Accademia – è emerso
che la risposta empatica è valida anche davanti all’opera d’arte rappresentativa: il
cervello ha riprodotto in termini motori il movimento di torsione del busto della statua.
Nel dicembre 2012 si è aggiunto un altro tassello importante all’interno del percorso di
chiarificazione del valore dell’opera d’arte: l’oggetto preso in esame è stato per la prima
volta un quadro informale, uno dei noti “concetti spaziali” di Lucio Fontana, più
volgarmente ricordato come il “taglio”. Grazie all’ausilio dell’Elettroencefalografia,
degli spettatori sono stati stimolati con tale immagine e quanto è emerso è stato
incredibile: la percezione di quel tratto di tela squarciato è stata interpretata dal cervello
40
in termini senso motori ossia di ricostruzione del gesto del pittore. E’ straordinario
sapere che chiunque, osservando un’opera d’arte, sta inconsapevolmente entrando in
empatia “carnale” con essa, a livello cerebrale. Ciò significa che il nostro cervello non
solo è in grado di ricreare i gesti compiuti dai grandi artisti della storia, ma di entrare in
empatia con essi al di là del tempo e dello spazio. Ecco perché l’Arte è fondamentale:
perché è un linguaggio che non conosce limiti. Quindi, ripercorrere questa piccolo ma
rilevante capitolo di conquiste scientifiche è senz’altro utile per comprendere
l’importanza del ruolo sociale dell’artista nella sua accezione di comunicatore
universale grazie alla fisiologia stessa dell’uomo che si può definire un “animale
empatico”. Partendo da una panoramica sulla fisiologia del cervello visivo, è evidente
che il momento della creazione artistica coincida quasi con quello della fruizione, come
se l’osservatore divenisse egli stesso un artista nel momento in cui esperisce l’opera
d’arte. Zeki, infatti, considera l’arte come una ricerca di costanti attraverso un simile
processo di selezione degli elementi essenziali del mondo. Riprendendo l’accezione
poco fa espressa, l’arte può essere per ciò interpretata come una finestra sul mondo
interiore dell’artista, una finestra che consente di vedere e di rivivere un’esperienza da
lui vissuta, intrisa del suo pensiero, delle sue idee e della sua visione cerebrale ma,
aggiungo, anche una finestra sul mondo del fruitore, su noi stessi.
41
4.2 State Of Mind Il Giornale Delle Scienze Psicologiche (Rivista Peer
Reviewed). Articolo scritto da Guest, (04 Dicembre 2015)
Il libro di Rizzolatti e Sinigaglia descrive le numerose ricerche compiute presso
l’Università di Parma. La straordinaria scoperta dei neuroni specchio ha dato inizio a
un nuovo modo di vedere il comportamento umano, l’intelligenza, il pensiero e le
emozioni.
La premessa inizia con una citazione di Peter Brook che ha affermato come tale
scoperta abbia dato prova scientifica di ciò che il teatro sapeva da tempo, a dimostrare
quanto questi studi non siano poi così lontani ma, in fondo, potenzialmente alla portata
di molti studiosi di varie discipline. Questi studi hanno infatti catturato l’attenzione di
studiosi di psicologia, pedagogia, sociologia, antropologia ecc. Non tutti però
conoscono nei particolari la storia di questa scoperta e questo libro ha il merito di
raccontarla e di spiegare come funziona il nostro cervello. Partendo dal semplice gesto
di prendere una tazzina da caffè spiega come funziona il sistema motorio e cosa accade
quando si decide di compiere un’azione. Infatti, anche se non ne siamo consapevoli,
quando stiamo per afferrare un oggetto la nostra mano inizia a prepararsi per poterlo
prendere, le dita e il palmo della mano si prefigurano per adattarsi al peso, alla forma e
al materiale di cui è fatto l’oggetto. Appena si raggiunge la tazzina la mano riceve le
informazioni dai recettori della cute, dai muscoli e dalle articolazioni che le permettono
di perfezionare la presa e portare la tazzina alla bocca. Per molto tempo si è pensato che
i fenomeni sensoriali, percettivi e motori fossero suddivisi in distinte aree corticali: le
aree sensoriali visive nel lobo occipitale, somatosensoriali nella circonvoluzione
postcentrale, uditive nella circonvoluzione temporale superiore ecc.. e dall’altro le aree
motorie nella parte posteriore del lobo frontale. Tra queste due aree vi sono le aree
associative che hanno la funzione di integrare le informazioni provenienti dalle due aree
e per poter mettere in atto l’azione. In seguito si è cominciato a comprendere che “il
sistema motorio non è solo connesso alle aree corticali responsabili delle attività
cerebrali coinvolte in pensieri e sensazioni, ma possiede molteplici funzioni, le quali
non sono riconducibili nel quadro di una mappa unitaria puramente esecutiva” (“So quel
che fai, p.11 Rizzolatti, Sinigaglia). Le ricerche compiute negli ultimi anni hanno
portato alla conclusione che la suddivisione della corteccia motoria nelle aree MI e
SMA è troppo semplicistica. Infatti la corteccia motoria risulta formata da molteplici
regioni diverse. L’uso di tecniche elettrofisiologiche sofisticate che prevedono
42
l’inserimento di microelettrodi capaci di stimolare piccoli gruppi di neuroni di
proiezione, ossia microstimolazione intracorticale, ha infatti permesso di vedere come la
corteccia motoria contenga una grande molteplicità di mappe funzionalmente distinte e
localizzate nelle aree anatomiche delle regioni mesiale, dorsale, ventrale.
Il modello dell’Homunculus motorio di Wilder Penfield, per tanto tempo punto fermo
della neurologia, appare quindi notevolmente superato. Ritornando ora alla tazzina da
caffè, per prendere un oggetto sono necessari due processi correlati, ossia raggiungere
ed afferrare. Anche se il pensiero comune è che il raggiungere preceda l’ afferrare non è
così, infatti la registrazione dei movimenti della mano e del braccio ha dimostrato che
sono due processi paralleli. Afferrare richiede l’attivazione della corteccia motoria
primaria F1, infatti lesioni di quest’area causano mancanza di forza, flaccidità e
l’incapacità di muovere le dita in modo indipendente. F1 però non avendo accesso
diretto all’area visiva, necessita dell’area F5 che contiene rappresentazioni motorie della
mano e della bocca, che sono in parte sovrapposte. La maggior parte dei neuroni di
quest’area codifica atti motori, ossia movimenti coordinati da un fine specifico
(Rizzolatti, Gentilucci, 1988; Rizzolatti et al.,1988). Gran parte dei neuroni F5 si
attivano infatti quando la scimmia afferra un pezzo di cibo con la mano o con la bocca,
compiendo quindi un atto motorio.
Molti neuroni F5, indipendentemente dalla classe di appartenenza, codifica il tipo di
conformazione che deve avere la mano per compiere un’ azione, presa di precisione o
afferrare. Un’ulteriore prova che i neuroni F5 si attivano durante gli atti motori è che a
prescindere dalla loro specificità per i diversi tipi di presa la loro attivazione varia in
relazione alle differenti fasi dell’atto motorio. Vi sono neuroni che si attivano quando la
scimmia usa la “presa di precisione” e altri che si attivano quando afferra oggetti di
media taglia con tutte le dita. Sin dai primi studi è emerso che una parte di neuroni F5
risponde in modo selettivo a stimoli visivi; nell’esperimento condotto da Akira Murata e
colleghi (Murata et al., 1997. Rizzolati et al.,2000; Gallese, 2000) è stato indagata a
fondo la funzione visuomotoria dei neuroni F5, portando quindi ad ipotizzare che le
risposte visive sarebbero l’espressione di un ‘intenzione della scimmia di prendere un
oggetto. La corteccia ventrale premotoria è formata oltre che dall’area F5 anche
dall’area F4, che occupa l’area dorso-caudale ricevendo afferenze dall’area
intraparietale ventrale (VIP). Da esperimenti di microstimolazione è stato dimostrato
che in F4 sono presenti movimenti del collo, della bocca e del braccio ed è emerso che
43
la maggior parte di questi neuroni si attiva sia durante l’esecuzione di atti motori sia a
stimoli sensoriali. In seguito a tale scoperta sono stati distinti due gruppi di neuroni:
solo somatosensoriali e somatosensoriali e visivi o neuroni bimodali.
Recentemente sono stati individuati anche neuroni trimodali capaci di rispondere a
somatosensoriali visivi e uditivi (Graziano et al., 1999). La maggior parte dei neuroni
somatosensoriali di F4 viene attivata da stimoli tattili superficiali e i loro campi recettivi
sono abbastanza ampi e localizzati sulla faccia, sul collo, sulle braccia e sulle mani. I
neuroni bimodali hanno caratteristiche somatosensoriali simili a quelle dei neuroni
somatosensoriali puri, vengono però attivati da stimoli anche visivi in particolare da
oggetti tridimensionali e stimoli in movimento.
La scoperta più sorprendente che riguarda l’area F4 è stata che i campi recettivi visivi
della maggior parte dei neuroni bimodali restano ancorati ai rispettivi campi recettivi
somatosensoriali e risultano pertanto indipendenti dalla direzione dello sguardo
(Gentilucci et al.,1983; Fogassi et al., 1996a, b.).
Dall’analisi delle proprietà funzionali dei neuroni F5 è emerso che molti si attivano
durante gli atti motori e a causa delle loro caratteristiche inizialmente, negli anni trenta,
vennero chiamati neuroni canonici. Nelle prime situazioni sperimentali degli anni
novanta le scimmie venivano lasciate agire liberamente e si è visto che nella convessità
corticale F5 erano presenti neuroni che si attivavano sia quando la scimmia effettuava
un’azione sia quando osservava lo sperimentatore compiere quell’azione. Questi sono
stati chiamati neurons mirror, neuroni specchio. Per quanto riguarda le proprietà
motorie i neuroni specchio sono indistinguibili dagli altri neuroni F5, la situazione
cambia invece per quanto concerne le capacità visive , infatti i neuroni specchio
rispondono alla presentazione dello stimolo visivo (es. cibo per la scimmia). La loro
attivazione dipende dall’osservazione da parte della scimmia di determinate azioni
compiute dallo sperimentatore che comportano un’ interazione effettore mano o boccaoggetto.
Assumendo come criterio l’atto motorio codificato visivamente si possono suddividere
in
“neuroni-specchio-afferrare”,
“neuroni-specchio-tenere”,
“neuroni-specchio-
collocare” quando la scimmia guarda lo sperimentatore mettere un oggetto su un
supporto, “neuroni-specchio-interagire-con-le-mani” che si attivano alla vista di una
44
mano che si muove verso l’altra e mentre quest’ultima sta tenendo un oggetto. La loro
funzione ad un esame superficiale porterebbe ad una preparazione ad agire per poi
compiere la stessa azione ma se così fosse sarebbe simile a quei neuroni preparatori
ampiamente diffusi nella corteccia premotoria. Un’interpretazione più sofisticata è
quella
di
Marc
Jeannerod
(Jeannerod,
1994)
in
un
articolo
sull’analisi
dell’immaginazione di tipo motorio, motor imagery).
Jeannerod porta come esempio un allievo che osserva il maestro eseguire un passaggio
complesso al violino. Secondo la sua ipotesi i neuroni responsabili di immagini motorie
sarebbero gli stessi che si attivano durante la preparazione e la pianificazione
dell’allievo della propria esecuzione. Pur apprezzando la ricerca di Jeannerod secondo
Rizzolatti è comunque riduttivo affermare che la funzione primaria dei neuroni specchio
sia legata a comportamenti imitativi. La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia ha
suggerito l’ipotesi che anche nell’uomo potesse esistere un’area cerebrale simile.
Attraverso gli studi di elettroencefalografia (EEG) già negli anni cinquanta sono state
rilevate evidenze indirette di un meccanismo specchio anche nell’uomo. La prova
dell’esistenza dei neuroni specchio anche nell’uomo si deve agli studi di stimolazione
magnetica transcranica (TMS). La TMS è una tecnica non invasiva di stimolazione del
sistema nervoso, quando la corteccia motoria viene colpita con un’ intensità appropriata
da uno stimolo magnetico è possibile registrare i potenziali motori, motor evoked
potential MEP, nei muscoli controlaterali.
Luciano Fadiga e colleghi (Fadiga et al.,1995, Maeda et al.,2002), hanno registrato i
MEP, attraverso la stimolazione della corteccia motoria sinistra, nei muscoli della mano
e del braccio destro in soggetti che osservavano lo sperimentatore compiere un’azione
come afferrare un oggetto. Il risultato è stato che i muscoli del braccio e della mano dei
soggetti venivano attivati durante l’osservazione, mentre un altro sorprendente risultato
è stato che l’attivazione aumenta notevolmente durante l’osservazione di atti
intransitivi, non diretti verso un oggetto. Una differenza nell’uomo, rispetto alla
scimmia, è che i neuroni specchio hanno anche la capacità di codificare e attribuire uno
scopo all’azione osservata. Sin dalla loro scoperta ci si è chiesti se potessero essere alla
base del comportamento imitativo, come è noto l’imitazione è la capacità di riprodurre
un’azione nei dettagli dopo averla osservata e aver quindi appreso un pattern d’azione
nuovo (Byrne, 1995; Tomasello, Call, 1997; Visalberghi, Fragaszy, 2002).
45
Secondo il modello che ha preso piede negli ultimi anni, grazie alle ricerche di Wolfang
Prinz e collaboratori, l’azione osservata e quella eseguita condividono lo stesso codice
neurale. Essi si rifanno al concetto di “azione ideomotoria” di Hermann Lotze, poi
ripresa da William James (Lotze, 1852; James, 1890), poi estesa al principio di
“compatibilità ideomotoria” dello psicologo Anthony G.Greenwald. Secondo questo
principio più un atto percepito assomiglia ad uno presente nel patrimonio motorio
dell’osservatore più tende a indurne l’esecuzione: percezione ed esecuzione delle azioni
debbono possedere uno schema rappresentazionale comune (“So quel che fai”p.137
Rizzolatti, Sinigaglia).
La scoperta dei neuroni specchio ha dato un notevole apporto allo studio delle emozioni
e in particolare al riconoscimento delle espressioni facciali. Prendiamo ad esempio
un’emozione primaria come il disgusto, la sua forma primitiva è legata all’ingerire,
annusare o assaggiare il cibo, costituita quindi da movimenti delle labbra, della bocca,
dall’arricciare il naso e talvolta da nausea e vomito (Rozin et al., 2000). Numerosi studi
condotti negli ultimi anni hanno consentito di individuare le aree cerebrali coinvolte
nelle reazioni di disgusto. Tra queste un ruolo importante appartiene al lobo dell’insula.
Da tempo è noto che non si tratta di un’area omogenea, nella scimmia è divisa in tre
zone citoarchitettoniche: insula agranulare, disagranulare e granulare. La regione
anteriore è connessa con i centri olfattivi e gustativi e riceve informazioni dalla regione
anteriore della parete ventrale del solco temporale superiore (STS), in cui molti neuroni
rispondono alla vista delle facce.
Nell’uomo l’insula è più grande che nella scimmia ma è molto simile. Andrew J. Calder
e colleghi riportano il caso di un paziente (NK) che in seguito ad un’emorragia
cerebrale, presentando gravi danni all’insula sinistra e alle strutture circostanti non era
più in grado di riconoscere l’espressione di disgusto. Inoltre il danno cerebrale aveva
causato un’incapacità anche a livello uditivo di riconoscere i suoni legati a tale
emozione (il vomito), non era quindi in grado di provare e riconoscere il disgusto. Il
riconoscimento di tutte le altre emozioni invece non presentava alcun deficit.
L’osservazione di un volto che esprime un’emozione va quindi ad attivare i neuroni
specchio della corteccia premotoria. Quest’area poi invia alle aree somatosensoriali e
all’insula una copia efferente (del loro pattern di attivazione), simile a quello che
inviano quando è l’osservatore a provare quell’emozione. Il riconoscimento delle
emozioni sui volti degli altri, attraverso il meccanismo dei neuroni specchio,
46
rappresenta il prerequisito indispensabile per la messa in atto del comportamento
empatico che è alla base dell’interazione tra gli individui. La spiegazione del
meccanismo dei neuroni specchio ha dato una base comune per riprendere ad indagare
la natura dei comportamenti e delle relazioni sociali e interpersonali.
47
4.3
Nuova Atlantide (Rivista Peer Reviewed)
Articolo scritto il 23 Settembre 2015 da Antonio Gaeta
Comunicare Per Immagini, Quale Fondamento Del Linguaggio
Desta un particolare interesse apprendere da Heine Goettner-Abendroth che, per tutta la
lunghezza dell’istmo di Darién, per lo più entro i confini di Panama, e in misura minore
della Colombia, nel 2006 antropologi ed etnologi stimarono che la popolazione Cuna si
aggirasse intorno ai 60.000 abitanti. I Cuna sono, per entità, uno tra i gruppi indigeni più
consistenti dell’America Centrale, tra coloro che hanno mantenuto la loro cultura
originaria. La loro politica di conservazione funziona talmente bene, che sono riusciti a
preservarla, pur in presenza della “modernizzazione” operata dai governi panamensi, dai
missionari cristiani e persino dagli etnologi. L’aspetto che ha colpito più di ogni altro la
mia grande curiosità antropologica è stata la capacità millenaria di questa etnia di
tramandare la sua storia, la concezione che essa ha della cosmogonia, nonché la
connessa mitologia, grazie al canto. Nei tempi passati questo tipo di pratica era definita
dai Cuna “cantare le immagini”. Si tratta di un linguaggio, che si fonda sui segreti della
vita, condivisi da tutte le tradizioni dei Cuna. Da questa particolare capacità espressiva,
che ha fatto uso di pochi pittogrammi, è nata la bravura delle donne di raccontare le
stesse vicende storiche e mitologiche tramite il ricamo ornamentale per le bluse (o
mola). Si tratta di creazioni che esprimono ancora oggi le forme fantastiche, che
raffigurano l’insieme della loro cosmogonia e della loro mitologia. Il canto, sebbene ad
uso narrativo, si ispira ad immagini dell’emisfero destro, che precedono nel tempo la
stessa formazione del linguaggio verbale discorsivo.
Francesco Ferretti nel suo saggio “Alle origini del linguaggio verbale” dimostra come
anche questa particolare capacità comunicativa dell’essere umano sia il risultato di un
processo evolutivo, che trae spunto da un preesistente bagaglio cognitivo, che a sua
volta presenta tratti comuni a tutti i vertebrati superiori.
Sarebbe lungo (sebbene di grande importanza) soffermarsi sulle elaborate ricerche, che
inducono a dire che il linguaggio verbale non é un dono divino che distingue l’essere
umano dagli altri animali. Tuttavia, prima che nascessero i linguaggi verbali, la
comunicazione tra gli esseri umani assunse le forme espressive di modellamento
creativo (compreso il canto) delle immagini: quelle che l’evoluzione della specie
sviluppa nell’ambito dei processi neurali (o cerebrali).
48
Prima delle corde vocali, delle labialità e gutturalità della bocca, infatti, persino
l’articolazione gestuale delle mani è stata la forma di protolinguaggio che permetteva di
comunicare fluentemente. La grammatica del gesto precedette quella della parola!
Le capacità articolatorie del corpo umano, nel suo complesso, in seguito, sono riuscite a
esprimere composizioni fonetiche connesse con le immagini, anche simboliche,
generate dalle interazioni dei neuroni. Tra questi determinanti furono i cosiddetti
“neuroni-specchio”.
Lo studio di questo fenomeno fisiologico, reso possibile dall’evoluzione biologica della
specie, è di grande importanza per comprendere come, di fatto, fosse la capacità di
mimesis ovvero la molla creativa che permise all’ominide di diventare Homo Sapiens.
Questa capacità è il fondamento della creazione artistica, quale prima forma di
comunicazione sociale!
Secondo Donald i comportamenti complessi, tipici dell’Homo Erectus (uso controllato
del fuoco, cottura del cibo, migrazione verso terre lontane, etc.) evidenziano capacità
intellettive in grado di svincolarlo dal “qui e ora” (unica dimensione temporale, di cui
disponevano gli australopitechi al pari degli altri animali). Scrive Donald che alla base
di tale progresso fu la mimesis: una specifica capacità cognitiva, per mezzo della quale
l’Homo Erectus riuscì a costruire una rappresentazione della realtà circostante attraverso
l’utilizzo di forme espressive visivo motorie.
In altre parole, l’articolazione motoria del corpo umano non si limitava alla
deambulazione, al procacciamento del cibo e alla nutrizione, ma iniziava a porre le
fondamenta della comunicazione sociale, mediante lo sviluppo di immagini, che
accompagnarono l’evoluzione dei “neuroni specchio”. Fu questa evoluzione biologica
delle immagini interiori a stimolare il bisogno di trasferire l’un all’altro i contenuti delle
stesse immagini, rese sotto forma gestuale, labiale, simbolica (mediante lo sviluppo di
segni e disegni) e, infine, canora.
Non siamo ancora al “linguaggio verbale discorsivo”, giacché esso costituisce una
successiva evoluzione, tipica dell’Homo Sapiens. Tuttavia, siamo ai fondamenti della
comunicazione sociale mediante il linguaggio creativo, che a sua volta è il fondamento
dell’arte! In questo senso possiamo dire che il “cantare per immagini” dei Cuna
costituisce una delle prime forme espressive della comunicazione umana. Essa crebbe e
si sviluppò tra i clan delle antichissime società matriarcali, che precedettero (e hanno
accompagnato, fino ai giorni nostri) tutto ciò che oggi conosciamo come “Storia
dell’Uomo”! Scrive André Breton in ”Arte Magica” che “La magia - come dice Boheme
49
- non é altro in sé che una volontà. E questa volontà é il grande mistero di ogni
meraviglia e di ogni segreto. Essa nasce grazie all’appetito del desiderio dell’essere. Ma
ora essa cerca uno sbocco, che minaccia di essere torrentizio, in un mondo dove tutto ha
cospirato a sbarrargli la strada!”. Si può concordare con questa suggestiva e filosofica
immagine di torrente in piena, che non é riuscito a fluire in modo graduale e naturale.
Tutto lo sviluppo del linguaggio verbale discorsivo, infatti, da una parte ha aperto le
porte alle scienze ed alla tecnologia più avanzata; dall’altra, con le guerre, ha sbarrato lo
sviluppo del percorso biologico evolutivo, alla base della comunicazione sociale,
fondata sull’espressione artistica diffusa. In fondo, la “magia” che invoca il Surrealismo
di Breton altri non é che il segreto biologico, cui attinge tutta la vita. Non c’é e non ci
sarà mai, infatti, un chimico molecolare e tanto meno un fisico esperto in dinamica delle
particelle subatomiche, che potranno rivelare il “mistero della vita” e delle sue forme
evolutive. Pertanto, l’unica comunicazione sociale interetnica e internazionale resta e
sarà sempre quella della capacità suggestiva di rappresentazione artistica (o magica)
dell’immagine! Persino le classi sociali principali, eredi ed interpreti della cultura
patriarcale, si appropriarono e si appropriano sempre più delle immagini, per
sottomettere le moltitudini umane alla loro volontà di potenza! Ciò che occorre a noi
moltitudini, quindi, é la necessità di smascherare i contenuti narrativi, insiti in quelle
immagini finalizzate ad imporre le volontà di dominio, per poter riportare la
comunicazione umana alle volontà di convivenza pacifica ed egualitaria. Per fare
questo, il nostro linguaggio creativo ha bisogno di comunicare immagini assolutamente
diverse!
50
5
Conclusioni
L’arte si modifica ed evolve con la società. La globalizzazione sta generando
cambiamenti straordinari cui l’uomo deve abituarsi velocemente. Pellegrino nell’era
delle più rivoluzionarie scoperte scientifiche e dei più repentini mutamenti storico
sociali mai avvenuti nella sua storia, l’uomo ha sempre più la necessità di ricercare e
comprendere sé stesso. In simile contesto, gli artisti si fanno portavoce di un’umanità
che fatica a comprendere e trasmettere le emozioni che prova.
Il lavoro di Bill Viola, per esempio, cui ho accennato nel secondo capitolo, è un
tentativo di trasposizione del nostro sentire, attuando la reviviscenza delle nostre
emozioni nascoste.
La neuroscienza sta aprendo le porte alla decodificazione ed alla comprensione
cognitiva dell’esperienza emotiva umana.
La storia dell’arte si ricollega alle neuroscienze cognitive attraverso la “simulazione
incarnata” di movimenti, gesti ed espressioni osservate. Questo implica la possibilità di
comprendere le intenzioni e riconoscere le espressioni e le sensazioni altrui, non solo
nella realtà, ma anche attraverso le raffigurazioni.
Le potenzialità estetiche e terapeutiche insite nella ricerca di Freedman e del Gruppo di
Parma ci conducono ad una più matura consapevolezza di noi stessi.
La collaborazione tra storici d’arte e neuroscienziati genera, inevitabilmente, conflitti e
preoccupazioni. In campo umanistico, sorge il timore di perdere l'identità disciplinare,
sebbene la collaborazione di Freedman con i neuroscienziati Gallese, Rizzolatti e
Battaglia provi il contrario. D’altro canto, il riduzionismo scientifico pare obnubilare
quegli aspetti irrazionali e creativi, propri di molte forme artistiche come la pittura, la
musica e la poesia.
Premesso questo, Freedman suggerisce ambiti di ricerca che non riducano la
complessità dei fenomeni ma che aprano, invece, nuovi orizzonti. Lo studio congiunto e
le sperimentazioni attuate dallo storico d’arte insieme con i neuroscienziati cui
dobbiamo la scoperta del “meccanismo specchio” non intendono suggerire che la
neuroscienza possa spiegare integralmente il piacere estetico e la reazione emotiva ad
un'immagine ed è giusto diffidare di quei neuroscienziati che tentano di individuare le
basi neurologiche di concetti indefiniti quali la bellezza o, addirittura, l'amore. Lo scopo
della collaborazione tra arte e scienza è quello di stabilire obbiettivi, progetti di ricerca e
51
compiti precisi. Oggi è quanto mai necessario accantonare l’antica contrapposizione tra
natura e cultura. Siamo finalmente nella posizione di comprendere come la modulazione
prefrontale delle risposte neurologiche provenienti dalla parte inferiore del cervello
offra una spiegazione, seppure parziale, del rapporto che sussiste tra automaticità ed
esperienza. Si potrebbe quindi iniziare a valutare quanto un’opera d'arte sia efficace
sulla base di come l'artista riesce a veicolare, consciamente o inconsciamente, una certa
conoscenza del corpo e, di conseguenza, a suscitare nel fruitore della sua opera
esattamente quanto lo stesso artista prova nel momento della creazione. Osservando la
convergenza dei vari campi disciplinari è possibile notare come storia, fenomenologia e
scienza possano illuminarsi a vicenda anziché competere l’una contro l’altra.
Il futuro prevede una collaborazione sempre più stretta tra le varie discipline, le quali
non saranno dominanti l’una rispetto all’altra ma complementari e, pertanto, volte
insieme a fornire una, seppure parziale, spiegazione scientifica ai moti suscitati
nell’animo umano da ciò che noi, comuni mortali, consideriamo esteticamente
gradevole.
52
6
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NEUROESTETICA: MENTE E CERVELLO DI FRONTE AD UN’OPERA
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Ringraziamenti
Ringrazio il Dottor Luca Cerniglia, per avermi suggerito questo interessante ed attuale
argomento e per avermi seguita nell’elaborazione della tesi.
Ringrazio la mia amica Dominique Mosca, eccellente esperta “informatica” (e non
solo), per avermi aiutata nella sistemazione e nella stesura grafica. Senza di lei non sarei
stata in grado di rendere giustizia “coreografica” al mio elaborato.
Ringrazio il mio amico e compagno di studi Antonio Alberti, per avere sempre creduto
in me ed avermi sostenuta e spronata a continuare in ogni momento, anche quando ero
troppo stanca per studiare e la certezza di arrivare alla fine vacillava.
Ringrazio la mia amica Maria Margherita Pezzetti per avermi detto sin dall’inizio che
stavo commettendo un grosso errore ad assumermi un simile impegno con un lavoro full
time e due bambini piccoli (!!), salvo poi essermi stata accanto SEMPRE, durante ogni
singolo attimo di questi tre complicatissimi anni.
In ultimo, il più importante grazie va ai miei meravigliosi bambini, Emanuele e Matilde.
Amori miei, allegri positivi e illuminanti sempre, non sarà mai abbastanza la gratitudine
che provo nei vostri confronti! Più di qualunque titolo accademico raggiunto o
raggiungibile, siete il mio più grande orgoglio e sono onorata di essere la vostra
mamma. Senza di voi nulla avrebbe senso perché voi siete il senso della mia vita.
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