LAICITÀ: il caso Englaro e il testamento biologico

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LAICITÀ: il caso Englaro e il testamento biologico
Il Testamento biologico e il caso Englaro
di Maurizio Merlo © copyright 2009
Saggio scritto nel febbraio 2009
con la collaborazione nella selezione
delle fonti di Matteo Barrasso.
Saggio pubblicato sulla rivista trimestrale
di studi Politici “Socialisti e Democratici
Europei” 2009 - II.
1. In altri articoli della presente rivista è trattato il tema “laicità” e quello piu’
specifico dell’ autodeterminazione del cittadino italiano davanti alle proprie intime
scelte sulla vita e sulla morte. L’intenzione è quella di costituire un’articolato
dossier, quale nostro contributo alla importante discussione in corso nel Paese e in
Parlamento. Nel presente articolo ci siamo dati un ulteriore obiettivo, più tecnicogiuridico : fornire al lettore alcuni strumenti di lettura e interpretazione di quanto è
successo intorno e dentro al caso Englaro e
nella prima parte del dibattito
parlamentare per l’approvazione di una legge sul cosiddetto “testamento biologico”.
Non sappiamo mentre scriviamo quali saranno gli esiti del confronto-scontro sul DDL
del Governo Berlusconi in materia. Sappiamo però che non ci tireremo indietro,
nelle varie fasi di questa battaglia di civiltà, nel giocare il nostro ruolo di intellettuali
e di militanti politici a difesa delle comuni conquiste di libertà di tutti gli italiani.
Nel riportare testualmente il contenuto del DDL, dichiariamo sin d’ora che questa
normativa, così com’è, se approvata dal Parlamento, configura chiari ed
inequivocabili profili di incostituzionalità. Hanno ben sostenuto nei giorni passati
l’on. Ignazio Marino ed altri che una legge di tale impostazione, così lesiva
dell’ordinamento costituzionale e delle libertà fondamentali del cittadino, sarà
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necessariamente oggetto di proposta di referendum abrogativo. La norma, peraltro,
sarà immediatamente esposta ai gravami di rito avanti alla Corte Costituzionale per
la sua dichiarazione di incostituzionalità.
Gli articoli di maggior rilievo sono i seguenti : l’art. 2, comma 2 (in materia di
“divieto di eutanasia e di suicidio assistito”) e l’art. 5, comma 6 (in materia di
“contenuti e limiti delle dichiarazioni anticipate di trattamento”). Riporteremo più
avanti, a seguito dei punti piu’ significativi sotto il profilo giuridico, il commento
testuale della bella “lettera aperta” sottoscritta da Umberto Veronesi, Andrea
Camilleri, Stefano Rodotà, Paolo Flores d’Arcais, indirizzata al Segretario del PD On.
Dario Franceschini, pubblicata da Micromega il 26/02/2009. Il riferimento alla
lettera di Veronesi e degli altri sottoscrittori ci consentirà di dare realismo e
contributo di esperienza e scientificità ai talvolta aridi risvolti di stampo
strettamente tecnico-giuridico.
Il primo articolo, significativamente intitolato “Divieto di eutanasia e di suicidio
assistito”, testualmente recita : “L’attività medica, in quanto esclusivamente
finalizzata alla tutela della vita e della salute, nonché all’alleviamento della
sofferenza non puo’ in nessun caso essere orientata al prodursi o consentirsi della
morte del paziente, attraverso la non attivazione o disattivazione di trattamenti
sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da
cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il
paziente”. La lettera aperta di Veronesi commenta : “ Il che significa che Piergiorgio
Welby non potrebbe far disattivare il respiratore artificiale, e che Luca Coscioni non
avrebbe potuto rifiutare la tracheotomia, e che l’amputazione di un arto che va in
gangrena diventerebbe coatto, e così la trasfusione di sangue anche a chi la rifiuta
per motivi religiosi (tutti rifiuti garantiti oggi dalla legge e piu’ volte applicati fino al
“prodursi della morte del paziente”).
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Il secondo articolo (“Contenuti e limiti delle dichiarazioni anticipate di
trattamento”) testualmente recita : “Alimentazione ed idratazione, nelle diverse
forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di
sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono
formare oggetto di Dichiarazione Anticipata di Trattamento”. La lettera aperta di
Veronesi nuovamente commenta : “ In tal modo il cosiddetto testamento biologico
diventa una beffa. Qualsiasi cosa abbia stabilito il cittadino, davanti a un notaio e
reiterando le sue volontà ogni tre anni, il sondino gli sarà messo in gola a forza. I
medici delle cure palliative hanno del resto spiegato drammaticamente che
alimentazione e idratazione non alleviano ma moltiplicano e intensificano le
sofferenze dei malati terminali. Queste sofferenze aggiuntive, che è difficile non
definire torture in malati in quelle condizioni, diventano con questa legge
obbligatorie”.
Avvisiamo i lettori che quando questo articolo andrà in stampa quasi sicuramente
alcuni
“elementi” normativi saranno già stati oggetto di emendamenti o di
rielaborazioni. In ogni caso, difficilmente muteranno i temi di fondo della battaglia
politica.
2. Un passo indietro sul caso Englaro.
I magistrati investiti dall’esame del caso, stante la non esistenza di una legge
specifica in materia, hanno dovuto decidere utilizzando le norme di principio e
costituzionali nonché la giurisprudenza sedimentatasi nel tempo.
La Prima Sezione della Cassazione (16-10-2007, n. 21748) ha stabilito i principi di
diritto di riferimento cui poi la Corte d’Appello di Milano si è attenuta.
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Curiosamente, nei giorni di maggiore attenzione al caso Englaro, della sentenza
della Cassazione si è parlato poco e male. Il fatto sicuramente non ha aiutato in
termini di chiarezza l’opinione pubblica : una più attenta lettura e un’analisi più
adeguata di questa sentenza avrebbero costituito un evento di grande risonanza
sociale e di aiuto alla comprensione di quale fosse la posta in palio e su quali
ragioni etiche e di diritto si fondasse la battaglia di Beppino Englaro e quali fossero i
termini corretti di una discussione sulla materia “testamento biologico”. Termini
tutti pacificamente riferibili ai contenuti della sentenza della Suprema Corte, che
rappresenta il momento più
importante di sintesi, nonché
di autorevolezza
statuale, sul tema.
Ci accingiamo, pertanto, all’analisi della sentenza con l’aggiunta di alcuni
commenti, taluni favorevoli, altri contrari.
L’ argumentum praecipuum della Corte Suprema da cui muove le mosse la
sentenza sono i principi di autodeterminazione e di libertà dell’individuo, diritti
costituzionalmente garantiti dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione repubblicana.
L’articolo 2 garantisce “i diritti inviolabili dell’uomo”.
La garanzia di tali diritti rappresenta da una parte, i limiti entro cui l’intervento
dello Stato può manifestarsi, comporta dall’altra, la piena espansione della persona
che non può essere subordinata o limitata dalla collettività o da principi etici o
religiosi non condivisi.
L’art. 13 garantisce che “la libertà personale è inviolabile” e fa consistere detta
libertà nella potestas individuale del cittadino di disporre del proprio corpo in senso
fisico ; ogni limitazione è inammissibile, se non per atto motivato dell’autorità
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (in ambito sanitario: gli
eccezionali motivi di sicurezza pubblica : epidemie, vaccini e simili) ; l’articolo 13
tutela, altresì, la libertà morale, poiché qualsiasi obbligo di fare o non fare
diminuisce la dignità della persona nei confronti delle altre persone ; il diritto alla
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libertà è peraltro la premessa logica di ogni altro diritto di libertà (di opinione, di
religione, ecc.).
E’ evidente, infatti , che porre limitazioni alla disposizione del proprio corpo
comporta consequenzialmente la limitazione all’ esercizio di qualsiasi altro diritto di
libertà costituzionalmente protetto.
Dal punto di vista storico poi il diritto al habeas corpus, come è chiamato nei
paesi anglosassoni il diritto di disporre del proprio corpo, è stato, settecento anni fa,
il primo grande traguardo, oggetto di interminabili battaglie politiche, sociali e
religiose.
Tale diritto, fondamentale nella nostra Costituzione, rispecchia il lungo percorso
storico che è stato necessario per garantire la libertà agli individui e ai popoli.
La Corte Costituzionale nella sentenza 471 del 1990 ha riconosciuto che l’articolo
13 della Costituzione nel concetto di “libertà” ricomprende la libertà di ciascuno di
disporre del proprio corpo. La libertà e l’autodeterminazione sul proprio corpo
comportano che il paziente deve dare il consenso informato al trattamento sanitario
cui sarà sottoposto.
Andrebbe trattato, adesso, con adeguato approfondimento il mutamento di
cultura imposto dalla Costituzione repubblicana del 1948 al sistema di valori,
principi e regole in materia di “indisponibilità // libertà e autodeterminazione del
proprio corpo” . In questa sede possiamo limitarci a ribadire, per ragioni di sintesi,
la qualificazione di questo mutamento di cultura e affermare in modo documentato
che, a seguito della approvazione della Costituzione, le leggi ordinarie come la
giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito, hanno coerentemente
quanto continuativamente marcato questo profondo mutamento. Affermiamo,
dunque, in sintesi : il principio di indisponibilità del proprio corpo disciplinato in
alcune norme ordinarie anteriori temporalmente alla Costituzione repubblicana
(l’art. 5 del Codice civile, atti di disposizione del proprio corpo, e artt. 579 e 580 del
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Codice penale, omicidio del consenziente e istigazione o aiuto al suicidio; per ragioni
di organicità tratteremo della c.d. “eutanasia” nella parte conclusiva della presente
trattazione)
è subordinato al principio giuridico superiore di libertà e
autodeterminazione del proprio corpo, in quanto costituzionalmente protetto . A
titolo di esempio possiamo dire che se è giuridicamente fondato affermare che non
è lecito vendere o affittare un organo del proprio corpo o uccidere una persona
consenziente, il predetto principio non è applicabile al caso Englaro e simili, in
quanto rientrante in tutt’altro ambito di tutela e cioè in quello del trattamento
sanitario, tutelato in via specifica dall’art. 32 della Costituzione che testualmente
afferma “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario
se non per disposizione di legge” (nei già citati casi speciali ed eccezionali : ad es.
epidemie, vaccini e simili).
Il rispetto della libertà e dell’autodeterminazione del cittadino, garantito dalla
Costituzione, dunque, si attua in concreto tramite il consenso informato che il
paziente può dare oppure rifiutare. Il consenso del paziente al trattamento medico è
l’autorizzazione, la delega che il paziente dà al medico di intromettersi sul suo corpo.
La giurisprudenza della Cassazione sul consenso informato è costante.
Nessun trattamento sanitario è obbligatorio. Anche quando il soggetto rischia la
vita può rifiutarsi di essere sottoposto ad un qualsiasi trattamento sanitario. Infatti,
la tutela del diritto alla salute implica la tutela del suo risvolto negativo:” … vivere le
fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri
dell’interessato, finanche di lasciarsi morire” (Cass. 21748/07).
Non vi sono dunque dubbi sul fatto che un paziente possa rifiutare un trattamento
sanitario anche se ciò comporterà la sua morte.
L’unico limite che è imposto al principio di libera scelta del paziente, lo ribadiamo,
è dato dalla necessità di tutelare la collettività .
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L’articolo 32 della Costituzione sancisce che “ nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge “ (ad es.:
epidemie, vaccini e simili).
Il problema all’ordine del giorno è, dunque, stabilire cosa sia esattamente un
trattamento sanitario.
Uno degli argomenti usati da chi era contrario a quanto stabilito in questa
sentenza e nei successivi provvedimenti della magistratura su questo caso è che il
sondino nasogastrico che alimentava Eluana
Englaro non potesse essere
considerato un trattamento sanitario e che andasse quindi escluso dalla copertura
costituzionale di cui all’articolo 32 Cost. che consente di rifiutare le cure.
La sentenza 21748/07 su questo argomento mette a tacere ogni dubbio e
considera il sondino un trattamento sanitario perché “integra un trattamento che
sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi
proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come
composto chimico implicanti procedure tecnologiche” e si richiama alla
giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 238 del 1996) che ha valutato anche il
prelievo ematico tra le misure restrittive della libertà quando è coattivo.
Va sottolineato, ma solo per eccesso di zelo argomentativo, che anche qualora, la
predetta pratica intrusiva del sondino nasogastrico, non fosse considerato un
trattamento sanitario (ipotesi denegata da costante giurisprudenza), detta pratica
sarebbe comunque da considerarsi
un’ intrusione nel corpo del soggetto che deve
essere autorizzata da quest’ultimo, sempre ed in ogni caso (anche qui pacifica
giurisprudenza).
Una procedura del genere costituisce dunque un’invasione che
interferisce con l’integrità fisica del soggetto e va legittimata dal suo consenso.
Si noti, perciò, che la legge sul testamento biologico oggi in discussione, qualora
prevedesse l’obbligo per il paziente di essere sottoposto all’inserimento di sondino
nasogastrico, potrebbe essere considerata incostituzionale perché in violazione della
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libertà e della autodeterminazione del soggetto. Ma a far giustizia di ogni polemica
sull’argomento valga citare la Convenzione di Oviedo che esclude ogni distinzione
fra “cure” e altri “interventi di sostegno vitale” : questa scelta ha una ratio evidente
ed è ben rappresentata in modo davvero tranchant nella “lettera aperta” del prof.
Veronesi che testualmente afferma : “La Convenzione di Oviedo evita ogni
distinzione tra “cure” e altri interventi (“di sostegno vitale”, ecc.) proprio perché
non si possa giocare sulle parole e violare così il diritto del paziente di rifiutare
qualsiasi trattamento medico e/o ospedaliero (tranne che per gli eccezionali motivi
di sicurezza“ pubblica : epidemie, vaccini e simili). Sulla propria vita, insomma, può
decidere solo chi la vive, e nessun altro”. Valga ancora sottolineare che la Legge sul
Servizio sanitario nazionale stabilisce in modo inequivocabile che nessun cittadino
puo’ essere sottoposto a “interventi nel campo della salute” senza il suo consenso
informato, che peraltro puo’ revocare in ogni momento, ed è l’Europa intera ad aver
adottato il criterio del “consenso informato” avendone richiamato l’essenzialità in
campo medico all’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
La libertà del paziente di rifiutare le cure implica che sia superata una altra
obiezione sostenuta nel corso del caso Englaro. Alcuni hanno affermato che in
futuro potrebbero essere fatte delle scoperte scientifiche tali da consentire un
superamento, anche solo parziale, dello stato vegetativo permanente e, pertanto,
non sarebbe possibile lasciare morire un paziente.
Tale argomentazione non è condivisibile se si comprende che ciò che conta è la
volontà del paziente di rifiutare o meno le cure. In altri termini, se un paziente rifiuta
di attendere eventuali future scoperte scientifiche può decidere, in piena libertà, di
non essere sottoposto ulteriormente a dei trattamenti sanitari. Peraltro, detta
considerazione si palesa del tutto ovvia se si considera che sarà in ogni caso il
paziente a sopportare il rischio e la sofferenza fisica derivante dal trattamento
sanitario sul suo corpo.
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La Cassazione nella sentenza 21748/07 comunque afferma che va accertato che
lo stato vegetativo permanente sia irreversibile sulla base dei criteri medici oggi
utilizzabili.
La Cassazione sottolinea che il paziente non deve avere la minima possibilità
di ritornare alla coscienza e alla percezione del mondo esterno. Ovviamente se
il paziente potesse guarire andrebbe adeguatamente curato dal Servizio Sanitario
Nazionale, nel rispetto del principio di solidarietà che anima la nostra Costituzione.
Una volta stabilito che il paziente può rifiutare qualsiasi trattamento sanitario e
che deve comunque autorizzare qualunque intrusione nel suo corpo resta da
affrontare la questione più delicata: chi decide per un paziente in uno stato tale da
non potere esprimere la sua volontà?
La Cassazione in questa sentenza afferma che il tutore decide al posto del
soggetto che non può esprimersi; il tutore deve, però, ricostruire la volontà
dell’interessato che andrà poi rispettata. È la volontà del paziente a dovere essere
considerata e non quella del tutore, per quanto quest’ultimo possa essere un
familiare.
Ma è possibile ricostruire la volontà del paziente da quanto egli ha affermato in
passato?
Come si noterà, il punto cruciale da risolvere in questa e in simili vicende attiene
alle prove cioè si tratta di verificare se da certi elementi (appunto le prove) sia
possibile giungere a certe conclusioni. Infatti, le considerazioni di cui sopra sul
rispetto della libertà del singolo portano ad affermare che se un soggetto ha
affermato chiaramente che non avrebbe voluto essere tenuto in un certo stato e che
non avrebbe voluto essere sottoposto ad alcun trattamento sanitario, preferendo
così morire, allora la sua volontà va rispettata.
Nel caso Englaro si trattava di risalire da vari elementi (quali le dichiarazioni rese
da Eluana Englaro su altre persone in condizioni simili a quelle in cui lei si è poi
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trovata e le sue convinzioni sulla vita) alla conclusione che lei stessa non avrebbe
dato il consenso ad essere sottoposta a nessun intervento tale da mantenerla nello
stato vegetativo permanente in cui si è poi trovata.
Tale ricostruzione della volontà di Eluana Englaro è stata fatta dalla Corte di
Appello di Milano che ha ritenuto di poter concludere, esaminati una serie di
elementi di prova, che Eluana Englaro non avrebbe voluto essere mantenuta in stato
vegetativo.
Non è condivisibile l’affermazione, fatta da molti, che non si possa
legittimamente ricostruire la volontà di un soggetto dalle sue affermazioni rese in
passato.
I giudici devono, infatti, ricostruire costantemente fatti del passato (nel caso in
esame la volontà di Eluana Englaro) a partire dalle prove; sulla base di tali
ricostruzioni verranno poi prese le decisioni, che spesso incidono profondamente
sulla vita delle persone coinvolte. Tali ricostruzioni hanno natura induttiva, ciò
comporta che siano probabilistiche e quindi lasciano sempre dei dubbi; tuttavia, il
nostro ordinamento riconosce (in materia penale dove il livello probatorio richiesto
è superiore alla materia civile) che è sufficiente arrivare al di là di un ragionevole
dubbio, senza pretendere la totale assenza di dubbi poiché ciò non sarebbe
realistico.
Infine, molti hanno rilevato che la volontà di una ragazza molto giovane espressa
in piena salute non possa essere considerata vincolante in condizioni diverse da
quelle in cui è stata espressa.
Tale impostazione è priva di fondamento poiché è ovvio che, pur esprimendo la
propria volontà in buone condizioni di salute, se questa volontà rispecchia l’intima
visione del soggetto sulla vita e la morte allora essa deve essere rispettata
comunque. Al contrario, le direttive anticipate servono proprio a tutelare il soggetto
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in situazioni critiche quindi non possono essere vanificate perché ritenute non
attuali e quindi inattendibili.
Va, anzi, sottolineato che le direttive anticipate sui trattamenti sanitari cui si
vuole essere sottoposti vanno rispettate proprio perché, essendo espresse in
momenti di calma e lucidità, rispecchiano la visione della vita del soggetto.
A conclusione di queste considerazioni divengono necessarie alcune valutazioni in
merito al testamento biologico.
Il testamento biologico è uno strumento che potrebbe consentire al soggetto di
manifestare le proprie convinzioni sul “fine vita” così da rendere maggiormente
chiara la sua volontà e consentire ai suoi familiari, nonché agli operatori sanitari, di
rispettarla. Il testamento biologico avrebbe, quindi, un efficacia probatoria e
consentirebbe la tutela del proprio diritto all’autodeterminazione e alla libertà che
la Costituzione e l’ordinamento già riconoscono.
In buona sostanza la sentenza esaminata costituisce il più autorevole punto di
riferimento del legislatore nella redazione di una normativa in materia : la sentenza
rispetta i principi costituzionali e presenta varie scelte pratiche attuabili in concreto,
in particolare: il ruolo centrale del consenso informato, la funzione del tutore, il
rispetto per la volontà del paziente, l’accertamento della permanenza dello stato
clinico. Il valore di detta sentenza è confermato dal fatto che essa, oltre ad essere
assolutamente coerente con i principi costituzionali e con la citata legislazione
italiana ed europea, presenta vari punti di contatto anche con alcuni testi legislativi
adottati nel mondo. Ad esempio, al pari del Natural Death Act (adottato in California
nel 1976) in essa si precisa che non può parlarsi di un diritto a morire, ma solo di
un’aspettativa individuale a morire con dignità, escludendo così l’eutanasia;
un’impostazione simile è contenuta anche nelle norme adottate in Svezia, Norvegia,
Danimarca e Svizzera; presenta anche alcune analogie con sentenze adottate da
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diverse Corti nel mondo occidentale, in particolare per quanto riguarda il ruolo del
tutore nonché per i principi di libertà ed autodeterminazione che si intende tutelare.
In materia di eutanasia (la parola deriva dal greco : “buona morte”; la pratica
dell’eutanasia è autorizzata con legge in Svizzera, Belgio e Olanda) poi è
assolutamente pacifico l’orientamento della giurisprudenza e della dottrina
giuridica, con riferimento a quanto oggi rileva nel nostro ordinamento, e cioè agli
artt. 579 e 580 c.p., omicidio del consenziente e istigazione o aiuto al suicidio. Per
semplicità citiamo un commento del Codice penale, annotato e commentato, curato
da Tullio Padovani, Giuffrè Editore; la sua sintesi e chiarezza non lascia margini seri
di replica sull’argomento : “Strettamente collegato alla figura dell’omicidio del
consenziente è il problema dell’eutanasia, termine con il quale si è soliti indicare
l’uccisione di persone affette da malattie incurabili o che arrecano gravi sofferenze o
in stato agonico lungo e tormentoso, o malati di mente in maniera irrecuperabile.
Ricorrente è la distinzione tra eutanasia attiva, che comprende ogni condotta attiva
diretta ad abbreviare per motivi di pietà la vita di una persona sofferente, ed
eutanasia passiva, consistente in quei comportamenti passivi che si traducono nella
mancata somministrazione, da parte del sanitario delle cure necessarie a prevenire
od a posticipare la morte di pazienti terminali. Nell’ipotesi di eutanasia passiva, è
pacifica l’irrilevanza penale dell’interruzione delle cure nel caso in cui sia lo stesso
malato a rifiutare l’intervento terapeutico (c.d. eutanasia passiva consensuale), dato
che requisito imprescindibile di liceità di ogni trattamento medico-chirurgico è
proprio il consenso del paziente, salvo che quest’ultimo si trovi nell’impossibilità di
prestarlo validamente per incapacità legale o naturale”. L’eutanasia, dunque, in
base all’ orientamento pacifico di giurisprudenza e dottrina, è altra cosa rispetto al
campo di norme e di valori che regoleranno la materia “testamento biologico” in
dipendenza ed in esecuzione dell’art.32 della Costituzione. Mente chi afferma che la
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sentenza della Suprema Corte introduce di fatto nel nostro ordinamento giuridico
l’istituto dell’”eutanasia”.
Per concludere, la sentenza della Suprema Corte sul caso Englaro può essere
un’utile traccia sia per il legislatore che per chi vuole sostenere le ragioni di una
legge sul testamento biologico rispettosa della libertà della persona.
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Concludiamo augurandoci che l’abbassamento dei toni da più parti auspicato,
un rinnovato clima di riflessione che sembra investire trasversalmente tutto il
Parlamento della Repubblica, la convinzione che è un danno per tutto il Paese
giocare in modo così spregiudicato al piccolo calcolo elettoralistico, questa volta
peraltro sostanzialmente errato a giudicare dalle prime reazioni a caldo ma anche da
un consolidato orientamento laico e umanitario del Paese intero, a prescindere dalle
collocazioni politiche, concludiamo, dicevamo, augurandoci che questo nuovo
trauma al tessuto civile del Paese possa essere evitato. Ci auguriamo altresì che
all’interno del PD possa emergere in tempi rapidi una posizione politica matura,
laica e unitaria sul tema.
In caso contrario,
la riscossa laica è già ripartita
e, in questa Italia, non
intendiamo fare un passo indietro sulle nostre sofferte conquiste civili degli ultimi
cinquanta anni. In caso contrario, cari amici : à la guerre comme à la guerre.
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