pastori COVER_09_11 - ALPINE SPACE PROGRAMME
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pastori COVER_09_11 - ALPINE SPACE PROGRAMME
PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO PASTORI NELLE ALPI STORIA E TESTIMONIANZE Sono le prime ore della notte. Il pastore guarda le greggie pascolanti. Gialle e nere alla luna, le pecore assonnate vanno melanconicamente per la pianura cercando l’erba fredda sotto i cespugli, lungo le muricce coperte di musco; e i loro campanacci dondolano e suonano una strana musica, monotona come una cantilena, che va e viene e squilla e trema argentina col lento sbandarsi della greggia, animando e nello stesso tempo rendendo più intenso il silenzio della pianura. Il pastore guarda; e sogni selvaggi passano nei suoi occhi. Grazia Deledda, Il sogno del pastore ALPINET GHEEP è un progetto interregionale di sostegno e promozione dell’allevamento ovino e caprino nell’arco alpino ed è stato sviluppato da associazioni di allevatori, esperti di istituti di ricerca e funzionari delle amministrazioni regionali. La presenza di problemi comuni e l’esigenza di informazioni aggiornate e tempestive riguardanti le tecniche di allevamento, i problemi sanitari, la reperibilità di animali da riproduzione, la collocazione e la caratterizzazione dei prodotti, hanno favorito e stimolato l’incontro di varie idee e proposte che sono state infine tradotte in un progetto organico. Il progetto si propone la promozione e il rafforzamento del settore ovi-caprino nell’area alpina, al fine di mantenere un suo ruolo attivo nello sviluppo sostenibile delle comunità montane. Il patrimonio zootecnico di un territorio rappresenta un indice di vitalità e di conservazione del territorio stesso e costituisce un elemento di bellezza ed equilibrio del paesaggio, una delle principali risorse per il turismo; per questo ALPINET GHEEP mira a sviluppare strategie transnazionali integrate e strumenti per la promozione del settore attraverso varie attività. www.alpinetgheep.org PASTORI NELLE ALPI STORIA E TESTIMONIANZE CM 86732J Edizione fuori commercio PASTORI NELLE ALPI STORIA E TESTIMONIANZE PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO QUI PRESENTAZIONE DELL’ASSESSORE Di questo reportage fotografico conservo la sensazione viva del non tempo e del non spazio: uomini ed animali che migrano dalle Alpi alla pianura, lungo antichi pascoli nomadi. La forza del gregge, simbolo della resistenza di un mondo ormai quasi scomparso, di una realtà ancora vitale e certamente un diverso punto di vista. “La cura di tutte le cure è quella di cambiare punto di vista, di cambiare se stessi e con questa rivoluzione interiore dare il proprio contributo alla speranza in un mondo migliore (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra).” L’autore delle immagini, Christian Cristoforetti 8 9 La pastorizia tra passato e futuro Sempre più ci si interroga sul futuro dell’agricoltura e dell’allevamento nell’ambiente montano e su quali siano le possibili soluzioni per consentire il proseguimento di queste importanti attività primarie in un ambito caratterizzato da svantaggi naturali permanenti. Nonostante le produzioni tipiche dell’agricoltura di montagna siano generalmente apprezzate e venga da più parti riconosciuta l’esistenza di un valore estrinseco paesaggistico-culturale e ambientale nelle attività agricole e zootecniche, si riscontrano crescenti difficoltà nel garantire stabilità e continuità a tali attività, depositarie di antiche tradizioni e conoscenze. I programmi comunitari di cooperazione interregionale e transnazionale e i progetti come Alpinet Gheep possono sicuramente contribuire all’elaborazione di strategie innovative per il settore, anche in sinergia con altri comparti produttivi come il turismo e l’artigianato, fornendo informazioni, esperienze, testimonianze e creando reti di collaborazione permanenti. Ritengo quindi prezioso il loro contributo, e a tal proposito la Provincia di Trento ha favorito e stimolato la partecipazione delle proprie strutture a simili iniziative assumendosi anche, come in questo caso, il compito di capofila nell’iniziativa. Questa pubblicazione è frutto dell’attività del progetto Alpinet Gheep e riguarda un settore spesso dimenticato e considerato, a torto, ai margini dell’economia e della società: i protagonisti sono i pastori, le loro pecore, la loro storia, passata e presente. Essa contiene importanti testimonianze della pastorizia trentina del passato, raccontate da studiosi della storia locale, e del presente, raccontate dai protagonisti di oggi. Gli storici ci conducono attraverso le varie epoche, dalla Preistoria, all’età romana, al Medioevo fino al periodo più recente, riportando notizie, testimonianze, eventi e consuetudini legati a questa importante attività che da sempre accompagna e favorisce lo sviluppo della società. Le affascinanti immagini ci portano entro un mondo che oggi sopravvive, fra mille difficoltà e incertezze, per la ferma volontà e passione di alcuni tenaci allevatori. Il libro consegna quindi al lettore alcune importanti e preziose testimonianze sul vero significato di questa attività, su come vivono i suoi protagonisti, sui problemi che devono affrontare e le prospettive future. A loro va un particolare ringraziamento e la nostra riconoscenza per avere consentito le interviste e la ripresa delle immagini, e per darci oggi l’opportunità di apprezzare un mondo poco conosciuto al nostro vivere quotidiano. Tiziano Mellarini Assessore all’Agricoltura, al Commercio e Turismo della Provincia Autonoma di Trento 10 INTRODUZIONE Il progetto Alpinet Gheep rappresenta un impegno concreto, frutto del costante lavoro di anni di relazioni e di scambi, per l’attuazione di un programma di attività nell’obiettivo comune di migliorare sempre più il settore ovi-caprino e farne conoscere le potenzialità all’intera società. La Provincia Autonoma di Trento è consapevole del valore aggiunto che tali iniziative comunitarie apportano, non solo in termini finanziari ma anche e soprattutto in termini di conoscenza e capacità organizzativa. La definizione di strategie e programmi di sviluppo, la costituzione di alleanze e aggregazioni rivestono grande importanza per le aree montane come le nostre, caratterizzate da condizioni produttive difficili, per mantenere vivo e competitivo il nostro sistema agricolo, elemento fondamentale della qualità complessiva del territorio. La possibilità di mettere a confronto varie realtà, anche diverse, ha consentito di attuare nel progetto azioni specifiche di elevata qualità volte alla valorizzazione del settore ovi-caprino. I partner del progetto, secondo le proprie conoscenze e specificità, hanno saputo affrontare con competenza la caratterizzazione e la promozione dei prodotti ovi-caprini, carne, lana, latte e formaggi, hanno individuato e studiato il patrimonio genetico esistente nell’arco alpino e valutato l’impatto dell’allevamento sul territorio definendo le buone pratiche gestionali. L’attività ovi-caprina può contribuire adeguatamente a 11 Mauro Fezzi Dirigente generale del Dipartimento Agricoltura e Alimentazione della Provincia Autonoma di Trento mantenere il territorio montano e a conservarlo da fenomeni preoccupanti come l’abbandono e la sottrazione di aree agricole a causa dell’avanzare del bosco, rinsaldando maggiormente il rapporto fra l’uomo e il territorio in cui esso vive. Tale aspetto riveste particolare importanza in quanto è sempre più avvertita la necessità di coniugare gli interessi specifici produttivi con l’ambiente e il territorio offrendo all’ospite delle nostre regioni un ricco patrimonio culturale, paesaggistico e ricreativo. Il progetto promuove quindi il settore ovi-caprino, le sue produzioni e le attività connesse attraverso lo sviluppo di strategie coordinate fra agricoltura, artigianato e turismo con l’obiettivo comune di promuovere e far comprendere alla società intera la sua importanza per la salvaguardia dell’ambiente, delle tradizioni locali e del reddito degli abitanti delle zone rurali e montane. Questo libro propone immagini e testimonianze, storiche e attuali, della pastorizia ovi-caprina trentina caratterizzata, sia a livello storico che evolutivo, da elementi simili ad altre regioni del versante meridionale delle Alpi. Pecore e capre erano un tempo parte integrante dell’economia familiare degli abitanti delle valli trentine e il loro allevamento ha tradizionalmente utilizzato le zone di pascolo più impervie e meno adatte ai bovini. L’allevamento ovino in Provincia di Trento conta circa 25.000 capi, distribuiti principalmente in una quindicina di greggi che ogni tanto capita di incontrare ai margini delle strade in costante ricerca di aree su cui pascolare. Infatti, tale allevamento è realizzato soprattutto mediante la pratica della transumanza di lungo periodo verso le aree del Veneto, del Friuli e del Bresciano, dove gli animali svernano utilizzando i pascoli presenti lungo i corsi d’acqua. La transumanza sta però incontrando sempre più difficoltà per cause di ordine sanitario, urbanistico e anche colturale. L’orientamento produttivo principale è quello della produzione di carne mediante la macellazione degli agnelloni a un peso di circa 40/50 kg. Ultimamente questo tipo di carne sta trovando un ottimo mercato nelle comunità di immigrati da paesi extracomunitari. Altro prodotto fornito dalle pecore è la lana, che è diventata negli anni purtroppo un grosso problema in quanto di difficile collocazione. Le razze ovine allevate sono generalmente appartenenti alla tipologia Alpino gigante (BergamascaBiellese-Tiroler bergschaf). Caratteristiche completamente diverse presenta invece l’allevamento caprino. La capra era considerata la “vacca dei poveri” e forniva latte, formaggi e carne. In quasi tutti i paesi il pascolo era la principale fonte alimentare delle capre e il pastore (caorar, caorer…) ogni mattina radunava gli animali richiamandoli mediante il suono del corno. Le capre uscivano dalle stalle, dopo essere state munte, e si univano in gregge per proseguire nei territori destinati al pascolo, per poi farvi ritorno la sera. Più avanti nel tempo, la produzione di latte caprino è stata soppiantata da quella di latte bovino, mentre è andata ad affermarsi una tipologia di allevamento per la produzione di carne, in particolar modo del capretto leggero, destinato alle tavole durante le festività pasquali. Ultimamente, nella nostra provincia si sta assistendo a una nuova riscoperta dell’allevamento caprino per la produzione di latte con razze specializzate (Camosciata delle Alpi e Saanen). Sono circa una decina gli allevamenti sorti in questi ultimi anni e a condurli sono generalmente giovani imprenditori con una grande passione e professionalità. Tre sono i caseifici trentini che da qualche anno ritirano e valorizzano il latte caprino, trasformandolo in formaggi di vari tipi. Recentemente si è provveduto a produrre anche latte alimentare fresco (particolarmente ricercato in special modo per le sue caratteristiche dietetiche). La consistenza del patrimonio caprino nella nostra provincia è in leggero ma costante aumento negli ultimi anni e conta circa 6000 capi. Sono sicuro che questo libro susciterà l’interesse del lettore per il mondo ovi-caprino e per i suoi prodotti, fornendo rare informazioni e testimonianze, raggiungendo così lo scopo che l’iniziativa si prefigge. Federico Bigaran, Massimo Pirola PRESENTAZIONE DEL PROGETTO ALPINET GHEEP Il progetto denominato “Alpinet Gheep, rete alpina per la promozione del settore ovi-caprino per uno sviluppo sostenibile del territorio” è stato sviluppato nell’ambito del Programma di Iniziativa Comunitaria INTERREG IIIB – SPAZIO ALPINO. Una rete composta da associazioni di allevatori, istituti di ricerca e amministrazioni locali, provenienti da Italia, Austria, Baviera, Slovenia e coordinati dalla Provincia Autonoma di Trento, Lead Partner del progetto, ha proposto la realizzazione di una serie di iniziative integrate volte a salvaguardare e promuovere l’allevamento ovi-caprino quale attività fondamentale per lo sviluppo sostenibile del territorio montano. La definizione del progetto è avvenuta a seguito di numerosi incontri preparatori nel corso dei quali le associazioni degli allevatori ovi-caprini hanno svolto fin dall’inizio un ruolo propositivo e dinamico individuando attività, iniziative ed eventi. La quantità del patrimonio zootecnico presente in un territorio rappresenta un indice di vitalità e di conservazione dell’ambiente, costituendo inoltre un elemento di attrattività ed equilibrio del paesaggio. La pastorizia, consentendo l’utilizzo di aree marginali non sfruttate per altri allevamenti o per coltivazioni, contribuisce alla valorizzazione del tradizionale paesaggio montano e alla salvaguardia dell’equilibrio ambientale. Nel corso degli ultimi decenni purtroppo l’allevamento zootecnico nell’area alpina ha registrato nel complesso una forte diminuzione sia come numero di capi allevati sia come numero di aziende, in seguito all’orientamento degli operatori verso attività più remunerative, in genere extra-agricole. Il progetto mira quindi a individuare, tramite lo scambio di esperienze e la realizzazione di studi specifici ed eventi, gli elementi conoscitivi e innovativi per promuovere lo sviluppo del settore ovi-caprino e stabilire una rete permanente tra i partner. Le iniziative proposte intendono migliorare, aggiornare e diffondere le conoscenze esistenti, stimolare un rafforzamento economico del settore ovicaprino, favorire il suo coinvolgimento nel tessuto sociale delle comunità montane. Il progetto si propone inoltre di elaborare strategie e buone pratiche per superare gli elementi di debolezza del settore, favorire interazioni positive con il turismo, l’artigianato e le politiche territoriali, e consentire 12 la sostenibilità nel tempo delle iniziative di rete. Il progetto si è concretizzato nelle seguenti attività principali: - raccolta e condivisione dei dati riguardanti le razze tipiche dell’area alpina per la salvaguardia del patrimonio genetico esistente. In particolare è stato pubblicato un atlante delle razze ovine dell’arco alpino, sono stati raccolti, elaborati e commentati i dati riguardanti il censimento e la registrazione dei capi e degli allevamenti ed è stata realizzata una indagine genetica su alcune razze ovine per individuare la distanza genetica fra razze e popolazioni; - realizzazione di analisi sensoriali, organolettiche e merceologiche per la caratterizzazione dei prodotti ovicaprini tipici, come carne, latte e formaggio; individuazione e promozione di alcuni prodotti innovativi, in particolare nel settore delle carni ovine, quali ad esempio il “cosciotto d’agnello precotto”, il “prosciutto di pecora” e i wurstel a base di carne di pecora; - elaborazione di modelli gestionali, quantitativi e qualitativi, per la migliore gestione dei pascoli e degli alpeggi da parte dei Comuni, delle Comunità montane e degli Usi Civici, prevedendo anche la restituzione su base cartografica delle aree adatte al pascolo secondo le varie classificazioni; - realizzazione di indagini, studi e azioni promozionali per lo sviluppo di nuovi strumenti commerciali a supporto delle produzioni ovi-caprine e per il miglioramento delle relazioni con il turismo e le attività artigianali, fornendo un panorama completo delle produzioni ovi-caprine e delle ricette su base regionale, elaborando uno specifico atlante dei prodotti tradizionali ovi-caprini consultabile tramite uno specifico sito web; - realizzazione di attività promozionali, in collaborazione con il settore dell’artigianato, per l’utilizzo della lana locale nel settore dell’abbigliamento; - realizzazione di numerosi seminari, incontri, azioni informative, rassegne di razze ovi-caprine, partecipazione a fiere e convegni al fine di promuovere il settore e divulgare le attività e i risultati del progetto; Il punto di forza del progetto sta nella capacità della rete di allevatori, governi locali e istituti di ricerca di scambiare e condividere esperienze e informazioni collaborando per il raggiungimento di obiettivi comuni: - le associazioni degli allevatori: provvedono alla messa a disposizione di dati e informazioni riguardanti il patrimonio genetico esistente nell’arco alpino, concorrono alla elaborazione di strategie comuni di promozione e 13 vendita dei prodotti ovi-caprini, promuovono l’aggiornamento professionale dei propri associati, individuano le esigenze territoriali e programmatorie; - gli istituti di ricerca: valutano e caratterizzano il patrimonio genetico delle razze autoctone definendo le strategie per la sua conservazione e miglioramento, elaborano studi sulle caratterizzazioni dei prodotti, analizzano sotto il profilo socio-economico il settore, valutandone l’impatto sulle aree dedicate alla pastorizia; - le amministrazioni locali: valutano gli impatti socioeconomici delle azioni proposte, la trasferibilità delle iniziative, elaborano gli indirizzi programmatori per la pianificazione territoriale che tengano conto delle esigenze del settore, individuano le azioni di informazione e promozione sociale a supporto al settore. I partner del progetto sono i seguenti: Italia PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO (PAT) ASSOCIAZIONE ALLEVATORI OVICAPRINI TRENTINI (APOC) ISTITUTO AGRARIO S. MICHELE ALL'ADIGE (IASMA) VERBAND DER SÜDTIROLER KLEINTIERZÜCHTER (VSK) AGENZIA REGIONALE PER LO SVILUPPO RURALE (ERSA Friuli Venezia Giulia) DIPARTIMENTO DI SCIENZE ANIMALI – UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE (UNIUD) ASSOCIAZIONE PROVINCIALE ALLEVATORI DI BESTIAME DI BERGAMO (APABG) ASSOCIAZIONE PROVINCIALE ALLEVATORI DI BELLUNO (APABL) Germania BAYERISCHE LANDESANSTALT FÜR LANDWIRTSCHAFT (LFL) BAYERISCHE HERDBUCHGESELLSCHAFT FÜR SCHAFZUCHT (BHG) WERDENFELSER LAND SCHAFWOLLPRODUKTE GbR (WLW) GESELLSCHAFT ZUR ERHALTUNG ALTER UND GEFÀHRDETER HAUSTIERRASSEN IN DEUTSCHLAND (GEH) Austria HÖHERE BUNDESLEHR- UND FORSCHUNGSANSTALT RAUMBERG-GUMPENSTEIN (HBLFA Raumberg-Gumpenstein) ÖSTERREICHISHER BUNDESVERBAND FÜR SCHAFE UND ZIEGEN (OEBSZ) Slovenia UNIVERSITY OF LJUBLJANA, BIOTECHNICAL FACULTY (UNIBFLJ) SHEEP AND GOATS BREEDERS ASSOCIATION OF SLOVENIA (ZDRDS) PASTORIZIA E TRANSUMANZA NEL TRENTINO IN EPOCA PREROMANA Franco Marzatico Direttore del Castello del Buonconsiglio, monumenti e collezioni provinciali, Trento Il lungo processo di domesticazione di piante e animali, che permise all’Homo Sapiens Sapiens di produrre direttamente risorse alimentari, rappresenta una delle tappe fondamentali nella storia dell’umanità. L’uomo si emancipa dagli esiti incerti di un’economia predatoria basata su caccia e raccolta, e comincia a sfruttare in modo pianificato i frutti della terra e gli animali domestici, non solo per la carne, ma anche per il latte e i suoi derivati, per lavori di fatica o per realizzare prodotti artigianali. È lo sviluppo di una nuova epoca, la cosiddetta Rivoluzione neolitica, che vede l’avvio di un processo di trasformazione nella vita dell’uomo. L’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento infatti, oltre a implicare profondi cambiamenti economici e nelle strategie di sussistenza, favorisce la sedentarietà e porta alla scoperta e alla diffusione della ceramica, fondamentale per la fabbricazione di contenitori atti alla conservazione dei prodotti agricoli e derivati dall’allevamento, che precedentemente erano costruiti in materiali deperibili come pelle e legno. È comunque importante sottolineare come tali mutamenti, che investono anche la sfera sociale, culturale e ideologica, non si verifichino immediatamente e simultaneamente. Se infatti l’attività agricola è documentata nel Vicino Oriente già nel IX-VIII millennio a.C., in quella zona chiamata Mezzaluna fertile, le prime testimonianze in Europa sono datate dal VII millennio a.C. e solo nei due millenni successivi le tecniche agricole conoscono una diffusa affermazione. Le testimonianze archeologiche e i possibili raffronti etnografici ci restituiscono un complesso quadro storico in cui sono nate e si sono sviluppate tante tipologie di agricoltura e pastorizia. Naturalmente la scelta delle colture e del bestiame da allevare, così come le modalità con cui si coltiva o si curano gli animali, sono condizionate da diversi fattori che cambiano nel tempo e da luogo a luogo, e tengono conto delle caratteristiche dell’ambiente e dell’affermarsi di tradizioni locali. Per quanto riguarda la pastorizia, è possibile ipotizzare come in epoca preromana il bestiame diventi sempre più un “bene”, divenendo cioè fonte oltre che di sussistenza anche di ricchezza. Tale importanza è evidenziata successivamente, in ambiente romano, dal collegamento semantico esistente fra i termini latini pecus (pecora) e pecunia (denaro). 15 14 Prime testimonianze di pastorizia in Trentino Le prime testimonianze archeologiche in Trentino di animali domestici sono databili tra la seconda metà del VI e gli inizi del V millennio a.C., al Neolitico antico. Negli abitati di La Vela, Riparo Gaban e Romagnano presso Trento sono stati portati alla luce resti ossei di capra/pecora, bovino e probabilmente di maiale, mentre a Riparo Gaban la presenza di bovini e caprovini è ipotizzabile in base al ritrovamento di escrementi fossili (coproliti) riconducibili a questi animali. A partire dalla seconda metà del IV millennio a.C., nell’area alpina centro-orientale si rileva alle alte quote una diffusa presenza di cuspidi di freccia in selce, che se da un lato testimonia il perpetuarsi di interessi venatori (per quanto la caccia rivesta un ruolo subordinato dal punto vista dell’economia di sussistenza), dall’altro lato può ricollegarsi, in base alla lettura di analisi polliniche, a una presenza umana più intensa con fenomeni di transumanza verticale (forme cioè di monticazione estiva o di alpeggio). A pratiche pastorali si riconduce la frequentazione fra il Neolitico tardo e l’Età del Rame (III millennio a.C.) del riparo sotto roccia di monte Baone, presso Arco, utilizzato probabilmente per il ricovero di animali. Nella palafitta di Fiavé, agli inizi del II millennio a.C., la stabulazione, cioè l’allevamento di animali domestici in apposite stalle, è testimoniata dalla presenza di coproliti e dalle analisi polliniche che indicano un’alta percentuale di fieno, stoccato con ogni probabilità per fare fronte al periodo invernale. Se durante l’estate capre e pecore dovevano pascolare sui versanti montuosi circostanti l’abitato, in autunno potevano scendere a valle e cibarsi delle stoppie lasciate appositamente nei campi, che così venivano utilizzate come foraggio per il bestiame. Lo studio dei coproliti ha inoltre permesso di riconoscere la stabulazione dei caprovini all’interno dell’abitato palafitticolo fra l’inverno e la primavera: per alimentare gli animali oltre al fieno si ricorreva, come avverrà in epoca storica, a ramoscelli privi di foglie in inverno e con foglie in primavera. La stabulazione e il pascolo presso gli abitati, attestati in ambito montano come in pianura, erano inoltre funzionali alla concimazione dei campi e alla produzione di prodotti secondari. Anche se è opportuno sottolineare come i dati sulla macellazione ricavati dallo studio dei resti ossei di Fiavé sembrino indicare un’economia orientata alla sussistenza piuttosto che all’incremento del bestiame. Oltre all’allevamento stanziale integrato dall’agricoltura, in area alpina sono ipotizzabili anche pratiche di pascolo transumante in senso orizzontale e verticale, fino alle alte quote montane, malgrado la presenza di testimonianze frammentarie che non permettono di definire le caratteristiche socio-economiche della pastorizia transumante attuata in zona. A partire dal Bronzo antico la presenza della specie Plantago Lanceolata, pianta che indica la presenza di pascoli, sembra indicare un maggiore impatto antropico in area alpina dovuto a «pratiche pastorali con la frequentazione sistematica dei pascoli in quota». Sono solo una decina i siti del Trentino Alto Adige/Sudtirol che, in termini di maggiore probabilità, vengono messi in relazione con forme di sfruttamento pastorale degli alti versanti montuosi. La composizione dei resti faunistici del riparo di Mandron de Camp sul monte Baldo sembra corrispondere a quella degli abitati coevi, e pertanto è stata ipotizzata una periodica “migrazione” in quota di piccole comunità accompagnate da tutti i loro animali, compresi i maiali. Per altri due siti trentini – Malga Vacil e Dosso Rotondo a 1900 metri di quota – è stato prospettato un possibile «modello di sfruttamento dei territori montani non molto dissimile da quello attuale, con un sistema di piccole “malghe” situate a breve distanza l’una dall’altra». Si ipotizza un utilizzo tipo “malga” anche per il sito di Corgnon di Lusiana (X-IX secolo a.C.), posto ai margini dell’Altipiano dei Sette Comuni in Veneto. Relativamente al fenomeno delle malghe, intese non solo come strutture economiche legate al pascolo, ma anche alla produzione di latte e suoi derivati, non sembra tuttavia possibile tracciare una linea di continuità dalla Preistoria a oggi. Basti pensare che in epoca romana non risultano in quota strutture assimilabili a quelle delle malghe, mentre nel Medioevo è accertato come in area alpina centro-orientale «intorno al X secolo fosse gradualmente avviato il processo di bonifica e disboscamento già cominciato in tutta l’area centroeuropea che consentì una lenta espansione degli insediamenti nelle regioni montane, soprattutto nelle valli laterali, nonché sui pendii e sugli altopiani». In epoca romana la pastorizia è peraltro accertata in ambito montano sia dal punto di vista archeologico – sulla scorta del diffuso ritrovamento di campanelle per animali e della segnalazione di “alpeggi in quota” – sia su base epigrafica, come mostrano le importanti iscrizioni confinarie sul monte Pérgol in Val Cadino, incise a oltre 2000 m di quota, e sul monte Civetta a nord di Belluno, dove sono note più iscrizioni realizzate fra i 1700 e i 2100 m. TRA PIANURA E MONTAGNA: GLI ARMENTI, I PASTORI, LA STORIA L’unità e la commistione di terre coltivate e di incolti sono un aspetto fondamentale del successo dell’economia rurale antica, alla cui gestione hanno contribuito inedite figure di contadini-allevatori formatisi nella piccola e media proprietà rurale romana. Entità capillari in pianura come lungo i fondovalle, in tutti i casi dove la morfologia ambientale lo ha permesso, controllate dalle élites urbane particolarmente interessate alla rendita fondiaria, come lo sono state anche per l’erbatico, essenziale per mantenere alto e redditizio il numero degli armenti posseduto, ovini e suini in particolare. Un fabbisogno per il quale l’incolto e il bosco sono stati e restano essenziali, costitutivi di un sistema che li unisce ai campi, alle vigne, ai prati. Dalla semina alla stagione del raccolto sono queste, infatti, le zone in grado di fornire il cibo necessario agli armenti, ma non solo. Esse assicurano anche altre ampie risorse, altrettanto ricercate: legno, minerali, materie prime, selvaggina, pesci, prodotti spontanei, vegetali e altro ancora. Se agli incolti, alle aree boschive e ai pascoli di montagna Enrico Cavada Soprintendenza per i Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento Docente di Archeologia Medievale Università degli Studi di Trento Do guarda quindi chi vive e opera sulle terre di pianura e nelle città, altrettanto verso queste ultime guardano le comunità che vivono sulle montagne. Genti che la scarsa possibilità di produzione porta ad aver bisogno delle aree contermini in posizione più favorita, instaurando e mantenendo con esse relazioni costanti al cui rafforzamento certamente ha contribuito anche la pratica dell’alpeggio. Alpeggio inteso non come elementare accesso stagionale in montibus da parte degli stessi alpigiani, ma come pratica interdipendente tra aree geografiche diverse attraverso la transumanza, ascendente e discendente. Una pratica di fatto naturalmente favorita da condizioni di stretta contiguità di aree geografiche pedologicamente diverse e da direttrici di collegamento interne prive di soluzioni di continuità incardinate su assi fluviali verticali, canale per spostamenti di varia natura: umani, armentari, commerciali. Plurime fonti indicano come, almeno fino al pieno Medioevo, a essere coinvolti nell’alpeggio siano gli ovini, mentre manca di documenti probanti quello dei bovini, che mal sopportano gli spostamenti oltre ad avere necessità di pascoli più 16 “comodi” e di ricovero e di apparati accessori stabili. Ovini quindi, fittamente diffusi nelle proprietà di tutte le regioni rurali dell’Italia settentrionale, nell’età romana come in quella medievale. Bestie a cui l’economia antica guarda con alto interesse per la facilità nel mantenimento e per la resa che esse offrono in termini di materie prime: la lana nel caso specifico piuttosto che altri tipi di prodotti (latte, carne, pelli). Lana che, in assenza di altre fibre di ugual valore, serve all’industria dei tessuti, di differente qualità e di vario genere. Tessuti e imprenditoria tessile reiteratamente ricordati dalle fonti e che già in epoca romana hanno reso fiorenti numerose città, quelle venete in modo particolare. L’esame archeozoologico dei resti ossei recuperati nei siti archeologici attesta l’assoluta predominanza degli ovini che, in molti contesti produttivi, con caprini e suini rappresentano il bestiame maggiormente allevato, con punte di oltre l’80% sul totale complessivo delle faune domestiche accertate. I medesimi resti indicano animali di statura piccola e robusta, rustici e adatti a un allevamento brado e, pertanto, al pascolo mobile, il che conferisce forza e peso al ruolo dei pastori nelle società del tempo. Pastori per i quali le fonti concordano nell’indicare un’estrazione servile, tuttavia sempre molto ricercati e tutelati. Lo fanno le norme giuridiche longobarde che ne salvaguardano ruolo e lavoro. L’editto che Rotari promulgò nel 643, contiene sanzioni molto severe e quote di indennizzo tra le più elevate a carico di chi feriva o uccideva un pecorarius o un armentarius esperto. Disporre di ottimi ed esperti pastori è altresì strategico nella messa a buon frutto dei patrimoni. Sempre in età longobarda ne è consapevole il re Liutprado (712-744), che si preoccupa di averli costantemente sulle proprie terre. Altrettanto Desiderio, suo successore, che nel 760 amplia le donazioni al monastero regio di Santa Giulia e concede coltivi e spazi incolti lungo i meandri del fiume Mella, assicurando allo stesso gli strumenti umani per metterle in valore: quattro servi con le rispettive famiglie incaricati di pascolare i porci, le pecore e le vacche del monastero in quelle terre già note e ricercate per il pascolo in età augustea, come ricorda Virglio. Che il monastero bresciano avesse necessità di pastori lo rivela il suo multiforme e redditizio patrimonio armentario, sparso nelle aziende dipendenti sia in montagna (Bradellas/Pian Camuno, Sure/Sovere e Clusune/Clusone a nord del lago d’Idro) sia nella bassa pianura lombardo-bresciana (Alfiano/Alfianello o Alfiano Vecchio alla confluenza tra Oglio e Mella). Aziende nelle quali complessivamente sul finire del IX secolo stazionano più di 1000 ovini. Richiamare i dati del monastero bresciano longobardo risulta utile non solo per testimoniare l’entità delle rese, ma anche per valutare la dislocazione in ambienti diversi e 17 complementari fra loro degli armenti, funzionale a un proficuo sistema di gestione. Altrettanto si può pensare abbiano fatto i proprietari terrieri romani per ricercare il necessario equilibrio fra attività agricole e allevamento. Questo infatti emerge da una ricerca multidirezionale e ad ampio spettro sulla pastorizia antica, condotta nell’ultimo decennio dalla Scuola archeologica patavina nell’area veneta. Regione ricca e produttiva, nella quale si compenetrano (e si integrano in un continuum privo di soluzioni) tre ampie fasce geografiche: quella costiera e lagunare, caratterizzata da paludi e risorgive, poco utile alle coltivazioni e dove ampia è stata in passato la possibilità di pascolo invernale; la pianura interna e il pedemonte con terre vocate alla migliore pratica agricola e alle coltivazioni intensive più redditizie (cereali e viti in particolare), aperte agli armenti nel solo periodo di stasi del ciclo agricolo. Armenti richiesti dai coltivatori quale unica forma possibile di concimazione prima di procedere a nuova semina. A queste due zone seguono gli altopiani e le montagne, dove l’erba fresca abbonda per molti mesi, offrendo ciò che la pianura da sola non è in grado di assicurare per l’intera durata dell’anno all’allevamento ovino. La complementarietà tra queste aree risulta chiara da plurime fonti documentarie, testimoni di un orizzonte di solida economia che fin dall’età romana è stata in grado di corrispondere alle ambizioni di promozione e affermazione di chi ne è stato partecipe. Un esempio lo offre C. Firmio Rufino, singolare figura di aristocratico romano vissuto nella Feltre romana del II secolo d.C. e coinvolto in diverse attività imprenditoriali nonché referente di alcune potenti corporazioni professionali che, nella città di residenza ma anche a Belluno e ad Altino, univano i lavoranti della lana grezza, del legno e dei metalli. Riferimenti interessanti questi, che pongono in evidenza rispettivamente il caposaldo e lo snodo interno di smistamento verso il comparto montano di quella che risulta essere stata un’importantissima direttrice, la valle del Piave, ponte tra la laguna altoadriatica e le zone alpine oltreché nerbo di una rete di percorsi minori, strategici nella ramificazione stagionale dei movimenti armentari che si ritiene l’abbiano percorsa. Gli stessi riferimenti in qualche maniera aiutano a comprendere le ragioni e i fondamenti di un secolare fenomeno di movimento transumante che, probabilmente già nell’età antica e quindi durante tutto il Medioevo e oltre ancora, ha portato le greggi e i pastori feltrini a scendere stagionalmente nella pianura veneta per andare a occupare le “poste” collocate in quella che è stata la campagna altinate romana e i suoi immediati margini, spinti fino a Concordia. Una pratica tramandata che di fatto viene a ripercorrere nei due sensi di marcia, anno dopo anno, ampi tratti della via Opitergium-Tridentum, strada romana segnalata nel III secolo e successivamente tra il centro veneto di Oderzo e Trento attraverso il Piave, Feltre, il Tesino e la Valsugana. In età romana e ancor più nei secoli successivi gli incolti, il bosco, le aree di pascolo mai sono “liberi”: appartengono sempre a qualcuno. Principalmente sono aree del pubblico demanio (silva e pascua publica) e, quindi, del fisco regio che le concede in esclusivo godimento a gruppi di contadini-allevatori, che ne fanno uso comunitario attraverso l’esercizio di un diritto (ius compascendi). L’uso poteva essere gestito però direttamente dalle municipalità o dalle comunità autonome alpine attraverso la stipula di contratti e conseguente riscossione di canoni, in denaro oppure in natura con consegna di prodotti e animali vivi. Canoni che, con l’incremento delle carte scritte rimaste negli archivi, risultano sempre presenti e applicati, secondo consuetudini da ritenere senz’altro precedenti. Interessante, da questa angolatura, è un’annotazione che il geografo greco Strabone fa a proposito di coloro che vivono sulle montagne alpine. Da un lato, da posizioni etnocentriche, ne sottolinea povertà e primitività, dall’altro si stupisce per le quantità di formaggio di cui queste genti dispongono, al punto che è per loro forma di ricchezza e scambiato nei centri di pianura per ottenere «cibo e tutto il resto» di cui necessitano. In un contesto tradizionalmente avaro di eccedenze, lecito è interrogarsi se questo surplus caseario, così elevato e singolare da essere ricordato, derivi da una produzione interna oppure se diversamente provenga da canoni versati da pastori transumanti per permessi di transiti e possibilità di accesso alle aree di pascolo, di cui le valli alpine abbondano ben oltre lo stretto fabbisogno. Con il pieno Medioevo altri soggetti prevalenti si affacciano e si affiancano a quelli antichi, attratti dalle possibilità di sfruttamento dei pascoli alpini. Attraverso concessioni, acquisizioni e usurpazioni, monasteri, autorità ecclesiastiche, comunità montane neocostituite, centri urbani, signorie territoriali vengono così a modificare la geografia dello spazio “incolto”, generando altresì tensioni e scontri comprovati sul duplice versante della documentazione scritta e dei testi narrativi. Pescando in maniera del tutto casuale nella documentazione trentina del XII-XIII secolo si possono ricordare la rapina delle greggi perpetrata dai Signori di Caldonazzo super montaneas vicentinas sul finire del Duecento oppure l’ordalia (pugna inter duos pugnatores, deus iustus iudex) condotta nel 1155 di fronte ad autorevoli testimoni – il vescovo di Trento Eberardo e alioroum bonorum hominum – per risolvere il diritto di possesso e usufrutto del monte Movlina, in Val d’Algone. Monte conteso tra gli uomini di Bleggio e di Rendeva, con giudizio risolto a favore dei primi di cui tuttora permangono gli effetti. Leggermente più recente ma di non minore interesse un terzo caso che vede coinvolta l’aspra catena del Lagorai, tra la Valle dell’Avisio e quella del Brenta/Tesino: territorio ricco di pascoli e boschi rimasti fortemente negli interessi di Feltre fino all’età moderna. Preme richiamarlo per i contenuti, ma soprattutto perché rappresenta un formidabile caso di continuità di sfruttamento delle creste montane dall’antichità in poi. Siamo agli inizi del Trecento e il vescovo di Trento, nel 1314, emana un decreto che, recuperando gli antichi diritti di accesso, uso e sfruttamento esercitati da più di duecento anni dagli uomini di Fiemme conferma loro la piena disponibilità e usufrutto collettivo dei monti che circondano la valle e fra 18 essi quelli di Cadino, Cadinello, Campolongo, Valmoena, Lagorai ecc., tutti ubicati «ultra Avisii apud episcopatum Feltrensem et Bellunensem» e rivendicati nel rispetto di una demarcazione molto più antica, come – scrive l’autorità – «ci consta da parecchie persone nobili e non nobili, degne di fede, le quali asserirono davanti a noi, con loro giuramento, dopo aver toccato le Scritture sui sacri Vangeli di Dio, che tutti i singoli monti sopraelencati erano sempre stati degli stessi uomini della detta nostra Valle di Fiemme [...] della nostra diocesi tridentina». Sul fronte del Lagorai, consapevolmente o meno, questo atto altro non ribadiva che un limite di demarcazione immemorabile, che oggi pienamente può essere confermato dalla riscoperta di un antico termine posto inter Tridentinos et Feltrinos più di tredici secoli prima. Un testo chiaro nei propri caratteri monumentali incisi al centro di una tabella ricavata sulla parete nord del monte Pergol, attorno ai 2000 m di altitudine. Poco importa in questa sede quando esattamente tale iscrizione è stata posta, ovvero se in coincidenza dell’assegnazione delle aree pubbliche ai neocostituiti municipia romani di Trento e di Feltre oppure se più tardi, nel corso della prima metà del I secolo d.C., a soluzione di una questione de iure territori nel frattempo intervenuta. Ciò che importa è invece osservare quali siano i referenti destinatari del testo che – vista la sua particolare dislocazione – possono soltanto essere coloro che “per mestiere” venivano fin qui a inerpicarsi; non di certo dei cacciatori o dei viaggiatori, ma a ragion veduta i conductores delle greggi, i soli ad avere di fatto interesse a raggiungere i pascoli del Lagorai, fino alle quote più elevate e impervie. Questo peraltro non è un esempio isolato nel comprensorio alpino. Altre iscrizioni confinarie del tutto simili per formulario, collocazione e datazione sono infatti presenti anche nelle Alpi bellunesi e ulteriori testimonianze potrebbero esistere altrove. Caso questo dello straordinario patrimonio di segni e graffiti presenti lungo i sentieri del monte Cornon in Val di Fiemme e in altri siti delle montagne limitrofe, in coincidenza con aree di pascolo e di cui in questo stesso volume si occupa Marta Bazzanella, la cui documentazione critica potrebbe fornire interessanti elementi di novità. Più arduo è individuare i segni materiali diretti lasciati dall’alpeggio e dalla pastorizia antica sulle Alpi. Né questo deve stupire considerato come tali attività e l’esercizio di quelle connesse, per loro stessa natura, sono state sempre a bassissimo impatto sull’ambiente, tanto più quando a essere coinvolto è il bestiame minuto, difficilmente legato a fissità di strutture e di sedi. Per il periodo romano le testimonianze concordano nel riferire di pastori dotati di attrezzature e ricoveri mobili, trasportati con animali da soma aggregati agli armenti, che 19 seguivano i loro spostamenti sui pascoli. Per avere i primi sicuri riferimenti circa la presenza di costruzioni nelle aree di malga si deve attendere il basso e tardo Medioevo e, soprattutto, si deve attendere il cambiamento del patrimonio zootecnico portato sull’alpe, quello bovino, che è quello che più necessita di strutture ospitali, come ha modo di evidenziare Emanuela Renzetti nel suo saggio. La presenza o meno di ricoveri, di altri apprestamenti e di recinzioni strutturate nelle aree di pascolo sfruttate in età premedievale attende comunque maggiori approfondimenti e soprattutto più mirate capacità di rilievo e di interpretazione, sul modello di quanto è stato fatto ad esempio nelle Alpi francesi, dove i risultati archeologici non mancano con differenze anche notevoli rispetto a quanto si è portati a ritenere sulla base di documenti posseduti. Certamente i pastori, che Varrone – autore nel I secolo a.C. di un noto trattato sull’agricoltura e l’allevamento – raccomanda essere robusti per sopportare i disagi del pascolo in montagna, sono stati capaci di servirsi al meglio di ciò che i luoghi attraversati offrivano loro, nelle più diverse condizioni e situazioni, adattando e provvedendo direttamente alla realizzazione di elementari strutture per le proprie necessità. Apprestamenti per i quali il medesimo autore usa il significativo quanto eloquente termine di «casae repentinae». Il recupero di frammenti di antiche stoviglie in ceramica nella zona di passo Giau e in Val di Crepa, a monte di Mazzin in Val di Fassa conferma l’uso a ricovero temporaneo di ripari sottoroccia, sicuramente in età tardoromana e altomedievale. Altro diretto riferimento circa la frequentazione di queste stesse zone lo forniscono delle cuspidi in ferro per armi da getto rinvenute in Val di Stava, in Val Ciamin sull’altopiano di Tires/Siusi, nella zona di Mandra di Vael e a passo Lusia in Val di Fassa, sui pascoli di Col del Moro in Val Badia. Manufatti perduti tra la protostoria e il primo Medioevo che, più per tradizione che altro, si è portati a ritenere legati all’esercizio della caccia, anche se nel contesto culturale ed economico cui ci riferiamo essa ha caratteri ormai del tutto occasionali. Ne consegue quindi anche per questi manufatti, se non tutti almeno una parte, la possibile relazione con l’alpeggio, trovando questa lettura sostegno in un ulteriore appunto di Varrone, allorché raccomanda di provvedere che i pastori siano muniti di armi dovendo difendersi e difendere gli animali loro affidati «a bestiis ac praedonibus», da bestie predatrici e da ladri. Un’ultima considerazione può essere ancora fatta per questi reperti, ai quali si possono aggiungere delle monete romane imperiali e altri piccoli manufatti d’uso personale o di abbigliamento ritrovati nelle medesime condizioni. Si tratta sempre di oggetti di natura mobile, isolati e privi di contesto specifico, ma a ben vedere distribuiti lungo possibili itinerari di risalita, dal fondovalle verso la montagna. Itinerari che talvolta hanno nel proprio raggio e in posizione intermedia dei modesti centri abitati indigeni quale può essere stato, nel Tesino, il villaggio innalzato sul dosso di Sant’Ippolito in corrispondenza della secolare via di transito che da Feltre attraverso Lamon portava alla Valsugana, ma anche verso il passo del Brocon o il cuore del Lagorai. Altro esempio, quello del doss Zelor nella bassa Val di Fiemme, sede abitata tra il I e il VI secolo lungo la via di risalita obbligata dalla Val d’Adige verso il comparto dolomitico. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di insediamenti che vivono di ciò che l’altitudine e le scarse e magre terre che li circondano possono loro offrire. Rese mai abbondanti, integrate certamente da importazioni: beni strumentali, utensili, monili, forse generi alimentari, mentre tra gli abitanti circola del denaro, oggetto anche di forme di tesaurizzazione e risparmio. Le modalità di afflusso di questi beni sono state certamente molteplici, ma non è una novità prospettare anche nei pastori e nel transito stagionale di armenti una realtà di intermediazione. Pastori a contatto con culture, realtà e ambiti economici diversi. Inoltre essi trasportano un bene materiale vitale per la sopravvivenza stessa di uomini e animali: il sale, che ha come area privilegiata di approvvigionamento le aree lagunari, dove tradizionalmente le greggi svernavano prima di riprendere il cammino verso le Alpi. Sale assente in montagna, di cui i pastori hanno bisogno per alimentare le bestie. Una necessità ineludibile che meglio si comprende ricordando come la scienza veterinaria e la testimonianza pratica di pastori moderni concordino nell’indicare un fabbisogno giornaliero minimo di circa 3-4 gr di sale per ciascun capo allevato, che rapportato a un gregge di medie dimensioni, di 700-1000 capi ad esempio quali ne possedeva un ricco proprietario romano o medievale, porta a un quantitativo annuo di almeno 30/40 quintali. Questo senza contare che il sale serviva anche per numerosi altri scopi: farmaceutici per curare ferite e per lavare gli animali dopo la tosatura, conservativi per trattare e lavorare il formaggio e altri prodotti animali derivati (pelli e carne). Un’altra relazione antica lega armenti, transumanza, pastori, sale, commercio: il culto di Ercole, attestato in maniera piuttosto ricorrente in corrispondenza di tratturi e vie armentarie, come anche in centri di smistamento, sia nell’Italia peninsulare sia nel territorio alpino. Ambito nel quale non fa difetto la regione trentina, dove il culto di Ercole risulta attestato da numerose testimonianze. Molto spesso si tratta di piccole raffigurazioni in bronzo, che ritraggono l’eroe divinizzato combattente e in posizione d’assalto a rimarcare la capacità di sicura protezione contro qualsiasi forza naturale. Alcuni esempi provengono dalla Valsugana e dalla Val di Non. Altri casi sono espressi da epigrafi votive poste su piccoli monumenti e altari pubblicamente offerti per “grazia ricevuta”. Se ne conoscono nelle Giudicarie e, ancora una volta, in Val di Non, dove merita di essere ricordato il pezzo recuperato a Sanzeno e dedicato a Ercole da un devoto locale, che “firma” il proprio nome con il gentilizio Silvinus. Può essere solo suggestione, ma questo termine legato a una famiglia del luogo indubbiamente richiama un ambito e un’attività che hanno a che fare con la selva, non necessariamente qui intesa solo come bosco e incolto, quanto piuttosto come “contenitore” di molto altro, fino a comprendere campi, pascoli, prati e perfino villaggi come ben ha illustrato Chris Wickham parlando dell’Italia rurale al tramonto dell’età antica. 20 PRATI E PASCOLI DI IERI E OGGI L’importante cambiamento del patrimonio zootecnico registratosi nell’arco alpino che ha visto sostituirsi all’allevamento ovino quello bovino è fenomeno noto, ma ciò che è ancora argomento di discussione è il periodo in cui si è verificato, con quale andamento e per quali ragioni. C’è chi sostiene che le vacche abbiano cominciato a scacciare le pecore dai pascoli dal Medioevo, e c’è chi tende piuttosto a retrodatare l’inizio dell’incremento di buoi e mucche all’alto Medioevo, ridimensionando l’importanza del fenomeno e accordandogli minor peso. Alcuni lo considerano in rapporto all’aumento di popolazione sull’intera catena montuosa: in tal caso lo vedono o in funzione di un’accresciuta capacità di carico di lavoro necessario all’allevamento in stalle durante l’inverno, oppure legato all’esigenza di acquisire nuovi appezzamenti coltivabili razionalizzando lo sfruttamento del suolo secondo l’idoneità ambientale e altimetrica. Altri invece lo interpretano come risultato di specifiche specializzazioni produttive, di richieste dei mercati, di decadenze o gusti. In ogni modo, poiché l’area di volta in volta indagata sembra porre vincoli o facilitazioni peculiari, si è convenuto di considerare questo mutamento dell’allevamento come un fenomeno differenziatosi regionalmente, talvolta con vere rivoluzioni, talaltra con lentezze; oppure, guardando all’intero spazio alpino, la tendenza alla trasformazione del patrimonio zootecnico è stata prudentemente classificata di lungo termine. 21 Emanuela Renzetti Docente di Antropologia Culturale e Storia delle Tradizioni Popolari Facoltà di Sociologia Università degli Studi di Trento La leggenda del Prato delle pecore Anche per il territorio dell’arco orientale delle Alpi, come per altri in cui gli approfondimenti non sono stati particolarmente numerosi, è difficile stabilire momenti di passaggio certi; tanto vale quindi avviare la riflessione partendo da un argomento che gode di una particolare incertezza cronologica: una leggenda. Le leggende, infatti, spesso legate ai luoghi, cercando di spiegarne l’origine o dandogli nome, attestano una qualche propria storicità e, insieme, quella degli usi o delle consuetudini che narrano. Si racconta a proposito del Prato delle pecore, sul monte Tombea, tra la Val di Ledro e la Valvestino, che greggi di pecore e pastori siano stati ridotti a cadaveri da un terribile temporale scatenatosi d’improvviso quasi a punirli giacché pascolavano su quel monte contro ogni diritto. I massi che vi si vedono coperti dai detriti e dall’erba sono appunto quei miseri corpi insepolti. Altrove, per le montagne del Trentino, la leggenda si ripropone con piccole differenze: i massi sono bianchi proprio come le pecore, i fulmini hanno pietrificato i corpi e la causa del nubifragio è l’invocazione della parte lesa nella controversia per il pascolo. La leggenda narra tuttavia con chiarezza alcuni fatti di pastori, di ovini e di diritti sui prati. All’alpeggio, già dal XIII secolo, sono condotti prevalentemente greggi di ovini: gli animali di cui si ha notizia sono pecore. Il territorio della Valle di Ledro, colonizzato in epoca assai remota, è stato sempre libero da domini feudali fin da quando fu donato al vescovo di Trento poco dopo il Mille; era denominato “magnifica comunità” e aveva un governo popolare, il che spiega i pascoli comuni in montagna e purtroppo anche le liti. Il paesaggio agrario montano, infatti, era caratterizzato un tempo – e non solo nella zona della leggenda – da nuclei insediativi nel fondovalle, le ville, circondati da campi e orti recintati; sui versanti, con il trascorrere dei secoli, le fasce boschive sempre più erose da appezzamenti coltivati lasciavano spazio in quota ai prati destinati al pascolo estivo. Questi, come i boschi, erano beni comunali e la loro difesa, il riconoscimento e il mantenimento dei loro confini venivano vissuti come un diritto e un dovere di ogni comune e affidati alla sorveglianza della regola secondo le consuetudini e le esigenze espresse dai suoi membri. Le pecore, in Val di Ledro consegnate alla toponomastica, hanno costituito una risorsa preziosa per le popolazioni montane per l’utile del latte, delle lane, della carne e della pelle, per la contenuta incidenza dell’investimento che richiedevano, per la grande resistenza alle malattie che dimostravano e non ultimo perché sapevano adattarsi anche a pascoli molto alti, scomodi e difficili, oltre che a spostamenti davvero interminabili. Forse, proprio le virtù di questi erbivori che ne fecero aumentare il numero in maniera esponenziale, nel tempo, si ritorsero in un certo senso contro la specie facendole perdere la primazia. L’adattabilità e la resistenza la sospinsero sempre più in alto e verso la transumanza; la lana rustica venne svalutata a confronto di quella fine e morbida di esemplari esotici, il consumo della sua carne ridimensionato e il latte lavorato di frequente con quello della più “grossa” antagonista. Uno scrittore arguto e attento osservatore qual è Michelangelo Mariani verso la fine del XVII secolo, ricercando l’etimologia del termine Ledro, fornisce alla valle citata per la pastorizia una nuova fisionomia: «Il nome di Leder proviene dall’alemanno, che vuol dir di cuoio; e ciò, attesta la grande quantità di pelli bovine e altre che vi si fabbricano, stante il gran numero di bestiami che in essa valle vengono allevati». Lo sfruttamento dei pascoli e le liti tra famiglie Nella parte orientale della regione, sul tratto montuoso che verrà poi definito dolomitico, si sono conservati documenti, questa volta dunque notizie datate, che sembrerebbero dar conto delle prime scaramucce tra pecore e mucche. Nel territorio di Primiero, ma anche questo è un dato strutturale dell’assetto montano, le proprietà erano quasi tutte piccole. La differenza in termini di benessere e povertà tra famiglie, determinata dalla disposizione dei possessi e dalla conseguente produttività o dalle attività artigianali e commerciali integrative, si ripercuoteva sulla presenza e il numero del bestiame. Nella seconda metà del XV secolo si accende un’animata questione tra proprietari e non proprietari di pecore circa lo sfruttamento dei pascoli comuni, che anche qui hanno una notevole estensione. I non proprietari di pecore lamentavano il fatto che i benestanti sfruttassero i monti in maniera considerevole, più di quanto sette o dieci di loro non facessero, gravandoli con il proprio bestiame minuto e grosso, senza pagare per questo un censo maggiore. Naturalmente gli accusati si appellavano al rispetto dell’uso antico e difendevano la tradizione del godimento dei communia. Poiché era necessario giungere a una soluzione e dato che la questione si riproponeva periodicamente e rischiava di peggiorare, l’arbitrato stabilì che a ciascun capofamiglia fosse concesso di condurre al pascolo fino a duecento pecore nella regola in cui risiedeva senza dover pagare alcun censo. Chi avesse superato il numero stabilito avrebbe pagato l’affitto del pascolo per ciascun capo in più. Inoltre, il tema della pezzatura del bestiame fu composto stabilendo che ogni anno sarebbe stato destinato un pascolo esclusivamente alle “armente” sul quale per nessuna ragione potevano essere condotte pecore, considerate serio impedimento al pascolo dei bovini. Circa due secoli dopo, la stessa Valle di Primiero offre un panorama notevolmente mutato: altre fonti attestano infatti la decisione di riservare un pascolo ai soli manzi e vitelli, le “armente” giovani, e di limitare l’accesso dei capi al monte. In queste notizie si avverte sia la crescente pressione del bestiame grosso, sia la preoccupazione di non depauperare i prati, sia il progressivo spostamento delle zone di pastura per le pecore. Alla fine del Settecento risulterà esplicito dove debbano pascolare gli ovini: «a questi sono destinati i pascoli alpestri secchi e magri» sui quali godranno della compagnia dei cavalli. La supremazia territoriale bovina che va progressivamente affermandosi è del resto confermata anche per altre valli. Ancora Mariani scrive a proposito della Valle di Fiemme: «I pascoli delle cime dei monti riescono così copiosi e pingui che ogn’anno servono per gli armenti di lungo l’Adige da Bolgiano fin’all’Avisio; e di qui si cava grande emolumento di butirro e formaggio. In oltre (astraendo dal bisogno dei proprij bestiami di valle) servono le più alte cime delle montagne, per molte migliaia di pecore che ogn’anno vi vengono d’Italia». Nell’enfatizzare la ricchezza dei foraggi, la descrizione dà conto, forse con contorni un po’ troppo netti, di una transumanza e di un allevamento ovino che sembrano del tutto estranei al tessuto locale; vale a rettificare questa idea quanto accadeva a Mezzolombardo all’inizio del Cinquecento. Una vertenza sorge in quel periodo tra cittadini di Trento e uomini del comune. Da più di un secolo costoro erano soliti 22 affittare ai fiemmesi e ad altri forestieri che scendevano in pianura con le greggi una parte dei terreni comunali incolti incamerandone la rendita. Ora i trentini rivendicavano diritti di erbatico su quel suolo e pretendevano di non pagare durante i propri spostamenti. Dalla questione, che si protrasse vari anni e coinvolse molti testimoni, emergono le differenti provenienze dei pastori e delle pecore che transitavano da e per Bassano, da e per il Tesino e fuori e dentro le Giudicarie. La Valle Rendena, pure questa citata come luogo di origine di alcuni pastori che avevano affittato e correttamente usato i terreni incolti di Mezzolombardo, compare nelle zone particolarmente vocate all’allevamento individuate da Mariani. «Li fieni che si tagliano due, e sin tre volte l’anno, tutti si consumano in paese per gli armenti. I latticini che si fanno in non ordinaria quantità, oltre quelli che occorrono per uso proprio, vanno ogni settimana a Trento et altre città vicine, come anche le carni; a gran numero ascendono i vitelli, agnelli e capretti, che si spacciano in tutto l’anno […]. Oltre poi gli armenti e capi di bestiame che si allevano del paese, capita ogn’anno dal bresciano quantità di pecore per le quali servono le cime de’ monti che avanzano a’ paesani e s’affittano buona somma di fiorini». Risulterebbe dunque che le greggi appartengano tanto a locali quanto a forestieri, che si spingono su itinerari diversi che talvolta mettono in relazione la gente di montagna con la pianura Padana e veneta. Le forme di pastorizia sembrerebbero organizzate in differenti modi e potrebbero corrispondere non solo alla maggiore o minore abbondanza di pascoli, ma anche all’esigenza di garantirsi una rendita, o di disporre di più tempo di lavoro, o ancora alla necessità di stabilire facili contatti con le regioni di destinazione della transumanza invernale. Sarebbe questa una soluzione che vedrebbe il gregge locale aggiungersi a quello condotto da un pastore forestiero verso i pascoli montani per poi discendere, almeno in certe zone, verso i pascoli di pianura. I rapporti sarebbero in tal caso regolati da patti di compartecipazione sul prodotto di malga e lo sgravio lavorativo, oltre al vantaggio economico e al minor consumo di fieno durante la cattiva stagione costituirebbero validi incentivi alla scelta. Accanto a questa, l’altra possibilità di allevare bestiame minuto a livello domestico prevederebbe l’assunzione di un pastore locale per l’alpeggio estivo e l’eventuale aggiunta alle proprie greggi di quelle provenienti da altri territori, fino al completo carico degli appezzamenti in quota. In tal caso la relazione con i forestieri avrebbe potuto garantire lo smercio del formaggio e della lana. Durante l’inverno, invece, per preservare i propri pascoli e garantirne la riproducibilità e per evitare di consumare nell’ovile fieno necessario al bestiame grosso, le pecore avrebbero dovuto essere spostate sul fondovalle dei fiumi che garantivano pastura in zone paludose. Diritti di pascolo di tal tipo, ad 23 esempio lungo l’Adige, nelle anse di Egna, Termeno, Caldano e Bronzolo, erano esercitati dai vicini di Fiemme che li mantennero fino al Settecento. Intorno alla metà di questo secolo si sostiene che «il bestiame è uno di quelli articoli che più interessano il Principato e per la necessità di quello nell’agricoltura, e pel vantaggio delle sue lane, e per la fecondazione de’ sterili nostri terreni e finalmente per esser divenuto un oggetto ancora di esterno attivo commercio». Studiosi e notabili locali ritengono che se l’allevamento fosse incoraggiato e protetto da saggi provvedimenti potrebbe correggere la costante perdita che si registra sul fronte dell’importazione necessaria «al continuo consumo de’ nostri pubblici macelli». Varrà la pena ricordare che in un’inchiesta del 1791 il bestiame da carne per il fabbisogno interno veniva stimato intorno ai 2640 capi bovini e che la sola città di Trento ne consumava 1500 insieme a 10.000 castrati. Eppure, proprio a questo periodo, risalgono interventi esattamente contrari a quanto si auspica. Le operazioni di bonifica operate e la conseguente messa a coltura delle terre privano il pascolo di preziose quote di superficie, ad esempio, i vicini di Fiemme perdono i loro diritti lungo il corso dell’Adige. Più in quota l’espansione del mais, altrove lo sviluppo della gelsicoltura e della viticoltura limitano ulteriormente il prato e il pascolo. Le pecore perdono terreno, possono spostarsi meno anche verso la pianura, i coltivatori cominciano a restringere sempre più gli spazi che concedono perché il loro sistema produttivo è divenuto più equilibrato. Nonostante le difficoltà, la crisi non è immediata. La carne viene ancora richiesta e così pure i latticini e il pellame, persino la lana trova ancora collocazione anche se con minori profitti, ma il destino è segnato. Per tutto l’Ottocento il decremento è costante: le restrittive leggi forestali e l’orientamento più favorevole alla zootecnia bovina non possono certo arginarlo. Tra Otto e Novecento: un paesaggio che cambia Gli escursionisti e gli alpinisti che viaggiano verso l’Italia e cominciano ad accostarsi alle Dolomiti vedono ancora e ammirano stupiti le baite e le distese erbose cosparse di greggi. «Raggiunta Madonna di Campiglio decido di affrontare il monte Spinale. A mezza costa della montagna trovo tre malghe con capi bovini e conto trecento fra pecore e capre», scrive Kaspar Maria von Sternberg nel 1803. I racconti delle impressioni vissute sostando e risvegliandosi davanti a pareti rocciose stagliate contro l’azzurro mitizzano le atmosfere alpestri, non certo i pastori. Quegli uomini selvatici, che vivono isolati, producono formaggi e condividono l’esistenza con gli animali, sembrano una razza destinata all’estinzione: «La lunga abitudine a gridare al loro gregge su un declivo lontano, o a conversare attraverso le valli, aveva fatto tanta presa su di loro che sembravano del tutto incapaci di ridurre le loro voci alla tonalità delle regioni nelle quali la popolazione è meno sparpagliata». Tale la memoria che ne conserva Freshfield, singolarmente contrastante con il pacato silenzio da testimonianza finale che Segantini conferisce alla documentazione di vita dei pastori. Costoro che, come chiunque migri stagionalmente, erano divenuti agenti di collegamento e di cambiamento tra terre e culture diverse, a volte per molte generazioni, sarebbero stati presto costretti a cambiar mestiere. A Folgaria ad esempio, i pastori dell’Oltresommo in primavera andavano in Val di Non; d’autunno, scaricate le malghe, facevano ritorno all’altopiano giusto in tempo per veder arrivare l’inverno. Ripartivano infatti subito per la bassa mantovana. La frequenza abituale della zona e l’interazione con gli autoctoni aveva condizionato lingua e costumi. Il dialetto tedesco era diventato un nuovo dialetto, il Gai, una lingua tutta loro, e la conoscenza dell’Italia aveva contaminato le loro idee e li aveva resi partecipi di uno spirito nazionalista che diffusero nel proprio paese. Dalla pianura avevano anche riportato una particolare venerazione: quella per la Madonna di Ostiglia che era apparsa tra le fronde di un albero a una giovane pastora muta poi miracolosamente guarita. In quattro paesi dell’Oltresommo c’è ancora oggi quella immagine di devozione fatta dipingere nel 1861 da transumanti che non esistono più. A cavallo tra Ottocento e Novecento il numero degli ovini farà registrare un crollo improvviso, la grande crisi economica, l’emigrazione e le malattie ridurranno drasticamente il patrimonio, ma a favore del decremento giocheranno anche i confini politici e le leggi sanitarie applicate secondo alcuni con poco criterio. Insieme al numero dei bovini, che pur fluttuando è ovunque in rafforzamento, cresce anche quello delle capre. Tradizionalmente considerata la vacca dei poveri la capra, ancor più rustica e resistente della pecora, è pronta ad arrampicarsi su pascoli impossibili e disposta ad alimentarsi con gli scarti degli altri erbivori. Emblema di povertà e insieme vero sostentamento, forniva latte alla famiglia e ai piccoli. Chi non possedeva nemmeno una capra era considerato davvero miserrimo. Allevata generalmente con altro bestiame, ora diventa unico gregge. Entra in questa forma nella mitologia popolare quasi dovesse riscattare la propria umiltà nel gruppo. È un gregge di capre, come vuole la tradizione popolare, che abbeverandosi e producendo più latte fa scoprire a Rabbi la sorgente terapeutica, e ancora un gregge è quello da cui viene sottratto il più bel caprín della Pastora protagonista di uno dei primi e più celebri canti dei cori alpini. Lei, la nuova custode delle greggi, nell’erba fresca e bella della montagna, non somiglia davvero in nulla ai suoi predecessori rudi e selvatici. 24 25 LE SCRITTE DEI PASTORI DELLA VALLE DI FIEMME Marta Bazzanella Giovanni Kezich Museo degli usi e costumi della gente trentina Sulle rocce calcaree del gruppo montuoso del LatemarCornon, in Val di Fiemme, nel Trentino orientale, si incontrano a monte degli abitati di Tesero, Panchià, Ziano e Predazzo scritte autografe realizzate dai conduttori della piccola transumanza stagionale delle greggi. Raffigurano sigle, date, segni di famiglia, conteggi di capi, segni sacri, piccoli decori astratti, talvolta abbinati a brevi annotazioni diaristiche, a qualche figura umana, animale o simbolica. I pastori dovevano pascolare il gregge avendo cura che il bestiame non oltrepassasse il limite superiore dei prati destinati alla fienagione. Compiuto lo sfalcio, tra agosto e settembre, anche i terreni di alta quota potevano essere adibiti a pascolo fino al sopraggiungere dell’inverno. La presenza di scritte tra i 1200 e i 1900 m di quota è quindi conseguenza di una forzata e prolungata permanenza dei pastori in tale zona che, pur con scarsa vegetazione e limitate risorse idriche, permetteva di sfruttare al massimo il territorio, senza dover intaccare le riserve di fieno. Le maggiori concentrazioni di scritte che coprono uno spazio di tempo di oltre due secoli – dal 1720 al 1940 – si localizzano sulle vie di accesso ai pascoli sovrastanti gli abitati. Tali vie di accesso, stante la conformazione orografica della zona, erano passaggi obbligati e non a caso sulle pareti rocciose delle zone di sosta si trovano palinsesti di scritte (come per il Corosso dai nomi in Valaverta) sui quali figurano associate non solo scritte di pastori, ma anche di cacciatori, falciatori e rastrellatori. Sono scritte di colore arancione, rosso o bruno, eseguite con un’ematite ferrosa (sesquiossido di ferro) localmente chiamata bol o bol de bèsa in quanto serviva per contrassegnare le pecore. Il pigmento veniva amalgamato sul posto con saliva, acqua o latte e come pennello veniva usato un rametto masticato a un’estremità per liberarne parzialmente le fibre. Nella maggior parte dei casi le scritte si trovano ad altezze comprese tra zero e due metri d’altezza, ma spesso anche più in alto, fino a 15-20 m dal suolo, su pareti rocciose lisce, verticali o strapiombanti. In questo caso l’accesso avveniva in inverno, quando la neve si accumulava ai piedi della roccia in seguito alla ripetuta caduta di valanghe e slavine; durante la bella stagione, invece, si utilizzavano tronchi d’albero dai rami opportunamente tagliati a mo’ di scala a pioli. L’ematite ferrosa è un minerale abbastanza frequente nella roccia dolomitica in forma di noduli d’intenso color ocra. Nel gruppo del Latemar-Cornon sono attualmente conosciute tre zone di affioramento dell’ematite, due delle quali sono state sfruttate a scopo estrattivo: si tratta delle miniere di Valaverta (Ziano) a 1540 m slm e di Valsorda (Predazzo) più o meno alla stessa quota. Il terzo affioramento è localizzato sul versante settentrionale del Latemar, a quota più elevata (2000 m ca.) e non è mai stato sfruttato in epoca storica. Qualche rinvenimento sporadico di grumi d’ocra nei pressi del passo di Pampeago in relazione a strumenti in selce di epoca mesolitica fa probabilmente pensare a uno sfruttamento dell’ematite anche di questa località o di altri affioramenti non ancora documentati. L’estrazione dell’ematite in Valaverta, sul comune catastale di Ziano di Fiemme, iniziata nel 1923, fu abbandonata verso la fine degli anni Venti, per fallimento, dopo soli otto anni di attività. Di primo acchito i contenuti delle scritte appaiono misteriosi e indecifrabili: vi sono sigle, nomi, date, numeri romani, disegni, frasi, brevi cronache o messaggi che si affollano sulle pareti della bianca roccia calcarea, come su grandi lavagne naturali, con un effetto estetico complessivo di notevole suggestione. Venivano solitamente disegnate le iniziali: prima del nome, poi del cognome, seguite dall’anno, dal numero di pecore e/o di capre. Spesso le iniziali erano accompagnate dalle sigle “F” o “FL” che significano rispettivamente “fece” e “fece l’anno”. Attorno al corpo della scritta venivano poi disegnati contorni e cornici a forma di edicola, ornati con cuori, motivi floreali, volute, animali, scene di caccia, talvolta anche l’autoritratto dell’autore. Ogni scritta risulta dunque espressione di individualità artistiche ben precise. A volte le scritte sono accompagnate da segni di famiglia, le cosiddette nòde, che compaiono successivamente al 1772 (Vanzetta, 1991, 17) e interessano esclusivamente “autori” appartenenti a famiglie di Ziano di Fiemme. In questa località infatti i cognomi risultano poco diversificati (Zanon, Zorzi, Partel, Vanzetta, Giacomuzzi) ed era quindi necessario ricorrere all’uso di soprannomi e segni di famiglia per una più certa identificazione del singolo e delle sue proprietà (animali, attrezzi ecc.). Dall’osservazione delle scritte emerge inoltre una notevole specializzazione del mestiere di pastore, esiste il pecoraio (besae), il capraio (caorae), il pastore di agnelli (agnelaro) e di caprette al primo anno di vita (anzolae). Caprette e agnelli venivano separati dal gregge per poter mungere con profitto le madri. Per cercare di fornire una spiegazione a queste scritte, dobbiamo concentrarci sulla storia recente e passata di questa zona e inquadrarla quindi nel contesto dell’arte rupestre dell’intero arco alpino. Spesso nei siti dove ricorrono graffiti pastorali, di epoca moderna e contemporanea, si trovano anche manifestazioni artistiche incise o dipinte di epoche precedenti, pensiamo al Monte Bego e alla HauteMaurienne in Francia, allo Schneidjoch, al Kiennbach – Enngst e al Bluntautal in Austria, alla Val di Susa, alla Valcamonica – Valtellina e al Monte Baldo nella zona di Torri del Benaco. L’elemento che più avvicina tutte le scritte di età moderna e contemporanea è l’orografia del territorio: ci troviamo spesso in presenza, come in Val di Fiemme, di zone fortemente scoscese e impervie coperte di boscaglie e radure, che non favorivano uno sfruttamento di tipo agricolo. Ciò che colpisce inoltre, analizzando le località di ricorrenza dell’arte rupestre alpina e la loro cronologia, è la frequente ripetizione del binomio Età del Ferro – età contemporanea: ciò sta sicuramente a significare che la frequentazione delle zone al di sopra dei 1200/1500 m è avvenuta in modo massiccio e capillare prevalentemente durante questi due periodi: e in entrambi i casi, verosimilmente, per l’esigenza di accedere ai pascoli di alta quota nel tentativo di mantenersi in equilibrio in un’economia di sussistenza a impronta agrosilvopastorale. Lo stato attuale della ricerca non ci consente di determinare con esattezza quale possa essere stato il luogo preciso delle piccole gilde pastorali multifamiliari all’interno delle più vaste comunità contadine di valle, e quale e quanto alto potesse essere lo steccato sociale che precisamente le definisse. Certo è che l’uso socialmente condiviso di questo genere di pittografie/crittografie si fonda su un concetto elevato del prestigio semimagico della parola scritta, proprio di un mondo in cui essa non è ancora appieno moneta corrente, allude direttamente al carattere esclusivo e dunque in qualche modo iniziatico della fruizione dei messaggi criptati (iniziali, segni di famiglia, computazioni, simbologie...), e si ricollega perfettamente, nelle sue spiccate componenti di carattere propriamente estetico, a quanto sappiamo delle civiltà pastorali di tutta Europa, soprattutto per quanto riguarda la più volte rilevata naturale sensibilità del mondo pastorale, rispetto ad esempio a quello contadino propriamente detto, per le arti figurative, la poesia, la musica, la speculazione filosofica, lungo le linee di uno stereotipo culturale che, in Fiemme come altrove, appare, sulla scorta di questo patrimonio di scritte di notevole pregio artistico, pienamente confermato dai fatti. 26 I PROTAGONISTI DI OGGI Una parte del lavoro assegnatomi per questo volume prevedeva l’individuazione di alcuni pastori presenti sul territorio trentino, per conoscere le loro abitudini e tradizioni. Abbiamo deciso di intervistarne un certo numero, cercando di avere un campione il più possibile assortito e rappresentativo. Non ce ne vogliano i pastori che sono stati esclusi: sappiamo bene che ogni storia meriterebbe di essere raccontata. Lo svolgimento della ricerca e delle interviste ha messo in evidenza prima di tutto le differenze tra l’allevamento delle capre e delle pecore, e successivamente la differenza tra la pastorizia stanziale, con alpeggio, e la pastorizia transumante, con trasferimenti in pianura, talvolta fino al mare Adriatico. Alcune considerazioni generali I pastori non sono diffidenti come si potrebbe pensare. Nessuno ha rifiutato di farsi intervistare, spesso anzi mi hanno facilitato il lavoro, consigliandomi di raggiungerli nel luogo più comodo per me. Nella maggioranza dei casi sono stati disponibili anche a farsi fotografare, accettando un’ulteriore “invasione” nella loro privacy. I pastori e i proprietari delle greggi intervistati sono perlopiù trentini. In un paio di casi vengono da regioni 27 Anna Brugnara Consulente ed educatrice ambientale vicine. I lavoranti sono invece spesso stranieri: alcuni si destreggiano bene con l’italiano, altri a fatica. I pastori in genere hanno fatto la loro prima stagione di transumanti in età adolescenziale. Hanno ricordi molto vivi, e la raccontano come un’esperienza forte, avventurosa, segnata dal trascorrere dei giorni e delle notti all’aperto. I pastori non sono affatto scontrosi, amano chiacchierare ed essere informati su cosa succede agli altri pastori, nelle altre valli, oppure su cosa la Provincia e l’Ue stanno progettando nel campo dell’agricoltura, dell’allevamento e dei contributi. I pastori si sentono spesso sui gradini più bassi della società, in particolare nei periodi della transumanza, quando in pianura i campi vengono seminati e i pascoli non sono ancora praticabili, e sono costretti nei greti dei fiumi a elemosinare un po’ di erba. Oppure sull’alpe, dove i baiti in cui dormire spesso sono piccole catapecchie senza alcuna dignità. Le interviste vanno considerate come istantanee, brevi momenti che i pastori mi hanno dedicato, sapendo di collaborare a un progetto che intende sostenere non tanto economicamente ma “culturalmente” il loro lavoro e la loro realtà. Ho iniziato, per vincere la difficoltà di entrare in un mondo sconosciuto, incontrando una donna: Teresa. È stato facile, dopo averle spiegato le finalità del progetto Alpinet Gheep, farsi raccontare della sua vita avventurosa come aiuto-skipper in traversate oceaniche e del suo “approdo” in Val di Fiemme. Poi sono venute tutte le altre interviste. Prima dell’arrivo dell’inverno e della partenza per le pianure ho incontrato i pastori sempre con le loro greggi: alcuni sugli alpeggi, altri al momento della discesa al fondovalle. Altri ancora a transumanza già iniziata. In alcuni casi, mi è capitato di trovare il gregge sorvegliato da “operai” o amici e ho dovuto rimandare l’intervista. In queste giornate ho avuto tempo per fotografare le greggi al pascolo, il lavoro dei cani e dei pastori. Giornate intense, come quella sui pascoli del Monte Valandro con le nebbie basse a nascondere e svelare le pecore su prati sospesi sopra salti mozzafiato. Trovare i pastori tutto sommato è stato semplice; non altrettanto semplice “avere” il loro tempo. Se stanno sorvegliando il gregge la loro attenzione è parziale. Il pomeriggio dopo pranzo, quando anche il gregge sosta ruminando, sottrai ai pastori il riposo. Alla sera poi ci sono da preparare i recinti mobili e consegnare gli agnelli alle mamme. Fare il pastore non è romantico come si potrebbe pensare: è un lavoro reale, materiale, concreto… Lo sguardo del pastore non vede piante, montagne, cieli, ma pascoli, pericoli e passaggi, piogge o neve incombente. Incontrare i pastori ha significato trovare situazioni molto diverse, ma accomunate da gesti e attività abituali. Infatti tutti, alla domanda di descrivere la giornata-tipo, danno risposte molto simili. Per i pastori di capre la giornata inizia all’alba, con la mungitura, seguita dalla pulitura della stalla, dal pascolo guidato, dal riposo e dal rumine del gregge, infine dal rientro alla malga per la mungitura serale e la sistemazione degli animali per la notte. Segue la rigorosa organizzazione e pulizia delle attrezzature e il conferimento del latte ai caseifici o la produzione del formaggio. Per i pastori di pecore invece la giornata inizia con precisi imperativi: controlla che i tuoi animali stiano bene! Dove mangeranno oggi? E questa notte dove ti fermerai col gregge? Bisogna controllare se durante la notte sono nati degli agnelli e se i parti sono andati bene. Ogni agnello deve succhiare il latte dalla mamma e ogni pecora deve allattare i piccoli per evitare problemi di mastiti… ma non sempre è così. Spesso le pecore che partoriscono due agnelli rifiutano di nutrirli entrambi, quindi il pastore si deve organizzare con latte di capra o individuando una pecora primipara, che ha perso il suo piccolo da poco e ha latte. Inoltre non sempre l’agnello ritrova la madre; è il pastore che deve facilitare gli incontri (per questo le segna con il colore). Gli agnelli più piccoli devono essere trasportati nel furgone o dagli asini, e tenuti in recinti per proteggerli; per tre volte al giorno il pastore compie il delicato lavoro di attaccare i piccoli alle mammelle delle madri. La giornata del pastore di pecore varia a seconda di moltissimi fattori: se è al pascolo in montagna e non ha fretta di muoversi, se nascono molti agnelli, se piove o nevica, se quella notte un orso ha spaventato il gregge, se prevede di cambiare montagna per un pascolo più ricco, se sta transumando e c’è molta strada da fare, se il campo che pensava di pascolare gli viene interdetto dal contadino o dalla polizia municipale, se un cantiere lo costringe a compiere percorsi nuovi… La gente comune guarda i pastori con curiosità e a volte sa ammirare quello spettacolo della natura che può essere un gregge in movimento. Ma sempre più spesso la gente si spazientisce, ha fretta, la strada è sporca, le gomme dell’auto si sporcano, le scarpe pure. Qualcuno dei pastori è rassegnato ma sereno, e dice che le “parole” non hanno più il peso di un tempo. Altri sono rassegnati ma combattivi e hanno ben chiaro cosa cambierebbero, cosa vorrebbero da chi governa per migliorare le cose. Per qualcuno questo lavoro è la realizzazione di un sogno giovanile di libertà raggiunto una volta arrivato alla pensione. Per altri è prendere tutto il buono che c’è da prendere, caricarsi di energia nelle belle giornate, andare alle feste paesane d’estate, tardando il più possibile l’ora della partenza a novembre per abbreviare il lento trascorrere dell’inverno nei magri pascoli di pianura. Per i più giovani significa vivere a contatto con la natura organizzando tempi e modi di lavorare. Tutti amano i silenzi, gli odori, i colori e le luci del trascorrere delle stagioni. Per qualcuno, o forse per tutti, è una specie di malattia, di passione stare vicini agli animali, non dormire in una casa vera e propria, con fuori la notte vera, dove il buio è buio e lo sguardo può incontrare la luce delle stelle. Per qualcuno questa scomodità è linfa vitale, il sapore del caffè e del pane sono più intensi. Per qualcuno è fare quello che qualcuno ha sempre fatto prima di lui, prendersi cura degli animali… Altri hanno scritto della vita dei pastori, sicuramente qualcuno li ha conosciuti meglio di me. Io posso dire di essermi sentita molto vicina a loro, a volte li ho invidiati nelle limpide notti estive sui monti, in luoghi magnifici, nel trascolorare della sera in quei colori che rendono misteriosamente felici. Spesso da quando ho conosciuto i pastori la sera li penso, sotto le stelle, abituati al freddo, nel disagio di una noncasa. E mi interrogo, e il loro pensiero nutre le mie domande senza risposte. LUOGHI E PERCORSI DEI PROTAGONISTI DI OGGI CONFINI REGIONALI PASTORI TRANSUMANTI STEFANO ALDO VITTORIO, IVAN, PAOLO TEODORO LORENZO GUGLIELMO RUGGERO GIANNI PASTORI STANZIALI MARCO? TERESA CHEYENNE GRAZIANO? 30 31 ALPINET 0132TEODORO0042.JPG: tagliata??? manca fondo immagine 27 settembre 2006 Malga Prà Saent Parco Nazionale dello Stelvio, Val di Rabbi, laterale Val di Sole TEODORO La solitudine non mi pesa per niente. I momenti più difficili sono d’inverno, e peggio ancora se c’è la neve. Il momento più bello è senza dubbio l’alpeggio. “ Teodoro figlio di Menech (Domenico), è nato e risiede a Pracorno. È sposato e ha tre figli, il più piccolo dei quali ha 17 anni. Con loro passa poco tempo, perlopiù d’estate. Ha la licenza elementare, come sua madre e suo padre, parla il dialetto trentino e conosce le parole che i pastori usavano un tempo quando non volevano farsi capire: cuch (carabiniere), strada (calca), pauri (contadino). È stata Cheyenne, la pastorella della Val di Rabbi, a suggerirmi di andare a trovare Teodoro, visto che non mi trovavo troppo lontano. In verità lei su in Saent, mi ha confessato, non ci è mai stata, ma mi ha spiegato come arrivarci. Lasciata l’auto presso il rifugio Fontanin, in località Coler, proseguo a piedi per un paio di chilometri in lieve salita e incomincio il ripido sentiero che supera il salto glaciale del Saent. Dopo molti zigzag, comincio a capire che sto giungendo in un bel posto, di quelli che ti guadagni con almeno un po’ di fatica, senza facilitazioni. Una coppia di scoiattoli si rincorre salendo a spirale intorno al grosso tronco di un abete. Moltissime scaglie di pigne sparse a terra testimoniano il loro passaggio. Salgo per un’ora nella solitudine di un giorno feriale senza incontrare nessuno. Al termine della salita il sentiero aggira morbidamente alcuni dossi e inizia a scendere nella splendida conca glaciale. Sopra, le maestose cime lasciano fluire l’acqua di fusione dei ghiacciai, prima in modo segreto, poi discreto, tra le rocce, infine le acque si raccolgono e formano un rio. Il rio Rabbies attraversa la conca per poi buttarsi dal salto glaciale formando l’omonima cascata. Ora posso vedere la malga, ma, ahimé, non vedo e non sento alcun gregge, nessuna traccia sul terreno. Chiedo a una coppia di turisti tedeschi: «No, noi abbiamo fatto il sentiero dei Larici Secolari, non le abbiamo viste le pecore, però li alla malga c’è un uomo». Bene! Lo raggiungo subito. È Teodoro Daprà che, un po’ sorpreso e un po’ contento di fare due chiacchiere, è subito disponibile per l’intervista. Vorrebbe portarmi a vedere con i miei occhi il suo gregge che pascola a un’oretta di cammino, a quota 2300 e più, ma non ho molto tempo e temo che l’ora di cammino di cui parla lui si riveli troppo faticosa. Solitamente trovare le pecore è il mio obiettivo principale, ma per questa volta devo rassegnarmi. Lo sguardo di Teodoro non è di quelli che si dimenticano in fretta… un po’ mi imbarazza, ma poi iniziamo l’intervista nella quale mette una buona partecipazione. È con orgoglio che mi mostra il suo cane dall’iride bicolore, gli asini, che considera ottimi compagni di transumanza, e alcune pecore pezzate con agnello che sono rimaste giù a causa di qualche acciacco; io fotografo tutto e lo saluto. Tra pochi giorni ci rivedremo alla Fondazione di Bellat, per la prima rassegna ovi-caprina a Borgo Valsugana, organizzata da Alpinet Gheep. Lui e i figli porteranno le pecore per partecipare alla gara, e una vincerà la campanella come miglior primipara. 32 «Ho fatto il pastore dal 1963 per 6 anni. Poi ho fatto l’autista di pullman di linea. Da quando sono in pensione ho ripreso aiutando mio figlio. Faccio la transumanza ma da Pracorno a Feltre (Quero) gli animali li porto con il camion. Più verso Bassano unisco il mio gregge con quello di Lorenzo e facciamo tutto l’inverno assieme: stiamo in zona Bassano, poi giù intorno al Brenta, Grantorto, Piazzola, Padova. Poi se facciamo come l’anno scorso si va verso Caorle, poi su per il Piave, Ponte della Priula su verso Feltre fino a Pergine. Poi chiamo il camion per ritornare in Val di Rabbi». «Scendo giù da qui, a fine settembre, con il carretto per gli agnelli. I più piccoli, quelli ancora bagnati, li metto nel basto dell’asino, perché non camminano. Sempre a piedi, sto un mese in Val di Rabbi, prima di fare il viaggio per Feltre, con i camion. Anche il ritorno da Pergine a Pracorno è fatto in camion». «Venire su con gli asini va benone, è quello che cerco: che non si possa salire con la jeep. Il proprietario del rifugio mi ha offerto di portar su la roba con l’elicottero ma io ho rifiutato: mi piace così. Mi servo di 5 baiti, qui alla malga Prà da Saent sono solo da pochi giorni. Prima ero più su, a 2200 m. Qui sono nel Parco Nazionale dello Stelvio». «In questi giorni che non ci sono nascite o sono pochissime, e sono quassù, la mia giornata si svolge così: alle 6.30 il caffè. Controllo eventuali nascite, vedo se ci sono pecore zoppe e se serve faccio qualche puntura. Poi un’ora di cammino per portarle al pascolo. Guardo che bruchino per bene senza 33 sciupare l’erba, che rallentino. Alle 12 le fermo per 2 ore. Poi ci si muove ancora, al pascolo, per fermarsi poi a sera». «Il pascolo in montagna per noi l’è “ferie”, mentre la parte più faticosa è giù nel piano. La montagna ha tanto valore per me… l’è “oro” per le bestie: respirano aria buona. Guarda che soffrono il caldo giù le pecore. Quando vanno in alto, lì stanno bene. Nel piano arrivano prima i pastori veneti e “stufano” i contadini, così, quando arriviamo noi, ci mandano via, e troviamo poco da mangiare per le pecore. È un danno per noi. Loro continuano a passare e a ritornare negli stessi posti. I tonda, i tonda… Mentre noi evitiamo di passare 2 volte nello stesso posto… Oggi ci sono più greggi, sono più grosse, anche troppo, e sfruttano troppo il territorio. Poi quando arrivi tu con il tuo gregge, c’è poco da mangiare. Il problema è delle strade giù in pianura, nessuno più tollera che si sporchi… E ci sono troppe macchine». «In passato gli spostamenti con gli animali si facevano a piedi, con gli asini, la Val di Non la si attraversava così. La prima parte si faceva sui Monti di Cles, da Tuenno in giù attraversando meleti con i rami alti [vecchi meli non a spalliera come ora, ndr], e poi i vigneti giù nella valle dell’Adige. L’ultima volta che l’abbiamo fatto è stato nel ’71. Ora sarebbe impossibile transitare per lo stesso percorso a causa del diverso modo di coltivare le mele. Anche al Crescino, dove ora c’è il Biotopo, era un importante punto di sosta… ora ti farebbero il verbale. Si potrebbe fare facendo la Val Rendeva, con qualche buon aiutante». «In passato nel Veneto si pascolava nei vigneti, e i contadini erano molto gentili nella zona di Treviso. Per dormire si faceva un giaciglio con le fasce di canne palustri, sopra le pelli delle pecore, le coperte e infine, sopra, il telo per l’umidità». «Le pecore le ho contate ieri... lì al ponte sul rio Rabbies. A volte faccio due recinti e passandole da un recinto all’altro le conto». «Un tempo tosavamo a mano 60 pecore al dì. Nel ’68 venivano pagate 7000 lire per ogni kg di lana. Nella zona di Livenza dove tosavamo venivano i grossisti a sceglierla. Era un bel guadagno. Oggi la lana non vale niente. Ne abbiamo tosate 1016 la primavera scorsa e abbiamo speso 2000 euro». «Quest’anno i capretti e gli agnelli nasceranno a ottobre. Credo sia perché questa primavera non hanno mangiato abbastanza, allora le femmine non restano incinte; i maschi li lascio sempre liberi…. Un tempo i capretti e gli agnelli si vendevano a chi chiedeva: ai contadini, al macellaio… Anche se avevano cambiato i denti era lo stesso, si vendeva anche il castrato. Oggi vendo i capi a 7-12 mesi, quando pesano dai 45 ai 65 kg, a fine settembre e primavera a un grossista. Va poi tutta ai musulmani la carne…» «La solitudine non mi pesa per niente. I momenti più difficili sono d’inverno, e peggio ancora se c’è la neve. Il momento più bello è senza dubbio l’alpeggio». Non so se mi auguro che i figli continuino a fare il mio lavoro. Questo è un mestiere che non dà certezze, e io non sforzo nessuno. Credo che conti avere grinta e passione. Penso che la nostra tradizione andrà a sparire, se non veniamo protetti da leggi apposite, che per esempio ci facilitino i transiti. ” 34 35 2 settembre 2006 Tenno – Arco. GUGLIELMO Una volta era tutta un’altra vita: c’erano molti più sacrifici, non c’erano i mezzi di trasporto come adesso, non c’erano i recinti mobili tanto utili, non c’era il cellulare… “ Guglielmo, figlio di Giancarlo, pastore in pensione, e Annalisa, casalinga, è nato a Montebelluna e risiede a Feltre. È sposato e ha due figli piccoli, con i quali passa 3-4 mesi ogni estate. Ha un diploma da elettricista, parla l’italiano e il dialetto veneto. Nella sua famiglia fare il pastore è una tradizione: erano pastori il bisnonno, il nonno e il padre. Sull’“Adige” di ieri un trafiletto avvisava i lettori di possibili disagi alla circolazione: stamattina il gregge di Guglielmo dal Molin sarebbe sceso da Tenno verso la Valle del Sarca. Ore 7.30: millecinquecento pecore, agnelli e asini transitano sulla Statale 421 tra Tenno e Arco attraversando i centri abitati di Gavazzo, Cologna e Varone, preceduti da un mezzo dei vigili urbani che garantisce il transito del gregge senza intoppi. In testa il “vecchio” pastore Pero, pipa in bocca, folta barba grigia e cappello calato sugli occhi, con due cani al fianco. Lunghi fischi dei pastori rivolti ai cani, che abbaiano impegnati nel loro lavoro, precedono e accompagnano l’arrivo del gregge. È un momento molto suggestivo: gli animali occupano tutta la sede stradale come un fiume in piena, un fiume caldo e odoroso di erbe che avanza con un rumore sommesso, un leggero scalpiccìo di centinaia di zoccoletti sull’asfalto; lo scampanellio è lieve: solo pochi animali hanno la campanella al collo. Alcuni asini chiari e altri scuri procedono sparsi nel gregge; portano il tradizionale basto da carico. In coda al gregge Guglielmo e i suoi amici di Villa scendono rapidi al seguito di quello che a momenti sembra un corpo unico, compatto e armonico nel procedere a velocità più sostenuta. La gente incuriosita esce di casa. Le macchine sono ferme e qualcuno si avvicina velocemente con dei bambini per vedere scendere il fiume d’animali che avanza lambendo giardini, parcheggi, aiuole, campi, piazzali, marciapiedi. Alcuni proprietari dei giardini a bordo strada e degli esercizi commerciali sono pronti con scope e acqua per ripulire dopo il passaggio del gregge. Guglielmo mi promette che più avanti avrà tempo da dedicare alle mie domande: l’appuntamento è a Ceole. A Ceole il gregge è condotto dentro un incolto con alte piante d’artemisia. Le pecore incominciano a brucare in maniera quasi sistematica. Guglielmo e i suoi cinque amici di Villa si siedono per terra, bevono birra e vino, fumano sigarette e scherzano allegri. Guglielmo è un bel ragazzo: occhi azzurro intenso, capelli biondi mossi, un viso quasi angelico. I suoi amici sono rumorosi e continuano a stuzzicarlo. Lui è un po’ taciturno, ha l’aria di chi potrebbe addormentarsi lì, sull’erba dove se ne sta semisdraiato. Maria, proprietaria di pecore anche lei, mi racconta che la sera precedente, prima di iniziare la discesa da Ville Del Monte, hanno festeggiato con gli amici la fine dell’alpeggio, e sono andati a letto tardi, così ora, a metà mattina, con una temperatura estiva, a soli 80 m s.l.m. (siamo a pochi chilometri da Arco e da Riva del Garda) e con un pesante programma di spostamenti tra zone artigianali, svincoli stradali e campi coltivati, la stanchezza si fa sentire. Nel frattempo altri curiosi si sono avvicinati. Una donna con alcuni bambini piccoli ha raggiunto il marito, che aiuterà Guglielmo in questa prima parte della transumanza. Il camion del servizio pulizia strade del comune di Arco è già lì, pronto a seguire il gregge nel prossimo spostamento. Ma non c’è tempo per riposarsi, la sosta è breve; non è il momento buono per rispondere alle mie domande. Le pecore hanno brucato quasi tutto e Pero è gia in cammino verso un altro prato, un chilometro più avanti, in zona artigianale di Arco, dove il signor Michelatti della società Allevatori di Tenno ha individuato un grande prato. Peccato che per qualche malinteso sia stato falciato proprio il giorno prima, quindi l’erba è lì a terra già tagliata. Certo, alle pecore l’erba piace “tagliarsela”, ma sono animali che si sanno adattare, e per qualche ora staranno qui; ma già i 36 pastori stanno parlando del prossimo incolto dove recarsi per passare la notte. Guglielmo scompare con il suo pick-up, così mentre attendo che ritorni faccio due chiacchiere con il signor Michelatti e con il pastore Pero, che mi svela la sua età (53 anni) e mi racconta il motivo della vistosa fasciatura che ha alla mano sinistra: lo scorso anno un morso rimediato da un asino arrabbiato gli ha causato l’amputazione del dito mignolo e di parte del palmo della mano. Dopo un po’ Guglielmo ritorna con panini e birre, e finalmente mi dedica un po’ del suo tempo, che in questo momento è prezioso, spiegandomi l’itinerario che intende percorrere. Questo è solo l’inizio della transumanza per Guglielmo e i suoi aiutanti; fa molto caldo qui sul piano. Alle prime luci del giorno si sono alzati nei pressi del lago di Tenno dove avevano pernottato dopo essere scesi dai pascoli delle malghe Nardis, Tenera, sui monti Cadria e di Val Concei. La strada è lunga: impiegheranno circa un mese ad arrivare a Feltre dove vive la famiglia di Guglielmo (moglie e due bimbi piccoli); dopo Arco punteranno verso Mori, poi verso nord a Calliano; quindi saliranno sull’altipiano di Folgaria, per poi scendere in Valsugana. Una volta a Primolano, saliranno per la vecchia strada militare “delle Scale” verso Fonzaso e Feltre. La transumanza proseguirà poi verso la pianura veneta, giù da Valdobbiadene, per il Ponte della Priula, verso San Polo di Piave e avanti fino a Udine e a Cividale del Friuli. Verso marzo ci sarà il ritorno, con qualche cambiamento all’itinerario: «A seconda di com’è il tempo sto alto o basso [a nord o sud]… Se giù è troppo bagnato a causa delle 37 piogge sto più a nord che i terreni sono più asciutti, se invece è asciutto sto più in basso». Poi risponde alle mie domande senza grande entusiasmo ma quando ci lasciamo il suo sorriso e la stretta di mano sono sinceri e mi lascia il numero del suo cellulare nel caso abbia bisogno di ricontattarlo. «Ho iniziato a fare il pastore dieci anni fa: fino ad allora facevo l’elettricista, poi mio padre si è ammalato e io e mio fratello abbiamo cominciato ad aiutarlo. Lui non voleva che anche noi facessimo i pastori. Anche io non mi auguro che i miei figli continuino questa tradizione, ma queste sono passioni: se ci sono…». «La mia giornata si svolge così: mi alzo alle 5 e bevo il caffè, poi esco a controllare se ci sono nascite, consegno i piccoli alle mamme, dopo carichiamo sul furgone gli agnelli più piccoli, che non saprebbero camminare (quando siamo in movimento 9 mesi all’anno), carico un asino con il basto se c’è bisogno per qualche piccolo agnello. Quando invece siamo sui pascoli gli spostamenti avvengono a piedi e sono più limitati». “ I mesi che trascorriamo in montagna sono i più tranquilli. Un po’ tutti i momenti sono belli, se c’è un buon pascolo sei tranquillo, non sei stressato. «Per il pranzo abbiamo tutto nel furgone, siccome a mezzogiorno bisogna metter i piccoli (che sono nel furgone) alle mamme, quello è il momento anche per il nostro pranzo. Pomeriggio al pascolo, poi la sera 18-19-20 le chiudo nel recinto, rimetto i piccoli alle mamme che trascorrono con loro la notte. Si cena e poi a dormire». «Per la tosatura chiamiamo i tosatori, più 6 o 7 persone che ci aiutano; costa 1 euro e 80 a pecora, tosarle tutte mi costa 2500-2700 euro, e per la lana a volte mi danno 100 euro a volte niente». «Gli agnelli nascono tutto l’anno, li vendiamo quando hanno 6-7 mesi: li do a un commerciante». «Oggi per il pascolo ci sono meno prati in pianura perché si coltiva tanto, il problema è lì, i contadini avevano tutti dei prati per le loro bestie, mentre adesso in pochi hanno tanta terra e coltivano mais, vigneti, erba medica, e non è facile trovare da pascolare. In montagna va bene a parte certe malghe che hanno i pascoli invasi dal bosco. E i baiti, che sono messi male». «I pericoli per il gregge sono tanti: l’anno scorso l’orso ha mangiato 4 pecore. Poi l’aquila preda gli agnelli, che a volte cadono anche dalle rocce. Quando dobbiamo andare su strade trafficate chiamiamo i vigili, che non sempre sono disponibili come oggi ad accompagnarci fino al luogo dove fare tappa a pascolare. Qualche volta ci fanno problemi per la sporcizia o se passiamo nei Biotopi o nelle riserve lungo il Piave». «Una volta era tutta un’altra vita: c’erano molti più sacrifici, non c’erano i mezzi di trasporto come adesso, non c’erano i recinti mobili tanto utili, non c’era il cellulare…». «La radio, la tv e i giornali? No, non mi mancano». «In futuro, se va avanti così, i pastori saranno sempre meno: è una vita di sacrificio, finché c’è un certo guadagno si fa, sennò è meglio stare con la famiglia e cercarsi un altro lavoro. Anche se dopo i 30 anni che lavoro vai a fare?». 38 39 Il 30 agosto sui pascoli della Caserina sotto Cima Cece, nel gruppo del Lagorai, il gregge di Ruggero è affidato alla custodia di due aiutanti rumeni. Gli animali in queste settimane sono su pascoli piuttosto magri su un territorio a dir poco aspro. Un contratto con la Magnifica Comunità Generale di Fiemme, l’Ente proprietario di questi alpeggi, impegna il proprietario del gregge a farlo pascolare qui per un periodo tutte le estati per il mantenimento e la conservazione dei pascoli d’alta quota in cambio di un compenso. Quest’anno i pastori hanno fatto base per alcune settimane presso il baito sulle rive del Lago di Cece, in un paesaggio a dir poco romantico. Ora il baito della Caserina dove pernottano e cucinano i pastori è stato appena ricostruito a regola d’arte e sostituisce il vecchio edificio che era ormai cadente. Si trova a quota 1986 m, mentre gli animali oggi pascolano a quota 2200 e oltre. Nessun sentiero evidente. La certezza di essere sulla giusta traccia mi viene dalla grande quantità di escrementi freschi e dalle impronte nel terreno smosso e scuro. La temperatura è molto bassa malgrado il sole splendente: c’è ghiaccio vivo sulle scure rocce porfiriche che salendo devo superare per avvicinarmi, oltre il limite del bosco, ai lastroni e ai magri pascoli per fotografare le pecore che si sparpagliano tra conche erbose, massi e rocce, e per scambiare due chiacchiere con il pastore rumeno accompagnato da un bravo cane, Baci. Benché intirizzito, il giovane parla volentieri: del suo lavoro e di quanto sia bravo e generoso il suo capo. 3 settembre 2006. Alpe di Lusia, Cavalese, Val del Travignolo, Val di Fiemme. Saliti con una breve passeggiata nel pomeriggio sopra Bellamonte, in località Castelir e raggiunto il tabià Bianco con il vicino baito dei Foghi, 30 agosto 2006 Alpe di Lusia, Val di Fiemme RUGGERO In futuro, se non si guadagnerà di più, credo che venderò il gregge, prenderò qualche mucca e mi fermerò. “ Ruggero, 46 anni, è nato e risiede a Cavalese. Figlio di un panettiere, ha la licenza elementare: «Non ho finito le medie e non me ne vergogno». Il nonno era pastore di capre. Fa il pastore da 29 anni. Non è sposato e non ha figli. Parla l’italiano e il fiamazzo e conosce un po’ il patois, il dialetto che i pastori transumanti di un tempo usavano quando non volevano farsi capire da qualcuno. Ruggero ha 1400 capi tra pecore e capre e 13 asini. troviamo un grande recinto mobile aperto ma non si vedono né il gregge né i pastori. Solo il ragliare di alcuni asini lontani ci dà l’impressione di essere sulla strada giusta mentre un suono di campanacci di vacche molto lontane ci inganna, e così camminiamo per un lungo tratto verso est, attraversando zone aperte, lariceti e pascoli rimboschiti, tra baite sparse, sino ad arrivare sulle piste da sci del Lusia, ora ricoperte da erba verdissima. Qui un numeroso gruppo di asini pascola solitario. Del gregge, però, nessuna traccia. Torniamo al punto di partenza. Troviamo il giovane rumeno già incontrato sul Lagorai. Ha voglia di parlare e ci racconta di sé, del suo precedente lavoro di elettricista e di come facendo il pastore riesce (non avendo spese di vitto e alloggio) a risparmiare a fine mese molto di più per la famiglia in Romania. Ma le pecore non perdono tempo in chiacchiere e così, scusandosi, velocemente parte atletico in aiuto al suo collega più anziano, che ha un bel da fare a spingere il gregge verso il recinto preparato per il pernottamento. Ruggero Divan arriva di lì a poco, nel tardo pomeriggio di questa splendida giornata di sole. Con il suo grosso pick-up fuoristrada viene direttamente da Cavalese, dove è sceso per delle commissioni, e ci dice gentilmente ma senza giri di parole che non ha molto tempo da dedicarci: è impegnato nella sostituzione della batteria di un generatore (che servirà all’indomani agli artigiani per il rifacimento del tetto dell’antico tabià Bianco dove ora staziona con il suo gregge, che nei giorni scorsi ha abbandonato gli aspri pascoli del Lagorai per spostarsi sulle più dolci pendici del monte Lusia). Alle 21 ha un appuntamento a Canazei per la “Gran festa d’Istà” con gli amici. Quindi lo intervisto mentre svita e avvita, bestemmiando un poco, la batteria sul generatore nella 40 penombra del tabià. Finito il lavoro, si appresta a riscaldare l’acqua sul fuoco per preparare il latte in polvere per due vitelli che lo aspettano nella stalla. Quest’anno ha avuto problemi di salute quindi non ha potuto seguire sempre lui gli animali, si deve anche riposare in previsione delle fatiche dell’inverno e quindi deve delegare molti lavori ai due aiutanti. Il pastore rumeno gli chiede cosa deve fare con gli asini che sono più in là oltre i larici. Mi interrompe, fa il verso alle pecore, beeeh, e facendo vibrare le labbra emette uno strano suono che conclude «... tami» (aspettami?). Ora tutte le pecore sono chiuse nel grande recinto. Alcune chiamano i loro piccoli, che gli aiutanti stanno consegnando alle mamme. Il latte per i vitelli è pronto e un agnello senza mamma affonda il muso nel secchio per sfamarsi, esagera e subito starnutisce. «I 13 asini li tengo per il piacere di vederli, un po’ aiutano quando ci spostiamo a turno il carico», dice Ruggero, e aggiunge: «Hai visto quello lì che sembra una zebra? Le capre le tengo per il latte per gli agnelli invece…», quindi mi dice che lui mette il campanellino alle pecore perché trova che stiano bene, che non possano mancare nel paesaggio sonoro: «Fanno parte dell’arredamento». È bella questa battuta, penso, osservando questo grande uomo nel quale trovo qualcosa di materno, sarà quel grande corpo, la loquacità e quel prendersi cura di animali piccoli e grandi (nella stalla ci sono anche diverse galline oltre a due vitelli). Molte pecore non sono sue, le ha solo in custodia, ed è con tono un po’ amaro che aggiunge: «Pensa che i proprietari non vengono nemmeno a vederle e nemmeno le sanno riconoscere le loro bestie, ne hanno comprate 50 solo per avere i contributi…» Quando salutiamo Ruggero è ormai buio e una splendida luna è lì sopra le cime del Lagorai a fare grande il fascino della notte sulle montagne. 41 «La solitudine non mi pesa. Sono un tipo chiacchierone e ho amici dappertutto; scendo spesso in paese quando sono qui e anche in Veneto ho molti conoscenti». «Un tempo ci si spostava a piedi, senza mezzi, con gli asini, era molto più faticoso». «Gli spostamenti degli animali avvengono sempre a piedi. Solo gli agnelli piccoli viaggiano nel cassone. A volte capita di avere delle difficoltà: qualche contadino che protesta, le aree protette, le strade con il traffico. Quando piove, poi, le bestie sono più nervose, se sei in movimento e attraversi strade porti in giro molto più sporco e terra, e questo crea sempre problemi con le amministrazioni». «Con l’aiuto dei recinti mobili da 15 anni è tutto più facile, poi adesso ci sono anche i contributi…». «Un tempo in montagna c’erano più mucche che pascolavano, quindi i greggi di pecore erano più piccoli, per 25 anni sono stato sul pascolo della Caserina che è molto più povero. In pianura una volta i contadini avevano qualche mucca quindi avevano dei prati… Ora invece i piccoli contadini non ci sono più quindi i prati sono diventati coltivazioni intensive di grandi proprietari». «Qui a Lusia ci sono le erbe buone che crescono a “solatio” poi le pecore brucando fanno sì che cresca erba nuova. Di là alla Caserina Lagorai che è rivolta a nord ci sono erbe più dure, “seole” (nardetum). Per pascolare prendo i contributi per pulire la zona di cima Cece, Caserina e Castel. Quattro mesi li trascorro qui, poi un mese giù in Val di Fiemme sui prati lungo l’Avisio e dove mi è permesso, sono l’ultimo pastore a scendere in Valsugana, così sono certo che i raccolti sono tutti conclusi, anche l’erba medica, e posso pascolare nei campi con meno vincoli. Nel fondovalle e in pianura le infrastrutture sono sempre di più: questo toglie spazio al pascolo e rende più difficili gli spostamenti». «La tosatura è una volta all’anno, la lana non vale niente e le razze ora sono selezionate per produrne di meno». «Come chiamo le bestie? A seconda di cosa voglio fargli fare faccio un verso diverso, se voglio dare il sale faccio “prrr prrrr”, fischio quando voglio che vadano». «Di solito mi alzo neanche troppo presto e prendo il caffè. Come prima cosa si controllano le nascite e si segnano con lo stesso colore i piccoli e le mamme; prima di portare il gregge al pascolo si mettono i piccoli nella stalla o in un recinto. I pastori portano gli animali a pascolare, e a mezzogiorno si danno i piccoli alle mamme. Al tramonto rientrano tutte nel recinto, anche i piccoli. Se qualche piccolo viene rifiutato dalla madre, come accade talvolta, si provvede ad allattarli con latte di capra con il biberon. In inverno giriamo con le pile nel recinto per vedere che i piccoli si attacchino alle madri, i problemi non sono solo per il piccolo ma anche per le mamme, che devono essere munte per evitare le mastiti. Bisogna anche vedere se ce ne sono di zoppe. C’è poi da dare il latte ai vitelli. Altri compiti che mi spettano sono: fare la spesa, portare i vestiti puliti e caldi e da bere vino e birra ai pastori». «La volpe è interessata ai piccoli, per quello li teniamo separati negli spostamenti, sennò rimangono indietro». «Circa 300 agnelli li vendo agli extracomunitari, di un anno, 50 kg; per loro è importante che abbiano ancora i denti da latte». «Le strade verso la malga e il pascolo vanno bene, meglio di una volta. Quando ero su alla Casarina tutti i giorni erano ore di cammino dal baito ai pascoli». «In futuro, se non si guadagnerà di più, credo che venderò il gregge, prenderò qualche mucca e mi fermerò». Questo è un lavoro che dà soddisfazione se lo sai fare bene, ogni giorno c’è qualche momento bello. ” È una splendida e gelida mattina di fine agosto, voglio incontrare Gianni con il suo gregge, così alle 8 sono alle Viote. Nelle settimane scorse i giornali hanno parlato di lui a proposito di pecore predate dall’orso, così mi dirigo verso la malga salendo la Valle dell’Eva. L’aria è pungente e il panorama emoziona con la sua vastità e nitidezza: il monte Gazza, il Casale, le Dolomiti di Brenta, Carè Alto e tutto il gruppo dell’Adamello, la Valle del Sarca sono davanti a me, a ricordarmi quanto è bella questa regione. Non seguo il segnavia per il Cornetto ma giro dietro alla costa dei Cavai e appena imboccata la strada forestale trovo un primo recinto con un centinaio di pecore con i piccoli; lì vicino è fermo il rimorchio che Gianni usa per gli spostamenti. Continuo per la sterrata cercando qualche improbabile impronta di orso nel fango fino ad arrivare alla malga Roncar; ci sono due uomini. Uno è il fratello di Gianni, che al momento è in città per aggiustare la macchina e sistemare dei documenti. Salgo in direzione Cornetto in cerca del gregge; una parte si è allontanata oltre la cima Cornetto, e il pastore sta cercando di ricomporre il gregge di 500 pecore. A quota 2000 m le tracce sono abbondanti. Il gregge è poco distante in una conca al riparo, sta ruminando placidamente, poi all’improvviso obbedendo a chissà quale voce – non c’è nessuno tranne me – le pecore si alzano e si avviano ordinatamente lungo il pendio, testa bassa e andatura costante; le ritrovo dopo che ancora si sgranano su uno stretto sentiero e si ricompongono in forme più ampie sul prato in basso, vicino al recinto degli asini, disponendosi in una lunga fila in direzione del recinto delle 29 agosto 2006 Monte Bondone, Trento Val dell’Eva - Viote malga la Val del Manuele (Cavedine) GIANANTONIO Senza montagna per me non è possibile stare. La solitudine non mi pesa, e non mi mancano la radio e la tv: alla radio e alla tv ci sono sempre brutte notizie. Il mondo è cambiato: una volta la parola aveva più significato, ora invece quello che conta è altro, ad esempio il potere e i soldi. “ Gianantonio, 61 anni, è nato e vive ad Arco. Ha studiato all’Istituto commerciale di Riva del Garda e, dopo aver lavorato come cameriere dall’età di 18 anni, fa il pastore da più di trenta. Suo padre Manuele era pastore di ovini, e la mamma d’estate stava col marito, i quattro figli e il gregge. Gianantonio ha tre fratelli, che lavorano con le capre. Parla il dialetto trentino: suo padre conosceva il patois, il dialetto parlato in alcune valli del Piemonte e della Val d’Aosta. mamme con piccoli. Io mi lascio incantare da tutto questo fare e disfare senza i soliti comandi o fischi. Dal boschetto di ontani e salici arriva il tintinnio di una pecora dispersa. Del pastore nessuna traccia. 20 settembre Quando trovo Gianni alle Viote qualche settimana dopo, non trovo il coraggio di chiedere spiegazione della “autogestione” temporanea alla quale ho assistito e passo a fargli le mie domande. La giornata è tiepida, il sole splendente, i prati verde intenso e gli animali tranquilli; molti sono gli agnelli nati da poco. Quando noto alcuni piccoli coperti dalla pelliccia di altri agnelli, mi spiega che lo fa per invitare le madri che hanno perso il loro piccolo ad adottare quelli abbandonati dalle mamme dei parti gemellari, che spesso abbandonano uno dei due nati. Mi intenerisce vedere nelle grosse mani di questo signore molto gentile una “frasca” di acero o di ribes verde che usa per spingere delicatamente gli agnelli nel recinto. La posa vicino, si siede sull’erba accanto a me e si racconta. È abbronzato e mi sembra soddisfatto del suo gregge e molto amorevole con gli animali… Mi parla con nostalgia di sua moglie e di come trascurare la famiglia sia insito nel lavoro del pastore. Ma anche lui, come gli altri pastori, parla di passione per gli animali: se ce l’hai non puoi non ascoltarla. La sua posizione in Bondone gli permette un buon compromesso: per l’estate scenderà spesso a casa ad Arco. E anche l’inverno fino a gennaio sarà in zona Villalagarina, lungo l’Adige, e poi giù fino nel Veronese, quindi non lontanissimo da Arco. 44 45 «Una volta la tosatura si faceva a mano. Poi abbiamo preso le macchine con il generatore e ci arrangiavamo. Adesso le pecore sono tante, e ci rivolgiamo alle squadre di tosatori, al costo di 1 euro e 80 per ogni pecora. Una volta tutti facevano i materassi di lana, quindi aveva un certo valore. La portavamo a Pergine a lavare... Mio padre diceva che “un chilo di lana vale un chilo di grana”». «Mi hanno dato il nome dell’eroe della resistenza Gianantonio Manci perché mio padre era il pastore del suo gregge..». “ Una donna che sposa un pastore deve volergli dieci volte più bene degli altri. A mia moglie piace di più il mare che la montagna. L’estate la sera ritorno, sono sempre in giro, però rientro spesso a casa. L’inverno vado a casa ogni quattrocinque giorni. Mia moglie non si stufa di me: non sono mai in casa. «La maggior parte dei piccoli nasce in autunno, noi regoliamo le nascite mettendo e togliendo i maschi dal gregge. Facciamo in modo che le nascite (dopo cinque mesi di gestazione) siano ad agosto-settembre, quando siamo in questa zona, alle Viote, comodi, sui prati, senza grossi problemi. Spesso la pecora partorisce due piccoli, però non ce la fa a farli crescere bene entrambi. Si cerca un’altra pecora che ha latte e altrimenti si cerca di dare il piccolo a qualche contadino o a qualcuno che lo vuole. Non usiamo il latte in polvere, sarebbe troppo lavoro». «Alle pecore più belle o alle quali si è più affezionati si dà un nome. Per chiamarle si fa un fischio o, quando si vuole dar loro il sale, un suono emesso muovendo la lingua velocissimamente “frullandola” in bocca e insieme soffiando». «La pecora non è un animale delicato, è rustica e si ammala raramente. Noi usiamo i vaccini previsti, e alcune medicine che teniamo sempre con noi. In caso di polmoniti diamo iniezioni di antibiotico, e ogni anno facciamo fare il prelievo del sangue». «Una volta giù in pianura c’erano colture diverse, molto più varie, mentre ora è più difficile trovare da pascolare sul buono. Nei frutteti per esempio è un po’ un problema pascolare. La Val di Cavedine, ad esempio, era tutta prati... adesso è tutta frutteti. È cambiato di più nelle pianure che sui pascoli alpini, nella zona di Verona ci si trova molto bene, la gente con gli animali [le pecore] è brava e li lasciano pascolare in aziende vitivinicole molto grandi. D’inverno passo un mese a Grezzana nella tenuta della famiglia Arvedi, dove ci troviamo molto bene». «Gli spostamenti degli animali vengono fatti a piedi, con il furgone al seguito è tutta un’altra vita rispetto al passato, nel furgone abbiamo tutto e poi posso andare a casa lasciando il rimorchio…». «La transumanza? Ora sono stanziale, fino a pochi anni fa il mio percorso era: Monte Bondone, Lago di Cei, Villalagarina, Arco, con 200 pecore era più semplice, mangiavano meno ovviamente. Mi sembrava più bello poter rimanere in zona. Da quattro anni invece trovandoci in alcuni con le forze e i mezzi giusti – furgone, jeep – andiamo giù intorno a Verona. Prima ci si spostava a piedi, gli asini portavano le cose che ci servivano, come le pelli per dormire in terra. Si facevano sempre le stesse strade». «I pericoli per il gregge sono tanti: le saette e i temporali, che possono colpire noi e gli animali o spaventarli. Poi cani randagi, aquile... Le aquile sono il pericolo più grande per gli agnelli, ma mettendoli nei recinti invece di lasciarli liberi si evitano i danni. Adesso c’è l’orso, alcune pecore sono morte, si è provato a curare le loro ferite ma non c’è stato nulla da fare, l’orso le infetta in qualche modo…. Quando le pecore sono nel recinto è difficile che l’orso entri; qualche volta però se sono spaventate spingono tutte assieme da una parte e sono loro a farlo cadere». «Vendo soprattutto a marocchini, loro sono abituati a trattare nell’acquisto: sono diversi da noi, ma alla fine ci si capisce. A Verona ci sono anche gli italiani che ancora mangiano carne di pecora: agnelloni di meno di un anno». «Quando sono in malga ho la montagna in affitto. Quando vengo fuori, alle Viote, devo fare domande scritte al Demanio, all’Azienda Forestale e al Comune di Trento». «Senza montagna per me non è possibile stare. La solitudine non mi pesa, e non mi mancano la radio e la tv: alla radio e alla tv ci sono sempre brutte notizie. Il mondo è cambiato: una volta la parola aveva più significato, ora invece quello che conta è altro, ad esempio il potere e i soldi». «I momenti più difficili sono quando c’è brutto tempo, c’è la neve e non c’è il riparo per gli agnelli, e magari devi andare a prendere del fieno per le pecore. Quelli più belli sono quando ci si alza e il tempo è bello, il sole splende nel cielo». «In questo periodo mi alzo alle 6-6.30, controllo le nascite e la salute delle pecore nel recinto. Poi tutte al pascolo. A pranzo, cerco di mangiare sempre qualcosa di caldo. Pomeriggio di nuovo pascolo e poi nel recinto». «La scuola? È utile, ma la pratica è ancora più importante». «Il futuro? Il pastore ha un buon spirito di adattamento, si può pensare di cambiare la razza di pecore più adatta alla produzione di lana di qualità». 46 47 16 novembre 2006 Barco di Levico. Valsugana ALDO Oggi gli spostamenti sono sempre più complicati a causa delle strade trafficate e numerose… In Veneto già da un po’ di anni non ci sono più le grandi famiglie contadine che ti accoglievano, ci sono le ville con le recinzioni e non c’è nessun contatto “ Aldo ha 38 anni, è nato a Trento e risiede a Frassilongo – Camauz. Ha smesso la scuola in seconda media. Figlio di una casalinga e di un padre emigrato per 15 anni in Germania per lavorare nel settore edile, ha iniziato a fare il pastore a 15 anni, lavorando come dipendente per qualche anno per imparare il mestiere. Nel 1990 ha comprato il gregge. Parla la lingua mochena e il trentino. È sposato e ha tre figli di 6, 12 e 14 anni. Aldo ha 1200 pecore e 40 capre. Domenica 12 novembre 2006. Vado alla ricerca del gregge del signor Aldo. Ho saputo che in questi giorni sta transitando in Valsugana, dalle parti di Levico Terme. È una splendida giornata di sole e alcune signore che passeggiano per le stradine di campagna mi dicono di averlo incontrato il giorno prima verso Santa Giuliana di Levico. Giro per un po’ in automobile a passo d’uomo, coi finestrini aperti, per cogliere il tipico tintinnio delle campanelle, il belato delle pecore, l’abbaiare dei cani e le urla dei pastori; per le stradine di campagna nei pressi della “Brenta”, come dicono i locali, trovo le tracce del passaggio del gregge: escrementi e fango. Finalmente individuo in un prato vicino a dei campi di mais la jeep posteggiata con il camioncino dei pastori. La campagna è molto bella e il gregge pascola poco lontano. Vista la giornata festiva, i pastori hanno visite: sono amici e curiosi. Aldo però non c’è, è a casa con la famiglia. Mi racconterà poi che non è facile trovare qualcuno che lo sostituisca, in particolare durante la settimana, ma la domenica, per fortuna, qualche amico esperto si riesce a trovare. Mi accordo per vederci per l’intervista tra qualche giorno, scatto alcune foto, e saluto l’amico pastore e il dipendente. Il 16 novembre torno in zona. Il cielo è molto nuvoloso, c’è una notevole umidità e a terra è tutto bagnato. Questa mattina Aldo mi ha dato le indicazioni sulla zona dove pascoleranno oggi: dalle parti di Barco di Levico. Escrementi freschissimi, e una notevole quantità di terra che sporca la strada mi guidano nella giusta direzione: poco oltre le tracce spariscono improvvisamente, e a lato strada, in un prato vicino a delle case sparse, c’è il gregge. I pastori sono due, con i rispettivi cani. Aldo è quello con i pantaloni antipioggia color arancio, che spiccano in fondo al prato. È lì fermo a proteggere un piccolo orto dall’avanzata del gregge, in particolare dall’irruenza delle capre che si spingono fino ai primi rami sporgenti delle piante da frutto. Per fortuna c’è un bel prato dove le pecore possono mangiare per un po’; ha proprio le dimensioni giuste per completare la mia intervista… nel corso della quale Aldo sarà costretto a dare più di una volta ordini ad alta voce ai cani, per contenere gli spostamenti degli animali. Poi il gregge diventa inquieto, quindi incontenibile, e i pastori devono mettersi in movimento alla ricerca di un altro spazio dove pascolare. Anche Aldo, come altri pastori, conosce già il progetto Alpinet Gheep. Parla e si racconta volentieri: mi dice che ha iniziato a fare questo lavoro a 15 anni, aiutando un suo compaesano. Fare il pastore non è infatti una tradizione di famiglia. Mentre lo intervisto, accade un imprevisto… Un vecchio caprone nero dalle grandi corna arcuate, segnate da moltissime “ferite” provocate da chissà quante contese, dopo aver rubato una mela dall’albero resta con il frutto incastrato nelle strette fauci attirando l’attenzione delle altre capre che lo circondano e lo guardano incuriosite. Per un po’ non riesce né a sputare né a tranciare la mela, e deve intervenire il pastore per liberarlo dalla scomoda situazione. Aldo mi insegna anche a vedere le “mosche”, le macchie più scure (dove il pelo è più corto) sul muso di alcune pecore, aiutandomi a capire come una volta per il pastore riconoscere le bestie fosse normale, cosa che ora non avviene quasi più; le pecore fino a non molti anni fa non erano tutte di questa razza (Bergamasche – Biellesi) cioè bianche. C’erano varie colorazioni, macchie marroni, grigie, more ecc. Osservandole meglio noto che alcune di loro sono prive di orecchie… e altre le hanno lunghe la metà rispetto alla maggioranza. «Nascono così» è la risposta di Aldo, senza altra spiegazione. Aldo mi spiega come si fa a contare un gregge di oltre mille pecore: «Quando passano su un ponte le conto, quando 50 sono passate mi metto un sasso in tasca, e così faccio con altre 50 e avanti… Alla fine conto i sassi e so quante sono». Sono incantata dalla semplicità delle sue soluzioni, e continuo a porgli domande anche ora che il gregge ci è addosso. Per concimare per bene un campo quanto deve pascolare il tuo gregge? «Bisogna che ci stia tutta una notte raccolto in un ettaro per volta». Quale itinerario percorri nella transumanza? «Borgo, Selva di Grigno, Bassano, Rosà, Castelfranco, Padova sugli argini del Brenta, Chioggia, Venezia, Mestre, Marghera, Treviso, su per il Piave, Feltre, e su per le montagne fino al Lagorai». A questo punto le pecore sono quasi sulla strada, saluto e ringrazio Aldo che si è dimostrato paziente e disponibile oltre le mie previsioni. 48 49 «Se le capre avevano il latte, le mungevamo per avere la colazione e per i capretti». giovane che mi addormentavo vicino al fuoco e gli animali se ne andavano. La mattina era un disastro andarli a cercarle». «Evito che nascano agnelli in estate; meglio farli nascere in autunno giù in pianura. In montagna ci sono troppe perdite: l’aquila, le volpi e troppi “buchi” e dirupi. Non posso fare i recinti e mettere gli animali al sicuro perché il terreno è troppo duro…». «Ogni giorno, per prima cosa si controllano le nascite, eventuali ferite, si mettono i piccoli alle mamme. Poi il caffè e chi ha fame mangia, chi no, no. Verso le 8 cominciamo a tirar su il recinto mobile, mettiamo i piccoli nel furgone e ci spostiamo dove c’è erba, può essere di pochi metri o un chilometro… A mezzogiorno uno mette giù gli agnelli alle mamme, l’altro mette su l’acqua per la pastasciutta o le bistecche, la polenta… La moglie qualche volta se non siamo lontani ci porta qualcosa, qualche contadino anche… Alle due si ricaricano gli agnelli sul furgone e si riprende a pascolare. A sera mettiamo giù il recinto e di nuovo gli agnelli alle pecore da allattare, accendiamo il fuoco, facciamo cena. Quando siamo stufi di mangiare e raccontarci la storia andiamo a dormire». «Se va avanti così, con i contributi si può proseguire, sennò economicamente non si può andare avanti. Adesso sino al 2012 sembra ci saranno questi contributi… altrimenti anche io dovrei lasciare. La carne non vale molto, quindi o si cambia sistema con pecore da latte, capannone, ci si ferma e si produce formaggio...». “ I momenti più difficili sono gennaio, febbraio, marzo, che non c’è più erba, magari devi andare a comperare il fieno. Le pecore hanno fame e gli agnelli muoiono, le capre sono asciutte fino a febbraio quando partoriscono. L’estate e la primavera sono i momenti più belli. «Un tempo ci spostavamo con gli asini e ci portavamo dietro tutto quello che serviva per cucinare: caldera, padella ecc. Portavamo coperte, pantaloni, calzettoni per cambiarci, il sacco a pelo, e dormivamo per terra, al freddo. Ora se vai a casa a dormire e passi dai 25° ai – 2-3° dell’esterno è più facile ammalarsi che allora. Che quando sei sempre fuori ti abitui al freddo (te sei temperà, di e not no te fa differenza)». «Quando si scendeva nel Veneto, le famiglie dei contadini ti invitavano: in cambio magari di un agnello ti facevano da mangiare. Tu arrivavi con 100-200 pecore, e gli concimavi il campo. Oggi gli spostamenti sono sempre più complicati a causa delle strade trafficate… In Veneto non ci sono più le grandi famiglie contadine, ci sono le ville con le recinzioni e non c’è nessun contatto». «I cani dei turisti sono un pericolo: nel 1996 su nel Lagorai avevano spaventato le pecore che erano cadute da un dirupo: 320 bestie morte. C’era la nebbia fitta e quando sono andato su a vedere, non mi sono accorto che ne mancavano, poi mi ha telefonato un amico dall’altra parte della valle che c’erano più di 70 pecore morte. Le nebbie coprivano le montagne in quei giorni. È stato possibile recuperarle solo dopo tre giorni per le nebbie. Erano state portate con l’elicottero a valle e di lì a Verona per incenerirle». «La primavera siamo lungo il Piave, stiamo lì un bel po’, ma ci sono le riserve di caccia, i Biotopi, i laghetti e in attesa che cresca l’erba sui monti a maggio si fa magra perché siamo in tanti pastori con le greggi, siamo 50.000 pecore o di più, le pecore mangiano bachete [fusti secchi], dimagriscono un po’». «Un tempo giù in pianura, non avendo i recinti mobili, la notte bisognava fare la guardia, è successo anche a me da «I pascoli? In montagna la primavera fino ad agosto l’è bona, poi c’è tanta sedola (nardus) su in alto, dopo la sponze el nas. Sopra a Palù invece ci sono bei prati che ho in affitto, c’e il trifoglio che mangiano volentieri. Ho l’impressione che il terreno, la montagna stessa stia lentamente cedendo, si frantumi. Le montagne le se desfa, l’è marza sotto la roccia». «Finché ci sono i contributi l’attività può andare avanti. Senza quelli bisogna cambiare lavoro: troppe spese, macchine, assicurazioni…». «Si sta più pacifici sulla montagna». «Da 10-12 anni ho il cellulare, leggo il giornale quando vado a prendere il pane al bar. La scuola aiuta sempre, poi certo che ci vuole la pratica». 50 51 24 ottobre 2006 Altopiano della Paganella, Lago di Andalo LORENZO Alla gente piace il gregge ma non lo sporco e che non mangino l’erba, piace il gregge ma quello in cartolina per intenderci. Abbiamo tutti contro: i cacciatori… Con i forestali va meglio ora che nel passato, con tante difficoltà. Le pecore non sono telecomandate… “ Lorenzo è nato e risiede a Frassilongo. Ha fatto la terza media e va a lavorare in malga da quando aveva 10 anni. Il padre non era pastore, ma lo erano i nonni materni e paterni, lo zio materno e lo sono altri zii e cugini. Ha una moglie e due figli, di 15 e 12 anni. Parla il trentino e la lingua mochena. In questa giornata di prime nebbie autunnali, la visita sull’Alpe di Valandro è fruttuosa solo in parte, perché Lorenzo non c’è. C’è però il suo gregge custodito da Carlo. Sopra al paesino di Seo c’è un luogo molto ripido, dove giunge solo un’antica mulattiera. Salendo, le prime tracce sul terreno sono di pneumatico. Sappiamo che il pastore sale sull’Alpe usando una moto da trial, e colpisce il leggere sulla roccia affiorante a tratti della mulattiera le tracce degli antichi mezzi, i brozi, usati per il trasporto del fieno a valle, affiancate dal disegno lasciato dalla gomma infangata del pastore che vuole guadagnare tempo per raggiungere la famiglia. Tre croci di ferro battuto piantate nella roccia segnano il punto di svolta per raggiungere la località i Salti, a quota 1800 circa: qui si lascia il bosco e ci si affaccia sulla conca del Bleggio con uno splendido ampissimo panorama. Passando sopra i primi balzi rocciosi, ci si inoltra nelle vallecole: la zona dei pascoli alti verso la parte interna del Gruppo di Brenta, sotto il monte Brugnol, fino al confine del Parco Adamello Brenta. Scrutiamo il terreno per capire se il gregge è passato di qui, ma bisogna salire nei pressi del rudere della malga Valandro per trovare le prime tracce fresche: il gregge è ancora più in alto, oltre i 2000 metri, tra le nuvole. Lontano, su una forcella, un cane corre obbedendo ai comandi urlati dal pastore, che bestemmia in veneto, non si sa se verso il cane, le pecore o chi altro. Al centro della conca, tra i ruderi dell’antica malga, c’è un container in metallo che sostituisce el bait o casina tradizionale, luogo di ristoro per il pastore. Un cane alla catena abbaia al nostro avanzare. Ormai non ha più il compito di custodire il gregge: fa la guardia al container, ai pochi agnelli in un piccolo recinto sul pendio e alle numerose paia di calzettoni di lana grigia stesi sui fili ben tesi. Più in là, in alto, un doppio recinto con filo elettrico antiorso dove il gregge ogni sera viene rinchiuso per evitare brutte sorprese. In breve raggiungiamo il pastore, Carlo, alla forcella tra il monte Brugnol e il monte Ghirlo; le pecore sono un po’ inquiete e tentano di spostarsi a brucare sul pendio più a nord. Così interrompendo bruscamente la nostra scarna conversazione, Carlo manda con urla sonore il cane a ricacciarle indietro e farle muovere verso il Ghirlo. Un momento e le nuvole si alzano; sotto di noi lo sguardo precipita nella sottostante Val di Ion e scorge più in là San Lorenzo in Banale; pochi istanti ancora e il gregge ha già occupato il crinale, come un fluido che si versa sui pascoli e si disperde confondendosi con le rocce affioranti. Strane le pecore, sembrano poco dinamiche, ma quando si mettono in moto sanno essere tanto rapide! Ora scendiamo anche noi, ma al di qua della forcella dove il sentiero è meno esposto. Pastore e gregge ci appaiono più tardi già lontani, come un’apparizione, su un aereo sperone appena sotto il Ghirlo, tra le nuvole e le rocce, l’erba e il vuoto tutt’intorno. L’intervista al pastore è solo rimandata. Tra pochi giorni scenderanno a valle. Incontrerò Lorenzo a transumanza avviata, sull’altipiano di Andalo. 52 Lago di Andalo. Il 24 ottobre il gregge pascola placidamente su un prato arginato da antichi muretti a secco e grande quanto basta per contenere comodamente le 700 pecore. Trovo il pastore che riposa dopo il pasto, disteso su una panchina nei pressi del lago. È rilassato e disponibile a rispondere alle mie domande, anche se esordisce dicendo che secondo lui non è cambiato molto nella vita dei pastori se non fosse per i mezzi che la rendono un po’ più comoda. Nel furgoncino c’è infatti il posto per dormire, ci sono le cose per cucinare, e c’è lo spazio per tenere gli agnellini che non possono camminare appresso alle pecore. Anche il gregge è tranquillo: molte pecore, e non accade spesso, sono stese all’ombra dei noccioli. Lorenzo è simpatico, al telefono era stato gentile, mi aveva invitata a non salire in Valandro: «Troppo ripido, tanto poi scendo… Ci vediamo sull’altipiano di Andalo sul comot». In effetti qui sulle rive del lago di Andalo è tutta un’altra cosa. Ma solo ora che conosco Valandro capisco cosa significa “pascoli alpini”. Quando cerco di farmi spiegare di quante ore di rumine hanno bisogno le pecore dopo il pasto, 53 Lorenzo scuote il capo: «Dipende… piene piene non sono mai. Se non le rinchiudi continuerebbero anche la notte a mangiare…». Lorenzo parla volentieri del suo mestiere. È pessimista, non ha molta fiducia nel futuro, però è pronto alla risata e crede che raccontare, ricordare, anche a me, sia contribuire in qualche modo ad Alpinet Gheep e possa servire a qualcosa. Una delle sue osservazioni va ai parametri dell’alpeggio dell’UE, 800 pecore in 200 ettari per 80 giorni (questo detta la legge): «Non c’è nessuna montagna che soddisfi con questi numeri il bisogno di pascolo delle pecore, i parametri europei non funzionano». Dell’orso parla brevemente: «L’ho incontrato molte volte e una volta ho dovuto tornare indietro perché non voleva andarsene». Il cane abbaia insistentemente, Carlo è già con il gregge che “appoggiato” al margine del prato pretende altro pascolo. Li accompagno per un tratto mentre scendono a bere sulle rive erbose del lago semi-asciutto. Poi li precedo al maso Pegorar per scattare qualche foto al gruppo degli asini, i più giovani in “muta”. Ci salutiamo a distanza con un cenno del capo e della mano. “ Mi piace la solitudine. Radio, giornali e televisione? Non mi manca niente, no, no. «Una volta dalla lana prendevi dei bei soldi. Addirittura negli ultimi anni Settanta si arrivava a 2000 lire al kg. Commercianti veneti e lombardi. Mia mamma e mia nonna selezionavano la lana delle nostre pecore, la lavavano e la portavano a Pergine. Non so cosa facessero lì alla lana (cardatura, pettinatura) perché poi la filava lei in casa e preparava le calze e i maglioni. Circa 30-50 kg all’anno, giusto quella che serviva per uso domestico. In casa ne ho ancora io di quei calzettoni». «Vado a casa tutte le sere l’estate, quando sono qua intorno, da maggio fino a novembre. Dopo, solo una volta ogni tanto. La moglie? La consegno al pret (ridendo, ndr)». «Il pascolo è cambiato tantissimo, una volta in valle e nelle pianure c’erano più prati e meno colture intensive. Ora il modo di “strutturare” i campi impedisce il pascolo: mentre una volta si pascolava sotto i meli e le vigne, ora non si può più fare. Sui monti una volta era meglio. La montagna era più sfruttata ma allo stesso tempo più ricca, adesso il pascolo è lasciato andare e l’erba è meno buona…. Quando non viene pascolato el va endrè. Più viene pascolato e più viene concimato. C’era più spazio malgrado la presenza delle mucche perché c’era meno bosco». «Ti accorgi che il pascolo oggi è meno buono perché ad esempio se su cento ettari trent’anni fa pascolavi un mese, con le stesse pecore ora dopo 15-20 giorni non ce n’é più. C’è più bosco ma alle pecore non piace pascolare nel bosco. Pascolo anche nel Parco Adamello Brenta: tutto in regola permessi ecc. Per il riparo però va proprio male. Ho rotto le scatole alla Provincia per avere qualcosa. Ci hanno messo un container dove non si può neanche accendere il fuoco…» «Una volta uno che aveva 150 pecore era un pastore, se vendevi cento pecore comperavi un ettaro di terra. Adesso non comperi neanche da far la bala». «Il granoturco è un cibo che può far male. Bisogna star sempre attenti, non devono mangiarlo bagnato, ne possono morire anche dieci o venti per come hanno mangiato». «In Veneto una volta si andava magari ospiti dei contadini, erano famiglie di venti persone, sapevano che arrivavano i pastori, che avrebbero concimato i campi, magari venduto un agnello. Oggi il furgone fa da cucina, camera e stalla e cuciniamo da soli. In Veneto dove una volta si andava magari ospiti dei contadini, ora troviamo ville da un miliardo e mezzo dalle quali è meglio stare alla larga. Non ti senti neanche di entrare. Non è che ti trattano male ma… Adesso se non passi e non sporchi la strada va meglio, i campi tanto vengono concimati in altri modi…». «Non mi auguro che i miei figli facciano il mio lavoro. Ne ho viste abbastanza commedie in questi anni, non vorrei che i miei figli ne vedessero altrettante... Finché comando io non voglio che facciano il pastore: di tutto fuori che il pastore… per il guadagno, per la famiglia, veniamo trattati male da tutti, da tutta la comunità. Alla gente piace il gregge ma non lo sporco e che non mangino l’erba, piace il gregge ma quello in cartolina per intenderci. Abbiamo tutti contro: i cacciatori… Con i forestali va meglio ora che nel passato, con tante difficoltà. Le pecore non sono telecomandate… sono imprevedibili rispetto ai confini». 54 «La tosatura la faccio una volta all’anno in aprile. Tra Treviso e Venezia mi faccio aiutare dalle squadre. Pago 2-2,20 euro l’una [costo totale della tosatura e degli operai che danno una mano] e la lana vengono a prenderla. Non pago lo smaltimento, la portano via. Ogni pecora rende circa 2,5 kg all’anno di lana tosandola una sola volta…». «Un tempo gli spostamenti avvenivano nello stesso modo di adesso, ma a piedi, e gli asini portavano tutto quello che serviva». «Spostare il gregge comporta tantissimi problemi per il traffico. Tutti hanno fretta. Spesso non ci sono strade alternative a quella provinciale. La procedura per percorrerle è un po’ complicata: devi andare dal Prefetto… ma se devi cambiare prato o comune dieci volte in un giorno, come fai? Non mi sposto di notte come fanno certi. Le amministrazioni locali fanno tanti problemi: certi comuni hanno fatto l’ordinanza di non pascolare sul loro territorio. 430 euro è quanto ho pagato lo scorso anno di multa». «L’orso è un problema perché ti dà più lavoro. Devi fare sempre il recinto doppio, e poi non tutte le pecore valgono uguali nel caso di perdite. Quest’anno non abbiamo avuto perdite, ma le pecore si stressano se c’è l’orso che le spaventa. Nel recinto certo non stanno bene come quando possono sistemarsi dove vogliono. Nel fango del recinto possono passarsi le infezioni alle unghie per esempio». «Una volta la gente mangiava carne di pecora normalmente, come l’altra, una ricetta trentina è il castrà con i capussi cotti. Oggi vendo tanto agli islamici, vendo 55 bene a Pasqua. Animali dai sette ai dodici mesi. In passato ho provato anch’io a regolare le nascite ma poi l’autunno i piccoli erano così tanti che era difficile gestirli». «Gli agnelli nascono tutto l’anno sul pascolo e anche al piano. Al massimo cinque-sei anni è l’età delle pecore che tengo, il prezzo non è buono. Va meglio per gli agnelli e i capretti. Le capre le tengo per hobby…» «Come chiamo le bestie? Con nessun nome, non parlo con le bestie». «La strada che porta al pascolo va bene. Il baito no. Se la famiglia vuole venire su dieci giorni non è possibile. Ospitarli nel container è impossibile». «Ogni giorno per prima cosa si controllano le nascite. A seconda del pascolo che hai, può darsi che non ci sia fretta, come qua per esempio, le puoi liberare alle 9 di mattina, se invece non c’è pascolo o devi “fare strada” ti muovi prima. A volte in un’ora hanno già mangiato. Altre volte ci vogliono alcune ore. Poi riposano, ruminano… Alle 12 si mangia. Si mettono i piccoli alle mamme. Poi di nuovo al pascolo. Ci si ferma la sera, si mette il recinto, di nuovo i piccoli alle mamme, e infine la cena e a letto». «I momenti difficili? Quando il tempo è brutto e non c’è da mangiare per le bestie. Quelli belli? Mah… l’estate». «Per il futuro sono pessimista. Troppe difficoltà! Cambierei lavoro ma non so cosa fare ormai…». «La montagna? La roba più bella che se pol immaginar». 56 57 Ore 7.45. Affioriamo dal mare di nuvole che grava sopra Ponte Arche arrivando a San Lorenzo in Banale, alle pendici delle Dolomiti di Brenta, in un radioso inizio di giornata di fine estate. Sulla statale appena fuori dal paese ci sorprendiamo nell’incrociare quattro uomini che scendono a piedi verso il centro deserto del paese… dall’aspetto decisamente strano e fuori luogo. Potrebbero essere dei giostrai oppure dei cow-boy un po’ trasandati: folti baffoni scuri, cappellacci e stivali infangati. Ma dietro la curva la risposta alla nostra curiosità è subito appagata: quattro autotreni attrezzati per il trasporto animali sono parcheggiati uno dietro l’altro, e i quattro uomini sono gli autisti specializzati in trasporto internazionale di bestiame. Grazie a un amico guardaparco abbiamo saputo che il gregge che pascola in Prada e Dorè è già in partenza, e per questo siamo qui oggi. Tra poche ore i pastori con le loro 1200 pecore saranno in viaggio per Borgo San Giacomo, Brescia, quindi il tempo per incontrarli, presentarci e fare l’intervista con la partenza imminente è pochissimo. Risaliamo in automobile per qualche chilometro la strada verso il rifugio Alpenrose. Fortunatamente quando incontriamo il gregge, assieme al coro dei belati dai molteplici toni delle 1200 pecore, dei bellissimi asini e delle capre ingorde che sostano all’ombra di pini e abeti, dopo la lunga discesa dall’Alpe, troviamo la piena disponibilità dei pastori a raccontarsi. Sono tre i pastori della famiglia; fanno questo lavoro da tre generazioni, e ora sono impegnati tutti, più un aiutante, nella transumanza. Normalmente durante la stagione dell’alpeggio si danno il cambio e a rotazione uno o due di Venerdì 25 agosto 2006 S. Lorenzo in Banale, Valli Giudicarie VITTORIO, IVAN, PAOLO C’è un po’ crisi, adesso. Arriva la “roba” dall’estero a buon prezzo, è stato un fallimento anche per noi… Non c’è concorrenza, vendi un po’ a strappi. Non è una vendita normale. È fatica… “ Vittorio e i figli Ivan e Paolo sono nati a Ponte di Legno e risiedono a Borgo San Giacomo. Vittorio ha la licenza elementare, i figli la licenza media. Vittorio è figlio di un pastore, parla italiano e il dialetto bresciano. Vittorio, Ivan e Paolo hanno 1200 pecore. loro tornano dalle famiglie. In quel momento di pausa faccio alcune domande a Vittorio, il padre, e poi al figlio Ivan, mentre Paolo sta organizzando la discesa a valle. Scendiamo anche noi assieme a loro, un po’ sulla stradina, un po’ per la vecchia ripida mulattiera selciata dove le pecore, come gocce di un pennello grondante di bianco, tracciano nel bosco traiettorie sinuose e improvvise, spinte dai pastori e dai cani su uno sfondo dalle brillanti tonalità di verde. È una splendida giornata di sole. Il gregge cala a valle passando rapidamente tra antichi muretti a secco, antiche case da Mont ora ristrutturate. Un cane alla catena abbaia fino allo sfinimento e sveglia un papà con due bimbetti che, incuriositi, escono in pigiama e salgono sul muro di cinta per godersi lo spettacolo. Non manca come sempre qualche animale insubordinato che deborda o salta sopra ai muretti in cerca di erba più appetitosa, scalzando qualche pietra qua e là. Gli agnelli appena nati sono già stati caricati sul furgone dei pastori. Tutti gli altri, e non sono pochi, scendono stanchi in coda al gregge. Arrivati al piano in località Manton, il gregge viene guidato sul lato opposto della statale dove grazie a una fascia di rocce è possibile delimitare uno spazio adeguato per il pascolo all’ombra. Il recinto viene montato rapidamente e tutte le mosse seguono un canovaccio ben sperimentato. Ora però i pastori stanno discutendo fitto fitto in bresciano stretto con i camionisti. Per iniziare a caricare il gregge è necessario girare tutti e quattro gli autotreni, staccare i quattro rimorchi, disporli uno dietro l’altro unendoli con degli appositi by pass perché le pecore salgano. Poi verranno caricate anche le motrici. La manovra non è semplice: lo spazio per girare è 58 59 ridotto al centimetro. Nonostante il traffico sia scarsissimo, si forma subito un piccolo incolonnamento. La manovra richiede tempo. I curiosi nel frattempo sono aumentati. Il passaparola porta molti bambini dal paese, chi arriva in bicicletta con gli amici, chi accompagnato dai genitori in macchina o addirittura con il trattore. Una volta disposti i mezzi, i pastori aiutati dai cani portano alcune centinaia di pecore alla volta al punto “d’imbarco” dove grazie a una catasta di legname e a una motrice è stato creato un invito a imbuto. Cinquanta alla volta, le pecore salgono sulla rampa in metallo. Centinaia di piccoli zoccoletti cercano un appoggio sicuro nel frastuono crescente. Le prime percorrono tutto il lungo “tunnel”, e quando sono in fondo viene chiuso un “cancello” con un metallico colpo secco. Vengono sollevate con una sorta di “pianaleascensore”. Ogni mezzo carica tre “piani” di animali per un totale di circa 150. L’operazione richiede calma e attenzione per evitare che gli animali si feriscano calpestandosi nella calca. Una pecora esce dal gruppo e si muove velocemente a scatti indecisa sul da farsi, passa sotto al camion e raggiunge la libertà sul prato bagnato di rugiada. Una nonna con nipotino arriva con il termos del caffè e va diritta a offrirlo al signor Vittorio: è una consuetudine che si ripete da trent’anni. Le operazioni di carico proseguono sino dopo mezzogiorno. Seguirà un viaggio sotto il sole al termine del quale gli animali scaricati dai camion riacquisteranno la libertà. Il prossimo pasto per loro sarà di un sapore diverso in un paesaggio altrettanto diverso... «Per fare la transumanza porto giù le bestie “in bresciana” con i TIR già da 50 anni, prima mio padre andava a piedi. Gli spostamenti del gregge avvengono da San Lorenzo in Banale fino a Borgo San Giacomo con i camion, 6000 euro per l’andata e il ritorno, poi facciamo il pascolo vagante. I pascoli su sono sempre gli stessi, in montagna buonissimi. Il problema è la casa: a nessuno interessa di migliorarla… venga su a vedere». «Giù pascoliamo nei campi dopo i raccolti di mais e altro. I momenti difficili sono giù in pianura… seminano dappertutto. Trent’anni fa si poteva pascolare lungo i fiumi e non c’era nessuno che diceva niente: oggi si è ridotto della metà il pascolo… se erano cento ettari prima, adesso sono 50. Pascolare nei fiumi Oglio, Po e Adda è difficoltoso perché ci sono i parchi, le riserve naturali, le riserve di caccia. Per noi sono difficili aprile e maggio, che non abbiamo tanti pascoli». «Giù fa molto caldo e c’è l’agricoltura, tutto seminato… Allora veniamo almeno tre-quattro mesi in montagna». «Lungo i fiumi le bonifiche hanno dimezzato le superfici disponibili per il pascolo, già l’erba dei fiumi è magra ma quando viene aprile e maggio che i campi sono tutti seminati dove possiamo andare se non nei fiumi… Ma la forestale lo vieta. Lungo il fiume Oglio, da Brescia fino a 2 km da Cremona». «I pericoli per gli animali sono tanti… La volpe mi mangia gli agnelli, venti o trenta, anche l’aquila due o tre. L’orso non sappiamo di preciso. Si è portato via una pecora con l’agnello, che avevamo lasciato fuori la notte dal recinto perché partorisse… al mattino non c’erano più; abbiamo trovato le tracce di pelo che andavano verso il bosco ma non ci sembrava il caso di andare giù a verificare… Mai più andiamo a cercarla rischiando di disturbarlo se per caso sta mangiando». 61 60 «La tosatura la facciamo giù, una volta all’anno; la lana non vale niente, però bisogna farla… Vengono a prenderla per poco e niente [circa 80 centesimi al chilo e una pecora dà al massimo 3 kg all’anno], mentre la tosatura costa circa 1 euro e 80 a pecora». «La giornata? Dipende dal periodo dell’anno e, prima di tutto, da che tempo fa… Tutte le sante mattine ti occupi della nascita degli agnelli, controlli che la mamma non abbia problemi di parto o la mastite, che i piccoli mangino dalla rispettiva mamma, poi le mandi al pascolo, a mezzogiorno le chiudi nel recinto che ruminino. Si controlla se qualcuna è zoppa o ha problemi alle unghie, poi si lasciano andare al pascolo. La sera si chiudono nel recinto e si controlla che i piccoli siano con le mamme». concorrenza, vendi un po’ a strappi. Non è una vendita normale. È fatica…». «Se la solitudine mi pesa? No, abbiamo la radio, il cellulare, quando andiamo a fare la spesa in paese prendiamo il giornale». «Come vedo il futuro? Non troppo bene perché già adesso ci sono molti problemi… Se nei mesi di aprile e maggio fosse permesso di pascolare sui fiumi troveremmo buon pascolo, acqua e ombra…» «La via per la malga e il pascolo? Quest’anno hanno sistemato la strada e va meglio, l’anno scorso era un disastro». «Come chiamo le bestie? ‘Ndiamo ‘ndiamo, e loro vengono». «Se nevica per noi è un disastro, bisogna prendere il fieno… gli agnellini soffrono; è come se prendesse la tempesta un agricoltore. Laggiù se non nevica stiamo bene. A settembre, ottobre e novembre dopo la raccolta del mais si può pascolare nei campi. Spesso si va a casa a dormire. Ci sono molte aziende che non hanno più le mucche e alle volte ci “appoggiamo” a queste stalle. Si starebbe bene anche qua, è un buonissimo pascolo, una bellissima malga. Peccato che non hanno nessun interesse a fare una piccola strada. La casa è la stessa cosa che vedere nel terzo mondo… Solo un piccolo rifugio». «C’è un po’ crisi, adesso. Arriva la “roba” dall’estero a buon prezzo, è stato un fallimento anche per noi… Non c’è Il papà e il nonno facevano i pastori, è una tradizione di famiglia. Mi piacerebbe che i miei figli continuassero, anche se è un mestiere di sacrificio… ” 62 63 16 agosto, ore 12. Piove in tutta la Valle dell’Adige. Sull’altipiano di Folgaria ancora no; raggiungo Fondo Grande, la zona delle piste da sci, e mi si indica la strada per raggiungere la malga dove ho appuntamento con Stefano. La stradina militare sterrata sale leggermente nei pascoli della malga Parisa, a quota 1365; due edifici di forma armonica su un’altura mostrano i segni del tempo. Stefano esce fuori per venirmi incontro zittendo un cane scuro che abbaia e mi invita gentilmente a entrare nella grande cucina dove attorno al tavolo apparecchiato ci sono altri due uomini e una donna, tutti oltre la cinquantina. La donna si chiama Anna, è piccola, col volto segnato da morbide pieghe, sorride gentile e mi fa piacere che ci sia. Mi si invita a consumare con loro un risotto ai funghi e bere vino, mentre aspettano che sul fuoco di un enorme caminetto finisca di cuocere della carne su una graticola. La stanza è grande, tutta una parete è percorsa da una cappa in muratura che in origine raccoglieva il fumo dei fuochi che servivano per scaldare il latte e produrre il formaggio; anche delle vasche in cemento testimoniano il passato uso per caseare burro e formaggio, attività ora dismesse. Il fragore della pioggia 16 agosto 2007 Malga Parisa, Fondo Grande, altipiano di Folgaria STEFANO I momenti belli sono sempre, per soldi uno non fa il pastore. “ Stefano, 36 anni, è nato e vive a Trento. Figlio di Mauro e Anita, ha il diploma di scuola media. Ha due figli di 4 e 12 anni, che amano gli animali e passano con lui l’estate. Stefano, che in precedenza ha lavorato presso la federazione allevatori e come autista, parla l’italiano e il dialetto trentino. Si augura che i suoi figli continuino il suo lavoro. battente sul tetto che scende copiosa davanti alla finestra senza grondaia e il crepitio del fuoco fanno da sottofondo alle voci basse degli uomini e di Stefano, che parla volentieri del suo lavoro e del futuro che sta costruendo. Lui è il pastore più intraprendente che ho incontrato, meno fatalista: vicino a lui ci sono due esperti pastori in visita, ma è della donna che lui mi parla, quanto sia importante per rendere la loro vita di viandanti più confortevole e pulita. Stefano ha delle idee per il futuro che sta realizzando: sta trasformando parte del suo gregge da transumante a stanziale per produrre formaggio pecorino. Il tempo scorre in fretta; la voce di Stefano è giovane e vigorosa ma non ha perso quell’intonazione di chi proviene dalla città; sembra lì quasi di passaggio, in effetti in questo momento il suo gregge si trova in tre località molto distanti una dall’altra e per questo spesso si sposta per seguire i lavori e rifornire i pastori di ciò di cui hanno bisogno. Fuori piove a dirotto, l’acqua si infiltra nel tetto e gocciola a terra, sul cemento del pavimento irregolare. Purtroppo non vedo il suo gregge; le pecore sono lontane con il pastore e i cani. Più tardi le raggiungeranno per sistemarle nel recinto mobile per la notte e torneranno alla malga a dormire. 64 «Da 15 anni faccio il pastore, sì, la prima volta in Bondone con Gianni, un pastore più esperto. Avevo 20 anni; per un anno e mezzo avevo delle capre, poi sono passato alle pecore». «Gli spostamenti degli animali? Avvengono a piedi, con la macchina e la roulotte. Per transitare sui territori le leggi sono le stesse dai tempi lontani di Teresa d’Austria. Si deve chiedere dieci giorni prima ai comuni il permesso. Un grosso problema è quando giù in Veneto si concentrano tutti i pastori trentini, veneti e altro, allora i comuni non vogliono dare i permessi. Altro problema quando facciamo il percorso del fiume Adige, la legge prevede che si possa pascolare sugli argini, ma che non si possa sostare la notte. Ecco che questo ci costringe ad andare dai campi all'argine dove spesso ci sono le piste ciclabili che ovviamente nell’attraversamento sporchiamo con tutte le proteste del caso. Altre difficoltà sul territorio? Dove prima c’erano i pascoli adesso ci sono strade, fabbriche, edifici vari. Transitare in certe zone è difficile, traffico, capannoni, aree protette lungo i fiumi, riserve di caccia. La primavera nei campi è seminato… Succede che in certe zone dove ci sono discariche abusive le pecore si feriscono oppure brucano l’erba mettendo in luce rifiuti anche pericolosi che le erbacce nascondevano. Taluni organizzano dopo il passaggio del gregge delle giornate ecologiche per ripulire gli argini dei fiumi». «In montagna direi che il pascolo è migliorato: questa malga, per esempio, caricava vacche, ora ci siamo solo noi e il pascolo è ottimo». 65 «Solo da un anno c’è un aiutante che munge 150 pecore con la mungitrice e fa tutto il resto. Alle 6 del mattino munge, poi le porta a pascolare, poi in stalla e infine la mungitura serale; queste sono pecore delicate, che vanno tenute in stalla quando piove altrimenti perdono il latte». «Per la tosatura chiamo le squadre dei tosatori, la lana non vale niente, la brucio e pago la multa, dieci quintali di lana. Il mangiare per tutti, più gli operai sono un costo; mi hanno fatto pagare anche i colori che servono a contrassegnare le pecore. Da quel giorno ho detto basta, non voglio più avere a che fare con loro». «Le nascite sono tutto l’anno perché lascio i maschi liberi; 20-40 giorni prima che gli agnelli mangino l’erba si vendono per l’abbacchio agli italiani. La vendita? Quasi tutti agli extracomunitari, una piccola parte agli italiani». «Io guardo al futuro e penso che tenere pecore da latte sia la via per sopravvivere alle nuove politiche europee che d’ora in avanti saranno volte ad aiutare paesi come la Romania. Se un agnello dalla Romania arriva a un terzo del prezzo rispetto al nostro, io non avrò più i soldi per vestire e mandare a scuola i miei figli (manderò a scola i me fioi en mudande). C’e da dire poi che la gestione delle pecore da latte è più costosa, acquistare le attrezzature, l’erba, avere sempre una stalla e un uomo che munge». «I pericoli? Volpi, aquile, orsi. A malga Campa, nel gruppo delle Dolomiti di Brenta, l’orso c’è, e il pascolo è più pericoloso». «In montagna l’è bel. Però è un po’ monotono: sempre la stessa gente… Quando invece ti sposti parli con gente nuova. Quando sei al piano non vedi l’ora di tornare in montagna». «I turisti passano nei luoghi che frequento, e chiacchierano volentieri». «Credo nell’utilità di una scuola anche nel settore della pastorizia per capire le leggi, i diritti e i doveri dei pastori e così via». «Burocrazia e leggi dovrebbero agevolare la nostra attività, altrimenti questo lavoro va a scomparire». «I momenti belli sono sempre, sempre; per soldi uno non fa il pastore». Quando ero più giovane, avevo dato il sale alle pecore, poi avevo giocato e scherzato. Poi Gianni, il pastore capo, si mise in moto con il gregge sulla strada per cambiare pascolo. Quando arrivammo nel campo Gianni mi chiese dove fossero gli agnelli e solo allora capii di averli scordati nel pascolo precedente. Non è un lavoro semplice catturare gli agnelli... ” 66 67 27 Settembre 2006 Piazzole Val di Rabbi CHEYENNE La solitudine mi piace. La sera posso sentire la radio, la tv, la musica, non manca nulla. “ Cheyenne è nata in Germania e risiede in Val di Rabbi. Figlia di un artista e di un’educatrice-terapeuta d’arte, ha studiato alle scuole elementari e medie in Val di Rabbi e Sole, alla scuola Steineriana in Germania, poi ha fatto due anni di apprendistato in una scuola di pastori nell’ex Germania dell’Est, lavorando e studiando. Dopo aver lavorato come cameriera, barista, baby sitter, ha iniziato a fare la pastora quattro anni fa. Parla il tedesco, l’inglese, l’italiano e il dialetto. Ha un “moroso” e non ha figli. Aspetto Cheyenne in località Penasa dove ha una parte delle pecore che pascolano in un grande recinto appena dietro le case, sui prati attraversati da muretti a secco che salgono verso il bosco di larici e abeti rossi. Le pecore che vedo qui sono di più razze: le Biellesi, le Suffok, le Vallesi e un’altra… Hanno il vello e i colori diversi. Alcune hanno le corna, molto belle. Pascolano tranquille e qualcuna è già in cerca dell’ombra per riposare. Io le trovo buffe. Ce n’è una che appoggia il muso su una pietra che sporge dal muro a secco e chiude gli occhi dimostrando l’assoluta comodità del luogo trovato. Cheyenne quando arriva non è sola. Sua sorella, anche lei con un cappellaccio in testa, smonta il recinto elettrico. Il fidanzato carica l’attrezzatura sul rimorchio del trattore. Di norma Cheyenne è sola a fare questi lavori. Giusto ieri sera però il dottore le ha diagnosticato una polmonite. Quindi dovrà farsi aiutare per un certo periodo… Fortunatamente il suo “moroso” ha finito l’alpeggio delle vacche in malga e quindi ora avrà più tempo per aiutarla. In ogni caso Cheyenne chiama il cane Brasca, un cane di un’antica razza tedesca, e guida il gregge in un prato appena sotto la stradina. Ci sediamo sull’erba osservando le pecore. Lei mi racconta molte cose che ascolto con interesse. La sua esperienza in Germania e la scuola professionale che ha frequentato le hanno fornito gli strumenti per spiegarmi il suo lavoro e anche molte cose sul comportamento delle pecore, in modo particolarmente approfondito. Il suo modo di raccontare è tranquillo. È una bella ragazza, giovane, che sorride volentieri e trasmette serenità e sicurezza. Il suo percorso lavorativo è molto diverso da quello degli altri pastori che ho incontrato. Ma proprio la formazione teorica, l’esperienza di transumanza nella zona della Foresta Nera e nell’azienda agricola la rendono preparata e all’altezza della situazione. C’è da dire anche che lo spirito con cui si pone nei confronti del territorio e della pastorizia è diverso da quello dei pastori transumanti. Lei è molto contenta di pascolare in questa valle, dando con il suo lavoro un contributo alla conservazione dei prati e alla cura del paesaggio. È anche attratta, è vero, dall’idea di fare la transumanza fino giù al mare, oppure l’alpeggio fino in alta quota, di certo non è interessata ad avere un gregge enorme di pecore puntando al massimo ricavo e sacrificando il “piacere” della biodiversità nel gregge. È lei che mi parla per la prima volta di pecore da paesaggio, concetto a me nuovo, ma noto negli ambiti di tutela e conservazione ambientale. È sempre lei che mi mostra quali sono le erbe che le pecore più gradiscono, quelle a foglia larga come la piantaggine, il rumex… «Le pecore come gli altri animali se li tieni come il Signore le ha create non hanno problemi». È quando si fa l’allevamento di massa, e di conseguenza cambia l’alimentazione, e le costringono a una vita diversa e poco naturale, che queste si ammalano. Sono animali forti in genere. Ora le pecore si stanno spostando e anche noi con loro. Brasca è molto brava ma il punto di osservazione del pastore rispetto al gregge deve essere sempre ottimale. Talvolta se si vuole che il prato venga recuperato dopo anni di abbandono non è sufficiente lasciare pascolare le pecore per qualche ora, giacché la presenza di erbe secche e poco appetibili (graminacee e ciperacee) motiverebbe il gregge a passare velocemente a un prato migliore. È necessario quindi mettere un recinto e far rimanere le pecore anche la notte nel prato abbandonato, così che il calpestio degli zoccoli spezzi e frantumi gli steli secchi rimasti a terra per anni. Cheyenne ha progetti per il futuro che sono legati alla valle, al “moroso” e agli animali senza i quali non potrebbe stare.. Da poco ha preso il libretto d’imprenditrice agricola. 68 «La solitudine mi piace. La sera posso sentire la radio, la tv, la musica, non manca nulla». «Col moroso passo tanto tempo quando lui è su in malga, i mesi estivi di meno». «Gli spostamenti del gregge avvengono a piedi come una volta, spesso i sentieri non ci sono più a fondovalle, così mi tocca tornare sulla statale». «Il veterinario viene per i vaccini e casomai lo chiamo al telefono se sono in difficoltà. Gli animali conoscono le piante velenose del territorio da cui provengono, l’anno scorso hanno mangiato forse l’aconito assieme alle altre erbe e per qualche giorno non erano proprio se stesse, ma poi è passato». «La nascita è concentrata a marzo e aprile; a Pasqua non sono pronti, solo le Vallesane lo sono. Io vendo soprattutto in autunno, bestie di 8-14 kg, al massimo 30; dopo cominciano ad avere il grasso e il sapore intenso, il sapore di pecora non piace molto ai trentini e non lo vendi più. Vendo soprattutto ai locali. Mi occupo di vendere solo le mie bestie, 20-40 all’anno a 2,5 euro al kg vivo». 69 «I musulmani hanno altre usanze, in Lazio mi dicevano che li macellano a 6 kg, quando l’agnello ha due settimane e comincia a rosicchiare l’erba». «I momenti più difficili sono quando piove, che devo spostare i recinti e le pecore sono nervose, o quando per spostarle devo camminare sulla statale facendo formare colonne di automobili. In autunno, invece, ci sono delle giornate in cui le pecore sono calme e si sta tranquilli: quelli sono i momenti più belli». «I pericoli? I cani, che di giorno sono alla catena e la notte vengono liberati. Poi, alle pecore può far male mangiare troppa frutta, troppo mais, succede poi che non riescano a rigurgitare per ruminare e quindi stanno male, si gonfiano. Anche a primavera quando gli animali giovani passano dall’alimentazione a fieno all’erba fresca si deve fare attenzione, in maniera graduale». «A fine aprile toso solo le adulte con la macchinetta, in un quarto d’ora ne faccio una, poi durante l’estate toso gli agnelli a mano con la forbice. La lana bella la regalo a dei miei amici che me la chiedono». «Turisti ce ne sono tanti: una volta alla settimana per l’Ente Parco mostro il gregge e faccio delle dimostrazioni con i cani». «Conto le bestie da stalla a stalla, sono tutte segnate su un registro dove annoto anche la crescita, e il loro rendimento». «Quando nevica abbondantemente ho problemi per ritornare a casa, abitiamo sull’altro lato della valle e la strada forestale che conduce alla casa ovviamente non viene spalata, cosi qualche volta le slavine ne interrompono l’accesso». «Un mercato per il formaggio ci sarebbe, ma ci vogliono attrezzature, stalla e caseificio che qui non ci sono e tutto deve essere a norma, e comunque prima di guadagnare qualcosa ci vogliono anni». «Con le amministrazioni locali e i privati va tutto bene. Ho un accordo con il Comune che mi paga per il servizio di “pulitura “ dei pascoli abbandonati che svolgo durante tutto l’anno. Per il Comune è importante che quando arriva la neve io abbia pascolato quello che mi è stato richiesto. Per i proprietari dei prati è gratuito». «Per chiamare le bestie uso delle parole tedesche che ho imparato in Germania». «La scuola? Sono contenta di quella che ho frequentato io e credo che anche all’Istituto agrario di San Michele debba partire un corso. Le scuole non vengono a vedere la mia attività». «Se mi auguro che un giorno i miei figli continuino questa tradizione? Sarebbe bello». «In futuro spero che cambi il modo di fare anche i corsi di formazione, ne sto frequentando uno, e anche delle modalità legate ai contributi agricoli che attualmente non aiutano chi vuole partire con poco, perché prima di poter vedere dei risultati dalla propria attività si deve aspettare magari dieci anni, è davvero troppo». La montagna è la mia casa. Mi piace anche fare qualcosa di utile per la montagna, non solo godere delle cose belle che offre. ” 70 71 17 agosto 2006 malga Agnelessa Val di Fiemme TERESA Da qui passano tanti turisti, che fanno sempre le stesse domande. Dalle loro domande capisco quanta differenza c'è tra il mio mondo e il loro. “ Teresa è nata in Canada e risiede a Masi di Cavalese. Figlia di una giornalista e di un geologo che lavorava nel settore dei pozzi di petrolio, ha studiato fino a 18 anni prima di fare molti mestieri: raccoglitrice di frutta, cameriera, aiuto skipper, insegnante di inglese in Sudamerica. Da sette anni fa la pastora. Parla inglese, italiano, spagnolo e francese e capisce il tedesco (altoatesino). Conosce anche il dialetto fiammazzo. Non ha marito: «Scherza? Sono sposata con le capre». Teresa ha un gregge di 300 capre. È una giornata di agosto, il cielo è bianco-grigio, la temperatura attorno ai 15 gradi, sotto la media stagionale. La stradina forestale in leggera salita attraversa uno scuro bosco di maestosi abeti rossi. Il richiamo della ghiandaia rompe il silenzio. In vista della malga c’è il silenzio, nessuno scampanellio. Qualcuno si sposta dalla malga alla stalla, il cane abbaia appena ci individua, e siamo ancora lontani, all’inizio del pascolo. Entro nella stalla e trovo Adriano che mi invia da Teresa, è lei il “capo” cui rivolgere le domande. Teresa ha i capelli lunghi e biondi legati a coda di cavallo. Sta andando a prendere qualcosa nella cucina della malga, ha ai piedi gli stivali di gomma verdi e fa lunghi passi sul terreno accidentato e ripido. La seguo. Ha in mano un catino che va a riempire con del mangime, credo per i cani. La seguo un po’ avanti e indietro per presentarmi e chiederle quando e se avrà un’oretta da dedicarmi per l’intervista. Ha un bel sorriso aperto e, seppur indaffarata, mi invita a prendere un caffè poco più tardi. Adriano, il pastore, barba bianca e cappello in testa, all’apparenza è un po’ più burbero, ma in realtà quando gli si parla è molto gentile e disponibile. Questo pomeriggio sta preparando la macchina perché scenderà a valle per prendere degli ospiti in arrivo. Il terzo pastore, un giovane albanese, scenderà dai pascoli alti con il gregge solo più tardi, verso le 16-16.30. Dietro la stalla, altri animali da cortile: galline, anatre e un asino. La malga è composta da una grande stalla e da una bella casetta che offre i giusti confort: cucina, camere e bagno. Teresa è molto socievole, è americana ed è in Trentino già da alcuni anni, parla bene l’italiano e anche un po’ di dialetto. Mi racconta della sua vita avventurosa anche attraverso l’oceano come aiuto skipper. Si toglie gli stivali ed entriamo in casa dove beviamo un caffè e incomincia a raccontarmi. Approdata in Trentino Alto Adige per la raccolta delle mele alcuni anni fa, conosce Osvald dal quale apprende l’arte dell’allevamento delle capre e si appassiona a questi animali. All’Agnelessa è già da qualche anno e gestisce un gregge di 300 capre di vari proprietari organizzati dall’Associazione Allevatori Caprini Val di Fiemme. Rimango fino all’ora della mungitura poco dopo il rientro dal pascolo, lo scampanellio è intenso. Le capre occupano un ampio spazio scendendo tra gli abeti, ma in breve i pastori con i cani le incanalano nel recinto e poi nella stalla concentrandole all’interno dove lo scampanellio diventa un concerto forte e ipnotico. Qui attendono di passare nella sala mungitura adiacente e poi sul carrello, in gruppetti di sei alla volta. Nella sala mungitura tutto si svolge molto rapidamente, Teresa pulisce le mammelle delle capre e posiziona l’aspiratore di gomma e acciaio mentre un sistema automatico pompa il latte in particolari contenitori in acciaio. Al termine della mungitura il latte verrà portato a valle al caseificio di Cavalese per la produzione di formaggio, e a Teresa resterà il compito di ripulire tutta l’attrezzatura e la sala per la mungitura. Teresa è contenta del proprio lavoro e sicuramente l’anno prossimo la ritroveremo qui, a lavorare con le “sue” capre. 72 73 «I pericoli sul territorio sono vari: ad esempio, la caduta di sassi: lo scorso anno sono finita all’ospedale a causa di un sasso in testa e tre capre sono state colpite. Una poi è morta. Quando gli animali sono nervosi o agitati per la presenza per esempio del beco si muovono in fretta e, correndo sul terreno roccioso, provocano la caduta dei sassi oppure si mettono in situazioni senza uscita e l’arrivo da dietro delle altre provoca la caduta delle capre stesse. È successo ancora di dover poi calarle giù con le corde. Un altro problema è che mangiano il veratrum (solo quando non ha il fiore), piace come fosse zucchero, poi stanno male, fanno versi perché non riescono a vomitare e quindi liberarsi. Tu devi farle vomitare poi dare il carbone per il gas, poi il lievito e le flebo. Se arrivano a gonfiarsi poi muoiono. Poi ci sono i morsi di serpenti o tagli…». “ Il valore della montagna? La natura, la magia delle stagioni, il cambio dei colori, dei rumori e degli odori mese dopo mese. Aspetto l’autunno, la neve… «Gli spostamenti del gregge avvengono a piedi, quando è possibile percorrendo sentieri e strade forestali; bisogna stare attenti alle automobili, poi le bestie vogliono fermarsi a mangiare. La strada per il Manghen è stretta e non tutte le persone hanno la pazienza di aspettare per poter passare». «I momenti difficili? Quando piove, con il fango le bestie vogliono stare nella stalla e lì c’è il letame, si sporcano, poi attraverso il fango e il letame si passano delle malattie degli zoccoli. La mungitura è un po’ pesante, sei-sette ore al giorno. I momenti più belli sono quelli passati al pascolo: mi piace tanto. Ci alterniamo con l’altro pastore». «Ho un cane da pastore; sempre uno solo, a causa della competizione che c’è tra loro… Ogni pastore ha il suo. È importante che il cane sappia fermare le capre al momento giusto senza spaventarle». «Mi alzo alle 3.30, caffè e sigaretta. Dalle 4 fino alle 6 si munge poi tutti e tre si fa colazione, latte, pane, muesli, poi uno di noi va al pascolo con le capre, in due si fanno le pulizie della stalla e della sala mungitura. Adriano fa da mangiare, si pranza, si riposa un po’. Si riprende preparando tutta l’attrezzatura per la mungitura. Verso le 16.30-17 rientrano le capre dal pascolo, si munge, alle 19 arrivano a prendere il latte dal caseificio, poi si deve pulire tutta l’attrezzatura con acqua calda e prodotti appositi per l’igiene, si cena e si va a letto stanchi. Se invece è il turno del pascolo, alle 6 ti avvii ai pascoli verso il passo Manghen e dintorni a 2000 m, con i panini e qualcosa da bere. Raggiunto un buon pascolo le capre si fermano, brucano, poi ruminano, si riposano. Noi mangiamo il panino, poi si rimettono a pascolare. Quando sono sazie si scende piano piano verso la malga. Quando hanno le "scarpe dure" [le mammelle piene di latte] vengono volentieri a farsi mungere». «Da qui passano tanti turisti, che fanno sempre le stesse domande. Dalle loro domande capisco quanta differenza c’è tra il mio mondo e il loro». «La solitudine mi consola, non mi manca la tv: ho la musica. Mio padre mi manda i giornali dall’America ma non mi interessano molto. Forse è egoismo, ma non provo curiosità». «Rispetto a una scuola per pastori ho paura che non ci siano tante persone interessate». «I bambini non sanno da dove viene il latte che c’è al supermercato…». «Questo è il mio lavoro, non vedo grandi cambiamenti per il futuro». 74 75 Arrivare a Malga Alpo è veramente semplice anche se i km da Trento sono 80 per arrivare a Bondone di Storo, più i 6 km di stradina militare, stretta ma asfaltata, che ci porta a poche centinaia di metri dalla Malga. L’ultimo tratto lo percorro a piedi; bellissimi sono i grossi faggi che costeggiano la strada forestale sterrata che conduce al piano dove si trova la malga. Il limite del bosco è poco più su e le cime dei monti attorno non sono molto lontane, ma siamo solo a 1500 di quota, è una bella giornata di sole, ampio il panorama tutt’attorno. Siamo molto vicini al confine con la provincia di Brescia, con la Val Vestino che nel 1934 fu esclusa dai confini trentini. I molti capanni per la caccia agli uccelli, il toponimo roccolo sul dos Avez e la non troppo distante Bocca del Caset dove il Museo Tridentino di Scienze Naturali inanella gli uccelli di passo confermano l’abbondante presenza di uccelli. Graziano e Loretta mi accolgono molto bene. Graziano, operato da poco alla gola, parla con voce alterata, ma la sua comunicatività è forte e Loretta che lo conosce da tempo mi fa in alcuni momenti da interprete. Le cose che hanno da raccontarmi sono così tante che, dato che in questo momento il lavoro lo permette, mi fermo a pranzare con loro. Ci sono moltissimi animali domestici: mucche, capre, cavalli, pecore, maiali, cani, gatti, galline. Fuori fa caldo, così entriamo nella grande cucina dove ci sono ancora, anche se la malga è stata in parte ristrutturata, le caratteristiche grandi cappe in muratura che raccoglievano i fumi dei due grandi fuochi aperti necessari per “caseare”, fare il formaggio. Alle pareti attrezzi, mestoli e forbici per la tosatura delle pecore, ma soprattutto una gran quantità di foto di Graziano: la sua famiglia, amici, greggi, cavalli. Sono piuttosto rovinate ma raccolte con cura. Ci sono anche articoli di giornale dove Graziano è con il suo gregge vent’anni fa, e foto di pecore morte colpite dal fulmine. 5 settembre 2006 Malga Alpo di Bondone di Storo GRAZIANO No, no, non c’è solitudine quassù. La nostra tv è guardare la sera tele-mucca, tele-pecore, tele-gatti, cani, tele-capre, cavalli, i maiali… “ Graziano, figlio di Ernesto e Livia, è nato nel 1951 a Bondone, dove risiede. Ha la licenza elementare e in passato ha fatto il muratore e il boscaiolo. Non ha moglie né figli. Parla il dialetto. Graziano mi racconta delle difficoltà che ha dovuto superare all’inizio, quando lavorava col padre che non gli dava nessuna ricompensa, così che andava a fare il manovale di giorno e la sera accudiva gli animali. Più tardi, quando finalmente aveva le proprie bestie, gli era vietato dal padre pascolare nei prati di famiglia. Altri racconti di Graziano hanno dell’incredibile. Come quando, molto giovane, approfittando delle fitte nebbie basse aveva sconfinato col gregge nel vicino pascolo delle mucche di tre fratelli che, accortisi, lo rincorsero lanciandogli una forca da fieno nella schiena e lo trafissero, mandandolo in ospedale. Racconti che rivelano la durezza delle condizioni di vita in quelle zone di confine. Mi mostrano un bel libro sulla storia di Bondone e mi leggono la drammatica lettera di una vedova in difficoltà economiche che prega le sia tolta la sanzione della forestale per aver catturato dei pettirossi con il vischio per il sostentamento dei suoi bambini. Infine usciamo fuori. Le pecore sono all’ombra di alcuni abeti rossi, tranne una che sta assieme alle capre che sono attorno alla stalla in cerca di ombra. Quella pecora era nata con le zampe anteriori storte e Graziano, per raddrizzarle, gliele ruppe provvedendo poi a fasciarle e medicarle con cura. La pecora, allattata da una capra e cresciuta normalmente, oggi non ama la compagnia delle pecore e trascorre tutto il tempo con le capre. Loretta è appassionata della vita con gli animali e fa progetti per il futuro. È della Val di Ledro e ha frequentato corsi di formazione presso l’Istituto agrario di San Michele all’Adige per la produzione di formaggio di capra, cosa che nei prossimi anni spera di far diventare la sua professione. Loretta è una giovane donna molto loquace, carina e allegra: è bello vedere che la montagna viene vissuta con entusiasmo, e il buonumore è contagioso… 76 77 «Mio padre faceva il carbonaio, tutta la famiglia si spostava sulla montagna… Alcune mie sorelle sono nate mentre erano a fare il carbone. Il papà ha iniziato a fare il pastore nel ’51 con dieci pecore, dopo 16 anni siamo arrivati ad avere 130-140 pecore selezionando le più belle, la mamma aveva delle capre: a un certo punto erano 25». «Ci tenevano a scuola a ripetere l’anno: facevamo la sesta, la settima, perché non c’erano le scuole medie…». «Un tempo gli spostamenti si facevano a piedi e con gli asini di mio nonno per i carichi, dal pascolo a Bondone, a 800 m, dove aveva una stalla con recinto, e dal paese al pascolo a 1500 m, seguendo la crescita dell’erba». “ C’è un discreto passaggio, qui c’è un bivacco segnalato su alcune guide escursionistiche. Viene gente sia con la mountain bike che con gli sci per sci-alpinismo, e anche perché ci sono delle fioriture particolari. «Faccio il pastore da sempre; è che quando litigavo con mio padre andavo a trovarmi altri lavori. Dall’84 mi sono messo in proprio, ci vuole passione per fare il pastore, e mio fratello non ce l’ha». «Quella che faccio non è proprio transumanza ma scendevo fino a fondo valle l’inverno per sfuggire alla neve». «La mia mamma faceva il formaggio di capra e lo vendeva a chi passava e ai paesani. Abbiamo 40 capre da latte che mungiamo per fare il formaggio. Per uso proprio. Stiamo aspettando che il comune dia il via a un adeguamento della casera per poterlo produrre e vendere». «Una volta questo pascolo serviva per 200 mucche, per le pecore i pascoli erano altri: più magri, più su verso il monte Tombea. Per le pecore, sempre i pascoli più brutti…». «Per le capre abbiamo sperimentato un nuovo orario per non doverci alzare troppo presto. La sera le mungiamo più tardi, alle 19, così al mattino si può iniziare a mungerle verso le 7». «Molti anni fa hanno trovato la brucellosi a 30 pecore, così che dovetti eliminarle, poi mandai le orecchie, con orecchino di riconoscimento, a conferma dell’eliminazione degli animali ammalati – c’era un contributo – ma ci sono voluti tre anni per eliminare la malattia dal gregge. Per le ferite del piede si usava la resina dei larici, ma non si poteva: la forestale controllava. Anche dalla corteccia dell’abete bianco si prelevavano piccole quantità di resina; per le piaghe, aceto e cenere». «Gli agnelli nascono in autunno e primavera, i capretti a gennaio-marzo. Il capretto intorno ai 10-12 kg viene venduto a gente del posto, mentre gli agnelli grandi maschi ci vengono richiesti dai marocchini». «Da giovane ero al pascolo come lavorante da un allevatore che aveva più di un aiutante in Val Vestino. Un giorno il proprietario si accorse che c’era qualcosa di strano nel ripetersi della sparizione di alcuni agnelli, così si nascose e spiò un aiutante. Questi portava gli agnelli più belli a vendere in un rifugio poco distante e poi riferiva che l’aquila o la volpe li aveva predati. Scoperto, per punizione venne legato a testa in giù a un albero». «A marzo le pecore cominciano a pascolare intorno al paese, poi si comincia a salire. Intorno ai 1000 metri rimango per un mese o due ai Baitoni, poi a maggio-giugno vengo su definitivamente e resto fino a quando va via la neve, di solito a dicembre. Il pascolo della malga è grande e gli animali, capre, cavalli, pecore e mucche, pascolano in luoghi diversi». «Per le pecore mi arrangio a tosarle a mano di solito a giugno, mentre per gli agnelli aspetto che passi il caldo verso settembre, altrimenti le eventuali piccole ferite vengono infettate dalle mosche. Qualche sacco di lana lo tengo, se qualcuno me la chiede. Per lavarla si mette nei sacchi di iuta nell’acqua di un torrente pulito. Il comune ci dà una mano per smaltire quella che rimane». «I pericoli? Ci sono i cani liberi che spaventano le pecore e le fanno cadere nei dirupi, e i fulmini: nel ’77 sono morte 27 pecore colpite dal fulmine». «Sono bravo ad aggiustare le ossa rotte. Sistemo la zampa, la fascio stretta, metto la resina perché non si infiammi». «Per raggiungere la malga c’è una strada militare austriaca, asfaltata non molti anni fa. Per andare in paese a fare la spesa mi sposto con l’Ape dall’84. Poi ho una vecchia moto». «Una volta gli agnelli nascevano alla fine della stagione dei carbonai, verso settembre: per festeggiare, tutti comperavano un agnello». «I momenti più duri sono a giugno e luglio, quando devo fare il fieno e c’è molto da fare. A novembre c’è poco da mangiare. L’ inverno è disagevole, ma non c’è tanto da lavorare: alle 17 gli animali sono al riparo e la giornata finisce. Il periodo più bello, invece, è a settembre». «La scuola? Si impara sul luogo…». 78 79 Il luogo è veramente molto bello. L’apertura che lo rende ben esposto, la pendenza alternata a pianori, la presenza di acqua e la vegetazione con prevalenza di larici rendono il luogo particolarmente ameno. Marco proviene da Varese, fin da piccolo frequentava per le vacanze queste valli alle quali è rimasto molto legato, che conosce molto bene anche alpinisticamente parlando. Da qualche anno aiutava i pastori che avevano in gestione la malga Covel prima di lui, e da quest’anno assieme a un socio conduce la malga dove trovo 250 capre, 174 delle quali vengono munte regolarmente due volte al giorno: con il latte ottenuto si produce dell’ottimo formaggio presso il caseificio turnario di Pejo. Le trovo che pascolano accompagnate dal pastore poco distante, mentre per vedere il gregge di 235 pecore dovrei salire fino su in alto sui pascoli a quota 2500-3000 m. 12 settembre 2006 Malga Covel Val di Pejo MARCO I momenti belli? La nascita dei capretti, l’alpeggio… Sempre, se ti piace questo lavoro qua, è bello tutti i giorni. E poi c’è la soddisfazione quando ti va bene tutto. “ Marco è nato a Busto Arsizio e risiede a Pejo. Figlio di coltivatori diretti, ha frequentato la scuola professionale da pasticciere. In precedenza ha lavorato nell’azienda avicola del padre, e negli ultimi anni ha aiutato d’estate i precedenti gestori della malga. Capisce il dialetto locale e il varesotto, ma non li parla. Non ha moglie né figli. Marco ha 252 capre e 235 pecore, 88 delle quali asciutte. Marco è un ragazzo molto soddisfatto della sua scelta. In questi giorni i suoi genitori sono qui in visita. Bisogna dire che la malga, da poco restaurata, ha davvero tutte le comodità necessarie, l’acqua e l’energia prodotta da panelli fotovoltaici: la strada è sterrata ma in ottime condizioni, le condizioni e le attrezzature per la mungitura sono davvero ottimali. Marco è di poche parole, come chi crede che vedere e fare siano il vero modo per conoscere, e lascia alle parole giusto il minimo spazio: mi racconta che in futuro si vorrà occupare solo di capre. Attualmente le pecore sono su in alto, arrivano vicino al ghiacciaio, scendono solo a fine stagione, tra pochi giorni, quindi. Lui sale tutti i giorni fin lassù per vedere che tutto vada bene e per spostarle da una valle all’altra quando l’erba scarseggia. Non ha nessun cane pastore (per scelta) ma dice che per lui va bene così, al pascolo alto non ci sono problemi né di confini, né di predatori, quindi non necessita di recinti elettrici per la notte o di cani. 80 81 «Mi è sempre piaciuta la montagna, salire le cime… Conosco tutti i monti qua intorno, non c’è alcun posto che non conosca. E poi l’allevamento degli animali come si fa qua, e non intensivo come si fa giù, ti dà più soddisfazione. È più naturale». vendiamo: ho venduto una volta un maschio ma lo hanno scannato lì subito, e mi hanno detto di mettere a posto… Non mi è piaciuto». sempre gente. Io ho la macchina. Quando ho finito posso andare giù in paese dai miei amici… Qui c’è la corrente, prodotta con i pannelli foto-voltaici, volendo c’è anche la tv». «Toso le pecore due volte l’anno: in primavera, quando sono giù nelle stalle, e a metà settembre nelle stalle; le porto giù e poi tornano su fino alla fine di ottobre, ma non le porto più in alto perché con il pelo corto fa freddo. Le capre le faccio pascolare tutti i giorni in posti diversi, non troppo lontano perché le mungo due volte al giorno qui in stalla». «Turisti ne passano anche troppi. Per fortuna, dice mio padre: cosi vendo il formaggio, il mio e quello della comunità». «Mungo le capre alle 5 del mattino e di sera alle 17, quando hanno tanto latte, poi un po’ più tardi. In totale circa 315 litri: due litri a testa a inizio stagione, poi a fine stagione un litro al dì. C’è il carrello per la mungitura meccanica che funziona con il generatore». «Mi auguro di aumentare il numero delle mie bestie, ho iniziato con due capre e quattro pecore. Ma credo che aumenterò le capre e non terrò più le pecore. Dei privati di Pejo mi hanno dato dei prati abbandonati da anni da ripulire. L’anno prossimo terrò una parte dei prati da sfalciare, quelli che quest’anno ho iniziato a pulire usando gli animali. Le pecore sarebbero più brave, ma soffrono il caldo, quindi uso le capre». «La produzione di formaggio si fa al caseificio turnario di Pejo. Si produce il formaggio che viene poi venduto sia lì, che nei mercatini della valle. Una buona parte viene venduta direttamente in malga». «I capretti nascono a gennaio-febbraio. Gli agnelli cominciano tra poco, poi a maggio. In base alla Pasqua “alta” o “bassa” si contano cinque mesi di gestazione, si calcola indietro e si mettono i maschi nel branco. Si fanno nascere nel periodo pasquale perché il prezzo per la loro carne è migliore». «È da quando avevo due anni che vengo sulle montagne di Pejo. Mi sono sempre piaciute le pecore e le capre. Avevo giù a casa le capre, e le portavo su per l’estate, e giù per l’inverno». «Per chiamare gli animali? Fischio e mi sentono. Le chiamo “belle” e vengono quando porto il sale, riconoscono la mia voce anche da 500 metri di distanza. Le capre, quando è ora di mungere, le chiamo con il mangime. Non ho cani da pastore, non ne voglio prendere». «Ogni proprietario si arrangia per vendere i propri animali. I miei li vendo tutti a privati: me li prenotano due-tre mesi prima da Busto Arsizio, dal paese di Umberto Bossi il senatore. Li vendo di pochi mesi. Noi ai musulmani non «Le pecore e le capre asciutte le sposto ogni tre settimane da una valle all’altra quando finisce l’erba, su in alta quota oltre i 2400 m». «Ci alziamo alle 5. Dopo aver munto le capre, verso le 7 facciamo colazione, poi il mio collega prende le capre e le porta al pascolo. Poi verso le 15 si preparano gli animali per la mungitura serale. Io vado su la mattina per vedere le pecore, e verso l’una vengo giù per mangiare. Se invece non sono alte, sto tutto il giorno con loro. Sul pascolo le pecore si alzano fino a 3000 metri per la notte. Poi scendono giù intorno ai 2500 per pascolare». «Le malattie? Per tante cose mi arrangio io: iniezioni per la bronchite, vermi, ferite… La resina di larice mescolata con l’ittiolo sfiamma bene le ferite». «Le strade per la malga vanno benone, tutti i giorni porto giù il latte con la jeep in paese. La solitudine non mi pesa. No, c’è «Vado sui pascoli della malga comune di Pejo, senza recinto e senza cani. Pascolo fin sotto i ghiacciai». «Conto le pecore sui sentieri. Quando le mungi, conti le bestie tutti i giorni». «Le volpi rubano gli agnelli quando nascono a primavera, due quest’anno. Per la bronchite ne sono morte cinque sinora». «I momenti difficili? All’inizio della stagione, quando gli animali escono dalle stalle e devi fare il gruppo. Prima si formano gruppetti, e solo lentamente dopo 15- 20 giorni, verso giugno, il gruppo è fatto e si può salire. Prima di quel periodo uso il recinto mobile quando siamo vicino al paese. Anche in autunno quando nascono tanti agnelli uso il recinto». I momenti belli? La nascita dei capretti, l’alpeggio… Sempre, se ti piace questo lavoro qua, è bello tutti i giorni. E poi c’è la soddisfazione quando ti va bene tutto. ” 82 UNO SGUARDO SUI PRODOTTI: LA LANA La lavorazione della lana ha accompagnato per secoli lo sviluppo della società, fornendo redditività e benessere a molte comunità locali. La diffusione degli allevamenti ovini nelle regioni alpine creò sul posto le condizioni favorevoli per lo sviluppo di una produzione laniera che diventò, in alcuni territori, una parte importante del comparto industriale. Tuttavia dopo gli anni ’60 anche questo settore fu coinvolto dal generale peggioramento delle condizioni dell’industria tessile. Il mutamento dei costumi e delle abitudini e l’incremento nell’uso delle fibre sintetiche, più economiche, versatili e facili da lavorare, hanno messo in crisi il mercato mondiale della lana. Il crollo del prezzo della lana ha indotto molti ad abbandonare le attività collegate alla pastorizia, ma in alcune zone di montagna la tradizione è sopravvissuta. Attualmente nell’area di cooperazione dello Spazio Alpino, il numero di pecore presenti è pari a circa 3 milioni di capi, per lo più situati sul versante francese. Per quanto riguarda l’area italiana, le consistenze maggiori si riscontrano in Piemonte e Lombardia. In Trentino si contano circa 25.000 capi allevati per la maggior parte secondo il metodo della transumanza durante tutto l’anno. Il settore ovino riveste un ruolo importante nel territorio montano e apporta 83 Federico Bigaran Massimo Pirola contributi positivi anche al settore turistico in quanto mantiene curati il territorio e il paesaggio tradizionale. Ogni capo presenta una produzione annuale di circa 3 kg di lana che purtroppo, non trovando sbocco sul mercato, viene in genere distrutta. Tale situazione ha portato quindi con sé un problema ambientale connesso allo smaltimento di questa fibra naturale che, non decomponendosi in tempi brevi e bruciando con difficoltà, deve essere smaltita secondo determinati dettami. Questa situazione comporta oggi un costo aggiuntivo per gli allevatori che, oltre a dover pagare per tosare le pecore, devono anche pagare per smaltire la lana prodotta. La risoluzione di tale problema comporterebbe per il settore un’opportunità di crescita e di sviluppo pieno delle proprie potenzialità. Il progetto Alpinet Gheep assegna quindi un ruolo chiave alla valorizzazione del settore della lana per i riflessi positivi che si avrebbero sull’allevamento e quindi sul paesaggio e sull’ambiente nel suo complesso. La lana delle pecore attualmente allevate in Trentino presenta caratteristiche eterogenee ed è mediamente di bassa qualità, in quanto gli animali non sono stati più selezionati tenendo conto di tale aspetto. Le molte qualità della lana La lana rappresenta la più diffusa e importante fibra animale. Grazie alla sua particolare struttura, composta da tre strati concentrici, possiede numerose proprietà quali l’igroscopicità (assorbe umidità fino al 30% del peso), una forte protezione termica (coibenza), buona elasticità, resistenza all’usura e alla fiamma, scarsa elettricità statica, resistenza ai piegamenti e docilità alla flessione (resilienza). La qualità della lana viene definita in funzione della finezza e della lunghezza delle fibre che possono variare rispettivamente da 20 a 80 micron e da 20 a 400 mm in base alla razza e alla parte del vello dell’animale interessata; la parte migliore è quella delle spalle e dei fianchi. Le lane più fini risultano più arricciate, mentre quelle più grosse risultano più elastiche e più tenaci. Allo scopo di individuare sinergie per la valorizzazione della lana locale, il progetto – anche in seguito a un’intensa attività dimostrativa realizzata dall’Assessorato Agricoltura negli anni precedenti – ha proposto e sviluppato un accordo tra i vari protagonisti della filiera produttiva. L’accordo prevede un’integrazione delle attività fra i vari soggetti, dal produttore al venditore, dall’allevatore all’artigiano, per favorire una ridistribuzione dei benefici tra tutti. Vengono prese in considerazione tutte le fasi della produzione e della lavorazione della lana per riuscire a ottenere un prodotto finito che possa dare la giusta redditività a tutti i soggetti coinvolti. Partecipano all’accordo, promosso dalla Provincia di Trento, l’Associazione Artigiani e Piccole Imprese della Provincia di Trento, attraverso un gruppo di aziende artigiane del settore abbigliamento, e l’Associazione Allevatori Ovicaprini trentini (APOC). L’iniziativa prevede la raccolta della lana presso gli allevatori trentini, il suo immagazzinamento e trasporto presso i centri di lavaggio. Quindi si procede, secondo le destinazione prevista per ogni partita, alla cardatura, alla filatura e alla tessitura presso ditte specializzate con lavorazioni definite e concordate. L’accordo di filiera è basato su un insieme di azioni integrate che prevedono l’utilizzo esclusivo della lana trentina, l’utilizzo di impianti specializzati per la sua lavorazione, l’adozione di metodi di trattamento a basso impatto ambientale, l’individuazione dei prodotti finiti da commercializzare, lo sviluppo di azioni promozionali e di divulgazione, l’individuazione degli ambiti e dei criteri di commercializzazione dei prodotti, l’elaborazione di metodi per garantire un sistema di rintracciabilità nelle varie fasi. Gli artigiani trentini, tramite un’azione dimostrativa del progetto Alpinet Gheep, hanno elaborato vari capi unici di abbigliamento e accessori, reinventando l’uso della lana trentina e reinterpretando moda e tendenze apportando un tocco innovativo nel solco della tradizione. I prodotti realizzati sono già stati presentati in importanti manifestazioni e fiere, riscuotendo un gran successo di pubblico e di critica. 84 UNO SGUARDO SUI PRODOTTI: LA CARNE I ritratti che abbiamo visto nelle pagine di questo libro ci aiutano a conoscere la vita quotidiana dei pastori: gli spostamenti, le nascite, la tosatura e la mungitura degli animali. Di fronte a queste immagini che mostrano la bellezza ma anche la durezza del lavoro dei pastori, viene forse da chiedersi se, e in che modo, la loro attività permetta ancora loro di guadagnarsi da vivere, con la vendita delle carni, del latte o di formaggi. I protagonisti di questo volume sono quelli che vengono definiti pastori “vaganti” o “nomadi”. Non hanno, come i pastori transumanti, una stalla o una malga in montagna: si spostano invece per tutto l’anno, come veri nomadi, alla ricerca di pascoli per il loro gregge. Si tratta di una forma di pastorizia oggi estremamente rara, che nel contesto europeo sopravvive solo nel nostro arco alpino: in Trentino, Piemonte, Lombardia e in alcune zone di Friuli e Veneto. La natura stessa di questa pastorizia impedisce ai pastori di produrre latte – non hanno a disposizione il tempo e le strutture adatte per lavorarlo – e la loro unica fonte di reddito, perciò, è la vendita della carne. Una vendita che avviene secondo forme molto diverse da quelle di un tempo, in un mercato che negli ultimi decenni ha subito grandi cambiamenti. Tradizionalmente, questi pastori vendevano agnelli di grandi dimensioni, che 85 Edi Piasentier Università degli Studi di Udine Dipartimento di Scienze Animali arrivavano a 60-80 chili di peso: si tratta di quelli che dal punto di vista merceologico sono definiti “agnelloni”. Per allevarli, con il latte delle madri e l’erba dei prati, i pastori non spendevano nulla, e preferivano dunque farli crescere il più possibile. Le loro carni si vendevano facilmente, soprattutto in alcune regioni come l’Abruzzo o l’EmiliaRomagna: un grande mercato era, ad esempio, quello di Lugo, in Romagna. Tradizionalmente, i grossisti di bestiame andavano dai pastori a scegliere gli agnelli – perlopiù castrati, perché solo i migliori venivano fatti riprodurre – in occasioni stabilite, come le fiere o i mercati che spesso si tenevano in occasione del ritorno dall’alpeggio. Ancora oggi, i pastori continuano a vendere i loro agnelli, ma le richieste dei consumatori sono molto cambiate. Oggi vengono messi sul mercato animali che pesano al massimo 40-50 kg, ma la domanda è soprattutto per quelli sui 15-20 kg, le cui carni sono considerate più tenere e delicate. Ad acquistare animali più grandi sono invece i nuovi consumatori rappresentati dagli immigrati extraeuropei – perlopiù nordafricani – che per tradizione consumano animali pesanti. In generale, in Italia le vendite sono ancora stagionali, legate ad alcuni periodi dell’anno, come la Pasqua; va ricordato, comunque, che la carne ovina è un prodotto di nicchia, per veri e propri cultori, e ha consumi modesti: si calcola che ogni italiano ne mangi circa 3 kg all’anno, contro i 70 chili di carne totali. Tra l’altro, occorrono una certa disponibilità di tempo e, magari, la conoscenza di ricette particolari per cucinare queste carni. Dunque, al fine di aiutare i consumatori a gustarle e apprezzarle, i produttori stanno cercando di valorizzarle, promuoverle meglio, farne conoscere la grande qualità. L’idea portante è quella di fare leva sulla bontà del prodotto, sottolineando come sia legato al territorio d’origine, tipico e sano: gli animali sono allevati a contatto con la natura, nutriti con il latte delle madri e l’erba dei prati. Le pecore più diffuse, di ceppo biellese-bergamasco, forniscono agnelli di buona qualità quasi in ogni momento dell’anno. Per contribuire a diffondere il consumo di queste carni, spesso conosciute solo da pochi intenditori, in questi anni sono state create varie sagre e manifestazioni. Tra gli obiettivi, quello di educare al gusto e al consumo della carne di pecora, particolarmente saporita e ancora poco conosciuta, e di farla apprezzare anche alle famiglie giovani, magari presentando le carni in forme compatibili con i nuovi modi del consumo: ad esempio, mettendo in commercio il cosciotto d’agnello precotto, che richiede una preparazione minima in cucina. Alcuni produttori hanno anche cominciato a collaborare con aziende di catering e ristoranti, ai quali forniscono specialità prelavorate, pronte per essere cucinate in breve tempo. Un’altra strada che i produttori intendono percorrere è quella della vendita on line, rendendo disponibili i prodotti dell’allevamento ovino sul web, in modo che i consumatori possano sceglierli e riceverli a casa in breve tempo. Sul sito del progetto Alpinet Gheep (www.alpinetgheep.org) sono già presenti le informazioni su dove trovare e degustare questi prodotti tipici. Tutte le iniziative sono ispirate a un principio comune: quello di avvicinare un po’ di più i pastori a chi consumerà le loro merci. Oggi la vendita del bestiame avviene attraverso grossisti, che acquistano i capi e mettono in commercio la carne; sarebbe interessante, invece, accorciare le fasi della distribuzione, secondo i principi di quella che viene chiamata la “filiera corta”, favorendo magari le visite alle aziende produttrici e i contatti con i pastori. Vedere da vicino i modi della produzione e della lavorazione di quello che si acquista è, per il consumatore, una garanzia di qualità e un modo importante per prendersi cura della propria salute che, come le ricerche scientifiche hanno dimostrato ormai ampiamente, ha un legame diretto con quello di cui ci si nutre. 86 87 LA SITUAZIONE OGGI, LE PROSPETTIVE E LE ASPETTATIVE Il progetto Alpinet Gheep, attraverso un’indagine sul settore ovi-caprino effettuata sulla zona dell’intero Spazio Alpino (che comprende il territorio di Austria, Slovenia, Liechtenstein e Svizzera, le regioni francesi di Rhône-Alpes, Provence-Alpes-Côte d'Azur, Franche-Comté, Alsace, i distretti tedeschi dell’Alta Baviera e della Swabia, Tübingen e Friburgo e, in Italia, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Province autonome di Bolzano e Trento, Valle d'Aosta, Piemonte, Liguria), ha reso disponibili numerose informazioni sulla consistenza e variabilità del patrimonio ovino e caprino nelle varie regioni. Dall’analisi delle variazioni della consistenza del patrimonio ovi-caprino intervenute nell’arco di circa dieci anni, ossia fra i due rilievi censuari, emerge una situazione caratterizzata da vitalità e da buone potenzialità di sviluppo, anche in relazione al più diffuso e consolidato allevamento bovino. L’indagine ha rilevato che il numero delle pecore presenti nello Spazio Alpino nell’anno 2005 ammontava a circa 2.900.000 capi. La maggior parte degli ovini viene allevata nelle regioni francesi (49,00%) mentre le regioni italiane totalizzano circa 260.000 capi, il maggior numero dei quali è situato in Lombardia, che dispone di oltre 80.000 capi. Per quanto riguarda la consistenza del patrimonio caprino Federico Bigaran Massimo Pirola nello Spazio Alpino, l’indagine ha rilevato una presenza di circa 500.000 capi, localizzati per lo più nelle regioni francesi e italiane. Il patrimonio zootecnico complessivo nello Spazio Alpino è, negli ultimi anni, in continua diminuzione ma, mentre i bovini accusano riduzioni consistenti (oltre il 5% nel periodo 2000-2005), il settore ovino mostra solamente una lieve flessione (0,7% in cinque anni) mentre il settore caprino è complessivamente in incremento. I contributi maggiori all’incremento dei caprini provengono dalle regioni tedesche e austriache, dalla Slovenia ma anche dal Trentino Alto Adige. Va inoltre sottolineata l’importante variabilità genetica che caratterizza il patrimonio ovi-caprino dello Spazio Alpino ove sono presenti oltre sessanta razze di ovini, trenta razze di caprini e numerose popolazioni autoctone. Alcune di queste razze/popolazioni sono a rischio di estinzione in quanto composte da pochi soggetti. È questo un patrimonio che va salvaguardato e, ove possibile, rafforzato mediante programmi specifici da attuarsi in collaborazione con gli allevatori. Grazie ai minori investimenti necessari per l’avvio dell’attività di allevamento ovi-caprino, rispetto ad altri allevamenti, e a una maggior facilità nella gestione degli animali nonché all’assenza di restrizioni produttive, si assiste oggi a un maggiore interesse verso questo tipo di allevamento, in particolare da parte delle nuove aziende condotte da giovani. Lo sviluppo di tale allevamento, se adeguatamente inserito nel sistema silvo-pastorale e agro-alimentare di un territorio, può apportare importanti benefici all’ambiente, all’assetto idrogeologico, al paesaggio e alle comunità locali. La particolare forma di pastorizia nomade e transumante è oggi soggetta alle difficoltà imposte da un territorio di fondovalle sempre più denso di infrastrutture e vincoli che limitano il transito e il pascolo degli animali. La programmazione urbanistica dovrebbe tener maggiormente conto della presenza di questo tipo di attività e degli usi e costumi ad essa associati. A volte con pochi accorgimenti, individuati in fase progettuale, si potrebbero evitare spiacevoli inconvenienti per i pastori e per i cittadini. Il consumatore sembra oggi dimostrare un maggior interesse verso i prodotti della filiera ovi-caprina e le aziende produttrici spesso attuano al proprio interno anche la fase di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti incrementando quindi il valore complessivo della produzione aziendale e il reddito. A livello locale il progetto ha analizzato e sostenuto esperienze di integrazione delle filiere produttive, per esempio nel settore della lana, che vedono coinvolti anche i comparti dell’artigianato e del turismo contribuendo quindi al rafforzamento dell’identità e dell’economia delle comunità. Un altro aspetto che ci pare interessante sottolineare è l’utilizzo degli ovini e dei caprini per la manutenzione e la cura del territorio. Nelle aree di montagna, dove l’abbandono delle aree agricole e dei pascoli è avvenuto da più tempo e in misura maggiore, la vegetazione spontanea ha preso il sopravvento, modificando così il paesaggio tradizionale e introducendo nuovi elementi di rischio per le popolazioni (incendio, dissesto idrogeologico, presenza di animali indesiderati ecc…). Pecore e capre vengono quindi utilizzate, mediante differenti forme organizzative, per il ripristino di aree prative contribuendo così al miglioramento della vivibilità del territorio. Il progetto Alpinet Gheep, mediante l’attuazione di numerose iniziative come fiere, manifestazioni, rassegne, degustazioni di prodotti, seminari e anche con questa pubblicazione, ha voluto diffondere fra la gente informazioni e conoscenze sull’allevamento ovi-caprino e le sue problematiche. Mediante queste attività il progetto ha cercato inoltre di promuovere l’inclusione sociale degli allevatori e mantenere viva l’attenzione su questo mondo che, nonostante tutto, si presenta ancora attivo e ricco di potenzialità e risorse. 88 89 SHEPHERDS IN THE ALPS. TALES AND TRUE STORIES This publication is part of the Alpinet Gheep project, which promotes breeding and agriculture in mountain areas, local produce and related business. The project’s final goal is to enlighten society as to how important pastoral farming is to the protection of the environment, to local traditions and to providing the inhabitants of rural and mountain areas with an income; it is done through developing coordinated strategies in agriculture, crafts and tourism. Alpinet Gheep aims to establish a permanent network between partners from Austria, Bavaria, Slovenia and some regions in the North of Italy, and develop coordinated business. Initiatives which have so far been proposed are intended to improve, up date and spread existing knowhow, stimulate economic stability of the ovine/caprine sector, support its involvement in the social weave of mountain communities. The project also offers elaboration or strategies and beneficial action to overcome weaknesses in the sector, advertise positive interaction with tourism, crafts and territorial policies and, finally, to promote the constitution of a transnational federation of breeders in the alpine range. In order to succeed in all this, new forms of communication and commercialisation of ovine/caprine products are now in the process of being designed. This particular kind of product, in a highly competitive and complicated market, needs to be introduced through its unique nature and extraordinary quality: meat which is top quality and obtained from animals which are reared naturally and healthily; cheeses which are made with craft workers’ knowhow; and wool. In addition to explaining who shepherds are and how they live, this book contains a number of significant stories: local history scholars tell of the history of sheep farming in Trento; contemporary figures tell stories concerning the present day. Historians lead us through the past, from prehistory to the Romans, the middle ages and up to recent times. Enchanting images accompany us into a world, which today survives in the midst of uncountable problems and uncertainties, thanks to the love and will of a few determined breeders. The book then gives the reader some striking and precious tales of shepherds, the true meaning of their profession, their lives, problems and future prospects. The history of sheep farming in the Trento area The domestication of animals for meat and milk is one of the most fundamental steps in the history of man. The first evidence of this process in the Trentino region dates back to between the VI and the V millennium before Christ. Goat and sheep bones, as well as fossilised excrement have been found in the area surrounding Trento. In fact, there are many sites which show how widespread sheep farming was: in addition to grazing and rearing in sheds in built up areas, some archaeological findings lead us to think that small communities with animals practised some form of “migration” to higher altitudes. As far as the existence of Alpine grazing areas similar to the ones we know today are concerned, we are not able to trace back directly from prehistoric times to today; nonetheless, inscriptions and animal bells which have been found in various sites do tell us that in Roman times, mountain grazing was quite widely diffused in this region. It would seem that up to the beginning of the middle ages, livestock farming was ovine rather more frequently than it was bovine: rustic creatures, suited to surviving out in the open and grazing on the move, able to supply milk, meat and hide (pp. 13-14). The first interesting clues to the role of shepherds come from the Rotari decree, which was promulgated in 22 November, 643, and which states Longobard law in writing: severe punishment for whoever may injure or kill an experienced shepherd; obviously considered precious members of society. We learn from documentation that, even in Roman and Mediaeval times, woods and pastures were public, granted to land labourers and breeders who paid for its use (pp. 15-19). Finding material traces of passing flocks remains difficult until the late middle ages, as ovines are less reliant on permanent structures, such as stables or sheds, than bovines. It is to be the latter, from the XV century steadily onwards, which take over, although fully understanding why and how this change came about, is difficult. What we do know is, that between the 800s and 900s, despite travellers, as they passed through the Dolomites, admiring in wonder the alpine pastures covered in flocks with their shepherds – renowned to be savage creatures, the numbers of ovines suddenly plummeted, leaving space for bovines. Since then, and still now, sheep and goats (considered cows of the poor) are left to graze in the poorest and most inaccessible pastures (pp. 20-23). One interesting story which narrates shepherds travelling through Val di Fiemme is represented by countless graffiti on rocks: shepherds would either write or draw their initials and the number of animals in their herd, in so doing they have left proof of their movements and their lives, which has lasted for centuries. This historic evidence may perhaps be considered less usual than others, but is, nevertheless, important and rich in meaning (pp. 24-25). THE FIGURES OF TODAY Teodoro / p. 30 Teodoro had been a shepherd for a few years in the past before becoming a coach driver. He went back to it when he retired, occasionally helping his son. He deals with transhumance, transporting the livestock by truck for the initial part of their transfer. Later he and another shepherd put their flocks together and let them spend the winter months together on the plains; he then calls the truck back in to move them back up the mountain. Teodoro is married and has three children; the youngest is 17. He doesn’t spend a lot of time with them and most of it in summer. He has a primary school education, he speaks Trentino dialect and knows the words once used shepherds when they didn’t want anyone to understand: cuch (military policeman), calca (road), pauri (farm labourer). Guglielmo / p. 34 Guglielmo has been a shepherd for the last 10 years since he began helping his father who was taken ill; before that he was an electrician. His profession is a family tradition: his father, grandfather and great-grandfather were all shepherds before him. Husband and father of two young children, he manages to spend 3 to 4 months with his family every summer. Every September, at the end of Alpine pasture, transhumance begins, which takes him from the summer pastures in the mountains to the plains of the Veneto and Friuli regions; he returns around March. The months spent in the mountains with the flocks are the best, but also the most difficult, and Guglielmo believes that in the future, if nothing changes, the number of shepherds who are willing to lead such a hard life will get increasingly smaller. 90 Ruggero / p. 38 Ruggero, 46, was born and currently lives in Cavalese; he has been a shepherd for 29 years. His father was a baker; his grandfather a goat-herdsman. Ruggero is married and has no children. He speaks Italian, Fiamazzo dialect and knows a little “patois”, the dialect which transhuming shepherds would use to escape comprehension. Ruggero has 1400 sheep and goats and 13 donkeys. Solitude does not worry him: he defines himself “a chatterbox with friends all over the place”. 91 Aldo is 45. He’s married and has 3 children of 6, 12 and 14. His mother is a housewife and his father emigrated to Germany for 15 years to work in the building trade. He started shepherding when he was 15, helping a fellow villager for a few years to learn the trade. At that time, transfer ring livestock was hard work: on foot, carrying everything you needed for coking and sleeping on the ground, in the cold. Inversely, on the plains, farm labourers welcomed them in and gave them food and space to let the sheep graze. These days “big country houses have fences around them and there’s no contact”. Aldo bought his flock in 1990 and today has 1200 sheep and 40 goats. Stefano / p. 62 Teresa was born in Canada and lives in Masi di Cavalese. Daughter of a journalist and geologist, in the oil-well sector, she studied until she was 18 when she embarked on a number of trades: fruit picker, waitress, assistant skipper, English teacher in South America. She’s been a shepherdess for the last 7 years. She speaks English, Italian, Spanish and French and she understands German (of Alto Adige). She also knows the valley dialect. No husband: “Are you joking? I’m married to the goats”. Teresa has a flock of 300 goats. Graziano / p. 74 Lorenzo / p. 50 Stefano, 36, has been a shepherd since he was 20: he started off by working with a more experienced colleague called Gianni. He kept goats for a year and a half, then he moved on to sheep. Before that he was a driver for the breeders association. He has two children of 4 and 12, who love the animals spend their summers with him; he hopes they will carry on when he retires. In the future, he plans to transform part of his flock from transhuming to permanent in order to produce cheese. Gianantonio / p. 42 Gianantonio, 61, was born in Arco and lives there still. He went to the local commercial college and, after working as a waiter, has been a shepherd for more than 30 years. His father was a shepherd and his mother stayed with her husband, children and flock during the summer. Giancarlo has 3 brothers who work with goats. He speaks dialect: his father spoke the shepherds’ dialect, “patois”. If he can, he goes home every evening in summer, and every 4 to 5 days in winter. Over recent years, along with other shepherds, he gets around by van or jeep; they used to walk, using the same roads; donkeys would carry everything they needed, such as hides for sleeping on the ground. Giancarlo says quite adamantly: without the mountains, he wouldn’t know how to live. plains: no pastures, natural hunting reserves, crops which can’t be used for grazing sheep. For these reasons as well as low sales, he doesn’t have an optimistic outlook for the future. Lorenzo has been alpine grazing since he was 10. His father wasn’t a shepherd but his grandparents, uncles and cousins were. He gets around with a van which serves as kitchen, bedroom and sheep shed. He has a wife and two teenage sons who he goes back to every evening from May to November; only occasionally for the rest of the year. He doesn’t hope his children follow in his footsteps: “nobody treats us with any consideration … People like the sheep but not the muck: they like picture postcard flocks”. Lorenzo loves the mountains and talking about his job. His pessimistic about the future but is ready for a laugh and believes that telling people about what he does for a living could be useful. Vittorio, Ivan and Paolo / p. 56 Cheyenne / p. 66 Marco / p. 78 Cheyenne was born in Germany and lives in Val di Rabbi. She is the daughter of an artist and an educator art-therapist, she went to school in Trentino and at the Steiner school in East Germany. She then went on to complete 2 years apprenticeship in a school for shepherds in former East Germany, where she worked and studied. After working as waitress, bartender and nanny she started caring for flocks of sheep 4 years ago. She speaks German, English, Italian and dialect. She has a boyfriend and no children. Part of her job is also to head meeting with tourists on behalf of the Parks association. Aldo / p. 46 Teresa / p. 70 Vittorio and his children Ivan and Paolo are a family of shepherds. Vittorio has managed the transhumance for 50 years: nowadays with a heavy vehicle, but on foot when he worked with his father. Vittorio, Ivan and Paolo have 1200 sheep. Vittorio is happy with the mountain pastures; however, hw complains about the huge difficulties encountered on the Graziano was born in Bondone in 1951. This is where he lives and where he has always been a shepherd with his father. He has a primary school education and for brief periods he ha salso worked as a builder and lumberjack: “whenever I had an argument with my dad, I went off to look for another job”. He isn’t married and has no children. In addition to the flock, he has 40 goats whose milk he uses to make cheese for himself, but he’s awaiting permits to produce the chees for sale. Marco didn’t start working as a full time shepherd until recently. When he was young, he used to spend the school holidays in these valleys, which he knows like the back of his hands. In recent years he has been helping shepherds to manage alpine grazing during the summer months; for a year, he and an associate, have managed it themselves. He began with 2 goats and 4 sheep; today he counts 250 goats 174 of which are milked for cheese making. In the future, he would like to increase the number goats and stop keeping sheep. 92 93 BIBLIOGRAFIA AA.VV. Le razze ovine e caprine in Italia, Associazione Nazionale della Pastorizia – Roma, 2005 BATTISTI C., Noterelle statistiche sul bestiame da pascolo, le malghe le latterie e l’industria dei latticini nel Trentino, in “Tridentum”, IV, 1904 BELLABARBA M., OLMI G. (a cura di), Storia del Trentino. l’Età Moderna, IV, Bologna, 2002 BERNARDIN GAIO G., Primiero nel XV secolo. Comunità alpine e beni collettivi, in “Studi trentini di scienze storiche”, LXXXIV Sez. I, n. 4, 2005 BOLOGNINI N., Le leggende del Trentino, Rovereto, 1884-1889 BOSETTI P., Il Trentino nell’agricoltura, Trento, 1915 Carissoni, A., Pastori, la pastorizia bergamasca e il vocabolario Gai', Edizioni Villadiseriane, 2004 COPPOLA G., SCHIERA P. (a cura di), Lo spazio alpino: area di civiltà, regione cerniera, Napoli, 1991 COPPOLA G., Agricoltura ed allevamento in età moderna. Una integrazione difficile, in VARANINI G.M. 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Alpeggio e allevamento nei Lessini veronesi nel Medioevo (secoli IX-XV), in Gli alti pascoli dei Lessini veronesi. Storia, natura, cultura, Vago di Lavagno, 1991 94 95 INDICE 9 / Tiziano Mellarini LA PASTORIZIA TRA PASSATO E FUTURO 10 / Mauro Fezzi INTRODUZIONE 11 / Federico Bigaran, Massimo Pirola ALPINETGHEEP: UN GRANDE PROGETTO PER L’AMBIENTE 12 / Federico Bigaran PRESENTAZIONE DEL PROGETTO ALPINET GHEEP 13 / Franco Marzatico PASTORIZIA E TRANSUMANZA NEL TRENTINO IN EPOCA PREROMANA 15 / Enrico Cavada TRA PIANURA E MONTAGNA: GLI ARMENTI, I PASTORI, LA STORIA 20 / Emanuela Renzetti PRATI E PASCOLI DI IERI E OGGI 24 / Marta Bazzanella, Giovanni Kezich LE SCRITTE DEI PASTORI DELLA VALLE DI FIEMME 26 / Anna Brugnara I PROTAGONISTI DI OGGI 82 / Federico Bigaran, Massimo Pirola UNO SGUARDO SUI PRODOTTI: LA LANA 84 / Edi Piasentier UNO SGUARDO SUI PRODOTTI: LA CARNE 86 / Federico Bigaran, Massimo Pirola LA SITUAZIONE OGGI 88 SHEPHERDS IN THE ALPS. TALES AND TRUE STORIES 93 BIBLIOGRAFIA Progettazione editoriale: Giunti Progetti Educativi Responsabile editoriale: Rita Brugnara Coordinamento per la Provincia Autonoma di Trento: Federico Bigaran, Massimo Pirola Coordinamento editoriale: Elisa Ferrari Testi: Franco Marzatico, Enrico Cavada, Emanuela Renzetti, Marta Bazzanella, Anna Brugnara, Massimo Pirola, Federico Bigaran, Edi Piasentier Editing: Morgana Clinto Fotografie: Christian Cristoforetti Redazione: Fabio Leocata Progetto grafico e impaginazione: muschi&licheni Illustrazione mappa: Alberto Martini Le informazioni e le esperienze riportate in questo libro sono il frutto dell’impegno di numerose persone che con i loro suggerimenti e le loro conoscenze hanno reso possibile la pubblicazione. Un particolare ringraziamento va a tutti i pastori: Aldo, Cheyenne, Gianantonio, Graziano, Guglielmo, Lorenzo, Marco, Ruggero, Stefano, Teodoro, Teresa, Vittorio, Ivan e Paolo, e ai loro collaboratori. Con la loro disponibilità ci hanno accolto e svelato la loro storia, che consegnamo al lettore nella speranza che una migliore conoscenza di questo mondo possa contribuire alla sua futura sostenibilità. Per i diritti di riproduzione l’Editore si dichiara pienamente disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte. Pubblicazione realizzata con fondi dell’Unione europea nell’ambito del programma Interreg IIIB Spazio Alpino progetto “Alpinet Gheep - rete alpina per la promozione del settore ovi-caprino per uno sviluppo sostenibile del territorio”, codice progetto: I/III/1.2/10 • n° di copie prodotte: 2000 www.giuntiprogettieducativi.it www.alpinetgheep.org © 2007 Giunti Progetti Educativi S.r.l., Firenze / © 2007 Provincia Autonoma di Trento, Trento Prima edizione: novembre 2007 Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato I partner del progetto: Italia PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO Germania BAYERISCHE LANDESANSTALT FÜR LANDWIRTSCHAFT (LFL) PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO (PAT) BAYERISCHE HERDBUCHGESELLSCHAFT FÜR SCHAFZUCHT (BHG) ASSOCIAZIONE ALLEVATORI OVICAPRINI TRENTINI (APOC) WERDENFELSER LAND SCHAFWOLLPRODUKTE GbR (WLW) ISTITUTO AGRARIO S. 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