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Giampiero Falasca
Divieto di assumere
Cambiare le regole
per rilanciare il lavoro
EDIZIONILAVORO
Capitolo terzo
Il salasso della busta paga
Dal lordo al netto
Guardando una qualsiasi busta paga, ci sono due elementi che
saltano subito all’occhio: l’estrema complessità del documento (ci sono decine e decine di riquadri) ma, soprattutto,
la distanza siderale che passa dalla retribuzione lorda a quella netta.
Come è possibile che da un lordo di 100 si passa a un netto di 50? Proviamo a capirci qualcosa.
Il punto di partenza è la retribuzione lorda, cioè quanto spetta per il lavoro svolto; dentro questa voce ci sono lo stipendio fisso, ma anche eventuali superminimi, indennità varie, straordinari, permessi, eventuali benefit e premi, ecc.
Per capire come questa somma si trasforma in un valore
netto, prendiamo come esempio un lavoratore a tempo indeterminato di un’azienda del commercio con sede in Lombardia, inquadrato al V livello, con qualifica di operaio, che ha
svolto nel mese di riferimento 10 ore di straordinario.
Questi calcoli non tengono conto delle misure annunciate
dal Governo Renzi, ma cambia poco, perché le riduzioni sono destinate a platee circoscritte e hanno un impatto limitato.
Questo dipendente ha diritto a una retribuzione lorda di
1.536,92 euro (di cui 1.438,49 come retribuzione mensile fis81
sa e 98,43 euro per le 10 ore di straordinario). Su questa somma, il datore di lavoro deve pagare alcuni costi aggiuntivi. C’è
una quota di contributi previdenziali a carico aziendale (28,98%,
nel nostro caso) che determina un costo ulteriore di 581,79 euro. Ci sono i contributi Inail, che costano nel nostro caso
41,92, il contributo Inps pari a 445,42, e c’è l’Irap che ammonta
a 84,45 euro. Infine, c’è il costo per l’adesione all’ente bilaterale di settore, che grava in misura pari a 10 euro al mese.
Il totale di costi aggiuntivi è di 581,79 euro, che si sommano alla retribuzione lorda (a onor del vero, ci sarebbero anche i ratei di tredicesima e quattordicesima, e l’accantonamento
Tfr, ma tecnicamente anche queste voci sono retribuzione e
quindi per semplificare non le mettiamo dentro).
Torniamo ora al nostro lavoratore del commercio. Dalla sua
retribuzione lorda devono essere detratti i contributi previdenziali (per le pensioni di vecchiaia, invalidità, superstiti, ecc.)
ed assistenziali (malattia), per la quota a suo carico, che varia, secondo il settore e le dimensioni dell’impresa, dal 9,19%
della retribuzione (come nel nostro caso) sino al 9,49%. Applicando queste aliquote al nostro lavoratore, la trattenuta
previdenziale porta via 141,25 euro.
Ma non è finita. Il reddito deve essere tassato con l’Irpef,
che viene calcolata sulla retribuzione al netto delle ritenute previdenziali ed assistenziali (e di eventuali assegni per il nucleo
familiare), e tenendo conto di eventuali detrazioni per carichi
di famiglia; l’aliquota varia dal 23% sino al 43% per i diversi scaglioni di reddito. Applicando tale prelievo al nostro lavoratore, abbiamo una trattenuta fiscale di 225,47 euro. Oltre all’Irpef, ci sono le varie tasse locali (acconto addizionale comunale, 5,74 euro, addizionale regionale, 33,64 euro, e
rata addizionale comunale, 12,82 euro), ed i prelievi previsti
dai contratti collettivi di settore per prestazioni di vario tipo
a carico degli enti bilaterali (nel nostro esempio, 2 euro per
l’ente bilaterale del commercio). Il totale dei prelievi ammonta a 420,92 euro. Alla fine, da un costo aziendale di
2.118,71 euro, in tasca al dipendente vanno soltanto 1.116,00
euro: più o meno la metà.
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Dal costo azienda al netto: un esempio di busta paga
Dipendente a tempo indeterminato di un’azienda del commercio con sede
in Lombardia, inquadrato al V livello, con qualifica di operaio, che ha
svolto nel mese di riferimento 10 ore di straordinario.
Base
1.438,49
n. 10 ore straordinario
98,43
Totale
1.536,92
Costi a carico del dipendente
Voce
Trattenute
Trattenute previdenziali
Contributo ente bilaterale commercio
Ritenuta Irpef
Acconto addizionale comunale
Rata addizionale regionale
Rata addizionale comunale
Totale
Netto in busta
Competenze
1.438,49
98,43
141,25
2,00
225,47
5,74
33,64
12,82
420,92
1.116,00
Costi a carico del datore di lavoro
Descrizione
Contributi Inps
Contributo ente bilaterale commercio
Contributi Inail
Irap
Totale
Importo
445,42
10,00
41,92
84,45
581,79
Il cuneo fiscale
Su un lordo di euro 1.536,92 (di cui euro 1.438,49 di retribuzione mensile fissa e 98,43 di straordinario), il cuneo fiscale è cosi suddiviso:
Costo complessivo
2.118,71
Oneri a carico dell’azienda
581,79
Oneri a carico del lavoratore
420,92
Retribuzione netta che va in tasca al dipendente
1.116,00
Spesa per fisco, previdenza e oneri vari
1.002,71
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Guardando questi numeri, qualcuno potrebbe obiettare
che non si può fare a meno di trattenere dagli stipendi le tasse e i contributi previdenziali.
È vero, le tasse sono indispensabili, ancora di più i prelievi previdenziali, specie in un sistema come il nostro ancorato
al metodo contributivo (tanto paghi, tanto prendi di pensione).
Il punto non è la legittimità dei prelievi, ma il loro costo
complessivo.
Basta dare uno sguardo a cosa accade nel resto d’Europa,
per scoprire che gli oneri a carico delle imprese italiane sono ben superiori a quelli delle imprese che operano negli altri paesi membri dell’Unione.
Cuneo fiscale. Confronto tra l’Italia
ed i principali paesi Ocse (anno 2012)
Francia
71,7
28,3
Italia
69,2
30,8
Belgio
Spagna
Germania
Giappone
Uk
Olanda
57,3
42,7
76,1
Usa
23,9
60,2
39,8
78,7
24,9
68
32
77,3
61,4
130,1
29,9
129,9
14,4
10,9
119,6
114,4
110,9
10,8 110,8
18
10,7 110,7
22,7
9,8 109,8
82
38,6
144
132,1
30,1
19,6
21,3
75,1
Irlanda
Danimarca
44
32,1
100
Retribuzione lorda = 100
Trattenute lavoratore
Oneri a carico dell’azienda
Fonte: elaborazione Assolombarda su dati Ocse.
I capitali e gli investimenti hanno ben chiara questa differenza di costo; considerato che il costo maggiore che deve pagare chi opera nel nostro sistema non viene compensato da regole e servizi più efficienti (al contrario, i servizi sono sca84
denti e le regole sono inadeguate), il risultato è che le aziende disinvestono in Italia per andare a cercare ordinamenti più
efficienti e meno costosi.
Il tentativo di legare costo del lavoro e produttività
Il tema della produttività non emerge a caso nel dibattito pubblico; nel corso dell’ultimo decennio l’economia italiana ha
perso molto terreno in termini di valore aggiunto creato per
unità di lavoro impiegata, portando il nostro paese in fondo
alla classifica dell’Unione europea.
La dinamica della produttività in Italia,
nei paesi Ue e negli Stati Uniti.
Variazioni percentuali medie annue di periodo
8
Variazioni 2001-2007
Variazioni 2001-2010
7
6
5
4
3
2
1
Romania
Estonia
Lettonia
Lituania
Rep. Ceca
Slovacchia
Polonia
Bulgaria
Ungheria
Irlanda
Slovenia
Svezia
Stati Uniti
Gracia
Finlandia
Austria
Regno Unito
Paesi Bassi
Malta
Spagna
Ue27
Cipro
Francia
Germania
Uem 17
Portogallo
Danimarca
Italia
-1
Belgio
0
Fonte: elaborazione Istat su dati Eurostat.
Il crollo della produttività ha causato anche un aumento
comparativamente più forte del costo del lavoro per unità di
prodotto. Pertanto, non solo l’Italia sopporta un cuneo fiscale tra i più alti in Europa, ma a tale elevato costo del lavoro
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corrisponde anche una scarsa produttività. L’idea di legare produttività e riduzione del costo del lavoro è, quindi, molto valida. Purtroppo, se si passa dalla teoria alla pratica, questa idea
non viene applicata in maniera efficiente, ma si perde dentro
regole complicate e procedure farraginose.
Il 16 novembre del 2012, dopo una lunga trattativa, e con
strappi significativi (la mancata firma della Cgil) è stato firmato un Accordo interconfederale finalizzato a rilanciare, mediante il potenziamento dei contratti aziendali, la produttività del lavoro e la competitività delle imprese. L’intesa ribadisce la necessità di stimolare la produttività del lavoro mediante il riconoscimento di sgravi fiscali e contributivi sulla retribuzione variabile. Ma precisa anche un punto essenziale: occorre superare la prassi di regolare la materia con norme sperimentali, che hanno durata limitata e cambiano in continuazione il perimetro degli incentivi. L’adozione di una disciplina transitoria non incentiva – non può farlo – in maniera
efficace la produttività, ma si risolve in una modesta mancia erogata dallo Stato, che porta qualche euro nelle tasche
dei lavoratori ma ha uno scarso collegamento con la produttività.
La vera sfida da vincere è quella di rendere strutturali le
misure di incentivazione fiscale e contributiva applicabili al
salario legato alla produttività. Una programmazione di medio e di lungo periodo non può prescindere da un quadro stabile degli incentivi; questi devono avere un carattere riconoscibile da tutti, in modo da entrare a far parte della prassi quotidiana della aziende. Tutto questo non è possibile, se all’inizio di ogni anno ancora non si sa se gli incentivi ci sono, in
quale misura si applicano e con quali procedure.
L’intesa del 2012 non si limita a chiedere un intervento strutturale, ma abbozza anche i possibili contenuti delle nuove regole. Per quanto riguarda gli incentivi fiscali, viene chiesto di
applicare, sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, la detassazione del salario di produttività attraverso un’imposta, sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali, al 10%. Con riferimento alla decontribuzione del salario di
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produttività, le parti chiedono che venga data compiuta applicazione ai contenuti della legge n. 247 del 2007 che prevede lo sgravio contributivo per incentivare la contrattazione
collettiva di secondo livello fino al limite del 5% della retribuzione contrattuale percepita.
Il Governo, allora presieduto da Mario Monti, ha svolto un
ruolo importante nel raggiungimento dell’intesa (che è stata
firmata a Palazzo Chigi); eppure, nonostante questa intensa
partecipazione, l’invito ad approvare regole e procedure destinate a durare nel tempo è rimasto del tutto inascoltato.
Per l’anno 2013 è stato emanato l’ennesimo decreto, con
il quale sono state cambiate le regole per il riconoscimento
degli incentivi. È stata mantenuta una doppia disciplina – una
per gli sgravi contributivi, l’altra per gli sgravi fiscali – e, per
quanto riguarda l’applicazione della tassazione separata, sono stati definiti due possibili canali di accesso all’incentivo,
paralleli ed alternativi tra loro. Il primo canale consiste nella definizione di appositi indicatori quantitativi, che dovranno essere usati per misurare alcuni risultati specifici: produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione. Il secondo canale consente l’assoggettamento alla tassazione separata di quelle voci retributive che, sulla base dell’accordo
aziendale, costituiscono controprestazioni di attività lavorative svolte nell’ambito di quattro specifiche situazioni (coincidenti in larga misura con le ipotesi individuate dalle parti
sociali nell’accordo sulla produttività del novembre scorso).
Questi parametri sono cervellotici, e sono diversi, almeno in
parte, da quelli utilizzati fino al 2012, quando la retribuzione per essere detassabile doveva essere collegata ad elementi
come il lavoro a turni, il lavoro notturno, il lavoro straordinario.
Un’altra differenza rispetto alla disciplina precedente riguarda l’identificazione dei contratti collettivi che devono
presiedere alla retribuzione variabile; in passato il ministero del Lavoro aveva fornito una lettura molto ampia ed
estensiva del requisito (la circolare 3/a 2011 aprì ai contratti
preesistenti, e alle intese meramente ripetitive dei contratti
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nazionali), mentre nel nuovo decreto emerge una nozione più
stringente.
Pensare che un meccanismo del genere possa essere preso sul serio dal mercato del lavoro, e possa costituire una leva efficace per stimolare l’aumento della produttività, è una
favola a cui non crede nessuno.
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