pastori COVER_09_11 - ALPINE SPACE PROGRAMME

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pastori COVER_09_11 - ALPINE SPACE PROGRAMME
PROVINCIA AUTONOMA
DI TRENTO
PASTORI NELLE ALPI
STORIA E TESTIMONIANZE
Sono le prime ore della notte. Il pastore guarda le
greggie pascolanti. Gialle e nere alla luna, le pecore
assonnate vanno melanconicamente per la pianura
cercando l’erba fredda sotto i cespugli, lungo le muricce
coperte di musco; e i loro campanacci dondolano e
suonano una strana musica, monotona come una
cantilena, che va e viene e squilla e trema argentina col
lento sbandarsi della greggia, animando e nello stesso
tempo rendendo più intenso il silenzio della pianura.
Il pastore guarda; e sogni selvaggi passano nei suoi occhi.
Grazia Deledda, Il sogno del pastore
ALPINET GHEEP è un progetto interregionale
di sostegno e promozione dell’allevamento ovino
e caprino nell’arco alpino ed è stato sviluppato da
associazioni di allevatori, esperti di istituti di ricerca
e funzionari delle amministrazioni regionali.
La presenza di problemi comuni e l’esigenza
di informazioni aggiornate e tempestive riguardanti
le tecniche di allevamento, i problemi sanitari,
la reperibilità di animali da riproduzione, la
collocazione e la caratterizzazione dei prodotti, hanno
favorito e stimolato l’incontro di varie idee e proposte
che sono state infine tradotte in un progetto organico.
Il progetto si propone la promozione e il rafforzamento
del settore ovi-caprino nell’area alpina, al fine
di mantenere un suo ruolo attivo nello sviluppo
sostenibile delle comunità montane.
Il patrimonio zootecnico di un territorio rappresenta un
indice di vitalità e di conservazione del territorio stesso
e costituisce un elemento di bellezza ed equilibrio del
paesaggio, una delle principali risorse per il turismo;
per questo ALPINET GHEEP mira a sviluppare strategie
transnazionali integrate e strumenti per la promozione
del settore attraverso varie attività.
www.alpinetgheep.org
PASTORI NELLE ALPI
STORIA E TESTIMONIANZE
CM 86732J
Edizione fuori commercio
PASTORI NELLE ALPI
STORIA E TESTIMONIANZE
PROVINCIA AUTONOMA
DI TRENTO
QUI PRESENTAZIONE DELL’ASSESSORE
Di questo reportage fotografico conservo la sensazione viva del non tempo e del non spazio: uomini ed animali che
migrano dalle Alpi alla pianura, lungo antichi pascoli nomadi. La forza del gregge, simbolo della resistenza di un
mondo ormai quasi scomparso, di una realtà ancora vitale e certamente un diverso punto di vista. “La cura di tutte
le cure è quella di cambiare punto di vista, di cambiare se stessi e con questa rivoluzione interiore dare il proprio
contributo alla speranza in un mondo migliore (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra).”
L’autore delle immagini, Christian Cristoforetti
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La pastorizia
tra passato e futuro
Sempre più ci si interroga sul futuro dell’agricoltura e dell’allevamento nell’ambiente montano e su quali siano
le possibili soluzioni per consentire il proseguimento di queste importanti attività primarie in un ambito
caratterizzato da svantaggi naturali permanenti. Nonostante le produzioni tipiche dell’agricoltura di montagna
siano generalmente apprezzate e venga da più parti riconosciuta l’esistenza di un valore estrinseco
paesaggistico-culturale e ambientale nelle attività agricole e zootecniche, si riscontrano crescenti difficoltà
nel garantire stabilità e continuità a tali attività, depositarie di antiche tradizioni e conoscenze.
I programmi comunitari di cooperazione interregionale e transnazionale e i progetti come Alpinet Gheep
possono sicuramente contribuire all’elaborazione di strategie innovative per il settore, anche in sinergia
con altri comparti produttivi come il turismo e l’artigianato, fornendo informazioni, esperienze, testimonianze
e creando reti di collaborazione permanenti. Ritengo quindi prezioso il loro contributo, e a tal proposito
la Provincia di Trento ha favorito e stimolato la partecipazione delle proprie strutture a simili iniziative
assumendosi anche, come in questo caso, il compito di capofila nell’iniziativa.
Questa pubblicazione è frutto dell’attività del progetto Alpinet Gheep e riguarda un settore spesso dimenticato
e considerato, a torto, ai margini dell’economia e della società: i protagonisti sono i pastori, le loro pecore,
la loro storia, passata e presente. Essa contiene importanti testimonianze della pastorizia trentina del passato,
raccontate da studiosi della storia locale, e del presente, raccontate dai protagonisti di oggi. Gli storici
ci conducono attraverso le varie epoche, dalla Preistoria, all’età romana, al Medioevo fino al periodo più
recente, riportando notizie, testimonianze, eventi e consuetudini legati a questa importante attività che da
sempre accompagna e favorisce lo sviluppo della società. Le affascinanti immagini ci portano entro un mondo
che oggi sopravvive, fra mille difficoltà e incertezze, per la ferma volontà e passione di alcuni tenaci allevatori.
Il libro consegna quindi al lettore alcune importanti e preziose testimonianze sul vero significato di questa
attività, su come vivono i suoi protagonisti, sui problemi che devono affrontare e le prospettive future.
A loro va un particolare ringraziamento e la nostra riconoscenza per avere consentito le interviste e la ripresa
delle immagini, e per darci oggi l’opportunità di apprezzare un mondo poco conosciuto al nostro vivere quotidiano.
Tiziano Mellarini
Assessore all’Agricoltura, al Commercio e Turismo della Provincia Autonoma di Trento
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INTRODUZIONE
Il progetto Alpinet Gheep rappresenta un impegno concreto,
frutto del costante lavoro di anni di relazioni e di scambi, per
l’attuazione di un programma di attività nell’obiettivo
comune di migliorare sempre più il settore ovi-caprino e
farne conoscere le potenzialità all’intera società.
La Provincia Autonoma di Trento è consapevole del valore
aggiunto che tali iniziative comunitarie apportano, non solo
in termini finanziari ma anche e soprattutto in termini di
conoscenza e capacità organizzativa. La definizione di
strategie e programmi di sviluppo, la costituzione di alleanze
e aggregazioni rivestono grande importanza per le aree
montane come le nostre, caratterizzate da condizioni
produttive difficili, per mantenere vivo e competitivo il
nostro sistema agricolo, elemento fondamentale della
qualità complessiva del territorio.
La possibilità di mettere a confronto varie realtà, anche
diverse, ha consentito di attuare nel progetto azioni
specifiche di elevata qualità volte alla valorizzazione del
settore ovi-caprino. I partner del progetto, secondo le
proprie conoscenze e specificità, hanno saputo affrontare
con competenza la caratterizzazione e la promozione dei
prodotti ovi-caprini, carne, lana, latte e formaggi, hanno
individuato e studiato il patrimonio genetico esistente
nell’arco alpino e valutato l’impatto dell’allevamento sul
territorio definendo le buone pratiche gestionali.
L’attività ovi-caprina può contribuire adeguatamente a
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Mauro Fezzi
Dirigente generale del Dipartimento
Agricoltura e Alimentazione della
Provincia Autonoma di Trento
mantenere il territorio montano e a conservarlo da
fenomeni preoccupanti come l’abbandono e la sottrazione
di aree agricole a causa dell’avanzare del bosco,
rinsaldando maggiormente il rapporto fra l’uomo e il
territorio in cui esso vive. Tale aspetto riveste particolare
importanza in quanto è sempre più avvertita la necessità
di coniugare gli interessi specifici produttivi con l’ambiente
e il territorio offrendo all’ospite delle nostre regioni un
ricco patrimonio culturale, paesaggistico e ricreativo.
Il progetto promuove quindi il settore ovi-caprino, le sue
produzioni e le attività connesse attraverso lo sviluppo di
strategie coordinate fra agricoltura, artigianato e turismo
con l’obiettivo comune di promuovere e far comprendere
alla società intera la sua importanza per la salvaguardia
dell’ambiente, delle tradizioni locali e del reddito degli
abitanti delle zone rurali e montane.
Questo libro propone immagini e testimonianze, storiche e
attuali, della pastorizia ovi-caprina trentina caratterizzata,
sia a livello storico che evolutivo, da elementi simili ad altre
regioni del versante meridionale delle Alpi. Pecore e capre
erano un tempo parte integrante dell’economia familiare
degli abitanti delle valli trentine e il loro allevamento ha
tradizionalmente utilizzato le zone di pascolo più impervie e
meno adatte ai bovini.
L’allevamento ovino in Provincia di Trento conta circa
25.000 capi, distribuiti principalmente in una quindicina di
greggi che ogni tanto capita di incontrare ai margini delle
strade in costante ricerca di aree su cui pascolare. Infatti,
tale allevamento è realizzato soprattutto mediante la
pratica della transumanza di lungo periodo verso le aree
del Veneto, del Friuli e del Bresciano, dove gli animali
svernano utilizzando i pascoli presenti lungo i corsi
d’acqua. La transumanza sta però incontrando sempre più
difficoltà per cause di ordine sanitario, urbanistico e anche
colturale. L’orientamento produttivo principale è quello
della produzione di carne mediante la macellazione degli
agnelloni a un peso di circa 40/50 kg. Ultimamente questo
tipo di carne sta trovando un ottimo mercato nelle
comunità di immigrati da paesi extracomunitari. Altro
prodotto fornito dalle pecore è la lana, che è diventata negli
anni purtroppo un grosso problema in quanto di difficile
collocazione. Le razze ovine allevate sono generalmente
appartenenti alla tipologia Alpino gigante (BergamascaBiellese-Tiroler bergschaf).
Caratteristiche completamente diverse presenta invece
l’allevamento caprino. La capra era considerata la “vacca
dei poveri” e forniva latte, formaggi e carne. In quasi tutti
i paesi il pascolo era la principale fonte alimentare delle
capre e il pastore (caorar, caorer…) ogni mattina radunava
gli animali richiamandoli mediante il suono del corno. Le
capre uscivano dalle stalle, dopo essere state munte, e si
univano in gregge per proseguire nei territori destinati al
pascolo, per poi farvi ritorno la sera. Più avanti nel tempo,
la produzione di latte caprino è stata soppiantata da quella
di latte bovino, mentre è andata ad affermarsi una
tipologia di allevamento per la produzione di carne, in
particolar modo del capretto leggero, destinato alle tavole
durante le festività pasquali. Ultimamente, nella nostra
provincia si sta assistendo a una nuova riscoperta
dell’allevamento caprino per la produzione di latte con
razze specializzate (Camosciata delle Alpi e Saanen). Sono
circa una decina gli allevamenti sorti in questi ultimi anni
e a condurli sono generalmente giovani imprenditori con
una grande passione e professionalità. Tre sono i caseifici
trentini che da qualche anno ritirano e valorizzano il latte
caprino, trasformandolo in formaggi di vari tipi.
Recentemente si è provveduto a produrre anche latte
alimentare fresco (particolarmente ricercato in special
modo per le sue caratteristiche dietetiche). La consistenza
del patrimonio caprino nella nostra provincia è in leggero
ma costante aumento negli ultimi anni e conta circa
6000 capi.
Sono sicuro che questo libro susciterà l’interesse del lettore
per il mondo ovi-caprino e per i suoi prodotti, fornendo rare
informazioni e testimonianze, raggiungendo così lo scopo
che l’iniziativa si prefigge.
Federico Bigaran, Massimo Pirola
PRESENTAZIONE
DEL PROGETTO
ALPINET GHEEP
Il progetto denominato “Alpinet Gheep, rete alpina per la
promozione del settore ovi-caprino per uno sviluppo sostenibile
del territorio” è stato sviluppato nell’ambito del Programma di
Iniziativa Comunitaria INTERREG IIIB – SPAZIO ALPINO.
Una rete composta da associazioni di allevatori, istituti di
ricerca e amministrazioni locali, provenienti da Italia,
Austria, Baviera, Slovenia e coordinati dalla Provincia
Autonoma di Trento, Lead Partner del progetto, ha proposto
la realizzazione di una serie di iniziative integrate volte a
salvaguardare e promuovere l’allevamento ovi-caprino quale
attività fondamentale per lo sviluppo sostenibile del
territorio montano. La definizione del progetto è avvenuta a
seguito di numerosi incontri preparatori nel corso dei quali
le associazioni degli allevatori ovi-caprini hanno svolto fin
dall’inizio un ruolo propositivo e dinamico individuando
attività, iniziative ed eventi.
La quantità del patrimonio zootecnico presente in un
territorio rappresenta un indice di vitalità e di
conservazione dell’ambiente, costituendo inoltre un
elemento di attrattività ed equilibrio del paesaggio. La
pastorizia, consentendo l’utilizzo di aree marginali non
sfruttate per altri allevamenti o per coltivazioni,
contribuisce alla valorizzazione del tradizionale paesaggio
montano e alla salvaguardia dell’equilibrio ambientale.
Nel corso degli ultimi decenni purtroppo l’allevamento
zootecnico nell’area alpina ha registrato nel complesso una
forte diminuzione sia come numero di capi allevati sia come
numero di aziende, in seguito all’orientamento degli operatori
verso attività più remunerative, in genere extra-agricole.
Il progetto mira quindi a individuare, tramite lo scambio di
esperienze e la realizzazione di studi specifici ed eventi, gli
elementi conoscitivi e innovativi per promuovere lo
sviluppo del settore ovi-caprino e stabilire una rete
permanente tra i partner.
Le iniziative proposte intendono migliorare, aggiornare e
diffondere le conoscenze esistenti, stimolare un
rafforzamento economico del settore ovicaprino, favorire il
suo coinvolgimento nel tessuto sociale delle comunità
montane. Il progetto si propone inoltre di elaborare
strategie e buone pratiche per superare gli elementi di
debolezza del settore, favorire interazioni positive con il
turismo, l’artigianato e le politiche territoriali, e consentire
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la sostenibilità nel tempo delle iniziative di rete.
Il progetto si è concretizzato nelle seguenti attività principali:
- raccolta e condivisione dei dati riguardanti le razze tipiche
dell’area alpina per la salvaguardia del patrimonio
genetico esistente. In particolare è stato pubblicato un
atlante delle razze ovine dell’arco alpino, sono stati raccolti,
elaborati e commentati i dati riguardanti il censimento e la
registrazione dei capi e degli allevamenti ed è stata
realizzata una indagine genetica su alcune razze ovine per
individuare la distanza genetica fra razze e popolazioni;
- realizzazione di analisi sensoriali, organolettiche e
merceologiche per la caratterizzazione dei prodotti ovicaprini tipici, come carne, latte e formaggio; individuazione
e promozione di alcuni prodotti innovativi, in particolare
nel settore delle carni ovine, quali ad esempio il “cosciotto
d’agnello precotto”, il “prosciutto di pecora” e i wurstel a
base di carne di pecora;
- elaborazione di modelli gestionali, quantitativi e
qualitativi, per la migliore gestione dei pascoli e degli
alpeggi da parte dei Comuni, delle Comunità montane e
degli Usi Civici, prevedendo anche la restituzione su base
cartografica delle aree adatte al pascolo secondo le varie
classificazioni;
- realizzazione di indagini, studi e azioni promozionali per
lo sviluppo di nuovi strumenti commerciali a supporto
delle produzioni ovi-caprine e per il miglioramento delle
relazioni con il turismo e le attività artigianali, fornendo un
panorama completo delle produzioni ovi-caprine e delle
ricette su base regionale, elaborando uno specifico atlante
dei prodotti tradizionali ovi-caprini consultabile tramite
uno specifico sito web;
- realizzazione di attività promozionali, in collaborazione
con il settore dell’artigianato, per l’utilizzo della lana locale
nel settore dell’abbigliamento;
- realizzazione di numerosi seminari, incontri, azioni
informative, rassegne di razze ovi-caprine, partecipazione a
fiere e convegni al fine di promuovere il settore e divulgare
le attività e i risultati del progetto;
Il punto di forza del progetto sta nella capacità della rete di
allevatori, governi locali e istituti di ricerca di scambiare e
condividere esperienze e informazioni collaborando per il
raggiungimento di obiettivi comuni:
- le associazioni degli allevatori: provvedono alla messa a
disposizione di dati e informazioni riguardanti il
patrimonio genetico esistente nell’arco alpino, concorrono
alla elaborazione di strategie comuni di promozione e
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vendita dei prodotti ovi-caprini, promuovono
l’aggiornamento professionale dei propri associati,
individuano le esigenze territoriali e programmatorie;
- gli istituti di ricerca: valutano e caratterizzano il
patrimonio genetico delle razze autoctone definendo le
strategie per la sua conservazione e miglioramento,
elaborano studi sulle caratterizzazioni dei prodotti,
analizzano sotto il profilo socio-economico il settore,
valutandone l’impatto sulle aree dedicate alla pastorizia;
- le amministrazioni locali: valutano gli impatti socioeconomici delle azioni proposte, la trasferibilità delle
iniziative, elaborano gli indirizzi programmatori per la
pianificazione territoriale che tengano conto delle esigenze
del settore, individuano le azioni di informazione e
promozione sociale a supporto al settore.
I partner del progetto sono i seguenti:
Italia
PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO (PAT)
ASSOCIAZIONE ALLEVATORI OVICAPRINI TRENTINI (APOC)
ISTITUTO AGRARIO S. MICHELE ALL'ADIGE (IASMA)
VERBAND DER SÜDTIROLER KLEINTIERZÜCHTER (VSK)
AGENZIA REGIONALE PER LO SVILUPPO RURALE (ERSA
Friuli Venezia Giulia)
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ANIMALI – UNIVERSITÀ DEGLI
STUDI DI UDINE (UNIUD)
ASSOCIAZIONE PROVINCIALE ALLEVATORI DI BESTIAME DI
BERGAMO (APABG)
ASSOCIAZIONE PROVINCIALE ALLEVATORI DI BELLUNO
(APABL)
Germania
BAYERISCHE LANDESANSTALT FÜR LANDWIRTSCHAFT (LFL)
BAYERISCHE HERDBUCHGESELLSCHAFT FÜR SCHAFZUCHT
(BHG)
WERDENFELSER LAND SCHAFWOLLPRODUKTE GbR (WLW)
GESELLSCHAFT ZUR ERHALTUNG ALTER UND
GEFÀHRDETER HAUSTIERRASSEN IN DEUTSCHLAND (GEH)
Austria
HÖHERE BUNDESLEHR- UND FORSCHUNGSANSTALT
RAUMBERG-GUMPENSTEIN (HBLFA Raumberg-Gumpenstein)
ÖSTERREICHISHER BUNDESVERBAND FÜR SCHAFE UND
ZIEGEN (OEBSZ)
Slovenia
UNIVERSITY OF LJUBLJANA, BIOTECHNICAL FACULTY (UNIBFLJ)
SHEEP AND GOATS BREEDERS ASSOCIATION OF SLOVENIA
(ZDRDS)
PASTORIZIA
E TRANSUMANZA
NEL TRENTINO
IN EPOCA PREROMANA
Franco Marzatico
Direttore del Castello
del Buonconsiglio, monumenti
e collezioni provinciali, Trento
Il lungo processo di domesticazione di piante e animali, che
permise all’Homo Sapiens Sapiens di produrre direttamente
risorse alimentari, rappresenta una delle tappe
fondamentali nella storia dell’umanità. L’uomo si
emancipa dagli esiti incerti di un’economia predatoria
basata su caccia e raccolta, e comincia a sfruttare in modo
pianificato i frutti della terra e gli animali domestici, non
solo per la carne, ma anche per il latte e i suoi derivati, per
lavori di fatica o per realizzare prodotti artigianali.
È lo sviluppo di una nuova epoca, la cosiddetta Rivoluzione
neolitica, che vede l’avvio di un processo di trasformazione
nella vita dell’uomo. L’introduzione dell’agricoltura e
dell’allevamento infatti, oltre a implicare profondi
cambiamenti economici e nelle strategie di sussistenza,
favorisce la sedentarietà e porta alla scoperta e alla
diffusione della ceramica, fondamentale per la fabbricazione
di contenitori atti alla conservazione dei prodotti agricoli e
derivati dall’allevamento, che precedentemente erano
costruiti in materiali deperibili come pelle e legno.
È comunque importante sottolineare come tali mutamenti,
che investono anche la sfera sociale, culturale e ideologica,
non si verifichino immediatamente e simultaneamente. Se
infatti l’attività agricola è documentata nel Vicino Oriente già
nel IX-VIII millennio a.C., in quella zona chiamata Mezzaluna
fertile, le prime testimonianze in Europa sono datate dal VII
millennio a.C. e solo nei due millenni successivi le tecniche
agricole conoscono una diffusa affermazione.
Le testimonianze archeologiche e i possibili raffronti
etnografici ci restituiscono un complesso quadro storico in
cui sono nate e si sono sviluppate tante tipologie di
agricoltura e pastorizia. Naturalmente la scelta delle
colture e del bestiame da allevare, così come le modalità
con cui si coltiva o si curano gli animali, sono condizionate
da diversi fattori che cambiano nel tempo e da luogo a
luogo, e tengono conto delle caratteristiche dell’ambiente e
dell’affermarsi di tradizioni locali.
Per quanto riguarda la pastorizia, è possibile ipotizzare come
in epoca preromana il bestiame diventi sempre più un
“bene”, divenendo cioè fonte oltre che di sussistenza anche
di ricchezza. Tale importanza è evidenziata successivamente,
in ambiente romano, dal collegamento semantico esistente
fra i termini latini pecus (pecora) e pecunia (denaro).
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Prime testimonianze di pastorizia in Trentino
Le prime testimonianze archeologiche in Trentino di
animali domestici sono databili tra la seconda metà del VI
e gli inizi del V millennio a.C., al Neolitico antico. Negli
abitati di La Vela, Riparo Gaban e Romagnano presso
Trento sono stati portati alla luce resti ossei di
capra/pecora, bovino e probabilmente di maiale, mentre a
Riparo Gaban la presenza di bovini e caprovini è
ipotizzabile in base al ritrovamento di escrementi fossili
(coproliti) riconducibili a questi animali.
A partire dalla seconda metà del IV millennio a.C., nell’area
alpina centro-orientale si rileva alle alte quote una diffusa
presenza di cuspidi di freccia in selce, che se da un lato
testimonia il perpetuarsi di interessi venatori (per quanto
la caccia rivesta un ruolo subordinato dal punto vista
dell’economia di sussistenza), dall’altro lato può
ricollegarsi, in base alla lettura di analisi polliniche, a una
presenza umana più intensa con fenomeni di transumanza
verticale (forme cioè di monticazione estiva o di alpeggio).
A pratiche pastorali si riconduce la frequentazione fra il
Neolitico tardo e l’Età del Rame (III millennio a.C.) del
riparo sotto roccia di monte Baone, presso Arco, utilizzato
probabilmente per il ricovero di animali.
Nella palafitta di Fiavé, agli inizi del II millennio a.C., la
stabulazione, cioè l’allevamento di animali domestici in
apposite stalle, è testimoniata dalla presenza di coproliti e
dalle analisi polliniche che indicano un’alta percentuale di
fieno, stoccato con ogni probabilità per fare fronte al
periodo invernale. Se durante l’estate capre e pecore
dovevano pascolare sui versanti montuosi circostanti
l’abitato, in autunno potevano scendere a valle e cibarsi
delle stoppie lasciate appositamente nei campi, che così
venivano utilizzate come foraggio per il bestiame. Lo studio
dei coproliti ha inoltre permesso di riconoscere la
stabulazione dei caprovini all’interno dell’abitato
palafitticolo fra l’inverno e la primavera: per alimentare gli
animali oltre al fieno si ricorreva, come avverrà in epoca
storica, a ramoscelli privi di foglie in inverno e con foglie in
primavera. La stabulazione e il pascolo presso gli abitati,
attestati in ambito montano come in pianura, erano inoltre
funzionali alla concimazione dei campi e alla produzione di
prodotti secondari. Anche se è opportuno sottolineare
come i dati sulla macellazione ricavati dallo studio dei resti
ossei di Fiavé sembrino indicare un’economia orientata alla
sussistenza piuttosto che all’incremento del bestiame.
Oltre all’allevamento stanziale integrato dall’agricoltura, in
area alpina sono ipotizzabili anche pratiche di pascolo
transumante in senso orizzontale e verticale, fino alle alte
quote montane, malgrado la presenza di testimonianze
frammentarie che non permettono di definire le
caratteristiche socio-economiche della pastorizia
transumante attuata in zona.
A partire dal Bronzo antico la presenza della specie
Plantago Lanceolata, pianta che indica la presenza di
pascoli, sembra indicare un maggiore impatto antropico in
area alpina dovuto a «pratiche pastorali con la
frequentazione sistematica dei pascoli in quota».
Sono solo una decina i siti del Trentino Alto Adige/Sudtirol che,
in termini di maggiore probabilità, vengono messi in relazione
con forme di sfruttamento pastorale degli alti versanti
montuosi. La composizione dei resti faunistici del riparo di
Mandron de Camp sul monte Baldo sembra corrispondere a
quella degli abitati coevi, e pertanto è stata ipotizzata una
periodica “migrazione” in quota di piccole comunità
accompagnate da tutti i loro animali, compresi i maiali.
Per altri due siti trentini – Malga Vacil e Dosso Rotondo a
1900 metri di quota – è stato prospettato un possibile
«modello di sfruttamento dei territori montani non molto
dissimile da quello attuale, con un sistema di piccole
“malghe” situate a breve distanza l’una dall’altra». Si
ipotizza un utilizzo tipo “malga” anche per il sito di
Corgnon di Lusiana (X-IX secolo a.C.), posto ai margini
dell’Altipiano dei Sette Comuni in Veneto. Relativamente al
fenomeno delle malghe, intese non solo come strutture
economiche legate al pascolo, ma anche alla produzione di
latte e suoi derivati, non sembra tuttavia possibile tracciare
una linea di continuità dalla Preistoria a oggi. Basti
pensare che in epoca romana non risultano in quota
strutture assimilabili a quelle delle malghe, mentre nel
Medioevo è accertato come in area alpina centro-orientale
«intorno al X secolo fosse gradualmente avviato il processo
di bonifica e disboscamento già cominciato in tutta l’area
centroeuropea che consentì una lenta espansione degli
insediamenti nelle regioni montane, soprattutto nelle valli
laterali, nonché sui pendii e sugli altopiani».
In epoca romana la pastorizia è peraltro accertata in ambito
montano sia dal punto di vista archeologico – sulla scorta
del diffuso ritrovamento di campanelle per animali e della
segnalazione di “alpeggi in quota” – sia su base epigrafica,
come mostrano le importanti iscrizioni confinarie sul
monte Pérgol in Val Cadino, incise a oltre 2000 m di quota, e
sul monte Civetta a nord di Belluno, dove sono note più
iscrizioni realizzate fra i 1700 e i 2100 m.
TRA PIANURA
E MONTAGNA:
GLI ARMENTI,
I PASTORI, LA STORIA
L’unità e la commistione di terre coltivate e di incolti sono
un aspetto fondamentale del successo dell’economia rurale
antica, alla cui gestione hanno contribuito inedite figure di
contadini-allevatori formatisi nella piccola e media
proprietà rurale romana. Entità capillari in pianura come
lungo i fondovalle, in tutti i casi dove la morfologia
ambientale lo ha permesso, controllate dalle élites urbane
particolarmente interessate alla rendita fondiaria, come lo
sono state anche per l’erbatico, essenziale per mantenere
alto e redditizio il numero degli armenti posseduto, ovini e
suini in particolare.
Un fabbisogno per il quale l’incolto e il bosco sono stati e
restano essenziali, costitutivi di un sistema che li unisce
ai campi, alle vigne, ai prati. Dalla semina alla stagione del
raccolto sono queste, infatti, le zone in grado di fornire il
cibo necessario agli armenti, ma non solo. Esse assicurano
anche altre ampie risorse, altrettanto ricercate: legno,
minerali, materie prime, selvaggina, pesci, prodotti
spontanei, vegetali e altro ancora.
Se agli incolti, alle aree boschive e ai pascoli di montagna
Enrico Cavada
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Provincia Autonoma di Trento
Docente di Archeologia Medievale
Università degli Studi di Trento
Do
guarda quindi chi vive e opera sulle terre di pianura e nelle
città, altrettanto verso queste ultime guardano le comunità
che vivono sulle montagne. Genti che la scarsa possibilità di
produzione porta ad aver bisogno delle aree contermini in
posizione più favorita, instaurando e mantenendo con esse
relazioni costanti al cui rafforzamento certamente ha
contribuito anche la pratica dell’alpeggio.
Alpeggio inteso non come elementare accesso stagionale
in montibus da parte degli stessi alpigiani, ma come pratica
interdipendente tra aree geografiche diverse attraverso la
transumanza, ascendente e discendente. Una pratica di fatto
naturalmente favorita da condizioni di stretta contiguità di
aree geografiche pedologicamente diverse e da direttrici di
collegamento interne prive di soluzioni di continuità
incardinate su assi fluviali verticali, canale per spostamenti
di varia natura: umani, armentari, commerciali.
Plurime fonti indicano come, almeno fino al pieno Medioevo,
a essere coinvolti nell’alpeggio siano gli ovini, mentre manca
di documenti probanti quello dei bovini, che mal sopportano
gli spostamenti oltre ad avere necessità di pascoli più
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“comodi” e di ricovero e di apparati accessori stabili.
Ovini quindi, fittamente diffusi nelle proprietà di tutte le
regioni rurali dell’Italia settentrionale, nell’età romana come
in quella medievale. Bestie a cui l’economia antica guarda
con alto interesse per la facilità nel mantenimento e per la
resa che esse offrono in termini di materie prime: la lana
nel caso specifico piuttosto che altri tipi di prodotti (latte,
carne, pelli). Lana che, in assenza di altre fibre di ugual
valore, serve all’industria dei tessuti, di differente qualità e
di vario genere. Tessuti e imprenditoria tessile
reiteratamente ricordati dalle fonti e che già in epoca
romana hanno reso fiorenti numerose città, quelle venete in
modo particolare.
L’esame archeozoologico dei resti ossei recuperati nei siti
archeologici attesta l’assoluta predominanza degli ovini che,
in molti contesti produttivi, con caprini e suini rappresentano
il bestiame maggiormente allevato, con punte di oltre l’80%
sul totale complessivo delle faune domestiche accertate. I
medesimi resti indicano animali di statura piccola e robusta,
rustici e adatti a un allevamento brado e, pertanto, al pascolo
mobile, il che conferisce forza e peso al ruolo dei pastori nelle
società del tempo.
Pastori per i quali le fonti concordano nell’indicare
un’estrazione servile, tuttavia sempre molto ricercati e
tutelati. Lo fanno le norme giuridiche longobarde che ne
salvaguardano ruolo e lavoro. L’editto che Rotari promulgò
nel 643, contiene sanzioni molto severe e quote di
indennizzo tra le più elevate a carico di chi feriva o uccideva
un pecorarius o un armentarius esperto. Disporre di ottimi
ed esperti pastori è altresì strategico nella messa a buon
frutto dei patrimoni. Sempre in età longobarda ne è
consapevole il re Liutprado (712-744), che si preoccupa di
averli costantemente sulle proprie terre. Altrettanto
Desiderio, suo successore, che nel 760 amplia le donazioni al
monastero regio di Santa Giulia e concede coltivi e spazi
incolti lungo i meandri del fiume Mella, assicurando allo
stesso gli strumenti umani per metterle in valore: quattro
servi con le rispettive famiglie incaricati di pascolare i porci,
le pecore e le vacche del monastero in quelle terre già note e
ricercate per il pascolo in età augustea, come ricorda Virglio.
Che il monastero bresciano avesse necessità di pastori lo rivela
il suo multiforme e redditizio patrimonio armentario, sparso
nelle aziende dipendenti sia in montagna (Bradellas/Pian
Camuno, Sure/Sovere e Clusune/Clusone a nord del lago d’Idro)
sia nella bassa pianura lombardo-bresciana (Alfiano/Alfianello
o Alfiano Vecchio alla confluenza tra Oglio e Mella). Aziende
nelle quali complessivamente sul finire del IX secolo
stazionano più di 1000 ovini.
Richiamare i dati del monastero bresciano longobardo
risulta utile non solo per testimoniare l’entità delle rese, ma
anche per valutare la dislocazione in ambienti diversi e
17
complementari fra loro degli armenti, funzionale a un
proficuo sistema di gestione. Altrettanto si può pensare
abbiano fatto i proprietari terrieri romani per ricercare il
necessario equilibrio fra attività agricole e allevamento.
Questo infatti emerge da una ricerca multidirezionale e ad
ampio spettro sulla pastorizia antica, condotta nell’ultimo
decennio dalla Scuola archeologica patavina nell’area
veneta. Regione ricca e produttiva, nella quale si
compenetrano (e si integrano in un continuum privo di
soluzioni) tre ampie fasce geografiche: quella costiera e
lagunare, caratterizzata da paludi e risorgive, poco utile alle
coltivazioni e dove ampia è stata in passato la possibilità di
pascolo invernale; la pianura interna e il pedemonte con
terre vocate alla migliore pratica agricola e alle coltivazioni
intensive più redditizie (cereali e viti in particolare), aperte
agli armenti nel solo periodo di stasi del ciclo agricolo.
Armenti richiesti dai coltivatori quale unica forma possibile
di concimazione prima di procedere a nuova semina.
A queste due zone seguono gli altopiani e le montagne, dove
l’erba fresca abbonda per molti mesi, offrendo ciò che la
pianura da sola non è in grado di assicurare per l’intera
durata dell’anno all’allevamento ovino.
La complementarietà tra queste aree risulta chiara da
plurime fonti documentarie, testimoni di un orizzonte di
solida economia che fin dall’età romana è stata in grado di
corrispondere alle ambizioni di promozione e affermazione
di chi ne è stato partecipe. Un esempio lo offre C. Firmio
Rufino, singolare figura di aristocratico romano vissuto nella
Feltre romana del II secolo d.C. e coinvolto in diverse attività
imprenditoriali nonché referente di alcune potenti
corporazioni professionali che, nella città di residenza ma
anche a Belluno e ad Altino, univano i lavoranti della lana
grezza, del legno e dei metalli.
Riferimenti interessanti questi, che pongono in evidenza
rispettivamente il caposaldo e lo snodo interno di
smistamento verso il comparto montano di quella che
risulta essere stata un’importantissima direttrice, la valle
del Piave, ponte tra la laguna altoadriatica e le zone alpine
oltreché nerbo di una rete di percorsi minori, strategici nella
ramificazione stagionale dei movimenti armentari che si
ritiene l’abbiano percorsa.
Gli stessi riferimenti in qualche maniera aiutano a
comprendere le ragioni e i fondamenti di un secolare
fenomeno di movimento transumante che, probabilmente
già nell’età antica e quindi durante tutto il Medioevo e oltre
ancora, ha portato le greggi e i pastori feltrini a scendere
stagionalmente nella pianura veneta per andare a occupare
le “poste” collocate in quella che è stata la campagna
altinate romana e i suoi immediati margini, spinti fino a
Concordia. Una pratica tramandata che di fatto viene a
ripercorrere nei due sensi di marcia, anno dopo anno, ampi
tratti della via Opitergium-Tridentum, strada romana
segnalata nel III secolo e successivamente tra il centro
veneto di Oderzo e Trento attraverso il Piave, Feltre, il Tesino
e la Valsugana.
In età romana e ancor più nei secoli successivi gli incolti, il
bosco, le aree di pascolo mai sono “liberi”: appartengono
sempre a qualcuno. Principalmente sono aree del pubblico
demanio (silva e pascua publica) e, quindi, del fisco regio che
le concede in esclusivo godimento a gruppi
di contadini-allevatori, che ne fanno uso comunitario
attraverso l’esercizio di un diritto (ius compascendi).
L’uso poteva essere gestito però direttamente dalle
municipalità o dalle comunità autonome alpine attraverso la
stipula di contratti e conseguente riscossione di canoni, in
denaro oppure in natura con consegna di prodotti e animali
vivi. Canoni che, con l’incremento delle carte scritte rimaste
negli archivi, risultano sempre presenti e applicati, secondo
consuetudini da ritenere senz’altro precedenti. Interessante,
da questa angolatura, è un’annotazione che il geografo greco
Strabone fa a proposito di coloro che vivono sulle montagne
alpine. Da un lato, da posizioni etnocentriche, ne sottolinea
povertà e primitività, dall’altro si stupisce per le quantità di
formaggio di cui queste genti dispongono, al punto che è per
loro forma di ricchezza e scambiato nei centri di pianura per
ottenere «cibo e tutto il resto» di cui necessitano.
In un contesto tradizionalmente avaro di eccedenze, lecito
è interrogarsi se questo surplus caseario, così elevato e
singolare da essere ricordato, derivi da una produzione
interna oppure se diversamente provenga da canoni versati
da pastori transumanti per permessi di transiti e possibilità
di accesso alle aree di pascolo, di cui le valli alpine
abbondano ben oltre lo stretto fabbisogno.
Con il pieno Medioevo altri soggetti prevalenti si affacciano
e si affiancano a quelli antichi, attratti dalle possibilità di
sfruttamento dei pascoli alpini. Attraverso concessioni,
acquisizioni e usurpazioni, monasteri, autorità
ecclesiastiche, comunità montane neocostituite, centri
urbani, signorie territoriali vengono così a modificare la
geografia dello spazio “incolto”, generando altresì tensioni e
scontri comprovati sul duplice versante della
documentazione scritta e dei testi narrativi.
Pescando in maniera del tutto casuale nella documentazione
trentina del XII-XIII secolo si possono ricordare la rapina delle
greggi perpetrata dai Signori di Caldonazzo super montaneas
vicentinas sul finire del Duecento oppure l’ordalia (pugna inter
duos pugnatores, deus iustus iudex) condotta nel 1155 di fronte
ad autorevoli testimoni – il vescovo di Trento Eberardo e
alioroum bonorum hominum – per risolvere il diritto di
possesso e usufrutto del monte Movlina, in Val d’Algone. Monte
conteso tra gli uomini di Bleggio e di Rendeva, con giudizio
risolto a favore dei primi di cui tuttora permangono gli effetti.
Leggermente più recente ma di non minore interesse un
terzo caso che vede coinvolta l’aspra catena del Lagorai, tra
la Valle dell’Avisio e quella del Brenta/Tesino: territorio ricco
di pascoli e boschi rimasti fortemente negli interessi
di Feltre fino all’età moderna. Preme richiamarlo per
i contenuti, ma soprattutto perché rappresenta un
formidabile caso di continuità di sfruttamento delle creste
montane dall’antichità in poi.
Siamo agli inizi del Trecento e il vescovo di Trento, nel 1314,
emana un decreto che, recuperando gli antichi diritti di
accesso, uso e sfruttamento esercitati da più di duecento anni
dagli uomini di Fiemme conferma loro la piena disponibilità
e usufrutto collettivo dei monti che circondano la valle e fra
18
essi quelli di Cadino, Cadinello, Campolongo, Valmoena,
Lagorai ecc., tutti ubicati «ultra Avisii apud episcopatum
Feltrensem et Bellunensem» e rivendicati nel rispetto di una
demarcazione molto più antica, come – scrive l’autorità –
«ci consta da parecchie persone nobili e non nobili, degne di
fede, le quali asserirono davanti a noi, con loro giuramento,
dopo aver toccato le Scritture sui sacri Vangeli di Dio, che tutti
i singoli monti sopraelencati erano sempre stati degli stessi
uomini della detta nostra Valle di Fiemme [...] della nostra
diocesi tridentina».
Sul fronte del Lagorai, consapevolmente o meno, questo
atto altro non ribadiva che un limite di demarcazione
immemorabile, che oggi pienamente può essere confermato
dalla riscoperta di un antico termine posto inter Tridentinos et
Feltrinos più di tredici secoli prima. Un testo chiaro nei propri
caratteri monumentali incisi al centro di una tabella ricavata
sulla parete nord del monte Pergol, attorno ai 2000 m di
altitudine. Poco importa in questa sede quando esattamente
tale iscrizione è stata posta, ovvero se in coincidenza
dell’assegnazione delle aree pubbliche ai neocostituiti
municipia romani di Trento e di Feltre oppure se più tardi, nel
corso della prima metà del I secolo d.C., a soluzione di una
questione de iure territori nel frattempo intervenuta.
Ciò che importa è invece osservare quali siano i referenti
destinatari del testo che – vista la sua particolare
dislocazione – possono soltanto essere coloro che “per
mestiere” venivano fin qui a inerpicarsi; non di certo dei
cacciatori o dei viaggiatori, ma a ragion veduta i conductores
delle greggi, i soli ad avere di fatto interesse a raggiungere i
pascoli del Lagorai, fino alle quote più elevate e impervie.
Questo peraltro non è un esempio isolato nel comprensorio
alpino. Altre iscrizioni confinarie del tutto simili per
formulario, collocazione e datazione sono infatti presenti
anche nelle Alpi bellunesi e ulteriori testimonianze
potrebbero esistere altrove. Caso questo dello straordinario
patrimonio di segni e graffiti presenti lungo i sentieri del
monte Cornon in Val di Fiemme e in altri siti delle
montagne limitrofe, in coincidenza con aree di pascolo e di
cui in questo stesso volume si occupa Marta Bazzanella, la
cui documentazione critica potrebbe fornire interessanti
elementi di novità.
Più arduo è individuare i segni materiali diretti lasciati
dall’alpeggio e dalla pastorizia antica sulle Alpi. Né questo
deve stupire considerato come tali attività e l’esercizio di
quelle connesse, per loro stessa natura, sono state sempre
a bassissimo impatto sull’ambiente, tanto più quando a
essere coinvolto è il bestiame minuto, difficilmente legato
a fissità di strutture e di sedi.
Per il periodo romano le testimonianze concordano nel
riferire di pastori dotati di attrezzature e ricoveri mobili,
trasportati con animali da soma aggregati agli armenti, che
19
seguivano i loro spostamenti sui pascoli. Per avere i primi
sicuri riferimenti circa la presenza di costruzioni nelle aree
di malga si deve attendere il basso e tardo Medioevo e,
soprattutto, si deve attendere il cambiamento del
patrimonio zootecnico portato sull’alpe, quello bovino,
che è quello che più necessita di strutture ospitali, come ha
modo di evidenziare Emanuela Renzetti nel suo saggio.
La presenza o meno di ricoveri, di altri apprestamenti e di
recinzioni strutturate nelle aree di pascolo sfruttate in età
premedievale attende comunque maggiori approfondimenti
e soprattutto più mirate capacità di rilievo e di
interpretazione, sul modello di quanto è stato fatto ad
esempio nelle Alpi francesi, dove i risultati archeologici non
mancano con differenze anche notevoli rispetto a quanto si
è portati a ritenere sulla base di documenti posseduti.
Certamente i pastori, che Varrone – autore nel I secolo a.C.
di un noto trattato sull’agricoltura e l’allevamento –
raccomanda essere robusti per sopportare i disagi del pascolo
in montagna, sono stati capaci di servirsi al meglio di ciò che
i luoghi attraversati offrivano loro, nelle più diverse
condizioni e situazioni, adattando e provvedendo
direttamente alla realizzazione di elementari strutture per
le proprie necessità. Apprestamenti per i quali il medesimo
autore usa il significativo quanto eloquente termine di
«casae repentinae».
Il recupero di frammenti di antiche stoviglie in ceramica
nella zona di passo Giau e in Val di Crepa, a monte di Mazzin
in Val di Fassa conferma l’uso a ricovero temporaneo di ripari
sottoroccia, sicuramente in età tardoromana e altomedievale.
Altro diretto riferimento circa la frequentazione di queste
stesse zone lo forniscono delle cuspidi in ferro per armi da
getto rinvenute in Val di Stava, in Val Ciamin sull’altopiano di
Tires/Siusi, nella zona di Mandra di Vael e a passo Lusia in
Val di Fassa, sui pascoli di Col del Moro in Val Badia.
Manufatti perduti tra la protostoria e il primo Medioevo che,
più per tradizione che altro, si è portati a ritenere legati
all’esercizio della caccia, anche se nel contesto culturale ed
economico cui ci riferiamo essa ha caratteri ormai del tutto
occasionali. Ne consegue quindi anche per questi manufatti,
se non tutti almeno una parte, la possibile relazione con
l’alpeggio, trovando questa lettura sostegno in un ulteriore
appunto di Varrone, allorché raccomanda di provvedere che i
pastori siano muniti di armi dovendo difendersi e difendere
gli animali loro affidati «a bestiis ac praedonibus», da bestie
predatrici e da ladri.
Un’ultima considerazione può essere ancora fatta per questi
reperti, ai quali si possono aggiungere delle monete romane
imperiali e altri piccoli manufatti d’uso personale o di
abbigliamento ritrovati nelle medesime condizioni. Si tratta
sempre di oggetti di natura mobile, isolati e privi di contesto
specifico, ma a ben vedere distribuiti lungo possibili itinerari
di risalita, dal fondovalle verso la montagna. Itinerari che
talvolta hanno nel proprio raggio e in posizione intermedia
dei modesti centri abitati indigeni quale può essere stato,
nel Tesino, il villaggio innalzato sul dosso di Sant’Ippolito in
corrispondenza della secolare via di transito che da Feltre
attraverso Lamon portava alla Valsugana, ma anche verso il
passo del Brocon o il cuore del Lagorai. Altro esempio, quello
del doss Zelor nella bassa Val di Fiemme, sede abitata tra il I
e il VI secolo lungo la via di risalita obbligata dalla Val
d’Adige verso il comparto dolomitico. Nell’uno e nell’altro
caso si tratta di insediamenti che vivono di ciò che
l’altitudine e le scarse e magre terre che li circondano
possono loro offrire. Rese mai abbondanti, integrate
certamente da importazioni: beni strumentali, utensili,
monili, forse generi alimentari, mentre tra gli abitanti
circola del denaro, oggetto anche di forme di tesaurizzazione
e risparmio. Le modalità di afflusso di questi beni sono state
certamente molteplici, ma non è una novità prospettare
anche nei pastori e nel transito stagionale di armenti una
realtà di intermediazione. Pastori a contatto con culture,
realtà e ambiti economici diversi. Inoltre essi trasportano un
bene materiale vitale per la sopravvivenza stessa di uomini
e animali: il sale, che ha come area privilegiata di
approvvigionamento le aree lagunari, dove
tradizionalmente le greggi svernavano prima di riprendere
il cammino verso le Alpi. Sale assente in montagna, di cui
i pastori hanno bisogno per alimentare le bestie. Una
necessità ineludibile che meglio si comprende ricordando
come la scienza veterinaria e la testimonianza pratica di
pastori moderni concordino nell’indicare un fabbisogno
giornaliero minimo di circa 3-4 gr di sale per ciascun capo
allevato, che rapportato a un gregge di medie dimensioni,
di 700-1000 capi ad esempio quali ne possedeva un ricco
proprietario romano o medievale, porta a un quantitativo
annuo di almeno 30/40 quintali. Questo senza contare che
il sale serviva anche per numerosi altri scopi: farmaceutici
per curare ferite e per lavare gli animali dopo la tosatura,
conservativi per trattare e lavorare il formaggio e altri
prodotti animali derivati (pelli e carne).
Un’altra relazione antica lega armenti, transumanza, pastori,
sale, commercio: il culto di Ercole, attestato in maniera
piuttosto ricorrente in corrispondenza di tratturi e vie
armentarie, come anche in centri di smistamento, sia
nell’Italia peninsulare sia nel territorio alpino. Ambito nel
quale non fa difetto la regione trentina, dove il culto di Ercole
risulta attestato da numerose testimonianze. Molto spesso si
tratta di piccole raffigurazioni in bronzo, che ritraggono l’eroe
divinizzato combattente e in posizione d’assalto a rimarcare la
capacità di sicura protezione contro qualsiasi forza naturale.
Alcuni esempi provengono dalla Valsugana e dalla Val di Non.
Altri casi sono espressi da epigrafi votive poste su piccoli
monumenti e altari pubblicamente offerti per “grazia
ricevuta”. Se ne conoscono nelle Giudicarie e, ancora una
volta, in Val di Non, dove merita di essere ricordato il pezzo
recuperato a Sanzeno e dedicato a Ercole da un devoto
locale, che “firma” il proprio nome con il gentilizio Silvinus.
Può essere solo suggestione, ma questo termine legato a una
famiglia del luogo indubbiamente richiama un ambito e
un’attività che hanno a che fare con la selva, non
necessariamente qui intesa solo come bosco e incolto,
quanto piuttosto come “contenitore” di molto altro, fino a
comprendere campi, pascoli, prati e perfino villaggi come
ben ha illustrato Chris Wickham parlando dell’Italia rurale
al tramonto dell’età antica.
20
PRATI E PASCOLI
DI IERI E OGGI
L’importante cambiamento del patrimonio zootecnico
registratosi nell’arco alpino che ha visto sostituirsi
all’allevamento ovino quello bovino è fenomeno noto, ma
ciò che è ancora argomento di discussione è il periodo in
cui si è verificato, con quale andamento e per quali ragioni.
C’è chi sostiene che le vacche abbiano cominciato a
scacciare le pecore dai pascoli dal Medioevo, e c’è chi
tende piuttosto a retrodatare l’inizio dell’incremento
di buoi e mucche all’alto Medioevo, ridimensionando
l’importanza del fenomeno e accordandogli minor peso.
Alcuni lo considerano in rapporto all’aumento di
popolazione sull’intera catena montuosa: in tal caso lo
vedono o in funzione di un’accresciuta capacità di carico
di lavoro necessario all’allevamento in stalle durante
l’inverno, oppure legato all’esigenza di acquisire nuovi
appezzamenti coltivabili razionalizzando lo sfruttamento
del suolo secondo l’idoneità ambientale e altimetrica.
Altri invece lo interpretano come risultato di specifiche
specializzazioni produttive, di richieste dei mercati, di
decadenze o gusti.
In ogni modo, poiché l’area di volta in volta indagata sembra
porre vincoli o facilitazioni peculiari, si è convenuto di
considerare questo mutamento dell’allevamento come un
fenomeno differenziatosi regionalmente, talvolta con vere
rivoluzioni, talaltra con lentezze; oppure, guardando all’intero
spazio alpino, la tendenza alla trasformazione del patrimonio
zootecnico è stata prudentemente classificata di lungo termine.
21
Emanuela Renzetti
Docente di Antropologia Culturale
e Storia delle Tradizioni Popolari
Facoltà di Sociologia
Università degli Studi di Trento
La leggenda del Prato delle pecore
Anche per il territorio dell’arco orientale delle Alpi,
come per altri in cui gli approfondimenti non sono stati
particolarmente numerosi, è difficile stabilire momenti di
passaggio certi; tanto vale quindi avviare la riflessione
partendo da un argomento che gode di una particolare
incertezza cronologica: una leggenda. Le leggende, infatti,
spesso legate ai luoghi, cercando di spiegarne l’origine o
dandogli nome, attestano una qualche propria storicità e,
insieme, quella degli usi o delle consuetudini che narrano.
Si racconta a proposito del Prato delle pecore, sul monte
Tombea, tra la Val di Ledro e la Valvestino, che greggi di
pecore e pastori siano stati ridotti a cadaveri da un terribile
temporale scatenatosi d’improvviso quasi a punirli giacché
pascolavano su quel monte contro ogni diritto. I massi che
vi si vedono coperti dai detriti e dall’erba sono appunto
quei miseri corpi insepolti. Altrove, per le montagne del
Trentino, la leggenda si ripropone con piccole differenze: i
massi sono bianchi proprio come le pecore, i fulmini hanno
pietrificato i corpi e la causa del nubifragio è l’invocazione
della parte lesa nella controversia per il pascolo. La
leggenda narra tuttavia con chiarezza alcuni fatti di
pastori, di ovini e di diritti sui prati. All’alpeggio, già dal XIII
secolo, sono condotti prevalentemente greggi di ovini: gli
animali di cui si ha notizia sono pecore. Il territorio della
Valle di Ledro, colonizzato in epoca assai remota, è stato
sempre libero da domini feudali fin da quando fu donato al
vescovo di Trento poco dopo il Mille; era denominato
“magnifica comunità” e aveva un governo popolare,
il che spiega i pascoli comuni in montagna e purtroppo
anche le liti.
Il paesaggio agrario montano, infatti, era caratterizzato un
tempo – e non solo nella zona della leggenda – da nuclei
insediativi nel fondovalle, le ville, circondati da campi e orti
recintati; sui versanti, con il trascorrere dei secoli, le fasce
boschive sempre più erose da appezzamenti coltivati
lasciavano spazio in quota ai prati destinati al pascolo
estivo. Questi, come i boschi, erano beni comunali e la loro
difesa, il riconoscimento e il mantenimento dei loro confini
venivano vissuti come un diritto e un dovere di ogni
comune e affidati alla sorveglianza della regola secondo le
consuetudini e le esigenze espresse dai suoi membri.
Le pecore, in Val di Ledro consegnate alla toponomastica,
hanno costituito una risorsa preziosa per le popolazioni
montane per l’utile del latte, delle lane, della carne e della
pelle, per la contenuta incidenza dell’investimento che
richiedevano, per la grande resistenza alle malattie che
dimostravano e non ultimo perché sapevano adattarsi
anche a pascoli molto alti, scomodi e difficili, oltre che a
spostamenti davvero interminabili. Forse, proprio le virtù
di questi erbivori che ne fecero aumentare il numero in
maniera esponenziale, nel tempo, si ritorsero in un certo
senso contro la specie facendole perdere la primazia.
L’adattabilità e la resistenza la sospinsero sempre più in
alto e verso la transumanza; la lana rustica venne svalutata
a confronto di quella fine e morbida di esemplari esotici, il
consumo della sua carne ridimensionato e il latte lavorato
di frequente con quello della più “grossa” antagonista.
Uno scrittore arguto e attento osservatore qual è
Michelangelo Mariani verso la fine del XVII secolo,
ricercando l’etimologia del termine Ledro, fornisce alla valle
citata per la pastorizia una nuova fisionomia: «Il nome di
Leder proviene dall’alemanno, che vuol dir di cuoio; e ciò,
attesta la grande quantità di pelli bovine e altre che vi si
fabbricano, stante il gran numero di bestiami che in essa
valle vengono allevati».
Lo sfruttamento dei pascoli e le liti tra famiglie
Nella parte orientale della regione, sul tratto montuoso che
verrà poi definito dolomitico, si sono conservati documenti,
questa volta dunque notizie datate, che sembrerebbero dar
conto delle prime scaramucce tra pecore e mucche. Nel
territorio di Primiero, ma anche questo è un dato
strutturale dell’assetto montano, le proprietà erano quasi
tutte piccole. La differenza in termini di benessere e
povertà tra famiglie, determinata dalla disposizione dei
possessi e dalla conseguente produttività o dalle attività
artigianali e commerciali integrative, si ripercuoteva sulla
presenza e il numero del bestiame. Nella seconda metà del
XV secolo si accende un’animata questione tra proprietari
e non proprietari di pecore circa lo sfruttamento dei pascoli
comuni, che anche qui hanno una notevole estensione.
I non proprietari di pecore lamentavano il fatto che i
benestanti sfruttassero i monti in maniera considerevole,
più di quanto sette o dieci di loro non facessero, gravandoli
con il proprio bestiame minuto e grosso, senza pagare per
questo un censo maggiore. Naturalmente gli accusati si
appellavano al rispetto dell’uso antico e difendevano la
tradizione del godimento dei communia. Poiché era
necessario giungere a una soluzione e dato che la
questione si riproponeva periodicamente e rischiava di
peggiorare, l’arbitrato stabilì che a ciascun capofamiglia
fosse concesso di condurre al pascolo fino a duecento
pecore nella regola in cui risiedeva senza dover pagare
alcun censo. Chi avesse superato il numero stabilito
avrebbe pagato l’affitto del pascolo per ciascun capo in più.
Inoltre, il tema della pezzatura del bestiame fu composto
stabilendo che ogni anno sarebbe stato destinato un
pascolo esclusivamente alle “armente” sul quale per
nessuna ragione potevano essere condotte pecore,
considerate serio impedimento al pascolo dei bovini.
Circa due secoli dopo, la stessa Valle di Primiero offre un
panorama notevolmente mutato: altre fonti attestano
infatti la decisione di riservare un pascolo ai soli manzi e
vitelli, le “armente” giovani, e di limitare l’accesso dei capi
al monte. In queste notizie si avverte sia la crescente
pressione del bestiame grosso, sia la preoccupazione di non
depauperare i prati, sia il progressivo spostamento delle
zone di pastura per le pecore. Alla fine del Settecento
risulterà esplicito dove debbano pascolare gli ovini: «a
questi sono destinati i pascoli alpestri secchi e magri»
sui quali godranno della compagnia dei cavalli.
La supremazia territoriale bovina che va progressivamente
affermandosi è del resto confermata anche per altre valli.
Ancora Mariani scrive a proposito della Valle di Fiemme: «I
pascoli delle cime dei monti riescono così copiosi e pingui
che ogn’anno servono per gli armenti di lungo l’Adige da
Bolgiano fin’all’Avisio; e di qui si cava grande emolumento
di butirro e formaggio. In oltre (astraendo dal bisogno dei
proprij bestiami di valle) servono le più alte cime delle
montagne, per molte migliaia di pecore che ogn’anno vi
vengono d’Italia». Nell’enfatizzare la ricchezza dei foraggi,
la descrizione dà conto, forse con contorni un po’ troppo
netti, di una transumanza e di un allevamento ovino che
sembrano del tutto estranei al tessuto locale; vale a
rettificare questa idea quanto accadeva a Mezzolombardo
all’inizio del Cinquecento.
Una vertenza sorge in quel periodo tra cittadini di Trento e
uomini del comune. Da più di un secolo costoro erano soliti
22
affittare ai fiemmesi e ad altri forestieri che scendevano in
pianura con le greggi una parte dei terreni comunali incolti
incamerandone la rendita. Ora i trentini rivendicavano
diritti di erbatico su quel suolo e pretendevano di non
pagare durante i propri spostamenti. Dalla questione, che
si protrasse vari anni e coinvolse molti testimoni, emergono
le differenti provenienze dei pastori e delle pecore che
transitavano da e per Bassano, da e per il Tesino e fuori e
dentro le Giudicarie. La Valle Rendena, pure questa citata
come luogo di origine di alcuni pastori che avevano affittato
e correttamente usato i terreni incolti di Mezzolombardo,
compare nelle zone particolarmente vocate all’allevamento
individuate da Mariani. «Li fieni che si tagliano due, e sin tre
volte l’anno, tutti si consumano in paese per gli armenti. I
latticini che si fanno in non ordinaria quantità, oltre quelli
che occorrono per uso proprio, vanno ogni settimana a
Trento et altre città vicine, come anche le carni; a gran
numero ascendono i vitelli, agnelli e capretti, che si
spacciano in tutto l’anno […]. Oltre poi gli armenti e capi di
bestiame che si allevano del paese, capita ogn’anno dal
bresciano quantità di pecore per le quali servono le cime de’
monti che avanzano a’ paesani e s’affittano buona somma
di fiorini». Risulterebbe dunque che le greggi appartengano
tanto a locali quanto a forestieri, che si spingono su itinerari
diversi che talvolta mettono in relazione la gente di
montagna con la pianura Padana e veneta.
Le forme di pastorizia sembrerebbero organizzate in
differenti modi e potrebbero corrispondere non solo alla
maggiore o minore abbondanza di pascoli, ma anche
all’esigenza di garantirsi una rendita, o di disporre di più
tempo di lavoro, o ancora alla necessità di stabilire facili
contatti con le regioni di destinazione della transumanza
invernale. Sarebbe questa una soluzione che vedrebbe il
gregge locale aggiungersi a quello condotto da un pastore
forestiero verso i pascoli montani per poi discendere, almeno
in certe zone, verso i pascoli di pianura. I rapporti sarebbero
in tal caso regolati da patti di compartecipazione sul
prodotto di malga e lo sgravio lavorativo, oltre al vantaggio
economico e al minor consumo di fieno durante la cattiva
stagione costituirebbero validi incentivi alla scelta.
Accanto a questa, l’altra possibilità di allevare bestiame
minuto a livello domestico prevederebbe l’assunzione di un
pastore locale per l’alpeggio estivo e l’eventuale aggiunta
alle proprie greggi di quelle provenienti da altri territori,
fino al completo carico degli appezzamenti in quota. In tal
caso la relazione con i forestieri avrebbe potuto garantire lo
smercio del formaggio e della lana. Durante l’inverno,
invece, per preservare i propri pascoli e garantirne la
riproducibilità e per evitare di consumare nell’ovile fieno
necessario al bestiame grosso, le pecore avrebbero dovuto
essere spostate sul fondovalle dei fiumi che garantivano
pastura in zone paludose. Diritti di pascolo di tal tipo, ad
23
esempio lungo l’Adige, nelle anse di Egna, Termeno,
Caldano e Bronzolo, erano esercitati dai vicini di Fiemme
che li mantennero fino al Settecento. Intorno alla metà di
questo secolo si sostiene che «il bestiame è uno di quelli
articoli che più interessano il Principato e per la necessità
di quello nell’agricoltura, e pel vantaggio delle sue lane, e
per la fecondazione de’ sterili nostri terreni e finalmente
per esser divenuto un oggetto ancora di esterno attivo
commercio». Studiosi e notabili locali ritengono che se
l’allevamento fosse incoraggiato e protetto da saggi
provvedimenti potrebbe correggere la costante perdita che
si registra sul fronte dell’importazione necessaria «al
continuo consumo de’ nostri pubblici macelli». Varrà la
pena ricordare che in un’inchiesta del 1791 il bestiame da
carne per il fabbisogno interno veniva stimato intorno ai
2640 capi bovini e che la sola città di Trento ne consumava
1500 insieme a 10.000 castrati. Eppure, proprio a questo
periodo, risalgono interventi esattamente contrari a
quanto si auspica. Le operazioni di bonifica operate e la
conseguente messa a coltura delle terre privano il pascolo
di preziose quote di superficie, ad esempio, i vicini di
Fiemme perdono i loro diritti lungo il corso dell’Adige.
Più in quota l’espansione del mais, altrove lo sviluppo
della gelsicoltura e della viticoltura limitano ulteriormente
il prato e il pascolo. Le pecore perdono terreno, possono
spostarsi meno anche verso la pianura, i coltivatori
cominciano a restringere sempre più gli spazi che
concedono perché il loro sistema produttivo è divenuto
più equilibrato. Nonostante le difficoltà, la crisi non è
immediata. La carne viene ancora richiesta e così pure
i latticini e il pellame, persino la lana trova ancora
collocazione anche se con minori profitti, ma il destino è
segnato. Per tutto l’Ottocento il decremento è costante:
le restrittive leggi forestali e l’orientamento più favorevole
alla zootecnia bovina non possono certo arginarlo.
Tra Otto e Novecento: un paesaggio che cambia
Gli escursionisti e gli alpinisti che viaggiano verso l’Italia e
cominciano ad accostarsi alle Dolomiti vedono ancora e
ammirano stupiti le baite e le distese erbose cosparse di
greggi. «Raggiunta Madonna di Campiglio decido di
affrontare il monte Spinale. A mezza costa della montagna
trovo tre malghe con capi bovini e conto trecento fra pecore
e capre», scrive Kaspar Maria von Sternberg nel 1803.
I racconti delle impressioni vissute sostando e
risvegliandosi davanti a pareti rocciose stagliate contro
l’azzurro mitizzano le atmosfere alpestri, non certo i
pastori. Quegli uomini selvatici, che vivono isolati,
producono formaggi e condividono l’esistenza con gli
animali, sembrano una razza destinata all’estinzione:
«La lunga abitudine a gridare al loro gregge su un declivo
lontano, o a conversare attraverso le valli, aveva fatto tanta
presa su di loro che sembravano del tutto incapaci di
ridurre le loro voci alla tonalità delle regioni nelle quali la
popolazione è meno sparpagliata». Tale la memoria che
ne conserva Freshfield, singolarmente contrastante con
il pacato silenzio da testimonianza finale che Segantini
conferisce alla documentazione di vita dei pastori.
Costoro che, come chiunque migri stagionalmente, erano
divenuti agenti di collegamento e di cambiamento tra terre
e culture diverse, a volte per molte generazioni, sarebbero
stati presto costretti a cambiar mestiere. A Folgaria ad
esempio, i pastori dell’Oltresommo in primavera andavano
in Val di Non; d’autunno, scaricate le malghe, facevano
ritorno all’altopiano giusto in tempo per veder arrivare
l’inverno. Ripartivano infatti subito per la bassa mantovana.
La frequenza abituale della zona e l’interazione con gli
autoctoni aveva condizionato lingua e costumi. Il dialetto
tedesco era diventato un nuovo dialetto, il Gai, una lingua
tutta loro, e la conoscenza dell’Italia aveva contaminato le
loro idee e li aveva resi partecipi di uno spirito nazionalista
che diffusero nel proprio paese. Dalla pianura avevano
anche riportato una particolare venerazione: quella per la
Madonna di Ostiglia che era apparsa tra le fronde di un
albero a una giovane pastora muta poi miracolosamente
guarita. In quattro paesi dell’Oltresommo c’è ancora oggi
quella immagine di devozione fatta dipingere nel 1861 da
transumanti che non esistono più.
A cavallo tra Ottocento e Novecento il numero degli ovini
farà registrare un crollo improvviso, la grande crisi
economica, l’emigrazione e le malattie ridurranno
drasticamente il patrimonio, ma a favore del decremento
giocheranno anche i confini politici e le leggi sanitarie
applicate secondo alcuni con poco criterio. Insieme al
numero dei bovini, che pur fluttuando è ovunque in
rafforzamento, cresce anche quello delle capre.
Tradizionalmente considerata la vacca dei poveri la capra,
ancor più rustica e resistente della pecora, è pronta ad
arrampicarsi su pascoli impossibili e disposta ad
alimentarsi con gli scarti degli altri erbivori. Emblema di
povertà e insieme vero sostentamento, forniva latte alla
famiglia e ai piccoli. Chi non possedeva nemmeno una
capra era considerato davvero miserrimo. Allevata
generalmente con altro bestiame, ora diventa unico gregge.
Entra in questa forma nella mitologia popolare quasi
dovesse riscattare la propria umiltà nel gruppo. È un
gregge di capre, come vuole la tradizione popolare, che
abbeverandosi e producendo più latte fa scoprire a Rabbi la
sorgente terapeutica, e ancora un gregge è quello da cui
viene sottratto il più bel caprín della Pastora protagonista
di uno dei primi e più celebri canti dei cori alpini. Lei, la
nuova custode delle greggi, nell’erba fresca e bella della
montagna, non somiglia davvero in nulla ai suoi
predecessori rudi e selvatici.
24
25
LE SCRITTE
DEI PASTORI
DELLA VALLE DI FIEMME
Marta Bazzanella
Giovanni Kezich
Museo degli usi e costumi
della gente trentina
Sulle rocce calcaree del gruppo montuoso del LatemarCornon, in Val di Fiemme, nel Trentino orientale, si
incontrano a monte degli abitati di Tesero, Panchià, Ziano
e Predazzo scritte autografe realizzate dai conduttori della
piccola transumanza stagionale delle greggi. Raffigurano
sigle, date, segni di famiglia, conteggi di capi, segni sacri,
piccoli decori astratti, talvolta abbinati a brevi annotazioni
diaristiche, a qualche figura umana, animale o simbolica.
I pastori dovevano pascolare il gregge avendo cura che
il bestiame non oltrepassasse il limite superiore dei prati
destinati alla fienagione. Compiuto lo sfalcio, tra agosto
e settembre, anche i terreni di alta quota potevano essere
adibiti a pascolo fino al sopraggiungere dell’inverno. La
presenza di scritte tra i 1200 e i 1900 m di quota è quindi
conseguenza di una forzata e prolungata permanenza
dei pastori in tale zona che, pur con scarsa vegetazione e
limitate risorse idriche, permetteva di sfruttare al massimo
il territorio, senza dover intaccare le riserve di fieno.
Le maggiori concentrazioni di scritte che coprono uno
spazio di tempo di oltre due secoli – dal 1720 al 1940 – si
localizzano sulle vie di accesso ai pascoli sovrastanti gli
abitati. Tali vie di accesso, stante la conformazione
orografica della zona, erano passaggi obbligati e non a caso
sulle pareti rocciose delle zone di sosta si trovano palinsesti
di scritte (come per il Corosso dai nomi in Valaverta) sui
quali figurano associate non solo scritte di pastori, ma
anche di cacciatori, falciatori e rastrellatori. Sono scritte di
colore arancione, rosso o bruno, eseguite con un’ematite
ferrosa (sesquiossido di ferro) localmente chiamata bol o
bol de bèsa in quanto serviva per contrassegnare le pecore.
Il pigmento veniva amalgamato sul posto con saliva, acqua
o latte e come pennello veniva usato un rametto masticato
a un’estremità per liberarne parzialmente le fibre. Nella
maggior parte dei casi le scritte si trovano ad altezze
comprese tra zero e due metri d’altezza, ma spesso anche
più in alto, fino a 15-20 m dal suolo, su pareti rocciose lisce,
verticali o strapiombanti. In questo caso l’accesso avveniva
in inverno, quando la neve si accumulava ai piedi della
roccia in seguito alla ripetuta caduta di valanghe e slavine;
durante la bella stagione, invece, si utilizzavano tronchi
d’albero dai rami opportunamente tagliati a mo’ di scala a
pioli. L’ematite ferrosa è un minerale abbastanza frequente
nella roccia dolomitica in forma di noduli d’intenso color
ocra. Nel gruppo del Latemar-Cornon sono attualmente
conosciute tre zone di affioramento dell’ematite, due delle
quali sono state sfruttate a scopo estrattivo: si tratta delle
miniere di Valaverta (Ziano) a 1540 m slm e di Valsorda
(Predazzo) più o meno alla stessa quota.
Il terzo affioramento è localizzato sul versante
settentrionale del Latemar, a quota più elevata (2000 m ca.)
e non è mai stato sfruttato in epoca storica. Qualche
rinvenimento sporadico di grumi d’ocra nei pressi del
passo di Pampeago in relazione a strumenti in selce di
epoca mesolitica fa probabilmente pensare a uno
sfruttamento dell’ematite anche di questa località o di
altri affioramenti non ancora documentati. L’estrazione
dell’ematite in Valaverta, sul comune catastale di Ziano di
Fiemme, iniziata nel 1923, fu abbandonata verso la fine degli
anni Venti, per fallimento, dopo soli otto anni di attività.
Di primo acchito i contenuti delle scritte appaiono
misteriosi e indecifrabili: vi sono sigle, nomi, date, numeri
romani, disegni, frasi, brevi cronache o messaggi che si
affollano sulle pareti della bianca roccia calcarea, come su
grandi lavagne naturali, con un effetto estetico
complessivo di notevole suggestione.
Venivano solitamente disegnate le iniziali: prima del nome,
poi del cognome, seguite dall’anno, dal numero di pecore
e/o di capre. Spesso le iniziali erano accompagnate dalle
sigle “F” o “FL” che significano rispettivamente “fece” e “fece
l’anno”. Attorno al corpo della scritta venivano poi
disegnati contorni e cornici a forma di edicola, ornati con
cuori, motivi floreali, volute, animali, scene di caccia,
talvolta anche l’autoritratto dell’autore. Ogni scritta risulta
dunque espressione di individualità artistiche ben precise.
A volte le scritte sono accompagnate da segni di famiglia,
le cosiddette nòde, che compaiono successivamente al 1772
(Vanzetta, 1991, 17) e interessano esclusivamente “autori”
appartenenti a famiglie di Ziano di Fiemme. In questa
località infatti i cognomi risultano poco diversificati
(Zanon, Zorzi, Partel, Vanzetta, Giacomuzzi) ed era quindi
necessario ricorrere all’uso di soprannomi e segni di
famiglia per una più certa identificazione del singolo
e delle sue proprietà (animali, attrezzi ecc.).
Dall’osservazione delle scritte emerge inoltre una notevole
specializzazione del mestiere di pastore, esiste il pecoraio
(besae), il capraio (caorae), il pastore di agnelli (agnelaro)
e di caprette al primo anno di vita (anzolae). Caprette e
agnelli venivano separati dal gregge per poter mungere
con profitto le madri.
Per cercare di fornire una spiegazione a queste scritte,
dobbiamo concentrarci sulla storia recente e passata di
questa zona e inquadrarla quindi nel contesto dell’arte
rupestre dell’intero arco alpino. Spesso nei siti dove ricorrono
graffiti pastorali, di epoca moderna e contemporanea, si
trovano anche manifestazioni artistiche incise o dipinte di
epoche precedenti, pensiamo al Monte Bego e alla HauteMaurienne in Francia, allo Schneidjoch, al Kiennbach –
Enngst e al Bluntautal in Austria, alla Val di Susa, alla
Valcamonica – Valtellina e al Monte Baldo nella zona di Torri
del Benaco. L’elemento che più avvicina tutte le scritte di età
moderna e contemporanea è l’orografia del territorio: ci
troviamo spesso in presenza, come in Val di Fiemme, di zone
fortemente scoscese e impervie coperte di boscaglie e radure,
che non favorivano uno sfruttamento di tipo agricolo.
Ciò che colpisce inoltre, analizzando le località di ricorrenza
dell’arte rupestre alpina e la loro cronologia, è la frequente
ripetizione del binomio Età del Ferro – età contemporanea:
ciò sta sicuramente a significare che la frequentazione
delle zone al di sopra dei 1200/1500 m è avvenuta in modo
massiccio e capillare prevalentemente durante questi due
periodi: e in entrambi i casi, verosimilmente, per l’esigenza
di accedere ai pascoli di alta quota nel tentativo di
mantenersi in equilibrio in un’economia di sussistenza
a impronta agrosilvopastorale.
Lo stato attuale della ricerca non ci consente di
determinare con esattezza quale possa essere stato il
luogo preciso delle piccole gilde pastorali multifamiliari
all’interno delle più vaste comunità contadine di valle, e
quale e quanto alto potesse essere lo steccato sociale che
precisamente le definisse. Certo è che l’uso socialmente
condiviso di questo genere di pittografie/crittografie si
fonda su un concetto elevato del prestigio semimagico
della parola scritta, proprio di un mondo in cui essa non è
ancora appieno moneta corrente, allude direttamente al
carattere esclusivo e dunque in qualche modo iniziatico
della fruizione dei messaggi criptati (iniziali, segni di
famiglia, computazioni, simbologie...), e si ricollega
perfettamente, nelle sue spiccate componenti di carattere
propriamente estetico, a quanto sappiamo delle civiltà
pastorali di tutta Europa, soprattutto per quanto riguarda
la più volte rilevata naturale sensibilità del mondo
pastorale, rispetto ad esempio a quello contadino
propriamente detto, per le arti figurative, la poesia, la
musica, la speculazione filosofica, lungo le linee di uno
stereotipo culturale che, in Fiemme come altrove, appare,
sulla scorta di questo patrimonio di scritte di notevole
pregio artistico, pienamente confermato dai fatti.
26
I PROTAGONISTI
DI OGGI
Una parte del lavoro assegnatomi per questo volume
prevedeva l’individuazione di alcuni pastori presenti sul
territorio trentino, per conoscere le loro abitudini e tradizioni.
Abbiamo deciso di intervistarne un certo numero,
cercando di avere un campione il più possibile assortito
e rappresentativo. Non ce ne vogliano i pastori che sono
stati esclusi: sappiamo bene che ogni storia meriterebbe
di essere raccontata.
Lo svolgimento della ricerca e delle interviste ha messo
in evidenza prima di tutto le differenze tra l’allevamento
delle capre e delle pecore, e successivamente la differenza
tra la pastorizia stanziale, con alpeggio, e la pastorizia
transumante, con trasferimenti in pianura, talvolta fino
al mare Adriatico.
Alcune considerazioni generali
I pastori non sono diffidenti come si potrebbe pensare.
Nessuno ha rifiutato di farsi intervistare, spesso anzi mi
hanno facilitato il lavoro, consigliandomi di raggiungerli
nel luogo più comodo per me. Nella maggioranza dei casi
sono stati disponibili anche a farsi fotografare, accettando
un’ulteriore “invasione” nella loro privacy.
I pastori e i proprietari delle greggi intervistati sono
perlopiù trentini. In un paio di casi vengono da regioni
27
Anna Brugnara
Consulente ed educatrice
ambientale
vicine. I lavoranti sono invece spesso stranieri: alcuni si
destreggiano bene con l’italiano, altri a fatica.
I pastori in genere hanno fatto la loro prima stagione di
transumanti in età adolescenziale. Hanno ricordi molto
vivi, e la raccontano come un’esperienza forte, avventurosa,
segnata dal trascorrere dei giorni e delle notti all’aperto.
I pastori non sono affatto scontrosi, amano chiacchierare ed
essere informati su cosa succede agli altri pastori, nelle altre
valli, oppure su cosa la Provincia e l’Ue stanno progettando
nel campo dell’agricoltura, dell’allevamento e dei contributi.
I pastori si sentono spesso sui gradini più bassi della
società, in particolare nei periodi della transumanza,
quando in pianura i campi vengono seminati e i pascoli
non sono ancora praticabili, e sono costretti nei greti dei
fiumi a elemosinare un po’ di erba. Oppure sull’alpe, dove
i baiti in cui dormire spesso sono piccole catapecchie
senza alcuna dignità.
Le interviste vanno considerate come istantanee, brevi
momenti che i pastori mi hanno dedicato, sapendo di
collaborare a un progetto che intende sostenere non tanto
economicamente ma “culturalmente” il loro lavoro e la loro
realtà. Ho iniziato, per vincere la difficoltà di entrare in un
mondo sconosciuto, incontrando una donna: Teresa. È stato
facile, dopo averle spiegato le finalità del progetto Alpinet
Gheep, farsi raccontare della sua vita avventurosa come
aiuto-skipper in traversate oceaniche e del suo “approdo”
in Val di Fiemme. Poi sono venute tutte le altre interviste.
Prima dell’arrivo dell’inverno e della partenza per le
pianure ho incontrato i pastori sempre con le loro greggi:
alcuni sugli alpeggi, altri al momento della discesa al
fondovalle. Altri ancora a transumanza già iniziata. In
alcuni casi, mi è capitato di trovare il gregge sorvegliato
da “operai” o amici e ho dovuto rimandare l’intervista. In
queste giornate ho avuto tempo per fotografare le greggi
al pascolo, il lavoro dei cani e dei pastori. Giornate intense,
come quella sui pascoli del Monte Valandro con le nebbie
basse a nascondere e svelare le pecore su prati sospesi
sopra salti mozzafiato.
Trovare i pastori tutto sommato è stato semplice; non
altrettanto semplice “avere” il loro tempo. Se stanno
sorvegliando il gregge la loro attenzione è parziale.
Il pomeriggio dopo pranzo, quando anche il gregge sosta
ruminando, sottrai ai pastori il riposo. Alla sera poi ci sono
da preparare i recinti mobili e consegnare gli agnelli alle
mamme. Fare il pastore non è romantico come si potrebbe
pensare: è un lavoro reale, materiale, concreto… Lo sguardo
del pastore non vede piante, montagne, cieli, ma pascoli,
pericoli e passaggi, piogge o neve incombente. Incontrare i
pastori ha significato trovare situazioni molto diverse, ma
accomunate da gesti e attività abituali. Infatti tutti, alla
domanda di descrivere la giornata-tipo, danno risposte
molto simili.
Per i pastori di capre la giornata inizia all’alba, con la
mungitura, seguita dalla pulitura della stalla, dal pascolo
guidato, dal riposo e dal rumine del gregge, infine dal
rientro alla malga per la mungitura serale e la sistemazione
degli animali per la notte. Segue la rigorosa organizzazione
e pulizia delle attrezzature e il conferimento del latte ai
caseifici o la produzione del formaggio.
Per i pastori di pecore invece la giornata inizia con precisi
imperativi: controlla che i tuoi animali stiano bene! Dove
mangeranno oggi? E questa notte dove ti fermerai col
gregge? Bisogna controllare se durante la notte sono nati
degli agnelli e se i parti sono andati bene. Ogni agnello deve
succhiare il latte dalla mamma e ogni pecora deve allattare
i piccoli per evitare problemi di mastiti… ma non sempre è
così. Spesso le pecore che partoriscono due agnelli rifiutano
di nutrirli entrambi, quindi il pastore si deve organizzare
con latte di capra o individuando una pecora primipara, che
ha perso il suo piccolo da poco e ha latte. Inoltre non sempre
l’agnello ritrova la madre; è il pastore che deve facilitare gli
incontri (per questo le segna con il colore). Gli agnelli più
piccoli devono essere trasportati nel furgone o dagli asini,
e tenuti in recinti per proteggerli; per tre volte al giorno il
pastore compie il delicato lavoro di attaccare i piccoli alle
mammelle delle madri.
La giornata del pastore di pecore varia a seconda di
moltissimi fattori: se è al pascolo in montagna e non ha
fretta di muoversi, se nascono molti agnelli, se piove o
nevica, se quella notte un orso ha spaventato il gregge, se
prevede di cambiare montagna per un pascolo più ricco, se
sta transumando e c’è molta strada da fare, se il campo che
pensava di pascolare gli viene interdetto dal contadino o
dalla polizia municipale, se un cantiere lo costringe a
compiere percorsi nuovi…
La gente comune guarda i pastori con curiosità e a volte
sa ammirare quello spettacolo della natura che può essere
un gregge in movimento. Ma sempre più spesso la gente
si spazientisce, ha fretta, la strada è sporca, le gomme
dell’auto si sporcano, le scarpe pure.
Qualcuno dei pastori è rassegnato ma sereno, e dice che
le “parole” non hanno più il peso di un tempo. Altri sono
rassegnati ma combattivi e hanno ben chiaro cosa
cambierebbero, cosa vorrebbero da chi governa per
migliorare le cose.
Per qualcuno questo lavoro è la realizzazione di un sogno
giovanile di libertà raggiunto una volta arrivato alla
pensione. Per altri è prendere tutto il buono che c’è da
prendere, caricarsi di energia nelle belle giornate, andare
alle feste paesane d’estate, tardando il più possibile l’ora
della partenza a novembre per abbreviare il lento
trascorrere dell’inverno nei magri pascoli di pianura.
Per i più giovani significa vivere a contatto con la natura
organizzando tempi e modi di lavorare. Tutti amano i silenzi,
gli odori, i colori e le luci del trascorrere delle stagioni. Per
qualcuno, o forse per tutti, è una specie di malattia, di
passione stare vicini agli animali, non dormire in una casa
vera e propria, con fuori la notte vera, dove il buio è buio e lo
sguardo può incontrare la luce delle stelle. Per qualcuno
questa scomodità è linfa vitale, il sapore del caffè e del pane
sono più intensi. Per qualcuno è fare quello che qualcuno ha
sempre fatto prima di lui, prendersi cura degli animali…
Altri hanno scritto della vita dei pastori, sicuramente
qualcuno li ha conosciuti meglio di me. Io posso dire di
essermi sentita molto vicina a loro, a volte li ho invidiati
nelle limpide notti estive sui monti, in luoghi magnifici,
nel trascolorare della sera in quei colori che rendono
misteriosamente felici.
Spesso da quando ho conosciuto i pastori la sera li penso,
sotto le stelle, abituati al freddo, nel disagio di una noncasa. E mi interrogo, e il loro pensiero nutre le mie
domande senza risposte.
LUOGHI
E PERCORSI
DEI PROTAGONISTI
DI OGGI
CONFINI
REGIONALI
PASTORI
TRANSUMANTI
STEFANO
ALDO
VITTORIO, IVAN,
PAOLO
TEODORO
LORENZO
GUGLIELMO
RUGGERO
GIANNI
PASTORI
STANZIALI
MARCO?
TERESA
CHEYENNE
GRAZIANO?
30
31
ALPINET 0132TEODORO0042.JPG: tagliata???
manca fondo immagine
27 settembre 2006
Malga Prà Saent
Parco Nazionale dello Stelvio,
Val di Rabbi, laterale Val di Sole
TEODORO
La solitudine non mi pesa per niente. I momenti più difficili sono d’inverno,
e peggio ancora se c’è la neve. Il momento più bello è senza dubbio l’alpeggio.
“
Teodoro figlio di Menech (Domenico), è nato e risiede
a Pracorno. È sposato e ha tre figli, il più piccolo dei quali
ha 17 anni. Con loro passa poco tempo, perlopiù d’estate.
Ha la licenza elementare, come sua madre e suo padre,
parla il dialetto trentino e conosce le parole che
i pastori usavano un tempo quando non volevano farsi
capire: cuch (carabiniere), strada (calca), pauri (contadino).
È stata Cheyenne, la pastorella della Val di Rabbi, a suggerirmi
di andare a trovare Teodoro, visto che non mi trovavo troppo
lontano. In verità lei su in Saent, mi ha confessato, non ci è
mai stata, ma mi ha spiegato come arrivarci.
Lasciata l’auto presso il rifugio Fontanin, in località Coler,
proseguo a piedi per un paio di chilometri in lieve salita
e incomincio il ripido sentiero che supera il salto glaciale
del Saent.
Dopo molti zigzag, comincio a capire che sto giungendo
in un bel posto, di quelli che ti guadagni con almeno un
po’ di fatica, senza facilitazioni. Una coppia di scoiattoli si
rincorre salendo a spirale intorno al grosso tronco di un
abete. Moltissime scaglie di pigne sparse a terra
testimoniano il loro passaggio.
Salgo per un’ora nella solitudine di un giorno feriale senza
incontrare nessuno. Al termine della salita il sentiero
aggira morbidamente alcuni dossi e inizia a scendere
nella splendida conca glaciale. Sopra, le maestose cime
lasciano fluire l’acqua di fusione dei ghiacciai, prima in
modo segreto, poi discreto, tra le rocce, infine le acque si
raccolgono e formano un rio. Il rio Rabbies attraversa
la conca per poi buttarsi dal salto glaciale formando
l’omonima cascata.
Ora posso vedere la malga, ma, ahimé, non vedo e non
sento alcun gregge, nessuna traccia sul terreno. Chiedo a
una coppia di turisti tedeschi: «No, noi abbiamo fatto il
sentiero dei Larici Secolari, non le abbiamo viste le pecore,
però li alla malga c’è un uomo». Bene! Lo raggiungo subito.
È Teodoro Daprà che, un po’ sorpreso e un po’ contento di
fare due chiacchiere, è subito disponibile per l’intervista.
Vorrebbe portarmi a vedere con i miei occhi il suo gregge
che pascola a un’oretta di cammino, a quota 2300 e più, ma
non ho molto tempo e temo che l’ora di cammino di cui
parla lui si riveli troppo faticosa. Solitamente trovare le
pecore è il mio obiettivo principale, ma per questa volta
devo rassegnarmi.
Lo sguardo di Teodoro non è di quelli che si dimenticano in
fretta… un po’ mi imbarazza, ma poi iniziamo l’intervista
nella quale mette una buona partecipazione.
È con orgoglio che mi mostra il suo cane dall’iride bicolore,
gli asini, che considera ottimi compagni di transumanza,
e alcune pecore pezzate con agnello che sono rimaste giù
a causa di qualche acciacco; io fotografo tutto e lo saluto.
Tra pochi giorni ci rivedremo alla Fondazione di Bellat,
per la prima rassegna ovi-caprina a Borgo Valsugana,
organizzata da Alpinet Gheep. Lui e i figli porteranno le
pecore per partecipare alla gara, e una vincerà la
campanella come miglior primipara.
32
«Ho fatto il pastore dal 1963 per 6 anni. Poi ho fatto l’autista
di pullman di linea. Da quando sono in pensione ho ripreso
aiutando mio figlio. Faccio la transumanza ma da Pracorno
a Feltre (Quero) gli animali li porto con il camion. Più verso
Bassano unisco il mio gregge con quello di Lorenzo e
facciamo tutto l’inverno assieme: stiamo in zona Bassano,
poi giù intorno al Brenta, Grantorto, Piazzola, Padova. Poi se
facciamo come l’anno scorso si va verso Caorle, poi su per il
Piave, Ponte della Priula su verso Feltre fino a Pergine. Poi
chiamo il camion per ritornare in Val di Rabbi».
«Scendo giù da qui, a fine settembre, con il carretto per gli
agnelli. I più piccoli, quelli ancora bagnati, li metto nel
basto dell’asino, perché non camminano. Sempre a piedi,
sto un mese in Val di Rabbi, prima di fare il viaggio per
Feltre, con i camion. Anche il ritorno da Pergine a Pracorno
è fatto in camion».
«Venire su con gli asini va benone, è quello che cerco: che
non si possa salire con la jeep. Il proprietario del rifugio mi
ha offerto di portar su la roba con l’elicottero ma io ho
rifiutato: mi piace così. Mi servo di 5 baiti, qui alla malga
Prà da Saent sono solo da pochi giorni. Prima ero più su, a
2200 m. Qui sono nel Parco Nazionale dello Stelvio».
«In questi giorni che non ci sono nascite o sono pochissime,
e sono quassù, la mia giornata si svolge così: alle 6.30 il caffè.
Controllo eventuali nascite, vedo se ci sono pecore zoppe e se
serve faccio qualche puntura. Poi un’ora di cammino per
portarle al pascolo. Guardo che bruchino per bene senza
33
sciupare l’erba, che rallentino. Alle 12 le fermo per 2 ore. Poi ci
si muove ancora, al pascolo, per fermarsi poi a sera».
«Il pascolo in montagna per noi l’è “ferie”, mentre la parte più
faticosa è giù nel piano. La montagna ha tanto valore per me…
l’è “oro” per le bestie: respirano aria buona. Guarda che soffrono
il caldo giù le pecore. Quando vanno in alto, lì stanno bene.
Nel piano arrivano prima i pastori veneti e “stufano” i
contadini, così, quando arriviamo noi, ci mandano via, e
troviamo poco da mangiare per le pecore. È un danno per
noi. Loro continuano a passare e a ritornare negli stessi
posti. I tonda, i tonda… Mentre noi evitiamo di passare 2
volte nello stesso posto… Oggi ci sono più greggi, sono più
grosse, anche troppo, e sfruttano troppo il territorio. Poi
quando arrivi tu con il tuo gregge, c’è poco da mangiare.
Il problema è delle strade giù in pianura, nessuno più
tollera che si sporchi…
E ci sono troppe macchine».
«In passato gli spostamenti con gli animali si facevano a
piedi, con gli asini, la Val di Non la si attraversava così. La
prima parte si faceva sui Monti di Cles, da Tuenno in giù
attraversando meleti con i rami alti [vecchi meli non a
spalliera come ora, ndr], e poi i vigneti giù nella valle
dell’Adige. L’ultima volta che l’abbiamo fatto è stato nel ’71.
Ora sarebbe impossibile transitare per lo stesso percorso a
causa del diverso modo di coltivare le mele. Anche al
Crescino, dove ora c’è il Biotopo, era un importante punto di
sosta… ora ti farebbero il verbale. Si potrebbe fare facendo
la Val Rendeva, con qualche buon aiutante».
«In passato nel Veneto si pascolava nei vigneti, e i
contadini erano molto gentili nella zona di Treviso. Per
dormire si faceva un giaciglio con le fasce di canne palustri,
sopra le pelli delle pecore, le coperte e infine, sopra, il telo
per l’umidità».
«Le pecore le ho contate ieri... lì al ponte sul rio Rabbies.
A volte faccio due recinti e passandole da un recinto
all’altro le conto».
«Un tempo tosavamo a mano 60 pecore al dì. Nel ’68
venivano pagate 7000 lire per ogni kg di lana. Nella zona di
Livenza dove tosavamo venivano i grossisti a sceglierla. Era
un bel guadagno. Oggi la lana non vale niente. Ne abbiamo
tosate 1016 la primavera scorsa e abbiamo speso 2000 euro».
«Quest’anno i capretti e gli agnelli nasceranno a ottobre.
Credo sia perché questa primavera non hanno mangiato
abbastanza, allora le femmine non restano incinte; i
maschi li lascio sempre liberi….
Un tempo i capretti e gli agnelli si vendevano a chi
chiedeva: ai contadini, al macellaio… Anche se avevano
cambiato i denti era lo stesso, si vendeva anche il castrato.
Oggi vendo i capi a 7-12 mesi, quando pesano dai 45 ai 65
kg, a fine settembre e primavera a un grossista. Va poi tutta
ai musulmani la carne…»
«La solitudine non mi pesa per niente. I momenti più
difficili sono d’inverno, e peggio ancora se c’è la neve. Il
momento più bello è senza dubbio l’alpeggio».
Non so se mi auguro che i figli
continuino a fare il mio lavoro.
Questo è un mestiere che non dà
certezze, e io non sforzo nessuno.
Credo che conti avere grinta e
passione. Penso che la nostra
tradizione andrà a sparire, se non
veniamo protetti da leggi apposite,
che per esempio ci facilitino i transiti.
”
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35
2 settembre 2006
Tenno – Arco.
GUGLIELMO
Una volta era tutta un’altra vita: c’erano molti più sacrifici, non c’erano
i mezzi di trasporto come adesso, non c’erano i recinti mobili tanto utili,
non c’era il cellulare…
“
Guglielmo, figlio di Giancarlo, pastore in pensione,
e Annalisa, casalinga, è nato a Montebelluna e risiede
a Feltre. È sposato e ha due figli piccoli, con i quali passa
3-4 mesi ogni estate. Ha un diploma da elettricista, parla
l’italiano e il dialetto veneto. Nella sua famiglia fare
il pastore è una tradizione: erano pastori il bisnonno,
il nonno e il padre.
Sull’“Adige” di ieri un trafiletto avvisava i lettori di possibili
disagi alla circolazione: stamattina il gregge di Guglielmo
dal Molin sarebbe sceso da Tenno verso la Valle del Sarca.
Ore 7.30: millecinquecento pecore, agnelli e asini transitano
sulla Statale 421 tra Tenno e Arco attraversando i centri abitati
di Gavazzo, Cologna e Varone, preceduti da un mezzo dei vigili
urbani che garantisce il transito del gregge senza intoppi.
In testa il “vecchio” pastore Pero, pipa in bocca, folta barba
grigia e cappello calato sugli occhi, con due cani al fianco.
Lunghi fischi dei pastori rivolti ai cani, che abbaiano
impegnati nel loro lavoro, precedono e accompagnano
l’arrivo del gregge. È un momento molto suggestivo: gli
animali occupano tutta la sede stradale come un fiume in
piena, un fiume caldo e odoroso di erbe che avanza con un
rumore sommesso, un leggero scalpiccìo di centinaia di
zoccoletti sull’asfalto; lo scampanellio è lieve: solo pochi
animali hanno la campanella al collo.
Alcuni asini chiari e altri scuri procedono sparsi nel gregge;
portano il tradizionale basto da carico. In coda al gregge
Guglielmo e i suoi amici di Villa scendono rapidi al seguito
di quello che a momenti sembra un corpo unico, compatto
e armonico nel procedere a velocità più sostenuta. La gente
incuriosita esce di casa. Le macchine sono ferme e
qualcuno si avvicina velocemente con dei bambini per
vedere scendere il fiume d’animali che avanza lambendo
giardini, parcheggi, aiuole, campi, piazzali, marciapiedi.
Alcuni proprietari dei giardini a bordo strada e degli
esercizi commerciali sono pronti con scope e acqua per
ripulire dopo il passaggio del gregge. Guglielmo mi
promette che più avanti avrà tempo da dedicare alle mie
domande: l’appuntamento è a Ceole.
A Ceole il gregge è condotto dentro un incolto con alte
piante d’artemisia. Le pecore incominciano a brucare in
maniera quasi sistematica. Guglielmo e i suoi cinque amici
di Villa si siedono per terra, bevono birra e vino, fumano
sigarette e scherzano allegri. Guglielmo è un bel ragazzo:
occhi azzurro intenso, capelli biondi mossi, un viso quasi
angelico. I suoi amici sono rumorosi e continuano a
stuzzicarlo. Lui è un po’ taciturno, ha l’aria di chi potrebbe
addormentarsi lì, sull’erba dove se ne sta semisdraiato.
Maria, proprietaria di pecore anche lei, mi racconta che
la sera precedente, prima di iniziare la discesa da Ville
Del Monte, hanno festeggiato con gli amici la fine
dell’alpeggio, e sono andati a letto tardi, così ora, a metà
mattina, con una temperatura estiva, a soli 80 m s.l.m.
(siamo a pochi chilometri da Arco e da Riva del Garda) e con
un pesante programma di spostamenti tra zone artigianali,
svincoli stradali e campi coltivati, la stanchezza si fa sentire.
Nel frattempo altri curiosi si sono avvicinati. Una donna
con alcuni bambini piccoli ha raggiunto il marito, che
aiuterà Guglielmo in questa prima parte della
transumanza. Il camion del servizio pulizia strade del
comune di Arco è già lì, pronto a seguire il gregge nel
prossimo spostamento.
Ma non c’è tempo per riposarsi, la sosta è breve; non è il
momento buono per rispondere alle mie domande. Le
pecore hanno brucato quasi tutto e Pero è gia in cammino
verso un altro prato, un chilometro più avanti, in zona
artigianale di Arco, dove il signor Michelatti della società
Allevatori di Tenno ha individuato un grande prato.
Peccato che per qualche malinteso sia stato falciato proprio
il giorno prima, quindi l’erba è lì a terra già tagliata. Certo,
alle pecore l’erba piace “tagliarsela”, ma sono animali che si
sanno adattare, e per qualche ora staranno qui; ma già i
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pastori stanno parlando del prossimo incolto dove recarsi
per passare la notte.
Guglielmo scompare con il suo pick-up, così mentre
attendo che ritorni faccio due chiacchiere con il signor
Michelatti e con il pastore Pero, che mi svela la sua età (53
anni) e mi racconta il motivo della vistosa fasciatura che
ha alla mano sinistra: lo scorso anno un morso rimediato
da un asino arrabbiato gli ha causato l’amputazione del
dito mignolo e di parte del palmo della mano.
Dopo un po’ Guglielmo ritorna con panini e birre, e finalmente
mi dedica un po’ del suo tempo, che in questo momento è
prezioso, spiegandomi l’itinerario che intende percorrere.
Questo è solo l’inizio della transumanza per Guglielmo e i
suoi aiutanti; fa molto caldo qui sul piano. Alle prime luci
del giorno si sono alzati nei pressi del lago di Tenno dove
avevano pernottato dopo essere scesi dai pascoli delle
malghe Nardis, Tenera, sui monti Cadria e di Val Concei.
La strada è lunga: impiegheranno circa un mese ad arrivare a
Feltre dove vive la famiglia di Guglielmo (moglie e due bimbi
piccoli); dopo Arco punteranno verso Mori, poi verso nord a
Calliano; quindi saliranno sull’altipiano di Folgaria, per poi
scendere in Valsugana. Una volta a Primolano, saliranno per
la vecchia strada militare “delle Scale” verso Fonzaso e Feltre.
La transumanza proseguirà poi verso la pianura veneta, giù
da Valdobbiadene, per il Ponte della Priula, verso San Polo di
Piave e avanti fino a Udine e a Cividale del Friuli.
Verso marzo ci sarà il ritorno, con qualche cambiamento
all’itinerario: «A seconda di com’è il tempo sto alto o basso
[a nord o sud]… Se giù è troppo bagnato a causa delle
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piogge sto più a nord che i terreni sono più asciutti, se
invece è asciutto sto più in basso».
Poi risponde alle mie domande senza grande entusiasmo
ma quando ci lasciamo il suo sorriso e la stretta di mano
sono sinceri e mi lascia il numero del suo cellulare nel caso
abbia bisogno di ricontattarlo.
«Ho iniziato a fare il pastore dieci anni fa: fino ad allora
facevo l’elettricista, poi mio padre si è ammalato e io e mio
fratello abbiamo cominciato ad aiutarlo. Lui non voleva che
anche noi facessimo i pastori. Anche io non mi auguro che
i miei figli continuino questa tradizione, ma queste sono
passioni: se ci sono…».
«La mia giornata si svolge così: mi alzo alle 5 e bevo il caffè,
poi esco a controllare se ci sono nascite, consegno i piccoli
alle mamme, dopo carichiamo sul furgone gli agnelli più
piccoli, che non saprebbero camminare (quando siamo in
movimento 9 mesi all’anno), carico un asino con il basto se
c’è bisogno per qualche piccolo agnello. Quando invece
siamo sui pascoli gli spostamenti avvengono a piedi e sono
più limitati».
“
I mesi che trascorriamo in montagna
sono i più tranquilli. Un po’ tutti i
momenti sono belli, se c’è un buon
pascolo sei tranquillo, non sei stressato.
«Per il pranzo abbiamo tutto nel furgone, siccome a
mezzogiorno bisogna metter i piccoli (che sono nel furgone)
alle mamme, quello è il momento anche per il nostro pranzo.
Pomeriggio al pascolo, poi la sera 18-19-20 le chiudo nel
recinto, rimetto i piccoli alle mamme che trascorrono con
loro la notte. Si cena e poi a dormire».
«Per la tosatura chiamiamo i tosatori, più 6 o 7 persone che
ci aiutano; costa 1 euro e 80 a pecora, tosarle tutte mi costa
2500-2700 euro, e per la lana a volte mi danno 100 euro a
volte niente».
«Gli agnelli nascono tutto l’anno, li vendiamo quando
hanno 6-7 mesi: li do a un commerciante».
«Oggi per il pascolo ci sono meno prati in pianura perché si
coltiva tanto, il problema è lì, i contadini avevano tutti dei
prati per le loro bestie, mentre adesso in pochi hanno tanta
terra e coltivano mais, vigneti, erba medica, e non è facile
trovare da pascolare. In montagna va bene a parte certe
malghe che hanno i pascoli invasi dal bosco. E i baiti, che
sono messi male».
«I pericoli per il gregge sono tanti: l’anno scorso l’orso ha
mangiato 4 pecore. Poi l’aquila preda gli agnelli, che a volte
cadono anche dalle rocce. Quando dobbiamo andare su
strade trafficate chiamiamo i vigili, che non sempre sono
disponibili come oggi ad accompagnarci fino al luogo dove
fare tappa a pascolare. Qualche volta ci fanno problemi
per la sporcizia o se passiamo nei Biotopi o nelle riserve
lungo il Piave».
«Una volta era tutta un’altra vita: c’erano molti più
sacrifici, non c’erano i mezzi di trasporto come adesso, non
c’erano i recinti mobili tanto utili, non c’era il cellulare…».
«La radio, la tv e i giornali? No, non mi mancano».
«In futuro, se va avanti così, i pastori saranno sempre
meno: è una vita di sacrificio, finché c’è un certo guadagno
si fa, sennò è meglio stare con la famiglia e cercarsi un
altro lavoro. Anche se dopo i 30 anni che lavoro vai a fare?».
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Il 30 agosto sui pascoli della Caserina sotto Cima Cece, nel
gruppo del Lagorai, il gregge di Ruggero è affidato alla
custodia di due aiutanti rumeni.
Gli animali in queste settimane sono su pascoli piuttosto
magri su un territorio a dir poco aspro. Un contratto con la
Magnifica Comunità Generale di Fiemme, l’Ente
proprietario di questi alpeggi, impegna il proprietario del
gregge a farlo pascolare qui per un periodo tutte le estati
per il mantenimento e la conservazione dei pascoli d’alta
quota in cambio di un compenso. Quest’anno i pastori
hanno fatto base per alcune settimane presso il baito sulle
rive del Lago di Cece, in un paesaggio a dir poco romantico.
Ora il baito della Caserina dove pernottano e cucinano
i pastori è stato appena ricostruito a regola d’arte e
sostituisce il vecchio edificio che era ormai cadente. Si
trova a quota 1986 m, mentre gli animali oggi pascolano a
quota 2200 e oltre. Nessun sentiero evidente. La certezza di
essere sulla giusta traccia mi viene dalla grande quantità
di escrementi freschi e dalle impronte nel terreno smosso e
scuro. La temperatura è molto bassa malgrado il sole
splendente: c’è ghiaccio vivo sulle scure rocce porfiriche
che salendo devo superare per avvicinarmi, oltre il limite
del bosco, ai lastroni e ai magri pascoli per fotografare le
pecore che si sparpagliano tra conche erbose, massi e rocce,
e per scambiare due chiacchiere con il pastore rumeno
accompagnato da un bravo cane, Baci. Benché intirizzito,
il giovane parla volentieri: del suo lavoro e di quanto sia
bravo e generoso il suo capo.
3 settembre 2006. Alpe di Lusia, Cavalese, Val del
Travignolo, Val di Fiemme. Saliti con una breve passeggiata
nel pomeriggio sopra Bellamonte, in località Castelir e
raggiunto il tabià Bianco con il vicino baito dei Foghi,
30 agosto 2006
Alpe di Lusia, Val di Fiemme
RUGGERO
In futuro, se non si guadagnerà di più, credo che venderò il gregge,
prenderò qualche mucca e mi fermerò.
“
Ruggero, 46 anni, è nato e risiede a Cavalese. Figlio di un
panettiere, ha la licenza elementare: «Non ho finito le
medie e non me ne vergogno». Il nonno era pastore di
capre. Fa il pastore da 29 anni. Non è sposato e non ha
figli. Parla l’italiano e il fiamazzo e conosce un po’ il
patois, il dialetto che i pastori transumanti di un tempo
usavano quando non volevano farsi capire da qualcuno.
Ruggero ha 1400 capi tra pecore e capre e 13 asini.
troviamo un grande recinto mobile aperto ma non si
vedono né il gregge né i pastori. Solo il ragliare di alcuni
asini lontani ci dà l’impressione di essere sulla strada
giusta mentre un suono di campanacci di vacche molto
lontane ci inganna, e così camminiamo per un lungo tratto
verso est, attraversando zone aperte, lariceti e pascoli
rimboschiti, tra baite sparse, sino ad arrivare sulle piste da
sci del Lusia, ora ricoperte da erba verdissima. Qui un
numeroso gruppo di asini pascola solitario. Del gregge,
però, nessuna traccia. Torniamo al punto di partenza.
Troviamo il giovane rumeno già incontrato sul Lagorai. Ha
voglia di parlare e ci racconta di sé, del suo precedente
lavoro di elettricista e di come facendo il pastore riesce
(non avendo spese di vitto e alloggio) a risparmiare a fine
mese molto di più per la famiglia in Romania. Ma le pecore
non perdono tempo in chiacchiere e così, scusandosi,
velocemente parte atletico in aiuto al suo collega più
anziano, che ha un bel da fare a spingere il gregge verso il
recinto preparato per il pernottamento.
Ruggero Divan arriva di lì a poco, nel tardo pomeriggio di
questa splendida giornata di sole. Con il suo grosso pick-up
fuoristrada viene direttamente da Cavalese, dove è sceso
per delle commissioni, e ci dice gentilmente ma senza giri
di parole che non ha molto tempo da dedicarci: è
impegnato nella sostituzione della batteria di un
generatore (che servirà all’indomani agli artigiani per il
rifacimento del tetto dell’antico tabià Bianco dove ora
staziona con il suo gregge, che nei giorni scorsi ha
abbandonato gli aspri pascoli del Lagorai per spostarsi
sulle più dolci pendici del monte Lusia). Alle 21 ha un
appuntamento a Canazei per la “Gran festa d’Istà” con gli
amici. Quindi lo intervisto mentre svita e avvita,
bestemmiando un poco, la batteria sul generatore nella
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penombra del tabià. Finito il lavoro, si appresta a riscaldare
l’acqua sul fuoco per preparare il latte in polvere per due
vitelli che lo aspettano nella stalla. Quest’anno ha avuto
problemi di salute quindi non ha potuto seguire sempre lui
gli animali, si deve anche riposare in previsione delle
fatiche dell’inverno e quindi deve delegare molti lavori ai
due aiutanti. Il pastore rumeno gli chiede cosa deve fare
con gli asini che sono più in là oltre i larici. Mi interrompe,
fa il verso alle pecore, beeeh, e facendo vibrare le labbra
emette uno strano suono che conclude «... tami»
(aspettami?). Ora tutte le pecore sono chiuse nel grande
recinto. Alcune chiamano i loro piccoli, che gli aiutanti
stanno consegnando alle mamme. Il latte per i vitelli è
pronto e un agnello senza mamma affonda il muso nel
secchio per sfamarsi, esagera e subito starnutisce.
«I 13 asini li tengo per il piacere di vederli, un po’ aiutano
quando ci spostiamo a turno il carico», dice Ruggero, e
aggiunge: «Hai visto quello lì che sembra una zebra? Le
capre le tengo per il latte per gli agnelli invece…», quindi mi
dice che lui mette il campanellino alle pecore perché trova
che stiano bene, che non possano mancare nel paesaggio
sonoro: «Fanno parte dell’arredamento».
È bella questa battuta, penso, osservando questo grande uomo
nel quale trovo qualcosa di materno, sarà quel grande corpo, la
loquacità e quel prendersi cura di animali piccoli e grandi
(nella stalla ci sono anche diverse galline oltre a due vitelli).
Molte pecore non sono sue, le ha solo in custodia, ed è con
tono un po’ amaro che aggiunge: «Pensa che i proprietari
non vengono nemmeno a vederle e nemmeno le sanno
riconoscere le loro bestie, ne hanno comprate 50 solo per
avere i contributi…»
Quando salutiamo Ruggero è ormai buio e una splendida
luna è lì sopra le cime del Lagorai a fare grande il fascino
della notte sulle montagne.
41
«La solitudine non mi pesa. Sono un tipo chiacchierone e
ho amici dappertutto; scendo spesso in paese quando sono
qui e anche in Veneto ho molti conoscenti».
«Un tempo ci si spostava a piedi, senza mezzi, con gli asini,
era molto più faticoso».
«Gli spostamenti degli animali avvengono sempre a piedi.
Solo gli agnelli piccoli viaggiano nel cassone. A volte capita
di avere delle difficoltà: qualche contadino che protesta, le
aree protette, le strade con il traffico. Quando piove, poi, le
bestie sono più nervose, se sei in movimento e attraversi
strade porti in giro molto più sporco e terra, e questo crea
sempre problemi con le amministrazioni».
«Con l’aiuto dei recinti mobili da 15 anni è tutto più facile,
poi adesso ci sono anche i contributi…».
«Un tempo in montagna c’erano più mucche che
pascolavano, quindi i greggi di pecore erano più piccoli, per
25 anni sono stato sul pascolo della Caserina che è molto più
povero. In pianura una volta i contadini avevano qualche
mucca quindi avevano dei prati… Ora invece i piccoli
contadini non ci sono più quindi i prati sono diventati
coltivazioni intensive di grandi proprietari».
«Qui a Lusia ci sono le erbe buone che crescono a “solatio”
poi le pecore brucando fanno sì che cresca erba nuova. Di là
alla Caserina Lagorai che è rivolta a nord ci sono erbe più
dure, “seole” (nardetum). Per pascolare prendo i contributi
per pulire la zona di cima Cece, Caserina e Castel.
Quattro mesi li trascorro qui, poi un mese giù in Val di
Fiemme sui prati lungo l’Avisio e dove mi è permesso, sono
l’ultimo pastore a scendere in Valsugana, così sono certo
che i raccolti sono tutti conclusi, anche l’erba medica, e
posso pascolare nei campi con meno vincoli.
Nel fondovalle e in pianura le infrastrutture sono sempre
di più: questo toglie spazio al pascolo e rende più difficili
gli spostamenti».
«La tosatura è una volta all’anno, la lana non vale niente e
le razze ora sono selezionate per produrne di meno».
«Come chiamo le bestie? A seconda di cosa voglio fargli
fare faccio un verso diverso, se voglio dare il sale faccio
“prrr prrrr”, fischio quando voglio che vadano».
«Di solito mi alzo neanche troppo presto e prendo il caffè.
Come prima cosa si controllano le nascite e si segnano con
lo stesso colore i piccoli e le mamme; prima di portare il
gregge al pascolo si mettono i piccoli nella stalla o in
un recinto. I pastori portano gli animali a pascolare,
e a mezzogiorno si danno i piccoli alle mamme.
Al tramonto rientrano tutte nel recinto, anche i piccoli. Se
qualche piccolo viene rifiutato dalla madre, come accade
talvolta, si provvede ad allattarli con latte di capra con il
biberon. In inverno giriamo con le pile nel recinto per
vedere che i piccoli si attacchino alle madri, i problemi
non sono solo per il piccolo ma anche per le mamme, che
devono essere munte per evitare le mastiti. Bisogna anche
vedere se ce ne sono di zoppe. C’è poi da dare il latte ai
vitelli. Altri compiti che mi spettano sono: fare la spesa,
portare i vestiti puliti e caldi e da bere vino e birra ai
pastori».
«La volpe è interessata ai piccoli, per quello li teniamo
separati negli spostamenti, sennò rimangono indietro».
«Circa 300 agnelli li vendo agli extracomunitari, di un
anno, 50 kg; per loro è importante che abbiano ancora i
denti da latte».
«Le strade verso la malga e il pascolo vanno bene, meglio di
una volta. Quando ero su alla Casarina tutti i giorni erano
ore di cammino dal baito ai pascoli».
«In futuro, se non si guadagnerà di più, credo che venderò
il gregge, prenderò qualche mucca e mi fermerò».
Questo è un lavoro che dà
soddisfazione se lo sai fare bene,
ogni giorno c’è qualche momento bello.
”
È una splendida e gelida mattina di fine agosto, voglio
incontrare Gianni con il suo gregge, così alle 8 sono alle
Viote. Nelle settimane scorse i giornali hanno parlato di lui
a proposito di pecore predate dall’orso, così mi dirigo verso
la malga salendo la Valle dell’Eva. L’aria è pungente e il
panorama emoziona con la sua vastità e nitidezza: il monte
Gazza, il Casale, le Dolomiti di Brenta, Carè Alto e tutto il
gruppo dell’Adamello, la Valle del Sarca sono davanti a me,
a ricordarmi quanto è bella questa regione.
Non seguo il segnavia per il Cornetto ma giro dietro alla costa
dei Cavai e appena imboccata la strada forestale trovo un
primo recinto con un centinaio di pecore con i piccoli; lì vicino
è fermo il rimorchio che Gianni usa per gli spostamenti.
Continuo per la sterrata cercando qualche improbabile
impronta di orso nel fango fino ad arrivare alla malga
Roncar; ci sono due uomini. Uno è il fratello di Gianni,
che al momento è in città per aggiustare la macchina e
sistemare dei documenti.
Salgo in direzione Cornetto in cerca del gregge; una parte
si è allontanata oltre la cima Cornetto, e il pastore sta
cercando di ricomporre il gregge di 500 pecore. A quota
2000 m le tracce sono abbondanti. Il gregge è poco
distante in una conca al riparo, sta ruminando
placidamente, poi all’improvviso obbedendo a chissà quale
voce – non c’è nessuno tranne me – le pecore si alzano e si
avviano ordinatamente lungo il pendio, testa bassa e
andatura costante; le ritrovo dopo che ancora si sgranano
su uno stretto sentiero e si ricompongono in forme più
ampie sul prato in basso, vicino al recinto degli asini,
disponendosi in una lunga fila in direzione del recinto delle
29 agosto 2006
Monte Bondone, Trento
Val dell’Eva - Viote
malga la Val del Manuele (Cavedine)
GIANANTONIO
Senza montagna per me non è possibile stare. La solitudine non mi pesa,
e non mi mancano la radio e la tv: alla radio e alla tv ci sono sempre brutte
notizie. Il mondo è cambiato: una volta la parola aveva più significato,
ora invece quello che conta è altro, ad esempio il potere e i soldi.
“
Gianantonio, 61 anni, è nato e vive ad Arco. Ha studiato
all’Istituto commerciale di Riva del Garda e, dopo aver
lavorato come cameriere dall’età di 18 anni, fa il pastore
da più di trenta. Suo padre Manuele era pastore di ovini, e
la mamma d’estate stava col marito, i quattro figli e il
gregge. Gianantonio ha tre fratelli, che lavorano con le
capre. Parla il dialetto trentino: suo padre conosceva il
patois, il dialetto parlato in alcune valli del Piemonte e
della Val d’Aosta.
mamme con piccoli. Io mi lascio incantare da tutto questo
fare e disfare senza i soliti comandi o fischi. Dal boschetto
di ontani e salici arriva il tintinnio di una pecora dispersa.
Del pastore nessuna traccia.
20 settembre
Quando trovo Gianni alle Viote qualche settimana dopo,
non trovo il coraggio di chiedere spiegazione della
“autogestione” temporanea alla quale ho assistito e passo a
fargli le mie domande. La giornata è tiepida, il sole
splendente, i prati verde intenso e gli animali tranquilli;
molti sono gli agnelli nati da poco. Quando noto alcuni
piccoli coperti dalla pelliccia di altri agnelli, mi spiega che
lo fa per invitare le madri che hanno perso il loro piccolo ad
adottare quelli abbandonati dalle mamme dei parti
gemellari, che spesso abbandonano uno dei due nati. Mi
intenerisce vedere nelle grosse mani di questo signore
molto gentile una “frasca” di acero o di ribes verde che usa
per spingere delicatamente gli agnelli nel recinto. La posa
vicino, si siede sull’erba accanto a me e si racconta.
È abbronzato e mi sembra soddisfatto del suo gregge e molto
amorevole con gli animali… Mi parla con nostalgia di sua
moglie e di come trascurare la famiglia sia insito nel lavoro
del pastore. Ma anche lui, come gli altri pastori, parla di
passione per gli animali: se ce l’hai non puoi non ascoltarla.
La sua posizione in Bondone gli permette un buon
compromesso: per l’estate scenderà spesso a casa ad Arco.
E anche l’inverno fino a gennaio sarà in zona Villalagarina,
lungo l’Adige, e poi giù fino nel Veronese, quindi non
lontanissimo da Arco.
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45
«Una volta la tosatura si faceva a mano. Poi abbiamo preso
le macchine con il generatore e ci arrangiavamo. Adesso le
pecore sono tante, e ci rivolgiamo alle squadre di tosatori,
al costo di 1 euro e 80 per ogni pecora.
Una volta tutti facevano i materassi di lana, quindi aveva
un certo valore. La portavamo a Pergine a lavare... Mio
padre diceva che “un chilo di lana vale un chilo di grana”».
«Mi hanno dato il nome dell’eroe della resistenza Gianantonio
Manci perché mio padre era il pastore del suo gregge..».
“
Una donna che sposa un pastore deve
volergli dieci volte più bene degli altri.
A mia moglie piace di più il mare che la
montagna. L’estate la sera ritorno, sono
sempre in giro, però rientro spesso a
casa. L’inverno vado a casa ogni quattrocinque giorni. Mia moglie non si stufa
di me: non sono mai in casa.
«La maggior parte dei piccoli nasce in autunno, noi
regoliamo le nascite mettendo e togliendo i maschi dal
gregge. Facciamo in modo che le nascite (dopo cinque mesi
di gestazione) siano ad agosto-settembre, quando siamo in
questa zona, alle Viote, comodi, sui prati, senza grossi
problemi. Spesso la pecora partorisce due piccoli, però non
ce la fa a farli crescere bene entrambi. Si cerca un’altra
pecora che ha latte e altrimenti si cerca di dare il piccolo
a qualche contadino o a qualcuno che lo vuole. Non usiamo
il latte in polvere, sarebbe troppo lavoro».
«Alle pecore più belle o alle quali si è più affezionati si dà un
nome. Per chiamarle si fa un fischio o, quando si vuole dar loro
il sale, un suono emesso muovendo la lingua
velocissimamente “frullandola” in bocca e insieme soffiando».
«La pecora non è un animale delicato, è rustica e si ammala
raramente. Noi usiamo i vaccini previsti, e alcune medicine che
teniamo sempre con noi. In caso di polmoniti diamo iniezioni
di antibiotico, e ogni anno facciamo fare il prelievo del sangue».
«Una volta giù in pianura c’erano colture diverse, molto più
varie, mentre ora è più difficile trovare da pascolare sul buono.
Nei frutteti per esempio è un po’ un problema pascolare. La Val
di Cavedine, ad esempio, era tutta prati... adesso è tutta frutteti.
È cambiato di più nelle pianure che sui pascoli alpini, nella
zona di Verona ci si trova molto bene, la gente con gli
animali [le pecore] è brava e li lasciano pascolare in
aziende vitivinicole molto grandi. D’inverno passo un mese
a Grezzana nella tenuta della famiglia Arvedi, dove ci
troviamo molto bene».
«Gli spostamenti degli animali vengono fatti a piedi, con il
furgone al seguito è tutta un’altra vita rispetto al passato,
nel furgone abbiamo tutto e poi posso andare a casa
lasciando il rimorchio…».
«La transumanza? Ora sono stanziale, fino a pochi anni fa il
mio percorso era: Monte Bondone, Lago di Cei,
Villalagarina, Arco, con 200 pecore era più semplice,
mangiavano meno ovviamente. Mi sembrava più bello
poter rimanere in zona. Da quattro anni invece trovandoci
in alcuni con le forze e i mezzi giusti – furgone, jeep –
andiamo giù intorno a Verona. Prima ci si spostava a piedi,
gli asini portavano le cose che ci servivano, come le pelli
per dormire in terra. Si facevano sempre le stesse strade».
«I pericoli per il gregge sono tanti: le saette e i temporali,
che possono colpire noi e gli animali o spaventarli. Poi cani
randagi, aquile... Le aquile sono il pericolo più grande per
gli agnelli, ma mettendoli nei recinti invece di lasciarli
liberi si evitano i danni. Adesso c’è l’orso, alcune pecore
sono morte, si è provato a curare le loro ferite ma non c’è
stato nulla da fare, l’orso le infetta in qualche modo….
Quando le pecore sono nel recinto è difficile che l’orso
entri; qualche volta però se sono spaventate spingono tutte
assieme da una parte e sono loro a farlo cadere».
«Vendo soprattutto a marocchini, loro sono abituati a
trattare nell’acquisto: sono diversi da noi, ma alla fine ci si
capisce. A Verona ci sono anche gli italiani che ancora
mangiano carne di pecora: agnelloni di meno di un anno».
«Quando sono in malga ho la montagna in affitto. Quando
vengo fuori, alle Viote, devo fare domande scritte al
Demanio, all’Azienda Forestale e al Comune di Trento».
«Senza montagna per me non è possibile stare. La solitudine
non mi pesa, e non mi mancano la radio e la tv: alla radio e
alla tv ci sono sempre brutte notizie. Il mondo è cambiato:
una volta la parola aveva più significato, ora invece quello
che conta è altro, ad esempio il potere e i soldi».
«I momenti più difficili sono quando c’è brutto tempo, c’è la
neve e non c’è il riparo per gli agnelli, e magari devi andare
a prendere del fieno per le pecore. Quelli più belli sono
quando ci si alza e il tempo è bello, il sole splende nel cielo».
«In questo periodo mi alzo alle 6-6.30, controllo le nascite e
la salute delle pecore nel recinto. Poi tutte al pascolo. A
pranzo, cerco di mangiare sempre qualcosa di caldo.
Pomeriggio di nuovo pascolo e poi nel recinto».
«La scuola? È utile, ma la pratica è ancora più importante».
«Il futuro? Il pastore ha un buon spirito di adattamento, si
può pensare di cambiare la razza di pecore più adatta alla
produzione di lana di qualità».
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16 novembre 2006
Barco di Levico. Valsugana
ALDO
Oggi gli spostamenti sono sempre più complicati a causa delle strade
trafficate e numerose… In Veneto già da un po’ di anni non ci sono più
le grandi famiglie contadine che ti accoglievano, ci sono le ville con
le recinzioni e non c’è nessun contatto
“
Aldo ha 38 anni, è nato a Trento e risiede a Frassilongo –
Camauz. Ha smesso la scuola in seconda media. Figlio
di una casalinga e di un padre emigrato per 15 anni
in Germania per lavorare nel settore edile, ha iniziato
a fare il pastore a 15 anni, lavorando come dipendente
per qualche anno per imparare il mestiere. Nel 1990
ha comprato il gregge. Parla la lingua mochena e il
trentino. È sposato e ha tre figli di 6, 12 e 14 anni.
Aldo ha 1200 pecore e 40 capre.
Domenica 12 novembre 2006. Vado alla ricerca del gregge del
signor Aldo. Ho saputo che in questi giorni sta transitando in
Valsugana, dalle parti di Levico Terme. È una splendida
giornata di sole e alcune signore che passeggiano per le
stradine di campagna mi dicono di averlo incontrato il giorno
prima verso Santa Giuliana di Levico. Giro per un po’ in
automobile a passo d’uomo, coi finestrini aperti, per cogliere il
tipico tintinnio delle campanelle, il belato delle pecore,
l’abbaiare dei cani e le urla dei pastori; per le stradine di
campagna nei pressi della “Brenta”, come dicono i locali, trovo
le tracce del passaggio del gregge: escrementi e fango.
Finalmente individuo in un prato vicino a dei campi di mais la
jeep posteggiata con il camioncino dei pastori. La campagna è
molto bella e il gregge pascola poco lontano. Vista la giornata
festiva, i pastori hanno visite: sono amici e curiosi. Aldo però
non c’è, è a casa con la famiglia. Mi racconterà poi che non è
facile trovare qualcuno che lo sostituisca, in particolare
durante la settimana, ma la domenica, per fortuna, qualche
amico esperto si riesce a trovare. Mi accordo per vederci per
l’intervista tra qualche giorno, scatto alcune foto, e saluto
l’amico pastore e il dipendente.
Il 16 novembre torno in zona. Il cielo è molto nuvoloso, c’è
una notevole umidità e a terra è tutto bagnato. Questa
mattina Aldo mi ha dato le indicazioni sulla zona dove
pascoleranno oggi: dalle parti di Barco di Levico.
Escrementi freschissimi, e una notevole quantità di terra
che sporca la strada mi guidano nella giusta direzione:
poco oltre le tracce spariscono improvvisamente, e a lato
strada, in un prato vicino a delle case sparse, c’è il gregge.
I pastori sono due, con i rispettivi cani. Aldo è quello con i
pantaloni antipioggia color arancio, che spiccano in fondo al
prato. È lì fermo a proteggere un piccolo orto dall’avanzata
del gregge, in particolare dall’irruenza delle capre che si
spingono fino ai primi rami sporgenti delle piante da frutto.
Per fortuna c’è un bel prato dove le pecore possono
mangiare per un po’; ha proprio le dimensioni giuste per
completare la mia intervista… nel corso della quale Aldo
sarà costretto a dare più di una volta ordini ad alta voce ai
cani, per contenere gli spostamenti degli animali. Poi il
gregge diventa inquieto, quindi incontenibile, e i pastori
devono mettersi in movimento alla ricerca di un altro
spazio dove pascolare.
Anche Aldo, come altri pastori, conosce già il progetto
Alpinet Gheep. Parla e si racconta volentieri: mi dice che ha
iniziato a fare questo lavoro a 15 anni, aiutando un suo
compaesano. Fare il pastore non è infatti una tradizione di
famiglia.
Mentre lo intervisto, accade un imprevisto… Un vecchio
caprone nero dalle grandi corna arcuate, segnate da
moltissime “ferite” provocate da chissà quante contese,
dopo aver rubato una mela dall’albero resta con il frutto
incastrato nelle strette fauci attirando l’attenzione delle
altre capre che lo circondano e lo guardano incuriosite.
Per un po’ non riesce né a sputare né a tranciare la mela, e deve
intervenire il pastore per liberarlo dalla scomoda situazione.
Aldo mi insegna anche a vedere le “mosche”, le macchie più
scure (dove il pelo è più corto) sul muso di alcune pecore,
aiutandomi a capire come una volta per il pastore
riconoscere le bestie fosse normale, cosa che ora non avviene
quasi più; le pecore fino a non molti anni fa non erano tutte
di questa razza (Bergamasche – Biellesi) cioè bianche. C’erano
varie colorazioni, macchie marroni, grigie, more ecc.
Osservandole meglio noto che alcune di loro sono prive di
orecchie… e altre le hanno lunghe la metà rispetto alla
maggioranza. «Nascono così» è la risposta di Aldo, senza
altra spiegazione. Aldo mi spiega come si fa a contare un
gregge di oltre mille pecore: «Quando passano su un ponte
le conto, quando 50 sono passate mi metto un sasso in
tasca, e così faccio con altre 50 e avanti… Alla fine conto i
sassi e so quante sono». Sono incantata dalla semplicità
delle sue soluzioni, e continuo a porgli domande anche ora
che il gregge ci è addosso. Per concimare per bene un
campo quanto deve pascolare il tuo gregge? «Bisogna che
ci stia tutta una notte raccolto in un ettaro per volta».
Quale itinerario percorri nella transumanza? «Borgo, Selva
di Grigno, Bassano, Rosà, Castelfranco, Padova sugli argini
del Brenta, Chioggia, Venezia, Mestre, Marghera, Treviso, su
per il Piave, Feltre, e su per le montagne fino al Lagorai».
A questo punto le pecore sono quasi sulla strada, saluto e
ringrazio Aldo che si è dimostrato paziente e disponibile
oltre le mie previsioni.
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«Se le capre avevano il latte, le mungevamo per avere la
colazione e per i capretti».
giovane che mi addormentavo vicino al fuoco e gli animali se
ne andavano. La mattina era un disastro andarli a cercarle».
«Evito che nascano agnelli in estate; meglio farli nascere
in autunno giù in pianura. In montagna ci sono troppe
perdite: l’aquila, le volpi e troppi “buchi” e dirupi.
Non posso fare i recinti e mettere gli animali al sicuro
perché il terreno è troppo duro…».
«Ogni giorno, per prima cosa si controllano le nascite,
eventuali ferite, si mettono i piccoli alle mamme. Poi il
caffè e chi ha fame mangia, chi no, no. Verso le 8
cominciamo a tirar su il recinto mobile, mettiamo i piccoli
nel furgone e ci spostiamo dove c’è erba, può essere di
pochi metri o un chilometro… A mezzogiorno uno mette
giù gli agnelli alle mamme, l’altro mette su l’acqua per la
pastasciutta o le bistecche, la polenta… La moglie qualche
volta se non siamo lontani ci porta qualcosa, qualche
contadino anche… Alle due si ricaricano gli agnelli sul
furgone e si riprende a pascolare. A sera mettiamo giù il
recinto e di nuovo gli agnelli alle pecore da allattare,
accendiamo il fuoco, facciamo cena. Quando siamo stufi di
mangiare e raccontarci la storia andiamo a dormire».
«Se va avanti così, con i contributi si può proseguire, sennò
economicamente non si può andare avanti. Adesso sino al
2012 sembra ci saranno questi contributi… altrimenti anche
io dovrei lasciare. La carne non vale molto, quindi o si
cambia sistema con pecore da latte, capannone, ci si ferma
e si produce formaggio...».
“
I momenti più difficili sono gennaio,
febbraio, marzo, che non c’è più erba,
magari devi andare a comperare il
fieno. Le pecore hanno fame e gli
agnelli muoiono, le capre sono asciutte
fino a febbraio quando partoriscono.
L’estate e la primavera sono i momenti
più belli.
«Un tempo ci spostavamo con gli asini e ci portavamo
dietro tutto quello che serviva per cucinare: caldera, padella
ecc. Portavamo coperte, pantaloni, calzettoni per cambiarci,
il sacco a pelo, e dormivamo per terra, al freddo. Ora se vai
a casa a dormire e passi dai 25° ai – 2-3° dell’esterno è più
facile ammalarsi che allora. Che quando sei sempre fuori ti
abitui al freddo (te sei temperà, di e not no te fa differenza)».
«Quando si scendeva nel Veneto, le famiglie dei contadini
ti invitavano: in cambio magari di un agnello ti facevano
da mangiare. Tu arrivavi con 100-200 pecore, e gli
concimavi il campo. Oggi gli spostamenti sono sempre più
complicati a causa delle strade trafficate… In Veneto non ci
sono più le grandi famiglie contadine, ci sono le ville con le
recinzioni e non c’è nessun contatto».
«I cani dei turisti sono un pericolo: nel 1996 su nel Lagorai
avevano spaventato le pecore che erano cadute da un
dirupo: 320 bestie morte. C’era la nebbia fitta e quando sono
andato su a vedere, non mi sono accorto che ne mancavano,
poi mi ha telefonato un amico dall’altra parte della valle che
c’erano più di 70 pecore morte. Le nebbie coprivano le
montagne in quei giorni. È stato possibile recuperarle solo
dopo tre giorni per le nebbie. Erano state portate con
l’elicottero a valle e di lì a Verona per incenerirle».
«La primavera siamo lungo il Piave, stiamo lì un bel po’, ma
ci sono le riserve di caccia, i Biotopi, i laghetti e in attesa che
cresca l’erba sui monti a maggio si fa magra perché siamo in
tanti pastori con le greggi, siamo 50.000 pecore o di più, le
pecore mangiano bachete [fusti secchi], dimagriscono un po’».
«Un tempo giù in pianura, non avendo i recinti mobili, la
notte bisognava fare la guardia, è successo anche a me da
«I pascoli? In montagna la primavera fino ad agosto l’è
bona, poi c’è tanta sedola (nardus) su in alto, dopo la sponze
el nas. Sopra a Palù invece ci sono bei prati che ho in affitto,
c’e il trifoglio che mangiano volentieri. Ho l’impressione
che il terreno, la montagna stessa stia lentamente cedendo,
si frantumi. Le montagne le se desfa, l’è marza sotto la roccia».
«Finché ci sono i contributi l’attività può andare avanti.
Senza quelli bisogna cambiare lavoro: troppe spese,
macchine, assicurazioni…».
«Si sta più pacifici sulla montagna».
«Da 10-12 anni ho il cellulare, leggo il giornale quando vado
a prendere il pane al bar. La scuola aiuta sempre, poi certo
che ci vuole la pratica».
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24 ottobre 2006
Altopiano della Paganella, Lago di Andalo
LORENZO
Alla gente piace il gregge ma non lo sporco e che non mangino l’erba,
piace il gregge ma quello in cartolina per intenderci. Abbiamo tutti contro:
i cacciatori… Con i forestali va meglio ora che nel passato, con tante difficoltà.
Le pecore non sono telecomandate…
“
Lorenzo è nato e risiede a Frassilongo. Ha fatto la terza
media e va a lavorare in malga da quando aveva 10 anni.
Il padre non era pastore, ma lo erano i nonni materni
e paterni, lo zio materno e lo sono altri zii e cugini.
Ha una moglie e due figli, di 15 e 12 anni. Parla il
trentino e la lingua mochena.
In questa giornata di prime nebbie autunnali, la visita
sull’Alpe di Valandro è fruttuosa solo in parte, perché Lorenzo
non c’è. C’è però il suo gregge custodito da Carlo.
Sopra al paesino di Seo c’è un luogo molto ripido, dove
giunge solo un’antica mulattiera. Salendo, le prime tracce
sul terreno sono di pneumatico. Sappiamo che il pastore
sale sull’Alpe usando una moto da trial, e colpisce il leggere
sulla roccia affiorante a tratti della mulattiera le tracce
degli antichi mezzi, i brozi, usati per il trasporto del fieno
a valle, affiancate dal disegno lasciato dalla gomma
infangata del pastore che vuole guadagnare tempo per
raggiungere la famiglia.
Tre croci di ferro battuto piantate nella roccia segnano il
punto di svolta per raggiungere la località i Salti, a quota
1800 circa: qui si lascia il bosco e ci si affaccia sulla conca
del Bleggio con uno splendido ampissimo panorama.
Passando sopra i primi balzi rocciosi, ci si inoltra nelle
vallecole: la zona dei pascoli alti verso la parte interna del
Gruppo di Brenta, sotto il monte Brugnol, fino al confine
del Parco Adamello Brenta. Scrutiamo il terreno per capire
se il gregge è passato di qui, ma bisogna salire nei pressi
del rudere della malga Valandro per trovare le prime tracce
fresche: il gregge è ancora più in alto, oltre i 2000 metri,
tra le nuvole. Lontano, su una forcella, un cane corre
obbedendo ai comandi urlati dal pastore, che bestemmia
in veneto, non si sa se verso il cane, le pecore o chi altro.
Al centro della conca, tra i ruderi dell’antica malga, c’è un
container in metallo che sostituisce el bait o casina
tradizionale, luogo di ristoro per il pastore. Un cane alla
catena abbaia al nostro avanzare. Ormai non ha più il
compito di custodire il gregge: fa la guardia al container,
ai pochi agnelli in un piccolo recinto sul pendio e alle
numerose paia di calzettoni di lana grigia stesi sui fili ben
tesi. Più in là, in alto, un doppio recinto con filo elettrico
antiorso dove il gregge ogni sera viene rinchiuso per
evitare brutte sorprese.
In breve raggiungiamo il pastore, Carlo, alla forcella tra il
monte Brugnol e il monte Ghirlo; le pecore sono un po’
inquiete e tentano di spostarsi a brucare sul pendio più a
nord. Così interrompendo bruscamente la nostra scarna
conversazione, Carlo manda con urla sonore il cane a
ricacciarle indietro e farle muovere verso il Ghirlo.
Un momento e le nuvole si alzano; sotto di noi lo sguardo
precipita nella sottostante Val di Ion e scorge più in là San
Lorenzo in Banale; pochi istanti ancora e il gregge ha già
occupato il crinale, come un fluido che si versa sui pascoli e
si disperde confondendosi con le rocce affioranti. Strane le
pecore, sembrano poco dinamiche, ma quando si mettono
in moto sanno essere tanto rapide!
Ora scendiamo anche noi, ma al di qua della forcella dove il
sentiero è meno esposto. Pastore e gregge ci appaiono più
tardi già lontani, come un’apparizione, su un aereo sperone
appena sotto il Ghirlo, tra le nuvole e le rocce, l’erba e il
vuoto tutt’intorno.
L’intervista al pastore è solo rimandata. Tra pochi giorni
scenderanno a valle. Incontrerò Lorenzo a transumanza
avviata, sull’altipiano di Andalo.
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Lago di Andalo.
Il 24 ottobre il gregge pascola placidamente su un prato
arginato da antichi muretti a secco e grande quanto basta
per contenere comodamente le 700 pecore.
Trovo il pastore che riposa dopo il pasto, disteso su una
panchina nei pressi del lago. È rilassato e disponibile a
rispondere alle mie domande, anche se esordisce dicendo
che secondo lui non è cambiato molto nella vita dei pastori
se non fosse per i mezzi che la rendono un po’ più comoda.
Nel furgoncino c’è infatti il posto per dormire, ci sono le cose
per cucinare, e c’è lo spazio per tenere gli agnellini che non
possono camminare appresso alle pecore.
Anche il gregge è tranquillo: molte pecore, e non accade
spesso, sono stese all’ombra dei noccioli.
Lorenzo è simpatico, al telefono era stato gentile, mi aveva
invitata a non salire in Valandro: «Troppo ripido, tanto poi
scendo… Ci vediamo sull’altipiano di Andalo sul comot». In
effetti qui sulle rive del lago di Andalo è tutta un’altra cosa.
Ma solo ora che conosco Valandro capisco cosa significa
“pascoli alpini”. Quando cerco di farmi spiegare di quante
ore di rumine hanno bisogno le pecore dopo il pasto,
53
Lorenzo scuote il capo: «Dipende… piene piene non sono
mai. Se non le rinchiudi continuerebbero anche la notte a
mangiare…».
Lorenzo parla volentieri del suo mestiere. È pessimista, non
ha molta fiducia nel futuro, però è pronto alla risata e crede
che raccontare, ricordare, anche a me, sia contribuire in
qualche modo ad Alpinet Gheep e possa servire a qualcosa.
Una delle sue osservazioni va ai parametri dell’alpeggio
dell’UE, 800 pecore in 200 ettari per 80 giorni (questo detta
la legge): «Non c’è nessuna montagna che soddisfi con
questi numeri il bisogno di pascolo delle pecore, i
parametri europei non funzionano».
Dell’orso parla brevemente: «L’ho incontrato molte volte e
una volta ho dovuto tornare indietro perché non voleva
andarsene». Il cane abbaia insistentemente, Carlo è già con
il gregge che “appoggiato” al margine del prato pretende
altro pascolo. Li accompagno per un tratto mentre
scendono a bere sulle rive erbose del lago semi-asciutto. Poi
li precedo al maso Pegorar per scattare qualche foto al
gruppo degli asini, i più giovani in “muta”. Ci salutiamo a
distanza con un cenno del capo e della mano.
“
Mi piace la solitudine.
Radio, giornali e televisione?
Non mi manca niente, no, no.
«Una volta dalla lana prendevi dei bei soldi. Addirittura negli
ultimi anni Settanta si arrivava a 2000 lire al kg.
Commercianti veneti e lombardi. Mia mamma e mia nonna
selezionavano la lana delle nostre pecore, la lavavano e la
portavano a Pergine. Non so cosa facessero lì alla lana
(cardatura, pettinatura) perché poi la filava lei in casa e
preparava le calze e i maglioni. Circa 30-50 kg all’anno, giusto
quella che serviva per uso domestico. In casa ne ho ancora io
di quei calzettoni».
«Vado a casa tutte le sere l’estate, quando sono qua
intorno, da maggio fino a novembre. Dopo, solo una volta
ogni tanto. La moglie? La consegno al pret (ridendo, ndr)».
«Il pascolo è cambiato tantissimo, una volta in valle e nelle
pianure c’erano più prati e meno colture intensive. Ora il
modo di “strutturare” i campi impedisce il pascolo: mentre
una volta si pascolava sotto i meli e le vigne, ora non si può
più fare. Sui monti una volta era meglio. La montagna era
più sfruttata ma allo stesso tempo più ricca, adesso il pascolo
è lasciato andare e l’erba è meno buona…. Quando non viene
pascolato el va endrè. Più viene pascolato e più viene
concimato. C’era più spazio malgrado la presenza delle
mucche perché c’era meno bosco».
«Ti accorgi che il pascolo oggi è meno buono perché ad
esempio se su cento ettari trent’anni fa pascolavi un mese,
con le stesse pecore ora dopo 15-20 giorni non ce n’é più. C’è
più bosco ma alle pecore non piace pascolare nel bosco.
Pascolo anche nel Parco Adamello Brenta: tutto in regola
permessi ecc. Per il riparo però va proprio male. Ho rotto le
scatole alla Provincia per avere qualcosa. Ci hanno messo un
container dove non si può neanche accendere il fuoco…»
«Una volta uno che aveva 150 pecore era un pastore, se
vendevi cento pecore comperavi un ettaro di terra. Adesso
non comperi neanche da far la bala».
«Il granoturco è un cibo che può far male. Bisogna star
sempre attenti, non devono mangiarlo bagnato, ne possono
morire anche dieci o venti per come hanno mangiato».
«In Veneto una volta si andava magari ospiti dei contadini,
erano famiglie di venti persone, sapevano che arrivavano i
pastori, che avrebbero concimato i campi, magari venduto un
agnello. Oggi il furgone fa da cucina, camera e stalla e
cuciniamo da soli. In Veneto dove una volta si andava
magari ospiti dei contadini, ora troviamo ville da un
miliardo e mezzo dalle quali è meglio stare alla larga. Non
ti senti neanche di entrare. Non è che ti trattano male ma…
Adesso se non passi e non sporchi la strada va meglio, i
campi tanto vengono concimati in altri modi…».
«Non mi auguro che i miei figli facciano il mio lavoro. Ne
ho viste abbastanza commedie in questi anni, non vorrei
che i miei figli ne vedessero altrettante... Finché comando
io non voglio che facciano il pastore: di tutto fuori che il
pastore… per il guadagno, per la famiglia, veniamo trattati
male da tutti, da tutta la comunità. Alla gente piace il
gregge ma non lo sporco e che non mangino l’erba, piace il
gregge ma quello in cartolina per intenderci. Abbiamo
tutti contro: i cacciatori… Con i forestali va meglio ora che
nel passato, con tante difficoltà. Le pecore non sono
telecomandate… sono imprevedibili rispetto ai confini».
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«La tosatura la faccio una volta all’anno in aprile.
Tra Treviso e Venezia mi faccio aiutare dalle squadre.
Pago 2-2,20 euro l’una [costo totale della tosatura e degli
operai che danno una mano] e la lana vengono a
prenderla. Non pago lo smaltimento, la portano via.
Ogni pecora rende circa 2,5 kg all’anno di lana tosandola
una sola volta…».
«Un tempo gli spostamenti avvenivano nello stesso modo
di adesso, ma a piedi, e gli asini portavano tutto quello
che serviva».
«Spostare il gregge comporta tantissimi problemi per il
traffico. Tutti hanno fretta. Spesso non ci sono strade
alternative a quella provinciale. La procedura per percorrerle
è un po’ complicata: devi andare dal Prefetto… ma se devi
cambiare prato o comune dieci volte in un giorno, come fai?
Non mi sposto di notte come fanno certi. Le amministrazioni
locali fanno tanti problemi: certi comuni hanno fatto
l’ordinanza di non pascolare sul loro territorio. 430 euro è
quanto ho pagato lo scorso anno di multa».
«L’orso è un problema perché ti dà più lavoro. Devi fare
sempre il recinto doppio, e poi non tutte le pecore valgono
uguali nel caso di perdite. Quest’anno non abbiamo avuto
perdite, ma le pecore si stressano se c’è l’orso che le
spaventa. Nel recinto certo non stanno bene come quando
possono sistemarsi dove vogliono. Nel fango del recinto
possono passarsi le infezioni alle unghie per esempio».
«Una volta la gente mangiava carne di pecora
normalmente, come l’altra, una ricetta trentina è il castrà
con i capussi cotti. Oggi vendo tanto agli islamici, vendo
55
bene a Pasqua. Animali dai sette ai dodici mesi. In passato
ho provato anch’io a regolare le nascite ma poi l’autunno i
piccoli erano così tanti che era difficile gestirli».
«Gli agnelli nascono tutto l’anno sul pascolo e anche al
piano. Al massimo cinque-sei anni è l’età delle pecore che
tengo, il prezzo non è buono. Va meglio per gli agnelli e i
capretti. Le capre le tengo per hobby…»
«Come chiamo le bestie? Con nessun nome, non parlo
con le bestie».
«La strada che porta al pascolo va bene. Il baito no. Se la
famiglia vuole venire su dieci giorni non è possibile.
Ospitarli nel container è impossibile».
«Ogni giorno per prima cosa si controllano le nascite.
A seconda del pascolo che hai, può darsi che non ci sia
fretta, come qua per esempio, le puoi liberare alle 9 di
mattina, se invece non c’è pascolo o devi “fare strada” ti
muovi prima. A volte in un’ora hanno già mangiato.
Altre volte ci vogliono alcune ore. Poi riposano, ruminano…
Alle 12 si mangia. Si mettono i piccoli alle mamme. Poi di
nuovo al pascolo. Ci si ferma la sera, si mette il recinto, di
nuovo i piccoli alle mamme, e infine la cena e a letto».
«I momenti difficili? Quando il tempo è brutto e non c’è da
mangiare per le bestie. Quelli belli? Mah… l’estate».
«Per il futuro sono pessimista. Troppe difficoltà! Cambierei
lavoro ma non so cosa fare ormai…».
«La montagna? La roba più bella che se pol immaginar».
56
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Ore 7.45. Affioriamo dal mare di nuvole che grava sopra
Ponte Arche arrivando a San Lorenzo in Banale, alle
pendici delle Dolomiti di Brenta, in un radioso inizio di
giornata di fine estate.
Sulla statale appena fuori dal paese ci sorprendiamo
nell’incrociare quattro uomini che scendono a piedi verso il
centro deserto del paese… dall’aspetto decisamente strano
e fuori luogo. Potrebbero essere dei giostrai oppure dei
cow-boy un po’ trasandati: folti baffoni scuri, cappellacci e
stivali infangati.
Ma dietro la curva la risposta alla nostra curiosità è subito
appagata: quattro autotreni attrezzati per il trasporto
animali sono parcheggiati uno dietro l’altro, e i quattro
uomini sono gli autisti specializzati in trasporto
internazionale di bestiame.
Grazie a un amico guardaparco abbiamo saputo che il
gregge che pascola in Prada e Dorè è già in partenza, e per
questo siamo qui oggi. Tra poche ore i pastori con le loro
1200 pecore saranno in viaggio per Borgo San Giacomo,
Brescia, quindi il tempo per incontrarli, presentarci e fare
l’intervista con la partenza imminente è pochissimo.
Risaliamo in automobile per qualche chilometro la strada
verso il rifugio Alpenrose. Fortunatamente quando
incontriamo il gregge, assieme al coro dei belati dai
molteplici toni delle 1200 pecore, dei bellissimi asini e delle
capre ingorde che sostano all’ombra di pini e abeti, dopo la
lunga discesa dall’Alpe, troviamo la piena disponibilità dei
pastori a raccontarsi.
Sono tre i pastori della famiglia; fanno questo lavoro da tre
generazioni, e ora sono impegnati tutti, più un aiutante,
nella transumanza. Normalmente durante la stagione
dell’alpeggio si danno il cambio e a rotazione uno o due di
Venerdì 25 agosto 2006
S. Lorenzo in Banale, Valli Giudicarie
VITTORIO,
IVAN,
PAOLO
C’è un po’ crisi, adesso. Arriva la “roba” dall’estero a buon prezzo, è stato
un fallimento anche per noi… Non c’è concorrenza, vendi un po’ a strappi.
Non è una vendita normale. È fatica…
“
Vittorio e i figli Ivan e Paolo sono nati a Ponte di Legno
e risiedono a Borgo San Giacomo. Vittorio ha la licenza
elementare, i figli la licenza media. Vittorio è figlio di
un pastore, parla italiano e il dialetto bresciano.
Vittorio, Ivan e Paolo hanno 1200 pecore.
loro tornano dalle famiglie. In quel momento di pausa
faccio alcune domande a Vittorio, il padre, e poi al figlio
Ivan, mentre Paolo sta organizzando la discesa a valle.
Scendiamo anche noi assieme a loro, un po’ sulla stradina,
un po’ per la vecchia ripida mulattiera selciata dove le
pecore, come gocce di un pennello grondante di bianco,
tracciano nel bosco traiettorie sinuose e improvvise, spinte
dai pastori e dai cani su uno sfondo dalle brillanti tonalità
di verde. È una splendida giornata di sole. Il gregge cala a
valle passando rapidamente tra antichi muretti a secco,
antiche case da Mont ora ristrutturate. Un cane alla catena
abbaia fino allo sfinimento e sveglia un papà con due
bimbetti che, incuriositi, escono in pigiama e salgono sul
muro di cinta per godersi lo spettacolo. Non manca come
sempre qualche animale insubordinato che deborda o salta
sopra ai muretti in cerca di erba più appetitosa, scalzando
qualche pietra qua e là. Gli agnelli appena nati sono già
stati caricati sul furgone dei pastori. Tutti gli altri, e non
sono pochi, scendono stanchi in coda al gregge.
Arrivati al piano in località Manton, il gregge viene guidato
sul lato opposto della statale dove grazie a una fascia di
rocce è possibile delimitare uno spazio adeguato per il
pascolo all’ombra. Il recinto viene montato rapidamente e
tutte le mosse seguono un canovaccio ben sperimentato.
Ora però i pastori stanno discutendo fitto fitto in bresciano
stretto con i camionisti.
Per iniziare a caricare il gregge è necessario girare tutti e
quattro gli autotreni, staccare i quattro rimorchi, disporli
uno dietro l’altro unendoli con degli appositi by pass
perché le pecore salgano. Poi verranno caricate anche le
motrici. La manovra non è semplice: lo spazio per girare è
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ridotto al centimetro. Nonostante il traffico sia scarsissimo,
si forma subito un piccolo incolonnamento. La manovra
richiede tempo. I curiosi nel frattempo sono aumentati. Il
passaparola porta molti bambini dal paese, chi arriva in
bicicletta con gli amici, chi accompagnato dai genitori in
macchina o addirittura con il trattore.
Una volta disposti i mezzi, i pastori aiutati dai cani portano
alcune centinaia di pecore alla volta al punto “d’imbarco”
dove grazie a una catasta di legname e a una motrice è stato
creato un invito a imbuto. Cinquanta alla volta, le pecore
salgono sulla rampa in metallo. Centinaia di piccoli zoccoletti
cercano un appoggio sicuro nel frastuono crescente. Le
prime percorrono tutto il lungo “tunnel”, e quando sono in
fondo viene chiuso un “cancello” con un metallico colpo
secco. Vengono sollevate con una sorta di “pianaleascensore”. Ogni mezzo carica tre “piani” di animali per un
totale di circa 150. L’operazione richiede calma e attenzione
per evitare che gli animali si feriscano calpestandosi nella
calca. Una pecora esce dal gruppo e si muove velocemente a
scatti indecisa sul da farsi, passa sotto al camion e raggiunge
la libertà sul prato bagnato di rugiada.
Una nonna con nipotino arriva con il termos del caffè e va
diritta a offrirlo al signor Vittorio: è una consuetudine che
si ripete da trent’anni.
Le operazioni di carico proseguono sino dopo mezzogiorno.
Seguirà un viaggio sotto il sole al termine del quale gli
animali scaricati dai camion riacquisteranno la libertà. Il
prossimo pasto per loro sarà di un sapore diverso in un
paesaggio altrettanto diverso...
«Per fare la transumanza porto giù le bestie “in bresciana”
con i TIR già da 50 anni, prima mio padre andava a piedi.
Gli spostamenti del gregge avvengono da San Lorenzo in
Banale fino a Borgo San Giacomo con i camion, 6000 euro
per l’andata e il ritorno, poi facciamo il pascolo vagante. I
pascoli su sono sempre gli stessi, in montagna buonissimi.
Il problema è la casa: a nessuno interessa di migliorarla…
venga su a vedere».
«Giù pascoliamo nei campi dopo i raccolti di mais e altro.
I momenti difficili sono giù in pianura… seminano
dappertutto. Trent’anni fa si poteva pascolare lungo i fiumi e
non c’era nessuno che diceva niente: oggi si è ridotto della
metà il pascolo… se erano cento ettari prima, adesso sono 50.
Pascolare nei fiumi Oglio, Po e Adda è difficoltoso perché ci
sono i parchi, le riserve naturali, le riserve di caccia. Per noi
sono difficili aprile e maggio, che non abbiamo tanti pascoli».
«Giù fa molto caldo e c’è l’agricoltura, tutto seminato…
Allora veniamo almeno tre-quattro mesi in montagna».
«Lungo i fiumi le bonifiche hanno dimezzato le superfici
disponibili per il pascolo, già l’erba dei fiumi è magra ma
quando viene aprile e maggio che i campi sono tutti
seminati dove possiamo andare se non nei fiumi… Ma la
forestale lo vieta. Lungo il fiume Oglio, da Brescia fino a 2
km da Cremona».
«I pericoli per gli animali sono tanti… La volpe mi mangia gli
agnelli, venti o trenta, anche l’aquila due o tre. L’orso non
sappiamo di preciso. Si è portato via una pecora con l’agnello,
che avevamo lasciato fuori la notte dal recinto perché
partorisse… al mattino non c’erano più; abbiamo trovato le
tracce di pelo che andavano verso il bosco ma non ci sembrava
il caso di andare giù a verificare… Mai più andiamo a cercarla
rischiando di disturbarlo se per caso sta mangiando».
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«La tosatura la facciamo giù, una volta all’anno; la lana non
vale niente, però bisogna farla… Vengono a prenderla per
poco e niente [circa 80 centesimi al chilo e una pecora dà al
massimo 3 kg all’anno], mentre la tosatura costa circa 1
euro e 80 a pecora».
«La giornata? Dipende dal periodo dell’anno e, prima di
tutto, da che tempo fa… Tutte le sante mattine ti occupi
della nascita degli agnelli, controlli che la mamma non
abbia problemi di parto o la mastite, che i piccoli mangino
dalla rispettiva mamma, poi le mandi al pascolo, a
mezzogiorno le chiudi nel recinto che ruminino. Si
controlla se qualcuna è zoppa o ha problemi alle unghie,
poi si lasciano andare al pascolo. La sera si chiudono nel
recinto e si controlla che i piccoli siano con le mamme».
concorrenza, vendi un po’ a strappi. Non è una vendita
normale. È fatica…».
«Se la solitudine mi pesa? No, abbiamo la radio, il
cellulare, quando andiamo a fare la spesa in paese
prendiamo il giornale».
«Come vedo il futuro? Non troppo bene perché già adesso
ci sono molti problemi… Se nei mesi di aprile e maggio
fosse permesso di pascolare sui fiumi troveremmo buon
pascolo, acqua e ombra…»
«La via per la malga e il pascolo? Quest’anno hanno sistemato
la strada e va meglio, l’anno scorso era un disastro».
«Come chiamo le bestie? ‘Ndiamo ‘ndiamo, e loro vengono».
«Se nevica per noi è un disastro, bisogna prendere il fieno…
gli agnellini soffrono; è come se prendesse la tempesta un
agricoltore. Laggiù se non nevica stiamo bene. A settembre,
ottobre e novembre dopo la raccolta del mais si può pascolare
nei campi. Spesso si va a casa a dormire. Ci sono molte aziende
che non hanno più le mucche e alle volte ci “appoggiamo” a
queste stalle. Si starebbe bene anche qua, è un buonissimo
pascolo, una bellissima malga. Peccato che non hanno nessun
interesse a fare una piccola strada. La casa è la stessa cosa che
vedere nel terzo mondo… Solo un piccolo rifugio».
«C’è un po’ crisi, adesso. Arriva la “roba” dall’estero a buon
prezzo, è stato un fallimento anche per noi… Non c’è
Il papà e il nonno facevano i pastori,
è una tradizione di famiglia.
Mi piacerebbe che i miei figli
continuassero, anche se è un mestiere
di sacrificio…
”
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16 agosto, ore 12.
Piove in tutta la Valle dell’Adige. Sull’altipiano di Folgaria
ancora no; raggiungo Fondo Grande, la zona delle piste da
sci, e mi si indica la strada per raggiungere la malga dove
ho appuntamento con Stefano. La stradina militare sterrata
sale leggermente nei pascoli della malga Parisa, a quota
1365; due edifici di forma armonica su un’altura mostrano i
segni del tempo. Stefano esce fuori per venirmi incontro
zittendo un cane scuro che abbaia e mi invita gentilmente
a entrare nella grande cucina dove attorno al tavolo
apparecchiato ci sono altri due uomini e una donna, tutti
oltre la cinquantina. La donna si chiama Anna, è piccola, col
volto segnato da morbide pieghe, sorride gentile e mi fa
piacere che ci sia. Mi si invita a consumare con loro un
risotto ai funghi e bere vino, mentre aspettano che sul
fuoco di un enorme caminetto finisca di cuocere della
carne su una graticola. La stanza è grande, tutta una parete
è percorsa da una cappa in muratura che in origine
raccoglieva il fumo dei fuochi che servivano per scaldare il
latte e produrre il formaggio; anche delle vasche in
cemento testimoniano il passato uso per caseare burro e
formaggio, attività ora dismesse. Il fragore della pioggia
16 agosto 2007
Malga Parisa, Fondo Grande,
altipiano di Folgaria
STEFANO
I momenti belli sono sempre, per soldi uno non fa il pastore.
“
Stefano, 36 anni, è nato e vive a Trento.
Figlio di Mauro e Anita, ha il diploma di scuola media.
Ha due figli di 4 e 12 anni, che amano gli animali e
passano con lui l’estate. Stefano, che in precedenza ha
lavorato presso la federazione allevatori e come autista,
parla l’italiano e il dialetto trentino.
Si augura che i suoi figli continuino il suo lavoro.
battente sul tetto che scende copiosa davanti alla finestra
senza grondaia e il crepitio del fuoco fanno da sottofondo
alle voci basse degli uomini e di Stefano, che parla
volentieri del suo lavoro e del futuro che sta costruendo. Lui
è il pastore più intraprendente che ho incontrato, meno
fatalista: vicino a lui ci sono due esperti pastori in visita,
ma è della donna che lui mi parla, quanto sia importante
per rendere la loro vita di viandanti più confortevole e
pulita. Stefano ha delle idee per il futuro che sta
realizzando: sta trasformando parte del suo gregge da
transumante a stanziale per produrre formaggio pecorino.
Il tempo scorre in fretta; la voce di Stefano è giovane e
vigorosa ma non ha perso quell’intonazione di chi proviene
dalla città; sembra lì quasi di passaggio, in effetti in questo
momento il suo gregge si trova in tre località molto distanti
una dall’altra e per questo spesso si sposta per seguire i
lavori e rifornire i pastori di ciò di cui hanno bisogno. Fuori
piove a dirotto, l’acqua si infiltra nel tetto e gocciola a terra,
sul cemento del pavimento irregolare. Purtroppo non vedo
il suo gregge; le pecore sono lontane con il pastore e i cani.
Più tardi le raggiungeranno per sistemarle nel recinto
mobile per la notte e torneranno alla malga a dormire.
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«Da 15 anni faccio il pastore, sì, la prima volta in Bondone
con Gianni, un pastore più esperto. Avevo 20 anni; per un
anno e mezzo avevo delle capre, poi sono passato alle pecore».
«Gli spostamenti degli animali? Avvengono a piedi, con la
macchina e la roulotte. Per transitare sui territori le leggi
sono le stesse dai tempi lontani di Teresa d’Austria. Si deve
chiedere dieci giorni prima ai comuni il permesso.
Un grosso problema è quando giù in Veneto si concentrano
tutti i pastori trentini, veneti e altro, allora i comuni non
vogliono dare i permessi. Altro problema quando facciamo
il percorso del fiume Adige, la legge prevede che si possa
pascolare sugli argini, ma che non si possa sostare la notte.
Ecco che questo ci costringe ad andare dai campi all'argine
dove spesso ci sono le piste ciclabili che ovviamente
nell’attraversamento sporchiamo con tutte le proteste del
caso. Altre difficoltà sul territorio? Dove prima c’erano i
pascoli adesso ci sono strade, fabbriche, edifici vari.
Transitare in certe zone è difficile, traffico, capannoni, aree
protette lungo i fiumi, riserve di caccia. La primavera nei
campi è seminato… Succede che in certe zone dove ci sono
discariche abusive le pecore si feriscono oppure brucano
l’erba mettendo in luce rifiuti anche pericolosi che le
erbacce nascondevano. Taluni organizzano dopo il
passaggio del gregge delle giornate ecologiche per ripulire
gli argini dei fiumi».
«In montagna direi che il pascolo è migliorato: questa
malga, per esempio, caricava vacche, ora ci siamo solo noi e
il pascolo è ottimo».
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«Solo da un anno c’è un aiutante che munge 150 pecore con
la mungitrice e fa tutto il resto. Alle 6 del mattino munge,
poi le porta a pascolare, poi in stalla e infine la mungitura
serale; queste sono pecore delicate, che vanno tenute in
stalla quando piove altrimenti perdono il latte».
«Per la tosatura chiamo le squadre dei tosatori, la lana non
vale niente, la brucio e pago la multa, dieci quintali di lana.
Il mangiare per tutti, più gli operai sono un costo; mi
hanno fatto pagare anche i colori che servono a
contrassegnare le pecore. Da quel giorno ho detto basta,
non voglio più avere a che fare con loro».
«Le nascite sono tutto l’anno perché lascio i maschi liberi;
20-40 giorni prima che gli agnelli mangino l’erba si
vendono per l’abbacchio agli italiani. La vendita? Quasi
tutti agli extracomunitari, una piccola parte agli italiani».
«Io guardo al futuro e penso che tenere pecore da latte sia
la via per sopravvivere alle nuove politiche europee che
d’ora in avanti saranno volte ad aiutare paesi come la
Romania. Se un agnello dalla Romania arriva a un terzo del
prezzo rispetto al nostro, io non avrò più i soldi per vestire e
mandare a scuola i miei figli (manderò a scola i me fioi en
mudande). C’e da dire poi che la gestione delle pecore da
latte è più costosa, acquistare le attrezzature, l’erba, avere
sempre una stalla e un uomo che munge».
«I pericoli? Volpi, aquile, orsi. A malga Campa, nel gruppo delle
Dolomiti di Brenta, l’orso c’è, e il pascolo è più pericoloso».
«In montagna l’è bel. Però è un po’ monotono: sempre la
stessa gente… Quando invece ti sposti parli con gente nuova.
Quando sei al piano non vedi l’ora di tornare in montagna».
«I turisti passano nei luoghi che frequento, e chiacchierano
volentieri».
«Credo nell’utilità di una scuola anche nel settore della
pastorizia per capire le leggi, i diritti e i doveri dei pastori
e così via».
«Burocrazia e leggi dovrebbero agevolare la nostra attività,
altrimenti questo lavoro va a scomparire».
«I momenti belli sono sempre, sempre; per soldi uno non fa
il pastore».
Quando ero più giovane, avevo dato
il sale alle pecore, poi avevo giocato
e scherzato. Poi Gianni, il pastore capo,
si mise in moto con il gregge sulla
strada per cambiare pascolo. Quando
arrivammo nel campo Gianni mi
chiese dove fossero gli agnelli e solo
allora capii di averli scordati nel
pascolo precedente. Non è un lavoro
semplice catturare gli agnelli...
”
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27 Settembre 2006
Piazzole Val di Rabbi
CHEYENNE
La solitudine mi piace.
La sera posso sentire la radio, la tv, la musica, non manca nulla.
“
Cheyenne è nata in Germania e risiede in Val di Rabbi.
Figlia di un artista e di un’educatrice-terapeuta d’arte,
ha studiato alle scuole elementari e medie in Val di Rabbi
e Sole, alla scuola Steineriana in Germania, poi ha fatto
due anni di apprendistato in una scuola di pastori nell’ex
Germania dell’Est, lavorando e studiando. Dopo aver
lavorato come cameriera, barista, baby sitter, ha iniziato a
fare la pastora quattro anni fa. Parla il tedesco, l’inglese,
l’italiano e il dialetto. Ha un “moroso” e non ha figli.
Aspetto Cheyenne in località Penasa dove ha una parte
delle pecore che pascolano in un grande recinto appena
dietro le case, sui prati attraversati da muretti a secco che
salgono verso il bosco di larici e abeti rossi. Le pecore che
vedo qui sono di più razze: le Biellesi, le Suffok, le Vallesi e
un’altra… Hanno il vello e i colori diversi. Alcune hanno le
corna, molto belle. Pascolano tranquille e qualcuna è già in
cerca dell’ombra per riposare. Io le trovo buffe. Ce n’è una
che appoggia il muso su una pietra che sporge dal muro a
secco e chiude gli occhi dimostrando l’assoluta comodità
del luogo trovato.
Cheyenne quando arriva non è sola. Sua sorella, anche lei
con un cappellaccio in testa, smonta il recinto elettrico. Il
fidanzato carica l’attrezzatura sul rimorchio del trattore.
Di norma Cheyenne è sola a fare questi lavori. Giusto ieri
sera però il dottore le ha diagnosticato una polmonite.
Quindi dovrà farsi aiutare per un certo periodo…
Fortunatamente il suo “moroso” ha finito l’alpeggio delle
vacche in malga e quindi ora avrà più tempo per aiutarla. In
ogni caso Cheyenne chiama il cane Brasca, un cane di
un’antica razza tedesca, e guida il gregge in un prato appena
sotto la stradina. Ci sediamo sull’erba osservando le pecore.
Lei mi racconta molte cose che ascolto con interesse. La sua
esperienza in Germania e la scuola professionale che ha
frequentato le hanno fornito gli strumenti per spiegarmi il
suo lavoro e anche molte cose sul comportamento delle
pecore, in modo particolarmente approfondito. Il suo modo
di raccontare è tranquillo. È una bella ragazza, giovane, che
sorride volentieri e trasmette serenità e sicurezza. Il suo
percorso lavorativo è molto diverso da quello degli altri
pastori che ho incontrato. Ma proprio la formazione teorica,
l’esperienza di transumanza nella zona della Foresta Nera e
nell’azienda agricola la rendono preparata e all’altezza della
situazione. C’è da dire anche che lo spirito con cui si pone nei
confronti del territorio e della pastorizia è diverso da quello
dei pastori transumanti. Lei è molto contenta di pascolare in
questa valle, dando con il suo lavoro un contributo alla
conservazione dei prati e alla cura del paesaggio. È anche
attratta, è vero, dall’idea di fare la transumanza fino giù al
mare, oppure l’alpeggio fino in alta quota, di certo non è
interessata ad avere un gregge enorme di pecore puntando
al massimo ricavo e sacrificando il “piacere” della biodiversità nel gregge. È lei che mi parla per la prima volta di
pecore da paesaggio, concetto a me nuovo, ma noto negli
ambiti di tutela e conservazione ambientale.
È sempre lei che mi mostra quali sono le erbe che le pecore più
gradiscono, quelle a foglia larga come la piantaggine, il rumex…
«Le pecore come gli altri animali se li tieni come il Signore le ha
create non hanno problemi». È quando si fa l’allevamento di
massa, e di conseguenza cambia l’alimentazione, e le
costringono a una vita diversa e poco naturale, che queste
si ammalano. Sono animali forti in genere.
Ora le pecore si stanno spostando e anche noi con loro.
Brasca è molto brava ma il punto di osservazione del pastore
rispetto al gregge deve essere sempre ottimale. Talvolta se si
vuole che il prato venga recuperato dopo anni di abbandono
non è sufficiente lasciare pascolare le pecore per qualche ora,
giacché la presenza di erbe secche e poco appetibili
(graminacee e ciperacee) motiverebbe il gregge a passare
velocemente a un prato migliore. È necessario quindi
mettere un recinto e far rimanere le pecore anche la notte
nel prato abbandonato, così che il calpestio degli zoccoli
spezzi e frantumi gli steli secchi rimasti a terra per anni.
Cheyenne ha progetti per il futuro che sono legati alla valle,
al “moroso” e agli animali senza i quali non potrebbe stare..
Da poco ha preso il libretto d’imprenditrice agricola.
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«La solitudine mi piace. La sera posso sentire la radio, la tv,
la musica, non manca nulla».
«Col moroso passo tanto tempo quando lui è su in malga, i
mesi estivi di meno».
«Gli spostamenti del gregge avvengono a piedi come una
volta, spesso i sentieri non ci sono più a fondovalle, così mi
tocca tornare sulla statale».
«Il veterinario viene per i vaccini e casomai lo chiamo al
telefono se sono in difficoltà. Gli animali conoscono le piante
velenose del territorio da cui provengono, l’anno scorso hanno
mangiato forse l’aconito assieme alle altre erbe e per qualche
giorno non erano proprio se stesse, ma poi è passato».
«La nascita è concentrata a marzo e aprile; a Pasqua non
sono pronti, solo le Vallesane lo sono. Io vendo soprattutto
in autunno, bestie di 8-14 kg, al massimo 30; dopo
cominciano ad avere il grasso e il sapore intenso, il sapore
di pecora non piace molto ai trentini e non lo vendi più.
Vendo soprattutto ai locali. Mi occupo di vendere solo le
mie bestie, 20-40 all’anno a 2,5 euro al kg vivo».
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«I musulmani hanno altre usanze, in Lazio mi dicevano che
li macellano a 6 kg, quando l’agnello ha due settimane e
comincia a rosicchiare l’erba».
«I momenti più difficili sono quando piove, che devo
spostare i recinti e le pecore sono nervose, o quando per
spostarle devo camminare sulla statale facendo formare
colonne di automobili. In autunno, invece, ci sono delle
giornate in cui le pecore sono calme e si sta tranquilli:
quelli sono i momenti più belli».
«I pericoli? I cani, che di giorno sono alla catena e la notte
vengono liberati. Poi, alle pecore può far male mangiare
troppa frutta, troppo mais, succede poi che non riescano a
rigurgitare per ruminare e quindi stanno male, si gonfiano.
Anche a primavera quando gli animali giovani passano
dall’alimentazione a fieno all’erba fresca si deve fare
attenzione, in maniera graduale».
«A fine aprile toso solo le adulte con la macchinetta, in un
quarto d’ora ne faccio una, poi durante l’estate toso gli
agnelli a mano con la forbice. La lana bella la regalo a dei
miei amici che me la chiedono».
«Turisti ce ne sono tanti: una volta alla settimana per l’Ente
Parco mostro il gregge e faccio delle dimostrazioni con i cani».
«Conto le bestie da stalla a stalla, sono tutte segnate su un
registro dove annoto anche la crescita, e il loro rendimento».
«Quando nevica abbondantemente ho problemi per
ritornare a casa, abitiamo sull’altro lato della valle e la
strada forestale che conduce alla casa ovviamente non
viene spalata, cosi qualche volta le slavine ne
interrompono l’accesso».
«Un mercato per il formaggio ci sarebbe, ma ci vogliono
attrezzature, stalla e caseificio che qui non ci sono e tutto
deve essere a norma, e comunque prima di guadagnare
qualcosa ci vogliono anni».
«Con le amministrazioni locali e i privati va tutto bene.
Ho un accordo con il Comune che mi paga per il servizio di
“pulitura “ dei pascoli abbandonati che svolgo durante
tutto l’anno. Per il Comune è importante che quando arriva
la neve io abbia pascolato quello che mi è stato richiesto.
Per i proprietari dei prati è gratuito».
«Per chiamare le bestie uso delle parole tedesche che ho
imparato in Germania».
«La scuola? Sono contenta di quella che ho frequentato io
e credo che anche all’Istituto agrario di San Michele
debba partire un corso. Le scuole non vengono a vedere la
mia attività».
«Se mi auguro che un giorno i miei figli continuino questa
tradizione? Sarebbe bello».
«In futuro spero che cambi il modo di fare anche i corsi di
formazione, ne sto frequentando uno, e anche delle
modalità legate ai contributi agricoli che attualmente non
aiutano chi vuole partire con poco, perché prima di poter
vedere dei risultati dalla propria attività si deve aspettare
magari dieci anni, è davvero troppo».
La montagna è la mia casa.
Mi piace anche fare qualcosa di utile
per la montagna, non solo godere
delle cose belle che offre.
”
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17 agosto 2006
malga Agnelessa
Val di Fiemme
TERESA
Da qui passano tanti turisti, che fanno sempre le stesse domande.
Dalle loro domande capisco quanta differenza c'è tra il mio mondo e il loro.
“
Teresa è nata in Canada e risiede a Masi di Cavalese.
Figlia di una giornalista e di un geologo che lavorava
nel settore dei pozzi di petrolio, ha studiato fino a 18 anni
prima di fare molti mestieri: raccoglitrice di frutta,
cameriera, aiuto skipper, insegnante di inglese in
Sudamerica. Da sette anni fa la pastora. Parla inglese,
italiano, spagnolo e francese e capisce il tedesco
(altoatesino). Conosce anche il dialetto fiammazzo.
Non ha marito: «Scherza? Sono sposata con le capre».
Teresa ha un gregge di 300 capre.
È una giornata di agosto, il cielo è bianco-grigio, la
temperatura attorno ai 15 gradi, sotto la media stagionale.
La stradina forestale in leggera salita attraversa uno scuro
bosco di maestosi abeti rossi. Il richiamo della ghiandaia
rompe il silenzio. In vista della malga c’è il silenzio, nessuno
scampanellio. Qualcuno si sposta dalla malga alla stalla, il
cane abbaia appena ci individua, e siamo ancora lontani,
all’inizio del pascolo.
Entro nella stalla e trovo Adriano che mi invia da Teresa, è
lei il “capo” cui rivolgere le domande.
Teresa ha i capelli lunghi e biondi legati a coda di cavallo.
Sta andando a prendere qualcosa nella cucina della
malga, ha ai piedi gli stivali di gomma verdi e fa lunghi
passi sul terreno accidentato e ripido. La seguo. Ha in
mano un catino che va a riempire con del mangime,
credo per i cani. La seguo un po’ avanti e indietro per
presentarmi e chiederle quando e se avrà un’oretta da
dedicarmi per l’intervista. Ha un bel sorriso aperto e,
seppur indaffarata, mi invita a prendere un caffè poco più
tardi. Adriano, il pastore, barba bianca e cappello in testa,
all’apparenza è un po’ più burbero, ma in realtà quando
gli si parla è molto gentile e disponibile. Questo
pomeriggio sta preparando la macchina perché scenderà
a valle per prendere degli ospiti in arrivo. Il terzo pastore,
un giovane albanese, scenderà dai pascoli alti con il
gregge solo più tardi, verso le 16-16.30.
Dietro la stalla, altri animali da cortile: galline, anatre e un
asino. La malga è composta da una grande stalla e da una
bella casetta che offre i giusti confort: cucina, camere e bagno.
Teresa è molto socievole, è americana ed è in Trentino già da
alcuni anni, parla bene l’italiano e anche un po’ di dialetto.
Mi racconta della sua vita avventurosa anche attraverso
l’oceano come aiuto skipper. Si toglie gli stivali ed entriamo
in casa dove beviamo un caffè e incomincia a raccontarmi.
Approdata in Trentino Alto Adige per la raccolta delle mele
alcuni anni fa, conosce Osvald dal quale apprende l’arte
dell’allevamento delle capre e si appassiona a questi animali.
All’Agnelessa è già da qualche anno e gestisce un gregge di
300 capre di vari proprietari organizzati dall’Associazione
Allevatori Caprini Val di Fiemme.
Rimango fino all’ora della mungitura poco dopo il rientro
dal pascolo, lo scampanellio è intenso. Le capre occupano
un ampio spazio scendendo tra gli abeti, ma in breve i
pastori con i cani le incanalano nel recinto e poi nella stalla
concentrandole all’interno dove lo scampanellio diventa un
concerto forte e ipnotico. Qui attendono di passare nella
sala mungitura adiacente e poi sul carrello, in gruppetti di
sei alla volta. Nella sala mungitura tutto si svolge molto
rapidamente, Teresa pulisce le mammelle delle capre e
posiziona l’aspiratore di gomma e acciaio mentre un
sistema automatico pompa il latte in particolari
contenitori in acciaio.
Al termine della mungitura il latte verrà portato a valle al
caseificio di Cavalese per la produzione di formaggio, e a
Teresa resterà il compito di ripulire tutta l’attrezzatura e la
sala per la mungitura.
Teresa è contenta del proprio lavoro e sicuramente l’anno
prossimo la ritroveremo qui, a lavorare con le “sue” capre.
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«I pericoli sul territorio sono vari: ad esempio, la caduta di
sassi: lo scorso anno sono finita all’ospedale a causa di un
sasso in testa e tre capre sono state colpite. Una poi è
morta. Quando gli animali sono nervosi o agitati per la
presenza per esempio del beco si muovono in fretta e,
correndo sul terreno roccioso, provocano la caduta dei sassi
oppure si mettono in situazioni senza uscita e l’arrivo da
dietro delle altre provoca la caduta delle capre stesse. È
successo ancora di dover poi calarle giù con le corde. Un
altro problema è che mangiano il veratrum (solo quando
non ha il fiore), piace come fosse zucchero, poi stanno
male, fanno versi perché non riescono a vomitare e quindi
liberarsi. Tu devi farle vomitare poi dare il carbone per il
gas, poi il lievito e le flebo. Se arrivano a gonfiarsi poi
muoiono. Poi ci sono i morsi di serpenti o tagli…».
“
Il valore della montagna?
La natura, la magia delle stagioni,
il cambio dei colori, dei rumori
e degli odori mese dopo mese.
Aspetto l’autunno, la neve…
«Gli spostamenti del gregge avvengono a piedi, quando è
possibile percorrendo sentieri e strade forestali; bisogna
stare attenti alle automobili, poi le bestie vogliono fermarsi a
mangiare. La strada per il Manghen è stretta e non tutte le
persone hanno la pazienza di aspettare per poter passare».
«I momenti difficili? Quando piove, con il fango le bestie
vogliono stare nella stalla e lì c’è il letame, si sporcano, poi
attraverso il fango e il letame si passano delle malattie
degli zoccoli. La mungitura è un po’ pesante, sei-sette ore al
giorno. I momenti più belli sono quelli passati al pascolo:
mi piace tanto. Ci alterniamo con l’altro pastore».
«Ho un cane da pastore; sempre uno solo, a causa della
competizione che c’è tra loro… Ogni pastore ha il suo. È
importante che il cane sappia fermare le capre al momento
giusto senza spaventarle».
«Mi alzo alle 3.30, caffè e sigaretta. Dalle 4 fino alle 6 si
munge poi tutti e tre si fa colazione, latte, pane, muesli, poi
uno di noi va al pascolo con le capre, in due si fanno le
pulizie della stalla e della sala mungitura. Adriano fa da
mangiare, si pranza, si riposa un po’. Si riprende preparando
tutta l’attrezzatura per la mungitura. Verso le 16.30-17
rientrano le capre dal pascolo, si munge, alle 19 arrivano a
prendere il latte dal caseificio, poi si deve pulire tutta
l’attrezzatura con acqua calda e prodotti appositi per l’igiene,
si cena e si va a letto stanchi. Se invece è il turno del pascolo,
alle 6 ti avvii ai pascoli verso il passo Manghen e dintorni a
2000 m, con i panini e qualcosa da bere. Raggiunto un buon
pascolo le capre si fermano, brucano, poi ruminano, si
riposano. Noi mangiamo il panino, poi si rimettono a
pascolare. Quando sono sazie si scende piano piano verso la
malga. Quando hanno le "scarpe dure" [le mammelle piene
di latte] vengono volentieri a farsi mungere».
«Da qui passano tanti turisti, che fanno sempre le stesse
domande. Dalle loro domande capisco quanta differenza
c’è tra il mio mondo e il loro».
«La solitudine mi consola, non mi manca la tv: ho la musica.
Mio padre mi manda i giornali dall’America ma non mi
interessano molto. Forse è egoismo, ma non provo curiosità».
«Rispetto a una scuola per pastori ho paura che non ci
siano tante persone interessate».
«I bambini non sanno da dove viene il latte che c’è al
supermercato…».
«Questo è il mio lavoro, non vedo grandi cambiamenti
per il futuro».
74
75
Arrivare a Malga Alpo è veramente semplice anche se i km
da Trento sono 80 per arrivare a Bondone di Storo, più i 6
km di stradina militare, stretta ma asfaltata, che ci porta a
poche centinaia di metri dalla Malga. L’ultimo tratto lo
percorro a piedi; bellissimi sono i grossi faggi che
costeggiano la strada forestale sterrata che conduce al
piano dove si trova la malga. Il limite del bosco è poco più
su e le cime dei monti attorno non sono molto lontane, ma
siamo solo a 1500 di quota, è una bella giornata di sole,
ampio il panorama tutt’attorno. Siamo molto vicini al
confine con la provincia di Brescia, con la Val Vestino che
nel 1934 fu esclusa dai confini trentini. I molti capanni per
la caccia agli uccelli, il toponimo roccolo sul dos Avez e la
non troppo distante Bocca del Caset dove il Museo
Tridentino di Scienze Naturali inanella gli uccelli di passo
confermano l’abbondante presenza di uccelli.
Graziano e Loretta mi accolgono molto bene. Graziano,
operato da poco alla gola, parla con voce alterata, ma la sua
comunicatività è forte e Loretta che lo conosce da tempo mi
fa in alcuni momenti da interprete. Le cose che hanno da
raccontarmi sono così tante che, dato che in questo
momento il lavoro lo permette, mi fermo a pranzare con loro.
Ci sono moltissimi animali domestici: mucche, capre, cavalli,
pecore, maiali, cani, gatti, galline. Fuori fa caldo, così entriamo
nella grande cucina dove ci sono ancora, anche se la malga è
stata in parte ristrutturata, le caratteristiche grandi cappe in
muratura che raccoglievano i fumi dei due grandi fuochi
aperti necessari per “caseare”, fare il formaggio.
Alle pareti attrezzi, mestoli e forbici per la tosatura delle
pecore, ma soprattutto una gran quantità di foto di
Graziano: la sua famiglia, amici, greggi, cavalli. Sono
piuttosto rovinate ma raccolte con cura. Ci sono anche
articoli di giornale dove Graziano è con il suo gregge
vent’anni fa, e foto di pecore morte colpite dal fulmine.
5 settembre 2006
Malga Alpo di Bondone di Storo
GRAZIANO
No, no, non c’è solitudine quassù.
La nostra tv è guardare la sera tele-mucca, tele-pecore, tele-gatti,
cani, tele-capre, cavalli, i maiali…
“
Graziano, figlio di Ernesto e Livia, è nato nel 1951
a Bondone, dove risiede. Ha la licenza elementare
e in passato ha fatto il muratore e il boscaiolo.
Non ha moglie né figli. Parla il dialetto.
Graziano mi racconta delle difficoltà che ha dovuto
superare all’inizio, quando lavorava col padre che non gli
dava nessuna ricompensa, così che andava a fare il
manovale di giorno e la sera accudiva gli animali. Più tardi,
quando finalmente aveva le proprie bestie, gli era vietato
dal padre pascolare nei prati di famiglia.
Altri racconti di Graziano hanno dell’incredibile. Come
quando, molto giovane, approfittando delle fitte nebbie
basse aveva sconfinato col gregge nel vicino pascolo delle
mucche di tre fratelli che, accortisi, lo rincorsero
lanciandogli una forca da fieno nella schiena e lo trafissero,
mandandolo in ospedale. Racconti che rivelano la durezza
delle condizioni di vita in quelle zone di confine.
Mi mostrano un bel libro sulla storia di Bondone e mi
leggono la drammatica lettera di una vedova in difficoltà
economiche che prega le sia tolta la sanzione della
forestale per aver catturato dei pettirossi con il vischio per
il sostentamento dei suoi bambini.
Infine usciamo fuori. Le pecore sono all’ombra di alcuni
abeti rossi, tranne una che sta assieme alle capre che sono
attorno alla stalla in cerca di ombra. Quella pecora era nata
con le zampe anteriori storte e Graziano, per raddrizzarle,
gliele ruppe provvedendo poi a fasciarle e medicarle con
cura. La pecora, allattata da una capra e cresciuta
normalmente, oggi non ama la compagnia delle pecore e
trascorre tutto il tempo con le capre.
Loretta è appassionata della vita con gli animali e fa
progetti per il futuro. È della Val di Ledro e ha frequentato
corsi di formazione presso l’Istituto agrario di San Michele
all’Adige per la produzione di formaggio di capra, cosa che
nei prossimi anni spera di far diventare la sua professione.
Loretta è una giovane donna molto loquace, carina e
allegra: è bello vedere che la montagna viene vissuta con
entusiasmo, e il buonumore è contagioso…
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77
«Mio padre faceva il carbonaio, tutta la famiglia si spostava
sulla montagna… Alcune mie sorelle sono nate mentre
erano a fare il carbone. Il papà ha iniziato a fare il pastore
nel ’51 con dieci pecore, dopo 16 anni siamo arrivati ad
avere 130-140 pecore selezionando le più belle, la mamma
aveva delle capre: a un certo punto erano 25».
«Ci tenevano a scuola a ripetere l’anno: facevamo la sesta,
la settima, perché non c’erano le scuole medie…».
«Un tempo gli spostamenti si facevano a piedi e con gli
asini di mio nonno per i carichi, dal pascolo a Bondone, a
800 m, dove aveva una stalla con recinto, e dal paese al
pascolo a 1500 m, seguendo la crescita dell’erba».
“
C’è un discreto passaggio, qui c’è un
bivacco segnalato su alcune guide
escursionistiche.
Viene gente sia con la mountain
bike che con gli sci per sci-alpinismo,
e anche perché ci sono delle fioriture
particolari.
«Faccio il pastore da sempre; è che quando litigavo con mio
padre andavo a trovarmi altri lavori. Dall’84 mi sono messo
in proprio, ci vuole passione per fare il pastore, e mio
fratello non ce l’ha».
«Quella che faccio non è proprio transumanza ma scendevo
fino a fondo valle l’inverno per sfuggire alla neve».
«La mia mamma faceva il formaggio di capra e lo vendeva
a chi passava e ai paesani. Abbiamo 40 capre da latte che
mungiamo per fare il formaggio. Per uso proprio. Stiamo
aspettando che il comune dia il via a un adeguamento
della casera per poterlo produrre e vendere».
«Una volta questo pascolo serviva per 200 mucche, per le
pecore i pascoli erano altri: più magri, più su verso il monte
Tombea. Per le pecore, sempre i pascoli più brutti…».
«Per le capre abbiamo sperimentato un nuovo orario per non
doverci alzare troppo presto. La sera le mungiamo più tardi,
alle 19, così al mattino si può iniziare a mungerle verso le 7».
«Molti anni fa hanno trovato la brucellosi a 30 pecore, così
che dovetti eliminarle, poi mandai le orecchie, con
orecchino di riconoscimento, a conferma dell’eliminazione
degli animali ammalati – c’era un contributo – ma ci sono
voluti tre anni per eliminare la malattia dal gregge.
Per le ferite del piede si usava la resina dei larici, ma non si
poteva: la forestale controllava. Anche dalla corteccia
dell’abete bianco si prelevavano piccole quantità di resina;
per le piaghe, aceto e cenere».
«Gli agnelli nascono in autunno e primavera, i capretti a
gennaio-marzo. Il capretto intorno ai 10-12 kg viene
venduto a gente del posto, mentre gli agnelli grandi
maschi ci vengono richiesti dai marocchini».
«Da giovane ero al pascolo come lavorante da un allevatore
che aveva più di un aiutante in Val Vestino. Un giorno il
proprietario si accorse che c’era qualcosa di strano nel
ripetersi della sparizione di alcuni agnelli, così si nascose e
spiò un aiutante. Questi portava gli agnelli più belli a
vendere in un rifugio poco distante e poi riferiva che
l’aquila o la volpe li aveva predati. Scoperto, per punizione
venne legato a testa in giù a un albero».
«A marzo le pecore cominciano a pascolare intorno al paese,
poi si comincia a salire. Intorno ai 1000 metri rimango per
un mese o due ai Baitoni, poi a maggio-giugno vengo su
definitivamente e resto fino a quando va via la neve, di solito
a dicembre. Il pascolo della malga è grande e gli animali,
capre, cavalli, pecore e mucche, pascolano in luoghi diversi».
«Per le pecore mi arrangio a tosarle a mano di solito a
giugno, mentre per gli agnelli aspetto che passi il caldo
verso settembre, altrimenti le eventuali piccole ferite
vengono infettate dalle mosche. Qualche sacco di lana lo
tengo, se qualcuno me la chiede. Per lavarla si mette nei
sacchi di iuta nell’acqua di un torrente pulito. Il comune ci
dà una mano per smaltire quella che rimane».
«I pericoli? Ci sono i cani liberi che spaventano le pecore e
le fanno cadere nei dirupi, e i fulmini: nel ’77 sono morte 27
pecore colpite dal fulmine».
«Sono bravo ad aggiustare le ossa rotte. Sistemo la zampa,
la fascio stretta, metto la resina perché non si infiammi».
«Per raggiungere la malga c’è una strada militare austriaca,
asfaltata non molti anni fa. Per andare in paese a fare la
spesa mi sposto con l’Ape dall’84. Poi ho una vecchia moto».
«Una volta gli agnelli nascevano alla fine della stagione
dei carbonai, verso settembre: per festeggiare, tutti
comperavano un agnello».
«I momenti più duri sono a giugno e luglio, quando devo
fare il fieno e c’è molto da fare. A novembre c’è poco da
mangiare. L’ inverno è disagevole, ma non c’è tanto da
lavorare: alle 17 gli animali sono al riparo e la giornata
finisce. Il periodo più bello, invece, è a settembre».
«La scuola? Si impara sul luogo…».
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Il luogo è veramente molto bello. L’apertura che lo rende
ben esposto, la pendenza alternata a pianori, la presenza di
acqua e la vegetazione con prevalenza di larici rendono il
luogo particolarmente ameno.
Marco proviene da Varese, fin da piccolo frequentava per le
vacanze queste valli alle quali è rimasto molto legato, che
conosce molto bene anche alpinisticamente parlando. Da
qualche anno aiutava i pastori che avevano in gestione la
malga Covel prima di lui, e da quest’anno assieme a un
socio conduce la malga dove trovo 250 capre, 174 delle quali
vengono munte regolarmente due volte al giorno: con il
latte ottenuto si produce dell’ottimo formaggio presso il
caseificio turnario di Pejo. Le trovo che pascolano
accompagnate dal pastore poco distante, mentre per
vedere il gregge di 235 pecore dovrei salire fino su in alto
sui pascoli a quota 2500-3000 m.
12 settembre 2006
Malga Covel
Val di Pejo
MARCO
I momenti belli? La nascita dei capretti, l’alpeggio…
Sempre, se ti piace questo lavoro qua, è bello tutti i giorni.
E poi c’è la soddisfazione quando ti va bene tutto.
“
Marco è nato a Busto Arsizio e risiede a Pejo. Figlio di
coltivatori diretti, ha frequentato la scuola professionale
da pasticciere. In precedenza ha lavorato nell’azienda
avicola del padre, e negli ultimi anni ha aiutato d’estate
i precedenti gestori della malga.
Capisce il dialetto locale e il varesotto, ma non li parla.
Non ha moglie né figli.
Marco ha 252 capre e 235 pecore, 88 delle quali asciutte.
Marco è un ragazzo molto soddisfatto della sua scelta. In
questi giorni i suoi genitori sono qui in visita. Bisogna dire
che la malga, da poco restaurata, ha davvero tutte le comodità
necessarie, l’acqua e l’energia prodotta da panelli fotovoltaici:
la strada è sterrata ma in ottime condizioni, le condizioni e le
attrezzature per la mungitura sono davvero ottimali.
Marco è di poche parole, come chi crede che vedere e fare
siano il vero modo per conoscere, e lascia alle parole giusto il
minimo spazio: mi racconta che in futuro si vorrà occupare
solo di capre. Attualmente le pecore sono su in alto, arrivano
vicino al ghiacciaio, scendono solo a fine stagione, tra pochi
giorni, quindi. Lui sale tutti i giorni fin lassù per vedere che
tutto vada bene e per spostarle da una valle all’altra quando
l’erba scarseggia. Non ha nessun cane pastore (per scelta) ma
dice che per lui va bene così, al pascolo alto non ci sono
problemi né di confini, né di predatori, quindi non necessita
di recinti elettrici per la notte o di cani.
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81
«Mi è sempre piaciuta la montagna, salire le cime…
Conosco tutti i monti qua intorno, non c’è alcun posto che
non conosca. E poi l’allevamento degli animali come si fa
qua, e non intensivo come si fa giù, ti dà più soddisfazione.
È più naturale».
vendiamo: ho venduto una volta un maschio ma lo hanno
scannato lì subito, e mi hanno detto di mettere a posto…
Non mi è piaciuto».
sempre gente. Io ho la macchina. Quando ho finito posso
andare giù in paese dai miei amici… Qui c’è la corrente,
prodotta con i pannelli foto-voltaici, volendo c’è anche la tv».
«Toso le pecore due volte l’anno: in primavera, quando sono
giù nelle stalle, e a metà settembre nelle stalle; le porto giù
e poi tornano su fino alla fine di ottobre, ma non le porto
più in alto perché con il pelo corto fa freddo. Le capre le
faccio pascolare tutti i giorni in posti diversi, non troppo
lontano perché le mungo due volte al giorno qui in stalla».
«Turisti ne passano anche troppi. Per fortuna, dice mio padre:
cosi vendo il formaggio, il mio e quello della comunità».
«Mungo le capre alle 5 del mattino e di sera alle 17, quando
hanno tanto latte, poi un po’ più tardi. In totale circa 315
litri: due litri a testa a inizio stagione, poi a fine stagione un
litro al dì. C’è il carrello per la mungitura meccanica che
funziona con il generatore».
«Mi auguro di aumentare il numero delle mie bestie, ho
iniziato con due capre e quattro pecore. Ma credo che
aumenterò le capre e non terrò più le pecore. Dei privati di
Pejo mi hanno dato dei prati abbandonati da anni da
ripulire. L’anno prossimo terrò una parte dei prati da
sfalciare, quelli che quest’anno ho iniziato a pulire usando
gli animali. Le pecore sarebbero più brave, ma soffrono il
caldo, quindi uso le capre».
«La produzione di formaggio si fa al caseificio turnario di
Pejo. Si produce il formaggio che viene poi venduto sia lì,
che nei mercatini della valle. Una buona parte viene
venduta direttamente in malga».
«I capretti nascono a gennaio-febbraio. Gli agnelli
cominciano tra poco, poi a maggio. In base alla Pasqua “alta”
o “bassa” si contano cinque mesi di gestazione, si calcola
indietro e si mettono i maschi nel branco. Si fanno nascere
nel periodo pasquale perché il prezzo per la loro carne è
migliore».
«È da quando avevo due anni che vengo sulle montagne di
Pejo. Mi sono sempre piaciute le pecore e le capre. Avevo giù a
casa le capre, e le portavo su per l’estate, e giù per l’inverno».
«Per chiamare gli animali? Fischio e mi sentono. Le chiamo
“belle” e vengono quando porto il sale, riconoscono la mia
voce anche da 500 metri di distanza. Le capre, quando è ora
di mungere, le chiamo con il mangime. Non ho cani da
pastore, non ne voglio prendere».
«Ogni proprietario si arrangia per vendere i propri animali.
I miei li vendo tutti a privati: me li prenotano due-tre mesi
prima da Busto Arsizio, dal paese di Umberto Bossi il
senatore. Li vendo di pochi mesi. Noi ai musulmani non
«Le pecore e le capre asciutte le sposto ogni tre settimane
da una valle all’altra quando finisce l’erba, su in alta quota
oltre i 2400 m».
«Ci alziamo alle 5. Dopo aver munto le capre, verso le 7
facciamo colazione, poi il mio collega prende le capre e le
porta al pascolo. Poi verso le 15 si preparano gli animali per
la mungitura serale. Io vado su la mattina per vedere le
pecore, e verso l’una vengo giù per mangiare. Se invece non
sono alte, sto tutto il giorno con loro. Sul pascolo le pecore
si alzano fino a 3000 metri per la notte. Poi scendono giù
intorno ai 2500 per pascolare».
«Le malattie? Per tante cose mi arrangio io: iniezioni per la
bronchite, vermi, ferite… La resina di larice mescolata con
l’ittiolo sfiamma bene le ferite».
«Le strade per la malga vanno benone, tutti i giorni porto giù
il latte con la jeep in paese. La solitudine non mi pesa. No, c’è
«Vado sui pascoli della malga comune di Pejo, senza recinto
e senza cani. Pascolo fin sotto i ghiacciai».
«Conto le pecore sui sentieri. Quando le mungi, conti le
bestie tutti i giorni».
«Le volpi rubano gli agnelli quando nascono a primavera, due
quest’anno. Per la bronchite ne sono morte cinque sinora».
«I momenti difficili? All’inizio della stagione, quando gli
animali escono dalle stalle e devi fare il gruppo. Prima si
formano gruppetti, e solo lentamente dopo 15- 20 giorni, verso
giugno, il gruppo è fatto e si può salire. Prima di quel periodo
uso il recinto mobile quando siamo vicino al paese. Anche in
autunno quando nascono tanti agnelli uso il recinto».
I momenti belli? La nascita dei
capretti, l’alpeggio… Sempre, se ti
piace questo lavoro qua, è bello tutti
i giorni. E poi c’è la soddisfazione
quando ti va bene tutto.
”
82
UNO SGUARDO
SUI PRODOTTI:
LA LANA
La lavorazione della lana ha accompagnato per secoli lo
sviluppo della società, fornendo redditività e benessere a molte
comunità locali. La diffusione degli allevamenti ovini nelle
regioni alpine creò sul posto le condizioni favorevoli per lo
sviluppo di una produzione laniera che diventò, in alcuni
territori, una parte importante del comparto industriale.
Tuttavia dopo gli anni ’60 anche questo settore fu
coinvolto dal generale peggioramento delle condizioni
dell’industria tessile. Il mutamento dei costumi e delle
abitudini e l’incremento nell’uso delle fibre sintetiche, più
economiche, versatili e facili da lavorare, hanno messo in
crisi il mercato mondiale della lana. Il crollo del prezzo
della lana ha indotto molti ad abbandonare le attività
collegate alla pastorizia, ma in alcune zone di montagna la
tradizione è sopravvissuta.
Attualmente nell’area di cooperazione dello Spazio Alpino,
il numero di pecore presenti è pari a circa 3 milioni di capi,
per lo più situati sul versante francese. Per quanto riguarda
l’area italiana, le consistenze maggiori si riscontrano in
Piemonte e Lombardia. In Trentino si contano circa 25.000
capi allevati per la maggior parte secondo il metodo della
transumanza durante tutto l’anno. Il settore ovino riveste
un ruolo importante nel territorio montano e apporta
83
Federico Bigaran
Massimo Pirola
contributi positivi anche al settore turistico in quanto
mantiene curati il territorio e il paesaggio tradizionale.
Ogni capo presenta una produzione annuale di circa 3 kg di
lana che purtroppo, non trovando sbocco sul mercato,
viene in genere distrutta. Tale situazione ha portato quindi
con sé un problema ambientale connesso allo smaltimento
di questa fibra naturale che, non decomponendosi in tempi
brevi e bruciando con difficoltà, deve essere smaltita
secondo determinati dettami.
Questa situazione comporta oggi un costo aggiuntivo per gli
allevatori che, oltre a dover pagare per tosare le pecore,
devono anche pagare per smaltire la lana prodotta. La
risoluzione di tale problema comporterebbe per il settore
un’opportunità di crescita e di sviluppo pieno delle proprie
potenzialità.
Il progetto Alpinet Gheep assegna quindi un ruolo chiave
alla valorizzazione del settore della lana per i riflessi
positivi che si avrebbero sull’allevamento e quindi sul
paesaggio e sull’ambiente nel suo complesso. La lana delle
pecore attualmente allevate in Trentino presenta
caratteristiche eterogenee ed è mediamente di bassa
qualità, in quanto gli animali non sono stati più selezionati
tenendo conto di tale aspetto.
Le molte qualità della lana
La lana rappresenta la più diffusa e importante fibra
animale. Grazie alla sua particolare struttura, composta da
tre strati concentrici, possiede numerose proprietà quali
l’igroscopicità (assorbe umidità fino al 30% del peso), una
forte protezione termica (coibenza), buona elasticità,
resistenza all’usura e alla fiamma, scarsa elettricità statica,
resistenza ai piegamenti e docilità alla flessione (resilienza).
La qualità della lana viene definita in funzione della
finezza e della lunghezza delle fibre che possono variare
rispettivamente da 20 a 80 micron e da 20 a 400 mm in
base alla razza e alla parte del vello dell’animale
interessata; la parte migliore è quella delle spalle e dei
fianchi. Le lane più fini risultano più arricciate, mentre
quelle più grosse risultano più elastiche e più tenaci.
Allo scopo di individuare sinergie per la valorizzazione
della lana locale, il progetto – anche in seguito a un’intensa
attività dimostrativa realizzata dall’Assessorato Agricoltura
negli anni precedenti – ha proposto e sviluppato un
accordo tra i vari protagonisti della filiera produttiva.
L’accordo prevede un’integrazione delle attività fra i vari
soggetti, dal produttore al venditore, dall’allevatore
all’artigiano, per favorire una ridistribuzione dei benefici
tra tutti. Vengono prese in considerazione tutte le fasi della
produzione e della lavorazione della lana per riuscire a
ottenere un prodotto finito che possa dare la giusta
redditività a tutti i soggetti coinvolti. Partecipano
all’accordo, promosso dalla Provincia di Trento,
l’Associazione Artigiani e Piccole Imprese della Provincia di
Trento, attraverso un gruppo di aziende artigiane del
settore abbigliamento, e l’Associazione Allevatori Ovicaprini trentini (APOC).
L’iniziativa prevede la raccolta della lana presso gli
allevatori trentini, il suo immagazzinamento e trasporto
presso i centri di lavaggio. Quindi si procede, secondo le
destinazione prevista per ogni partita, alla cardatura, alla
filatura e alla tessitura presso ditte specializzate con
lavorazioni definite e concordate. L’accordo di filiera è
basato su un insieme di azioni integrate che prevedono
l’utilizzo esclusivo della lana trentina, l’utilizzo di impianti
specializzati per la sua lavorazione, l’adozione di metodi di
trattamento a basso impatto ambientale, l’individuazione
dei prodotti finiti da commercializzare, lo sviluppo di
azioni promozionali e di divulgazione, l’individuazione
degli ambiti e dei criteri di commercializzazione dei
prodotti, l’elaborazione di metodi per garantire un sistema
di rintracciabilità nelle varie fasi.
Gli artigiani trentini, tramite un’azione dimostrativa del
progetto Alpinet Gheep, hanno elaborato vari capi unici
di abbigliamento e accessori, reinventando l’uso della
lana trentina e reinterpretando moda e tendenze
apportando un tocco innovativo nel solco della tradizione.
I prodotti realizzati sono già stati presentati in importanti
manifestazioni e fiere, riscuotendo un gran successo di
pubblico e di critica.
84
UNO SGUARDO
SUI PRODOTTI:
LA CARNE
I ritratti che abbiamo visto nelle pagine di questo libro ci
aiutano a conoscere la vita quotidiana dei pastori: gli
spostamenti, le nascite, la tosatura e la mungitura degli
animali. Di fronte a queste immagini che mostrano la
bellezza ma anche la durezza del lavoro dei pastori, viene
forse da chiedersi se, e in che modo, la loro attività
permetta ancora loro di guadagnarsi da vivere, con la
vendita delle carni, del latte o di formaggi.
I protagonisti di questo volume sono quelli che vengono
definiti pastori “vaganti” o “nomadi”. Non hanno, come i
pastori transumanti, una stalla o una malga in montagna:
si spostano invece per tutto l’anno, come veri nomadi, alla
ricerca di pascoli per il loro gregge. Si tratta di una forma di
pastorizia oggi estremamente rara, che nel contesto
europeo sopravvive solo nel nostro arco alpino: in Trentino,
Piemonte, Lombardia e in alcune zone di Friuli e Veneto. La
natura stessa di questa pastorizia impedisce ai pastori di
produrre latte – non hanno a disposizione il tempo e le
strutture adatte per lavorarlo – e la loro unica fonte di
reddito, perciò, è la vendita della carne.
Una vendita che avviene secondo forme molto diverse da
quelle di un tempo, in un mercato che negli ultimi decenni
ha subito grandi cambiamenti. Tradizionalmente, questi
pastori vendevano agnelli di grandi dimensioni, che
85
Edi Piasentier
Università degli Studi di Udine
Dipartimento di Scienze Animali
arrivavano a 60-80 chili di peso: si tratta di quelli che dal
punto di vista merceologico sono definiti “agnelloni”. Per
allevarli, con il latte delle madri e l’erba dei prati, i pastori
non spendevano nulla, e preferivano dunque farli crescere
il più possibile. Le loro carni si vendevano facilmente,
soprattutto in alcune regioni come l’Abruzzo o l’EmiliaRomagna: un grande mercato era, ad esempio, quello di
Lugo, in Romagna. Tradizionalmente, i grossisti di bestiame
andavano dai pastori a scegliere gli agnelli – perlopiù
castrati, perché solo i migliori venivano fatti riprodurre –
in occasioni stabilite, come le fiere o i mercati che spesso
si tenevano in occasione del ritorno dall’alpeggio.
Ancora oggi, i pastori continuano a vendere i loro agnelli,
ma le richieste dei consumatori sono molto cambiate. Oggi
vengono messi sul mercato animali che pesano al
massimo 40-50 kg, ma la domanda è soprattutto per quelli
sui 15-20 kg, le cui carni sono considerate più tenere e
delicate. Ad acquistare animali più grandi sono invece i
nuovi consumatori rappresentati dagli immigrati
extraeuropei – perlopiù nordafricani – che per tradizione
consumano animali pesanti.
In generale, in Italia le vendite sono ancora stagionali,
legate ad alcuni periodi dell’anno, come la Pasqua; va
ricordato, comunque, che la carne ovina è un prodotto di
nicchia, per veri e propri cultori, e ha consumi modesti: si
calcola che ogni italiano ne mangi circa 3 kg all’anno,
contro i 70 chili di carne totali. Tra l’altro, occorrono una
certa disponibilità di tempo e, magari, la conoscenza di
ricette particolari per cucinare queste carni. Dunque, al fine
di aiutare i consumatori a gustarle e apprezzarle, i
produttori stanno cercando di valorizzarle, promuoverle
meglio, farne conoscere la grande qualità.
L’idea portante è quella di fare leva sulla bontà del prodotto,
sottolineando come sia legato al territorio d’origine, tipico e
sano: gli animali sono allevati a contatto con la natura,
nutriti con il latte delle madri e l’erba dei prati. Le pecore più
diffuse, di ceppo biellese-bergamasco, forniscono agnelli di
buona qualità quasi in ogni momento dell’anno.
Per contribuire a diffondere il consumo di queste carni,
spesso conosciute solo da pochi intenditori, in questi anni
sono state create varie sagre e manifestazioni. Tra gli
obiettivi, quello di educare al gusto e al consumo della
carne di pecora, particolarmente saporita e ancora poco
conosciuta, e di farla apprezzare anche alle famiglie
giovani, magari presentando le carni in forme compatibili
con i nuovi modi del consumo: ad esempio, mettendo in
commercio il cosciotto d’agnello precotto, che richiede una
preparazione minima in cucina. Alcuni produttori hanno
anche cominciato a collaborare con aziende di catering e
ristoranti, ai quali forniscono specialità prelavorate, pronte
per essere cucinate in breve tempo.
Un’altra strada che i produttori intendono percorrere è
quella della vendita on line, rendendo disponibili i prodotti
dell’allevamento ovino sul web, in modo che i consumatori
possano sceglierli e riceverli a casa in breve tempo. Sul sito
del progetto Alpinet Gheep (www.alpinetgheep.org) sono
già presenti le informazioni su dove trovare e degustare
questi prodotti tipici.
Tutte le iniziative sono ispirate a un principio comune:
quello di avvicinare un po’ di più i pastori a chi consumerà
le loro merci. Oggi la vendita del bestiame avviene
attraverso grossisti, che acquistano i capi e mettono in
commercio la carne; sarebbe interessante, invece,
accorciare le fasi della distribuzione, secondo i principi di
quella che viene chiamata la “filiera corta”, favorendo
magari le visite alle aziende produttrici e i contatti con i
pastori. Vedere da vicino i modi della produzione e della
lavorazione di quello che si acquista è, per il consumatore,
una garanzia di qualità e un modo importante per
prendersi cura della propria salute che, come le ricerche
scientifiche hanno dimostrato ormai ampiamente, ha un
legame diretto con quello di cui ci si nutre.
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87
LA SITUAZIONE OGGI,
LE PROSPETTIVE
E LE ASPETTATIVE
Il progetto Alpinet Gheep, attraverso un’indagine sul
settore ovi-caprino effettuata sulla zona dell’intero Spazio
Alpino (che comprende il territorio di Austria, Slovenia,
Liechtenstein e Svizzera, le regioni francesi di Rhône-Alpes,
Provence-Alpes-Côte d'Azur, Franche-Comté, Alsace, i
distretti tedeschi dell’Alta Baviera e della Swabia, Tübingen
e Friburgo e, in Italia, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia,
Veneto, Province autonome di Bolzano e Trento, Valle
d'Aosta, Piemonte, Liguria), ha reso disponibili numerose
informazioni sulla consistenza e variabilità del patrimonio
ovino e caprino nelle varie regioni.
Dall’analisi delle variazioni della consistenza del
patrimonio ovi-caprino intervenute nell’arco di circa dieci
anni, ossia fra i due rilievi censuari, emerge una situazione
caratterizzata da vitalità e da buone potenzialità di
sviluppo, anche in relazione al più diffuso e consolidato
allevamento bovino.
L’indagine ha rilevato che il numero delle pecore presenti
nello Spazio Alpino nell’anno 2005 ammontava a circa
2.900.000 capi. La maggior parte degli ovini viene allevata
nelle regioni francesi (49,00%) mentre le regioni italiane
totalizzano circa 260.000 capi, il maggior numero dei quali
è situato in Lombardia, che dispone di oltre 80.000 capi.
Per quanto riguarda la consistenza del patrimonio caprino
Federico Bigaran
Massimo Pirola
nello Spazio Alpino, l’indagine ha rilevato una presenza di
circa 500.000 capi, localizzati per lo più nelle regioni
francesi e italiane.
Il patrimonio zootecnico complessivo nello Spazio Alpino è,
negli ultimi anni, in continua diminuzione ma, mentre i
bovini accusano riduzioni consistenti (oltre il 5% nel
periodo 2000-2005), il settore ovino mostra solamente una
lieve flessione (0,7% in cinque anni) mentre il settore
caprino è complessivamente in incremento. I contributi
maggiori all’incremento dei caprini provengono dalle
regioni tedesche e austriache, dalla Slovenia ma anche dal
Trentino Alto Adige.
Va inoltre sottolineata l’importante variabilità genetica che
caratterizza il patrimonio ovi-caprino dello Spazio Alpino
ove sono presenti oltre sessanta razze di ovini, trenta razze
di caprini e numerose popolazioni autoctone. Alcune di
queste razze/popolazioni sono a rischio di estinzione in
quanto composte da pochi soggetti. È questo un
patrimonio che va salvaguardato e, ove possibile, rafforzato
mediante programmi specifici da attuarsi in collaborazione
con gli allevatori.
Grazie ai minori investimenti necessari per l’avvio
dell’attività di allevamento ovi-caprino, rispetto ad altri
allevamenti, e a una maggior facilità nella gestione degli
animali nonché all’assenza di restrizioni produttive, si
assiste oggi a un maggiore interesse verso questo tipo di
allevamento, in particolare da parte delle nuove aziende
condotte da giovani.
Lo sviluppo di tale allevamento, se adeguatamente inserito
nel sistema silvo-pastorale e agro-alimentare di un territorio,
può apportare importanti benefici all’ambiente, all’assetto
idrogeologico, al paesaggio e alle comunità locali.
La particolare forma di pastorizia nomade e transumante è
oggi soggetta alle difficoltà imposte da un territorio di
fondovalle sempre più denso di infrastrutture e vincoli che
limitano il transito e il pascolo degli animali. La
programmazione urbanistica dovrebbe tener maggiormente
conto della presenza di questo tipo di attività e degli usi e
costumi ad essa associati. A volte con pochi accorgimenti,
individuati in fase progettuale, si potrebbero evitare
spiacevoli inconvenienti per i pastori e per i cittadini.
Il consumatore sembra oggi dimostrare un maggior
interesse verso i prodotti della filiera ovi-caprina e le
aziende produttrici spesso attuano al proprio interno
anche la fase di trasformazione e di commercializzazione
dei prodotti incrementando quindi il valore complessivo
della produzione aziendale e il reddito.
A livello locale il progetto ha analizzato e sostenuto
esperienze di integrazione delle filiere produttive, per
esempio nel settore della lana, che vedono coinvolti anche i
comparti dell’artigianato e del turismo contribuendo quindi
al rafforzamento dell’identità e dell’economia delle comunità.
Un altro aspetto che ci pare interessante sottolineare è
l’utilizzo degli ovini e dei caprini per la manutenzione e la
cura del territorio. Nelle aree di montagna, dove
l’abbandono delle aree agricole e dei pascoli è avvenuto da
più tempo e in misura maggiore, la vegetazione spontanea
ha preso il sopravvento, modificando così il paesaggio
tradizionale e introducendo nuovi elementi di rischio per le
popolazioni (incendio, dissesto idrogeologico, presenza di
animali indesiderati ecc…). Pecore e capre vengono quindi
utilizzate, mediante differenti forme organizzative, per il
ripristino di aree prative contribuendo così al
miglioramento della vivibilità del territorio.
Il progetto Alpinet Gheep, mediante l’attuazione di
numerose iniziative come fiere, manifestazioni, rassegne,
degustazioni di prodotti, seminari e anche con questa
pubblicazione, ha voluto diffondere fra la gente
informazioni e conoscenze sull’allevamento ovi-caprino e
le sue problematiche. Mediante queste attività il progetto
ha cercato inoltre di promuovere l’inclusione sociale degli
allevatori e mantenere viva l’attenzione su questo mondo
che, nonostante tutto, si presenta ancora attivo e ricco di
potenzialità e risorse.
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SHEPHERDS IN THE ALPS.
TALES AND TRUE STORIES
This publication is part of the Alpinet Gheep project, which
promotes breeding and agriculture in mountain areas, local
produce and related business. The project’s final goal is to
enlighten society as to how important pastoral farming is to
the protection of the environment, to local traditions and to
providing the inhabitants of rural and mountain areas with
an income; it is done through developing coordinated
strategies in agriculture, crafts and tourism.
Alpinet Gheep aims to establish a permanent network
between partners from Austria, Bavaria, Slovenia and some
regions in the North of Italy, and develop coordinated
business. Initiatives which have so far been proposed are
intended to improve, up date and spread existing
knowhow, stimulate economic stability of the
ovine/caprine sector, support its involvement in the social
weave of mountain communities. The project also offers
elaboration or strategies and beneficial action to overcome
weaknesses in the sector, advertise positive interaction
with tourism, crafts and territorial policies and, finally, to
promote the constitution of a transnational federation of
breeders in the alpine range. In order to succeed in all this,
new forms of communication and commercialisation of
ovine/caprine products are now in the process of being
designed. This particular kind of product, in a highly
competitive and complicated market, needs to be
introduced through its unique nature and extraordinary
quality: meat which is top quality and obtained from
animals which are reared naturally and healthily; cheeses
which are made with craft workers’ knowhow; and wool.
In addition to explaining who shepherds are and how they
live, this book contains a number of significant stories:
local history scholars tell of the history of sheep farming in
Trento; contemporary figures tell stories concerning the
present day. Historians lead us through the past, from
prehistory to the Romans, the middle ages and up to recent
times. Enchanting images accompany us into a world,
which today survives in the midst of uncountable
problems and uncertainties, thanks to the love and will of
a few determined breeders. The book then gives the reader
some striking and precious tales of shepherds, the true
meaning of their profession, their lives, problems and
future prospects.
The history of sheep farming in the Trento area
The domestication of animals for meat and milk is one of
the most fundamental steps in the history of man. The
first evidence of this process in the Trentino region dates
back to between the VI and the V millennium before
Christ. Goat and sheep bones, as well as fossilised
excrement have been found in the area surrounding
Trento. In fact, there are many sites which show how
widespread sheep farming was: in addition to grazing and
rearing in sheds in built up areas, some archaeological
findings lead us to think that small communities with
animals practised some form of “migration” to higher
altitudes. As far as the existence of Alpine grazing areas
similar to the ones we know today are concerned, we are
not able to trace back directly from prehistoric times to
today; nonetheless, inscriptions and animal bells which
have been found in various sites do tell us that in Roman
times, mountain grazing was quite widely diffused in this
region. It would seem that up to the beginning of the
middle ages, livestock farming was ovine rather more
frequently than it was bovine: rustic creatures, suited to
surviving out in the open and grazing on the move, able to
supply milk, meat and hide (pp. 13-14).
The first interesting clues to the role of shepherds come
from the Rotari decree, which was promulgated in 22
November, 643, and which states Longobard law in
writing: severe punishment for whoever may injure or kill
an experienced shepherd; obviously considered precious
members of society. We learn from documentation that,
even in Roman and Mediaeval times, woods and pastures
were public, granted to land labourers and breeders who
paid for its use (pp. 15-19). Finding material traces of
passing flocks remains difficult until the late middle ages,
as ovines are less reliant on permanent structures, such as
stables or sheds, than bovines.
It is to be the latter, from the XV century steadily onwards,
which take over, although fully understanding why and
how this change came about, is difficult. What we do know
is, that between the 800s and 900s, despite travellers, as
they passed through the Dolomites, admiring in wonder
the alpine pastures covered in flocks with their shepherds
– renowned to be savage creatures, the numbers of ovines
suddenly plummeted, leaving space for bovines. Since
then, and still now, sheep and goats (considered cows of
the poor) are left to graze in the poorest and most
inaccessible pastures (pp. 20-23).
One interesting story which narrates shepherds travelling
through Val di Fiemme is represented by countless graffiti
on rocks: shepherds would either write or draw their
initials and the number of animals in their herd, in so
doing they have left proof of their movements and their
lives, which has lasted for centuries. This historic evidence
may perhaps be considered less usual than others, but is,
nevertheless, important and rich in meaning (pp. 24-25).
THE FIGURES OF TODAY
Teodoro / p. 30
Teodoro had been a shepherd for a few years in the past
before becoming a coach driver. He went back to it when
he retired, occasionally helping his son. He deals with
transhumance, transporting the livestock by truck for the
initial part of their transfer. Later he and another shepherd
put their flocks together and let them spend the winter
months together on the plains; he then calls the truck back
in to move them back up the mountain. Teodoro is married
and has three children; the youngest is 17. He doesn’t spend
a lot of time with them and most of it in summer. He has a
primary school education, he speaks Trentino dialect and
knows the words once used shepherds when they didn’t
want anyone to understand: cuch (military policeman),
calca (road), pauri (farm labourer).
Guglielmo / p. 34
Guglielmo has been a shepherd for the last 10 years since he
began helping his father who was taken ill; before that he
was an electrician. His profession is a family tradition: his
father, grandfather and great-grandfather were all shepherds
before him. Husband and father of two young children, he
manages to spend 3 to 4 months with his family every
summer. Every September, at the end of Alpine pasture,
transhumance begins, which takes him from the summer
pastures in the mountains to the plains of the Veneto and
Friuli regions; he returns around March. The months spent in
the mountains with the flocks are the best, but also the most
difficult, and Guglielmo believes that in the future, if nothing
changes, the number of shepherds who are willing to lead
such a hard life will get increasingly smaller.
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Ruggero / p. 38
Ruggero, 46, was born and currently lives in Cavalese; he has
been a shepherd for 29 years. His father was a baker; his
grandfather a goat-herdsman. Ruggero is married and has no
children. He speaks Italian, Fiamazzo dialect and knows a
little “patois”, the dialect which transhuming shepherds
would use to escape comprehension. Ruggero has 1400 sheep
and goats and 13 donkeys. Solitude does not worry him: he
defines himself “a chatterbox with friends all over the place”.
91
Aldo is 45. He’s married and has 3 children of 6, 12 and 14.
His mother is a housewife and his father emigrated to
Germany for 15 years to work in the building trade. He
started shepherding when he was 15, helping a fellow
villager for a few years to learn the trade. At that time,
transfer ring livestock was hard work: on foot, carrying
everything you needed for coking and sleeping on the
ground, in the cold. Inversely, on the plains, farm labourers
welcomed them in and gave them food and space to let the
sheep graze. These days “big country houses have fences
around them and there’s no contact”. Aldo bought his flock
in 1990 and today has 1200 sheep and 40 goats.
Stefano / p. 62
Teresa was born in Canada and lives in Masi di Cavalese.
Daughter of a journalist and geologist, in the oil-well sector,
she studied until she was 18 when she embarked on a
number of trades: fruit picker, waitress, assistant skipper,
English teacher in South America. She’s been a shepherdess
for the last 7 years. She speaks English, Italian, Spanish and
French and she understands German (of Alto Adige). She
also knows the valley dialect. No husband: “Are you joking?
I’m married to the goats”. Teresa has a flock of 300 goats.
Graziano / p. 74
Lorenzo / p. 50
Stefano, 36, has been a shepherd since he was 20: he started off
by working with a more experienced colleague called Gianni.
He kept goats for a year and a half, then he moved on to sheep.
Before that he was a driver for the breeders association. He has
two children of 4 and 12, who love the animals spend their
summers with him; he hopes they will carry on when he
retires. In the future, he plans to transform part of his flock
from transhuming to permanent in order to produce cheese.
Gianantonio / p. 42
Gianantonio, 61, was born in Arco and lives there still. He
went to the local commercial college and, after working as a
waiter, has been a shepherd for more than 30 years. His
father was a shepherd and his mother stayed with her
husband, children and flock during the summer. Giancarlo
has 3 brothers who work with goats. He speaks dialect: his
father spoke the shepherds’ dialect, “patois”. If he can, he goes
home every evening in summer, and every 4 to 5 days in
winter. Over recent years, along with other shepherds, he gets
around by van or jeep; they used to walk, using the same roads;
donkeys would carry everything they needed, such as hides for
sleeping on the ground. Giancarlo says quite adamantly:
without the mountains, he wouldn’t know how to live.
plains: no pastures, natural hunting reserves, crops which
can’t be used for grazing sheep. For these reasons as well as
low sales, he doesn’t have an optimistic outlook for the future.
Lorenzo has been alpine grazing since he was 10. His father
wasn’t a shepherd but his grandparents, uncles and cousins
were. He gets around with a van which serves as kitchen,
bedroom and sheep shed. He has a wife and two teenage
sons who he goes back to every evening from May to
November; only occasionally for the rest of the year. He
doesn’t hope his children follow in his footsteps: “nobody
treats us with any consideration … People like the sheep but
not the muck: they like picture postcard flocks”. Lorenzo loves
the mountains and talking about his job. His pessimistic
about the future but is ready for a laugh and believes that
telling people about what he does for a living could be useful.
Vittorio, Ivan and Paolo / p. 56
Cheyenne / p. 66
Marco / p. 78
Cheyenne was born in Germany and lives in Val di Rabbi. She
is the daughter of an artist and an educator art-therapist, she
went to school in Trentino and at the Steiner school in East
Germany. She then went on to complete 2 years apprenticeship
in a school for shepherds in former East Germany, where she
worked and studied. After working as waitress, bartender and
nanny she started caring for flocks of sheep 4 years ago. She
speaks German, English, Italian and dialect. She has a
boyfriend and no children. Part of her job is also to head
meeting with tourists on behalf of the Parks association.
Aldo / p. 46
Teresa / p. 70
Vittorio and his children Ivan and Paolo are a family of
shepherds. Vittorio has managed the transhumance for 50
years: nowadays with a heavy vehicle, but on foot when he
worked with his father. Vittorio, Ivan and Paolo have 1200
sheep. Vittorio is happy with the mountain pastures; however,
hw complains about the huge difficulties encountered on the
Graziano was born in Bondone in 1951. This is where he lives
and where he has always been a shepherd with his father. He
has a primary school education and for brief periods he ha
salso worked as a builder and lumberjack: “whenever I had an
argument with my dad, I went off to look for another job”. He
isn’t married and has no children. In addition to the flock, he
has 40 goats whose milk he uses to make cheese for himself,
but he’s awaiting permits to produce the chees for sale.
Marco didn’t start working as a full time shepherd until
recently. When he was young, he used to spend the school
holidays in these valleys, which he knows like the back of
his hands. In recent years he has been helping shepherds
to manage alpine grazing during the summer months; for
a year, he and an associate, have managed it themselves.
He began with 2 goats and 4 sheep; today he counts 250
goats 174 of which are milked for cheese making. In the
future, he would like to increase the number goats and
stop keeping sheep.
92
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BIBLIOGRAFIA
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INDICE
9 / Tiziano Mellarini
LA PASTORIZIA TRA PASSATO E FUTURO
10 / Mauro Fezzi
INTRODUZIONE
11 / Federico Bigaran, Massimo Pirola
ALPINETGHEEP: UN GRANDE PROGETTO PER L’AMBIENTE
12 / Federico Bigaran
PRESENTAZIONE DEL PROGETTO ALPINET GHEEP
13 / Franco Marzatico
PASTORIZIA E TRANSUMANZA NEL TRENTINO IN EPOCA PREROMANA
15 / Enrico Cavada
TRA PIANURA E MONTAGNA: GLI ARMENTI, I PASTORI, LA STORIA
20 / Emanuela Renzetti
PRATI E PASCOLI DI IERI E OGGI
24 / Marta Bazzanella, Giovanni Kezich
LE SCRITTE DEI PASTORI DELLA VALLE DI FIEMME
26 / Anna Brugnara
I PROTAGONISTI DI OGGI
82 / Federico Bigaran, Massimo Pirola
UNO SGUARDO SUI PRODOTTI: LA LANA
84 / Edi Piasentier
UNO SGUARDO SUI PRODOTTI: LA CARNE
86 / Federico Bigaran, Massimo Pirola
LA SITUAZIONE OGGI
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SHEPHERDS IN THE ALPS. TALES AND TRUE STORIES
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BIBLIOGRAFIA
Progettazione editoriale: Giunti Progetti Educativi
Responsabile editoriale: Rita Brugnara
Coordinamento per la Provincia Autonoma di Trento: Federico Bigaran, Massimo Pirola
Coordinamento editoriale: Elisa Ferrari
Testi: Franco Marzatico, Enrico Cavada, Emanuela Renzetti, Marta Bazzanella, Anna Brugnara, Massimo Pirola, Federico Bigaran, Edi Piasentier
Editing: Morgana Clinto
Fotografie: Christian Cristoforetti
Redazione: Fabio Leocata
Progetto grafico e impaginazione: muschi&licheni
Illustrazione mappa: Alberto Martini
Le informazioni e le esperienze riportate in questo libro sono il frutto dell’impegno di numerose persone che con i loro suggerimenti e le loro conoscenze
hanno reso possibile la pubblicazione. Un particolare ringraziamento va a tutti i pastori: Aldo, Cheyenne, Gianantonio, Graziano, Guglielmo, Lorenzo,
Marco, Ruggero, Stefano, Teodoro, Teresa, Vittorio, Ivan e Paolo, e ai loro collaboratori. Con la loro disponibilità ci hanno accolto e svelato la loro storia,
che consegnamo al lettore nella speranza che una migliore conoscenza di questo mondo possa contribuire alla sua futura sostenibilità.
Per i diritti di riproduzione l’Editore si dichiara pienamente disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato
possibile reperire la fonte.
Pubblicazione realizzata con fondi dell’Unione europea nell’ambito del programma Interreg IIIB Spazio Alpino progetto “Alpinet Gheep - rete alpina
per la promozione del settore ovi-caprino per uno sviluppo sostenibile del territorio”, codice progetto: I/III/1.2/10 • n° di copie prodotte: 2000
www.giuntiprogettieducativi.it
www.alpinetgheep.org
© 2007 Giunti Progetti Educativi S.r.l., Firenze / © 2007 Provincia Autonoma di Trento, Trento
Prima edizione: novembre 2007
Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato
I partner del progetto:
Italia
PROVINCIA AUTONOMA
DI TRENTO
Germania
BAYERISCHE LANDESANSTALT FÜR LANDWIRTSCHAFT (LFL)
PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO (PAT)
BAYERISCHE HERDBUCHGESELLSCHAFT
FÜR SCHAFZUCHT (BHG)
ASSOCIAZIONE ALLEVATORI OVICAPRINI TRENTINI
(APOC)
WERDENFELSER LAND SCHAFWOLLPRODUKTE GbR (WLW)
ISTITUTO AGRARIO S. MICHELE ALL’ADIGE (IASMA)
GESELLSCHAFT ZUR ERHALTUNG ALTER UND GEFÀHRDETER
HAUSTIERRASSEN IN DEUTSCHLAND (GEH)
VERBAND DER SÜDTIROLER KLEINTIERZÜCHTER (VSK)
Austria
AGENZIA REGIONALE PER LO SVILUPPO RURALE
(ERSA Friuli Venezia Giulia)
HÖHERE BUNDESLEHR- UND FORSCHUNGSANSTALT
RAUMBERG-GUMPENSTEIN (HBLFA Raumberg-Gumpenstein)
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ANIMALI – UNIVERSITÀ
ÖSTERREICHISHER BUNDESVERBAND FÜR SCHAFE UND
ZIEGEN (OEBSZ)
DEGLI STUDI DI UDINE (UNIUD)
Slovenia
ASSOCIAZIONE PROVINCIALE
ALLEVATORI DI BESTIAME DI BERGAMO (APABG)
UNIVERSITY OF LJUBLJANA, BIOTECHNICAL FACULTY
(UNIBFLJ)
ASSOCIAZIONE PROVINCIALE
ALLEVATORI DI BELLUNO (APABL)
SHEEP AND GOATS BREEDERS ASSOCIATION
OF SLOVENIA (ZDRDS)