Linguaggio e vita: Pier Paolo Pasolini

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Linguaggio e vita: Pier Paolo Pasolini
© Lo Sguardo - rivista di filosofia
N. 19, 2015 (III) - Pier Paolo Pasolini: resistenze, dissidenze, ibridazioni
Articoli/9
Linguaggio e vita:
Pier Paolo Pasolini
Vinícius Nicastro Honesko
Articolo sottoposto a peer-review. Ricevuto il 20/08/2015. Accettato il 03/11/2015.
The present essay intents to investigate some relations between literature and life in Pier Paolo
Pasolini. From the reading of some of his texts – from the beginning of the forties until
the end of the sixties –, it presents how the dimension of mystery crosses the experience of
language made by Pasolini. It proposes that the discussions about mono- or multilingualism
in the Italian tradition are somehow in the center of this kind of experience intended by
Pasolini, although in Pasolini this is more than just an option between two choices: the
experience of language is as much an aesthetic as an ethical problem to the poet. It observes
that this kind of experience is the fundamental condition to fuse life and scripture in an
indiscernible amalgam. At last, it analyses – with the theoretical support of Giorgio Agamben,
Jacques Derrida, Maurice Blanchot among others – how the mystery of language survives
from Pasolini’s work about Pascoli (in the forties) until his texts about the cinematographic
language (in the sixties).
***
Nel piccolo documentario Pier Paolo Pasolini: cultura e società, diretto da
Carlo Di Carlo nel 1967, la figura di Pasolini è in ‘primo piano’. Il film comincia
nelle borgate romane: si vedono i bambini che giocano, le donne che lavorano,
i ragazzi di vita che fumano e ammazzano il tempo désouvrés, e le macerie al
margine della città eterna. Dopo un lungo primo piano su uno di questi giovani
– che insistentemente guarda la macchina da presa –, vediamo Pasolini a casa
sua, circondato dai suoi libri. Da questo punto in poi il documentario diventa
un monologo di Pasolini, e già le prime frasi del poeta fanno pensare a un
interessante rapporto letteratura/vita/azione: «La storia della mia vita è la storia
dei miei libri. I miei libri eccoli qua; quindi su questo divano c’è tutta la mia
vita, praticamente».
Pasolini fonde – o confonde – la propria vita con la vita dei suoi libri; in
altre parole, vita e letteratura (vita e scrittura) si trasformano in un amalgama
inseparabile che, però, appare nel documentario con l’immagine di Pasolini che
indica il divano pieno di libri e dice: «qui, su questo divano, c’è tutta la mia
vita». Questo distanziamento, cioè, un qualcuno che osserva la propria vita da
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fuori, affermando però, per ossimoro, di stare lì, ci rimanda a questioni da molto
tempo presenti nella tradizione italiana, soprattutto a tutto ciò che riguarda la
vita di un uomo di lettere – coloro che mettono la propria vita nella poesia, nella
letteratura. Il problema, tra l’altro, risale ancora di più indietro nel tempo, già
ai reconditi inizi della cosiddetta tradizione occidentale, cioè al momento in cui
Aristotele parla del «vivente che ha il linguaggio» (il zoon logon echon), in altri
termini, alla conquista della parola da parte del vivente uomo.
È noto come ciò ci sia stato tramandato senza beneficio d’inventario dalla
tradizione cristiana. Una rielaborazione di tale questione nel cuore dei dibattiti
ecclesiastici (la dottrina della Trinità, la dimora del Verbo nel Padre, insomma, il
nesso costitutivo tra parola e vita) prende come punto di partenza il prologo del
Vangelo di Giovanni, cioè il verbo che si fa carne – la vita che nasce nella parola
e da questa si fa intima. Questa tradizione rielaborata, per così dire, percorre una
lunga traiettoria (e eccede i limiti di questo testo). Tuttavia, qualche interessante
accenno deve essere introdotto perché si possa pensare la posizione pasoliniana
(qui, emblematicamente, presa a partire dall’intervista, ma che fa parte anche del
percorso intellettuale – e vitale – del poeta).
Fondamentale per le nostre analisi è il cambiamento interpretativo della
relazione parola/vita, nell’ambito della poesia, che i trovatori provenzali, influenzati
dai dibattiti teologici a quel punto già costituiti, provano. La retorica antica
segnava una distinzione tra ratio iudicanti (che, come correzione dei discorsi,
appunto, ha una lunga discendenza negli studi giuridici) e ratio inveniendi (la
tecnica che assicurava al poeta l’accesso alla parola, al luogo della parola – topos,
dunque, topica – e che, poi, diventa parte della mnemotecnica dell’oratore).
Quest’ultima, come arte poetica, subisce un cambiamento dalle discussioni sul
prologo del Vangelo di Giovanni e dei suoi riflessi nella teologia, soprattutto
dall’interpretazione agostiniana dell’inventio come un incontro con quello che si
cerca. Così come le descrizioni dei processi gnoseologici dei libri VIII a XV della
Trinità (in cui si cercano nell’anima dell’uomo analogie per comprendere il mistero
divino), la ratio inveniendi degli antichi, toccata da questa lettura agostiniana, è
mossa da un appetitus, in un incrocio tra amore (il desiderio proprio all’uomo),
parola e conoscenza. Questi sono i primi movimenti che faranno sì – nella nuova
esperienza poetica che comincia a prendere forza nel XII secolo – che la ratio
inveniendi classica diventi la razo di trobar. Su questo scrive Giorgio Agamben:
La nuova esperienza della parola, che è qui in questione, risale decisamente al di
là dell’inventio classica: i trovatori non vogliono rammentare argomenti già consegnati
a un topos, ma vogliono piuttosto far esperienza dell’evento stesso di linguaggio come
topos originale, che ha luogo in una indisvicinabile prossimità di amore, parola e
conoscenza. La razo, che sta a fondamento della poesia e ne costituisce quello che i
poeti chiamano il dettato (dictamen), non è, dunque, né un evento biografico né un
evento linguistico, ma, per così dire, una zona di indifferenza fra vissuto e poetato, un
“vivere la parola” come inesauribile esperienza amorosa. Amor è il nome che i trovatori
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danno a questa esperienza della dimora della parola nel principio e amore è, pertanto,
per essi, la razo de trobar per eccellenza1.
La questione della vita nella lingua, oppure, del vivere la parola come
esperienza amorosa, sembra essere il tono che guadagna netti contorni già da
Dante, per cui la vita può, in un certo senso, essere compresa come fabula (una
vita-nella-parola; o, come dice Eduardo Sterzi, per il caso di Dante, è «como
se ele, ao escrever seus poemas, escrevesse também a si mesmo como um ser a
um só tempo interno e externo ao poema»2). Il poeta prova, in un lavoro unico,
l’unità della propria vita con la parola; in altri termini, poiché il poeta risolve la
propria vita nel linguaggio, non c’è, per lui, scissione. Così, nell’apertura della
Vita Nuova Dante dice:
In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe
leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io
trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello, e se
non tutte, almeno la loro sentenzia3.
In un certo senso, nella Vita Nuova non è possibile decidere tra il vissuto e
il poetato, «tra il libro della memoria (in cui è scritta la rubrica Incipit vita nova)
e il libello della memoria, in cui il poeta trascrive ciò che il lettore leggerà»4. Non
si tratta, però, di una fusione dell’individuo psicosomatico con la sua parola
poetica (come in un idiosincratico modello romantico in cui la poesia sarebbe
ipsis literis e immediatamente biografia, cioè, sussumendo la poesia nella vita
dell’autore), né di una scrupolosa separazione tra vita e opera5, ma dell’esibizione
di un medio che è la lingua.
È certo che una tale prospettiva – mi riferisco allo Stilnovismo – di una
vita (umana) che si risolve nel linguaggio pare, in un certo senso, rovesciata nei
canoni biografici moderni. Tuttavia, l’affermazione di Pasolini nel film di Carlo
di Carlo punta in un’altra direzione: Pasolini sa che si costituisce come Pasolini
soltanto tramite il suo lanciarsi nel linguaggio (e non per caso tutto il suo percorso
di ‘semiologo’ degli anni Sessanta è relazionato con la ricerca costante di un
linguaggio della vita, una «lingua viva della realtà»). È fondamentale notare che
già all’inizio del suo itinerario come uomo di lettere la problematica della lingua
è al centro delle sue domande. Nella lettera al professor Carlo Calcaterra, con
la quale gli chiede di essere relatore della sua tesi di laurea, è possibile vedere un
Pasolini amante della tradizione dantesca e, chiaramente, anche un qualcuno che
vuole gettare la vita nel linguaggio (cioè, qualcuno che intende una vita etica).
G. Agamben, Categorie Italiane. Studi di poetica e di letteratura. Roma-Bari 2010, p. 76.
E. Sterzi, Dante: um poeta extremamente autobiográfico. Entrevista com Eduardo Sterzi com André
Dick. Disponibile in: www.ihuonline.unisinos.br/index.php?option=com_content&view=article&id=1941&secao=264. «Come se, scrivendo le sue poesie, scrivesse anche se stesso come un
essere al contempo interno ed esterno al poema».
3
Dante Alighieri, Vita Nuova, Milano 1952, p. 7.
4
G. Agamben, Categorie Italiane, cit., p. 80.
5
Ivi, pp. 87-88.
1
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Nella lettera, spiegando i motivi per cui ha perso la sua prima tesi (sulla pittura),
Pasolini illustra le ragioni del suo aver scelto Giovanni Pascoli per la nuova tesi:
Il Pascoli è un poeta a cui mi sento legato quasi da una fraternità umana, e,
per questo, benché non sempre accetti la sua risoluzione formale, e anzi, in qualche
periodo della mia vita l’abbia assai criticata, l’ho sempre letto e molto assimilato. La
sua lettura, insomma, ha avuto sempre per me un valore di studio della tecnica della
poesia, studio quasi privato e segreto, in cui tutte le mie facoltà critiche stavano all’erta
tese unicamente a cogliere gli affetti risolti in linguaggio, e a scartare quelli meramente
autobiografici. Cosa, del resto, che nel Pascoli è relativamente facile. Era perciò un
lavoro che io facevo leggermente, quasi con lietezza. Era quasi, per me, una facile
dimostrazione dei miei postulati. Ma alla base di tutto questo stava il “Fanciullino”, cioè
la poetica pascoliana, laddove si fa più chiara e quasi di una commovente modernità:
vi trovavo una straordinaria risoluzione, che non so fino a che punto sia giustificabile
criticamente, e cioè una specie di conciliazione dell’autonomia dell’arte (affermata con
tanto ardore dalla critica moderna), con una sua moralità umana che non esclude un
fine utilitario, o, comunque, quasi estraneo alla poesia. Mi riferisco soprattutto al passo:
“(La poesia) è quella che migliora e rigenera l’umanità, escludendone non di proposito
il male, ma naturalmente l’impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò
che la morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto”. E ancora in L’era
nuova: “Ricordo un punto sul quale si esercita la poesia: la infinta piccolezza nostra a
confronto della infinita grandezza e moltitudine degli astri […] Tuttavia […] quella
spaventevole proporzione non è ancora entrata nella nostra coscienza […] Perché, se
fosse entrata, se avesse pervaso il nostro essere cosciente, noi saremmo più buoni”. Così
mi spiegavo con grande chiarezza il passaggio pascoliano dall’autobiografia alla poesia,
e, con pari facilità, perdonavo al poeta tutta la sua zavorra umana, che tanto spesso
egli non era capace di contenere nel grembo segreto della memoria. E ritrovavo i suoi
risultati più umani appunto nella sua poesia più pura. Per tutto questo da molto tempo
volgevo nella mente l’idea non tanto di uno studio sul Pascoli, quanto di una scelta,
che fosse tutta mia e il più possibile giustificata criticamente, della poesia pascoliana. La
mia tesi, dunque, non vorrebbe essere altro che la giustificazione per una mia antologia
di quella lirica; e, poi, un commento alle poesie e ai luoghi scelti. Il mio titolo potrebbe
dunque essere Prolegomeni a un’antologia della lirica pascoliana. Le sembra accettabile?6
Pascoli, pertanto, è il punto di riferimento di una riflessione di un
giovane Pasolini angosciato dai confronti bellici, dall’allontanamento dal milieu
intellettuale che gli era fondamentale, dalla necessità viscerale di poetare, ma
anche da un Pasolini che, insieme a questo (un ossimoro, pertanto), godeva
le delizie della vita arcaica della campagna friulana, ritenendo che quegli anni
fossero i migliori della sua vita (La meglio gioventù) e che voleva riflettere
sull’autonomia dell’arte impossibile (cioè, connessa a una moralità, a una prassi,
insomma, a un’etica).
La decisione di fare un’antologia e un commento a Pascoli fu presa giusto
nel momento in cui Pasolini, a Casarsa, comincia a dedicarsi alla lingua friulana
(nello specifico, al casarsense). In quei giorni viene fondata l’Academiuta de lengua
furlana e inizia lo Stroligùt di cà da l’aga, nel quale sono pubblicate traduzioni
e poesie in dialetto friulano. È questo il momento in cui Pasolini arriva alla
P. P. Pasolini, Antologia della lirica pascoliana. Introduzione e commenti, Torino 1993, pp. 219220.
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questione (alla quale tornerà durante tutta la sua vita) che attraversa la tradizione
italiana dai tempi di Petrarca e Dante fino a quel momento, cioè il monolinguismo
o il plurilinguismo nella produzione poetica. La preoccupazione di Pasolini
nei confronti della lingua friulana risponde alle riflessioni sui problemi relativi
alla differenza linguistica che, in accento dantesco, nelle parole di Agamben,
«corrispond[ono] all’opposizione non solo e non tanto fra due lingue, quanto fra
due diverse esperienze del linguaggio, che Dante chiama lingua materna e lingua
grammatica»7. Così, nel manifesto inaugurale dell’Academiuta, pubblicato nello
Stroligùt (che, come marca di un nuovo inizio, perde la designazione di cà da
l’aga – riferentesi al Tagliamento che divide il Friuli, demarcando un oriente –
Udine – e un occidente – in questo caso, Casarsa), si può leggere:
La nostra lingua poetica è il Friulano occidentale, finora unicamente parlato;
(…) Nel nostro Friulano noi troviamo una vivezza, e una nudità, e una cristianità
che possono riscattarlo dalla sua sconfortante preistoria poetica. Alle nostre fantasie
letterarie è tuttavia necessaria una tradizione non unicamente orale. (…) La nostra
vera tradizione, dunque, andremo a cercarla là dove la storia sconsolante del Friuli l’ha
disseccata, cioè il Trecento. Quivi troveremo poco friulano, ma tutta una tradizione
romanza, donde doveva nascere quella friulana, e che invece è rimasta sterile. Infine,
la tradizione che naturalmente dovremo proseguire si trova nell’odierna letteratura
francese ed italiana, che pare giunta ad un punto di estrema consumazione di quelle
lingue; mentre la nostra può ancora contare su tutta la sua rustica e cristiana purezza.
Così la nostra estetica non si chiude in se stessa, essendo un’estetica del cuore, non del
cervello, e perciò configurerà a sé quanto si troverà intorno8.
L’incontro con la lingua, un’esperienza di un linguaggio che, più di
un’istituzione (lingua ufficiale), può portare a un contatto con una «parola
assolutamente primordiale e immediata (…), anteriore non solo a ogni altro
linguaggio, ma anche a ogni scienza e a ogni sapere, dei quali costituisce la
condizione necessaria»9. Così come questa maniera di entrare in contatto con
il volgare rappresentato in Dante, anche il friulano, nelle esperienze dei giovani
dell’Academiuta, sarebbe il punto dell’esperienza primordiale della parola. Nel
1948, rispondendo a un articolo di Bernardino Virgili sulla questione della
‘salvazione’ della lingua friulana, Pasolini elabora il problema in questi termini:
Il buon friulano che per avventura segua questa piccola discussione (che
concerne peraltro la “salvezza” della sua lingua) deve tener presente anzitutto che oltre
alla ormai lampante distinzione di “lingua parlata” e “lingua scritta” esiste un’ulteriore,
più essenziale distinzione tra lingua letterale come inventum e lingua come inventio.
La prima è la lingua istituzionale, quella di cui non solo si servono comunemente i
parlanti (i quali spesso vi pongono come reagente un cuore molto personale e quindi
inventivo) ma in specie gli scriventi comuni, cioè non poeti, la seconda è la lingua
anti-costituzionale, adoperata, come abbiamo visto, sia dai parlanti in una colorita e
dinamica contaminazione con gli istituti (di qui l’evoluzione della lingua), sia dagli
G. Agamben, Categorie Italiane, cit., p. 54.
P. P. Pasolini, Academiuta di lenga furlana, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W.
Siti e S. De Laude, vol. I., Milano 2008, pp. 74-75.
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G. Agamben, Categorie Italiane, cit., p. 54.
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scriventi-poeti. Questi ultimo sono coloro, che nel loro campo cioè nei limiti della
loro competenza umana, usando una lingua cercano di ridurre al minimo il materiale
fornito, e di far funzionare al massimo la loro fantasia inventrice. Stando cosi le cose,
ed è pacifico che stiano cosi anche se la semplificazione del problema è estrema, adesso
bisogna domandarsi se il Virgili nel suo articoletto (Il Mattino del Popolo, 19 ottobre
1948) fosse preoccupato della salvezza del friulano come istituto o del friulano come
atto poetico10.
Ovviamente, Pasolini allude al primato della lingua come atto poetico e fa
notare:
È evidente che si tratta di due problemi diversi che non si possono confondere se
non a danno della serietà della discussione. Nel primo caso (che a me, personalmente,
interessa in modo relativo) temo che sarebbe facile cadere nell’astrazione e nell’utopia:
le istituzioni linguistiche sono un fatto storico, che richiede necessità sociali, politiche
ed economiche a cui rispondere con aderenza vitale; mentre è chiaro che qui in Friuli
ormai da molti secoli quelle necessità non esistono e l’unica ragione per tenere in vita
un friulano come istituzione linguistica è sentimentale o letteraria, e non è certo una
ragione sufficiente. (...) Nel caso numero due, cioè che il Virgili volesse alludere a una
salvezza del friulano come atto poetico, allora il discorso sarebbe diverso, più lungo e
più appassionante. (...) L’amore per il Friuli non è in noi un sentimento “pratico”; la sua
gente, i suoi campi, le sue rogge, i grandi paesaggi nordici incoronati dall’alabastro dei
monti o bevuti dalle salmastre e muffite azzurrità dell’Adriatico, i suoi borghi allarmati
nel buio serale dalle campane, le sue abitudini e i suoi costumi patinati di commozioni
secolari, sono in noi “pura sentimentalità”, o, meglio ancora, “pura emozione”11.
La passione, il pathos, e l’emozione pasoliniane, così, hanno di mira una
lingua non immobile, immutabile (quella fissata in una grammatica, istituzionale),
ma una lingua viva, in movimento e che, perciò, fornisce l’esperienza di un limite;
per così dire, del suo limite liminare (poiché mai demarcabile), un’esperienza
della sua fine e della sua ripresa. Come fa notare Agamben per quel che concerne
Dante, è una lingua nella quale
la primordialità – che è davvero qualcosa come la dimora del logos nel principio
della teologia giovannea – è, dice Dante, “cagione d’amore generativa”, cioè fondamento
di quel “perfettissimo amore alla propria loquela” che è, per lui, così importante.
Tuttavia, per la sua stessa primordialità, proprio, cioè, perché coincide immediatamente
con l’illuminazione della mente da cui scaturisce la conoscenza e fa esperienza della
“ineffabilitade” che è in essa implicita, il volgare può solo seguire “uso” e non “arte”
ed è, perciò, necessariamente caduco e tutto immerso in un’incessante morte. Parlare
in volgare significa, anzi, proprio far esperienza di questa incessabile morte e rinascita
delle parole, che nessuna grammatica può completamente medicare12.
Le preoccupazioni e indagini che Pasolini si proponeva nel suo tempo
friulano sulle questioni linguistiche riflettono la scelta di Pascoli. Già le ragioni
della lettera a Calcaterra puntano ad un posizionamento che prende forza
P. P. Pasolini, Ragioni del friulano, in Id., Saggi sulla Letteratura e sull’Arte, cit., pp. 298-299.
Ivi, pp. 299-300.
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G. Agamben, Categorie Italiane, cit., p. 54.
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nel pensiero pasoliniano. Inoltre, c’è ancora una specie di rispecchiamento
di condizione: Pasolini vede in Pascoli – che era anche lui, possiamo dire, un
ricercatore delle condizioni linguistiche – un’inquietudine linguistica simile
a quella che avvertiva nel confronto tra l’italiano degli incontri bolognesi
(lingua del medio intellettuale) e il friulano (cioè l’arcaico e l’infantile nella
sua esperienza con la parola poetica). Nella sua tesi, Pasolini percepisce che
in Pascoli la coesistenza della tensione tra i poli linguistici è sottomessa a
un suo tentativo di inserire elementi vivi nella lingua fissa, grammaticale:
In Pascoli restano, ripeto, il culto e la nostalgia per la lingua italiana classica,
acutamente insopprimibile, a questa egli tende fin dalle sue prime esperienze stilistiche;
questa gli pare sempre, segretamente, il modello formale a cui l’ispirazione poetica di
un italiano debba adeguarsi. Ed eccomi quindi a una specie di definizione, al tema del
mio discorso sulla lingua poetica pascoliana: tutto il corso di questa è una continua
antinomia tra il gusto romantico per la lingua parlata, cioè romanza, e la nostalgia per
il discorso, la sintassi, la distanza, l’altezza della lingua classica13.
Negli anni in cui scriveva la sua tesi, Pasolini si sentiva vicino a una
concezione poetica la quale cercava una libertà stilistica (che sarebbe la nota
tipica di quello che Pasolini avrebbe chiamato, anni dopo, neo-sperimentalismo,
dominante negli anni Quaranta in Italia). Cioè, erano anche suoi i tentativi di
equilibrare l’antinomia che vedeva in Pascoli (anche se, in Pascoli, possiamo
vedere l’opzione per lo sperimentare come lingua poetica, nella dialettica lingua
viva/lingua morta, la lingua morta, mentre in Pasolini l’opzione è per la lingua
viva del mondo materno, il casarsense14). Dopo il trasferimento in Friuli, la
sua poetica viene fortemente segnata dalla tensione tra l’italiano e il friulano15.
Nonostante questo, la sua formazione letteraria – dalla lettura dei classici all’ultima
poesia – non è stata contraddetta. Pasolini voleva un’espressione di vitalità, come
dice diciotto anni dopo con Poesie a Casarsa, mentre discute pubblicamente
con Alberto Moravia: «Ora si sa che i poeti vagheggiano per i loro versi una
P. P. Pasolini, Antologia della lirica pascoliana, cit., p. 32.
Cfr. G. Santato, Pasolini fra Mito, Storia e Dopostoria, in «Studi Pasoliniani. Rivista internazionale», 1, 2007, Pisa-Roma 2007, p. 16.
15
È importante notare che nello «Stroligut di cà da l’Aga» di aprile 1944, Pasolini marcava già
delle differenze in quello che per lui sarebbe il significato dei termini dialetti, lingua e stile. Cfr.
P. P. Pasolini, Dialet, lenga e stil, in P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 64-67.
«Quando parlate, chiacchierate, gridate tra di voi, adoperate quel dialetto che avete imparato
da vostra madre, da vostro padre e dai vostri vecchi. E sono secoli che i bambini di questi posti
succhiano dal seno delle loro madri quel dialetto, e quando diventano uomini, glielo insegnano
anche loro ai propri figlioletti. [...] il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi,
è solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. [...] Se a qualcuno viene quella idea,
ed è buono a realizzarla, e altri che parlano quello stesso dialetto, lo seguono e lo imitano, e
così, un po’ alla volta, si ammucchia una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa “lingua”. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i
sentimenti più alti e segreti del cuore. [...] Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore
adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo “stile”. Quello stile è qualcosa di
interiore, nascosto, privato, e, soprattutto, individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco
né friulano, è di quel poeta e basta».
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lingua assai diversa da quella che normalmente si usa per esprimersi; una lingua
adoperata solo per pura poesia ed io ho trovato in questo linguaggio qualcosa
che era molto vicino alla natura, che permetteva di esprimersi con maggior
vitalità»16. E dieci anni dopo la conversazione con Moravia, Pasolini pensa ancora
nello stesso modo quando pubblica il volume Poesie dalla Garzanti di Milano,
come può vedersi nell’introduzione che scrive per la raccolta, intitolata Al lettore
nuovo. Quasi trent’anni dopo la tesi, pertanto, Pasolini parla così delle sue prime
esperienze:
Dal ’37 al ’42, ’43, vissi il grande periodo dell’ermetismo, studiando con Longhi
all’università, e vivendo ingenue relazioni letterarie coi miei coetanei che si interessavano
di queste cose: due di essi sono Francesco Leonetti e Roberto Roversi; ma benché
di qualche anno più vecchio era tra noi anche Francesco Arcangeli, e poi Alfonso
Gatto. Ero un ragazzino precocemente universitario; ma non vissi quell’esperienza da
apprendista soltanto, bensì da iniziato. Nel 1942, infatti, uscì a mie spese, presso la
Libreria Antiquaria del signor Landi, il mio primo volumetto di versi, Poesie a Casarsa:
avevo esattamente vent’anni; ma le poesie lì raccolte le avevo cominciate a scrivere circa
tre anni prima – a Casarsa, il paese di mia madre – dove si andava ogni estate nella
povera villeggiatura presso i parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci
permetteva ecc. Erano poesie in dialetto friulano: “l’hésitation prolongée entre le sens
et le son” aveva avuto un’apparente definitiva opzione per il suono, e la dilatazione
semantica operata dal suono si era spinta fino a trasferire i semantemi in un altro
dominio linguistico, donde ritornare gloriosamente indecifrabili17.
Il friulano che, in un certo senso, serviva come una continuazione
dell’esperienza degli ermetici, entra in via di collisione con l’italiano. E le
analisi su Pascoli si mostrano ora, nella stessa introduzione, come una specie di
autoanalisi:
Continuai a scrivere poesie friulane, ma cominciai a scriverne anche di analoghe
in italiano. Il friulano delle poesie adesso era diventato esattamente quello parlato a
Casarsa (...); mentre l’italiano, a causa del calco sul dialetto, aveva acquistato un’aria
romanza e ingenua. L’italiano letterario – il nuovo latino, che in quegli anni si chiamava,
attraverso gli ermetici, soprattutto Leopardi – continuava tuttavia a impormi la sua
tradizione elettiva e selettiva, a cui non si sfugge; dunque scrivevo versi (...) e tenevo
un giornale (...), che continuavano a seguire un ‘filone centrale’ iniziato da sempre
per privilegio (e destinato a non estinguersi mai), precedente a quelle poesie friulane
che dicevo, uscite nel ’42: le quali ultime erano dunque, rispetto alla produzione
ambiziosamente letteraria, quasi delle nugae, per l’appunto volgari. Solo che, nel caso
specifico, non so in che modo, ma certamente in qualche modo, io sapevo, pur forse
non dicendomelo, che erano proprio quelle nugae che contavano18.
Qui c’è qualcosa come una simmetria speculare con «il gusto romantico
per la lingua parlata, cioè romanza, e la nostalgia per il discorso, la sintassi, la
P. P. Pasolini, Moravia-Pasolini. Dialogo sul romanzo, in Id., Saggi sulla Letteratura e sull’arte,
cit., pp. 2746-2747.
17
P. P. Pasolini, Al lettore nuovo, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 2513-2514.
18
Ivi, p. 2515.
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distanza, l’altezza della lingua classica»19 che vedeva in Pascoli. E come forma di
manutenzione dell’hésitation prolongée entre son et sens (la quale, anche se decisa
in favore del son, portava le parole ad una gloria indecifrabile e che, pertanto, in
certo modo l’hésitation doveva restare), Pasolini non mantiene una distinzione
soltanto nella differenza tra i linguaggi (poesia X diario/giornale), ma la porta
anche all’interno della composizione poetica: comincia a scrivere in italiano.
È appunto in quest’epoca, nel 1943, che Pasolini inizia la scrittura dei
versi che anni dopo avrebbero fatto parte de L’usignolo della Chiesa Cattolica,
pubblicato soltanto nel 1958, nel quale la tensione in gioco tra il dialetto e
l’italiano è chiara. Infatti, alcuni testi del libro sono stati prima scritti in friulano
e in seguito tradotti in italiano da Pasolini, come dice lui stesso in una lettera,
del gennaio di 1944, a Luciano Serra20. La citazione di Valéry (indiretta, poiché
estratta dai Saggi di linguistica generale di Jakobson, che Pasolini leggeva all’epoca
della redazione dell’introduzione Al lettore nuovo) indica già un successivo
sviluppo nell’opera pasoliniana, cioè la sua preoccupazione per il linguaggio.
Infatti, nel 1970, mentre scriveva Al lettore nuovo, Pasolini era immerso negli
studi di linguistica e della sua applicazione al cinema: è il tempo di Empirismo
eretico, in cui Pasolini pensa il cinema come lingua scritta della realtà.
Negli anni Cinquanta, in un articolo21 pubblicato nel primo numero di
Officina (articolo incluso, anni dopo, in Passione e ideologia), Pasolini torna a
leggere Pascoli (è davvero importante ricordare che, negli anni di Officina, il
poeta aveva già scoperto il marxismo e, in un certo senso, dice di esserne curato
dalla tendenza all’isolamento interiore). Dopo aver mostrato le differenze tra i
presupposti del romanticismo/decadentismo francese e quelli del romanticismo/
decadentismo italiano, seguendo Gramsci, afferma che in Italia è avvenuta
Cfr. n. 14.
P. P. Pasolini, Lettere (1940-1954), a cura di N. Naldini, Torino 1986, pp. 188.
21
Cfr. P. P. Pasolini, Passione e ideologia, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp.998999. «Visto quasi a sé per l’eccesso di intimismo che la sua personalità poetica comporta, oppure visto in relazione a una storia stilistica complessa e generale (...), si è trascurato finora di
circostanziare esaurientemente il Pascoli in un ambiente culturale più immediato e specifico:
l’ambiente culturale, cioè, in cui egli si era formato e operava, e che del resto era forse molto
meno provinciale e in certo senso molto più europeo di quanto la posizione marginale e ritardataria di un Pascoli rispetto, appunto, al post-romanticismo europeo, possa far pensare. È vero
che, per ridurre questo quadro complesso a una sua particella esemplificativa, il Jeanroy poteva
ironizzare lecitamente (...) a proposito degli studiosi italiani di quello scorcio di secolo che, con
irrazionalismo romantico ritardatario e ritardatario rigore filologico, si accanivano su un surrettizio “problema delle origini”, cercando certificati d’italianità ai generi letterari e certificati di
benemerenza e precedenza all’italianità. Ed è vero quello che annota Gramsci in un appunto di
Letteratura e vita nazionale a proposito dell’attività culturale di quello stesso scorcio di secolo:
“Si può forse affermare che tutta la vita intellettuale italiana fino al 1900 (...), in quanto ha
tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (anche se non ci riesce sempre) prendere contatto con le masse popolari, è semplicemente un riflesso francese, che ha avuto origine dalla
rivoluzione del 1789: l’artificiosità di questa vita è nel fatto che in Italia essa non aveva avuto
le premesse storiche che invece erano state in Francia. Niente in Italia di simile alla rivoluzione
del 1789 e alle lotte che ne seguirono; tuttavia in Italia si ‘parlava’ come se tali premesse fossero
esistite...”. Sicché sono fin da quel tempo internamente in atto (per quella legge che Trockij
chiama, ci pare, dello sviluppo ritardato) quelle tendenze involutive di cui noi in questi ultimi
decenni abbiamo goduto i risultati».
19
20
291
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N. 19, 2015 (III) - Pier Paolo Pasolini: resistenze, dissidenze, ibridazioni
una specie di simulazione del modello francese nello sviluppo di queste idee
letterarie (una sorta di sviluppo tardivo); secondo Pasolini, è proprio in quel
periodo che si forma una classe dirigente in Italia, la quale porta i fondamenti
filologici all’interpretazione della storia letteraria italiana e questa congiuntura
sarebbe appunto all’origine necessaria per le ricerche di Pascoli (e si potrebbe
anche dire che, in Italia, la tendenza decadentista – cioè, cercare una lingua
inedita, un’esperienza interiore di apertura al mistero dell’esistenza – si prolunga
a posteriori in maniera ancora più tenace)22.
Proprio di questo Pasolini parla nel saggio del 1957 La libertà stilistica,
pubblicato in Officina:
Ora c’è stato un periodo di questa nostra storia in cui l’unica libertà rimasta
pareva essere la libertà stilistica: il che implicava passività sul fronte esterno e attività
sul fronte interno. Ma non poteva trattarsi che di una libertà illusoria, se, in realtà,
l’involuzione anti-democratica fascista era effetto della stessa decadenza dell’ideologia
borghese, liberale e romantica, che aveva portato all’involuzione letteraria di una
ricerca stilistica a sé, di un formalismo riempito solo della propria coscienza estetica.
L’elusività, tipica via di resistenza passiva alle coazioni della realtà, assumeva cosi le
forme dell’assolutezza stilistica, classicheggiante, per ipotassi, per grammaticalità
esasperata, “ordinante dall’alto”, fin nelle più esteriori e ormai convenzionali dilatazioni
semantiche; e lo stesso si può dire per le esperienze letterarie oppositrici, che, qui da
noi, fanno capo al Pascoli pre-grammaticale e realista di genere, il cui sforzo linguistico
era un allargamento lessicale meglio che un mutamento stilistico. Tuttavia questa serie
d’istituti, formatasi per partenogenesi nel primo Novecento, dotava chi iniziasse il suo
apprendistato fra il ’30 e il ’40 – e, in parte, tuttora – del senso di una estrema libertà
stilistica: una lingua fondamentalmente eletta e squisita, classicistica nella sostanza,
con le tangenti però della dilatazione semantica, del pastiche, della pre-grammaticalità
pseudo-realista. Ma erano audacie collaudate: e non c’era invenzione per quanto
scandalosa e abnorme che non fosse in realtà prevista. L’inventare, insomma, come
in ogni periodo di “fissazione”, era un momento individuato e diventato cosciente
di una sorta di specializzazione, che si mescolava ormai abitudinariamente alla stessa
ispirazione, che, a sua volta, aveva come oggetto immediato la poesia: la poesia pura.
Il salto fra tale lingua che era tutta aprioristicamente invenzione, “lingua per poesia”, e
la lingua strumentale, era incolmabile: perciò ne conseguiva una identificazione fra il
poetico e l’illogico, fra il poetico e l’assoluto: il poetare era un atto mistico, irrazionale
e squisito. Quindi, come in ogni comunione strettamente gergale, l’invenzione non
era mai un’innovazione: il desueto rientrava sempre e comunque nella norma. Lo
ripetiamo: in un simile tipo di lavoro, non si poteva non avere il senso, inebriante,
di essere estremamente liberi: quasi che non ci fosse fine alla catena delle invenzioni.
Era addirittura possibile inventare un intero sistema linguistico, una lingua privata
(secondo l’esempio di Mallarmé), trovandola magari fisicamente già pronta, e con
quale splendore, nel dialetto (secondo l’esempio, in nuce, del Pascoli)23.
In questo passo (della fine degli anni Cinquanta), nel ripercorrere il
proprio itinerario degli anni Quaranta, Pasolini percepisce quanto, in un gioco
di contraddizione, quella intimità fraterna con Pascoli, strettamente collegata al
problema linguistico e alla fine di un ciclo (degli studi universitari, del fascismo,
22
23
Cfr. G. Agamben, Categorie Italiane, cit., p. 61.
P. P. Pasolini, Passione e ideologia, cit., pp. 1231-1232.
292
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N. 19, 2015 (III) - Pier Paolo Pasolini: resistenze, dissidenze, ibridazioni
della guerra), dicesse rispetto anche alla posizione del poeta. Ma è ancora negli
anni in cui preparava l’antologia pascoliana che percepisce «molti dei problemi
interni alla crisi degli ultimi anni di università, con la fine del fascismo e di un
ambiguo sogno borghese: il bisogno imperioso di un ritorno al mondo delle
origini, il passaggio assiduo da un dialetto “artificiale” a una lingua distillata sui
classici, la coincidenza di solitudine e libertà interiore»24. Possiamo quindi leggere
nella sua tesi di laurea la riflessione su Pascoli quasi come un’autoriflessione:
La profondità della solitudine pascoliana che tiene il suo cuore sospeso in un
perpetuo intimo grido di stupore (e questo rientrare in sé stessi; questo esplorare fino
agli estremi limiti il deserto interiore, dal quale, volgendosi indietro, il mondo riappare
nella sua originaria e terribile oggettività – pulchritudo tam antiqua et tam nova! – è
un’esperienza tipicamente cristiana, e qui è il cristianesimo del Pascoli), la profondità
della sua solitudine interiore non corrispondeva nel poeta a un pari vigore intellettuale,
e quindi lo trascinava spesso verso una quasi fanciullesca “irresponsabilità”. Ma a questa
non rara irresponsabilità corrisponde pure di pari passo coll’approfondimento della
solitudine, del mistero, dell’infinito, che ormai gli riaffiorano in ogni oggetto esteso,
un approfondimento del mezzo espressivo. Questa cruda capacita tecnica, unendosi
talvolta a quella irresponsabilità, è origine della sproporzione fantastica che è nella
migliore poesia del Pascoli, la poesia appunto dei particolari estranei al corso del
pensiero, delle immagini vespertine. Così io vedo nel Pascoli non un passaggio dal
positivismo al misticismo (Galletti) ma, in un’accezione fantastica di questi termini, dal
misticismo al positivismo. La solitudine interiore, il continuo contatto con l’infinito, la
famigliarità con le cose invisibili, insomma l’evasione mistica (originaria nell’animo del
poeta) si dissolvono infine davanti a un fatto concreto, la scrittura. E, per un processo
naturale al mondo fisico, questa attività si deforma, e, pur non essendo che una necessità
particolare, per quanto essenziale, assorbe completamente il lavoro spirituale del poeta,
che si riduce a quella salutare concretezza25.
Nel tempo in cui le concezioni esistenzialiste erano chiaramente al centro
dei dibattiti con concetti come solitudine, libertà, dialettica tra finito e infinito,
Pasolini sente, anche se ancora senza piena coscienza di questi concetti, il deserto
interiore, e lo vede anche in Pascoli. Siamo alla fine della guerra. I tedeschi,
nell’ottobre del 1944, passano per Casarsa e Pasolini, insieme a sua madre
Susanna, decide di rifugiarsi a Versuta dove affitta una piccola casa nella quale
tenere i suoi libri. Lì, con la madre, comincia a insegnare ai figli dei contadini.
È questo anche il periodo in cui suo fratello Guido si unisce ai partigiani della
brigata Osoppo-Friuli in guerra contro i nazifascisti. In principio, a seguito della
sconfitta dell’Italia, la lotta è rivolta contro l’annessione del Friuli al Reich; però
poco dopo, nel febbraio del 1945, con la morte di Guido in un attacco “fratricida”
dei partigiani comunisti alleati delle truppe di Tito (che aveva anch’egli mire sul
Friuli), Pasolini passa a denunciare senza riserve i complici italiani della morte di
suo fratello e, nonostante il dolore della perdita, continua a insegnare.
Durante quell’anno continua il lavoro sulla tesi e le attività letterarie in
dialetto. A febbraio c’è la fondazione dell’Academiuta e ad agosto lo Stroligut
M. A. Bazzocchi, E. Raimondi, Una tesi di laurea e una città, in P. P. Pasolini, Antologia della
lirica Pascoliana, cit., p. XXIV.
25
P. P. Pasolini, Antologia della lirica Pascoliana, cit., pp. 61-62.
24
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N. 19, 2015 (III) - Pier Paolo Pasolini: resistenze, dissidenze, ibridazioni
di cà da l’aga si trasforma semplicemente in Stroligut, con pretese più alte. Il 26
novembre 1945 è approvata la sua tesi (l’Antologia) a Bologna e, una volta finito
il lavoro su Pascoli, Pasolini torna in Friuli, dove rimarrà – prima a Versuta, poi
a Casarsa – fino all’inizio del 1950 quando, il 28 gennaio, sempre insieme alla
madre, si trasferisce a Roma dopo l’accusa di abuso su un minorenne e atti osceni
in luogo pubblico. Sono questi gli anni della lettura di Gramsci, dell’affiliazione
al PCI, dei contatti epistolari più frequenti con Gianfranco Contini, Giorgio
Bassani, delle nuove amicizie (come quella con il pittore Giuseppe Zigaina) e
delle sempre più frequenti apparizioni del poeta sui media letterari italiani.
Ancora tra il 1945 e il 1946, però, Pasolini scrive un piccolo testo nitidamente
pascoliano, I nomi o il grido della rana greca. Il saggio, inedito fino al 1999
(quando viene pubblicato dalla casa editrice Arnoldo Mondadori), rivela delle
preoccupazioni fondamentali che, nonostante i cambiamenti nell’orientamento
dei suoi scritti (principalmente verso il marxismo durante gli anni Cinquanta),
sopravvivono alla sua produzione posteriore. Il testo riprende alcune parti della
tesi su Pascoli, anche se ora Pasolini pensa di più alla dimensione del suo lavoro
poetico. Riconosce una forza paradossale alla coscienza dell’infinito ed al mistero
interiore capace di trasfigurare il mondo esteriore in un lirismo soggettivo26. Le
riflessioni si concentrano sulla vita in quanto limite che la separa dall’infinito del
mondo:
L’infinità che noi sentiamo da ogni parte, ma più ancora in noi stessi, giunge
sempre fino ad un qualche limite sensibile. Giunge ad un limite dietro al quale
distendersi, tacere. Ed ogni corpo, cioè ogni cosa presente, è quel limite; chi avverte o
sente in sé quell’infinito, dentro l’esteso deserto che è la sua vita; chi si sente un limite
o un’ombra di quello spazio fuori delle consuete dimensioni, eppure sperimentabile
in ogni momento; non può vedervi una luce o un senso qualsiasi. Ma sentirsi preso,
se mai, da un orrore fondo e irreparabile, poiché qui non si tratta solo d’infinito, di
luce, che sono parole, o al massimo, estensioni, ma di un ignoto senza luogo, non
collocato, non esteso; di cui siamo limiti; di cui, però, siamo coscienti; e la coscienza
un altro limite; e dove questo limite si trovi, se non forse ai confini della nostra vita,
è indimostrabile; ma la nostra vita confina ad ogni istante, e mostra continuamente
una diversità assoluta tra dove siamo e dove non siamo. (...) Ma quell’istante ci dà il
senso della nostra origine immensa; ci fa riconoscere vita, non altro; vita che ha forma
animata e collocata in una particolare coscienza27.
Il problema aperto dalla dialettica finitudine/infinitudine si mostra adesso
come un diagramma linguistico, nel quale il grido di stupore nel deserto interiore
delle analisi su Pascoli ritorna – segnatamente sulla traccia dell’esclamazione
agostiniana pulchritudo tam antiqua et tam nova!, della ricerca di una bellezza
Cfr. su questo punto, M. A. Bazzocchi, E. Raimondi, Una tesi di laurea e una città cit., p.
XXIII: «Pasolini esplora gli aspetti di un “egoismo continuamente contraddicentesi con i risultati di una meditazione così feconda, così disinteressata”, e vi riconosce la forza paradossale che
potenzia una smisurata coscienza dell’infinito e del mistero interiori, e che trasfigura la realtà
esterna in un nuovo lirismo soggettivo».
27
P. P. Pasolini, I nomi o il grido della rana greca, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp.
193-194.
26
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del mondo esteriore che adesso viene cercata nell’interiorità – nelle domande sui
limiti che il linguaggio impone al poeta; un limite, per così dire, onto-teologico.
Continua Pasolini:
Ma chi provoca quell’istante di chiarezza inumana? Dicevo ogni cosa: luce, suono,
oggetto. E non ultima aggiungo adesso la parola, il tenue legame che ci unisce, uomini,
sopra la superficie di quel non essere che si stende da ogni parte intorno a noi, dentro il
quale il corpo non può, ma come?, dileguare coscientemente. E non parlo della parola
poetica condotta alla “quiete nella luce”, che è altra cosa; ma della parola umana, cosi
come si è originata in noi nei sensi, nell’ignoto e fulmineo meccanismo dell’intelletto.
“Al di là” è una locuzione usata comunemente per significare l’assenza alla vita presente,
allo stato sicuro. Ma se superiamo il lieve bagliore che al suono degli L ci vibra nei sensi,
e ci colora di un significato troppo consueto quelle sillabe, ecco, la vedremo rianimarsi
e assumere un senso assoluto, appunto in quel vivido suono o colore in cui consiste, e
che è il limite dell’infinito. Pulchritudo tam antiqua et tam nova! In realtà in che cosa
consiste propriamente la vita se non in un trovarsi “al di qua”? E si tratta ancora di
un confine; di un confine troppo facilmente varcabile perché uno dei due stati possa
parere davvero distinto dall’altro. L’AL DI LÀ non è in fondo alla vita, ma vicino a
noi in ogni momento. Vicino; ma dove? Il problema è stabilire la dimensione propria
di tale vicinanza. Ora, nella precisione terribile di quella locuzione ‘al di là’, consiste
la sua bellezza; la bellezza che sommuove in noi la rassegnazione, ci agita, ci porta a
quell’istante profetico. È un alone d’infinito che ci rende care le parole28.
La bellezza che circonda le parole, nella continuazione del testo, è vista nei
vocaboli greci che Pasolini legge e, ancora una volta, in un gesto di comparazione
tra una lingua alta e una lingua bassa – come in Dante il latino in opposizione al
volgare, come in Pascoli il greco e il latino (belle lingue pagane che incontrano
l’infinito nell’esteriorità) in contrapposizione alla lingua romanica (cristianizzata
e che apre l’infinito nell’interiore delle cose, dentro le parole stesse). «I nomi greci
hanno luce, i romanzi colore; i greci suono, i romanzi melodia; i greci perfetti, i
romanzi perplessi; i greci sereni, i romanzi annuvolati»29. Queste riflessioni sulla
parola scritta, il segno, e sul suo suono collocano Pasolini di fronte a un abisso,
a un infinito che pervade il linguaggio (come un alone circondante, nel caso del
greco e del latino, e come interiorità profonda, nella lingua romanica cristiana):
Spazi, abîmes: è l’infinito dei sensi, pagano; è l’unico che noi possiamo cogliere
senza sdoppiarci. (Ma come cristiani è un altro infinito quello che ci tormenta; e non
va al di là delle cose, ma è dentro di esse, è dentro di noi; e il limite non è una siepe,
ma si trova, ripeto, in quella dimensione paurosa che non sfugge ai mistici (...). E i
nomi greci, e i latini, non lo sottintendevano, quell’infinito inesteso, che in ogni nome
romanzo e cristiano s’apre inesprimibile30.
Pasolini tocca una dimensione per così dire mistica del linguaggio. E lo
fa quando percepisce in sé stesso, cristiano, un altro tipo di angoscia di fronte
all’infinito, Pulchritudo tam antiqua et tam nova!, che scopre nel proprio intimo.
Ivi, p. 194.
Ivi, p. 196.
30
Ibid.
28
29
295
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N. 19, 2015 (III) - Pier Paolo Pasolini: resistenze, dissidenze, ibridazioni
È questa una dimensione negativa, un abisso inafferrabile, che l’enunciazione
della parola promuove. L’analisi della grafia, del suono e del senso trasborda la
comprensione della lingua come langue e prova a pensare una dimensione della
parole (per utilizzare i termini di Benveniste). I pensieri di Pasolini – che iniziano
circoscrivendo la problematica della differenza di statuto tra lingua alta e bassa
in Pascoli e, dopo, si trovano di fronte ai problemi del plurilinguismo dialetto/
italiano nel suo quotidiano – arrivano a un punto molto vicino all’investigazione
della linguistica moderna, con la quale avrebbe preso contatto soltanto anni
dopo. Però, in questi giochi, c’è un altro spazio di linguaggio che Pasolini scopre
(oppure che, inavvertitamente, tocca).
Pasolini sente, ancora nel 1946, che le parole eccedono qualsiasi relazione
fondamentale tra significante e significato, presupposto del linguaggio
comunicazionale, ed esprimono qualcosa di inafferrabile, una dimensione
negativa, con la sua esistenza stessa. La valorizzazione delle parole è frutto di un
pensiero che oltrepassa la questione segno/significato e che in un certo modo
tocca il limite stesso del linguaggio. In questo senso, Agamben sostiene che
questa è «una sfera, per così dire, al di qua o al di là del suono, che non simbolizza
nulla, ma, semplicemente, indica un’intenzione di significato, cioè la voce nella
sua purezza originaria; indicazione che non ha il suo luogo né nel mero suono
né nel significato, ma, potremmo dire, nei puri grammata, nelle pure lettere»31.
È in questo senso che pensiamo la lettura sistematica e l’analisi delle lettere fatta
da Pasolini.
Negli stessi anni in cui Pasolini componeva tanto in dialetto come in
italiano nella sua idillica Casarsa, Maurice Blanchot scriveva La part du feu. Il
pensatore francese, come Pasolini, si ritira dalla scena della urbs però in modo
ancor più radicale poiché, differentemente dal poeta italiano, non tornerà mai
più alla città. In Le mystère dans les lettres, uno dei saggi che fanno parte del libro,
Blanchot parte dall’evidenza che il linguaggio è costituito da due elementi diversi
– «L’un matériel, souffle, son, image écrite ou tactile, et le second immateriéel,
pensée, signification, sentiment»32 – per proporre un’idea differente del linguaggio
letterario, un’idea che vada al fondo della dicotomia così da mettere in contatto i
due piani antagonisti (nella proposizione di Valéry «l’hésitation prolongée entre
le sens et le son») e, comunque, poter veder emergere il mistero del linguaggio,
il suo silenzio – che sarebbe il suo fondamento. Dopo alcune congetture sulle
analisi astratte del linguaggio, nelle quali il lettore lo decomporrebbe in due
elementi – giustamente i dati materiali (il soffio che diventa parola) e quelli
immateriali (il senso che diventa idea) – per cercare una relazione fra i due,
Blanchot tocca il limite di questa ricerca:
Les deux éléments qui n’étaient d’abord que des facteurs, isolées dans l’analyse, mais
n’existant pas à part dans la réalité, sont devenus à présent des parties autonomes du
langage: le souffle est mot, le sens idée. On a réalisé, sous forme de fragments réels
du discours, ce qui n’était encore des constituants abstraits de ce discours. Mais, à
31
32
G. Agamben, Categorie italiane, cit., p. 66.
M. Blanchot, La part du feu, Paris 1949, p. 50.
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partir du moment ou le côté matériel du langage devient une portion indépendante du
langage, comme l’est un mot, on comprend mieux que le passage de ce côté à l’autre
et, plus encore, son indifférence dans ce passage devient un scandale ou du moins assez
mystérieux et exactement le mystère même33.
Quello che è in gioco nelle analisi di Blanchot non è soltanto una
dimensione strutturale del linguaggio – e questo si può dire anche per Pasolini –,
ma la questione fondamentale del linguaggio letterario, dell’incontro con
una dimensione in cui il poeta (lo scrittore) si mette in gioco nel linguaggio e
sente il suono (materiale) e il senso (immateriale) sospesi e, in questo modo,
realizza la sua esperienza fondamentale del linguaggio, un’esperienza che eccede
una dimensione puramente estetica per accedere ad un piano etico. Continua
Blanchot:
Mais peut-être, effrayé par la voisinage du mystère, notre lecteur à présent éloignet-il trop vite. Peut-être oublie-t-il l’essentiel. Nous ne sommes pas à la recherche de
n’importe quel mystère, mais du mystère dans les Lettres, et non pas d’une description
quelconque du langage, mais de cette description que la littérature suppose. La
littérature n’est pas uniquement au repos, le langage définitivement fait, immobilisé et
mort, elle est plus que cela, car elle aspire au paradoxe d’une langue qui, en train de se
faire et comme naissant, voudrait par cela même être définitivement fait être parfaite.
Le langage de la littérature ne veut pas être distinct de la liberté de celui qui parle et,
en même temps, il veut avoir la force d’une parole impersonnelle, la subsistance d’une
langue qui se parle tout seule. Il est une chose, une nature, et la conscience qui ruine tout
cela34.
Il mistero sul quale Blanchot richiama l’attenzione, il mistero per
eccellenza, è il mistero del mondo, dell’esistenza di qualcosa, il mistero del senso
delle cose e che si dà soltanto attraverso il linguaggio e i nomi di ogni cosa.
Blanchot, che in questo momento pensa i limiti della letteratura, vede il mistero
del nominare le cose e non propriamente quello del dire le cose. È in questo
senso un problema connesso al limite, dietro al quale, ci dice Pasolini, possiamo
solo tacere. Insomma, il problema del limite sarebbe connesso al nominare le
cose, e quindi il nome delle cose (l’onoma dei greci) non sarebbe che un’evidenza.
E questo è ciò che si mostra nel linguaggio e che, così, espone le relazioni interne
al linguaggio come mistero.
Mais c’est à l’occasion de la parole que le mystère joue et c’est peut-être comme
une part de non-langage, comme la part qui dans le langage même serait toujours
étrangère au langage et sa contradiction et sa fin, mais c’est aussi à partir de cette fin que
le langage parle le mieux. Le mystère est moins dans ce nonlangage que dans le rapport
de la parole avec lui, rapport indéterminable, car c’est dans ce rapport que la parole
s’accomplit, et le non-langage, de son côté, n’apparaît jamais que comme un langage
simplement différé, c’est-à-dire tel que les mots doivent le d écrire pour nous le faire
33
34
Ivi, p. 61.
Ibid.
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© Lo Sguardo - rivista di filosofia
N. 19, 2015 (III) - Pier Paolo Pasolini: resistenze, dissidenze, ibridazioni
comprendre, mais tel qu’il ne peut être puisque ces mots mêmes ont besoin de lui pour
se fonder dans le rapport qui les constitue35.
Il mistero non è nella relazione tra il non-linguaggio (la presupposizione di
un vuoto per cui il linguaggio possa esserci) e la parola (questo calarsi misterico36);
infatti può essere letto come l’intrasponibilità degli elementi materiali e
immateriali del linguaggio, oppure della lingua nel discorso, o ancora come la
sospensione tra suono e senso che Pasolini riprende da Valéry.
Questa esperienza del linguaggio di Pasolini è diretta a un punto che non è
il fuori del linguaggio, ma la sua condizione stessa di possibilità. Durante i suoi
primi anni di poeta, tale esperienza si compie attraverso questo sprofondarsi nel
vuoto che, come un alone, è nelle parole. Ancora nell’aprile del 1946 (in un
piccolo testo pubblicato nello Stroligut), Pasolini pensa nuovamente il problema
di una volontà poetica a partire dalla quale sia possibile questa esperienza e, come
Blanchot, si avvicina al mistero, alla condizione presupponente del linguaggio.
In questo testo pensa ancora una volta al dialetto. Riferendosi a Pascoli, dice che
scrivere in friulano sarebbe un «fortunato mezzo per fissare ciò che i simbolisti
e i musicisti dell’Ottocento hanno tanto ricercato (anche il nostro Pascoli, per
quanto disordinatamente) cioè una “melodia infinita”, o il momento poetico in
cui ci è concessa un’evasione estetica in quell’infinito che si estende vicino a noi,
eppure “invinciblement cachê dans un secret impénétrable” (Pascal)»37.
La citazione di Pascal è segno delle letture del poeta in statu nascenti Pasolini,
decisive per la sua composizione poetica. E da Pascal Pasolini riprende l’epigrafe
(«joie, joie, joie…») per la parte finale, Il non credo, di Il pianto della rosa, una
delle sezioni di L’usignolo della Chiesa Cattolica – composta anch’essa nel 1946.
Qui prende corpo il dramma iniziatico (il dramma misterioso) di Pasolini:
Voi non mi conquistate
con le gioie o i terrori
dei freschi silenzi
vostri, stelle invecchiate
E non mi trepidate,
gelide, nel fiore
dove impera un Ardore
dolce, la mia esistenza.
Ma con voi è lontano
(no, non piango, non rido)
in questo cielo il Dio
35
Ivi, p. 64.
Su questa dimensione del mistero Giorgio Agamben ha scritto un eccellente saggio. Cfr. G.
Agamben, La Ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore, Milano 2010 (in particolare, per la
questione del mistero vedi pp. 13-16).
37
P. P. Pasolini, Volontà poetica ed evoluzione della lingua, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte,
cit., p. 161.
36
298
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che io non so né amo38.
In questa poesia, chiamata Notturno (e che ancora una volta appartiene alla
costellazione mistica, la notte oscura, dalla quale il nome proviene), la distanza di
un dio freddo che vive nelle stelle si oppone alla dolcezza di un’esistenza che arde;
in un gioco di rottura dell’alto e di ingrandimento del basso (il cielo si appaga e
il corpo si accende, dando luogo ad un gioco del rovescio), Pasolini fa emergere
il dubbio di fronte al segreto impenetrabile – al quale faceva già riferimento la
citazione di Pascal nel testo dello Stroligut – per sentirlo nel proprio linguaggio,
nella composizione poetica stessa che, come la notte dell’estasi di Pascal, proviene
da questa zona oscura di cui il poeta (l’iniziato) vuole fare esperienza.
Il canto dell’usignolo pasoliniano, l’uccello della notte che porta l’iniziato
alla ricerca della propria esperienza, ha in questo non credo il suo centro. Il pianto
della rosa è, così, il pianto per il non sapere intarsiato nella notte, il pianto per
l’agonia del poeta di fronte agli spazi – les abîmes – che per lui si aprono. È
in questo modo che si costruisce questa sezione – dalla poesia di apertura, Il
fresco sguardo, fino alla strofa finale Splendore, in cui l’epigrafe di Pascal diventa
l’epitaffio del non credo:
O gioia, gioia, gioia…
C’era ancora gioia
in quest’assurda notte
preparata per noi?39
La gioia dell’iniziato è, una volta iniziato, incerta per l’oscurità della notte
e il cammino del non credo – il quale comincia in Il fresco sguardo, passa per
Carne e cielo, per Notturno, per La sorgente, per Angelo impuro, per Himnus ad
noctornum – e finisce in questo splendore incerto e impenetrabile nell’assurdo
della notte (l’assurdo della vita/poesia, pertanto). Per il giovane Pasolini, alla fine
di un decennio di guerre e di perdite, l’esperienza della parola poetica, del farsi
poeta, accade sotto il segno di un’allegria che lo fa entrare nella notte oscura delle
parole, dell’infinito che circonda le parole. Sdraiato sul margine del Tagliamento,
Pasolini guarda il cielo oscuro e, cantando come un usignolo, vede disegnarsi
una mappa di piccole luci. Alcune di queste sono troppo lontane, però eterne,
e formano vere mappe immobili che già guidarono gli uomini del passato nei
suoi mondi – le costellazioni –, altre molto vicine che, intanto, fugacemente si
muovono e, illudendo il giovane nelle sue speranze, si accendono e spengono
in una danza incantevole e intermittente: le lucciole. In questa danza incerta
tra luci eterne e brillii effimeri, Pasolini immaginava le sue icone ispiratrici e
sentiva l’intossicazione dell’infinito come un grido di una rana greca o delle voci
P. P. Pasolini, L’Usignolo della Chiesa Cattolica, Milano 2004, p. 92. «Voi non mi conquistate
/ con le gioie o i terrori / dei freschi silenzi / vostri, stelle invecchiate. // E non mi trepidate, /
gelide, nel fiore / dove impera un Ardore / dolce, la mia esistenza. // Ma con voi è lontano /
(no, non piango, non rido) / in questo cielo il Dio / che io non so né amo».
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Ivi, p. 98. «O gioia, gioia, gioia... / C’era ancora gioia / in quest’assurda notte / preparata per
noi?»
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© Lo Sguardo - rivista di filosofia
N. 19, 2015 (III) - Pier Paolo Pasolini: resistenze, dissidenze, ibridazioni
che colmavano i suoi spazi interni (Pascoli, Pascal, Ungaretti, Montale, Dante),
lasciandolo attonito tra le lingue e la sua voce. Come il suo Pascoli, il giovane
Pasolini ha un’esperienza poetica in questa istanza liminare del linguaggio, giusto
perché, come avverte Jacques Derrida, « Il n’y a que du bord dans le langage...
C’est-à-dire de la référence. Du fait qu’il n’y ait jamais que de la référence,
une référence irréductible, on peut aussi bien conclure que le réfèrent – tout
sauf le nom — est ou n’est pas indispensable»40. Comunque, ritornando ai gridi
nelle parole, Pasolini tocca un punto in cui, come dice Agamben rispetto a Pascoli,
parlare, poetare, pensare può allora solo significare, in questa prospettiva: fare
esperienza della lettera come esperienza della morte della propria lingua e della propria
voce. Questo significa essere “uomo di lettere”, tanto seria ed estrema è, per Pascoli,
l’esperienza delle lettere. (...) Poeta della metafisica nell’epoca del suo tramonto, egli
compie fino all’estremo l’esperienza del mitologema originale di questa: il mitologema
della voce, della sua morte e della sua memoriale conservazione nella lettera41.
In questo senso, estrema è per Pasolini l’esperienza delle lettere – sia nelle
composizioni in italiano, sia in quelle in dialetto – poiché si tratta dell’esperienza
della sua stessa vita. Mentre sceglie la lingua materna – il dialetto – perviene
al limite indelimitabile dell’espressività poetica e lì, lasciando spazio alle
opposizioni42, rende la propria vita esperienza, gettandosi completamente nella
lingua ed esponendosi al mondo, realizzando così un viaggio iniziatico che però
non lo inizia a nessun mistero, se non all’ingresso stesso nella parola. E così, in
questo viaggio verso la parola, potrà dire dei suoi libri sul divano: «qui, su questo
divano, c’è tutta la mia vita».
Vinícius Nicastro Honesko, Università Federale del Paraná
* [email protected]
J. Derrida, Sauf le nom, Paris 1993, p. 64.
G. Agamben, Categorie Italiane, cit., p. 72.
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J. Derrida, Khôra, Paris 1993, p. 18: «comment penser ce qui, excédant la régularité du logos,
sa loi, sa généalogie naturelle ou légitime, n’appartient pourtant pas, stricto sensu, au mythos ?
Par-delà l’opposition arrêtée ou tard venue du logos et du mythos, comment penser la nécessité
de ce qui, donnant lieu à cette opposition comme à tant d’autres, semble parfois ne plus se
soumettre à la loi de cela même qu’elle situe ? Quoi de ce lieu ? Est-il nommable? et n’aurait-il
pas quelque rapport impossible à la possibilité de nommer? Y a-t-il là quelque chose à penser,
comme nous le disions si vite, et à penser selon la nécessité ?»
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