2004 - edizione - Far finta di essere... GABER
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2004 - EDIZIONE IN FORMATO PDF A CURA DEL SITO “FAR FINTA DI ESSERE... GABER” 2004 - Edizione del libro in formato PDF a cura del sito “Far finta di essere... Gaber” iPDF: l’impag e n io iz d ’e ll e tore d ne Nota del cura è un’emulazio ro lib to s e u q ca di uta nazione grafi quindi manten ta ta s È . o e c a cart ione dei dell’originale rmato, scans o (f le ra e n e g le ntre il testo a l’impostazion e m ), e in g a p ero di ercapitoli e num in modo legg e rr o c s lo o it p ni ca sa dell’interno di og libraria a cau e n io iz d e ll’ a od mente divers nte. rattere differe a c n M.B. u i d o z l’utiliz AVVERTENZA IMPORTANTE: Questo libro di Michele Serra è ormai da tempo fuori catalogo. L’autorizzazione alla pubblicazione nell’ambito del sito www.giorgiogaber.org è stata gentilmente concessa dall’autore, che ne detiene i diritti, nell’agosto 2003. Si diffida pertanto dal farne copia per usi non autorizzati. Michele Serra Giorgio Gaber La canzone a teatro Il Saggiatore Collezione diretta da Guido Davico Bonino e Luca Formenton SERRA, Michele. Giorgio Gaber. La canzone a teatro. Milano, Il saggiatore, 1982. 94 p. 19 cm (Politeama, 2). 1. Gaber, Giorgio. 784 Scheda catalografica a cura dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Milano. © il Saggiatore, Milano 1982 Prima edizione: gennaio 1982 Delle canzoni riprodotte nel testo Le nostre serate e Una letta di limone sono edite da Ricordi; Al bar Casablanca, Chiedo scusa se parlo di Maria, Op op op, I reduci, La lesta, Corpo stupido, Un gesto naturale, Quello che perde i pezzi, Quando è moda è moda, Il cancro, Lo shampoo, Dilemma, L’illogica allegria, L’attesa, Anni affollati, 1981, Gildo, Sosia, Prima di ammazzare un uomo ce ne vuole sono edite da Carosello. Ringraziamo gli editori per il permesso di riproduzione gentilmente concessoci. Sommario p. 9 13 21 35 44 53 60 67 91 Introduzione Ripensando a Non arrossire La canzone a teatro Dal disco al palcoscenico Gaber-Luporini: Tre modi di cantare in versi Gaber e la musica I «filosofi ignoranti» L’illogica speranza Al termine del mondo La canzone a teatro a noi che siamo gli ultimi fedeli Introduzione «Chi è Giorgio Gaber e perché parla male di tutti?». Così, parafrasando un celebre film americano, l’Unità del 24 novembre ’ 78 titolava la mia recensione di Polli d’allevamento. Avevo già visto gli altri spettacoli di Gaber, ma era la prima volta che ne scrivevo: e fu un articolo piuttosto faticoso. Ero diviso tra l’ammirazione per la bravura dell’interprete, per la perfezione formale dello spettacolo, e la forte perplessità sui contenuti. «Parlare male di tutti» mi sembrava un esercizio troppo facile, troppo ovvio per un artista in possesso di mezzi espressivi così efficaci e così fuori dalla norma. E, sotto sotto, mi influenzava ancora il famigerato «cui prodest?» che portava – in tempi ormai remoti, per carità – i critici comunisti a confondere le ragioni di bandiera con le ragioni dell’arte. Mi seccava, insomma, che uno strumento così implacabile quale mi appariva Gaber sul palcoscenico non fosse al servizio di quella che ritenevo – e ritengo ancora – «la parte giusta». Avevo ragione e avevo torto. Ragione perché intuivo che la fase del rifiuto, dell’invettiva, dell’analisi negativa non poteva esaurire il potenziale artistico di Gaber, giunto ormai, con Polli d’allevamento, all’estrema codificazione scenica del suo gran rifiuto nei confronti dei miti degli anni Settanta. Torto perché un contenutismo pedestre influenzava il mio giudizio impedendomi di risolvere il mio rapporto con la scena nell’unico modo che consente di interpretare serenamente e correttamente uno spettacolo ed il suo interprete: partendo, cioè dalla struttura, dall’individuazione di un linguaggio e del modo di intenderlo. 10 Introduzione Ma l’errore non era solo mio: gli spettacoli di Gaber, infatti, sono stati quasi sempre interpretati a partire dal cosiddetto «messaggio», il temibile cancro che ha portato alla metastasi, negli anni Settanta, l’immaginario collettivo della sinistra. In questa chiave, il teatro di Gaber è stato visto come un’ininterrotta metafora dell’impotenza. Un uomo solo, pallido e vestito di blu, monologante e refrattario ai cori, nega sulla scena quanto gli altri affermano fuori dalle quinte. Un naufrago afasico nel mare dei discorsi, incapace di riconoscersi nel comune senso delle parole, nei gesti quotidiani, nelle idee che attraversano le nostre strade. Questa immagine abituale, pure abbastanza somigliante ai contenuti dell’arte di Gaber, impedisce di coglierne il significato più profondo e affascinante, appunto quello «formale». Solo mettendo a fuoco quest’ultimo – e cioè accostandosi al lavoro di Gaber come a una continua ricerca di un linguaggio autonomo, assoluto e soggettivo – si riesce a risolvere la contraddizione apparente tra la «positività» dell’attore Gaber e la «negatività» di quanto va affermando; a spiegare, in parole povere, la straordinaria facilità di comunicazione da parte di un interprete così «isolato» e ostile, l’enorme successo di una serie di spettacoli così imbarazzanti, decifrando uno dei discorsi artistici più originali di questi ultimi anni. Finiremo per accorgerci alla fine, che il contrasto tra impotenza dei contenuti e potenza della forma è un falso problema: nel teatro di Gaber l’impossibilità di muoversi e pensare in sintonia con «la società» è direttamente proporzionale alla necessità di esprimersi in modo rigorosamente autonomo, di ricercare una dimensione nella quale sia finalmente possibile «essere fedeli a se stessi». Questa dimensione è il palcoscenico. Non a caso, fuori dal palcoscenico, Gaber non ama parlare di se stesso; e non ama che si parli di lui. Quasi interamente sottratta all’eco riflessa dei mass-media, la sua storia di artista è interamente scritta nei suoi spettacoli: ed è a questo cosciente autoconfinarsi nel proprio lavoro che Gaber, da sempre, rimanda giornalisti, critici ed esegeti, negandosi alle interviste, dubitando Introduzione 11 delle dichiarazioni, diffidando delle conversazioni. E pentendosi per le rare occasioni in cui, sollecitato da amici o nemici, ha accettato di affidare alla penna degli altri qualche frammento di sé. Qualcuno ha voluto ravvisare nella meticolosa parsimonia con cui Gaber amministra le sue pubbliche relazioni un segno caratteriale, di aristocratica misantropia quando non di stizzoso narcisismo. Ma lo spinoso silenzio che, da dodici anni a questa parte, circonda il palcoscenico di Gaber, è parte integrante e condizione indispensabile del suo lavoro. L’uomo solo sulla scena chiede uno sfondo scuro, spento, che isola l’attore dal convulso panorama che lo circonda e lo riconosce unico responsabile di quanto avviene in teatro. Ogni parola spesa al di fuori della dimensione assoluta e veritiera della scena appare a Gaber come un’interferenza: «Non riesco mai a riconoscermi nelle parole che mi mettono in bocca». E all’opposto: «Il mio mestiere è il più bello del mondo perché mi consente di dire solo quello che penso veramente, senza intermediazioni di sorta». Allo stesso modo, in un catalogo di presentazione di una propria mostra di quadri, Sandro Luporini, coautore degli spettacoli di Gaber e suo fedele compagno di viaggio attraverso la lunga avventura teatrale, scrive: «Per chi si sottometta seriamente alla disciplina di un’arte, alla sua legge di linguaggio, la riserva del carattere puramente soggettivo della propria esperienza si dissolve. Ed ogni passo che egli compie all’interno della cosa (grazie ad una sensibilità estremamente soggettiva) può avere una forza oggettiva incomparabile». Questa ostinata ricerca di autonomia espressiva e di «unicità» e purezza della rappresentazione – in una società che tende a negare all’opera d’arte un valore esemplare e ad affidargliene uno rituale – è il cardine attorno al quale ruotano annidi lavoro; ed è – credo – la chiave per capire come possa essere accaduto che un «cantante», modificando profondamente e strutturalmente il proprio linguaggio, sia riuscito a ritagliarsi, con la sola forza delle sue capacità, uno spazio scenico così intenso e singolare, e sia arrivato – proprio facendo leva su una «sensibilità estre- 12 Introduzione mamente soggettiva» – a superare quella fase di tenace anoressia che tanto preoccupava i suoi critici. Chi ha già visto il suo nuovo spettacolo Anni affollati se ne sarà già accorto: dopo tanto assaggiare e tanto vomitare sotto i riflettori, dopo le disperate indigestioni di un’epoca onnivora e avvelenata dalle sofisticazioni, l’uomo pallido e vestito di blu ha ritrovato il bandolo di un’illogica speranza. Una speranza chiamata attore. Ripensando a Non arrossire Stadio di San Siro, ottobre ’81. Giorgio Gaber, seduto sulle gradinate, viene riconosciuto da molti. Lo indicano agli amici, qualcuno lo saluta e gli fa gli auguri. Un signore attempato, con la cordialità insieme pudorosa e familiare tipica dei vecchi milanesi, gli dice che sarebbe ora che si rimettesse a lavorare «alla televisione». Per lui, come per una grande fetta di pubblico popolare, Gaber è ancora il cantante-intrattenitore di tante trasmissioni degli anni Sessanta, quello di Porta Romana e del Cerutti Gino, quello che partecipava al Festival di Sanremo e a Canzonissima. Gaber è abituato a questo tipo di perorazioni-rimproveri: molto spesso il suo vecchio pubblico, quando lo incontra, lo tratta come un volto noto improvvisamente e inspiegabilmente scomparso dalla circolazione una diecina d’anni fa. Quello che gli è accaduto dal ’70 ad oggi sfugge al pubblico del sabato sera televisivo, che per larga parte, evidentemente, non è quello che affolla i teatri. Ma il cosiddetto «primo periodo» di Gaber, che fece di lui uno dei personaggi più popolari nel mondo dello spettacolo italiano, meriterebbe di essere ricordato un po’ meno frettolosamente di quanto si è soliti fare. Accanto all’immagine levigata e confidenziale del Gaber più facile, restano in mente, per esempio, alcune trasmissioni televisive «minori», semiclandestine, tutte in onda in orari stravaganti, che si distinguevano nettamente dal piattume della programmazione bernabeiana, e preludevano a ben altre fratture tra le nuove fasce di pubblico e la sconsolante ufficialità della RAI. Mi riferisco a Le nostre serate e al Canzoniere minimo; in particola- 14 La canzone a teatro re quest’ultimo programma, che aveva per principali animatori Gaber e Umberto Simonetta, attirò l’attenzione dei telespettatori meno assuefatti e conformisti. Vi comparivano Maria Monti, Margot Galante Garrone, Bruno Lauzi, Paolo Poli, Otello Profazio e altri artisti non allineati. Presentavano brani di musica popolare, canti sociali, canzoni comunque anomale rispetto alla produzione corrente. Nulla di esplicitamente politico, ma molto di provocatorio per un periodo in cui Celentano era considerato il massimo dell’anticonformismo e della trasgressione. Dalla collaborazione con Simonetta (che della Milano irrequieta e pensosa di quegli anni aveva tracciato un efficace bozzetto nel romanzo Tirar mattina) nacquero alcune canzoni già gravide di quello spirito introspettivo che, molti anni più tardi, contribuirà a spingere Gaber verso la dimensione più raccolta e più tesa del recital teatrale. L’esempio più tipico è senz’altro Le nostre serate, brano che non a caso diede il titolo alla trasmissione televisiva: Molti mi dicono: “sei fortunato tu che hai trovato un lavoro sicuro, bello, tranquillo, interessante e che ti rende decentemente”. Io penso alle nostre serate stupide e vuote ti passo a prendere... cosa facciamo? che film vediamo?… no, l’ho già visto... tutto previsto... Molti mi dicono: “non hai diritto di lamentarti, ti puoi permettere qualche parentesi, qualche evasione, tu che hai un lavoro di soddisfazione”. Io penso alle nostre serate stupide e vuote, vuoi bere qualcosa?... grazie ho già preso il caffè su in casa... che cosa vuoi?... niente... ti annoi?... Molti mi dicono: “ma cosa cerchi? Ripensando a «Non arrossire» 15 cosa pretendi, non fare il nevrotico, hai una ragazza che ti vuole bene, ti lascia libero, non ti fa scene”. Io penso alle nostre serate stupide e vuote, le nove e un quarto... due passi al centro, destinazione il solito bar... televisione... io penso alle nostre serate stupide e vuote io penso alle nostre serate stupide e vuote Ma anche a prescindere da queste prime manifestazioni di originalità e felicità espressiva, il Gaber degli inizi, anche quello più «andante», affonda le sue radici in un humus singolarmente fertile, troppo ricco di frutti (e non solo per Gaber) per non apparire, a distanza di anni, degno di un’analisi non meramente revivalistica o nostalgica: non si tratta di «happy days», ma di giorni importanti. Correva l’anno 1959 quando, intorno alla blasonatissima casa di edizioni musicali Ricordi, si raccolse un nucleo di giovani suonatori-cantanti i cui nomi, risentiti oggi, dicono moltissimo, ma allora non dicevano assolutamente niente: Gino Paoli, Sergio Endrigo, Luigi Tenco, Enzo Jannacci e Giorgio Gaberscik, allora poco meno che ventenne e fresco di studi di ragioneria al «Cattaneo». il giovane Nanni Ricordi, con incoscienza pari all’intuito, teneva questo drappello di illustri sconosciuti nella massima considerazione, e non si sa se per chiaroveggenza o perché allora fare un 45 giri costava pochissimo, decise di mettere su vinile le velleità musicali di quei carneadi. Erano i tempi eroici del rock’n’roll, quello pelvico e baldanzoso di Elvis Presley e quello laringico ed edulcorato di Pat Boone. Ma le rabbie metropolitane e l’uso didascalico-ossessivo dell’elettronica erano ancora di là da venire. Rock era sinonimo di anticonformismo e di irrequietezza, ma soprattutto era il simbolo della voglia di vivere di una generazione che ricordava troppo poco della guerra per sentirsi appagata dalla ricostruzione, e 16 La canzone a teatro cercava in altri miti la propria identità sociale. Per chi voleva «fare il cantante», insomma, il rock era una scelta istintiva, che segnalava automaticamente una volontà di novità, di movimento, di insofferenza per il vecchiume melodico-perbenista che dominava la scena della musica leggera italiana. E la piccola rivolta di costume, naturalmente, non risparmiava i «nomi d’arte», che riflettevano l’aspirazione americaneggiante del momento. Così Giorgio Gaberscik, dopo il primo, positivo provino alla Ricordi, si vide sottoporre da Giulio Rapetti, in arte Mogol, un bigliettino sul quale il Rapetti stesso aveva tracciato tre ipotetici pseudonimi per il futuro cantante: Joe Cavallo, Jimmy Nuvola e Rod Corda. Tutto un programma. Fortunatamente non se ne fece niente. Il giovane Giorgio, già allora dotato di senso del ridicolo, preferì dribblare l’inopportuna desinenza slava del suo cognome semplicemente elidendola: e fu, da allora, Giorgio Gaber. Un nome che, nemmeno due mesi dopo il provino, cominciava già a diventare famoso: il 45 giri Ciao ti dirò, un rock naturalmente, è il primo successo discografico di Gaber. L’anedottica del periodo, come è facile immaginare, è ricca e gustosa. E Gaber, che pure si dichiara nemico dell’aneddoto (inteso come metodo riduttivo e ammiccante per affrontare un argomento), rievoca gli episodi di quegli anni con grande ricchezza di particolari umorosi, soprattutto legati alle esibizioni dal vivo, nelle balere e nei locali in cui quella feconda leva di futuri intellettuali di massa sperimentava le proprie ambizioni al ritmo dei quattro quarti. Gaber era, in partenza, un chitarrista jazz. Aveva imparato a suonare la chitarra, prendendo anche diverse lezioni, durante la convalescenza da una lunga malattia, e il fratello Marcello (anch’egli appassionato strimpellatore) è pronto ancora adesso a giurare sulle sue capacità di emulare Franco Cerri. La chitarra, allora, non aveva il carisma che l’ondata cantautorale le ha fatto acquistare in anni più recenti, ma era già uno strumento dall’aura prestigiosa. E pure rimpiangendo le possibilità ben più vaste – Ripensando a «Non arrossire» 17 soprattutto in fase di composizione e armonizzazione – offerte dal pianoforte, Gaber é sempre rimasto legato allo strumento a sei corde, che ancora oggi è il veicolo attraverso il quale scopre e codifica le sue melodie. La copertina di uno dei suoi primi dischi, Geneviève, lo raffigura appunto in veste di chitarrista. I «titoli di testa» recitano: Giorgio Gaber e la sua Rolling Crew - Geneviève (slow rock), Desidero te (rock), Bambolina (rock moderato, con I Cavalieri), Rock della solitudine (rock moderato). La prima e l’ultima canzone portano la sua firma, la seconda è di LeoniBeretta, la terza di Gaber-Tenco. Ma non tutti i dischi avevano l’onore di una copertina «vera». il 45 giri, che proprio in quegli anni preparava il suo periodo di massimo splendore commerciale, era un prodotto estremamente andante, quasi sempre registrato in presa diretta e confezionato in carta da pacco. In questa veste, Giorgio Gaber e la sua Rolling Crew sfornarono Nairobi / Buona notte tesoro e Un po’ di luna / Oh bella bambina; Giorgio Gaber, la sua chitarra e I Cavalieri proponevano Priscilla / Rhum e juke-box / Venus / Dream big. E, dulcis in fundo, I due corsari Gaber e Jannacci, sempre con l’ausilio della non meglio identificata Rolling Crew incidevano Il cane e la stella e Una fetta di limone, antesignana, quest’ultima, dei recentissimi vezzi del cosiddetto rock demenziale: Signora, non ci siamo capiti signora, sta a sentir quel che ti dico: no, ai tuoi baci dico no no, al tuo amore dico no al tuo languido sorriso dico no, no, no! Non voglio i tuoi palazzi non voglio le ricchezze non voglio le carezze sei ricca ma sei racchia ma guardati allo specchio non vedi che sei vecchia dimmi che vuoi da me! 18 La canzone a teatro Ma visto che tu insisti nel farmi le proposte ti dirò qualcosa c’è che desidero da te: una fetta di limone, una fetta di limone una fetta di limone, una fetta di limone nel the Al di là di ogni considerazione (per altro non nuova) sulla provvidenziale sregolatezza di quegli anni, l’atmosfera del periodo non appare certo indicativa dei futuri sviluppi del giovane Gaber (e neppure di quelli dei Paoli, Jannacci e Tenco). Ma il senno di poi, considerando la ricchezza di forme espressive che prese avvio da quel composito coacervo di belle speranze, ci fa capire che la svagata «swinging Milano» dei due corsari e dei primi rock italiani fu la piccola incubatrice di una grande stagione musicale. L’incontro di Gaber, Jannacci e gli altri, se non assomiglia per nulla alla nascita di una «scuola» o di un «genere», testimonia l’improvviso formarsi di un “milieu” artistico dinamico e ambizioso che, sotto la crosta surrealista e casinara, nasconde un’ansia di novità destinata di lì a non molto a scombussolare l’impomatato ambiente della musica leggera di quel periodo. Quasi per osmosi, era inevitabile che quel gruppetto irrequieto di canzonettari finisse per entrare in contatto con la Milano più vivace, quella che frequentava il Derby e amava Dario Fo, allora maestro indiscusso di un modo di stare sulla scena anticonvenzionale e «esagerato», provocatorio e salutarmente fazioso; e per giunta interprete e autore, con l’ausilio di Fiorenzo Carpi e di altri partners, di svariate canzoni. Quella milanesità stranita e refrattaria ai trionfalismi del boom, cabarettara e lunatica, sinistrorsa più per indole che per convinzione, influenza la produzione di Gaber per tutti gli anni Sessanta, ma non arriva mai a determinarne con decisione l’immagine pubblica. Così, accanto a tipiche canzoni «alla Fo» (come il Goganga, scritta nel ’60 da Gaber e Maria Monti, o Il tic, di Walter Valdi) e alle classiche oleografie Introduzione 19 popolar-naviliche come Cerutti Gino, Porta Romana e Trani a gogò (scritte con Umberto Simonetta), si ricordano diversi prodotti di serie (Non arrossire, E allora dai, Torpedo blu). I contorni, in sostanza, sono quelli di un cantante di vasta popolarità e accessibilità che riusciva a conciliare nel suo repertorio brani di facile ascolto e pezzi più insoliti, canzoni «qualunque» e interpretazioni fortemente personalizzate, quasi tutte virate sulla satira e sul grottesco. Un’analisi puramente contenutistica del primo periodo, dunque, farebbe pensare a un artista dai connotati ambigui, a cavallo tra routine e moderata provocazione, tra successo e fuga dal banale. Ma anche in questo caso mi sembra che il contenutismo tragga in inganno: non a caso, di quel Gaber ormai lontano, si ricorda con più facilità l’interprete piuttosto che le singole canzoni, il personaggio piuttosto che il repertorio. Ripensando a Non arrossire, succede di identificare, prima che la canzone, il cantante. Il modo di scandire le parole, ironico e sinuoso, il profilo allungato, le movenze sornione, rendevano inconfondibili le interpretazioni di Gaber, voglio dire fisicamente inconfondibili, a prescindere dal peso specifico dei testi e delle melodie. Brani insignificanti sono entrati nel senso comune del pubblico proprio perché chi li cantava poteva far leva su una presenza scenica caratteristica e forte. Va aggiunto, poi, che allora i tempi erano decisamente prematuri (per un cantante di musica leggera) per porsi direttamente di fronte alla scelta tra impegno e consumo. A parte la sparuta e coraggiosa minoranza di artisti «militanti» che facevano capo al Nuovo Canzoniere Italiano, nessuno si sarebbe mai sognato di indossare i panni dell’interprete dichiaratamente politico. Ma, se anche un problema del genere si fosse posto con qualche anno di anticipo sul fatidico Sessantotto, è improbabile che Gaber si sarebbe sentito coinvolto dagli aspetti ideologici della questione (e ancora nel ’72, del resto, riafferma la sua incertezza titolando il suo recital Dialogo tra un impegnato e un non so); la sua scelta di campo, non a caso precedente alla stagione cantautorale del- 20 La canzone a teatro l’impegno generalizzato, è tanto radicale rispetto ai modi allora dominanti di fare spettacolo quanto interna ad una logica puramente espressiva, alla sua voglia, dopo dieci anni di televisione, balere, dancing, di compiere il grande salto, scegliendo il teatro come unica possibile via per dare libero sfogo alle proprie capacità-necessità di interprete. Non è paradossale, allora, dire che tra Non arrossire e Anni affollati esiste un filo rosso che ci aiuta, meglio di ogni capziosa discussione su una reale o presunta presa di coscienza di un artista nato «leggero» e divenuto «serio», a capire la profonda metamorfosi compiuta a partire dagli esordi teatrali con Il signor G. Questo filo rosso è la ricerca di fisicità che attraversa ventidue anni di lavoro: una ricerca che, faticosamente accennata durante il primo periodo, trova felice sbocco dal momento in cui Gaber riesce a individuare in una concreta presenza scenica, depurata da ogni filtro mass-mediale (dischi, radio, tivù), la ragione ultima del proprio lavoro. La canzone a teatro Nel ’68 Gaber è un cantante affermato. Fa centinaia di serate ogni anno, molta televisione, rilascia interviste. In una di queste (pubblicata il 13 ottobre sulla Gazzetta del popolo) il suo interlocutore gli chiede: «Non pensa che con un repertorio come il suo potrebbe affrontare il palcoscenico di un teatro, presentandosi con un recital?» Risponde: «Certo che ci penso. Tutti i cantanti ci pensano. Ma tutti hanno fifa. Occorre una seria preparazione professionale per affrontare due ore continuate il palcoscenico. E c’è da aggiungere che il pubblico, in Italia, non c’è molto abituato. Ne ho parlato con Dario Fo, con Romolo Valli, con Garinei e Giovannini, ma non se n’è fatto niente. Troppi rischi». L’anno dopo il Piccolo Teatro gli propone di fare un recital. «Ma io – racconta Gaber – rifiutai perché non mi sentivo pronto. Accettai, però, una proposta di Mina, che mi chiese di fare una lunga tournée con lei. E fu lì che cominciai a farmi le ossa in teatro, a entrare in un ordine di idee un po’ diverso e più ambizioso. Sapevo che la dimensione teatrale era quella che mi interessava di più, perché mi avrebbe consentito di avere un rapporto più diretto con il pubblico: già nelle balere, nei locali dove facevo le serate, mi accorgevo che comunicare con la gente era il mio mestiere. Si trattava, allora, di renderlo più esplicito, più stimolante: il disco, tra l’altro, mi sembrava fin da allora un veicolo di comodo, e non sono mai stato un maniaco dei suoni, uno di quelli che in sala d’incisione si divertono e si appassionano. Così decisi di buttarmi e feci mia la proposta del Piccolo. Progettai Il signor G attorno a una piccola trama, molto esile ma già una trama...». 22 La canzone a teatro L’idea-base dello spettacolo era questa: un uomo, dichiaratamente anonimo tanto per l’anagrafe quanto per la società, tenta di ripercorrere alcune delle tappe fondamentali della propria esistenza, dalla nascita alla morte, e di ragionarci sopra. In una breve apparizione televisiva (Studio uno, se non ricordo male) Gaber presenta alcune battute dello spettacolo, le cui canzoni sono legate l’una all’altra da brevi monologhi. Sarà l’ultima volta, fino alla primavera ’80, che accetterà di comparire sui teleschermi: e per un professionista che sulle apparizioni televisive fondava grande parte del proprio successo è facile immaginare che radicale cambiamento (e quanti rischi) abbia comportato una scelta di questo genere. La tournée, organizzata dal maestro Giorgio Casellato (amico di Gaber fin dai tempi lontani delle prime esibizioni dei dancing di Milano e dintorni e arrangiatore musicale di tutti i suoi primi spettacoli teatrali) parte in sordina; per la compagnia «Il signor G», che dal Piccolo ha avuto la prestigiosa tutela artistica ma nessun aiuto economico-produttivo, si tratta di addentrarsi in un continente inesplorato. Il prodotto è tale da spiazzare il vecchio pubblico di Gaber, che deve cercare di conquistarsi, faticosamente, un nuovo mercato. Il successo del Signor G, difatti, è qualitativo ma non quantitativo. I teatri sono semivuoti, ma alla fine gli applausi sono calorosi e il pubblico si passa la voce. Il finale di stagione (siamo ormai nella primavera ’71) è in crescendo, anche se nulla lascia ancora presagire il successo travolgente che accompagnerà Gaber per tutti gli anni Settanta. «Quando partimmo con Il signor G – spiega Gaber – gli aspetti economici e organizzativi della faccenda erano tutti da inventare. A quei tempi il cosiddetto “decentramento” non si sapeva nemmeno cosa fosse: i teatri erano pochi, abituati a una programmazione di solida routine e per niente inclini alla sperimentazione. A parte Dario Fo, che aveva intuito e favorito la nascita di un pubblico nuovo e diverso, il circuito teatrale era quanto di più ufficiale e istituzionale si possa immaginare». La canzone a teatro 23 Casellato si rivelò abilissimo nello scovare spazi teatrali insoliti, e il crescente afflusso di pubblico agli spettacoli di Gaber fu un segnale premonitore tutt’altro che irrilevante del lento ma irreversibile risveglio del circuito teatrale italiano, risveglio al quale Gaber, dal canto suo, ha dato un contributo non trascurabile: la prima volta che lo vidi sulla scena, per esempio, fu nel ’73 al vecchio «Dea» di Milano (l’attuale Ciak), uno scalcagnato e fatiscente cinemaccio che proprio grazie a Far finta di essere sani poté rivivere i «pienoni» dei bei tempi andati, dopo anni di abbandono e di fiaschi. Dopo Il signor G, Gaber porta in scena, nella stagione successiva, Storie vecchie e nuove del signor G, con una struttura analoga al precedente spettacolo: canzoni ancora largamente preponderanti sui monologhi e ancora un certo spazio per la riproposizione di non lontani successi televisivi, come Il tic di Walter Valdi. Molte delle canzoni sono state scritte in coppia con Sandro Luporini, ma la scaletta prevede anche pezzi composti con precedenti collaboratori. Il successo comincia ad assumere dimensioni tangibili, ma solo l’anno seguente (’72-’73), con il Dialogo tra un impegnato e un non so, inizia la lunga stagione del «tutto esaurito» che durerà, senza eccezioni di sorta fino ai giorni nostri, arrivando alla cifra complessiva di un milione e mezzo di spettatori. Al pubblico bastò poco più di un anno di rodaggio per appassionarsi a quella insolita forma di spettacolo musicale; e ancora una volta gli umori della platea precedettero di un bel pezzo quelli della critica, completamente spiazzata dall’imprevista piega presa dall’attività di Gaber. Nelle redazioni dai giornali, dapprincipio, si dedicò scarsissimo spazio a spettacoli che si supponevano semplici recitals di un cantante forse prossimo all’esaurimento del suo ciclo di popolarità. E in seguito, quando il fenomeno cominciava ad assumere le dimensioni di un clamoroso successo, si era incerti se «mandare da Gaber» il critico di musica leggera o quello teatrale, comunemente considerato di caratura e prestigio maggiore. 24 La canzone a teatro Musica o teatro che fosse, non era difficile accorgersi che ogni nuovo spettacolo di Gaber diventava un appuntamento atteso con interesse da larghi settori di pubblico: il cantante del Cerutti Gino era diventato un punto di riferimento privilegiato di centinaia di migliaia di persone. Era quella nuova, vastissima fascia di consumatori di cultura formatasi durante e dopo il Sessantotto: giovani, studenti, piccola intellettualità diffusa, militanti della sinistra storica e non ancora storica. Lo stesso pubblico che favori il boom dell’«Espresso», di «Panorama» e di «Rinascita» e stava preparando quello della «Repubblica», che divorava senza troppa disciplina ma con molta buona volontà la saggistica pocket e i narratori sudamericani, che si interessava di antipsichiatria e semiotica, che produceva e consumava bisogni originali e miti inediti. Nel ’73-’74 con Far finta di essere sani, il teatro-canzone di Gaber assume la sua fisionomia definitiva. Scelto come proprio unico partner Luporini (che per la prima volta esce dall’anonimato e firma a pieno titolo lo spettacolo), Gaber ha ormai determinato con precisione la specifica struttura scenica dei suoi lavori. I monologhi, in larghissima parte frutto della penna di Luporini, perdono la loro funzione di semplice raccordo tra i pezzi musicali e assumono una propria autonoma compiutezza, arrivando a bilanciare, come quantità e come rilievo drammatico, le parti cantate. L’orchestra (prima presente dietro le quinte) scompare per lasciare posto alle basi registrate; le luci – nel cui uso lo stesso Gaber diviene col tempo molto abile – determinano con sempre maggiore esattezza lo spazio scenico, e diventano uno degli elementi di spicco dello spettacolo. Nel ’74-’75 arriva Anche per oggi non si vola, la stagione successiva è il turno di Libertà obbligatoria, mentre nel ’78-’79, dopo un anno di pausa riempito da un recital senza titolo e privo di novità sostanziali, Polli d’allevamento chiude la serie di spettacoli degli anni Settanta. In tutto sono sette titoli, ciascuno dei quali contiene di volta in volta canzoni e monologhi nuovi ma anche la riproposizione La canzone a teatro 25 di quei frammenti degli spettacoli passati che i due autori ritengono ancora efficaci e complementari ai discorsi via via affrontati. Più che un unico tema dominante, ogni spettacolo ne contiene diversi e ricorrenti per tutto il ciclo teatrale; ma, volendo tracciare un sintetico diagramma, è possibile individuare in ogni singolo lavoro un leit-motiv, un argomento pregnante. Se Il signor G e Storie vecchie e nuove del signor G erano ancora largamente pervasi da tematiche esistenziali, intimiste, «alla francese», nel Dialogo tra un impegnato e un non so, a partire dal titolo, Gaber entra nel vivo del dibattito politico di quegli anni. Canzoni come Al bar Casablanca, Gli operai, I borghesi, La libertà e La presa del potere si impongono all’attenzione di un pubblico per il quale la parola «politica» è sinonimo di spasmodico interesse, di prese di posizione, di rabbia, di passione. Gaber e Luporini cominciano a far discutere: i loro interventi non sono mai univoci e in qualche modo «militanti», ma volutamente ambigui, contraddittori, provocatori, ironici; e tuttavia estremamente «interni» ai sommovimenti e alle speranze del periodo, inequivocabilmente «di parte» per la precisione dei riferimenti e del linguaggio. Tipica, in questo senso, è la celebre Al bar Casablanca, sapido sbertucciamento del manierismo gruppettaro. Al bar Casablanca seduti all’aperto una birra gelata guardiamo le donne guardiamo la gente che va in passeggiata. Con aria un po’ stanca camicia slacciata in mano un maglione parliamo parliamo di proletariato di rivoluzione. Al bar Casablanca con una Gauloise la Nikon, gli occhiali e sopra una sedia 26 La canzone a teatro i titoli rossi dei nostri giornali blue-jeans scoloriti la barba sporcata da un po’ di gelato parliamo parliamo di rivoluzione di proletariato. [parlato] - L’importante è che l’operaio prenda coscienza. Per esempio, i comitati unitari di base... Guarda gli operai di Pavia e di Vigevano... non hanno mica permesso che la politica sindacale realizzasse i suoi obiettivi. Sono riusciti a prendere l’iniziativa. Non è che noi dobbiamo essere alla testa degli operai... Sono loro che devono fare. Loro... Noi... Al bar Casablanca seduti all’aperto la Nikon, gli occhiali e sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali blue-jeans scoloriti la barba sporcata da un po’ di gelato parliamo parliamo di rivoluzione di proletariato Nella stagione successiva, quando arriva Far finta di essere sani, Gaber è ormai considerato un compagno di strada da un vasto pubblico di sinistra, una coscienza critica e inquieta con cui confrontarsi, un autore «impegnato» nel senso più ricco e meno schematico del termine. Ma già da questo spettacolo, quasi interamente incentrato sul tema dell’alienazione e della follia e ma- La canzone a teatro 27 nifestamente ispirato dall’antipsichiatria di Laing e Cooper, Gaber e Luporini concentrano i loro sforzi sul cosiddetto «privato», considerato come il solo possibile tessuto connettivo del «politico»: e Far finta di essere sani, in questo senso, anticipa di un buon lustro quel profondo ripensamento dei rapporti tra individuo e società che proprio ai giorni nostri sta coinvolgendo l’intera sinistra. Canzoni come L’elastico, Un gesto naturale, Il narciso, Dall’altra parte del cancello, Un’emozione, denunciano la predilezione dei due autori per un’analisi rigorosamente «personalizzata» dei problemi che allora, appartenendo a molti, venivano prevalentemente affrontati in chiave rozzamente sociologica. Una canzone in particolare, Chiedo scusa se parlo di Maria, a risentirla oggi conserva intatta la sua carica innovativa: potrebbe benissimo essere il «manifesto» ideale per convegni come quello indotto in tempi recenti dal PCI sul tema «i sentimenti», che tanta perplessità sollevò presso gli arcigni militanti abituati a perorare pubblicamente le cause già perse privatamente. Chiedo scusa se parlo di Maria non nel senso di un discorso, quello che mi viene non vorrei che si trattasse di una cosa mia e nemmeno di un amore, non conviene. Quando dico parlare di Maria voglio dirvi una cosa che conosco bene certamente non è un tema appassionante in un mondo così pieno di tensione certamente siam vicini alla pazzia ma è più giusto che io vi parli di Maria, la libertà Maria, la rivoluzione Maria, il Vietnam la Cambogia Maria, la realtà. Non è facile parlare di Maria ci sono troppe cose che sembrano più importanti mi interesso di politica e di sociologia 28 La canzone a teatro per trovare gli strumenti e andare avanti mi interesso di qualsiasi ideologia ma mi è difficile parlare di Maria, la libertà Maria, la rivoluzione, Maria, il Vietnam la Cambogia Maria, la realtà. Se sapessi parlare di Maria se sapessi davvero capire la sua esistenza avrei capito esattamente la realtà la paura, la tensione, la violenza. Avrei capito il capitale e la borghesia ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria, la libertà Maria, la rivoluzione Maria, il Vietnam la Cambogia Maria, la realtà Far finta di essere sani l’aveva anticipato, Anche per oggi non si vola (’74-’75) lo conferma: proprio in concomitanza con la grande avanzata elettorale della sinistra, Gaber e Luporini prendono le distanze dalle speranze e dalle illusioni legate al rafforzamento delle forze politiche progressiste e si accingono a partire per quella sorta di «discesa agli inferi» che culminerà negli spettacoli successivi e troverà il suo «ultimo girone» nella canzone Io se fossi dio. I due autori iniziano a scomporre pezzo per pezzo l’«ottimismo della volontà» che ancora sospinge il loro pubblico, a scompaginare i discorsi fino all’afasia, a preferire un’angosciata ma genuina impotenza alla facile consolazione di «stare dalla parte della ragione». Puntano l’obiettivo, soprattutto, sulla frattura tra cultura-convinzioni e corpo-sensazioni, tra falsa coscienza e istinto: Anche per oggi non si vola. Una cassa enorme La canzone a teatro 29 che mi porto sulla schiena che mi schiaccia una cassa tutta piena di libri di oggetti accatastati di libri ingialliti di carta stampata ci ho una cassa sulle spalle che palle! Questo pacco di coscienza ingombrante c’è proprio tutto dalla logica alla scienza da Marcuse fino a Dante c’è anche Fellini com’è pesante! No, no, no! L’ingresso nella «fase del rifiuto» attira a Gaber l’accusa, in quei tempi frequentissima, di «qualunquista». Ma lui non se ne preoccupa affatto, e insiste. Due anni dopo – dopo una stagione di pausa occupata da un recital riassuntivo dei precedenti spettacoli – il discorso si precisa in Libertà obbligatoria, forse il più compiuto ed esplicito lavoro di Gaber e Luporini prima di Anni affollati. Libertà obbligatoria si apre con una canzone, I reduci, che suona come amaro e definitivo commiato dalla storica sconfitta del ’68: e i tempi cominciano a dare ragione al palcoscenico... E allora è venuta la voglia di rompere tutto le nostre famiglie, gli armadi, le chiese i notai i banchi di scuola, i parenti, le “centoventotto” trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi e tutto che saltava in aria e c’era un senso di vittoria come se tenesse conto del coraggio la storia. 30 La canzone a teatro E allora è venuto il momento di organizzarsi di avere una linea e di unirsi intorno a un’idea dalle scuole ai quartieri alle fabbriche, per confrontarsi decidere insieme la lotta in assemblea e tutto che sembrava pronto per fare la rivoluzione... ma era una tua immagine o soltanto una bella intenzione. E allora è venuto il momento dei lunghi discorsi ripartire da zero e occuparsi un momento di noi affrontare la crisi, parlare, parlare e sfogarsi e guardarsi di dentro per sapere chi sei e c’era l’orgoglio di capire e c’era la certezza di una svolta come se capire la crisi voglia dire che la crisi è risolta. E allora ti torna la voglia di fare un’azione ma ti sfugge la mano e si invischia ogni gesto che fai la sola certezza che resta è la tua confusione il vantaggio di avere coscienza di quello che sei ma il fatto di avere la coscienza che sei nella merda più totale è l’unica sostanziale differenza da un borghese normale. E allora ci siamo sentiti insicuri e stravolti come reduci laceri e stanchi, come inutili eroi con le bende perdute per strada e le fasce sui volti già a ventanni siam qui a raccontare ai nipoti che noi noi buttavamo tutto in aria e c’era un senso di vittoria come se tenesse conto del coraggio la storia Consumato il triste prologo (che resterà l’ultima significativa canzone direttamente politica scritta dai due), Gaber e Luporini La canzone a teatro 31 allargano il campo visivo, collegando la crisi contingente di una generazione al ben più vasto sfascio epocale di un Occidente sovraccarico di beni di consumo ma incapace di orientarsi e riconoscersi tra le troppe libertà (libertà obbligatorie) che è costretto a darsi per autoalimentare il proprio sistema di vita. Spettacolo «francofortese» per eccellenza – soprattutto in canzoni come Il cancro e Quando lo vedi anche – Libertà obbligatoria trova ancora posto per un po’ d’ironia sui partiti e sul sistema politico, ma ormai Gaber e Luporini hanno alzato decisamente il tiro e la cronaca appare come un bersaglio troppo ristretto; e l’anno successivo (’78-’79) la disperata rappresentazione di Polli d’allevamento mette a fuoco una situazione senza più vie d’uscita, un «punto di non ritorno» che condanna a una cupa e inebetita stasi non solo gli ex «compagni di strada», ma l’intera società. L’ambizione dei due autori, manifestamente, è ormai quella di sviluppare non più i singoli fotogrammi di un decennio, ma una sconsolante foto di gruppo della società del benessere, come nella canzone La festa: E poi mi sono alzato quasi bene con un’allegria molto cittadina con quegli strani struggimenti da domenica mattina l’odore del giornale è sempre un emozione non leggo le notizie, non ci ho la testa aspetto il pomeriggio con furore del resto anche aspettare fa parte della festa e questa allegria solitaria si espande alla gente alle cose si mescola all’aria. Sono proprio dei poeti gli uomini son proprio teneri e incantati non riesci più a strapparli alle loro speranze ci sono incollati. 32 La canzone a teatro Seduti in assolati ristoranti che hanno le terrazze proprio sopra il mare c’è come un’atmosfera più leggera che si aggiunge al gusto del mangiare oppure in una fiera felici come si ringiovanisce coi pesciolini rossi e con le solite montagne che non sono russe con i fuochi artificiali e le paste tutto ritorna fuori sono rutti di gioia le feste. Sono pieni di energia gli uomini sono proprio sani e scatenati non riesci più a strapparli alla loro allegria ci sono incollati. E poi c’è l’orgia delle discoteche dove ti butti e balli come un matto è irresistibile e persino chi non vuole si dimena e si dondola tutto la musica da ballo è l’unico linguaggio che riunisce il mondo c’è chi ci gode smisuratamente e c e chi si lamenta della vita sgambettando e oltre la notte si avverte il senso dell’aria senza note che è l’aria della morte. Son pieni di risorse gli uomini sono animali liberati Segue inserto fotografico La copertina di uno dei primi 45 giri di Giorgio Gaber / Gaber e Mina ai tempi della loro tournée: è il 1969. (Foto Roberto Bertolini) / Gaber in una delle sue ultime apparizioni alla RAI prima della sua definitiva scelta teatrale / Gaber (Foto Piccolo Teatro) / Gaber (Pitre Agency Photo Press) / Gaber (Foto Luigi Ciminaghi) / Gaber (Foto Luigi Ciminaghi) / Gaber (Foto Pancaldi) La canzone a teatro 33 non riesci più a strapparli alle loro emozioni ci sono incollati. E poi c’è il salariato del piacere che propma storie grasse e colorate un bel film con dentro tutti gli ingredienti che piacciono alle masse che stanno li inchiodate e si divoran tutto senza protestare gli si potrebbe dare in premio un bel barattolo di merda per duemila lire e senza esitare un momento sarebbero pronti a scannarsi per quel divertimento. Son proprio deficienti gli uomini ormai sono proprio devastati non riesci più a strapparli alla loro idiozia ci sono incollati Polli d’allevamento viene accolto da un’eccezionale interesse ma anche da furiose polemiche, soprattutto perché il distacco di Gaber dalla sua vecchia immagine di artista critico ma pur sempre di sinistra, che in canzoni come I reduci era ancora stemperato da un evidente legame affettivo con le speranze del Sessantotto, questa volta è espresso con appassionata brutalità in Quando è moda è moda, brano fischiato e contestato in parecchi teatri. Per i giornali e per il pubblico, Gaber è ormai diventato un interprete polemico, scorbutico, acre, e qualcuno comincia a sospettarlo di presunzione e di anticonformismo preconcetto. Nella primavera dell’80, stagione di pausa e di riflessione, Gaber registra al Lirico di Milano, per la televisione, Due retrospettive, esauriente riassunto dei suoi sette spettacoli. E i dirigenti RAI, che avevano promesso di dare ampio rilievo al suo ritorno sul video dopo dieci anni suonati, mandano in onda le quattro puntate della trasmissione a tarda sera, quasi clandestinamen- 34 La canzone a teatro te, dando un’ulteriore dimostrazione di abilità censoria. Gaber, che aveva accettato di mostrare il suo teatro in televisione solo dopo aver avuto assicurazione che il programma sarebbe stato trasmesso in prima serata, mastica amaro e si convince una volta di più che affidare il proprio lavoro agli altri è una scommessa troppo rischiosa. Dal disco al palcoscenico Gli anni Ottanta, dunque, trovano Gaber all’apice del suo successo teatrale, ma anche della sua fama di «cantore dell’impotenza». È proprio a questo punto, allora, che sarà bene riprendere e sviluppare il discorso accennato nell’introduzione a proposito della «potenza della forma»: ripercorrendo, cioè, molto in breve, lo stesso tragitto compiuto nel capitolo precedente (i dieci anni di attività teatrale di Gaber), ma questa volta a partire da un’analisi della struttura e del linguaggio dei suoi spettacoli. La struttura del Signor G assomiglia ancora a quella di un tradizionale recital di canzoni, ma presenta già, in nuce, tutte le principali caratteristiche che trasformeranno Gaber da cantante in uomo di teatro. In primo luogo il tentativo di dare all’insieme un filo conduttore, una logica consequenziale tra un brano e l’altro. Poi la «cucitura» tra alcune canzoni mediante un breve monologo non improvvisato, come usavano e usano ancora adesso molti cantanti di fronte al pubblico, ma «già scritto», una sorta di piccolo coro o commento che integri con la prosa i suggerimenti poetici del materiale cantato. Infine e soprattutto, il rilievo dato, a partire dal titolo (Il signor G, appunto), all’individuo che sta sulla scena, mediatore discreto ma cosciente di tutto quanto avviene in teatro; e l’identità tra titolo e firma della rappresentazione non fa che mettere l’accento sull’assunzione di responsabilità dichiarata dall’interprete: Giorgio Gaber racconta Giorgio Gaber. Forse lui non ne è completamente conscio, ma ha già posto le basi di una vera e propria rivoluzione del linguaggio della can- 36 La canzone a teatro zone. Con Il signor G la canzone comincia ad essere presa in considerazione non più come fine, ma come mezzo. Da adesso in avanti, Gaber non scriverà più canzoni, ma canzoni per il teatro, o meglio spettacoli teatrali fatti anche con canzoni appositamente concepite. La canzonetta moderna, oggi più che mai, è un prodotto rigidamente determinato dal suo supporto tecnico, cioè dal disco a 45 giri (o dal 33 giri con 4-5 canzoni per facciata). Questo comporta, di norma, che la durata e la fisionomia di ogni brano siano, per necessaria convenzione, fissate secondo uno schema preordinato piuttosto rigido: motivo-ritornello-motivo in successione alternata, fino a una durata massima di tre o quattro minuti. Naturalmente, soprattutto in tempi recenti, molti musicisti, soprattutto quelli legati alle nuove esperienze elettroniche, hanno voluto deformare, dissacrare questo modulo produttivo universalmente accettato; ma sempre a partire dal disco, gabbia di mercato mai messa in discussione se non per confermarne l’esistenza: caso esemplare, quello dei californiani Residents, che hanno voluto riempire i quaranta minuti di un disco a 33 giri con quaranta brani di un minuto ciascuno. Una trasgressione che non fa che riaffermare la «geometrica potenza» della tecnologia di consumo. Portando la canzone a teatro, Gaber spezza l’identità tra linguaggio del produttore e linguaggio del prodotto, e apre alla forma-canzone prospettive inedite, fino a creare, di fatto, un’altra cosa. Non essendo più concepite ai fini della propria riproducibilità tecnica su vinile, le canzoni di Gaber cominciano a plasmarsi attorno all’hic et nunc teatrale. In teatro i crescendo e le pause rispondono ad esigenze e a ritmi molto diversi. Si può cantare una strofa, interrompersi per parlare e poi riprendere il canto. Si può fare a meno del ritornello, o inserirne più di uno, o troncare la melodia a mezz’aria. E soprattutto il canto diviene strutturalmente legato alla musica, alle luci, alla recitazione. Nuove libertà e nuovi vincoli estranei alla sala d’incisione. Dal disco al palcoscenico 37 Quasi tutti i cantanti di musica leggera si esibiscono comunemente nei teatri. Ma non fanno altro che riproporre dal vivo la propria produzione discografica; al punto che, nella massima parte dei casi, quando un artista si presenta davanti a una platea si sente in dovere di eseguire per intero «l’ultimo 33 giri», prova concreta del perdurare della sua vena creativa. Incido, ergo sum. E l’esibizione dal vivo diventa così la mera documentazione di una professionalità acquisita altrove. Così è abitudine anche dei cantautori più anticonformisti programmare le proprie tournée in conseguenza dell’attività discografica: fare canzoni vuol dire produrre dischi. Anche gli interpreti – come quelli legati alla grande tradizione francese – che annettono ai concerti dal vivo un prestigio e un interesse certamente maggiori rispetto alle incisioni, non hanno mai pensato di forzare i vincoli formali dettati dal disco o di poterne addirittura prescindere: al punto che, quand’anche decidono di scrivere un brano da presentare prima in teatro che su disco, obbediscono inconsciamente alle leggi e agli stilemi compositivi creati dall’industria discografica in anni e anni di codificazione del proprio linguaggio. La trasgressione di Gaber, dunque, è strutturale. Mette in discussione i meccanismi produttivi elementari della muisica di massa. La logica è ribaltata, tanto è vero che dal Signor G in poi i suoi dischi sono semplici documentazioni del suo lavoro teatrale (con la sola eccezione di Pressione bassa, inciso lo scorso anno in un periodo di silenzio teatrale ma pur sempre formato da brani nati per un’utilizzazione scenica). Questa drastica scelta produttiva ha comportato, com’era ovvio, altrettanto drastiche conseguenze di mercato. Così, di fronte al milione e mezzo di spettatori collezionati in dieci anni (forse un record assoluto per un artista italiano) stanno le circa trentamila copie vendute per ogni disco, cifra dalle dieci alle quindici volte inferiore a quelle abitualmente raggiunte dai cantautori affermati. Ed è rarissimo ascoltare alla radio – con l’eccezione di qualche emittente non commerciale – i dischi di Gaber. A com- 38 La canzone a teatro pletare il quadro, un altro elemento: i libretti con i testi degli spettacoli, venduti all’ingrosso dei teatri, sono andati letteralmente a ruba (circa ventimila copie ciascuno); fatto che testimonia come l’interesse del pubblico di Gaber, come accade appunto a teatro, sia diretto al «copione» nel suo complesso e non più, come accade per gli spettacoli di musica leggera, alla riproposizione dei singoli successi. Ma i risvolti commerciali dell’operazione compiuta da Gaber non sono che il completamento di uno strutturale mutamento del rapporto tra l’artista e il pubblico: diversamente dai cantautori, distratti per la natura stessa del loro lavoro da una verifica concreta del loro «stare a sinistra» (o costretti, come De Gregori preso a sputi e schiaffoni dagli autonomi a Milano, a rinunciarci), Gaber è al riparo da molti degli equivoci ricorrenti in quegli anni; assente da radio e televisione, fa le sue affermazioni e le sue negazioni solo «in presa diretta», in teatro, filtrando ogni segnale attraverso la sua presenza fisica. Le enormi deformazioni dello specchio mass-mediale restano escluse dal palcoscenico, e il pubblico si sente sempre più coinvolto dalla concretissima fisicità degli spettacoli di Gaber. Il corpo dell’attore assorbe e concentra su di sé tutto il multiforme, dispersivo flusso di energia che alimenta le discussioni e i bla-bla di quegli anni: Un’idea, un concetto, un’idea finché resta un’idea è soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione Il ritornello di questa celebre canzone (inserita nel Dialogo e in Far finta di essere sani) può essere considerato una vera e propria dichiarazione di principio: non c’è argomento importante, non c’è interrogativo comune in quegli anni che non sia passato, nel teatro di Gaber, attraverso questa pubblica metabolizzazione, drammatizzata sul palcoscenico. È un ricondurre le cose alla loro dimensione corporea (teatrale, appunto), un contraddire la Dal disco al palcoscenico 39 progressiva espropriazione e ideologizzazione del sentire da parte di una «società dello spettacolo» dove tutto sembra ormai definito soprattutto in termini simbolici e indiretti. In pieno «villaggio elettronico», la scelta antropocentrica (anzi, antropomorfica) di Gaber colpisce nel segno: il pubblico gli riconosce tutto il coraggio di chi «rischia in prima persona», e insieme coglie l’importanza eversiva di un artista che, anziché rassegnarsi a «riflettere» i segnali esterni e alimentare l’infinito gioco dei rimbalzi e dei riferimenti, li «blocca» dentro di sé, li ferma e li sopporta, a costo di mandare in cortocircuito il sistema della comunicazione. Lo stesso pallore del volto, la stessa maschera di sofferenza che sta di fronte al pubblico, appare la visibile testimonianza di uno «sforzo fisico», di una prova umana durissima e prostrante; usando se stesso come banco di prova, come cartina di tornasole, come cavia, l’attore si sottopone a un’esperimento esaltante ma estremamente pericoloso, al termine del quale potrebbe ritrovarsi travolto e sconfitto. A parte Un’idea, sono infiniti gli esempi possibili di questa continua verifica della realtà attraverso il minimo comune denominatore della propria persona materiale. Ciascuno dei sette spettacoli contiene canzoni e monologhi utili ad illustrare il nostro discorso. Vediamo di trascrivere qualche testo «classico». Da Anche per oggi non si vola, ecco qualche strofa del Corpo stupido: Mi parlava di un certo discorso che lei porta avanti era colta e piuttosto impegnata su certi argomenti era sempre precisa e diretta. Ho passato una notte ad ascoltarla, era perfetta ma non ho avuto voglia di toccarla. Com’è corretta l’ideologia com’è ignorante la simpatia. 40 La canzone a teatro Io purtroppo non riesco a istruire il mio tatto non riesco a politicizzare l’olfatto. Se insegno qualcosa al mio sesso diventa tiepido, ci ho il corpo stupido... In Far finta di essere sani, la canzone Un gesto naturale esprime con precisione «scientifica» la penosa schizofrenia tra atteggiamento esteriore e ricerca di identità: Mi guardo dal di fuori come fossimo due persone osservo la mia mano che si muove la sua decisione da fuori vedo chiaro, quel gesto non è vero e sento che in quel movimento io non c’ero. A volte mi soffermo e guardo il fumo di una sigaretta la bocca resta aperta forse troppo poi si chiude in fretta si vede chiaramente che cerco un’espressione che distacco, che fatica questa mia finzione! Cerco un gesto, un gesto naturale per essere sicuro che questo corpo è mio cerco un gesto, un gesto naturale intero come il nostro io... Ma nelle corde di Gaber è sempre forte la volontà satirica: l’«impossibilità di essere normale» non è sempre fonte di angoscia e pena, e più volte, fotografando con l’obiettivo deformante del grottesco i quotidiani fallimenti dell’animale uomo, Gaber riesce ad essere esilarante, come nella surreale Quello che perde i pezzi, contenuta tanto in Far finta di essere sani quanto in Anche per oggi non si vola. Perdo i pezzi ma non è per colpa mia se una cosa non la usi non funziona ma che vuoto se un ginocchio ti va via che tristezza se un’ascella ti abbandona. Che rimpianto per quel femore stupendo Dal disco al palcoscenico 41 ero lì che lo cercavo mogio mogio poi dal treno ho perso un braccio salutando mi dispiace che ci avevo l’orologio. Che distratto, perdo sempre tutto. Ahi ahi ahi! Passeggiavo senza stinchi col mio amore ho intravisto nei suoi occhi un po’ d’angoscia io l’amavo tanto e ci ho lasciato il cuore ci ho lasciato, già che c’ero, anche una coscia... Quando arriva a Libertà obbligatoria, Gaber si è già spinto molto in là con i suoi «esperimenti su se stesso». E i risultati ottenuti gli fanno misurare tutta la distanza che separa la sua lenta fatica di attore-cavia dalla rapida, istantanea assuefazione che la società dimostra nei confronti di qualunque nuovo atteggiamento, nuovo mito, nuova moda. «Io sono diverso, io cambio poco, cambio molto lentamente», dirà, un anno dopo, in Quando è moda è moda: ed è la stessa velocità dei tempi, la stessa incontrollabile sincronia tra comunicazione videoelettronica e ricezione del messaggio che viene rifiutata. Lo strumento scelto, il linguaggio selezionato in anni di teatro, reagisce negativamente a sollecitazioni che non sono né «a misura d’uomo» né «a ritmo d’uomo». Finché restano, confusi e infiniti, sul grande schermo dell’immaginario collettivo, i segnali e gli stimoli dell’epoca possono sembrarci compatibili tra loro e accettabili da noi; ma non appena li si fa passare attraverso la strettoia materiale costituita dai nostri limiti fisici, c’è il «black-out»: l’attore è come una resistenza bruciata da un eccessivo carico di tensione. La scelta teatrale di Gaber va configurandosi, spettacolo dopo spettacolo, come una scelta provocatoriamente umanistica. Gli schermi, i video, i dischi, possono mentire. Ma il nostro corpo no, non può subire il bombardamento quotidiano senza reagire, non tollera metamorfosi indotte senza entrare in contraddizione con l’epoca. Strumento implacabile, il corpo impedisce all’attore di barare, di dare risposte consolatorie: 42 La canzone a teatro … ogni domanda al corpo può essere una breccia un inizio di inquietudini e ossessioni Questi tre versi (dal brano La smorfia) sono una delle tante epigrafi possibili non solo a Libertà obbligatoria, ma a tutto il lavoro di Gaber. È «facendo domande al corpo» che Gaber ha potuto procedere senza deviare lungo un binario artistico così preciso e coerente. Provate a rileggere (o a riascoltare) tutti e sette gli spettacoli seguendo questo leit-motiv, e arriverete diritti, senza sbalzi, fino ai nostri giorni, seguendo passo passo un inevitabile crescendo. Uno degli acuti più noti e più discussi di questo crescendo è la canzone Quando è moda è moda, brano culminante di Polli d’allevamento. Una canzone provocatoria e contestata, forse inaspettata, per la sua deliberata aggressività, da una parte del pubblico, ma del tutto conseguente al precedente itinerario di Gaber: e anche se è diverso il vostro grado di coscienza quando è moda è moda, non c’è nessuna differenza tra quella del play-boy più sorpassato e reazionario e quella sublimata di fare una comune e un consultorio. Quando è moda è moda, quando è moda è moda. Io sono diverso, io cambio poco, cambio molto lentamente non riesco a digerire i corsi accelerati da Lenin all’Oriente e anche nell’amore non riesco a conquistare la vostra [leggerezza non riesco neanche a improvvisare e fare un po’ [l’omosessuale tanto per cambiare. Quando è moda è moda, quando è moda è moda... Non sono più compagno né femministaiolo militante mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari Dal disco al palcoscenico 43 e altre cazzate e finalmente non sopporto le vostre donne liberate con cui voi discutete democraticamente sono diverso perché quando è merda è merda non ha importanza la specificazione autisti di piazza, studenti, barbieri, santoni, artisti, operai gramsciani, cattolici, nani, datori di luci, baristi, troie, ruffiani, paracadutisti, ufologi, quando è moda è moda, quando è moda è moda Il cerchio, ormai, si è chiuso. lutto è stato assaggiato e tutto rifiutato, tranne il diritto di assaggiare e rifiutare. L’esperimento ha dato una lunga serie di risultati negativi; ma ha anche confermato quanto fosse efficace e rigoroso il metodo adottato, se è vero, come è vero, che tutti gli strumenti dell’attore, sottoposti a una prova così ardua, hanno resistito, si sono rafforzati, precisati, affinati, e ora sono pronti ad essere applicati a nuove tappe di una ricerca ininterrotta. E un metodo a prova di anni Settanta, in grado, cioè, di sopportare le micidiali miscele di movimento e riflusso, convinzioni e finzioni, novità e vecchiume del decennio passato, è davvero un metodo a prova di bomba. Vediamo di entrare nel dettaglio del suo funzionamento, con l’aiuto dei suoi due inventori. 44 La canzone a teatro Gaber-Luporini: Tre modi di cantare in versi Giorgio Gaber e Sandro Luporini si ritrovano, ogni estate, in una casa della campagna toscana, in mezzo a un grande via-vai di amici, e preparano lo spettacolo per la stagione successiva. Discutono, si scambiano impressioni, parlano di libri letti e discorsi fatti, di persone conosciute. Individuano gli argomenti sui quali amerebbero intervenire. È sempre opinabile la pretesa di definire e «capire» un artista attraverso gli aspetti privati e comunque non inerenti alla concretezza delle sue opere, ma mi sembra giusto dire, per esperienza diretta, che quel senso di stravagante sregolatezza così comune nel mondo dello spettacolo è del tutto estraneo agli atteggiamenti quotidiani di Gaber, e che proprio la «normalità» dei suoi interessi e del suo ambiente gli ha permesso, in questi anni, di essere così puntuale, come artista, agli appuntamenti con l’attualità. Con Gaber si parla di politica e di calcio, di personaggi famosi e di amici comuni, di giornali e di canzonette, di vacanze e di lavoro, di bridge e di droga, e la varietà degli argomenti è la migliore garanzia di credibilità che un artista può offrire. L’immagine dell’artista come «diverso», come «eccezionale», come «abnorme», come «poeta maledetto» che funesta spesso e volentieri ogni discorso sulla pratica dell’arte, è tutto sommato il peggior biglietto da visita possibile per chi, come Gaber, si è sempre posto il problema di analizzare la realtà su un piano sì individuale, ma omologo o comunque limitrofo a quello di chi lo ascolta. Tre modi di cantare in versi 45 Gli interlocutori di Gaber sono proprio le persone che lui conosce e con cui comunica e discute. Il bar Casablanca – per fare un’esempio – esiste davvero e Gaber e Luporini lo frequentavano; e ogni manipolazione, interpretazione, forzatura compiuta sulla scena, è legittimata dall’esperienza diretta. Questo non vuol dire che i suoi spettacoli siano autobiografici. Vuoi dire, però, che la sua ispirazione è senza dubbio più legata alla conoscenza delle persone e dei processi reali di quanto non lo sia quella di artisti considerati più «oggettivi» e meno egocentrici di lui. E vuol dire, anche e soprattutto, che la scelta di non concedersi all’usuale routine promozionale comune nel mondo dello spettacolo, è legata al sacrosanto timore di lasciarsi fagocitare da ritmi e riti estranei alla sua vita quotidiana. Capita, così, che il cantante meno «pubblico» che esiste oggi in Italia (quello meno intervistato e meno televisivo) sia, con ogni probabilità, anche il più vicino alle pubbliche abitudini, agli interessi di chi lo segue. Ma ritorniamo alla collaborazione con Luporini. Il coautore del teatro di Gaber fa il pittore a Viareggio, ma ha sempre diviso la sua esistenza tra la Toscana e Milano. Disegnare, anche con pochi tratti, le caratteristiche del personaggio vorrebbe dire far torto al suo ferreo desiderio di riservatezza: al suo confronto, lo stesso Gaber appare un loquacissimo suggeritore di aneddoti e interviste. Il che è tutto dire. Dirò soltanto, allora, che Luporini ha dieci anni più del suo partner artistico, è un notevole giocatore di bridge ed è stato finalista del campionato italiano di bocce. E che, in coppia con Gaber, eccelle nella pratica agonistica del calcio-tennis, massacrante sport inventato dai due per «rilassarsi» durante le pause di lavoro. La sua amicizia con Gaber risale al ‘60: si conobbero durante una rassegna di giovani cantautori (c’erano Paoli, Tenco, Jannacci e Gaber in formato «Corsari»), e Luporini si disse subito interessato alla scrittura dei testi. Nacquero i primi tentativi, piuttosto insoliti, di canzoni a quattro mani, scritte più che altro 46 La canzone a teatro «ad uso interno», per divertimento o per sperimentare strade meno conosciute. I risultati erano troppo eccentrici rispetto alla produzione corrente per poter accedere alla consacrazione del disco. Gaber preferisce affidarsi, per esempio, ai testi più collaudati di Umberto Simonetta, ma l’amicizia personale e l’affinità artistica con Luporini, con il passare degli anni, si rafforzano. Luporini prende dimestichezza con la particolare scrittura poetica richiesta dalle canzoni, e parallelamente si mette a scrivere i primi spezzoni di prosa che costituiranno la base di partenza dei primi monologhi. «I monologhi – spiega Gaber – sono venuti fuori per cercare di evitare la falsa improvvisazione di certe frasi che si è soliti pronunciare, tra un brano e l’altro, davanti al pubblico. Abbiamo pensato che tanto valeva mettere nero su bianco, fermare sulla carta certi spunti, certe battute. All’inizio erano semplici raccordi, pretesti, giochini verbali. Poi, mano mano che si andava avanti, Luporini prendeva gusto nello scrivere e io nel recitare, e i monologhi assumevano una dignità teatrale propria. E siamo passati dalle “gag” dei primi spettacoli, che duravano al massimo due o tre minuti, agli attuali pezzi di teatro, che durano anche una decina di minuti e non sono direttamente legati alla necessità di “spiegare” una canzone o introdurne un’altra». Il dilatarsi delle parti in prosa, in sostanza, va di pari passo con il progressivo calarsi dei due amici nella dimensione teatrale. Voglia di scrivere e voglia di recitare si alimentano a vicenda, Gaber si rende conto di essere, a tutti gli effetti, un attore, Luporini si appassiona al suo ruolo di autore. Ma anche le canzoni subiscono un progressivo processo di drammatizzazione: musica e parole diventano sempre meno fini a se stesse, sempre più legate alle esigenze teatrali. Ed è chiaro che, per la loro stessa complessità formale (ogni canzone è un complicato compromesso tra pentagramma, metrica e parole scritte), è proprio sulle canzoni che i due devono affrontare e superare le maggiori difficoltà di composizione. Sentiamo Luporini: «Schematizzando, direi che abbiamo tre Tre modi di cantare in versi 47 diversi modi per scrivere le canzoni. Il primo, quello che ci ha dato i risultati più importanti, è questo: individuiamo, parlando tra di noi, un argomento sul quale ci piacerebbe fare una canzone. Se questa base, io scrivo un vero e proprio tema, cinque o sei pagine di prosa, magari già arricchite da qualche rima occasionale oda qualche verso accennato. Poi rileggiamo insieme questa specie di canovaccio e cerchiamo di tirarne fuori i punti più interessanti, i passaggi che ci stimolano di più. Una volta individuate le parti da mettere in musica, Giorgio si mette al lavoro: e devo dire che in questa fase, molto delicata, è riuscito a fare autentici miracoli, dando una forma musicale a sequenze di parole non sempre facili da maneggiare. Io, di musica, capisco poco o nulla: ma credo di poter dire che Giorgio riesce a venire a capo di qualunque tipo di testo, anche il più complicato, anche il meno ritmico, proprio perché considera la musica in modo del tutto subordinato a quello che gli preme dire. A lui importa soprattutto affermare con precisione una serie di cose, e farlo in modo drammatico, teatrale, recitando in musica. E ci riesce». Un esempio classico di questo modo di procedere è la canzone Il cancro (da Libertà obbligatoria), nata da una serie di discussioni sulla massificazione, su Adorno e la scuola di Francoforte. La canzone – ma il termine «canzone», a questo punto, è davvero impreciso e riduttivo – è risolta attraverso ben cinque frasi musicali diverse, sistemate in crescendo e senza che alcuna di esse assuma il ruolo del ritornello, e alcuni passaggi di prosa. Vale la pena di riportarla per intero, anche se è molto lunga. Nell’aria, come una scadenza incombe incredibilmente una dolce uguaglianza. C’è un’aria che rassicura e piano piano progressivamente la vita migliora. [parlato] Ma quello che succede in fondo ai tuoi polmoni e al tuo intestino è quello che conta. È qualche cosa che ti hanno mes- 48 La canzone a teatro so dentro e ti mangia piano piano... come un cancro. Hanno inventato un nemico molto più geniale, che non si vede, un nemico segreto e consapevole che ti viene incontro. Hanno inventato il cancro. E ti lasciano libero con quella cosa dentro con quel milione di molecole che non ti ubbidiscono più che lavorano per conto loro che proliferano silenziose e non le vedremo mai quelle molecole pazze, cancerose non sapremo nemmeno che sono esistite quelle cellule ingorde, insaziabili, enormi voraci e affamate di noi ci mangeranno come vermi. E si vive, si ha voglia di vivere esitando sotto un tiepido cielo coi valori di un uomo che non è più un uomo ma il suo sfacelo. Non si può ancora morire con una smorfia sul viso con dentro un’inutile rabbia, con questo terrore e senza uno scopo preciso. Non si può ancora morire mentre ti agiti inerte aggrappati all’ultima azione che puoi ancora fare non devi fallire la morte. [parlato] È difficile vivere con gli assassini dentro. Forse è più facile vivere con gli assassini fuori, visibili, riconoscibili, che ti sparano addosso dalle strade, dalle cattedrali, dalle finestre delle caserme, dai palazzi reali, dai balconi col tricolore. Assassini che in qualche modo puoi combattere, sai cosa fanno, li vedi e qualche volta si possono anche ammazzare. Assassini vecchi, superati, cialtroni che non sono mai riusciti a cambiare nessuno, a cambiarlo dal di dentro. Prevedibili e schematici anche nella cattiveria, come le bestie bionde, come le bestie nere che ti possono togliere la libertà, ma mai le tue idee, come quegli ingenui e patetici esemplari che esistono ancora oggi, ma non contano, sono un diversivo, un fatto di folklore, una mazurka. Ma l’assassino Tre modi di cantare in versi 49 dentro è come un’iniezione, non la puoi fermare e non risparmia nessuno, nessuno sfugge alla scadenza. È difficile vivere con gli assassini dentro. Appena li hai iniettati ti si rivoltano contro. Martiri, martiri senza croce invalidi, invalidi di pace martiri fuori o dentro le case martiri ribelli o a centottantamila lire al mese. Disperati, ammalati, incazzati lo stesso incazzati fino all’ultimo globulo rosso controllato e spiato a dovere dall’assalto del tumore. Martiri liberi con questa cosa dentro con quel milione di molecole che non ti ubbidiscono più che lavorano per conto loro che proliferano silenziose e non le vedremo mai quelle molecole pazze, cancerose non sapremo nemmeno se sono esistite quelle cellule ingorde, insaziabili, enormi voraci e affamate di noi ci mangeranno come vermi. E gli amori continuano a nascere dolcemente come consolazione tra una donna e un uomo che non è più un uomo ma un’infezione. Non si può ancora morire con una smorfia sul viso con dentro un’inutile rabbia, con questo terrore e senza uno scopo preciso. Non si può ancora morire mentre ti agiti inerte aggrappati all’ultima azione che ancora puoi fare non devi fallire la morte Ridiamo la parola a Luporini. «Un secondo metodo di lavoro è questo: uno di noi due “trova” una frase, un verso, una battuta, una sequenza di parole che ci sembrano un punto di partenza ideale per una canzone, una specie di nucleo attorno al quale giostrare. A quel punto Giorgio cerca subito una veste musicale 50 La canzone a teatro adatta al tipo di atmosfera che si vuole creare, e a partire da questo piccolo scheletro di note e parole ci mettiamo a lavorare insieme, ricostruendo l’intera vicenda. In questo modo sono nate quasi tutte le nostre canzoni ironiche, le canzoni-sketches come Lo shampoo o Chissà nel socialismo». Giocate, anche, sulle capacità mimiche di Gaber, molte di queste canzoni, in virtù della loro immediata presa sul pubblico e della loro struttura decisamente meno complicata, sono diventate celebri, al punto che – cosa rarissima nella produzione teatrale di Gaber – capita perfino di sentirle canticchiare per strada. Il caso più classico è sicuramente Lo shampoo (inserita nel Dialogo e in Far finta di essere sani). Una brutta giornata / chiuso in casa a pensare una vita sprecata / non c e niente da fare non c’è via di scampo, ma... quasi quasi mi faccio un shampoo all’aceto o al limone, che disperazione. Una strana giornata / non si nuove una foglia ho la testa ovattata / non ho neanche una voglia, non c’è via di scampo, sì! Devo farmi per forza uno shampoo uno shaxnpoo? Uno shampoo! Shampoo rosso o giallo quale marca mi va meglio? Questa! Scende l’acqua, scroscia l’acqua calda fredda calda... giusta! Schiuma.., soffice morbida bianca lieve sembra panna sembra neve. [parlato] La schiuma è una cosa buona. E come la mamma che ti accarezza la testa quando sei triste e stanco. Una mamma enorme, una mamma in bianco. Sciacquo! Sciacquo! Sciacquo!... seconda passata. Tre modi di cantare in versi 51 Son convinto che sia meglio quello giallo senza canfora. I migliori son più cari perché sono anti forfora. Schiuma... soffice morbida bianca lieve sembra panna sembra neve. [parlato] La schiuma è una cosa pura. Come il latte: purifica di dentro. La schiuma è una cosa sacra che pulisce la persona meschina abbattuta e oppressa. La schiuma è una cosa sacra, come la Santa Messa. Sciacquo! Sciacquo! Sciacquo! FFFFF...phone. «Il terzo metodo – prosegue Luporini – è anche quello più raro e più arduo, e spesso non siamo riusciti a metterlo in pratica. Mi riferisco alle occasioni in cui Giorgio ha già nella chitarra un motivo, un’atmosfera musicale. Me lo fa ascoltare e mi chiede se mi ispira qualcosa di preciso, ma è raro che questo avvenga. La musica è una gabbia molto più rigida delle parole. Eppure, qualche volta, abbiamo scritto canzoni proprio partendo da quattro note messe in fila. Un piccolo miracolo, in questo senso, è Si può, una delle canzoni più importanti di Libertà obbligatoria, scritta a partire da un motivetto che perseguitava Giorgio». Il ritornello di Si può, dal quale, tra l’altro, Gaber e Luporini trassero il titolo dello spettacolo, è in effetti molto caratteristico. (Peccato che i giapponesi non abbiano ancora inventato i libri con la colonna sonora): Si può, siamo liberi come l’aria si può, siamo noi che facciam la storia si può, libertà libertà libertà libertà obbligatoria Un altro esempio molto felice di canzone scritta a partire da 52 La canzone a teatro un motivo è L’ultima bestia, inserita nel catalogo del Signor G e di Storie vecchie e nuove ma mai eseguita in teatro perché Gaber non è riuscito a trovare il modo di «drammatizzarla». Ispirata da un canto rituale africano, L’ultima bestia è anche, se non sbaglio, l’unico disco a 45 giri sortito dalla collaborazione tra Gaber e Luporini. Ma questo tipo di canzoni, come già detto, sono eccezionali rispetto a una norma di lavoro che prevede, come base di partenza, l’individuazione di un tema che la musica, in fase successiva, dovrà soltanto «vestire», per adattarlo come si conviene allo strumento-attore. Gaber e la musica «L’importante – è Gaber che parla – è avere le idee chiare su quello che si vuole dire, sull’atmosfera che si vuole stabilire. Per questo è molto raro che si parta dalla musica: mettere i testi sopra una melodia già esistente è proibitivo, quasi impossibile, perché la musica è troppo invadente, tanto come rigidità metrica quanto come sentimenti che suggerisce, anzi impone. Direi, in sostanza, che io non faccio musica, dico delle cose con accompagnamento di note. Al punto che, ormai, mi sarebbe molto difficile scrivere canzoni per altre persone». Spiccatamente riconoscibile come interprete, è difficile attribuire a Gaber una precisa fisionomia come autore di musiche. Le sue canzoni sono attraversate da una gamma vastissima di «generi», e anche se è possibile individuare alcuni filoni ricorrenti (il «crescendo sentimentale» alla Brel, la ballata country nordamericana, alcune suggestioni orientaleggianti), la sua produzione complessiva è molto eclettica e di ostica catalogazione. Lui, con eccessiva modestia, si definisce un orecchiante, e lamenta un’insufficiente preparazione musicale: «Nell’ambito della musica leggera sono senz’altro più preparato e smaliziato di tanti altri, ma rispetto alle cognizioni medie di un musicista classico sono molto scadente. Certo, dopo trent’anni che suono quotidianamente uno strumento è inevitabile che qualche cosa abbia imparato, un po’ d’armonizzazione la conosco; oltretutto io sono partito come chitarrista jazz, e questo mi dà già qualche vantaggio rispetto ai normali livelli di conoscenza di un cantautore. E indubbio, però, che il pianoforte mi avrebbe offerto più possibilità: è uno strumento che ti permette, grazie ad armonizzazioni molto 54 La canzone a teatro più ricche e complesse, di uscire già in partenza dalla ristretta dimensione voce-chitarra, fatta di minime alchimie che poi, quando passi all’orchestrazione, vengono inevitabilmente distorte. Questo è un grave limite della chitarra: si riesce a creare un clima, un’atmosfera, un’emozione, ma poi appena cerchi di metterci intorno un’orchestra cambia tutto, devi dimenticarti l’idea di partenza e ricominciare tutto daccapo. Da questo punto di vista preparare le basi dei miei spettacoli in sala d’incisione è davvero un lavoro ingrato, anche se ho sempre avuto collaboratori molto bravi come Giorgio Casellato prima e Sergio Farina poi. Il nostro problema è sempre stato quello di “semplificare” il più possibile, appunto per tentare di recuperare l’emozione iniziale, lo spunto di partenza, legato al binomio voce-chitarra. E questo, credo, è un problema che hanno molti autori di canzoni, a parte quelli la cui musica nasce proprio in sala d’incisione. Solo che, a furia di semplificare, smorzare, sfrondare, alla fine rischi di ritrovarti con una base musicale troppo povera, sempre i soliti chitarra, contrabbasso e batteria. E stato proprio questo il motivo per cui, d’accordo con Casellato, ho chiamato Franco Battiato per aiutarmi negli arrangiamenti di Polli d’allevamento: si trattava, appunto, di arricchire l’orchestrazione con strumenti nuovi, insoliti, e Battiato era la persona più indicata per farlo. Ed è stato un esperimento molto interessante e riuscito». Ma prima dei problemi di orchestrazione – che Gaber è sempre riuscito a risolvere felicemente anche grazie alla sua forte presenza vocale, che non abbisogna di un «maquillage» strumentale particolarmente sofisticato – ci sono quelli di composizione. E qui il discorso ripiomba in piena logica teatrale. «In teatro – spiega Gaber – ogni canzone è, musicalmente, un’avventura inedita. Il disco, per sua natura, si presta a diversi ascolti e dunque a diverse letture. Sul palcoscenico, invece, il problema fondamentale è che devi fare colpo subito, devi importi a tutti i costi all’attenzione della platea, altrimenti è un guaio. E devi ottenere questi risultati con un prodotto che il pubblico non ha mai ascoltato in precedenza, che gli giunge completa- Gaber e la musica 55 mente nuovo. Così alcuni lussi che ti puoi permettere sul disco, dove confidi in una maggiore possibilità di “comprensione” da parte di chi ti può ascoltare più di una volta, in teatro te li devi scordare. Hai bisogno di una musica che sia insieme semplice, immediata e molto suggestiva, che catturi l’attenzione del pubblico e non la lasci più fuggire. Così, piano piano, impari a usare un linguaggio nuovo, diverso, a misura di teatro. Una delle regole fondamentali, per esempio, è la necessità di usare diversi “archi” espressivi anche all’interno di una canzone breve: per questo il “crescendo” è una pratica ricorrente nel mio teatro, mentre è rarissimo che io mantenga per tre o quattro minuti consecutivi un clima teso, fermo, immobile. Ecco, direi che il teatro ti costringe a “muoverti”, e a permeare di questo movimento anche la musica. E ti accorgi che il nuovo linguaggio, mano a mano che te ne impossessi, ti offre, come interprete, infinite possibilità in più, proprio perché mette alla prova la tua capacità di adattarti a una gamma di toni molto più ampia, a sbalzi improvvisi, a rovesciamenti di fronte». È facile capire come, all’interno di una disciplina creativa così ricca e insieme così precisa, che vincola rigidamente la musica a un ruolo di «servizio» rispetto al discorso teatrale ma al tempo stesso le chiede di coprire un arco molto vasto di timbri e di atmosfere, Gaber abbia fatto ricorso a una grande varietà di modi musicali, attinti dalle correnti di ispirazione più disparate. In questo senso, ha ragione a definirsi un orecchiante: anche se non è un meticoloso conoscitore della musica contemporanea extracolta, è sicuramente un attento «ascoltatore medio» di vari generi discografici, molti dei quali hanno lasciato la loro impronta nella sua produzione. Nei primi spettacoli, per esempio, è evidente l’influenza della grande scuola francese, Jacques Brel sopra tutti gli altri. «Brel mi ha molto influenzato: non a caso, tra l’altro, è l’interprete che più di ogni altro ha cercato di fare teatro con le sue canzoni. Ho cantato un suo brano tradotto da Herbert Pagani (Che bella gente) e ne ho scritti parecchi decisamente ispirati al 56 La canzone a teatro suo modo di esprimersi. Non tanto per i testi – tra l’altro conosco poco il francese – quanto per i suoni, le atmosfere gonfie di sentimento, straordinarie, appassionanti. Mi affascinano le sue sfuriate anarcoidi, la sua indignazione, dietro le quali si intuisce tutto intero l’ideale dell’uomo autentico, dell’individuo ribelle ma positivo. Ma già in Far finta di essere sani il filone “francese” era esaurito. Mi interessava di più, a quel punto, un’idea di canzone più vicina alle ballate americane, alla Dylan. Mi sembrava che Dylan e soci avessero allargato le possibilità comunicative della canzone, l’avessero portata, come dire, in mezzo alle strade, mentre nello spirito “francese” – anche in Brel, che pure era il più bravo di tutti – c’è il grosso rischio di cantarsi addosso, la tendenza a rinchiudersi, a esaurirsi all’interno di un manierismo bohémien che cominciava a sapere di vecchio. Naturalmente mi chiedevo se l’influenza americana non fosse troppo ingombrante, troppo “alla moda”. Ma un certo tipo di resistenza ai linguaggi correnti, in fin dei conti, ha un senso solo se sei in grado di rispondere in termini altrettanto efficaci, altrimenti rischi di diventare patetico e ottuso: se un linguaggio viene parlato da tutti, significa che non puoi far finta di niente, che devi provare a parlarlo anche tu. Così le suggestioni americaneggianti mi hanno accompagnato per un pezzo, anche al di fuori del country. Penso a McLaughlin e alla Mahavisnu, per esempio. Fino a Polli d’allevamento, dove ho cercato di uscirne e di inventare, anche con l’aiuto di Battiato, qualche cosa di nuovo». Ma ispirazione «francese» e «americana» non influenzano che una parte della produzione di Gaber. Accanto a canzoni come L’elastico, dove l’atmosfera angosciosa e sospesa viene resa da una musica orientaleggiante, ci sono molti brani (Op, op, op, Dall’altra parte del cancello, È sabato, ma se ne potrebbero citare a decine) non riconducibili ad alcun modello formale. E con il passare degli anni lo stile di Gaber diventa sempre più personale, mentre le reminiscenze di cose già ascoltate si diradano (cosa molto rara in un autore di canzoni che, di norma, tende a ripetersi e autocitarsi mano a mano che gli anni passano e il «me- Gaber e la musica 57 stiere» si fa più collaudato). Questo dipende, con ogni evidenza, dal definitivo sopravvento della dimensione teatrale anche all’interno delle parti cantate, che vedono Gaber spostare sempre più l’accento sull’interpretazione, sul «canto recitato», allontanandosi progressivamente da ogni tipo codificato di melodia e di ritornello, e avvicinandosi a musicali che verrebbe voglia di definire «astratte», in contrapposizione a una canzone «figurativa» che vede ancora nella metrica e nelle scansioni tradizionali le proprie norme estetiche. Queste nuove forme musicali sono sempre più elastiche e deformabili, giustapponibili a testi che tendono a perdere ogni iteratività e simmetria. In questo senso ha ragione Luporini quando parla di «autentici miracoli» di Gaber musicista: mano a mano che i testi assumono autonomia e si dispongono sulla pagina indipendentemente dalla musica, diventa sempre più difficile dargli una veste musicale che sia sufficientemente libera e insieme, come dice Gaber, «suggestiva», cioè in grado di rendere immediatamente individuabile il clima di una canzone. Si tratta, insomma, di ottenere il massimo della comunicabilità, e dunque della precisione nell’ambientazione musicale, senza sacrificare di una virgola la complessità asimmetrica di testi che assomigliano sempre di più a prosa poetica e sempre meno a poesia in versi. Un caso felicissimo è quello del Dilemma (compresa nel disco Pressione bassa e canzone-chiave di Anni affollati), un brano composto da versi di differente lunghezza e scansione metrica, eppure perfettamente racchiuso in un contenitore musicale «orecchiabile» e subito riconoscibile: In una spiaggia poco serena camminavano un uomo [e una donna e su di loro la vasta ombra di un dilemma; l’uomo era forse più audace, più stupido e conquistatore, la donna aveva perdonato non senza dolore. Il dilemma era quello di sempre, un dilemma elementare 58 La canzone a teatro se aveva o non aveva senso il loro amore. In una casa a picco sul mare vivevano un uomo e una donna e su di loro la vasta ombra di un dilemma; l’uomo è un animale quieto se vive nella sua tana la donna non si sa se è ingannevole o divina. Il dilemma rappresenta l’equilibrio delle forze in campo perché l’amore e il litigio sono le forme del nostro tempo. Il loro amore moriva come quello di tutti come una cosa normale e ricorrente perché morire e far morire è un’antica usanza che suole aver la gente. Lui parlava quasi sempre di speranza e di paura come l’essenza della sua immagine futura e coltivava la sua smania e cercava la verità lei l’ascoltava in silenzio, lei forse ce l’aveva già; anche lui curiosamente, come tutti, era nato da un ventre ma purtroppo non se lo ricorda o non lo sa. In un giorno di primavera, quando lei non lo guardava lui rincorse lo sguardo di una fanciulla nuova e ancora oggi non si sa se era innocente come un animale o se era istupidito dalla vanità, ma stranamente lei si chiese se non fosse un’altra volta [il caso di amare e di restar fedele al proprio sposo. Il loro amore moriva come quello di tutti, con le parole che ognuno sa a memoria, sapevan piangere e soffrire ma senza dar la colpa all’epoca o alla storia. Questa voglia di non lasciarsi è difficile da giudicare non si sa se è cosa vecchia o se fa piacere; ai momenti di abbandono alternavano le fatiche con la gran tenacia che è propria delle cose antiche. È questo il succo di questa storia, per altro senza importanza che si potrebbe chiamare appunto resistenza. Forse il ricordo di quel Maggio gli insegnò anche nel fallire Gaber e la musica 59 il senso del rigore e il culto del coraggio e rifiutarono decisamente la nostra idea di libertà in amore a questa scelta non si seppero adattare non so se dire a questa nostra scelta o a questa nostra sorte so soltanto che loro si diedero la morte. Il loro amore moriva come quello di tutti, non per una cosa astratta come la famiglia; loro scelsero la morte per una cosa vera come la famiglia. Io ci vorrei vedere più chiaro, rivisitare il loro percorso, le coraggiose battaglie che avevano vinto e perso; vorrei riuscire a penetrare nel mistero di un uomo e [di una donna nell’immenso labirinto di quel dilemma. Forse quel gesto disperato potrebbe anche rivelare come il segno di qualcosa che stiamo per capire. Il loro amore moriva come quello di tutti, come una cosa normale e ricorrente, perché morire e far morire è un’antica usanza che suole aver la gente. I «filosofi ignoranti» È molto difficile, nella ormai voluminosa produzione di Gaber e Luporini (più di cento canzoni e un’ottantina di monologhi) riuscire a individuare le parti più direttamente ascrivibii all’inventiva di Gaber e quelle che recano più marcatamente l’impronta di Luporini. Certo, il lavoro musicale è interamente sulle spalle di Gaber e la stesura dei testi impegna maggiormente Luporini; ma, a parte questa forma tecnica di divisione del lavoro, il prodotto finito non assomiglia affatto a una serie di testi di Luporini musicati da Gaber. C’è un «a priori» molto preciso, infatti, che attraversa il lavoro di ambedue: capire perfettamente, prima di dare forma a una canzone o a un monologo, che cosa si vuole tentare di dire e in quali modi si intende dirlo. Da questo punto di vista tanto i testi quanto le musiche sono «di Gaber e Luporini» perché prendono corpo a partire da una sorta di «soggetto» che precede il momento della composizione e che lo informa di sé. E questo soggetto (che poi è fatto di un serie più o meno vasta di intenzioni e di voglie espressive) si sostanzia solo se tra i due si stabilisce una totale identità di vedute e di sentimenti sugli argomenti in questione. «Mi riconosco in ogni virgola di quello che io e Sandro scriviamo», dice Gaber; e questa possibilità di assoluta identificazione in un prodotto artistico nato da due menti diverse costituisce un’ulteriore anomalia e motivo di originalità del teatro di Gaber. I due autori, tuttavia, non riescono a partorire un prodotto così bene accetto ad entrambi tanto per «affinità elettive» o per identità di vedute su alcune rilevanti questioni, quanto per la comune volontà di indivi- I «filosofi ignoranti» 61 duare, attraverso una continua verifica delle rispettive posizioni, quali sono i materiali adatti al proprio specifico modo di fare teatro. Quali – per tornare al discorso già affrontato – gli argomenti che si possono comunicare al pubblico passando attraverso il corpo, i movimenti e la voce di Gaber. Ed è difficile, a questo punto, capire se il particolare linguaggio creato in dodici anni di teatro si è via via adattato ai bisogni espressivi dei due autori, o se viceversa essi abbiano imparato a selezionare, attraverso le stagioni, gli argomenti adatti a un simile veicolo spettacolare. Diciamo che, con ogni probabilità, le due varianti si sono vicendevolmente influenzate e completate, arricchendosi continuamente l’una dell’altra. Gaber e Luporini, dunque, riescono a lavorare in perfetta sintonia perché sanno cosa dire e come vogliono dirlo. «A volte – dice Gaber – quando riaffrontiamo un argomento dopo un po’ di tempo, non ci ricordiamo più se l’avevo tirato fuori io o se era uno spunto suo». Una simile capacità di intesa, raggiunta attraverso una lunga consuetudine umana e artistica, potrebbe far pensare ai due autori come a due personaggi la cui simbiosi creativa è tanto più consolidata quanto più elevato è il grado di confidenza reciproca raggiunto: come se il raccontarsi in teatro fosse una sorta di prassi liberatoria ottenuta attraverso l’«autocoscienza» di coppia di due vecchi amici. Ma le cose stanno in termini molto diversi: «Nel nostro lavoro – spiega Gaber – non c’è posto per l’autobiografia, per lo sfogo personale; anzi, uno dei vantaggi principali di lavorare in due sta proprio in questo: che l’altro costituisce un continuo elemento di freno al rischio di parlarsi addosso, all’insidia dell’autocompiacimento. Questo ci mette al riparo da molti errori e sbavature: abbiamo un rapporto pieno di pudore, ignoriamo molte cose l’uno dell’altro, scriviamo d’amore da molti anni ma non ci verrebbe mai in mente di chiederci i fatti nostri. Così, qualunque sia l’argomento di cui ci troviamo a discutere e dal quale vorremmo tirare fuori qualche idea, non ci ritroviamo mai a misurarci su aneddoti o fatti personali, ma direttamente sui temi, su 62 La canzone a teatro discorsi che hanno già una forma comune alla realtà e non alle proprie fisime. Penso, oltretutto, che la nostra collaborazione non sarebbe stata così serena, e così produttiva, se avesse comportato un eccessivo coinvolgimento personale». «L’esperienza individuale – aggiunge Luporini – conta molto, è ovvio. Ma è come se fosse solo un veicolo, un mezzo; e quando uno di noi inizia un discorso, lo fa soltanto perché pensa che l’argomento sia di interesse generale: e l’altro è Il apposta per verificare se sia vero». Non c’è dubbio che questo «raddoppio» delle capacità di controllo dell’autore sul proprio operato abbia costituito un grosso vantaggio: la possibilità di dribblare alcuni dei difetti più ingombranti dei cantautori italiani – autobiografismo e autocompiacimento, appunto – non è un atou di poco conto. Ma il comune intento di adattare gli spunti più disparati al medesimo strumento formale non toglie che i due autori, anche se si dicono «quasi sempre d’accordo su quasi tutti gli argomenti», non abbiano ciascuno una vena più specifica, più personale. «Giorgio – sostiene Luporini – è più concreto, più corporeo; io forse più astratto, più teorico. Lui si cala meglio, come interprete, nei pezzi dove prevalgono l’impeto e la passione, oppure una vena di follia, di nevrosi visibile. Mentre fa decisamente più fatica ad adattarsi a certe frasi più asettiche, più sospese, che a me invece interessano molto. Un esempio: il finale di Polli d’allevamento è un breve monologo, abbondantemente ispirato da Robbe-Grillet. L’attore descrive se stesso sulla scena, i suoi gesti, i suoi movimenti, e lo fa con calma, precisione, distacco. Bene, Giorgio arrivava a questo finale dopo aver cantato Quando è moda è moda, una canzone impetuosa come poche, e non gli era agevole entrare di colpo in uno spirito così diverso, così opposto. Penso che in questa differenza di inclinazioni, lui più fisico, io più mentale, si rifletta in buona misura anche il fatto che io sono solo autore, mentre lui è anche attore». Si accennava, qui sopra, a Robbe-Grillet. Ma la lista degli ispiratori degli spettacoli di Gaber è piuttosto lunga. Per citare I «filosofi ignoranti» 63 solo qualche nome: Céline, Sartre, Pasolini, Borges, Beckett, Leopardi, Lautréamont, Adorno, Laing, Cooper. Uno spaccato piuttosto rappresentativo, con qualche eccezione, delle letture comuni alle frange più curiose del pubblico durante l’ultimo quindicennio. Tanto Gaber quanto Luporini non hanno peli sulla lingua a proposito dell’importanza di queste fonti letterarie nel proprio lavoro: “copiamo, copiamo proprio”. Eccesso di modestia. I libri letti,come le discussioni fatte, servono loro soprattutto per rafforzare la base teorica degli spettacoli (è il caso di Adorno e Pasolini per Libertà obbligatoria e Polli d’allevamento, degli analisti inglesi per Far finta di essere sani) oppure per suggerire immagini dalle quali trarre spunti preziosi. Ci sono anche citazioni testuali – come nel Dilemma: «Morire e far morire è un’antica usanza che suole aver la gente» è un verso di Borges –, ma sempre usate come pretesto o come arricchimento di un discorso autonomamente condotto. Anche lo stesso titolo Far finta di essere sani è una citazione testuale di Laing, e il Viaggio al termine della notte di Céline è stato, dice Luporini, «letteralmente saccheggiato», come inesauribile fonte di suggestioni e metafore letterarie. «Ma Céline – si giustifica Luporini – lo conosco ormai talmente bene che l’ho mandato a memoria, e non mi accorgo più quando uso parole sue o uso le mie...». Céliniani, per esempio, sono i «paradossi» come «non è più un uomo ma il suo sfacelo» e «non è più un uomo ma un’infezione», usati in Libertà obbligatoria per la canzone Il cancro. Curioso, a proposito delle «fonti», constatare come le canzoni, che intuitivamente si pensano più legate alla poesia che alla prosa, solo raramente (come nel caso del Dilemma) hanno attinto linfa vitale dalla poesia, e assai più spesso da pagine di romanzi o addirittura di saggistica. «Penso che questo sia avvenuto – spiega Luporini – perché la poesia è un linguaggio troppo specifico e sublimato. Noi, invece, abbiamo bisogno di materiali più spurii, più manipolabili: nei nostro lavoro c’è un po’ di tutto, costume, sociologia, politica, cronaca, e non possiamo fer- 64 La canzone a teatro marci all’immagine pura, alla stilizzazione. Direi che nessuna delle nostre canzoni si limita alla descrizione poetica di una situazione senza cercare anche appigli di altro genere. L’unica eccezione è L’illogica allegria, una canzone meramente descrittiva che però ci sembrava già efficace così, già esauriente senza bisogno di nessun supporto o ulteriore commento. Ma le nostre cose più teatrali, più direttamente legate alla novità del nostro linguaggio, hanno caratteristiche molto più composite». L’illogica allegria, che figurava come sigla di chiusura delle Due retrospettive televisive, è in effetti una canzone molto insolita nella produzione di Gaber-Luporini. Estranea alla dimensione «saggistica» dei due autori, potrebbe anche non essere stata scritta per il teatro, e merita di essere trascritta qui sotto, nell’illustre ruolo di eccezione che conferma la regola. Si noti come la grande semplicità del testo prenda il posto dei versi assai più complessi – anche metricamente – abituali a Gaber, a riprova che la dimensione teatrale, estranea a questo brano, snatura e amplia il calibro e le ambizioni della forma-canzone. Da solo lungo l’autostrada alle prime luci del mattino a volte spengo anche la radio e lascio il mio cuore incollato al finestrino. Lo so, del mondo e anche del resto lo so che tutto va in rovina ma di mattina, quando la gente dorme col suo normale malumore, mi può bastare un niente, forse un piccolo bagliore, un’aria già vissuta, un paesaggio, che ne so … e sto bene, io sto bene come uno che si sogna; non lo so se mi conviene ma sto bene, che vergogna! I «filosofi ignoranti» 65 Io sto bene proprio ora, proprio qui. Non è mica colpa mia se mi capita così: è come un’illogica allegria di cui non so il motivo, non so che cosa sia; è come se improvvisamente mi fossi preso il diritto di vivere il presente. Io sto bene na na na na na na na... quest’illogica allegria, proprio ora, proprio qui. Da solo, lungo l’autostrada alle prime luci del mattino... Il fatto che tanto L’illogica allegria quanto Il dilemma, canzoni di complessione insolitamente «poetica» rispetto alle consuetudini dei due autori, siano comprese nell’ultimo spettacolo, forse non è privo di significato: documenta l’esigenza di «uscire dalla cronaca», di sondare spazi creativi più liberi e svincolati da interpretazioni politico-speculative, di uscire dal contingente. Ed è, anche, un ulteriore segnale di quanto il teatro di Gaber sia in grado di riflettere – e sovente di anticipare – gli umori e le tendenze del suo pubblico; in questo caso, di un pubblico che nei confronti del decennio passato appare saturo di saggistica e molto curioso di letteratura e poesia. Indubbiamente, l’abitudine di riferirsi senza filtri di sorta o falsi pudori a un autore, è un altro dei punti di forza di Gaber e Luporini. L’esplicito richiamo ad alcuni personaggi che sono stati o sono (nel bene e nel male, per moda o per legittimo interesse, per caso o a ragion veduta) al centro del dibattito culturale negli anni Settanta e oltre, ha arricchito gli spettacoli di Gaber di sempre nuovi elementi di discussione, di curiosità, di consenso e di dissenso. La vicinanza tra palcoscenico e platea passava e passa anche attraverso le comuni letture e, soprattutto, la comune spinta a leggere. 66 La canzone a teatro «Siamo filosofi ignoranti», dicono Gaber e Luporini: e filosofi ignoranti, da quando la smisurata crescita del mercato culturale ha fatto intravvedere a strati sociali sempre più vasti la possibilità di «farsi un’idea propria» su quanto ci circonda, lo siamo un po’ tutti. Così, nello sforzo di Gaber di masticare e digerire mode culturali e saggi Feltrinelli, gli Scritti corsari e L’io diviso, ci è stato facile riconoscere il nostro sforzo di metabolizzare l’improvviso eccesso di materia prima che ci siamo ritrovati sul piatto, sentendoci, improvvisamente, ricchi di stimoli ma poveri di strumenti adatti a decifrarli. Niente di più facile che andare a teatro da Gaber e sentirlo parlare degli stessi argomenti di cui si stava conversando con gli amici la sera prima, o citare lo stesso libro che proprio in quei giorni avevi sul comodino. L’illogica speranza Nel novembre dell’80, dopo lunghe vicissitudini, esce Io se fossi Dio. «Certe volte mi chiedo perché non me ne resto più tranquillo, perché non mi metto a scrivere cosette rasserenanti, magari gioiose. Poi mi guardo intorno, vedo che ci stiamo tutti abituando al grigiore, alla piattezza, alla rassegnazione, e mi accorgo che il mio compito, il mio lavoro, è quello di dire le cose che gli altri non dicono. Le cose che voi giornalisti non avete più il coraggio di scrivere. Vorrei sapere, per esempio, perché fino a qualche anno fa si poteva parlare liberamente di Moro, dicendo che anche lui è responsabile del disastro in cui ci troviamo, mentre oggi non si può più. La retorica ufficiale, la pietà istituzionale, ci impediscono di avere reazioni spontanee, umane. Anche di provare pena, dolore...». Io se fossi dio (e io potrei anche esserlo, se no non vedo chi) io se fossi dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente non sarei mica un dilettante sarei sempre presente, sarei davvero in ogni luogo a spiare o meglio ancora a criticare appunto cosa fa la gente. Per esempio il piccolo borghese, com’è noioso, non commette mai peccati grossi, non è mai intensamente peccaminoso, del resto poverino è troppo misero e meschino e pur sapendo che dio è più esatto di una Sweda lui pensa che un errore piccolino 68 La canzone a teatro non lo conti o non lo veda. Per questo io se fossi dio rimpiangerei il secolo passato se fossi dio rimpiangerei il furore antico dove si odiava e poi si amava e si ammazzava il nemico. Ma io non sono ancora nel regno dei cieli, sono troppo invischiato nei vostri sfaceli. Io se fossi dio non sarei così coglione da creder solo ai palpiti del cuore o solo agli alambicchi della ragione io se fossi dio sarei sicuramente molto intero e molto distaccato come dovreste essere voi. Io se fossi dio non sarei mica stato a risparmiare avrei fatto un uomo migliore; si va bè lo ammetto non mi è venuto tanto bene ed è per questo, per predicare il giusto che io ogni tanto mando giù qualcuno, ma poi alla gente piace interpretare e fa ancora più casino. Io se fossi dio non avrei fatto gli errori di mio figlio e sull’amore e sulla carità mi sarei spiegato un po’ meglio: infatti non è mica normale che un comune mortale per le cazzate tipo compassione e fame in India ci ha tanto amore di riserva che neanche se lo sogna, e viene da dire: ma dopo come fa a essere così carogna? Io se fossi dio non sarei ridotto come voi e se lo fossi io certo morirei per qualcosa di importante purtroppo l’occasione di morire simpaticamente non capita sempre e anche l’avventuriero più spinto muore dove gli può capitare L’illogica speranza e neanche tanto convinto. Io se fossi dio farei quello che voglio non sarei certo permissivo, bastonerei mio figlio, sarei severo e giusto, stramaledirei gli inglesi come mi fu chiesto, e gli africanisti e l’Asia e poi gli americani e i russi, bastonerei la militanza come la misticanza e prenderei a schiaffi i volteriani, i ladri, gli stupidi e i bigotti. Perché dio è violento: e gli schiaffi di dio appiccicano al muro tutti. Ma io non sono ancora nel regno dei cieli, sono troppo invischiato nei vostri sfaceli. Finora abbiamo scherzato, ma va a finire che uno prima o poi ci piglia gusto, e con la scusa di dio tira fuori tutto quello che gli sembra giusto. E a te ragazza che mi dici che non è vero che il piccolo borghese è solo un po’ coglione, che quell’uomo è proprio un delinquente, un mascalzone, un porco in tutti i sensi, una canaglia, e che ha tentato pure di violentare sua figlia, io, come dio inventato, come dio fittizio, io prendo coraggio e sparo il mio giudizio, e dico: speriamo che a tuo padre gli sparino nel culo, cara figlia. Così per i giornali diventa un bravo padre di famiglia. Io se fossi dio maledirei davvero i giornalisti, e specialmente tutti, che certamente non sono brave persone e dove cogli cogli sempre bene. Compagni giornalisti, avete troppa sete, 69 70 La canzone a teatro e non sapete approfittare delle libertà che avete, avete ancora la libertà di pensare, il fatto è che non lo fate, e in cambio pretendete la libertà di scrivere e di fotografare immagini geniali e interessanti di presidenti solidali e di mamme piangenti e in questa Italia piena di sgomento come siete coraggiosi voi che vi buttate senza tremare un momento: cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti, e si direbbe proprio compiaciuti, voi vi buttate sul disastro umano col gusto della lacrima in primo piano. Si va be’ lo ammetto la scomparsa dei fogli e della stampa sarebbe forse una follia; ma io se fossi dio di fronte a tanta deficienza non avrei certo la superstizione della democrazia. Ma io non sono ancora nel regno dei cieli sono troppo invischiato nei vostri sfaceli. Io se fossi dio naturalmente chiuderei la bocca a tanta gente nel regno dei cieli non vorrei ministri e gente di partito tra le palle perché la politica è schifosa e fa male alla pelle e tutti quelli che fanno questo gioco (che poi è un gioco di forza ributtante e contagioso come la lebbra e il tifo) e tutti quelli che fanno questo gioco hanno certe facce che a vederle fanno schifo che siano untuosi democristiani o grigi compagni del PCI sono nati proprio brutti, o per lo meno tutti finiscono così. L’illogica speranza Io se fossi dio dall’alto del mio trono vedrei che la politica è un mestiere come un altro e vorrei dire – mi pare Platone – che il politico è sempre meno filosofo e sempre più coglione. È un uomo a tutto tondo, che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo scivola sulle parole anche quando non sembra o non lo vuole. Compagno radicale, la parola compagno non so chi te l’ha data ma in fondo ti sta bene, tanto ormai è squalificata. Compagno radicale, cavalcatore di ogni tigre, uomo furbino, ti muovi proprio bene in questo gran casino e mentre da una parte si spara un po’ a casaccio e dall’altra si riempiono le galere di gente che non c’entra un cazzo compagno radicale tu occupati pure di diritti civili e di idiozia che fa democrazia. E preparaci pure un altro referendum, questa volta per sapere dov’è che i cani devono pisciare. Compagni socialisti, ma sì, anche voi, insinuanti, astuti e tondi, compagni socialisti, con le vostre spensierate alleanze di destra, di sinistra, di centro, coi vostri uomini aggiornati, nuovi di fuori e vecchi di dentro, compagni socialisti, fatevi avanti, che questo è l’anno del garofano rosso e dei soli nascenti, fatevi avanti col mito del progresso e con la vostra schifosa ambiguità. Ringraziate la dilagante imbecillità. Ma io non sono ancora nel regno dei cieli 71 72 La canzone a teatro sono troppo invischiato nei vostri sfaceli. Io se fossi dio non avrei proprio più pazienza, inventerei di nuovo una morale e farei suonare le trombe per il giudizio universale. Voi mi direte: perché è così parziale il mio personalissimo giudizio universale? Perché non suonano le mie trombe per gli attentati, i rapimenti, i giovani drogati, e per le bombe? Perché non è comparsa ancora l’altra faccia della medaglia? Io come dio non è che non ne ho voglia. Io come dio non dico certo che siano ingiudicabili o addirittura, come dice chi ha paura, innominabili. Ma come uomo, come sono e fui, ho parlato di noi comuni mortali. Quegli altri non li capisco, mi spaventano, non mi sembrano uguali. Di loro posso dire solamente che dalle masse sono riusciti ad ottenere lo stupido pietismo per il carabiniere. Di loro posso dire solamente che mi hanno tolto il gusto di essere incazzato personalmente. Io come uomo posso dire solo ciò che sento cioè solo l’immagine del grande smarrimento. Però se fossi dio sarei anche invulnerabile e perfetto e allora non avrei paura affatto, così potrei gridare e griderei senza ritegno che è una porcheria che i brigatisti militanti siano arrivati dritti alla pazzia. Ecco la differenza che c’è tra noi e gli innominabili: di noi posso parlare, perché so chi siamo, e forse facciamo più schifo che spavento. L’illogica speranza Di fronte al terrorismo e a chi si uccide c’è solo lo sgomento. Ma io se fossi dio non mi farei fregare da questo sgomento e nei confronti dei politicanti sarei severo come all’inizio, perché a dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio. E se al mio dio che ancora si accalora gli fa rabbia chi spara, gli fa rabbia anche il fatto che un politico qualunque se gli ha sparato un brigatista diventa “l’unico statista”. Io se fossi dio, quel dio di cui ho bisogno come di un miraggio ci avrei ancora il coraggio di continuare a dire che Aldo Moro insieme a tutta la democrazia cristiana è il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana. Io se fossi dio, un dio incosciente, enormemente saggio avrei anche il coraggio di andare dritto in galera ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora quella faccia che era. Ma in fondo tutto questo è stupido, perché logicamente io se fossi dio la terra la vedrei piuttosto da lontano e forse non ce la farei ad accalorarmi in questo scontro quotidiano. Io se fossi dio non mi interesserei di odio odi vendetta, neanche di perdono, perché la lontananza è l’unica vendetta è l’unico perdono. E allora va a finire che se fossi dio io mi ritirerei in campagna come ho fatto io. 73 74 La canzone a teatro Io se fossi dio, scritta nell’estate dell’80 come brano a se stante e inserita nel secondo tempo di Anni affollati, è da considerare il punto culminante – nel senso, anche, di definitivo – di un’intera fase del lavoro di Gaber e Luporini. Concepita come un violento, esplicito pamphlet contro il grigiore della scena italiana, la canzone amplia gli obiettivi e rincara la dose di Quando è moda è moda, e diventa, non del tutto a proposito, un piccolo «caso» sul quale si buttano quotidiani e settimanali. In essa Gaber e Luporini, a ben vedere, non aggiungono nulla di nuovo a quanto sono già riusciti a dire, e con altrettanta precisione, in undici anni di teatro: ma l’invettiva contro Aldo Moro, in un paese che ha ormai riciclato la pietà per un morto ammazzato in una vera e propria beatificazione di Stato, attira su Io se fossi dio una melliflua censura preventiva (tre case discografiche «preferiscono non inciderla») e sollecita un interesse di stampa davvero insolito per un personaggio per nulla mondano come Gaber: interesse motivato, in parecchi casi, dal fatto che molti illustri direttori e caporedattori pensavano fino al giorno prima che Gaber fosse quello simpatico che canta Goganga, e non si aspettavano di ritrovarselo improvvisamente davanti nelle vesti di grande bestemmiatore della retorica istituzionale. La canzone, al di là dell’inatteso affaire suscitato, non porta novità di rilievo nel discorso artistico di Gaber e Luporini: ma ne rappresenta, appunto per la capacità di consumarne fino alle estreme conseguenze il potenziale polemico, una svolta fondamentale. Da Io se fossi dio in poi, i due autori entrano in una fase nuova e inedita della loro ispirazione. La canzone «scandalosa» scritta un anno prima appare, alla luce della produzione più recente, l’estremo sussulto di ripulsa, l’ultimo, grande conato che pone fine all’indigestione di idee fatta durante gli anni Settanta e ripulisce il corpo dell’attore dai vecchi detriti, preparandolo, digiuno e purificato, a una nuova vicenda. Anni affollati è il punto di approdo di tutto il lavoro precedente, e insieme un nuovo punto di partenza: definitivamente sgombrata la scena da ogni possibile equivoco sull’effettivo iso- L’illogica speranza 75 lamento dell’attore, finalmente accertata l’indispensabile, esasperata «soggettività» della ricerca dell’artista (che non ha bisogno di «essere dio» per guardare la terra «piuttosto da lontano»...), intorno al signor G cala un silenzio carico di attesa. No, non muovetevi c’è un’aria stranamente tesa e un gran bisogno di silenzio siamo come in attesa. No, non parlatemi bisognerebbe ritrovare le giuste solitudini stare in silenzio ad ascoltare l’attesa è una suspence elementare è un antico idioma che non sai decifrare un’irrequietezza misteriosa e anonima è una curiosità dell’anima e l’uomo in quelle ore guarda fisso il suo tempo un tempo immune da avventure o da speciale sgomento no, non muovetevi c e un aria stranamente tesa e un gran bisogno di silenzio siamo come in attesa perché da sempre l’attesa è il destino di chi osserva il mondo con la curiosa sensazione di aver toccato il fondo senza sapere se sarà il momento della sua fine o di un neo rinascimento non disturbatemi sono attirato da un brusio che non riesco a penetrare non è ancora mio perché in fondo anche il mondo nascente è un po’ artista predicatore e mercante pensatore e automobilista il nuovo qualunquista guarda anche lui il presente un po’ stupito di non aver capito niente 76 La canzone a teatro l’attesa è il risultato, il retroscena di questa nostra vita troppo piena è un andar via di cose dove al loro posto c’è rimasto il vuoto un senso quieto e religioso in cui ti viene da pensare e lo confesso ci ho pensato anch’io al gusto della morte e dell’oblio no, non muovetevi c e un varia stranamente tesa e un gran bisogno di silenzio siamo tutti in attesa. L’attesa ci immerge e ci fa complici del nuovo stato d’animo dei due autori. Nell’invito discreto alla concentrazione e ad un’umile predisposizione al futuro, c’è tutta l’illogica speranza che informa di sé Anni affollati. Speranza nell’artista, nell’uomo che «osserva il mondo». Una fede pacata ma orgogliosa nel proprio «stare in silenzio ad ascoltare», una ritrovata dignità che poggia esclusivamente sulla «curiosità dell’anima» e non abbisogna di soluzioni o ulteriori spiegazioni, anche se continua ostinatamente a cercarle. Ma L’attesa sancisce, anche, la vittoria di un metodo, l’avvenuta realizzazione di un progetto: Gaber e Luporini sono arrivati a determinare un linguaggio di così forte autonomia, una figura scenica di così precisa connotazione, da trovare in sé, nel solo fatto di esistere, una motivazione ai suoi sforzi. Dopo tante «fisicizzazioni» fallite, Gaber ha fisicizzato il suo ruolo di attore. Rasserenato dalla coscienza della propria identità, l’attore diventa così metafora palpabile dell’individuo che si interroga e che cerca; senza illudersi di trovare, ma con la certezza che il suo cercare è, di per sé, una garanzia di riscatto. A furia di sperimentare su di sé gli stimoli e i suggerimenti della realtà, Gaber ha scoperto nella definizione della propria identità formale, di linguaggio, l’unico contenuto possibile. Come scriveva Luporini, «la disciplina di un’arte grazie una sen- L’illogica speranza 77 sibilità estremamente soggettiva, può avere una forza oggettiva incomparabile». La «pratica della solitudine» (sono parole di Gaber) da cui prende le mosse Anni affollati trova quasi un’introduzione antitetica nella canzone che dà il titolo allo spettacolo, appunto Anni affollati, nella quale si prendono le distanze, molto probabilmente per l’ultima volta, dal coacervo di miti, mode, illusioni e aggregazioni più o meno di maniera che avevano ispirato ai due autori le invettive liberatorie di Quando è moda è moda e Io se fossi Dio. Ed è facile immaginare che, data la piega presa dalla più recente produzione di Gaber e Luporini, questa canzone rappresenti il definitivo commiato dei due dagli anni Settanta. Anni affollati di idiomi, di idioti di guerrieri, di pazzi, anni di esercizi anni affollati di arroganza e di stucchevole bontà di tentativi disperati, anni affollati di qualsiasi forma di incapacità. Anni affollati per fortuna siete già passati ho fatto indigestione, la mia testa è piena dall’Africa all’America al mio letto non c’è rimasto niente che non so. Io sono così pieno da neanche ricordare il giorno in cui lasciai una donna o in cui una donna mi lasciò. Anni affollati per fortuna siete già passati e quanti ne ho mangiati di domani e di destini e poi gli spazi aperti, le donne solidali le erbe dopo i pasti, l’orgasmo a tutti i costi con l’ARCI non si è soli, famiglia meneghina, amici della Francia, a scuola imparerò a ballare mi vien da vomitare. Anni affollati degli ultimi dieci anni non riesco più a smaltirvi, c’è troppo poco oblio anni affollati di gente che ha già pensato a tutto 78 La canzone a teatro senza mai pensare a un Dio, anni di gente informata e noiosa vi sbiadiranno gli anni, gli anni futuri che sbiadiscono ogni cosa. Anni affollati dove anche gli oggetti si sono riuniti e ti girano intorno come una serie ciclica di ombre dove tutto è interessante e niente incombe. Anni affollati per fortuna siete già passati anni affollati di paure e di ricatti, di impossibili guerre, anni affollati di mani sentenziose che maltrattano le chitarre anni affollati di disperati senza dignità di mendicanti un po’ arroganti e senza fisarmonica di chi rovescia tutto e poi si arrende alla domenica. La Cina è un po’ scaduta, Cian Cing l’han condannata ma forse lo dovevano fare mi vien da vomitare. Anni affollati degli ultimi dieci anni non riesco più a smaltirvi, c’è troppo poco oblio anni affollati di gente che ha pensato a tutto senza mai pensare a un Dio di troppe cose non so cosa farne per me che avrei bisogno di riferirmi a poche immagini ma eterne anni affollati anni affollati anni affollati per fortuna siete già passati «Avrei bisogno di riferirmi a poche immagini ma eterne». E già possibile immaginare quali saranno i più importanti elementi di discussione tra Gaber, il suo pubblico e la critica a proposito di Anni affollati. Lo spettacolo non ha paura di nutrirsi di termini come morale, fede, eternità e dio, e in bocca a un Cavaliere del Dubbio come Gaber, sono parole che possono fare impressione, attirandogli la rinnovata diffidenza di chi lo giudica anticonformista a tutti i costi o, ancora peggio, l’improvvisa simpatia dei no- L’illogica speranza 79 vissimi stuoli di baciapile che percorrono il nostro paese. Quale morale? Quale fede? E fede in che cosa? E di quale dio vanno parlando questi due nemici dichiarati di ogni Chiesa opprimente e ipocrita? Nei giorni passati in Toscana con Gaber e Luporini, si è discusso e ridiscusso di questi argomenti. Mano a mano che i due amici-autori procedevano con il loro lavoro, le conversazioni notturne si allungavano e si guardava l’orologio con sempre minore frequenza. Mi è molto difficile riuscire a riportare in modo «neutro» e semplificato il succo di quei 1unghi discorsi, generosi e imprudenti come sempre sono i discorsi di chi non ha verità accademiche da difendere o paludamenti culturali da tutelare; anche perché di «neutro», quei discorsi, avevano poco e poco, per giunta, di semplice. Ma provare a darne qui un piccolo riassunto è indispensabile per capire in quali direzioni si muova, oggi, il teatro di Giorgio Gaber, e quanto sia legittima l’ambizione sua e di Luporini a continuare, come dice Gaber, «ad affrontare spudoratamente argomenti più grossi di noi: ma non con presunzione; non siamo certo due superintellettuali. Però possiamo offrire una garanzia di serietà a prova di bomba: non scriviamo una mezza parola, una virgola, un solo aggettivo, di cui non siamo pienamente convinti». Partiamo citando nuovamente la provocatoria «auto-recensione» pubblicata da Luporini nel suo catalogo: «L’obiezione di relatività del vero, del giusto, del bello, che appare frequentissima nel campo dei giudizi estetici, è comoda, ma priva di coraggio morale... Quei signori ragionevoli, aperti e democratici si adagiano sull’opinabile... Per questa gente (tra cui anche noti critici d’arte) l’arte non è mai abbastanza irrazionale. Sono disposti ad accettare qualsiasi emozioncina, qualsiasi opinione, qualsiasi tendenza pur di tenere lontano dall’opera d’arte la coscienza e l’aspirazione alla verità una. La loro disponibilità è tale che non si accorgono dell’incompatibilità delle tendenze. È vero che i quadri non sono facilmente commensurabili, ma è anche vero e giusto che vogliano distruggersi a vicenda. L’accettazione di 80 La canzone a teatro qualsiasi esperienza artistica è una debolezza o un trucco della cultura neutralizzante, e il fatto ricorrente che un critico presenti oggi un pittore e il giorno dopo uno di tendenza diversa non è un segno di apertura, ma di disgregazione morale. L’idea del vero non può essere suddivisa. Ogni opera aspira al vero nella propria unicità, e proprio perché non ammette suddivisioni vuole giustamente la morte dell’altra, e successivamente anche la propria.. La tolleranza estetica, che lascia invece convivere le opere d’arte, infligge loro la falsa morte, la morte dell’“uno accanto all’altro” tanto cara alle rassegne internazionali». I critici d’arte nominati da Luporini fanno parte di una schiera molto vasta di intellettuali, artisti, uomini di cultura, uomini e basta che nelle nottate toscane venivano raggruppati, non senza una cospicua dose di ironia, nella categoria detta «degli infedeli», in antitesi, ovviamente, a quella detta «dei fedeli», nella quale Gaber e Luporini sono fieri di autoannoverarsi. «Quando parlo di aspirazione alla verità una – spiega Luporini – metto l’accento non tanto sulla verità stessa, quanto sull’aspirazione ad arrivarci. Ambire alla verità è in palese contrasto con la “concorrenza di opinioni” dominante: mi sembra che si sia passati dai vecchi moralismi ad una nuova amoralità. Dall’antico dogmatismo ad un atteggiamento di indifferente acccettazione di qualunque cosa. I nuovi amorali, gli “infedeli”, hanno acquisito strumenti più raffinati di a realtà, sono senza dubbio “più intelligenti” e molto preparati, ma si limitano a giocare con i segnali che riescono a interpretare. Ecco perché abbiamo sentito il bisogno di tirare fuori termini imbarazzanti e poco maneggevoli come “morale” e come “fede”. Parole pericolosissime, perché assumono subito il sapore di nuovi moralismi, di una visione nuovamente ideologica e dogmatica del mondo. Nello spettacolo non sarà facile spiegare cosa intendiamo quando parliamo di Dio». E Gaber: «Cercheremo di spiegare che questa voglia di Dio è soprattutto una voglia di avere una spinta, un desiderio morale. Voglia di credere, voglia di esistere. Non ci interessa collocarci L’illogica speranza 81 al di là del bene e del male, come quei nostri amici che ascoltando Io se fossi Dio ci chiedevano: ma chi ve lo fa fare? Perché prendersela tanto? Loro pensano che non sia più il caso di indignarsi. Che va bene tutto. E invece no: va bene un cazzo. Se non si lotta per cercare una ragione, per inseguire la chiarezza, tanto vale crepare. Anch’io mi diverto molto a giocare a palla. Ma per due ore al giorno, non per dodici». Ma la storia lasciò l’uomo al numero 1981 e l’uomo come congelato non intravvedeva il suo destino non era il capolinea qualcosa doveva accadere lo suggeriva una fede spontanea che non era ancora il tempo di morire. Il vecchio saggio e il bimbo appena nato guardavano la notte dove il caso è in agguato e la notte lasciava intravvedere, La notte col trucco metafisico e scioccante che le è proprio le cose che riuscivano a stupire il bimbo e il vecchio: come ad esempio su di un cielo eterno un grattacielo illuminato di pistacchio. Il vecchio saggio e il bimbo tra le braccia della mamma di fronte a quella strana meraviglia rinnovarono il dilemma se quelle cose colorate e straordinarie sarebbero col tempo diventate se a Dio fosse piaciuto necessarie. Ma di una cosa siamo certi che i loro occhi vedevano, non so se con fiducia o senza scampo quell’enorme assurdità che è il tempo. Signore Iddio non so se faccia bene o faccia male assistere ogni tanto al tuo definitivo e ricorrente funerale. 82 La canzone a teatro Questa volta c’era poca gente, troppo poca gente di cardinali e papi non se ne son visti del resto i tuoi ministri sono troppo effettuali a noi piaceva immaginarli più metafisici e mentali a noi che siamo gli ultimi fedeli. Ma a scanso di fraintesi non faccio il polemista per mestiere cerco solo di capire di capire come fa la gente a vivere contenta senza la forza vitale di una spinta di capire come fa la gente che vive senza correre dietro a niente. È vero, sono un po’ anarcoide e pieno di livore ma in questo mondo troppo sazio di analisi brillanti e di torpore ci sarà pure un po’ di spazio per chi si vuole sputtanare perché piuttosto che giocare con le più acute e raffinate astuzie del cervello è meglio ricoprirsi di merda fino al collo e tirar fuori la rabbia spudorata di chi è stupido ma crede e urla il suo bisogno disperato di una fede. Perché Dio c’è ancora Dio c’è ancora, io insisto Dio c’è ancora altrimenti non esisto. È un Dio inconsueto che non ha niente di assoluto è un Dio che non conosce il bene e il male, figuriamoci il sociale è un Dio severo che con magica ironia ci diede insieme il falso e il vero è un Dio inventato senza altari né vangeli ma è l’unica mia spinta in questo mondo di infedeli. Signore Iddio L’illogica speranza 83 non so se faccia bene o faccia male assistere ogni tanto al tuo definitivo e ricorrente funerale. C’era poca gente, appunto, troppo poca gente e rimpiangevo le piccole sapienze che ogni trapasso lascia e poi non resta niente e mi veniva in mente quando si credeva come dei bambini e insieme a tre ragazzi finiti male si livellava destini. Ma come fate ora a vivere e a morire senza qualcosa da insegnare ma come fate a viver tra la gente con l’anima neutrale e indifferente. E vero, si perde un po’ il pudore a riparlare di morale però mi fa un po’ schifo saltellare dal fanatismo più feroce all’abbandono più totale e praticare nei salotti la tecnica furbastra di fare a gara a chi è più a destra. Confronto a questi ironici infedeli senza il minimo spessore è molto meglio la mancanza più assoluta di pudore confronto allo snobismo dei guardoni distaccati e [intelligenti è molto meglio persino la retorica dei vecchi sentimenti è molto meglio l’urlo disperato di un coglione che muore e che ha bisogno di una nuova religione. Perché Dio c’è ancora Dio c’è ancora, io insisto Dio c’è ancora altrimenti non esisto. È un Dio incostante che non ha mai fermato niente è un Dio che si rincorre senza scampo, è l’immagine del tempo è un Dio un po’ strano che ci insegna la follia 84 La canzone a teatro di ribaltare sempre il piano è un Dio ancestrale che è l’essenza del pensiero la forza naturale che mi spinge verso il vero. Signore Iddio non so se è irriverente o se è normale dover ricominciare dal tuo definitivo e ricorrente funerale. Questa canzone si chiama 1981. L’ho ascoltata, per la prima volta, nella sala d’incisione milanese dove Gaber stava preparando il disco e le basi musicali del nuovo spettacolo, e ci ho ritrovato, con una precisione impressionante di concetti e di atmosfere, le discussioni di qualche mese prima in Versilia. Chiacchiere spericolate che hanno trovato nella loro realizzazione artistica quasi una «dignità scientifica», una determinazione sconosciuta alla prosa ingarbugliata di una conversazione; e che pure, al tempo stesso, ne conservano intatti il senso polemico, la vivezza delle affermazioni, la voglia di dire. Così ho capito, meglio quanto avessi capito in precedenza, perché Gaber non ama le interviste, perché non ama esprimersi «ufficialmente» al di fuori del palcoscenico: le sue canzoni, attraverso piccoli miracoli di equilibrio, di rifinitura, di calibratura formale, esprimono quanto gli preme esprimere cento volte meglio delle conversazioni delle quali si alimentano. L’ambiguità di un’intervista è arbitraria e improvvisata, mentre l’ambiguità di un’opera d’arte è metodica e cosciente. Gaber e Luporini, per esempio, mi avevano parlato in più di un’occasione di una canzone ambientata in un ospedale e tutta giocata sul senso di misteriosa complicità che, in una situazione avvilente e abnorme come quella di una corsia, porta gli ammalati ad avere reazioni radicalmente diverse da quelle che si hanno fuori. Il brano era ancora in embrione, ma intuivo, dalle nostre conversazioni, che sarebbe stato attraversato da un senso di morte e insieme carico della «falsa coscienza» dei sani: una sorta di conflitto tra la malattia come veicolo di verità e l’istinto di L’illogica speranza 85 vita come inevitabile spinta ad uscire fuori dall’ospedale. Lo spirito della canzone mi era chiaro, ma solo davanti al testo, due mesi dopo, sono riuscito ad avere un’idea precisa di come i due autori abbiano risolto la contraddizione, sciogliendo in cinque minuti di teatro i nodi che tanti lunghi discorsi rischiavano di ingarbugliare. La canzone si chiama Gildo: Fu proprio là nella corsia di un ospedale che aprii gli occhi e vidi un letto accanto al mio il primo giorno si ha una sensazione spiacevole e volgare e i piccoli disagi non fanno bene al cuore. Ma la notte, la notte, aumenta lo spessore del dolore con le sue presenze la notte il cuore è gonfio la notte e i lamenti dei malati riempiono le stanze. Ma stranamente il giorno dopo prima che arrivino i parenti si fa un poco di ironia persino sui lamenti e il letto accanto al mio con dentro un uomo grosso e un po’ volgare diventa una presenza singolare. Gildo come faccio, mi vergogno, dovrei andare... e Gildo, il grosso Gildo, mi insegna da sdraiato come devo fare e intanto a pochi metri di distanza si fatica a respirare. Sono le innocenti stonature di un salotto sono i piccoli fastidi, i gesti un po’ meschini che fanno l’uomo veramente brutto ma in ospedale dove la perdita è totale dove lo schifo che devi superare è quello di aiutare un uomo a vomitare dove non c’è più nessuna inibizione dal vomito al sudore alla defecazione allora salti il piano se lo sai saltare 86 La canzone a teatro e entri in un altro reparto dell’amore. Gildo io vorrei che all’insaputa delle suore... e Gildo, il grosso Gildo, mi passa di nascosto qualcosa da mangiare e intanto a pochi metri di distanza un uomo muore. Si parla poco e per diverse ore e a notte alta quell’ospite agghiacciante viene portato via e riprende indisturbato e noncurante il ritmo della corsia. I piccoli disagi, l’ho già detto, fanno male al cuore ma il senso della morte è sempre stato troppo forte, Gildo non l’ho mai saputo immaginare chissà perché improvvisamente diventa elementare. Potrà sembrare irriverente ma qualche ora dopo ridevamo tutti per mente ma a scanso di fraintesi non è il cinismo mestierante e fastidioso dei dottori ma il senso della vita che ti spinge fuori. Gildo mi dispiace son guarito devo andare e Gildo che naturalmente mai più nella mia vita ci avrò il gusto di incontrare nasconde questa volta con vergogna il suo dolore. Il cielo era azzurro e teso e le mie gambe strane senza peso attraversavo il giardino tremante come in un sogno riposante gli occhi delle nuove madri luccicavano e i grossi seni sotto le vestaglie biancheggiavano L’illogica speranza 87 solitario avvertivo quel candore, quell’aria di purezza il cielo era azzurrino e c’era un po’ di brezza e stranamente un senso d’amore che non so dire. Gildo, come altre canzoni di Anni affollati, è volutamente «sentimentale»: rarissimamente, negli spettacoli passati, Gaber e Luporini avevano parlato di «amore» senza un intento ironico, o dissacratorio, o comunque deformante. Il vigore dei sentimenti e dei sensi, del resto, permea tutto il nuovo spettacolo, quasi come sfida alla cultura «fredda» e spassionata degli «infedeli». «Ci sentiamo in polemica con una certa cultura oggi dominante – dice Luporini –. Quella cultura asettica e distaccata che capisce tutto e non giudica nulla, che interpreta senza mai prendere posizione. Le persone che vivono di questa cultura sono, molto spesso, nostri amici, li incontriamo e discutiamo con loro. Del resto è sempre stata una caratteristica mia e di Giorgio quella di rivolgerci di preferenza a chi ci sta più vicino, dai tempi del Bar Casablanca e dell’incontro-scontro con i nostri compagni di allora. Solo che la discussione, oggi, è per noi più rischiosa di una volta: perché prima eravamo noi a far la parte dei critici dei falsi miti e delle false morali; mentre adesso, scontrandoci con una logica che si limita ad osservare il mondo senza lasciarsene coinvolgere più di tanto, rischiamo di passare per moralisti, per sorpassati, per vecchi. E penso che non ci sarà facile chiarire il senso di questa nostra nuova ricerca. Ma ci proviamo: magari, proprio giocando sul terreno degli avversari. Borges, per esempio, viene molto spesso presentato come un campione di quella cultura, come un intellettuale che attraverso il suo continuo gioco di finzioni si estranea e si diverte, un geniale descrittore del caos. il “nostro” Borges, invece, ci appare come a sorta di grande teologo ateo, di instancabile ricercatore di verità. Ecco, nell’incessante interrogarsi di Borges, nella continua formulazione di nuove domande, noi troviamo la sua grande moralità». 88 La canzone a teatro Accanto al tanto amato Céline, il «teologo ateo» occupa ormai un posto preminente nella biblioteca di Luporini (che, a differenza di Gaber, ha sempre privilegiato la letteratura nei confronti della saggistica); e Anni affollati contiene, assieme a tante suggestioni e atmosfere borgesiane, anche un «omaggio a J.L.B.», la canzone Il sosia, direttamente ispirata da un racconto del grande argentino. Il tema, molto caro a Gaber, dell’alienazione e della crisi di identità, affrontato in passato soprattutto nella chiave «neopsichiatrica» di Laing e Cooper (vedi canzoni come L’elastico, La ragnatela, Da quale parte del cancello), viene adesso vissuto in una dimensione affatto letteraria che lo rende molto meno contingente, molto più sciolto dai legacci dell’attualità. «Borges – spiega Luporini – in questo momento ci è molto congeniale proprio per la sua atemporalità, per l’astrattezza delle sue storie». Clima molto consono ai concetti di «solitudine» e di «attesa» così importanti, in questo momento, per i due autori. L’«astrattezza» di Borges, tuttavia, è solo apparente: come si può capire leggendo il testo del Sosia, la definizione dei termini «reali» dell’azione si adatta perfettamente alla consueta esigenza di fisicità di Gaber, che riesce, una volta di più, a dare concretezza scenica a una situazione di per sé impalpabile e concettuale. E una volta di più, il corpo e la voce dell’attore, calandosi nei particolari, rendono oggettivo un momento di grande interiorità: Fuori c’era un bel cortile poi le grandi scale e c’era il vento e gli alberi di mele. Si fece notte e un uomo della mia statura e forse della mia presenza mi conduceva in un’insenatura che a un certo punto diventava la mia stanza. Lì c’era tutta la mia vita che per la prima volta mi si rivelava e c’era un grande specchio che indifferente L’illogica speranza mi duplicava. L’uomo della mia statura e della mia presenza f orse troppo familiare, forse troppo somigliante mi stava accanto e non faceva niente. Mi giunse la sua voce che assomigliava un po’ alla mia ma era più ingrata e senza sfumature con certe fastidiose intonazioni che sento a volte nelle mie registrazioni. Ma più che altro mi spaventò il suo volto tremendamente uguale al mio non ebbi più alcun dubbio quell’uomo ero senz’altro io. E allora io mi vidi così brutto e scoperto che fui preso dal terrore e mi scoppiava il cuore come fosse un infarto e lui rideva e poi sputava l’aria con una calcolata cattiveria e quella smorfia era la mia copia speculare così imbruttita da far orrore. Odio il tuo viso che è la mia caricatura odio la tua voce che è la mia scimmiottatura odio l’arroganza della tua idiozia odio la tua stupida parola che è la mia. Ma lui restava immobile a guardare poi prese a parlare esageratamente adagio. Mi disse che era logico e normale che in quella notte di casuale sortilegio avevo avuto il privilegio di conoscere il male. Fuori non c’era più il cortile né le grandi scale nemmeno il vento e gli alberi di mele. Era come un sogno che svapora 89 90 La canzone a teatro che quando lo racconti non riesci neanche a ricordarti. Fuori mi aspettavano altri sogni altri infarti Al termine del mondo Dieci anni fa, quando l’ondata progressista e libertaria del Sessantotto diede gambe e voce alla speranza di milioni di uomini e di donne in tutto l’Occidente, Gaber e Luporini parteciparono a quel nuovo bisogno di libertà e di fede nella scomoda posizione di chi dubita ad oltranza. Incerti in mezzo alle certezze, agnostici nel pieno di una nuova conoscenza, anticiparono con un’esattezza che oggi ci appare impressionante l’imminente crisi dei nuovi miti: ma ottennero l’attenzione e il rispetto di un pubblico spesso in disaccordo con loro proprio perché la loro critica anticonformista e spesso sgradevole passava attraverso uno strumento artistico di cristallina chiarezza e di palese buona fede. L’autonomia di linguaggio e il rigore della rappresentazione erano la loro garanzia di serietà e di coraggio; e il pubblico capì, e imparò a confrontarsi, a riconoscersi o a prendere le distanze. Oggi, che di quella fede sembrano essere rimasti solo l’indifferenza assuefatta dei miscredenti o la tragica ottusità del terrorismo bigotto, Gaber ritorna a parlare di speranza. E lo fa, nuovamente, partendo da se stesso, da quella straordinaria presenza che è l’uomo-artista, l’uomo ricercatore, l’uomo «fedele a se stesso». Il credito acquistato in tanti anni di teatro è enorme, forse unico in Italia: è ancora presto per sapere come il pubblico giudicherà la nuova via imboccata da Gaber e Luporini; ma se il loro lavoro si fonda sui presupposti che ho cercato di individuare in questo libro, non è difficile pronosticare per Anni affollati un nuovo, vivissimo interesse. 92 La canzone a teatro La volontà di movimento e di ricerca, di cambiamento e di passione che cova sotto le ceneri degli anni Settanta è esplosiva, e un presente angoscioso e piatto, da «termine del mondo», non riesce a spegnere infinite scintille di speranza e di desiderio. I vetri delle stanze hanno una forma rigida e perfetta e l’uomo è fermo alla finestra, l’uomo aspetta un grattacielo enorme, una mitologia nascente e l’uomo guarda in basso dove c’è la strada e non fa niente. Adagio, distrattamente senza angoscia né stupore fa qualche passo nel silenzio delle stanze copiando gelide e automatiche sequenze. Senza futuro né passato probabilmente il tempo s’è fermato e ancora lui nel semibuio sfiora con le mani qualche oggetto poi lo sposta, si direbbe senza farlo apposta ma forse distrattamente pensa alla sua storia sembra quasi con sollievo il suo bilancio è positivo. Un uomo che nella vita ha sempre usato la ragione con la certezza di avere fatto tutto bene adesso abbassa le lussuose veneziane e aspetta il colpo di fucile della fine. Ma forse commettiamo un grosso errore quando si pensa che quell’uomo aspetta solo di morire quando si pensa al futuro della storia come l’avessimo già visto o lo sapessimo a memoria quando si pensa a uno sviluppo inarrestabile e perfetto come fosse Dio e le confesso ci ho pensato anch’io piagnucolando per come aveva già ridotto quel poco che restava ancora del soggetto. È vero, c’è un momento in cui ti pare sia finito il tuo viaggio hai messo tutto a posto senza accorgerti che stai morendo Al termine del mondo 93 che sei arrivato al capolinea, al termine del mondo. Ma al termine del mondo per fortuna le strade sono sempre più di una. È vero, abbiamo commesso qualche errore a dir che l’uomo muore ma come Diogene che certo non invidio quanta fatica a riconoscer l’individuo un individuo che obbediva alla sua sorte ma stranamente non era ancora la sua morte e dico stranamente per quelli come me che hanno creduto troppo a Francoforte. Ma al termine del mondo per fortuna le strade sono sempre più di una. C’è sempre qualche cosa che sfugge alla ragione del [presente persino l’esattezza e la potenza del sistema l’abbiamo vista come un mito probabilmente esagerato. C’è sempre qualche cosa che sfugge alla ragione del [presente persino lo sfacelo generale magari è solo un giusto ammonimento e non la fine irreversibile e totale. Ma c’è sicuramente una ragione se un idea fa il suo bel giro nella testa di un coglione: l’idea era quella troppo elementare che tutto si potesse livellare l’idea era quella troppo razionale di un mondo senza un diavolo nel cuore l’idea era quella di un mondo senza neanche un dio il coglione ero io. Ma al termine del mondo per fortuna le strade sono sempre più di una. Ma prima di ammazzare un uomo ce ne vuole mettiamoci ogni giorno alla finestra col fucile 94 La canzone a teatro e l’ultimo bagliore che vedremo bene non sarà certo il colpo di fucile della fine. «Prima di ammazzare un uomo ce ne vuole». Malato, smagrito, offeso, alienato, sofferente, nevrotico, pallido, livido, angosciato, l’attore è incredibilmente vivo. Muscoli, nervi, scheletro, gesti, voce obbediscono ancora a uno sconosciuto vigore, costituiscono i tratti di un imprevedibile «eppur si muove». Sulla scena, dove ogni passo è già stato misurato, ogni gesto compiuto infinite volte, ogni copione già scritto e riscritto, l’uomo solo continua a recitare. Politeama Periodico mensile in attesa di registrazione presso il Tribunale di Milano Direttore Responsabile: Luca Formenton Finito di stampare nel mese di gennaio 1982 presso la TIPLECO., Piacenza per conto de «il Saggiatore» s.p.a., Milano «Anni affollati dove anche gli oggetti si sono riuniti e ti girano intorno come una serie ciclica di ombre dove tutto è interessante e niente incombe.» L’ultimo spettacolo di Giorgo Gaber segna una svolta nella sua vicenda teatrale: attraverso i suoi interventi e testi delle canzoni, l’itinerario esemplare di un uomo di spettacolo solitario e monologante. L. 6.000 (IVA inclusa)