L`utilizzo dei social media da parte dei dipendenti - Cc-Ti

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L`utilizzo dei social media da parte dei dipendenti - Cc-Ti
L’utilizzo dei social media da parte dei dipendenti
Introduzione
Negli ultimi mesi i media hanno dato ampio risalto ad alcuni casi di dipendenti che si sono fatti dei “selfies”
(cioè degli autoscatti) semi-svestiti o completamente nudi e in pose assai esplicite sul loro posto di lavoro e
che li hanno in seguito pubblicati sui loro profili social (Facebook, Twitter, Instagram) o sui loro blog. Si sono
anche verificati casi in cui dei dipendenti hanno criticato i propri capi o i colleghi di lavoro pubblicamente su
internet. Queste pratiche possono essere problematiche non solo nell’ottica della produttività lavorativa, ma
anche dal punto di vista della confidenzialità, della sicurezza e della reputazione dell’impresa, senza
trascurare l’obbligo di osservazione del dovere di fedeltà verso il datore di lavoro. Alcuni dei pericoli più
importanti per l’azienda sono l’aumento del rischio di pirataggio (hacking), la perdita di controllo sulle
informazioni, le ricadute negative in termini di immagine e il conseguente rischio di danno alla reputazione
(denigrazione, diffamazione, calunnia, “e-reputazione”).
1. Internet: uno spazio senza regole?
Troppo spesso si ha l’impressione che internet sia uno spazio che esula dalle più banali regole del buonsenso
e del diritto. La propensione all’insulto, ad esempio, è molto più alta nel mondo apparentemente virtuale
delle relazioni elettroniche che in quello reale in cui ci si confronta direttamente con le persone. In questo
senso, l’anonimato utilizzato da molti frequentatori di blog non aiuta certo la civiltà dello scambio di opinioni.
Quello che in un bar sarebbe un diverbio, sulle varie piattaforme messe a disposizione da internet diventa
molto facilmente un violento attacco personale denigratorio. Se questo è già di per sé negativo, esso assume
una valenza ancora più pesante nel contesto aziendale, per i motivi detti in entrata. E’ quindi opportuno
ricordare quali sono i diritti e i doveri che datori di lavoro e dipendenti devono rispettare in generale, ma in
particolare quando utilizzano i social media nell’ambito professionale e privato. Distinzione quest’ultima non
sempre facile. La presente scheda non vuole essere esaustiva, ma ricordare appunto alcune delle regole
fondamentali e fornire qualche consiglio pratico per gestire l’utilizzo di internet e l’accesso ai social media
sul posto di lavoro.
2. Caratteristiche generali dei social media
I social media sono piattaforme più o meno aperte, interattive e partecipative, che permettono di
comunicare, stabilendo relazioni fra persone e/o gruppi di persone. Gli utilizzatori possono, individualmente
o collettivamente, produrre contenuti e condividerli con altri utenti. La partecipazione a queste reti, a forum
di discussione in linea (Facebook, LinkedIn, MySpace, Twitter, Google+, ecc…), la gestione di blog, così come
l’utilizzo di piattaforme di condivisione di dati (ad es. Youtube) o di conoscenza (come Wikipedia) e l’utilizzo
privato di internet sul posto di lavoro sono ormai generalizzate e di per sé questo non è un elemento
particolarmente negativo. E’ la realtà tecnica e sociale odierna e a poco serve provare a mettere troppe
barriere per impedirne l’uso, tanti sono i possibili canali d’accesso e sempre meno definita è la distinzione
tra sfera privata e professionale a causa o grazie (a seconda del punto di vista…) agli strumenti tecnici che
abbiamo oggi a disposizione. Poche regole chiare dovrebbero dunque bastare per gestire la stragrande
maggioranza dei casi. Se la maggior parte delle persone utilizza i social media essenzialmente per scambiare
messaggi privati all’interno di un circolo ristretto di persone che in generale si conoscono, ecco che gli stessi
canali sono pure sfruttati per promozioni di tipo commerciale. L’interazione nella sfera privata è libera e
illimitata e ognuno può decidere liberamente di mettersi mostra come vuole, definendo
l’accessibilità alle loro informazioni in base a parametri definiti ad hoc. Tuttavia, come detto in precedenza,
il limite tra la comunicazione privata e comunicazione pubblica diventa sempre più fluido e il mondo del
lavoro è confrontato quotidianamente a questa problematica. La domanda di base è quindi sostanzialmente
una: dove si pone il limite tra la libertà del dipendente e l’obbligo di fedeltà verso il proprio datore di lavoro?
3. Il dovere di fedeltà del dipendente
a. In generale e nell’uso dei social media
Nei contratti di lavoro individuali e nei regolamenti aziendali vi sono spesso clausole indicanti che, all’interno
del quadro professionale così come di quello extra-professionale, il dipendente deve promuovere la
reputazione del suo datore di lavoro. In generale, va ricordato l’articolo 321a capoverso 1 del Codice delle
obbligazioni (CO) che, sotto il titolo diligenza e fedeltà del dipendente, recita quanto segue:
II. Diligenza e fedeltà
1
Il lavoratore deve eseguire con diligenza il lavoro assegnatogli e salvaguardare con fedeltà gli interessi
legittimi del datore di lavoro.
Si tratta fondamentalmente del corrispettivo dell’obbligo del datore di lavoro di tutelare la personalità del
dipendente, come previsto dall’art. 328 CO. Il dipendente, oltre all’obbligo di compiere il lavoro, ha il dovere
di prevenire ed evitare che al proprio datore di lavoro vengano cagionati danni e deve favorirne gli interessi.
Questo include il dovere generale di salvaguardia della reputazione del datore di lavoro da parte del
dipendente, evitando, ad esempio, di comunicare a terzi tutto ciò che potrebbe nuocere alla reputazione
dell’impresa o alla fiducia verso di essa, anche se si tratta di fatti che possono essere provati.
L’impiegato attivo sui social network deve dunque rispettare il suo obbligo di diligenza e di fedeltà
conformemente all’articolo 321° CO. In particolare, deve astenersi da qualsiasi comportamento suscettibile
di ledere il datore di lavoro nei suoi interessi economici, evitando di causargli dei danni (DTF 117 II 72). Il
dipendente che passa tutto il suo tempo di lavoro o una parte consistente di esso sui social network viola il
suo obbligo di fedeltà. Infatti, egli dovrebbe consacrare tutto il suo tempo all’attività per la quale è stato
messo sotto contratto dal datore di lavoro. Da rilevare pure che il dovere di fedeltà non si limita al solo
comportamento sul posto di lavoro. Questo dovere può in alcuni casi essere osservato anche al di fuori
dell’impresa e nella vita privata. La distinzione tra vita pubblica/professionale e vita privata non è mai stata
facile e lo è ancora meno oggi, con le tecnologie che accompagnano la nostra vita quotidiana. Il limite è
ancora più tenue quando si parla di social media. In linea di principio, il dipendente agisce nell’ambito delle
sue attività professionali quando, nella definizione dei suoi compiti, l’utilizzo dei social media è chiaramente
integrato nelle sue funzioni professionali. Tendenzialmente si tratta invece di uso a titolo privato quando
l’utilizzo personale non implica in principio l’intervento o il coinvolgimento del datore di lavoro. Tuttavia,
questa distinzione non basta per definire ogni caso. Infatti, quello che il collaboratore pubblica sui social
network fa parte della sfera pubblica nella misura in cui l’informazione è facilmente accessibile a un numero
elevato di persone e quando il dipendente ha dato il suo consenso a tale accesso. In questo modo, un selfie,
anche se fatto a titolo privato, diventa rilevante per il rapporto professionale se postato su un blog o un tweet
che permette di riconoscere il luogo di lavoro. A questo punto, un’attività puramente privata, svolta
preferibilmente durante la pausa dal lavoro, può originare qualche problema per l’azienda e diventare
rilevante per il rapporto di lavoro. Un selfie o una frase poco appropriata scritta in tutta velocità per
rispondere a una sollecitazione su Facebook, può, secondo le circostanze, dare un’immagine negativa o
distorta dell’impresa. La funzione ricoperta dalla persona che si fotografa sul posto di lavoro può pure avere
un’influenza sull’impatto che un’immagine ha per l’azienda. I casi citati in entrata di persone che si sono
fotografate nude sul posto di lavoro assume una valenza diversa se i protagonisti sono un dirigente, un
quadro, il portavoce, ecc. L’identificazione con l’azienda di queste persone è a tal punto elevata che il danno
per l’impresa è inevitabile. Lo stesso comportamento adottato da dipendenti senza dovere di rappresentare
l’azienda resta reprensibile ma il suo impatto è certamente minore per il datore di lavoro. Alla stessa stregua,
è legittimo aspettarsi da un funzionario federale, da un ambasciatore, da un politico o da un magistrato, che
sono investiti dei poteri pubblici, che siano dei degni rappresentanti dello Stato e che abbiano un
comportamento irreprensibile. Questo è confermato dalla giurisprudenza, secondo la quale il principio di
salvaguardia degli interessi legittimi del datore di lavoro vale in misura maggiore per i quadri in ragione
dell’onere particolare e della responsabilità conferita loro dalla funzione che ricoprono nella struttura in cui
operano (DTF 127 III 86; DTF 104 II 28). I criteri di fedeltà possono essere più o meno severi, a dipendenza
degli obiettivi e della natura di un’organizzazione, tanto che il dovere di fedeltà arriva a estendersi al di fuori
dell’impresa fino alla vita privata.
b. Il dovere di confidenzialità
Il dovere di confidenzialità implica anche quello di discrezione, espressamente previsto dall’articolo 321a
capoverso 4 CO. In tale articolo si fa riferimento ai segreti di fabbricazione (processi di produzione, piani di
costruzione, ricette), ai segreti d’affari (calcolo dei prezzi, margine di beneficio, lista dei clienti, fonti) e ai
segreti professionali (reddito, relazioni famigliari). Quest’obbligo è massimo durante il rapporto di lavoro e si
affievolisce dopo la fine di quest’ultimo. Le parti in causa possono determinare di comune accordo l’ampiezza
che intendono conferirgli. Ciò significa che, anche in un messaggio privato indirizzato a un parente, il
dipendente non può rivelare delle informazioni confidenziali.
Riassumendo, il dipendente ha di regola il diritto di essere presente a titolo privato sui social media e
d’indicare l’impresa per la quale lavora. Identificandosi sui social media come dipendente della sua impresa,
può però generare – tramite i suoi propositi/scopi – un’idea del suo datore di lavoro che si può ripercuotere
negativamente sull’immagine di quest’ultimo. Da qui la difficoltà di stabilire sempre e con certezza quali sono
i limiti dell’attività privata. E’ quindi importante comprendere che il vincolo dei doveri di fedeltà, di lealtà e
di confidenzialità obbliga il dipendente a valutare con attenzione quello che comunica perché in alcuni casi
ciò può comportare conseguenze importanti in termini di responsabilità personale e verso l’azienda.
4. La responsabilità per utilizzo illecito
Il lavoratore risponde del danno che causa al datore di lavoro intenzionalmente o per negligenza (art.321e
CO). La colpa del lavoratore può risiedere in una violazione dei suoi doveri contrattuali ma anche in una
violazione del suo obbligo di fedeltà. La misura della diligenza che incombe al dipendente si determina per
contratto, tenendo conto del rischio professionale, del rischio dell’impresa, dell’istruzione del lavoratore.
Questo presuppone anche l’esistenza di un legame di causalità adeguata tra la non esecuzione degli obblighi
contrattuali e un’alterazione significativa del patrimonio del datore di lavoro. Un’attività illecita sui social
network può implicare la responsabilità personale del lavoratore nei confronti di terzi ma anche nei confronti
del suo datore di lavoro, anche con l’utilizzo a titolo privato dei social network. In caso di violazione, il datore
di lavoro può ricorrere alla via giudiziaria e chiedere il risarcimento del danno. Per stabilire l’ampiezza della
risarcimento, si tiene conto dell’insieme delle circostanze, come la gravità della colpa, la formazione, il livello
gerarchico del dipendente così come le istruzioni che gli sono state date (DTF 4A_123/2007 e 4A_125/2007).
5. Le sanzioni
Si raccomanda ai datori di lavoro di prevedere esplicitamente delle sanzioni nel contratto di lavoro, nel
regolamento del personale o in un regolamento ad hoc relativo all’utilizzo dei social media da parte degli
impiegati. Quando ciò non è il caso, sono le regole generali del diritto del lavoro che si applicano. L’impiegato
che non ha rispettato i doveri che gli incombono può essere sanzionato. La sanzione può sfociare, secondo
la gravità dell’atto, nel blocco dell’accesso a Internet e ai social network, al licenziamento ordinario (art. 335
CO) o immediato per giusti motivi quando la mancanza rimproveratagli è particolarmente grave e di natura
a distruggere il rapporto di fiducia (337 CO), passando se è il caso attraverso un ammonimento formale.
Secondo la dottrina, la sanzione dell’obbligo di diligenza e di fedeltà può anche consistere in una pena
convenzionale, se il contratto (o eventualmente il regolamento dell’impresa) lo prevede espressamente. Il
dipendente risponde ugualmente, l’abbiamo visto qui sopra, del danno causato al datore di lavoro,
intenzionalmente o per negligenza, in virtù dell’articolo 321e CO.
Non esiste ancora, a nostra conoscenza, una giurisprudenza consolidata in materia di social media, se non
riguardante ingiurie e insulti o sporadici casi legati alla tutela del diritto d’autore. Qualche sentenza
concernente internet è tuttavia trasponibile ai social network. Il Tribunale federale (TF) ha giudicato che,
anche in caso di divieto assoluto d’utilizzare internet al lavoro, il licenziamento non è sempre la misura
giustificata. Il TF ha relativizzato la gravità dell’utilizzo privato sul posto di lavoro, considerando che solo
l’utilizzo privato di ampiezza importante giustifica un licenziamento immediato. L’utilizzo ristretto e limitato
deve essere sanzionato, prima, tramite un richiamo (DTF 4C.349/2002). Secondo alcuni giuristi, le opinioni
formulate a titolo privato sono coperte dal segreto della corrispondenza e dal diritto al rispetto della vita
privata. Questo impedirebbe al datore di lavoro di basarsi su tali espressioni in forma privata per
giustificare una sanzione o un licenziamento immediato, perché vi sarebbe un conflitto con l’obbligo di
proteggere la personalità del lavoratore (art. 328 CO).
Come sempre e come già detto in precedenza, è estremamente difficile stabilire regole generali di cosa sia
permesso risp. vietato e di quali siano le sanzioni appropriate in caso di violazione vera o presunta di tali
regole. Tutto dipende dalle molte circostanze di ogni singolo caso, per cui si raccomanda ai datori di lavoro
di valutare bene e individualmente ogni situazione, tenendo conto delle regole esistenti, del contesto in cui
si è verificata l’irregolarità contestata al dipendente, del ruolo di quest’ultimo in azienda, ecc. Oltre
all’applicazione delle regole, non vanno mai dimenticati il principio di proporzionalità e il buon senso. I social
media infatti sono uno spazio pubblico e tutti i profili sono reputati di regola aperti, anche se vi sono riserve
di accessibilità. Così gli elementi pubblicati su Facebook che il datore di lavoro è riuscito a vedere sul diario
dell’autore o sul diario di un’altra persona – malgrado il fatto che non vi sia tecnicamente un legame di
“amicizia” con l’autore - devono essere considerati come pubblici. Si tratta innanzitutto di una questione di
buon senso e il dipendente dovrebbe evitare di sollecitare legami con il suo datore di lavoratore al di fuori
dei social network professionali (LinkedIn o Xing), così come ha la possibilità di rifiutare tutte le richieste
d’amicizia che provengono dal datore di lavoro o dai colleghi (o vice versa). Sempre seguendo questa logica,
quando l’utilizzo del computer per fini privati è autorizzato, ma prende un’ampiezza tale da ridurre le
prestazioni professionali del collaboratore in modo importante, la prima traccia di soluzione consiste
nell’avere un incontro con il collaboratore in questione per dargli la possibilità di spiegarsi e avvertirlo della
possibilità di sanzioni in caso di perdurare o ripetersi della situazione. Questo approccio è spesso più efficace
della sorveglianza, nella misura in cui quest’ultima non permette di risolvere immediatamente il problema.
6. Esempio dalla giurisprudenza
Il TF (DTF 138 II 7) ha considerato che l’utilizzo di un software per sorvegliare l’attività di un dipendente
nell’utilizzo di un computer fornito dal datore di lavoro è di principio illecito e i mezzi di prova acquisiti
illegalmente sono di regola inutilizzabili per giustificare un licenziamento immediato. Anche se, come emerso
nel caso specifico, quest’ultimo consacrava una parte importante del suo tempo di lavoro al computer ad
attività private non legate alla sua funzione in azienda. Il datore di lavoro non ha pertanto un potere di
sorveglianza illimitato, nemmeno quando l’utilizzo di internet o dei messaggi privati è proibito. Questo
principalmente perché rischia di apprendere elementi e informazioni appartenenti alla sfera privata del
dipendente e di scoprire così fatti che non lo riguardano. Il datore di lavoro ha per contro il diritto di esercitare
una sorveglianza puntuale. Deve però avere definito con precisione questo tipo di sorveglianza in un
regolamento o nel contratto di lavoro e deve cominciare, in un primo tempo, ad effettuare controlli in forma
anonima. Rispettando comunque i principi applicabili – in particolare la proporzionalità – in materia di dati
sanciti dalla legge federale sulla protezione dei dati (LPD), compreso l’articolo 26 dell’Ordinanza 3 della legge
federale sul lavoro che proibisce la sorveglianza permanente delle attività del dipendente. Osservando
questo quadro legislativo, vi è il diritto di salvaguardare le prove ottenute legalmente. Fatte queste premesse,
è ovvio che non è alcuna lesione della personalità del dipendente quando egli, in quanto utilizzatore, ha reso
i suoi dati accessibili a tutti e non si è formalmente opposto al loro trattamento (art. 12 cpv. 3 LPD). Se ci sono
ragioni di ritenere che delle attività possano nuocere all’impresa o che siano in corso attività illegali, è
possibile svolgere investigazioni in forma segreta. Tali investigazioni non sono tuttavia competenza del datore
di lavoro, perché quando un atto ha rilevanza penale occorre in tutti i casi avvertire le autorità competenti e
questo prima di prendere una qualunque misura di sorveglianza.
7. Consigli utili per le direttive del datore di lavoro
Il datore di lavoro ha il diritto di impartire direttive generali sull’esecuzione del lavoro e di condotta ai suoi
dipendenti, come pure di dare istruzioni particolari (art. 321d CO). Questo comprende la possibilità di dare
direttive in materia di utilizzo dei social network, che possono andare dalla restrizione (temporale, materiale,
tecnica) al divieto totale.
Si raccomanda di stabilire regole in materia sia nel regolamento dell’impresa, che in un documento separato.
Applicabile a tutti, compresi il consiglio d’amministrazione e la direzione generale, questo documento può
tuttavia contenere regole differenziate, che tengono conto delle funzioni particolari esercitate da alcune
persone. Il documento dovrebbe contenere le seguenti disposizioni:
-
autorizzazione o no all’utilizzo dei social media durante il lavoro;
distinzione secondo l’utilizzo privato o professionale;
autorizzazione o no a esprimersi a nome dell’azienda;
definizione degli orari d’utilizzo e/o eventuali limiti di durata;
regole di comportamento sui social network, anche nell’ambito privato;
richiamo alla necessità di preservare la reputazione del datore di lavoro e di proteggere le
informazioni confidenziali;
possibilità e estensione di un’eventuale sorveglianza;
definizione delle sanzioni in caso di utilizzo scorretto.
Con un’elencazione di questi punti, sarà così più facile decidere se il comportamento del dipendente
costituisce una violazione degli obblighi contrattuali. La formazione, la sensibilizzazione e la
responsabilizzazione del personale in materia sono ugualmente raccomandate. Si può così sensibilizzare
i collaboratori al fatto che si possono pubblicare su internet solamente determinati testi o fotografie.
Secondo le possibilità delle aziende, la designazione di un dipartimento o di una persona responsabile
per le questioni inerenti i social media, a cui gli impiegati possono indirizzarsi in caso di dubbio, potrebbe
essere utile per prevenire e evitare inutili conflitti.