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do del lavoro
Mensile di informazione sul mon
a cura del CPI Ogliastra
Startup. Dall’idea al successo.
Non trovi un lavoro? Crealo, per te e per gli altri. Nessuno vuole scommettere su di te? Fallo tu
per primo, seguendo le tue intuizioni. Hai un’idea geniale? Coltivala e, se dimostra di valere davvero, mettila il prima possibile alla prova del mercato. Anche se non è ovviamente così facile bisogna
riconoscere che il fenomeno dell’imprenditoria innovativa oggi è realtà anche in Italia, ed è pure
in crescita. Secondo l’ultimo rapporto trimestrale di Infocamere, le aziende ad alto valore tecnologico, iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese, lo scorso fine settembre erano 6.363,
in aumento di 420 unità rispetto a giugno. Come diventare, allora, uno startupper? Come capire
se un’idea può funzionare? Come testarla? E dove si trovano i soldi per far crescere la propria creatura? Affidandosi a un business angel, a un fondo di venture capital oppure al crowdfunding? Sene
parla su “Startup. Sogna. Credici. Realizza” ( nella sezione Il libro del mese ). Dieci capitoli con
informazioni utili, storie, infografiche e le interviste ai founder di startup che oggi sono colossi
mondiali, da Airbnb a Candy Crush, da Blablacar a Yoox, da Lastminute.com a Uber. Eleonora
Chioda ( tra le autrici del libro ), che cosa accomuna le storie delle aziende che avete raccontato?
“Sono tutte ex startup, diventate imprese mondiali. Airbnb, Blablacar, ma anche le italiane Yoox e
Volagratis, dimostrano che un futuro esiste, ed è possibile. I loro inizi sono stati da manuale: rappresentavano in pieno quella che è la vera definizione di startup. Che è un’organizzazione temporanea in cerca di un business model ‘ripetibile, scalabile e profittevole’, per dirla con Steve Blank,
docente alla New York Univeristy e uno dei massimi esperti di startup al mondo. Infine sono storie belle, romantiche, di imprenditori partiti da zero che, attraverso mille difficoltà, ce l’hanno
fatta. Dimostrando che tutto è possibile, con l’impegno, la creatività, l’hard working. E il talento”.
Qual è il passaggio più difficile nel creare una startup? “La fase critica è quella che in gergo si chiama ‘execution’ ed è quella fase in cui si mette in pratica l’idea. L’88% degli imprenditori raggiunge
il successo mettendo in pratica in modo straordinario un’idea ordinaria. Durante l’execution ci si
gioca tutto. Le grandi storie della Silicon Valley lo dimostrano: Google non è stato il primo motore di ricerca ad essere inventato, così come Facebook non è stato il primo social network. Eppure
sono stati loro a emergere. Per la capacità dei loro founder di far crescere un’idea in modo velocissimo”. A che cosa bisogna stare attenti nel realizzare la propria idea? “In questa fase lo startupper
deve aumentare il numero dei clienti, prefiggersi degli obiettivi precisi e raggiungerli, assumere
persone, trovare nuovi investitori. E lo deve fare in uno spazio temporale ben definito: le idee
digitali hanno una scadenza. Perché prima o poi arriverà qualcun altro e cercherà di metterle in
pratica. Il neoimprenditore si trova di fronte a compiti molto complessi, come la gestione degli
investitori. Deve quindi sviluppare le cosiddette soft skills, ma deve essere anche bravo a produrre
numeri, le cosiddette metriche, e saperli leggere nel modo giusto”. Quale consiglio si sentirebbe di
dare a un giovane che vuole intraprendere questa avventura? “Paul Graham, fondatore di Y Combinator, l’acceleratore di startup più importante al mondo, ripete spesso agli startupper: ‘Qual è il
miglior modo per farsi venire un’idea per una startup? Non cercare di farsi venire un’idea per una
startup. Piuttosto, cercare un problema, meglio se è un problema che noi stessi abbiamo, come è
stato per i founder di Airbnb’. Perché è così importante lavorare intorno un nostro problema?
Perché ci garantisce che il problema esiste davvero: l’errore più comune di una startup è risolvere
problemi che nessuno ha”.E una volta che si individua il problema da risolvere? “Trovata l’idea,
devi fare un’analisi approfondita del settore e del mercato. Cerca subito chi vuole condividere con
te questa avventura, perché la startup è un lavoro di squadra, e il team è la prima cosa che gli investitori valutano quando sono di fronte a una startup. Comprendi bene le regole del gioco. Fare
una startup, farla bene, non è cosa da tutti. Ci vogliono competenze, sacrifici, passione, bisogna
investire il proprio tempo e il proprio denaro, soprattutto nella prima fase. È un’esperienza totalizzante ma che può dare grandi soddisfazioni. Come quella, chissà, di cambiare il mondo”.
Fonte:Rep.it
Anno IX Numero 2
19 Febbraio 2017
Sommario
Startup. Dall’idea al 1
successo.
Humor in ufficio? Non 2
sempre paga.
Sei mesi nella Silicon 2
Valley.
Digital skills, scono- 3
sciute per due italiani su tre.
CVCert: il curriculum 3
vitae certificato.
IA: le professioni a 4
rischio.
Il libro del mese.
4
Humor in ufficio? Non sempre paga.
Avere senso dell’umorismo è importante e fare una battuta divertente può essere un’opportunità per fare carriera e migliorare la
propria posizione in ufficio, ma per riuscirci bisogna davvero essere bravi. Lo rivela uno studio (“Risky business: when humour
increases and decreases status”) pubblicato sul “Journal of personality and social psychology” e realizzato da T. Bradford Bitterly e
Maurice E. Schweitzer della Wharton School con Alison Wood Brooks della Harvard Business School. Attraverso otto esperimenti i ricercatori hanno dimostrato che lo humour può influenzare la carriera, ma anche che il suo uso può essere rischioso. La
relazione tra l’uso dello humour e lo status è mediata dalla percezione della sicurezza di sé e delle proprie competenze: fare battute di successo rivela fiducia in se stessi e capacità, e migliora quindi lo status di chi la fa, ma sebbene mostrarsi sicuri di sé aumenti status e potere, fare battute inappropriate è al contrario un segnale di scarsa capacità, così che l’effetto combinato di elevata
sicurezza di sé e bassa competenza può peggiorare il proprio status. Dick Costolo, l’ex amministratore delegato di Twitter, ha
iniziato la sua carriera nel cabaret di improvvisazione e attribuisce gran parte del suo successo negli affari all’uso della comicità.
La notte prima di diventare direttore operativo di Twitter, nel settembre 2009, Costolo ha twittato: “Domani primo giorno da
direttore operativo di Twitter. Primo compito: indebolire l’ad e consolidare il potere”. E un anno dopo è diventato a sua volta
amministratore delegato. I ricercatori hanno utilizzato l’esempio di Costolo per dimostrare che lo humour può contribuire a fare
carriera. Ma ricordano che può anche condurre a cadute clamorose. È quello che è accaduto a Justine Sacco, responsabile delle
relazioni pubbliche della Iac, azienda che si occupa di media e Internet. Nel 2013, prima di lasciare l’aeroporto londinese di Heathrow per raggiungere il Sudafrica, Sacco ha twittato: “Vado in Africa. Spero di non prendere l’Aids. Sto scherzando. Sono bianca!”. La sua (infelice) battuta ha provocato un’ondata di critiche mentre ancora era in volo, che le sono costate il posto di lavoro.
Negli otto esperimenti i ricercatori di Wharton School e Harvard Business School hanno indagato in che modo lo humour può
avere effetti sulla carriera, tenendo conto anche dell’appropriatezza delle battute e delle reazioni di chi ascolta. Per motivare la
loro ricerca hanno realizzato due studi pilota per identificare lo humour (fare battute, raccontare barzellette, ecc.) come un fenomeno comune nei luoghi di lavoro e per stabilire quanto sono divertenti e appropriate le battute utilizzate negli studi. “Gli studi
pilota hanno rivelato che ‘fare battute’ è un comportamento molto diffuso nei luoghi di lavoro”. Solo lo 0,5% dei partecipanti
non è stato in grado di ricordarne una e il 74% di chi lo ha fatto ha detto di aver sentito una battuta nell’ultimo mese. I risultati
degli esperimenti dimostrano una connessione tra l’uso dello humour e lo status. “La capacità di usare lo humour è una skill
sociale e manageriale importante che può dare benefici e dovrebbe giocare un ruolo nel modo in cui vengono selezionate, formate e promosse le persone – scrivono i ricercatori – Ma usare lo humour può essere rischioso soprattutto nelle relazioni nuove in
cui non c’è familiarità con gli altri, il consiglio quindi è di usarlo con cautela”. Fonte: Rep.it
Sei mesi nella Silicon Valley. Borse di studio per under 35.
Dalle biotecnologie al design industriale, dall'intrattenimento alle tecnologie per la protezione ambientale e la produzione energetica. Dall'arte e la moda fino all'ingegneria aerospaziale e dei nuovi materiali e alle tecnologie delle comunicazioni. Questi sono
solo alcuni degli ambiti di studio e di lavoro con cui si cimenterà chi riuscirà a aggiudicarsi una delle borse di studio del programma Best, ovvero Business exchange and student training, l'iniziativa promossa e organizzata da Invitalia, l'agenzia nazionale
per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa, nell'ambito dei progetti della Commissione Fulbright. Tra le aule e le
imprese. La sfida arriva direttamente dalla Silicon Valley e è rivolta ai talenti italiani con un'età non superiore ai 35 anni che
abbiano nel cv almeno un titolo di laurea (anche triennale), una buona conoscenza dell'inglese e potenziali qualità imprenditoriali. Le borse di studio, del valore ciascuna di 35 mila euro, prevedono la possibilità di seguire un corso intensivo in entrepreneurship e managerment alla Santa Clara University e in seguito tre mesi di stage presso una delle imprese attive nella Silicon Valley.
Il programma inizierà nei giorni compresi tra agosto e settembre 2017. In particolare, ciascuna borsa includerà la copertura delle
tasse universitarie, l'alloggio, l'assicurazione medica, le spese iniziali di insediamento, il programma di orientamento presso la
Santa Clara University, uno stipendio mensile di mille dollari e un rimborso forfettario di mille e cinquecento euro per le spese
di viaggio di andata e ritorno e per il visto di ingresso negli Usa. La relazione e il progetto italiano. L'obiettivo è quello di fornire
ai giovani gli strumenti più avanzati per comprendere come funziona e come si gestisce un'impresa capace di stare alla frontiera
dei mercati e dell'innovazione. Una volta raccolti i saperi e le esperienze, i vincitori delle borse di studio rientrati in Italia, oltre a
produrre una relazione sulle attività svolte negli Stati Uniti, potranno fare richiesta per partecipare al programma di affiancamento e avviare una propria attività. Le candidature. La domanda per partecipare dovrà essere inviata entro il 30 marzo 2017 all'indirizzo di email [email protected]. I candidati dovranno utilizzare i moduli dell'application Best 2017-2018 () che prevedono quattro documenti, di cui uno in italiano e tre in inglese, ovvero: i dati personali del candidato, l'entrepreneurial project, specific
evidence e personal statement. Sarà poi un comitato di selezione designato dalla Commissione Fulbright a individuare i candidati a cui assegnare le borse attraverso un'analisi dei documenti parte della candidatura e attraverso dei colloqui che avverranno nel
mese di maggio 2017.
Fonte: Rep.it
Anno IX Numero 2
Pagina 2
Digital skills, sconosciute per due italiani su tre.
I lavoratori italiani considerano la digitalizzazione un elemento fondamentale per il successo dell’azienda in cui sono impiegati
e le competenze digitali indispensabili per restare competitivi nel mercato del lavoro. Tuttavia, due terzi dei dipendenti si sentono scarsamente qualificati in questo campo per riuscire a garantire la propria occupabilità in futuro e soltanto un'impresa su
tre dispone di personale adeguato a sviluppare una strategia digitale. È la fotografia di un'Italia in ritardo per quanto riguarda
il digitale quella che emerge dal Randstad Workmonitor, che nel quarto trimestre del 2016 ha analizzato il grado di digital
awareness sul posto di lavoro. L'indagine sul mondo del lavoro del secondo operatore mondiale nei servizi per le risorse umane è stata condotta in 33 Paesi delle Americhe, dell'Europa e dell'area Asia-Pacifico, su un campione di 400 lavoratori per ogni
nazione di età compresa fra 18 e 65 anni che lavorino almeno 24 ore alla settimana. ''Dai risultati della ricerca - commenta
Marco Ceresa, amministratore delegato di Randstad Italia -, le imprese italiane appaiono ancora poco preparate alla sfida digitale. Ben il 67% dei lavoratori infatti sente il bisogno di accrescere le proprie competenze, un dato che denuncia la necessità
di formazione, accompagnata ovviamente dalla disponibilità di strumenti e infrastrutture digitali, per evitare che il nostro
sistema economico perda competitività di fronte alle sfide del futuro, che saranno in gran parte nel campo digitale. La digitalizzazione va “agita” anche dalle aziende per potere offrire servizi e strumenti sempre più innovativi ed efficaci". Secondo la
ricerca, il 90% degli italiani ritiene che tutte le imprese dovrebbero dotarsi di una strategia digitale. In generale, i più convinti
appaiono i Paesi latino-americani con una media del 94%, seguiti da quelli asiatici e in coda quelli europei, con una media
dell’80%. Con l'eccezione però dei Paesi del Sud Europa - tra cui appunto Italia ma anche Portogallo, Grecia e Spagna - che
appaiono invece decisamente convinti dell'opportunità di una strategia digitale. Questa consapevolezza stride con il complessivo ritardo delle imprese italiane: solo il 57% dei lavoratori ritiene che la propria azienda abbia già adottato una strategia digitale, contro il 59% della media globale (ai primi posti India, Cina, Stati Uniti e Malesia, agli ultimi rispettivamente Argentina,
Giappone e Ungheria). Ma non è tutto: ben il 70% dei lavoratori italiani pensa che la sua azienda non disponga di personale
con le competenze adeguate ad avviare il percorso di digitalizzazione. Eppure, i dipendenti italiani guardano alla rivoluzione
digitale con un atteggiamento ambiguo, che mescola ottimismo e apprensione. Il 43% dei lavoratori è convinto che buona
parte delle proprie mansioni, quelle più ripetitive o le attività di routine, potrebbero essere automatizzate. E la maggioranza
guarda con fiducia ad una rivoluzione tecnologica nelle proprie mansioni: il 59% ritiene che l'automatizzazione consentirebbe
di aumentare la creatività. Ma due italiani su tre si dichiarano digitalmente impreparati. Il 67% dei lavoratori, infatti, ritiene
di dover migliorare le proprie competenze in ambito digital per continuare a essere un profilo spendibile nel mercato del lavoro. Fonte: Rep.it
CVCert: il curriculum vitae certificato.
Un’azienda cerca una figura professionale e mette un annuncio online. In poche ore riceve migliaia di curricula. Nell’80% dei
casi, non c’entrano nulla con la richiesta; nel 20% c’entrano qualcosa, ma solo circa la metà di essi è in linea con la ricerca.
Un altro dato: un recente sondaggio ha accertato che in media bisogna inviare 24 cv – cartacei o elettronici – per trovare lavoro. Moltiplicando questi 24 cv per i milioni di persone che cercano un lavoro, si avrà una prima stima del fenomeno: nel mercato fluttuano oltre 100 milioni di curricula all’anno. Per orientarsi in questo universo, Andrea Galdabino, esperto di risorse
umane, e Fabrizio Favini, consulente ed esperto di business development, hanno costruito CVCert, un portale che favorisce
l’incontro tra domanda e offerta di lavoro: “Moltissime aziende si lamentano perché non riescono a trovare il candidato ideale
– spiega Galdabino –. Ci mettono mesi per rintracciare la persona che potrebbe rivelarsi idonea, almeno stando a quanto
riportato nel cv. CVCert ribalta il paradigma dell’incontro tra domanda e offerta. In pratica, chiediamo ai candidati di farsi
trovare. E all’azienda viene garantita la professionalità che cerca”. Il rischio che l’enorme massa di cv che circola sul web possa
contenere informazioni poco attendibili è alto: infatti le banche-dati dei cv online sono organizzate in modo che chiunque
possa inserire una candidatura, spesso più candidature, e in modo totalmente libero e autoreferenziale, senza alcun riscontro
con la realtà dei fatti. Inoltre, essendo i cv redatti in assenza di uno standard, è pressoché impossibile effettuare ricerche secondo criteri omogenei. Per ogni candidato CVCert produce la certificazione del percorso lavorativo tramite l’interrogazione
della banca-dati dell’Inps: in pratica si trasformano i contributi nelle voci del curriculum. CVCert fornisce poi la garanzia degli studi e della formazione effettivamente acquisiti, ed effettua la classificazione delle esperienze professionali secondo la codifica Istat che funziona da matching-code tra domanda e offerta di lavoro. Per prima cosa il candidato accede al portale e si
registra. Secondo, paga 15 euro per avviare la richiesta di certificazione su base Inps. Terzo, il sistema CVCert interroga l’Inps
che costruisce il cv certificato e lo rispedisce a chi ne ha fatto richiesta in modo che lo possa controllare e verificare. Quarto, il
candidato completa il curriculum certificato qualificando le proprie soft skill. “Finalmente aziende e candidati parlano la stessa lingua. Per esempio, quando il candidato inserisce il proprio ruolo secondo la classificazione Istat, lo deve trovare nell’elenco messo a disposizione, non può scriverlo liberamente. Allo stesso modo, l’azienda che cerca il candidato, deve anch’essa
utilizzare la codifica Istat. Questo significa precisione nell’incontro tra domanda e offerta. Ogni ruolo lavorativo può essere
composto da più titoli professionali Istat: il candidato, così, può essere trovato dall’azienda per ciascuna delle competenze
possedute”. Le competenze trasversali, vale a dire quelle capacità che raggruppano le qualità individuali, soprattutto nel caso
di CVCert fanno la differenza. “La profilatura dell’aspetto comportamentale e attitudinale della persona è un grande aiuto
per il recruiter”. Nel portale c’è sia uno spazio libero per curare la propria presentazione, sia il test PDA International. Fonte:Rep.it
Anno IX Numero 2
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IA: le professioni a rischio.
Assicuratori, consulenti fiscali, autisti di tram e di metrò: sono questi i mestieri fatti da esseri umani più a rischio immediato di
scomparire, sostituiti dai robot ovvero dall’intelligenza artificiale, secondo un nuovo studio dell’università di Oxford. La ricerca
analizza i lavori ad alto, medio e basso rischio di essere rimpiazzati da macchine intelligenti, sulla base degli ultimi sviluppi nel campo dell’AI (Artificial Intelligence). L’intelligenza artificiale ha già preso il posto dell’intelligenza umana per tutta una serie di impieghi considerati di basso livello e di basso salario, in particolare nel campo dei centralini telefonici, delle operazioni bancarie e delle
catene di montaggio nelle fabbriche. Ma il prossimo passo, afferma l’indagine, potrebbe rendere obsoleti nel giro di un decennio il
30 per cento dei posti di lavoro anche in altri settori. Nel mirino ci sono per l’appunto categorie come le assicurazioni, i servizi di
analisi e consulenza fiscale e commerciale, i conducenti di mezzi di trasporto su rotaie come la metropolitana e i tram. La categoria
dei lavori a medio rischio di essere sostituiti dall’intelligenza artificiale, più avanti nel tempo, comprende servizi di medicina e infermieristica, consulenze legali, piloti di aereo e di bus. Mentre rimangono per il momento a basso rischio le professioni ad alta specializzazione, e alta remunerazione, in campo medico, scientifico, legale e ingegneristico. L’automazione del lavoro, ha avvertito il governatore della banca d’Inghilterra Mark Carney il mese scorso, minaccia il 40 per cento dei posti di lavoro nella prossima generazione. E un monito analogo è giunto nel dicembre 2016 dalla Casa Bianca, che citando uno studio dell’università di Harvard ha
previsto la scomparsa del 50 per cento delle attuali mansioni lavorative effettuate dagli esseri umani da qui al 2050. La rivoluzione
digitale abbinata all’intelligenza artificiale, commentano gli esperti, pone dunque interrogativi di lungo termine che rendono la
questione dell’immigrazione, causa della vittoria della Brexit nel referendum britannico del giugno scorso, come un problema temporaneo e marginale rispetto alla sfida molto più ampia lanciata al mondo del lavoro dal progresso tecnologico
Fonte: Rep.it
Il Libro del mese
Le nostre sedi:
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Orari di apertura al pubblico:
lunedì-venerdì 8.30 – 12.00
martedì e giovedì 15.30-17.00
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Orari di apertura al pubblico:
lunedì-venerdì 8.30 – 12.00
martedì e mercoledì 15.00-17.00
Startup. Sogna, credici, realizza.
Di E.Chioda, G.Donadio, L.Ingrosso, T.Tripepi
Ed. Hoepli
Come nasce l'idea di una startup? Come si conquista il
mercato? Dove si trovano i soldi? Business angel e venture capital? Il crowdfunding funziona? Che differenza
c'è tra incubatore e acceleratore? Cos'è l'open innovation? Come si fa un'exit? Andare all'estero: sì, no,
quando? E se poi fallisco? Il fenomeno delle startup,
nato nella Silicon Valley, è arrivato anche in Italia.
Giovani talenti, studenti illuminati, ingegneri, programmatori si inventano un'impresa innovativa. Hanno un sogno e sono disposti a tutto per realizzarlo.
Non sono mossi dalla logica del profitto, ma da quella
di cambiare il mondo. Sono i nuovi eroi. Questo libro
è una guida essenziale per chi vuole creare una startup.
Scritto da quattro giornalisti che ogni giorno si confrontano con questo ecosistema. 10 capitoli da leggere
tutti d'un fiato, con le interviste esclusive ai founder di
startup mondiali, da Airbnb a Candy Crush. 10 capitoli da sottolineare. 10 capitoli da conservare nel tempo per chi vuole farcela. E magari, chissà, cambiare il
mondo. Fonte:Ibs.it